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Quaderni di

ARCHEOLOGIA MEDIEVALE
IX

ARCHEOLOGIA
DEL PAESAGGIO MEDIEVALE
Studi in memoria di Riccardo Francovich

a cura di
Stella Patitucci Uggeri

All’Insegna del Giglio


Archeologia del Paesaggio Medievale
Studi in memoria di Riccardo Francovich
In copertina: il castello di Rocca Calascio (comune di Calascio, L’Aquila).
Quaderni di
ARCHEOLOGIA MEDIEVALE
IX

ARCHEOLOGIA
DEL PAESAGGIO MEDIEVALE
Studi in memoria di Riccardo Francovich

a cura di
Stella Patitucci Uggeri

All’Insegna del Giglio


Quaderni di
ARCHEOLOGIA MEDIEVALE

Diretti da
STELLA PATITUCCI UGGERI
Cattedra di Archeologia Medievale
DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA E STORIA
Università di Cassino

IX

Archeologia del Paesaggio Medievale


Studi in memoria di Riccardo Francovich

Tutti i diritti riservati

Alla realizzazione della presente pubblicazione ha concorso con i propri fondi


l’Università degli Studi di Cassino – Dipartimento di Filologia e Storia

ISBN 88-7814-372-2
© 2007 – Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s.
via della Fangosa, 38; 50032 Borgo San Lorenzo (FI)
tel. +39 055 8450 216; fax +39 055 8453 188
sito web www.edigiglio.it; e-mail redazione@edigiglio.it
Indice

STELLA PATITUCCI UGGERI, Premessa 7

FABIO REDI, L’Archeologia del costruito. Un bilancio di trenta anni di ricerche


e di discussioni metodologiche 9
ENRICO GIANNICHEDDA, Tecnologie medievali e ricerca archeologica 49
MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI, Monachesimo femminile
nella Toscana occidentale: il caso di S. Maria di Montescudaio 63
RICCARDO CHELLINI, Note sulla viabilità medievale e le sue infrastrutture (ponti e spedali)
nel territorio fiorentino 79
SABRINA PIETROBONO, Gli insediamenti fortificati nel territorio della Diocesi di Veroli:
primi contributi 105
MARIANNA NORCIA, I monasteri di Sora e Val di Comino (Frosinone) 137
MARCELLO ROTILI, L’assetto urbanistico di Benevento tardoantica 151
NICOLA BUSINO, Il territorio di Buonalbergo (Benevento) fra tarda antichità e medioevo 161
PALMINA PRATILLO, Il territorio di Montella (Avellino) tra Tarda Antichità e Medioevo 173
FABIO REDI, Per una carta archeologica medievale: L’Aquila e il territorio 185
FLAMINIA ALBERINI, Per una topografia medievale dell’alta valle dell’Aterno 203
ROBERTA LEUZZI, Per una topografia medievale dell’altopiano di Navelli
e della bassa valle dell’Aterno 215
ALFONSO FORGIONE, Dati preliminari per una Carta Archeologica Medievale
della città dell’Aquila. Censimento e rilevamento dell’edilizia ecclesiastica e civile 225
MARIA RITA ACONE, Per una topografia medievale della valle del Raio 235
CARLO EBANISTA, I centri urbani del Molise fra tarda antichità e medioevo 245
GABRIELLA DI ROCCO, Strutture difensive e insediamenti nella Contea di Molise 277
GABRIELLA DI ROCCO, Insediamenti fortificati e viabilità nel Molise in età medievale:
il tratturo Pescasseroli-Candela 293
CATERINA LAGANARA FABIANO – AUSTACIO BUSTO – GIULIA FINZI – RAFFAELLA PALOMBELLA
DANIELA ROSSITTI, Una città portuale abbandonata: Siponto,
indagini archeologiche 2000-2005 321
GIUSEPPE GRAVILI, Un sistema per l’analisi del paesaggio medievale 337
ALDO MESSINA, L’archeologia medievale in Sicilia 347
STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI, Dinamiche insediative in Sicilia tra tarda antichità
ed età bizantina. La provincia di Ragusa 355
MARIA CONCETTA PARELLO – MARIA SERENA RIZZO, Il Castello di Poggio Diana
nella valle del Verdura (Ribera, Agrigento) 419
MARCO AGOSTINO AMUCANO, Indagini topografiche sulla fortificazione dell’isola
di Molara (Olbia). Proposta di datazione ed ipotesi di inserimento nel quadro
della strategia antiaraba successiva al “sacco di Roma” dell’846 433
Premessa

La tragica scomparsa di Riccardo Francovich ci ha privato, oltre che di un amico, di uno dei
fondatori dell’archeologia medievale italiana, nella quale Egli si mosse attivamente ed in modo
innovativo per più di un trentennio, sempre in un’ottica ampia, aperta al dibattito europeo, ma
tenacemente ancorata al Suo territorio prediletto, quella Toscana meridionale, quella Maremma,
sulla quale sin dagli inizi Egli polarizzò il Suo magistero senese. Grande il vuoto che ha lasciato,
ma i semi che ha gettato sono diventati fecondi e certo continueranno a produrre. La lunga di-
mestichezza con Riccardo Francovich, che risale all’inizio degli anni Settanta e che ci ha portato
spesso a confrontarci in dibattiti scientifici, che talora ci hanno visto su posizioni divergenti, non
ha fatto che rinsaldare la reciproca stima ed è per questo che dedico alla Sua memoria questo
volume.
Dopo la fase pionieristica degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta del secolo scorso, lo
spartiacque – che segnò il vero inizio dell’archeologia medievale italiana – fu costituito nel 1974
dalla fondazione della rivista “Archeologia Medievale”, alla quale partecipammo attivamente.
Il suo sottotitolo ‘cultura materiale, insediamenti, territorio’, evidenziava la novità e l’ampiezza
dell’ottica con la quale guardavamo all’avvenire di questi studi. Alcune tematiche essenziali erano
già ben rappresentate nel primo numero della rivista, così l’archeologia urbana, l’archeologia
del paesaggio, il problema allora appena aperto dell’incastellamento, la cultura materiale. A
tutti questi filoni di ricerca Riccardo Francovich rivolse i propri interessi in maniera più o meno
intensa, allargandoli successivamente alla campagna altomedievale e all’archeologia mineraria.
Inoltre Egli colse immediatamente le nuove possibilità offerte dall’informatica e seppe promuovere
interventi incisivi, impegnandosi al tempo stesso concretamente per la tutela, la valorizzazione e
la fruizione del patrimonio archeologico.
Dopo lo slancio degli anni Settanta, l’archeologia medievale italiana si è andata codificando
nei decenni successivi, privilegiando via via le diverse tematiche, ma anche aprendone di nuove.
Oggi se ne impone una riflessione critica per delineare un bilancio dei risultati raggiunti e tentare
di individuare nuove prospettive di sviluppo. In tale direzione vanno già alcune delle relazioni
presenti in questo volume in rapporto a tematiche specifiche, come l’archeologia del costruito e
le tecnologie medievali.
Gli Atti che qui si presentano raccolgono infatti relazioni svolte in due congressi che ho or-
ganizzato negli ultimi anni e precisamente la III Conferenza Italiana di Archeologia Medievale,
svoltasi nell’Università di Cassino dal 17 al 19 dicembre 2003 sul tema “L’archeologia medievale
in Italia nell’ultimo trentennio: un bilancio”, e il VI Congresso di Archeologia Medievale, svoltosi
a Roma nella sede del CNR il 31 maggio e il I giugno 2006 sul tema “Archeologia Medievale
nell’Italia centro-meridionale: insediamenti e territorio”.
La maggior parte dei contributi si rivolge all’archeologia del paesaggio medievale nell’Italia
centrale e meridionale, comprese le due isole maggiori. Vi si trovano messi a confronto i risul-
tati delle più recenti ricerche topografiche sia ad ampio raggio che su singole realtà territoriali,
offrendo così sia bilanci regionali (Abruzzo, Molise, Sicilia), che analisi su aree circoscritte, che
tuttavia prospettano problematiche importanti, perché immettono nella discussione dati inediti
derivanti da ricerche ancora in corso.
I principali settori d’indagine che si riflettono in questi Atti sono l’archeologia urbana (presente
con saggi su Benevento, L’Aquila e Siponto), l’incastellamento (si va dal Lazio al Molise, dalla
Sardegna alla Sicilia), l’insediamento monastico (in Toscana e nel Lazio), la viabilità e la carta
archeologica.
La ricostruzione della viabilità medievale rappresenta un filone di ricerca che ho inteso poten-
ziare nell’ultimo decennio nella convinzione che esso fornisca l’ossatura portante ad ogni indagine
storica sull’archeologia del paesaggio, fornendo indicazioni essenziali per la corretta compren-
sione di fenomeni economici, strategici, politici e culturali di una determinata regione. Alcuni
saggi affrontano i problemi di continuità e di innovazione della rete viaria tra tarda antichità e
medioevo dalla Toscana al Molise e alla Sicilia; in particolare un corposo saggio si riferisce alla
viabilità medievale del contado fiorentino e alle sue infrastrutture.
8 PREMESSA

Alla carta archeologica medievale è stato dedicato un progetto specifico della cattedra di Ar-
cheologia Medievale dell’università di Cassino (Forma Italiae Medii Aevi), avvertendo la doppia
esigenza di costruire una banca dati per la conoscenza scientifica di base, allo scopo di evidenziare
dinamiche insediative, persistenze e discontinuità, ma anche di dotare la società civile di uno
strumento essenziale nella gestione e nella fruizione del territorio. L’importanza del progetto è
stata sottolineata dalla sezione dedicata alla Carta Archeologica Medievale nel Congresso su “La
Carta Archeologica d’Italia” che ho organizzato a Roma (CNR, 9-10 dicembre 2003). Ne sono
stati già pubblicati due volumi: S. Patitucci, F° 76, Ferrara, Firenze 2002 (QAM, 5); S. Pietrobono,
F° 159, I, Frosinone, Firenze 2006 (QAM, 8). In questo volume otto saggi riguardano le dinami-
che insediative tra tardo antico e medioevo e il loro rapporto con la viabilità in Irpinia, Abruzzo,
Salento e Sicilia. In particolare, sull’insediamento rurale nella Sicilia sud-orientale abbiamo ten-
tato una sintesi di prolungate ricerche, che propone un nuovo modello interpretativo per l’età
tardoantica e bizantina, ma si ricollega ad un saggio comparso proprio nel primo numero della
rivista “Archeologia Medievale” e per questo – insieme a Giovanni Uggeri – intendo dedicarlo
alla memoria di Riccardo Francovich.

STELLA PATITUCCI UGGERI


L’Archeologia del costruito. Un bilancio di trenta anni
di ricerche e di discussioni metodologiche

FABIO REDI

Quando nel lontano 1974 con la rivista «Archeologia Medievale» nasceva anche la disciplina,
e al I Colloquio Internazionale di Archeologia Medievale di Erice – Trapani Tiziano Mannoni
presentava una relazione su L’analisi delle tecniche murarie medievali in Liguria ancora non si
parlava di archeologia del costruito, né si potevano immaginare i numerosi aspetti che questa
avrebbe assunto nel tempo; sembrava già una conquista, allora, poter parlare di archeologia
medievale1. Soltanto in fasi di crescita e di approfondimento dell’ambito disciplinare successive
si sono formate le specializzazioni.
In quegli stessi anni, tuttavia, Michelangelo Cagiano de Azevedo, pur privilegiando quasi
esclusivamente una lettura molto precisa delle fonti edite, s’interessava a problemi altomedievali
che non fossero legati unicamente allo scavo delle necropoli, bensì alla topografia urbana e alle
abitazioni, cioè agli aspetti strutturali e infrastrutturali materiali delle componenti cittadine, senza
distinzione qualitativa e indipendentemente dallo status sociale, giuridico “o delle etnie” di chi
aveva modificato l’assetto delle città fra tardoantico e altomedioevo2.
Oggi, attraverso vari gradi di maturazione e di consapevolezza, l’archeologia del costruito
comprende diversi aspetti e modi di fare ricerca nel settore dell’edilizia storica che hanno acquisito
definizione nel trentennio di vita effettiva dell’archeologia medievale.

1. LE ORIGINI: VERSO UNA DEFINIZIONE DEGLI AMBITI, DEGLI OBIETTIVI E DELLE METODOLOGIE
Innanzitutto, scorrendo la bibliografia trentennale, colpisce la varietà di definizioni del settore
specifico, che va da “archeologia degli elevati”, con chiaro riferimento all’applicazione del me-
todo stratigrafico dalla stratigrafia orizzontale a quella verticale, di cui sono primi teorici negli
anni ’85-’89, Brogiolo, Parenti e Mannoni, Crusi3, alla meno felice definizione “archeologia
dell’esistente”, o “del sopravvissuto”, introdotta da Mannoni, e sua scuola, negli anni ’80-’904,
alle più recenti “archeologia dell’edilizia storica”, o “dell’architettura”, il primo ancora di ori-
gine mannoniana5, il secondo sancito dal nome della rivista specifica che dal 1996 ha affiancato
l’organo ufficiale degli archeologi medievali italiani.6 I termini edilizia e architettura potrebbero
compendiarsi meglio nella dizione più neutra “archeologia del costruito” già usata da Mannoni
nel 19897, che permette di evitare le secche di ordine qualitativo sottese dal termine architettura
a cui risponde non senza una vena polemica il termine edilizia, proposto da Bonora nel 1978 al
Convegno di Rapallo su Archeologia e pianificazione dei centri abitati 8.
Il divario verificatosi fra storici dell’Arte, architetti e archeologi, in un certo senso sta all’origine
dell’Archeologia medievale, in quanto la disciplina nasce come antitesi o, più correttamente, come
scienza vicaria, in quanto va a colmare la profonda lacuna lasciata aperta dagli altri.
Costruzioni povere, di legno, di paglia, di terra, di modeste dimensioni, prive di valori formali
e architettonici erroneamente definite spontanee, insediamenti castellani o rurali, strutture pro-
duttive, ecc. non rientravano, allora, nell’oggetto delle ricerche di storici dell’Arte e architetti;
bisognava occuparsene, tenuto conto che negli anni ’70, e ancor prima con la ricostruzione postbel-

1
Archeologia Medievale 1974; MANNONI 1976. 5
MANNONI 1984; 1994.
2
CAGIANO DE AZEVEDO 1970; 1972; 1973; 1974; 1976. 6
Archeologia dell’Architettura, 1996 e ss.
3
BROGIOLO 1988a; 1988b; PARENTI 1985; 1988a; MANNONI 7
MANNONI, CRUSI 1989.
1985a; MANNONI, CRUSI 1989. 8
BONORA 1979.
4
MANNONI 1985b, 1990; 1993a.
10 FABIO REDI

lica, ci trovavamo nel pieno delle ristrutturazioni urbane e territoriali, e pesanti, frequentemente,
erano le perdite dei valori ritenuti minimi o nemmeno presi in considerazione da architetti e
urbanisti, causate da sventramenti, urbanizzazioni, scassi per tubature e condutture varie, come
si evidenziava negli interventi al già ricordato Convegno di Rapallo del 19789.
Non solo l’oggetto dell’indagine, ma anche la metodologia e perfino il modo, la disposizione
mentale, salvo fortunate eccezioni, ci separavano: il vero, come più tardi scrisse Andrea Caran-
dini nel 198810, non poteva essere coniugato con il bello, il contesto con il valore. In particolare
la conquista del metodo stratigrafico ci rendeva orgogliosi nei confronti di chi ancora usava le
frecce dell’estetica o della tipologia.
La crociata degli archeologi medievali, forti dell’originaria formazione “materiale”, si concen-
trava, quindi, nei settori più deboli e più scoperti.
Il rifiuto dello studio dei monumenti architettonici e di qualsiasi forma di classificazione ti-
pologica del costruito si giustificava, all ora, per l’esigenza di colmare quel vuoto di interessi e
metodologico, ma portava di conseguenza quella limitazione aprioristica del nostro campo di
ricerca e quell’improduttiva esclusione di livelli d’indagine e metodologici pur concorrenti nella
formulazione di giudizi interpretativi complessi che successivamente, come vedremo, si cominciò
a ritenere necessario recuperare.
Ma nel 1976 non era ancora matura l’esigenza di ricomporre la frattura con storici dell’Arte e
architetti, per cui era pienamente giustificata la lamentela di Mannoni riguardo alla preponderanza
del punto di vista qualitativo e formale nell’approccio all’analisi delle architetture medievali da
parte di architetti e storici dell’Arte, perfino quando si analizzava “l’avvicendamento dei materiali
impiegati e il tipo di apparato”11.
E soggiungeva che “fino a quando l’archeologia medievale non ha cominciato ad occuparsi di
ogni tipo di insediamento, e quindi di ogni tipo di costruzione, il filo conduttore sulle tecniche
murarie è dunque stato legato ai monumenti”12.
Di conseguenza, riscontrato il divario notevole fra l’edilizia monumentale delle chiese, dei
palazzi, delle torri, dei castelli residenziali e quella più variegata dell’edilizia urbana “povera” e
di quella rurale, di quella castellana e di quella produttiva, egli percepiva nettamente l’esigenza
di affrontare il problema dei muri medievali globalmente, come già era avvenuto per la ceramica,
impostando, cioè, “una classificazione storico tipologica regionale basata sul più ampio numero
di fattori distintivi, e non soltanto sull’aspetto formale del paramento”13.
E nello stesso saggio proponeva una scheda analitica, ancora oggi sostanzialmente valida14.
Le affermazioni di Mannoni appaiono oggi, specialmente ai giovani, fin quasi ovvie e banali,
ma dobbiamo riconoscere in esse, per i tempi di allora, una carica innovativa, di modernità,
specialmente quando si affermava con forza l’esigenza di raccogliere con l’indagine autoptica dei
manufatti la maggiore quantità di fattori distintivi e di ordinarli per categorie ben determinate,
così da poterli confrontare agevolmente, correlare e interpretare15 (Fig. 3).
Con queste affermazioni Tiziano Mannoni apriva la strada a una folta schiera di ricercatori
che da allora si sarebbero interessati delle tecniche murarie come fonte non soltanto dei processi
produttivi del ciclo costruttivo dell’edilizia medievale, bensì anche della strutturazione architetto-
nica e urbanistica di singole unità immobiliari e di complessi edilizi, di interi insediamenti rurali o
cittadini, pervenendo a valutazioni di ordine storico sulle strategie di controllo e di occupazione
di interi territori o di più ristretti spazi cittadini: in poche parole quella che oggi viene definita
ambiziosamente come archeologia del potere16.
In varia misura discendono dalle premesse mannoniane un po’ tutti gli archeologi di prima e
seconda generazione e ormai, forse senza rendersene conto, quelli di terza e quarta. Anche fra
gli architetti è maturata una consapevolezza tendenzialmente “archeologica” nell’analisi delle
tecniche murarie che ha prodotto, come per il Lazio meridionale, ottime sintesi a scala regionale
o subregionale17.

9
Archeologia e pianificazione dei centri abitati 1978. 14
Ibid., p. 300.
10
CARANDINI 1988, p. 37. 15
Ibid., pp. 291-292.
11
MANNONI 1976, p. 291. 16
BIANCHI 1994; 1996; NUCCIOTTI 2000, pp. 65-85; NUC-
12
Ibid. CIOTTI, VANNINI 2002, pp. 111-150.
13
Ibid. 17
FIORANI 1996; cfr. anche FIORANI 1994.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 11

Figg. 1-2 – Rilievo “filologico”, o archeologico, del prospetto e di uno dei setti murari del palazzo Lanfranchi
in Pisa (CARMASSI, ROSSETTI 1980, tavv. XIV, XXII).

Fig. 3 – Esempi di diagram-


mi e di rappresentazioni
di tecniche murarie liguri
(MANNONI 1976, tav. I).
12 FABIO REDI

Attorno alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, cioè all’origine dell’Archeologia Medievale
e di quella del costruito, ancor prima dell’interesse per la lettura stratigrafica degli elevati, tro-
viamo, dunque, l’esigenza, squisitamente tecnica, di approfondimento metodologico dell’analisi
dei materiali e delle tecniche costruttive18. Del resto, come sottolineava Brogiolo nel saggio in-
troduttivo del primo numero della rivista «Archeologia dell’Architettura» toccando l’essenza del
problema, lo studio dei materiali e delle tecniche costruttive è “un indirizzo che può prescindere
dall’analisi stratigrafica almeno quando opera su murature che non hanno problemi di interpre-
tazione, ma del quale non può viceversa fare a meno l’analisi stratigrafica che necessita di una
preliminare buona conoscenza delle murature”19. Come a dire, siamo al dilemma, validissimo ma
irrisolvibile, se sia nato prima l’uovo o la gallina, perché, certamente, stratigrafia senza profonda
conoscenza tecnica delle murature, e non soltanto di esse, basti pensare all’analisi tecnica della
composizione architettonica e all’analisi tipologica delle forme abitative, è un corpo senza arti e
viceversa. Ma forse, ancora più a monte, oggi invece di allora, che forse la questione era ovvia o
erano più pressanti altri problemi, dovremmo porci la domanda del cosa e del come, vale a dire
dell’oggetto della nostra ricerca e dei modi, più che del modo unico e supremo, di condurla.
L’archeologia del costruito potrebbe rischiare di sostituire l’Archeologia Medievale, perché, cosa
rimane al di fuori del costruito? Soltanto le azioni naturali e forse una parte delle stratificazioni
antropiche: negative come buche, fosse, ecc., positive come accumuli informi, riporti di terreno
stratificati, ecc.
Cosa rientra, quindi, nel campo d’indagine specifico dell’Archeologia del costruito che già non
sia interno all’Archeologia Medievale? Le edizioni di scavo, parziali o definitive che siano, non
possono non comprendere la lettura e l’interpretazione di strutture murarie, da interi organismi
architettonici a semplici lacerti di muri, anche quando si tratti, come nel recentissimo esempio
della cattedrale di Ancona, di riletture di vecchi scavi condotti da altri, inediti o editi frammen-
tariamente o lacunosamente20.
Se dunque, non possiamo limitare l’oggetto dell’indagine a qualcosa di esclusivo, che non
rientri nelle maglie ampie del raggruppamento disciplinare, perché specifico ed esterno a esse
stesse, anche il come, cioè la metodologia di ricerca, non può essere specifico, bensì deve essere
ricompreso, o meglio peculiare, del raggruppamento stesso. Metodo stratigrafico e formazione
mentale di tipo archeologico, cioè sensibilità o disposizione metodologica e attenzione al dato
tipico della cultura materiale, sono, quindi, le frecce nel nostro arco, che in un trentennio hanno
seguito, chiosando ed estendendo un concetto di Brogiolo, un percorso a quattro corsie, paral-
lele ma coordinate e unidirezionali: l’analisi dei materiali e delle tecniche, l’analisi stratigrafica,
l’analisi che definirei architettonica, piuttosto che stilistica, l’approccio etnoarcheologico tendente
a costruire modelli interpretativi di varia complessità21.
Sul finire degli anni ’70 era ancora prematuro parlare in Italia di stratigrafia degli elevati, cioè
dell’applicazione del metodo introdotto da Harris nel 1979, ma tradotto in Italiano soltanto nel
198322, con relative USM e “matrix” dei contesti murari e strutturali dell’edilizia storica. Tut-
tavia una copiosa stagione di sperimentazione di nuove metodologie, che non temo di definire
“archeologiche”, almeno nelle intenzioni e nell’atteggiamento “materialista” o “positivista”, era
sbocciata quasi simultaneamente, direi ignara delle teorizzazioni del maestro inglese. Gli aspetti
tecnici e materiali delle murature, la sperimentaizone di diagnostiche non invadenti che consentano
la cognizione degli apparati murari e delle strutture edilizie sotto intonaci più recenti, il rilievo
“filologico” dei prospetti esterni e interni e dei setti murari di edifici, ecc. datano appunto agli
ultimi anni ’70 e ai primi della decade successiva23 (Figg. 1-2).
Scorrendo la bibliografia in sequenza cronologica prendiamo coscienza retrospettiva del di-
venire del settore disciplinare di cui ci occupiamo, e di come si sia definito attraverso le diverse
specificità e l’attenzione ad aspetti del costruito particolari.

18
MANNONI 1976. 22
HARRIS 1979-1983; cfr. BARKER 1977-1981; CARANDINI
19
BROGIOLO 1996, p. 12. 1981.
20
PANI ERMINI 2003; REDI 2003a. 23
REDI 1979; 1980; BONDRA 1982; ecc.
21
BROGIOLO 1996, pp. 11-13.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 13

2. AMBITI E METODI
2.1 Materiali e tecniche costruttive: la pietra
Anche in questo campo lucidamente Mannoni discerneva rischi e pericoli, ma anche potenzia-
lità, quando precettava che “una analisi tipologica delle tecniche murarie deve essere condotta
su un alto numero di costruzioni di ogni tipo nello stesso territorio, usando metodi quantitativi
che permettano un facile confronto dei dati e l’identificazione matematica di eventuali raggrup-
pamenti di tipi”, con l’aggiunta della clausola, allora opportuna, oggi diremmo ovvia, “più che
formulare un giudizio formale sul paramento”24.
Nel suo decalogo Mannoni puntualizzava con piena lucidità che “il tipo di muratura impiegato
dipende in primo luogo, per ogni singolo periodo, dall’ambiente socio-economico che lo produce
in quanto esso determina delle scelte …. ma dopo di ciò il tipo di tessitura del muro dipende in
parte dalle capacità esecutive dei costruttori … in parte dai caratteri tecnici dei materiali scelti”
e si preoccupava di precisare che “ovviamente tutte queste componenti possono interagire, ma
mentre le une possono anche essere diffuse secondo modelli culturali, le altre restano sempre
legate alla invariabile natura geolitologica della regione”25 (Fig. 3).
Anche altre intuizioni di carattere generale che la ancora limitata verifica sul campo non aveva
impedito a Mannoni di percepire, come la necessità di “dare più peso alla coesistenza sincronica,
anche in un ristretto ambito regionale, di tecniche murarie molto differenti fra loro” e come
l’evidente “impossibilità di utilizzare da sola la tipologia delle tecniche murarie come elemento
di datazione delle costruzioni medievali”26, hanno trovato verifiche e conferme dalle ricerche
che altri studiosi dopo di lui e oltre a lui hanno sviluppato percorrendo la strada dell’analisi e
della tipologizzazione delle tecniche murarie. Citerò ad esempio per la scuola senese, Giovanna
Bianchi; per quella fiorentina, Michele Nucciotti; per quella lombarda Gian Pietro Brogiolo e
Dario Gallina; per la scuola romana Esisabetta De Minicis; per Pisa e per L’Aquila il sottoscritto,
per la presenza di tecniche murarie di tipo nordafricano Stella Patitucci Uggeri, ecc.27.
In particolare Roberto Parenti nel 1988, in occasione del I ciclo di lezioni sulla ricerca appli-
cata in archeologia, presentava un primo tentativo di classificazione delle murature litiche e di
quelle di mattoni sviluppando concetti e problematiche già esposti dallo stesso al Convegno di
Bressamone del 198728 (Fig. 4).
I livelli d’indagine capaci di caratterizzare in maniera abbastanza approfondita una muratura,
già enunciati da Mannoni29, venivano quindi ripresi e riassunti grazie all’esperienza maturata negli
scavi di Montarrenti e di Rocca S. Silvestro diretti da Riccardo Francovich30.
In particolare si poneva l’attenzione: 1 – sul tipo di materiale da costruzione e sui litotipi; 2
– sul grado e sul tipo di lavorazione impiegato per la preparazione del materiale; 3 – sul tipo
di posa in opera, sull’apparecchiatura dei diversi tipi di materiale, litico o laterizio; 4 – sulle
dimensioni dei singoli pezzi e sulla loro misura media; 5 – sulle tecniche di finitura del materiale
attraverso le tracce lasciate sulla superficie a vista dallo strumento; 6 – sul tipo di malta e dei
suoi componenti31.
A seguito delle sue esperienze Parenti forniva utili tabelle riassuntive dei possibili paramenti
murari sia litici, sia di mattoni, sia misti, che costituiscono tuttora un valido riferimento tipolo-
gico32.
Va segnalata anche la sua proposta di classificazione numerica riassunta in tabella applicabile
alle campionature delle tecniche costruttive sub-regionali33 (Fig. 5).
Una sintesi delle tecniche costruttive, che tiene conto dei dati litologici, degli strumenti di la-
vorazione, delle tipologie degli apparati murari, del confronto incrociato fra edilizia ecclesiastica
ed edilizia civile, con riferimento diacronico derivante dalla intersezione con la copiosa documen-
tazione archivistica riguardante la città di Pisa dal V-VI secolo al XV, è stata da me presentata in

24
MANNONI 1976, p. 299. 30
PARENTI 1983; 1985a; 1985 b; 1985c; 1986; BIANCHI
25
Ibid., p. 298. 1995; 1997a; FRANCOVICH 1997.
26
Ibid. 31
PARENTI 1988b, p. 288.
27
Si scorra per ciascuno la Bibliografia. 32
Ibid., pp. 292-295.
28
PARENTI 1987; 1988b. 33
Ibid., p. 301.
29
MANNONI 1976; 1984.
14 FABIO REDI

Fig. 4 – Tipologia delle


apparecchiature murarie
(PARENTI 1988b, fig. 3).

Fig. 5 – Proposta di clas-


sificazione numerica dei
paramenti murari (PARENTI
1988, fig. 7).
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 15

occasione del Convegno Internazionale di Brugge del 1997, restando ingiustificatamente ignorata
nella pur copiosa bibliografia specifica34 (Figg. 6, 28).
Oltre che da disegni di apparati murari il saggio è corredato da tabelle sintetiche comprendenti
le testimonianze diacroniche dell’impiego dei diversi materiali da costruzione negli edifici eccle-
siastici di cronologia nota, la distribuzione cronologico-quantitativa dell’impiego dei materiali,
l’associazione materiali-strumenti di lavoro, l’associazione materiali-tecniche murarie, l’ubicazio-
ne delle cave specifiche dei diversi materiali, il rapporto fra materiale litico e laterizi per unità
immobiliari e fasi costruttive, la cronologia delle tecniche murarie censite.
COSTRUZIONI DI PIETRA A SECCO
Ma la cosiddetta “civiltà della pietra” non è rappresentata unicamente dal costruito in muratura
legata da malta di calce o di argilla: esiste anche un abbastanza ampio e vario panorama di co-
struzioni di pietra a secco. Oltre alle capanne “a tholos”, diffuse in Puglia, Abruzzo e Molise, ma
anche nel Carso Triestino, nella provincia di Imperia, nella Media Valle del Liri, nell’Ascolano e
sulle pendici dell’Etna, analizzate generalmente sotto un profilo tecnico e demo-antropologico,
come per l’Abruzzo e il Molise da Edoardo Micati35, per estensione della categoria, sono oggetto
di questo particolare aspetto del costruito i muri a secco, sia di terrazzamento, sia di delimitazione
agro-pastorale o stradale36.
Estremamente ardua una loro datazione basata unicamente su particolarità tecniche degli
scarsi elementi architettonici, peraltro, com’è naturale, di larga diffusione lungo un assai ampio
arco cronologico.
COSTRUZIONI DI MATTONI O DI ARGILLA CRUDA
Al già ricordato Convegno di Brugge del 1997 Quiròs Castillo presentava una sintesi regionale
sulla produzione dei laterizi in Toscana37.
Oltre all’analisi delle tecniche costruttive litiche, infatti, con un modesto scarto cronologico,
sia Mannoni e i membri dell’ISCUM, sia Parenti, Berti, Bianchi, Corsi e Gabbrielli, ma anche
altri come chi scrive38, hanno spostato l’attenzione sull’analisi dei paramenti murari di laterizi
e delle tecnologie di produzione e di realizzazione dell’edilizia di mattoni. Stiamo parlando del
decennio 1988-1998.
Mentre sul piano della cronologia assoluta, dopo le prime teorizzazioni della mensiocronolo-
gia39, ancora oggi stiamo procedendo alla sperimentazione di curve mensiocronologiche locali,
in Liguria e in Toscana principalmente, ma anche nel Veneto40, progressi scientifici sono stati
compiuti sul piano delle tipologie degli apparati murari di mattoni e dell’analisi tecnica degli
elementi architettonici come indicatori cronologici, relativi piuttosto che assoluti, dopo che nel
1994 Maria Maddalena Negro Ponzi aveva discusso alcune linee metodologiche sulla base delle sue
esperienze nell’alta Valle Padana riguardanti principalmente l’edilizia residenziale altomedievale41.
In particolare segnaliamo l’accurata diagnosi compiuta nel 1996 da Fabio Gabbrielli sulla facciata
del Palazzo Pubblico di Siena, nella quale sono assunti come indicatori forma e composizione degli
elementi strutturali e delle ghiere decorative, combinazione di singoli elementi laterizi in relazione
con bicentrismo e curvatura o “monta” degli archi ogivali, sagomatura dei cunei, ecc.42
Valutazioni quantitative a carattere regionale o subregionale sono state compiute da Parenti
e Quiròs Castillo43, mentre il sottoscritto ha condotto indagini tecniche, mensiocronologiche e
terminologiche strettamente correlate con la documentazione archivistica e con i dati materiali
nelle città di Pisa e di Lucca, presentate al Convegno parigino del 1995 su La brique antique et
médiévale44.

34
REDI 1997a; cfr. anche REDI 1988, 1989a; 1989b, p. PITTALUGA 1989; QUIRÒS CASTILLO 1997b.
33; per il territorio aquilano cfr. una prima definizione in 40
Per la Liguria cfr. nt. Precedente; per la Toscana cfr. BERTI
REDI 2003b. 1987; BIANCHI 1991; CORSI 1991; QUIRÒS CASTILLO 1997; REDI
35
MICATI 1992. 1997; 2006; per il Veneto cfr. BONORA 1979b.
36
Se ne veda il problema e un primo tentativo di classifi- 41
NEGRO PONZI 1994.
cazione in REDI 2003. 42
GABBRIELLI 1994, ma anche 1995; CAMPOREALE, GABBRIEL-
37
QUIROS CASTILLO 1997. LI, PAIS, PARENTI 2001.
38
Si scorra per ciascuno la Bibliografia. 43
QUIRÒS CASTILLO 1996; 1997a; 1997b; 2001; PARENTI,
39
BONORA 1979b; MANNONI, MILANESE 1988; FERRANDO, QUIRÒS CASTILLO 2000.
MANNONI, PAGELLA 1989; FOSSATI 1984; 1985; GISLANZONI, 44
REDI 2000a; ma cfr. anche REDI 1986.
Fig. 6 – Campionatura
di murature medievali
pisane (REDI 1997a,
p. 431).

Fig. 7 – Lucca, via Buia nn. 27-29:


lettura stratigrafica e ricalco dal
vero di arco di scarico.

Fig. 8 – Via S. Giustina n. 28: ricalco dal vero di


arco di scarico (BARACCHINI, FANELLI, PARENTI 1998,
pp. 197 e 161).
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 17

In quell’occasione proponevo interpretazioni preliminari di alcuni dati riguardanti la produ-


zione e l’impiego dei laterizi dal periodo tardo-romano alla forte diffusione nei secc. XII-XIV,
illustrando le mie deduzioni con tabelle relative alle misure dei mattoni della prima cattedrale
dei SS. Giovanni e Reparata di Lucca, ai rapporti quantitativi, in ordine diacronico, dell’edilizia
in pietra, in laterizi e in materiali misti a Lucca e a Pisa, analizzando i dati comparativamente fra
edilizia civile ed ecclesiastica, e con tabelle relative a superficie, unità e percentuali dei laterizi
ferrigni e albasi riscontrati in alcuni edifici ecclesiastici con cronologia nota assunti come cam-
pione, e con una tabella riassuntiva della cronologia delle attestazioni documentarie di termini,
pesi e prezzi dei laterizi a Pisa fra XIII e XV secolo.
È da segnalare anche una bella mostra del 1998, con relativo catalogo con saggi di Gelichi,
Parenti e altri, che riguardava i laterizi decorati medievali a Lucca45, con efficaci illustrazioni e
con indicazioni conclusive funzionali alla creazione di una cronotipologia. In particolare vengono
assunti come parametri distintivi la morfologia degli archi e degli elementi costitutivi, i motivi
decorativi delle ghiere, la diversa tecnologia di produzione delle stesse, la posizione degli elementi
decorativi nel contesto strutturale (Figg. 7-8).
Per una recente sintesi sulla produzione e sull’utilizzo dei mattoni nel medioevo si veda anche
il Convegno Nazionale su I laterizi in età medievale. Dalla produzione al cantiere, organizzato a
Roma nel 1998 da Elisabetta de Minicis, nel quale è stata focalizzata particolarmente la funzione
dei laterizi nel cantiere edile46.
Con il progredire delle ricerche, nei primi anni ’80, dapprima sulla sola base documentaria,
in seguito come conseguenza delle evidenze materiali, la scuola senese fondata da Francovich, e
successivamente altri, si erano interessati all’edilizia più povera costituita da muri di terra. Dalle
ricerche condotte con metodologie via via più attente sono emersi esempi sempre più numerosi
di questo particolare fenomeno edilizio che trovava nella Toscana e nell’Abruzzo costiero testi-
monianze significative, anche di epoche assai più recenti47 (Fig. 9).
Andrea Staffa nel 1994 poteva esaminare strutture residenziali rurali del Teramano ancora
conservate negli elevati e nelle infrastrutture, così da trarne utili confronti per l’interpretazione
dei lacerti medievali rinvenuti archeologicamente.
COSTRUZIONI DI LEGNO
Con i rinvenimenti delle abitazioni lignee di Castelseprio e di Luni negli anni 1978-1981 si
sviluppa la ricerca sulle strutture di legno e sulla loro origine barbarica o bizantina o più proba-
bilmente autoctona48. Per la deperibilità del materiale da costruzione e per la modesta consistenza
strutturale, frequentemente gli archeologi dispongono di frammenti se non soltanto delle buche
nelle quali erano conficcate le strutture verticali (Figg. 10-11).
Risulta perciò evidente la forte limitazione sia per giudizi interpretativi della struttura com-
plessiva dei reperti architettonici, sia per una puntuale datazione che possa prescindere da analisi
al C14 o da contestualizzazioni stratigrafiche non semplici. Nonostante la maggiore ricchezza e
quantità dei rinvenimenti archeologici, come in Lombardia, in Trentino, in Emilia, in Liguria, a
Poggio Imperiale di Poggibonsi, in Abruzzo, ecc.49, per recuperare dati più affidabili e più precisi
per la ricostruzione dell’orditura degli alzati dell’edilizia di legno dobbiamo affidarci agli scarsi
reperti di una qualche consistenza reperibili negli elevati superstiti, come alcuni relitti nell’edili-
zia urbana a Lucca o come la torre a traliccio di legno da me rinvenuta in località Lupeta presso
Vicopisano e altre in città, o come l’abitazione parmense analizzata da Doglioni50.
La documentazione scritta costituisce certamente un valido integratore della limitatezza delle
testimonianze materiali in elevato51, ma siamo ancora lontani, tuttavia, dalla possibilità di elaborare
modelli completamente affidabili e in particolare tipologie tecniche e strutturali.

45
BARACCHINI, FANELLI, PARENTI 1998. 49
BROGIOLO 1994, pp. 109-112; BASSI, CAVADA 1994, pp.
46
DE MINICIS 2001 116-129; CATARSI DALL’AGLIO, 1994, pp. 151-154; GELICHI
47
Per l’Abruzzo cfr. CONTI 1984; Le case di terra 1985; 1994, pp. 163-165; GUARNIERI, LIBRENTI 1996, pp. 281-295,
GANDOLFI, SEVERINI, GENNARO 1986; SPINOZZI, CONTI 1986; CAGNANA 1994b, pp. 169-176; VALENTI 1994, pp. 180-183;
PROFICO 1986; STAFFA 1994; per la Toscana cfr. FRANCOVICH- 1996; STAFFA 1994, pp. 70-73.
GELICHI, PARENTI 1980, pp. 207-217. 50
REDI 2000b, pp. 11,15,17,18; 1996, pp. 89-100; DO-
48
D ABROWSKA , L EUEJEWICZ , T ABACZYŃSKA , T ABACZYŃSKI GLIONI, MERLI, STORCHI 1987, pp. 505-516.
1978-79, pp. 1-137; WARD PERKINS 1981; GELICHI 1997, pp. 51
CAGIANO DE AZEVEDO 1970; 1972; 1976; REDI 1983;
7078, 193-200. GALETTI 2001.
18 FABIO REDI

Fig. 9 – Loreto Aprutino (Teramo), casa di terra (STAFFA 1994, figg. 12, 13, 14).

Interessanti sono alcuni relitti di strutture lignee pensili del Teramano segnalati da Staffa, ri-
salenti a non oltre due secoli fa, ma che il termine attuale “gafii” di origine germanica, rimanda
come diffusione con ogni probabilità al periodo della occupazione longobarda52.
Nello stesso orizzonte delle sovrastrutture lignee dell’edilizia medievale s’inserisce la tipologia
degli “sporti”, o ballatoi chiusi, aggettanti dalle torri e casetorri pisane, che ho elaborato analiz-
zando forma, posizione, correlazione e contesto degli alloggiamenti delle travi di sostegno rilevati
puntualmente nella totalità delle testimonianze superstiti53 (Fig. 12).
EDILIZIA RUPESTRE
Che dire dell’analisi delle tecniche murarie e delle loro tipologie quando il costruito, anziché
essere in positivo, si realizza in negativo, cioè sottraendo materiale, asportando roccia, anziché
accumulandolo ordinatamente, creando cioè spazi e ambienti non tanto composti da volumi

52
STAFFA 1994, p. 72; cfr. DE BLASI 1983, p. 78. 53
REDI 1991, pp. 177-190.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 19

Figg. 10-11 – Poggibonsi (Siena): esempi di Grubenhauser e di Longhouse con pianta a barca (VALENTI
2004, figg. 8, 13).
20 FABIO REDI

Fig. 12 – Pisa, palazzo Lanfranchi, assonome-


tria del corpo di fabbrica 2 I, con ricostruzione
dell’orditura lignea sulla base delle tracce degli
inserimenti nelle murature (REDI 1991, tav. 21).

interni e volumi esterni, bensì unicamente interni, come nel fenomeno frequente dell’edilizia o
degli insediamenti rupestri?
Gli studi su questo particolare settore del costruito non possono prescindere dalle prime fo-
calizzazioni compiute da e per impulso di Cosimo Damiano Fonseca, che nel 1970 pubblicava
Civiltà rupestre in terra jonica e che negli anni successivi dava vita a una lunga serie di Conve-
gni internazionali specifici54. In relazione a questi, nel primo numero della rivista “Archeologia
Medievale”, Giovanni Uggeri presentava un primo fondamentale tentativo di catalogazione e di
inquadramento degli insediamenti rupestri della Sicilia e della Puglia55.
Egli, pur privilegiando un taglio di tipo territoriale, relativo cioè alle fonti topografiche e
toponomastiche, indirizzava l’attenzione degli archeologi medievali su questa particolare forma
di insediamento e del costruito, riscattandola dall’interesse puramente qualitativo ed ecclesiastico
degli storici dell’arte e dalla troppo generica definizione “basiliano” data a insediamenti che non
erano monastici, bensì laici.
Due anni dopo si cominciavano a cogliere i primi frutti sul piano archeologico, con l’indagine
del gruppo Nepi – Palazzuoli – Parenti – Valacchi sulla facies rupestre della città di Siena56. È
soltanto, però, nel 1980, che Roberto Parenti, occupandosi dello studio di Vitozza, nel Grosseta-
no, affrontava il problema dell’edilizia in negativo, priva di deposito strutturale, bensì costituita
soltanto da volumi ottenuti per sottrazione di materiale, pensati cioè come forme e articolazioni
prive di funzione statica effettiva, ma ripropositive di elementi figurativi e strutturali propri delle
architetture in positivo57.
Le indagini specifiche sono proseguite recentemente con le analisi di Elisabetta De Minicis nel-
l’area laziale e di Gian Pietro Brogiolo nell’area gardesana e dei Monti Berici58 (Figg. 13-14).

54
FONSECA 1970; 1975; 1977; 1978; 1979; ecc. 58
DE MINICIS 2003; BROGIOLO, CASTELLETTI, BRAMBILLA, REN-
55
UGGERI 1974. ZI,UBOLDI 1991, SIMEONE, POSSENTI, GIOVÉ, MARCHIOLI 1996,
56
NEPI, PALAZZUOLI, PARENTI, VALACCHI 1976. pp. 243-245; BROGIOLO, GHEROLDI, IBSEN 2002, pp. 75-96.
57
PARENTI 1980.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 21

Figg. 13-14 – Esempio di rilievo archeologico del nucleo rupestre A di Fosso Formicola presso Roma
(P. DALMIGLIO, in DE MINICIS 2003, pp. 50-51).

Il recente volume curato dalla De Minicis, riprendendo un filone di ricerche specifiche sul
territorio relative a epoche più antiche, ha il merito non solo di fare un esauriente panorama
bibliografico e il punto sugli studi del settore, ma anche e soprattutto di porre in termini appro-
priati la questione metodologica e di proporre una scheda-tipo specifica: la SG, cioè la Scheda
delle Grotte, che andrà opportunamente sperimentata negli anni futuri e confrontata con altre
esperienze analoghe in Italia e altrove59.
Anche chi scrive, insieme con altri che si occupano degli insediamenti mediorientali, come
Guido Vannini, recentemente si sta occupando degli insediamenti rupestri della Cappadocia e sta
pubblicando dati e osservazioni per un’interpretazione in chiave “materiale” e per la datazione
su base archeologica delle complesse problematiche connesse con questo particolarissimo settore
dell’archeologia del costruito60.
Certo è che non possono essere di aiuto le tipologie degli apparati murari, in quanto inesi-
stenti, e unica fonte, ma di semplice cronologia relativa, è costituita dagli indicatori cronologici
sequenziali, cioè, come ci insegna l’Archeologia Cristiana delle Catacombe, dalle tracce lasciate
dagli strumenti di escavazione, con le indicazioni della direzionalità degli interventi e delle loro
interrelazioni, con i dati, cioè, forniti dalle relazioni stratigrafiche di contemporaneità o, fonda-
mentalmente, di successione: vale a dire la lettura stratigrafica degli elevati.

2.2 Analisi stratigrafica degli elevati


Oltre alla traduzione del metodo stratigrafico dal terreno agli elevati, con disegni schematici
esplicativi, è merito di Gian Pietro Brogiolo avere proposto nel 1985 sistemi rapidi di disartico-
lazione e di riduzione da situazioni di aggregazione più complesse a corpi di fabbrica elementari
per agevolare la lettura e l’interpretazione delle stratigrafie verticali, con passaggi da insiemi
tridimensionali a semplici piani, in particolare nei più complessi agglomerati urbani o castellani,
così da facilitare le operazioni diagnostiche61 (Fig. 15).
Con un sistema a scatole cinesi, vengono fissati i criteri ordinatori delle USM passando dal com-
plesso architettonico al corpo di fabbrica e, attraverso la struttura orizzontale, all’unità funzionale
e dal prospetto generale a quello particolare, valutando quindi ciascun elemento architettonico
e le singole unità stratigrafiche.
Altra proposta interessante riguarda la scheda di archiviazione veloce (SAV), studiata come
strumento efficace e sintetico in interventi di emergenza.
È però con Parenti nel 1988 che, in occasione del I Ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in
Archeologia, viene data veste più compiuta e problematizzata ai principi esposti nel volumetto di si-
gnificato didattico già edito da Brogiolo, che, in questa occasione, ne ripubblica le pagine salienti62.

59
DE MINICIS 2003, pp. 9-33. 61
BROGIOLO 1988a; 1988b, pp. 335-339.
60
REDI 2002, pp. 361-365; 2003c, pp. 471-481. 62
PARENTI 1988a; BROGIOLO 1988b.
22 FABIO REDI

Fig. 15 – Disaggregazione
della lettura stratigrafica: da
volumi, a piani, a USM (BRO-
GIOLO 1998, fig. 2).

Fig. 16 – Esempi di sequenze stratigrafiche degli elevati: A= appoggia/gli si appoggia; B = copre/è coperto;
C= si addossa/ gli si addossa; D= ammorsa/gli si ammorsa (PARENTI 1988a, fig. 12).
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 23

Parenti si pone il problema essenziale della documentazione dei dati, sia attraverso uno stru-
mento a sua volta diagnostico oltre che di archiviazione, che è il rilievo63, come già Carandini
nel 1981 percepiva nella sua essenza di “misto di rappresentazione oggettiva e di selezione/inter-
pretazione soggettiva della realtà”64, sia attraverso la scheda cartacea di USM, ricalcata, pur con
modifiche, su quella di US65 (Fig. 16).
Parenti si preoccupa, inoltre, di fissare alcuni criteri generali di prassi operativa sia nel caso
s’intenda procedere “per campioni”, sia “per grandi masse” di muratura, e pone particolare
attenzione sia alle stratificazioni “di pelle”, cioè al sovrapporsi di strati diversi d’intonaco o di
scialbatura66, sia in particolare alle lesioni, intese come azioni negative o interfacce di distruzio-
ne, capaci di fornire indicazioni preziose sia di ordine statico, sia cronologico, in relazione con
particolari eventi sismici o di assestamento strutturale durante la lunga vita dell’edificio67.
Una rapida, ma significativa, osservazione riguarda l’individuazione delle stasi di cantiere intese
come “giornate di lavoro o momenti di controllo”, riconoscibili in interfacce di orizzontamento
dei corsi o di stacco dei letti di malta maggiorati nello spessore in loro corrispondenza68.
Ma il problema principale nella lettura stratigrafica degli elevati sta nel passaggio dal piano
al volume, tenuto conto che parliamo di muri che hanno spessore, e quindi due prospetti: uno
esterno uno interno, e di organismi architettonici, cioè tridimensionali, ovvero composti ele-
mentarmente da almeno sei piani interni e sei esterni strettamente coordinati e correlati fra loro
mediante porte o finestre, trombe di scale o altre aperture.
A questo punto Parenti, nel dover redigere il diagramma stratigrafico, propone due possibili
soluzioni: “per ambienti”, o “per pareti”69.
Da queste osservazioni e dalla loro teorizzazione sono scaturiti tutti gli interventi successivi,
nei quali la prassi operativa allora suggerita è stata ampiamente applicata, sia a livello di rilievo
stratigrafico, o archeologico, sia a livello di schedatura USM, sia al livello di “matrix” (Fig. 17).
Con le teorizzazioni metodologiche di Brogiolo e di Parenti, riprese e puntualizzate ulterior-
mente da Mannoni e Crusi nel 198970, giungeva a maturazione quel processo di “archeologia
stratigrafica” iniziato già negli anni ’40 da Nino Lamboglia e portato avanti anche da Carlo
Varaldo nei suoi fondamentali scavi savonesi e transappenninici71.
Sebbene, tuttavia, ampiamente teorizzato anche a proposito degli indicatori cronologici nel
sedime e nell’elevato, trovo scarsamente impiegato generalmente, oltre che per evidenti limitazioni
oggettive, quell’indispensabile verifica incrociata dei dati proveniente dal confronto delle due
stratigrafie orizzontale e verticale nei casi fortunati, ma non rari, in cui sia possibile conoscere le
relazioni fra i contesti orizzontali e quelli verticali e perfino quelli orizzontali recuperabili negli
elevati, come riempimenti di solai e di volte. Esempi significativi in proposito sono tuttavia le
ricerche compiute da Vannini nei riempimenti delle volte del S. Domenico di Prato e quelle di
Francovich e allievi nella chiesa del Carmine a Siena72.

2.3 Dall’elevato al livello di quota del sedime


In funzione del recupero induttivo dei livelli d’uso sepolti ricavabili dalla lettura stratigrafica
degli elevati mi piace segnalare una proposta metodologica, inspiegabilmente passata sotto silenzio
e rimasta priva di seguito, che sperimentai e pubblicai nel mio libro su Pisa nel 199173.
Intendo riferirmi alla utilizzazione di elementari calcoli proporzionali, per di più confermati
da verifiche effettuate, circa il rapporto fra ampiezza e altezza degli archi dei portali o dei fornici
dei portici, per ottenere, senza la necessità dello scavo, la quota della soglia di accesso e quindi
l’interramento del terreno attuale rispetto a quello originale, così da ricostruire un profilo quotato
diacronico del suolo dell’insediamento, consentendo la valutazione delle dinamiche di occupazione
degli spazi e di deposito archeologico.
Un procedimento, questo, strettamente dipendente dall’elaborazione delle tipologie edilizie
in conseguenza di quelle delle tecniche murarie e della rete di cronologie relative che scaturisce

63
Cfr. REDI 1979, pp. 238-241; 1980. 69
Ibid., pp. 276-279.
64
CARANDINI 1981, p. 106. 70
MANNONI, CRUSI 1989.
65
PARENTI 1988a, p. 253. 71
LAMBOGLIA 1956; 1964; 1965; 1973; VARALDO 1992.
66
Cfr. MANNONI, CRUSI 1989, p. 200. 72
VANNINI 2001; FRANCOVICH, VALENTI 2002.
67
PARENTI 1988a, pp. 255-269. 73
REDI 1991, pp. 18-24.
68
Ibid., p. 268.
24 FABIO REDI

dalla lettura stratigrafica degli elevati, non effettuata per campioni bensì estesa alla totalità delle
testimonianze materiali superstiti nell’intero territorio cittadino.

2.4 Prospezioni termografiche


Negli anni ’70 del secolo scorso, quando l’Archeologia medievale andava definendo la propria
identità e il suo ruolo nella ricerca e nella tutela del patrimonio culturale medievale e sperimentava
le metodologie più appropriate per conseguire gli obiettivi programmatici, oltre alla definizione
dei criteri di analisi e di schedatura dei materiali e delle tecniche costruttive e oltre al metodo
di lettura e di rappresentazione delle stratigrafie verticali, venivano sperimentate tecniche dia-
gnostiche non invadenti che consentissero l’analisi e l’interpretazione delle strutture in elevato
nascoste da intonaci successivi74.
Si trattava di analisi stratigrafiche dei prospetti che non comportassero la rimozione delle
successive stratificazioni d’intonaco e di pigmento pittorico, frequentemente di pregio artistico
oltre che documentario.
Pioniere in questo settore, purtroppo senza seguito, era il sottoscritto, che nel 1979 procedeva
a un’indagine sperimentale nella piazza dei Cavalieri, già degli edifici monumentali del Comune
medievale, a Pisa75 (Figg. 18-21).
Con l’applicazione dei principi della termografia l’esperimento si proponeva di poter leggere
e interpretare in sequenze diacroniche le tracce degli edifici monumentali attestati dalle fonti
storiche e delle loro successive trasformazioni occultate dai pregevoli intonaci, graffiti o affrescati,
stesi sulle facciate dei palazzi comunali in occasione dell’intervento vasariano.
Come è noto, i risultati dell’esperimento furono notevoli, in quanto non soltanto fu possibile il
riconoscimento di ben nove corpi di fabbrica consecutivi, ma anche l’individuazione delle sequenze
stratigrafiche delle rispettive fasi originali, degli accorpamenti e delle trasformazioni successive,
oltre alla determinazione delle singole tecniche murarie perfettamente leggibili in scala metrica
nei fotogrammi della ripresa termografica.
Unica eco dell’applicazione di questa tecnica diagnostica fu proposta da Nicola Gallo nel pri-
mo numero della rivista Archeologia dell’Architettura, ma limitatamente all’utilizzo di pellicole
all’infrarosso nell’analisi dei paramenti murari76.

2.5 Metodi di datazione


Problema che scaturisce immediatamente dalle considerazioni espresse da Mannoni all’origine
dell’Archeologia del costruito, nel 1976, anche se approdato a una formulazione concettuale e
metodologica più matura soltanto nel 1984, prima cioè delle fondamentali messe a punto della
lettura stratigrafica degli elevati di Parenti e di Brogiolo, è quello del metodo di datazione del-
l’edilizia storica77.
Sulla base dell’esperienza maturata nel primo decennio di vita e di pratica dell’archeologia
del costruito, Mannoni riconsiderava il concetto di monumento, precedentemente respinto nel
territorio inappagante delle analisi formali e stilistiche di storici dell’arte e di architetti, recupe-
randone due valori sostanziali: quello che il monumento è stato per lungo tempo, prima ancora
dell’introduzione di metodi archeologici e archeometrici, e continua a esserlo in parte, «unico
manufatto in grado di essere studiato e datato… sulla base di analisi formali e stilistiche, molto
spesso suffragate dalle fonti scritte»78.
Vale a dire si riconosceva la possibilità di considerare l’edificio monumentale sia come fonte
diretta, sia indiretta, non soltanto, quindi, per l’analisi autoptica dei materiali, delle tecniche
costruttive, delle stratigrafie verticali e dei contesti, cioè di metodologie perfettamente ed esclu-
sivamente comprese fra quelle specifiche archeologiche, bensì anche per quelle che potremmo
definire “tradizionali” e che possono concorrere, si badi bene solo concorrere, insieme con il
corretto e correlato impiego delle fonti indirette, cioè quelle storiche, a un più circostanziato
e preciso inquadramento cronologico del manufatto stesso, dal quale, per analogia, potranno
ricevere definizione anche altri equiparabili a esso.

74
Cfr. anche MANNONI, CRUSI 1989, p. 200. 77
MANNONI 1976; 1984; BROGIOLO 1988a; 1988b; PARENTI
75
REDI 1982; 1987; 1991 pp. 320-337; 1997b, pp. 199-203. 1988b.
76
GALLO 1996. 78
MANNONI 1984, p. 396.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 25

Fig. 17 – Criteri ordinatori delle USM di un edificio


e alternative di diagramma stratigrafico: per ambienti
o per pareti (PARENTI 1988a, figg. 14, 15).

Figg. 18-19-20-21 – Tre fotogrammi termografici e interpretazione, con diagramma stratigrafico, della ripresa
termografica della facciata della Scuola Normale di Pisa (REDI 1982, p. 18; REDI 1997b, p. 201).
26 FABIO REDI

Fig. 22 – Classificazione funzionale e cronologica delle principali tecniche murarie in pietra della Liguria
(MANNONI 1993b, fig. 34).

Una raccolta analitica degli indicatori cronologici si trova, solo quattro anni dopo, nel saggio
di Roberto Parenti sulle possibilità di datazione e di classificazione delle murature nel quale, come
già aveva indicato Mannoni79, si distinguono datazioni indirette, basate su fonti storiche esterne
ai manufatti, da datazioni dirette, desumibili dai manufatti stessi, e, all’interno di quest’ultima ca-
tegoria, datazioni relative, o sequenziali, e datazioni assolute, o intrinseche ai materiali stessi80.
In particolare Mannoni poneva l’accento sul concetto di “chiavi cronologiche locali”, vale a
dire che non è sufficiente mettere in atto i soli metodi di datazione diretta, bensì occorrono an-
che dati di riferimento regionali o meglio subregionali specifici; basti pensare alle diverse curve
mensiocronologiche e dendrocronologiche strettamente locali e alle cognizioni sulla geologia, e
quindi sui litotipi e sugli altri fattori culturali di territori a maglie non troppo ampie81 (Fig. 22).
Appare evidente, quindi, che la ricostruzione delle chiavi cronologiche locali deve essere
preliminare, in funzione del suo impiego per l’attribuzione cronologica dei manufatti e che “per
rendere utilizzabili localmente questi sistemi di datazione, si dovrà ricorrere in un primo tempo
alle stratigrafie verticali ed orizzontali”82.
Eccessi di specializzazione di chi affonda con mano sicura il bisturi della stratigrafia possono
rischiare di far perdere di vista lo stato clinico complessivo del paziente se non perfino la cogni-
zione stessa della sua esatta anatomia.
È il limite che con frequenza riscontro nei giovani. Citerò ad esempio il peccato, ma non il
peccatore, che nella rivista “Archeologia Medievale”, nell’interpretare alcuni saggi di scavo nella
chiesa pisana di S. Jacopo di Orticaria, pur dopo una corretta indagine delle unità stratigrafiche,
riteneva di riconoscere due fasi costruttive distinte nella diversità di tecnica muraria esistente fra

79
Ibid., pp. 397-402. 81
MANNONI 1984, p. 398.
80
PARENTI 1988b, pp. 280-286. 82
Ibid., p. 399.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 27

due USM sovrapposte, corrispondenti in realtà allo spiccato del muro e al suo fondamento, per
ovvie ragioni diversificati, e attribuiva a una inspiegabile successiva tramezzatura muraria dell’aula
di culto quello che in realtà era il fondamento delle transenne presbiteriali, evidentemente addos-
sato ai muri laterali della chiesa, ma con uno scarto cronologico di tempi di costruzione minimo,
e comunque non indicativo di un diaframma che avesse stravolto impianto planivolumetrico e
funzionale della primitiva aula.
Ebbene, dobbiamo ricordarci qualche volta, noi archeologi del costruito, di non limitare l’oriz-
zonte delle nostre indagini specialistiche alla lettura stratigrafica degli elevati e alle frequentemente
raffinate disquisizioni sulle tecniche murarie, bensì rileggere o approfondire le nostre cognizioni di
storia dell’architettura o di composizione architettonica, se non vogliamo rischiare di perdere di
vista concezione e organizzazione degli spazi cultuali, abitativi, funzionali definiti dalle strutture
murarie o, per lo più, dai loro lacerti, nei quali affondiamo con competenza il nostro bisturi.

2.6 Tipologie edilizie


Sebbene Mannoni nel 1974 invitasse alla prudenza riguardo alla tendenza a utilizzare per la
creazione di tipologie abitative o insediative «gli edifici e i tessuti degli abitati sopravvissuti, in
quanto solo lo scavo e la stratigrafia delle strutture sono in grado di restituire le parti originali di
un edifico o di un abitato e la loro oggettiva datazione»83, non ritengo possibile prescindere da
una corretta classificazione tipologica dell’edilizia storica.
La strada principale che Mannoni indicava chiaramente per l’Archeologia del costruito era,
dunque, necessariamente e ineludibilmente quella della lettura stratigrafia degli elevati e dei
contesti, prima che le vie dell’analisi delle tecniche costruttive e della classificazione tipologica
degli edifici o degli insediamenti, che pure sono fonti concorrenti nella definizione cronologica,
funzionale e socioculturale del manufatto edilizio.
È fin troppo evidente che l’atteggiamento di diffidenza se non di rifiuto degli archeologi
medievali fin dalle origini della disciplina nei confronti dell’analisi tipologica derivava dal fatto
che gli schemi proposti da urbanisti e architetti, come scrivevo nel 1991, risultano generalmente
«estrinseci e arbitrari, sia perché scaturiscono da un’analisi non capillare e piuttosto affrettata dei
testi materiali, sia perché si fondano sul numero o sulla forma degli archi, sulla maggiore o minore
ampiezza della pianta, su un’approssimativa osservazione dei materiali da costruzione», cioè su
elementi di giudizio e quindi su fattori di tipologizzazione, estrinseci all’essenza delle architet-
ture, che consiste, al contrario, nei diversi “modi di abitare”, cioè di concepire forme e funzioni
di strutture e volumi che, variando con il mutare delle esigenze pratiche e di rappresentazione
mentale e sociale collettiva, mutano formalmente e tecnicamente nel tempo84 (Figg. 23-24).
Vale a dire che giustamente sono da respingere tipologie derivanti da fattori marginali o
estrinseci, definiti aprioristicamente e sulla base di campionature precostituite e limitate, anziché
individuati “a posteriori” attraverso analisi sistematiche ed esaurienti sia dei materiali e delle tec-
niche costruttive, sia delle relazioni stratigrafiche degli elevati e, ove possibile, del sedime, sia per
mezzo del confronto fra indicatori cronologici indiretti e diretti, come ho compiuto per Pisa nel
1991 e come riconosceva Sauro Gelichi nella sua ampia e ben articolata rassegna delle ricerche
di archeologia dell’edilizia residenziale e delle strutture abitative, del 199785.
Se attraverso analisi per campioni, come allora scrivevo, «si creano catene evolutive incom-
plete di anelli fondamentali, e quindi prive di logica, … fondando le distinzioni su fattori non
essenziali, non ci si accorge di prendere per tipi distinti, semplicemente aspetti diversi della stessa
realtà architettonica, e viceversa di accomunare entità tipologiche diverse»86.
Dopo avere ribadito che «non possiamo prescindere da un corretto e costante raffronto fra
fonte archivistica e dato materiale e dalla elaborazione di tipologie edilizie che tengano conto delle
strutture murarie superstiti, senza distinzioni qualitative o esclusioni pregiudiziali che privilegino
ora l’una ora l’altra delle manifestazioni dello stesso fenomeno tecnologico-culturale», da inten-
dere edilizia ecclesiastica, civile e militare, invitavo a considerare la crescita di un centro urbano
“come un unico grande cantiere” e concludevo precisando il punto di vista su cosa intendere per
corretta tipologia edilizia d’impostazione archeologica87.
83
MANNONI 1976, p. 298. 86
REDI 1991, pp. 165-166.
84
REDI 1991, pp. 165-166. 87
Ibid., p. 171.
85
GELICHI 1997, pp. 193-205.
28 FABIO REDI

Figg. 23-24 – Esempi di ricostruzione di edifici pisani per una loro classificazione tipologica: casatorre di
via Vernagalli – via S. Jacopino (sec. XII, prima metà) e domus di Mosca da Sangimignano in lungarno
Gambacorti, del 1302 (REDI 1991, tavv. 18, 23).

Del resto, anche Mannoni, con Isabella Ferrando Cabona, Elisabetta Crusi, e altri, nel corso
degli anni ’80, recuperavano l’esigenza di creare seriazioni tipologiche degli elementi architettonici
che, ancorandosi alle fonti epigrafiche, alle relazioni stratigrafiche e agli altri indicatori crono-
logici, venissero assunte, con un procedere analogico, a loro volta come indicatore cronologico
assoluto di origine antropica.
Sto parlando delle cronotipologie degli elementi architettonici88 (Fig. 25).

2.7 Approccio etno-archeologico e modelli interpretativi


Più recenti sono gli sviluppi in chiave antropologica e socio-economica della ricerca sulle
tecniche costruttive, che vede ancora Mannoni, seguito da Aurora Cagnana, Giovanna Bianchi,
Michele Nucciotti, e altri affrontare il problema delicato della trasmissione dei saperi empirici e
della circolazione delle maestranze, con una contrapposizione forse un po’ troppo freddamente

88
FERRANDO CABONA, CRUSI 1979, pp. 9-12, 113, 125, FERRANDO CABONA, CRUSI 1981a; pp. 184-189; FERRANDO,
141-145; MANNONI 1980, pp.305-308; FERRANDO, CRUSI 1980; MANNONI, PAGELLA 1989.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 29

Fig. 25 – Schema crono-tipologico degli


elementi architettonici della casa rurale
della Val d’Ossola superiore (MANNONI
1980, tav. I).

dualistica fra maestranze di villaggio, o locali, di tipo artigianale e maestranze itineranti specia-
lizzate89.
Certamente valida la distinzione e quanto mai interessante il tipo di approccio, qualche volta
il ragionamento, e in particolare le deduzioni, corrono sul filo del rasoio di derivare le interpre-
tazioni da modelli concettuali precostituiti piuttosto che dai dati che, inutile sottolinearlo, se ci
si attiene strettamente alla loro oggettività, non sono in grado di andare oltre se stessi, se non
con un intervento legittimo, ma arbitrario, di chi ne è interprete.
Anche Brogiolo, nell’editoriale del primo numero della rivista «Archeologia dell’Architettu-
ra», del 1996, si poneva la questione di «come interpretare le trasformazioni di un manufatto
che, oltre che contenere reti complesse di informazioni, esprime una pluralità di significati: la
mentalità, la cultura, la capacità di controllo economico e sociale del committente e, da parte
dell’artigiano o del contadino – artigiano, le tecnologie e i modi in cui queste si mantennero o
si innovarono»90.
Brogiolo individuava le possibili risposte al quesito iniziale nella necessità di condurre «un’in-
dagine multivariata per acquisire le informazioni» necessarie e di elaborare «teorie che consen-
tano di darne una spiegazione coerente» a livello interpretativo e riconosceva nell’analisi delle
variazioni della capacità di controllo dei cicli produttivi da parte delle classi egemoni una chiave
interpretativa dei modelli edilizi della società altomedievale e, per estensione, medievale.
In questo senso, estendendo le teorie che nel 1990 avevano proposto Samson e Sanders inter-
pretando alcune realtà di villaggio inglesi91, anche le signorie feudali esercitavano un controllo
sui cicli produttivi, sia di tipo sociale, come nei castelli toscani accuratamente analizzati da Gio-
vanna Bianchi e da Michele Nucciotti insieme con Guido Vannini e la sua scuola92, sia di tipo

89
MANNONI 1984, pp. 396-397; BIANCHI 1994; 196; BRO- 91
SAMSON 1990; SANDERS 1990.
GIOLO 1994, pp. 10-11, 103-114; CAGNANA 1994; NUCCIOTTI 92
BIANCHI 1995; 1996; 1997; NUCCIOTTI 2000; 2002;
2000; STAFFA 1994. NUCCIOTTI, VANNINI 2002a; 2002b.
90
BROGIOLO 1996, p. 13.
30 FABIO REDI

economico, in particolare nelle città, come in ambito bresciano grazie alle indagini compiute da
Gian Pietro Brogiolo93.
Mentre, infatti, in ambito rurale è il potere fortemente accentratore della feudalità che determina
la comparsa di tecniche di qualità, come le diverse varietà del tipo di apparato “a filaretto”, in
ambito urbano la qualità dei tipi edilizi sembra riflettere la maggiore diversificazione sociale con-
trassegnata anche dalla rapida ascesa economica di “homines novi” e dalle committenze costituite
dagli stessi dominanti (Normanni-Svevi-Angioini) o da ordini monastici a loro legati strettamente
(Cistercensi), favorendo la circolazione di maestranze comacine o monastiche specializzate94.
Espressione dei due livelli di controllo, ora sociale, cronologicamente più antico, ora economico,
più recente, ho potuto riscontrare nelle tipologie edilizie e nelle diverse forme di occupazione e
di controllo del territorio cittadino a Pisa, con l’analisi edita nel 1991, nella quale è evidenziata
la distinzione fra edilizia signorile ed edilizia popolare, fra quartieri artigianali e quartieri signo-
rili, ma anche un tessuto urbano caratterizzato da significative compresenze e integrazioni, sia al
livello di tipologie edilizie, sia di materiali da costruzione e di tecniche murarie95.

3. UN BILANCIO DEL PRIMO VENTENNIO


Negli anni immediatamente successivi al primo ventennio di vita dell’Archeologia Medievale,
oltre all’esigenza di fondare una rivista specifica per l’archeologia dell’architettura, era maturata
quella di una Giornata di Studi sull’Archeologia del costruito (Genova, 10 maggio 1996)96 e di una
retrospettiva generale, con la quale ci si soffermasse un momento a fare un primo bilancio. Sauro
Gelichi, nel 1997, raccoglieva i risultati del già lungo cammino dell’Archeologia medievale nelle
articolazioni che, con il tempo, avevano acquisito specifiche definizioni. In particolare, passando
in rassegna le acquisizioni e le problematiche riguardanti l’archeologia dell’edilizia residenziale e
delle strutture abitative, egli distingueva correttamente la documentazione archeologica relativa
all’alto Medioevo da quella del basso Medioevo97.
Il filo conduttore della rassegna correva attraverso i tentativi di ricostruzione di modelli
abitativi e di tecniche edilizie peculiari di aree subregionali o di territori e di periodi storici o
ambienti culturali.
Riprendendo un tema ampiamente discusso, al quale più recentemente, nel 1993, Brogiolo
aveva dato corpo in occasione del Convegno di Monte Barro, sull’edilizia residenziale tra V e
VIII secolo98, Gelichi discuteva alcuni modelli interpretativi dell’edilizia residenziale di legno
emersa con gli scavi di Casteseprio, Luni, Brescia, Rimini, Grosseto, Poggibonsi, Ferrara, Bologna,
lamentando la netta prevalenza del carattere urbano degli esemplari in nostro possesso99.
Dall’analisi di questi e dalle interpretazioni proposte emerge nettamente una tendenza signifi-
cativa: l’abbandono, già dal III secolo, dell’edilizia residenziale a sviluppo estensivo, tipico della
prima fase imperiale, e il comparire di «strutture abitative più povere per impiego di materiale
… e meno complesse per configurazione planimetrica», oltre al fenomeno frequente del riuso di
strutture antiche100.
Il rinvenimento di due case di legno altomedievali nel foro di Luni, negli anni ’70101, consentiva
di contestare il modello interpretativo che voleva l’edilizia realizzata con materiali più poveri,
come il legno, e con impianti assai modesti dipendente da influenze germaniche, come nei casi
scavati a Castelserpio negli stessi anni102.
La datazione degli esemplari di Luni, assegnati dal C14 al periodo in cui la città era ancora
sotto il controllo bizantino, faceva ritenere al Ward Perkins che questo tipo di costruzione fosse
riconducibile piuttosto al recupero di precedenti tradizioni locali, magari non scomparse com-
pletamente, bensì relegate ad aree marginali103. Riprendendo il dibattito sugli apporti alloctoni,

93
BROGIOLO 1993; 1994b; BROGIOLO, ZONCA 1989. 97
GELICHI 1997, p. 193.
94
BROGIOLO 1996, p. 13; RIGHETTI TOSTI CROCE 1983; 98
Edilizia residenziale tra V e VIII secolo, 1994.
FIORANI 1996, pp 191-195; BIANCHI 1997d; REDI 203b, pp. 99
GELICHI 1997, pp. 193-203.
589-593. 100
Ibid., p. 194.
95
REDI 1991, pp. 177-198, 252-262. 101
WARD PERKINS 1981.
96
Gli Atti della Giornata di Studio furono pubblicati 102
DABROWSKA, LECIEJEWICZ, TABACZYŃSKA, TABACZYŃSKI
sulla rivista «Archeologia dell’Architettura», II (1997), pp. 1978-1979.
133-213. 103
WARD PERKINS 1981, p. 92.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 31

Fig. 26 – Varietà di tecniche costruttive nel castello di Rocca San Silvestro (PARENTI 1988b, p. 293).

riemerso con lo scavo di S. Salvatore di Brescia104 e complicato dalla «grande varietà strutturale
e tipologica nell’arco di pochi anni» degli edifici altomedievali rinvenuti a Poggibonsi105, Sauro
Gelichi molto opportunamente invitava a una maggiore prudenza e a non generalizzare modelli
troppo rigidi, portando esempi di edifici realizzati con materiali e tecniche più poveri anche in
epoca etrusca, come a Spina e a Bagnolo San Vito, e romana, come hanno messo in evidenza le
indagini di Carandini, Settis e Ortalli106.
Il merito di questa più corretta messa a fuoco del modello interpretativo è da attribuire prin-
cipalmente al progredire della ricerca archeologica nel secondo decennio di vita della nostra
disciplina.
104
BROGIOLO 1992, p. 198. 106
GELICHI 1997, p. 197; CARANDINI 1979, pp. 49-52;
105
VALENTI 1996. ORTALLI 1995.
32 FABIO REDI

Certamente, con l’aumento quasi esponenziale del numero degli scavi e con il progressivo
affinamento metodologico oltre che tecnologico, le nostre conoscenze sono state fortemente
arricchite, ma, ancora nella seconda metà dell’ultimo decennio, la distribuzione territoriale dei
rinvenimenti risulta disomogenea e con prevalenza di edilizia a carattere urbano piuttosto che
rurale.
Per il pieno Medioevo Gelichi individuava nelle mie indagini sull’edilizia medievale pisana un
esempio significativo di ricostruzione di modelli abitativi e tecniche edilizie, insieme ai contributi
di David Andrews e di Elisabetta De Minicis per il Lazio settentrionale107.
In proposito vanno segnalati anche i risultati delle ricerche di Donatella Fiorani nel Lazio
meridionale108.
Contemporaneamente alla retrospettiva di Gelichi, nel saggio introduttivo della nuova rivista
«Archeologia dell’Architettura», Brogiolo individuava i presupposti metodologici e le tematiche
fondanti la disciplina stessa e nella Giornata di Studi di Genova (10 maggio 1996) si mettevano
a confronto le esperienze compiute in Europa e gli orientamenti della ricerca per un’archeologia
del costruito109.
In particolare si discutevano le problematiche e le prospettive della ricerca mensiocronologica
in Toscana (QUIRÒS CASTILLO), dell’archeologia del costruito nel Lazio (DE MINICIS), in Toscana
(PARENTI) e in Liguria (BONORA, CAGNANA-FERRANDO).

4. QUADRO TERRITORIALE DELLE RICERCHE DI ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO


Per fortunata congiuntura o per intrinseca vocazione alcuni territori più di altri sono stati in-
dagati da archeologi del costruito e cominciano a fornire utili dati per l’elaborazione delle chiavi
cronologiche locali, e non solo, della quale nel 1984 Tiziano Mannoni auspicava la messa a punto
e della quale, dodici anni dopo, nel 1996, Brogiolo lamentava ancora l’inesistenza110, salvo rari
tentativi di atlanti di murature locali, «nemmeno a scala subregionale», come quello di Mannoni
per la Ligura, di Parenti per solo una parte della Toscana (Fig. 26), di Brogiolo stesso per l’area
gardesana111. In realtà altri contributi specifici, come il mio per Pisa112 (Fig. 28), erano in atto e
di lì a poco ancora altri avrebbero trovato conclusione o edizione preliminare.
Penso ai contributi di Elisabetta De Minicis e di Donatella Fiorani per il Lazio, a quelli di
Giovanna Bianchi per l’area maremmana (Fig. 27), a quelli di Michele Nucciotti (Fig. 32) e del
gruppo di Vannini per il Chianti, il Casentino e il territorio amiatino, a quelli di Aurora Cagnana,
Elisabetta Crusi, Isabella Ferrando Cabona ancora per la Liguria, di Manuela Catarsi Dall’Aglio
per l’Emilia, di Tiziana Saccone per il Salernitano, di Eugenio Donato per la Calabria tirrenica
settentrionale113.
Ma ancora altri potremmo citare, specialmente estendendo, come dicevano all’inizio, il pano-
rama a tutto il costruito, in senso lato (Fig. 31).
Attualmente le regioni che risultano maggiormente coperte da ricerche di archeologia del
costruito sono la Liguria, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia-Romagna, la Toscana, il Lazio, parte
della Campania e parte della Calabria, con evidente sproporzione fra centro-nord da una parte
e sud dall’altra.
Una sintesi regionale per la Toscana, in contemporanea con quella di Parenti alla Giornata di
Studio di Genova, è stata presentata da me al Convegno di Città della Pieve del 1996 e da questa
data ho avviato ricerche nell’Abruzzo interno, mentre Staffa e altri mi hanno preceduto nella
fascia costiera114 (Figg. 29-30).

107
GELICHI 1997, pp. 203-205; ANDREWS 1983b; DE MINICIS 1996; FIORANI 1996; BIANCHI 1993; 1994; 1995; 1996; 1997;
1989; DE MINICIS, GUIDONI 1996. 1999; 2001; 2003; NUCCIOTTI, VANNINI 2003; CAGNANA 1994a;
108
FIORANI 1996. 1994b; CAGNANA, FERRANDO 1997; CAGNANA 2000; FERRANDO
109
BROGIOLO 1996; Archeologia dell’Architettura 1997, CABONA, CRUSI 1979; FERRANDO, CRUSI 1980; FERRANDO CABONA,
pp. 133-213. CRUSI 1981a; CATARSI DALL’AGLIO 1994; SACCONE 1998; 2002;
110
MANNONI 1984, p. 398; BROGIOLO 1996, p. 12. 2003; DONATO 1998; 1999; 2000; 2004.
111
MANNONI 1976; PARENTI 1988b; BROGIOLO 1989. 114
PARENTI 1997; REDI 2001a; 2001b; 2003b; STAFFA 1994;
112
REDI 1991; 1996; 1997a. SPINOZZI, CONTI 1986; MICATI 1983; 1990; 1992.
113
DE MINICIS 1989; 1999; 2001; DE MINICIS, GUIDONI
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 33

Fig. 27 – Rilevamento di para-


menti murari senza caratterizza-
zione delle finiture delle super-
fici o con segni convenzionali
specifici (Rocca San Silvestro,
BIANCHI 1995, figg. 2, 5, 6).

CONCLUSIONI
Se dobbiamo trarre qualche conclusione dalla rapida rassegna di temi e problemi e di esperienze
compiute nell’ultimo trentennio, la prima osservazione che balza evidente è che nell’ultimo periodo
si assiste maggiormente alla diffusione quasi esponenziale di interventi sul campo e di edizione
di dati o risultati, parziali, ma anche avanzati, alla quale corrisponde tuttavia una preoccupante
riduzione della carica epistemologica e dialettica sui contenuti e sugli obiettivi iniziale, quasi che
l’entusiasmo di autodefinirsi e di appropriarsi dello specifico campo di competenza si sia affievolito.
Riscontriamo, inoltre, segni evidenti di una giovinezza della disciplina forse protrattasi troppo a
lungo, quali, in particolare, ancora una ricerca di denominatori comuni nei sistemi di schedatura
delle tecniche murarie e dei manufatti architettonici, ben lontani dalla ormai felicemente acqui-
sita unificazione dei sistemi di schedatura e di rappresentazione delle unità stratigrafiche o delle
classificazioni della ceramica.
Intendo dire: una scheda che adatti alle ulteriori esperienze e agli approfondimenti specifici
quella di Mannoni del 1996, tenuto conto anche della campionatura delle malte nell’emplecton,
nei giunti, nelle superfici intonacate, nelle fosse di fondazione, nelle coperture (Figg. 6, 22, 26, 27,
28, 29, 31, 32). Si rende necessaria inoltre, l’elaborazione di criteri omogenei di rappresentazione
grafica dei diversi tipi di pietra, di lavorazione e finitura delle superfici, di apparato murario, di
legante, e dei diversi tipi di cavità (buche pontaie, lacune per asportazione o per caduta acciden-
34 FABIO REDI

Fig. 28 – Rilievo di paramenti murari con caratterizzazione delle finiture delle superfici e dei giunti
(REDI 1997a, p. 430).
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 35

Fig. 29 – Rilevamento speculare (interno-esterno) dei paramenti murari di un muro: grancia di S. Maria
del Monte di Paganica, L’Aquila (REDI 2003b, fig. 4).

tale, lesioni da cedimenti o da dissesti sismici, ecc.), e infine si sottolinea l’obbligatorietà della
raffigurazione della sezione muraria e dei paramenti interno ed esterno corrispondenti fra loro
(Fig. 30). Infatti a partire dal saggio pionieristico di Mannoni del 1976 sulle tecniche murarie
della Liguria, se scorriamo la copiosa bibliografia specifica, ci accorgiamo della netta prevalenza
di due tecniche di rappresentazione degli apparati murari: il rilievo in scala dei paramenti, per
lo più litici, limitato ai contorni dei singoli elementi e alla loro contestualizzazione, la ripresa
fotografica fotogrammetrica con indicatore metrico di riferimento.
Nel primo caso prevale l’intento di documentazione dei contesti per realizzare una topolo-
gizzazione delle tecniche murarie di complessi di elementi da costruzione, nel secondo caso, più
sbrigativo ma pià analitico, si evidenziano anche le diversità di tecnica di lavorazione dei singoli
elementi e gli strumenti di lavoro impiegati. Con la fotografia, tuttavia, risulta più difficile la
possibilità di confronti dimensionali fra apparati murari ritratti a scale diverse, mentre con il
rilevamento dei soli contorni, pur ottenendo griglie di riferimento per confronti dimensionali
e tecnologici di contesto, si perdono molte informazioni legate alle tecniche di lavorazione dei
singoli elementi e all’eventuale loro reimpiego da altre strutture. Un paramento murario non è
bidimensionale, in quanto ogni elemento possiede uno specifico microrilievo dipendente dagli
36 FABIO REDI

Fig. 30 – Proposta di
scheda (T RIZIO 2001-
2002, tav.12) analitica
delle voci principali, con
pianta e alzato di riferi-
mento e con rilevamen-
to dei prospetti e della
sezione del muro (REDI
2003b, fig. 4b).

strumenti e dalla tecnica di lavozione, dal grado di finitura delle superfici, oltre che dei contorni,
che si voleva conseguire singolarmente e come effetto d’insieme finale della struttura stessa.
A questi inconvenienti aveva tentato di porre rimedio Giovanna Bianchi già con i rilievi delle
tecniche murarie di Rocca San Silvestro, nei quali aveva apposto un asterisco, peraltro estetica-
mente non ottimale, sulle facce degli elementi litici interessati da «tracce di subbia per la rifinitura
superficiale e di scalpello nel nastrino»115 (Fig. 27).
Diversamente ritengo preferibile la caratterizzazione delle superfici degli elementi litici con
segni naturalistici, cioè di raffigurazione oggettiva o, in alternativa, convenzionale, come ho
tentato di esemplificare per Pisa116 (Figg. 6, 28).
Non dobbiamo trascurare, infine, il dato oggettivo che ogni muro è costituito da un volume,
cioè possiede una superficie esterna, una interna e uno spessore, ma anche un fondamento e un
elevato componenti la stessa realtà fisica, materiale, funzionale. Constatiamo in proposito l’estrema
rarità di casi lodevolissimi nei quali sia riportata in un’unica rappresentazione la corrispondenza
fra paramenti esterno e paramento interno e la rispettiva rappresentazione della sezione o del
prospetto o della pianta dell’emplecton del muro117 (Figg. 29-30).
È assai frequente, infatti, la diversità di apparato e di teniche fra paramento esterno e interno,
che consente di ricavare utili considerazioni sulla compresenza di tecniche diverse, e quindi di
tipologie di apparati, e sulle motivazioni tecniche, ma per lo più funzionali e socio-economiche
o etno-antropologiche, della scelta di tali compresenze.
I muri, dicevamo, sono costituiti da volumi non riducibili a una superficie, per lo più solo
esterna, come ha assunto una scorretta e limitativa prassi di schedatura e di rappresentazione.
Credo che ormai sia giunto il momento di porre fine a sperimentazioni individuali o di
singole scuole, pur positive, e di fissare criteri di valutazione e di documentazione univoci e di
ampia comprensione che consentano più facilmente e rapidamente confronti fra i risultati delle

115
BIANCHI 1995; 1996. 117
TRIZIO 2001-2002; REDI 2003b.
116
REDI 1997a; cfr. anche CAGNANA 1997, fig. 28.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 37

Fig. 31 – Esempio di stratigrafia degli elevati con esplicitazione sintetica delle relazioni stratigrafiche e
relativo matrix (GALLINA 2003, p. 85).
38 FABIO REDI

Fig. 32 – Esempio di rappresentazione dei “versi di posa” delle USM e del relativo matrix della facciata di
S. Nicolao di Monsummano alto, Pistoia (NUCCIOTTI, VANNINI 2003, p. 579).

ricerche ormai numerose e con larga copertura del territorio nazionale, e quindi diano luogo a
interpretazioni meglio supportate da analogie o divergenze rispetto a una banca-dati con la quale
sia possibile dialogare anche grazie agli attuali strumenti informatici.
Giustamente alla fine del secondo decennio di vita della nostra disciplina Sauro Gelichi riscon-
trava con dolore che l’archeologia, pur cominciando negli ultimi anni ad analizzare con metodi
appropriati le strutture edilizie, sia urbane che rurali, non disponeva ancora di buone sintesi e
rischiava di «sovrastimare modelli edilizi che rappresentano quasi sempre l’espressione architet-
tonica di élite» e per questo di confondersi «con altri ambiti disciplinari quali l’urbanistica o la
storia dell’architettura»118.
Credo, però, che, ancora a un decennio da queste affermazioni, non si trovino sintesi, almeno
regionali, sulle tecniche costruttive o sulle tipologie edilizie che la maturità dell’Archeologia del
costruito ormai esige pressantemente.
Come abbiamo visto, l’Archeologia medievale si è mossa con ondeggiamenti fra estremi me-
todologici diversi.
Il percorso è stato senz’altro progressivo, ma ancora, a mio avviso, senza raggiungere una
codificazione metodologica e una standardizzazione dei sistemi di approccio concettuale e di
schedatura dei manufatti edilizi.
Questa situazione rivela ancora una fase giovanile, ma felicemente vitale, di ricerca di definizione
e di sistematizzazione degli sviluppi metodologici, e prima ancora concettuali, dell’Archeologia
del costruito.

118
GELICHI 1997, pp. 193, 204-205.
L’ARCHEOLOGIA DEL COSTRUITO 39

A differenza dell’Archeologia stratigrafica, le cui teorizzazioni sono codificate nei tre principali
manuali, di Barker, per intenderci, di Harris e di Carandini119, l’Archeologia del costruito è ancora
priva di uno specifico testo metodologico e problematico di riferimento. Vi stava lavorando, su
commissione della redazione di «Archeologia dell’Architettura», Isabella Ferrando Cabona, quan-
do il male che l’affliggeva ha stroncato con lei anche il lavoro ormai prossimo alla conclusione,
che pure è apparso in forma sintetica, per temi e problemi, in «Archeologia dell’Architettura»,
2002120, costituendo una prima codificazione sistematica, sia gnoseologica, sia metodologica, sia
procedurale, dell’Archeologia del costruito.
Utili spunti di riflessione sul fronte metodologico si colgono nelle osservazioni sulla farraginosità
della prassi operativa di documentazione e di rappresentazione delle relazioni stratigrafiche fra le
diverse USM e nelle proposte di semplificazione, anche di più immediata percezione visiva, che
Dario Gallina, un “giovane”, ha suggerito recentemente, con una sorta di SAV visualizzata nel
rilievo dei prospetti121 sebbene ancora da approfondire e verificare ulteriormente (Fig. 31).
Semplici frecce disegnate sul rilievo o sul raddrizzamento fotogrammetrico del prospetto
esprimono le relazioni stratigrafiche di cronologia relativa.
Altro interessante tentativo di rappresentazione immediata dei tempi di realizzazione di un edi-
ficio e della particolare prassi operativa di cantiere è offerto in un recente contributo di Nucciotti e
Vannini sulla facciata della chiesa di S. Niccolao del castello di Monsummano alto122 (Fig. 32).
Anche qui la sequenza di frecce su ogni concio del paramento murario disegna il percorso
evolutivo del procedere della costruzione evidenziando la sequenza o “verso” della posa in opera
dei singoli elementi litici.
Queste recenti esperienze aprono prospettive che confermano la vitalità e la giovinezza della
disciplina che sembra già in fase di decollo verso nuove sfide e pronta a compiere passaggi di
grado.
Per concludere, ribadendo il mio punto di vista sulle peculiarità, sugli aspetti specifici e sulle
prospettive della disciplina, l’archeologia del costruito consiste prioritariamente nell’indagine
archeologica dei manufatti immobiliari, sia presenti in elevato sia che si rinvengano nel terreno
per mezzo di scavi, e ne comprende sia gli aspetti volumetrico-architettonici, tipologico-tecnici
e formali, sia le componenti più propriamente tecniche e materiali: materiali da costruzione, tec-
niche di approvvigionamento e di lavorazione di essi, strumenti di lavoro, sistemi compositivi di
assemblaggio dei singoli elementi, tipologie dei paramenti murari, soluzioni tecniche a problemi
di costruzione, di statica e formali, organizzazione del cantiere edile, sia gli aspetti socioeconomici
e culturali che intercorrono tra committenza, maestranze, utenti.
La fonte d’indagine primaria è l’osservazione diretta del dato materiale, intrinseca e nel
contesto stratigrafico, ma imprescindibile è il confronto con la documentazione archivistica e
iconografica.
Il tipo di approccio prioritariamente è filologico, quindi archeologico per quanto concerne
l’interpretazione delle relazioni stratigrafiche delle USM.
Il pericolo da evitare, ancora troppo frequente, è l’eccessivo tecnicismo di dettaglio che fa
perdere la visione d’insieme delle relazioni fra le parti. Non ci dobbiamo dimenticare, infatti,
che il procedere per letture stratigrafico-archeologiche di piani (prospetti generali, prospetti
particolari, interni ed esterni) è solo strumentale alla ricomposizione architettonica di volumi e
di complessi volumetrico-spaziali.
La scelta dei materiali, le tecniche di lavorazione, l’assemblaggio degli elementi, la costruzione
di paramenti murari sono finalizzati alla realizzazione di architetture pensate, progettate in ogni
minima parte, con l’obiettivo finale di conseguire un effetto d’insieme funzionale e formale, ar-
chitettonico-spaziale, che risponda efficacemente a esigenze funzionali o/e rappresentative.
In questa direzione archeologi e architetti hanno ancora un tratto di strada da compiere con
convergenza di metodi oltre che concettuale. Noto, infatti, con piacere una positiva tendenza
alla ricomposizione delle due afasie che già nel 1988 lucidamente enucleava e definiva Andrea
Carandini, quando attribuiva a storici dell’arte e architetti l’afasia di tipo A, cioè la capacità di
scegliere molto bene i termini, le parole, i morfemi, ma l’incapacità di mettere insieme le parole

119
BARKER 1977-1981; HARRIS 1979-1983; CARANDINI 1981. 121
GALLINA 2003a; 2003b.
120
FERRANDO CABONA 2002. 122
NUCCIOTTI, VANNINI 2003.
40 FABIO REDI

in una frase, vale a dire l’abilità di costruire insiemi sconnessi di parole, contrastante con l’inca-
pacità di contestualizzarli, e attribuiva, altresì, agli archeologi l’afasia di tipo B, cioè la capacità
di fare splendide costruzione sintattiche e di avere «chiarissimo il senso dell’organizzazione del
discorso, del contesto, delle relazioni delle parole tra di loro», ma sbagliarle, non saperle valutare,
essere cioè abili nel fare un bel discorso sbagliando l’uso dei morfemi. Per gli storici dell’Arte e
per gli architetti «unica morale dell’arte» appariva «lo stile», mentre gli archeologi divinizzava-
no «la stratigrafia», perdendo di vista che ambedue sono componenti essenziali, che «insieme»
costituiscono le facoltà umane123.
Anche un altro invito che allora Carandini faceva agli archeologi medievali mi sembra di
grande attualità: la necessità di uscire da una posizione vicaria, che trenta anni fa appariva po-
sitivamente come unico modo per appropriarsi di spazi e di campi di ricerca lasciati deserti da
architetti e storici dell’Arte e per riscattare oggetti, costruzioni, parti della realtà e testimonianze
del passato che rischiavano, allora più di oggi, di essere cancellati senza essere considerati da
nessuno, senza lasciare memoria di sé124. L’invito di Carandini era ad occuparci finalmente di
«grandi temi», perché, come sosteneva correttamente, «solo nel grande monumento si attua quello
scontro culturale vivificatore, quel confronto tra diverse ottiche con la possibilità d’imparare gli
uni dagli altri»125.
Se storici dell’Arte, architetti, archeologi «si occupano di cose differenti», soggiungeva, «si
vivrà in pace, ma… non ci saranno corti circuiti culturali di grande interesse»126.
La sfida di Carandini solo eccezionalmente è stata raccolta nell’intero arco di vita trentennale
dell’Archeologia del costruito: grandi edifici o complessi monumentali affrontati globalmente
da storici, storici dell’Arte, architetti, archeologi, sono, ad esempio, il Castello di Genova, la
cripta Balbi di Roma, S. Giulia e S. Salvatore di Brescia, la fortezza del Priamar di Savona, il
battistero paleocristiano di Albenga, S. Lorenzo Maggiore di Milano, l’Ospedale della Scala di
Siena, la cattedrale di S. Ciriaco di Ancona, ma molte, troppe, sono le occasioni mancate. È con
l’auspicio di una più proficua estensione di questi esperimenti, che mi auguro diventino prassi
corrente, che spero si apra il quarto decennio di vita dell’Archeologia medievale, e del costruito
in particolare.

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123
CARANDINI 1988, pp. 33-34. 125
Ibid.
124
Ibid., p. 36. 126
Ibid.
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Tecnologie medievali e ricerca archeologica

ENRICO GIANNICHEDDA

Il presente tentativo di discutere di tecnologie medievali da un punto di vista archeologico e


con l’aspirazione a tratteggiare un bilancio, seppur provvisorio, deve tenere conto della vastità
dell’argomento e quindi della necessità di ridurlo per, almeno in parte, padroneggiarlo. Questo
per non procedere ad un arido elenco di siti e di produzioni ai più già note. Per realizzare un
bilancio delle acquisizioni archeologiche relative alle singole tecniche occorrerebbe inoltre un
discreto numero di specialisti aggiornatissimi sulle ricerche in corso, ma il rischio di dimenticanze
e parzialità sarebbe sempre dietro l’angolo. La scelta che si ritiene più opportuna è perciò quella
di discutere delle tecniche medievali da un punto di vista trasversale alle diverse produzioni,
cercando di evidenziarne le problematiche comuni e i modi per affrontarle.
Per fare questo credo indispensabile una sorta di rapida introduzione, un po’ didascalica e
mirata solo a tratteggiare le questioni che legavano tecnica e società nel medioevo. A ciò farà
seguito il tentativo di discutere degli elementi caratterizzanti le principali tecniche e produzioni
di rilevanza archeologica. Detto questo, noto che i termini tecnica e tecnologia sono adeguati
soprattutto ad indicare le modalità con cui si fanno le cose, mentre con produzione e archeologia
della produzione si designa un più ampio orizzonte d’attività e quindi di ricerca. Nella presente
sede il restringere il campo alle modalità squisitamente tecniche è comunque operazione oppor-
tuna, e non solo per questione di tempo, ma perché passaggio necessario e preliminare allo studio
dei modi di produzione1.

1. IL MEDIOEVO DELLE TECNICHE


Per quanto non si vorrebbe fare un discorso di carattere generale, con le approssimazioni che
lo stesso determina, è evidente che non si può dimenticare come, con il termine medioevo, si
designi un periodo lunghissimo che abbraccia una sequenza di momenti storici distinti o, ancor
meglio, diversissimi, legati da uno sviluppo, anche tecnico, né omogeneo né contemporaneo,
nei diversi ambiti regionali. Ambiti regionali spesso accomunati solo dalla comune eredità tardo
antica, prima, e, tardivamente, dall’evolvere delle società di antico regime verso la modernità.
Il medioevo delle tecniche va perciò visto come il succedersi di più periodi e più momenti di
transizione e mutamento, in cui le attività produttive talvolta contribuirono al mantenimento del
sistema sociale e talvolta concorsero a modificarlo. In questo succedersi storico, in più occasioni,
si fece mutevole la stessa geografia dei rapporti economici e sociali in cui necessita contestualizzare
i fatti tecnici e, addirittura, fecero la loro comparsa soggetti nuovi; facendo centro in Italia, ad
esempio, si è a lungo dibattuto del ruolo degli Arabi a ovest e del mondo bizantino e orientale,
fino alla Cina, ad est. A nord, il centro Europa, proprio dal medioevo, iniziò ad attrezzarsi fino
a divenire futuro propulsore del cambiamento tecnico.
La periodizzazione delle tecniche non sempre e non ovunque può dirsi coincidente con altre
periodizzazioni basate su avvenimenti ritenuti epocali e, in realtà, di ogni tecnica necessiterebbe
una storia regionale. Nell’impossibilità di accennarvi può essere comunque utile rifarsi all’idea di
sistema tecnico, così come originariamente proposta da Bertrand Gille (1985), ma non dissimile
per certi aspetti dal tecnocomplesso di Graham Clarke (1978) o da analoghe e precedenti enun-
ciazioni di André Leroi-Gourhan (1993 e 1994). In tutti i casi, seppur da prospettive diverse,
la tecnica pura e semplice è posta in relazione a demografia, ambiente, clima, ma anche ai modi
dello sviluppo culturale, economico, sociale (Fig. 1). Lo studio dei sistemi tecnici può, quindi,

1
Il presente testo si rifà fedelmente a quanto presentato quanto presentato durante i lavori il 19 dicembre 2003. Molte
nell’ambito del Convegno con la sola aggiunta di alcune in- questioni qui solo accennate sono state successivamente riprese
dicazioni bibliografiche di carattere generale. Anche le figure in GIANNICHEDDA 2006.
costituiscono una selezione, graficamente semplificata, di
50 ENRICO GIANNICHEDDA

davvero divenire significativo strumento di ricostruzione storica delineando quadri e processi


che, inevitabilmente, non coincideranno con le maggiori partizioni storiche e, in tal modo, sarà
forse possibile studiare meglio come, da periodi di relativa stabilità, si sia in più occasioni passati
a sistemi tecnici nuovi (sul tema vedi ora GIANNICHEDDA 2006).
A seguito della premessa di cui sopra, in breve, si può distinguere un primo periodo caratte-
rizzato dall’eredità tardoantica destinata poi a sfumare in un altomedioevo che ne conserva mol-
tissimi elementi e che l’archeologia sta proprio in questi ultimi decenni verificando essere molto
più vitale, anche sul piano produttivo, ma non necessariamente tecnico, di quanto ipotizzato in
passato. Nel primo medioevo è facile sostenere che, similmente all’antichità, per più secoli non
vi fu attenzione al mondo del lavoro e tantomeno tensione a inventare. Se i romani per usare le
parole di Gille erano stati “buoni allievi e osservatori coscienziosi” del mondo greco e di quanto
incontravano nelle attività di conquista, essi erano anche “poco innovativi, ma buoni esecutori”
(GILLE 1985, p. 206) e questo giudizio complessivo deve ritenersi valido anche in seguito. Il
cambiamento fu difatti lento e solo in parte dipese dal venire meno, in molte realtà, degli schiavi
a poco prezzo e dell’accostarsi al mondo del lavoro di uomini di condizione libera, ma non per
questo non oppressi. L’archeologia, diversamente da quanto si pensava in passato, ha comunque
dimostrato che le tecniche classiche e tardo antiche non andarono mai del tutto perdute, ma,
semmai, si ridussero e concentrarono, sia geograficamente intorno ai centri del potere sia nel
salvaguardare gli elementi fondamentali di conoscenza dei cicli in un numero più limitato di ad-
detti. Solo in questo senso credo sia accettabile l’opinione, supportata dalle fonti, della generale
riduzione del numero dei mestieri intesi come specializzazioni particolari.
Pur in assenza di innovazioni tecniche, a dimostrazione di quella che potrebbe dirsi una raziona-
lità limitata e un forte conservatorismo, le produzioni mantennero una loro vitalità, indispensabile
nei settori connessi alla vita quotidiana, ma riscontrabile anche nell’ampiezza e complessità delle
produzioni di pregio, di cui sono esempi noti i rinvenimenti di Crypta Balbi a Roma (ARENA et
al. 2001) e alcune grandi opere di oreficeria destinate a contrassegnare i detentori del potere. Per
più secoli non si dovette comunque modificare la natura del sistema tecnico; per alcune produ-
zioni esso era rivolto solo al soddisfacimento di limitate esigenze locali, designabili spesso come
tradizionali perché radicatesi in processi di lunga durata, mentre, nel caso delle produzioni di
prestigio, era maggiormente controllato e accentrato in pochi centri e siti.
Nell’arco di un paio di secoli, che per comodità si possono collocare a cavallo del cambio di
millennio, la società altomedievale procedette quindi a strutturare in modi nuovi i territori rurali
e successivamente a ricreare un tessuto urbano degno del nome. Nel fare questo l’evoluzione
tecnica sembra non accompagnare l’evoluzione sociale, ma esserne la conseguenza, e sia gli studi
dedicati all’incastellamento sia la creazione di uno stabile sistema feudale sembrano comprovare
questo assunto. Stabilite nuove forme di potere territoriale, ne conseguì lo svilupparsi anche del
sistema tecnico rivolto non solo a garantire produzioni di prestigio, ma a riorganizzare nuovi e
vecchi sfruttamenti, ora destinati a soddisfare nuove esigenze e ad alimentare un mercato in lenta
espansione. In tal senso operarono non solo i signori, favorendo le manifatture di prestigio, prima
fra tutte la lavorazione dei metalli, ma anche le organizzazioni monastiche, anch’esse esempio
di gestione “feudale” e talvolta specializzate in attività fortemente orientate al mercato come, ad
esempio, i pannilana.
A partire dai secoli successivi al Mille, prima ancora di ragionare di quale fu il quadro stori-
co, occorre notare che l’archeologo non è più solo nel ricostruire la storia delle tecniche e delle
produzioni. Discutere di tecnologie medievali non può difatti farsi se non ponendo in relazione
un quadro altrimenti parziale, come quello conseguente alla natura delle fonti archeologiche,
con quanto altrimenti derivante dal lavoro degli storici della tecnica e della società. Il medioevo
a partire dall’XI-XII secolo è difatti il periodo in cui il rapporto storia – archeologia è più stretto
e sorretto da fonti numerose ed egualmente importanti. Nei periodi precedenti e successivi si
potrebbe invece sostenere che, per questioni di conservazione ma anche di politica della ricerca,
il rapporto sia sostanzialmente sbilanciato prima a favore dell’archeologia, poi della storia.
Proprio il gran numero di fonti scritte e iconografiche disponibili per i secoli XII- XV ha fatto
sì che gli storici, ed in particolare gli storici della tecnica, abbiano spesso considerato come me-
dioevo solo questo periodo e ne abbiano spesso esteso il giudizio ai secoli precedenti. Oltre a ciò
essi hanno appuntato l’attenzione su questioni diverse da quelle con cui si confronta l’archeologia.
Sia gli storici della tecnica e della scienza – abituati a muoversi su orizzonti, anche cronologici,
TECNOLOGIE MEDIEVALI E RICERCA ARCHEOLOGICA 51

molto estesi, ma spesso settoriali proprio perché di raffinata specializzazione – sia gli storici della
società impegnati nel ricostruire la vita quotidiana discutono perciò soprattutto di ricettari e saperi
alchemici; di rotazione triennale delle colture; dell’utilizzo del collare a spalla per il tiro animale
e della ferratura dei cavalli; del miglioramento della navigazione con la vela latina, vascelli a più
alberi e scafi di diversa concezione; dell’introduzione della carta e della stampa a caratteri mobili;
dello sviluppo delle artiglierie. Da ciò in molti casi sono state ricavate considerazioni generali
che, pur pregevolissime e stimolanti, poco valorizzano le evidenze archeologiche; esempio di ciò,
pur con sfumature diverse, sono sia i lavori classici di Marc Bloch (1959) e Lynn White (1962)
sia molti lavori recenti che affrontano temi quali la terminologia del lavoro o lo sviluppo delle
corporazioni (da ultime si vedano le sintesi in FOSSIER 2002 e in DEGRASSI 1996 con bibliografia
precedente).
L’iconografia è utilizzata soprattutto dagli storici della tecnica ricercandovi le prove di prime
attestazioni e affrontando quindi il cosiddetto “problema delle invenzioni” che è un classico di
una disciplina sempre oscillante fra l’inutile rischio di stabilire un primato (inteso come data e
luogo dell’invenzione) e il riconoscere più utilmente le dinamiche della diffusione e le sue con-
seguenze. Nel fare questo, viene affrontata anche la complessa questione dei rapporti con paesi
lontani, fra cui il mondo arabo che condivideva con l’area europea e mediterranea una comune
tradizione trattatistica tardo antica, ma, per posizione geografica, finì anche con il funzionare da
cerniera con l’Oriente. Il ruolo della Cina a seconda degli autori viene quindi affrontato sia con
la tendenza a sopravvalutarlo sia a sottovalutarlo, e semmai, per ragionare dei possibili rapporti
tecnica – società sarebbe utile cogliere similitudini e differenze in singoli casi, accertati anche
guardando ai materiali, e non soffermandosi solamente su questioni quali lo sviluppo indipendente
di talune tecniche come dovette aversi, ad esempio, per la stampa a caratteri mobili perfezionatasi
in Corea prima del 1403 e reinventata in Europa da Gutemberg intorno al 1430.
Quel che preme notare è però come proprio la trattazione di singole tecniche, poste di volta in
volta al centro dell’attenzione, pur con tutte le cautele del caso induca a semplificazioni eccessive
che riducono a contorno molti aspetti invece fondamentali. Un classico esempio, al proposito, è
quello della staffa dalla cui invenzione, a seguito di un concatenarsi di passaggi logici, potrebbe
addirittura farsi discendere l’origine (e la spiegazione) del sistema feudale (Fig. 2).
Grossomodo ai secoli XII-XIII ben si addice l’affermazione di Jacques Le Goff che considera il
medioevo europeo un mondo mediocremente equipaggiato in cui non si può però non vedere un
progresso. Ad incastellamento ormai avvenuto, in un periodo di sviluppo dei territori organizzati
intorno a sistemi al tempo stesso feudali e cittadini, le fonti scritte e iconografiche registrano di-
fatti rapidi cambiamenti che l’archeologia coglie in diversi settori, fra cui l’edilizia, la produzione
siderurgica, la vetraria, perfino la ceramica che gli storici ricordano settore di scarsissima rilevanza
fra le corporazioni medievali. Generalizzare è sempre pericoloso, ma si può sostenere che, proprio
in questi secoli, la tecnica contribuì a spostare il baricentro dell’Europa verso nord, oltre le Alpi,
e questo a seguito dell’affermazione di quella che White definì la power technology.
Esempio del clima innovatore del XII secolo è Ugo di S. Vittore che, discutendo nel Didasca-
licon dell’arte di leggere, dedica ampio spazio alla tecnica contemporanea e, fatto significativo
da più punti di vista, elenca sette arti meccaniche corrispettive del trivium e quadrivium delle
arti liberali. L’elenco, in realtà, sembra un po’ casuale, comprendendo lavorazione di panni e
lana, armamento, navigazione, agricoltura, caccia, medicina, teatro, ma, in effetti, identifica
settori produttivi in via di rapida trasformazione, o in fase di crescita, e in parte richiama invece
settori di tradizione signorile (la caccia), l’applicazione di arti meccaniche (il teatro), lo studio
del corpo umano che, in qualche misura, proprio in quel periodo si aprivano a saperi fisici e, se
non alchemici, certamente non meccanici.
Proprio la meccanica sembra essere lo strumento principale di trasformazione tecnica della
società medievale sia dal punto di vista pratico sia da quello teorico anche se non ancora scien-
tifico. Dal XIII secolo i manuali tecnici lasciano maggiore spazio alla meccanica (che è anche
geometria, ottica, statica, metrologia) e meno ai ricettari che diremmo chimici; l’iconografia inizia
a mostrare raffigurazioni che, senza essere ancora disegni di progetto, volgono verso il disegno
tecnico tanto attento ai particolari quanto impacciato nella loro resa formale e, questo, non sol-
tanto a causa di un’imprecisione nel raffigurare le relazioni prospettiche e quindi le dimensioni
degli oggetti (disegni non in scala, assenza di sezioni o spaccati). Con la meccanica si afferma
un’idea nuova del possesso della natura che passa per la diffusione del moto circolare e l’uso di
52 ENRICO GIANNICHEDDA

acqua e aria come forze motrici (Figg. 3 e 4). Talvolta le fonti si fanno esplicite ed evidenziano
una sensibilità non moderna ma quasi. Ruggero Bacone nel 1260 scrive che le macchine grazie
agli esperimenti in corso, fra cui la ricerca di un impossibile moto perpetuo azionato da magneti,
otterranno di fare volare, viaggiare in carrozze velocissime e automatiche, esplorare gli oceani.
È questo, ovviamente, solo il sogno di un impossibile Giulio Verne medievale, ma è anche la
prova di una consapevolezza nuova, ben resa, secoli dopo, da Descartes e da Leonardo che, nelle
macchine, vedono le forze in azione e quindi intuiscono la possibilità di controllarle sempre più.
Già prima però, e addirittura nell’iconografia che potrebbe dirsi “di cantiere” le forze fisiche,
benché non evidenziate con frecce o vettori, erano apparse evidenti in macchinari disegnati per
essere pensati in movimento e di cui, fra i primissimi esempi, è restato il solo taccuino di Villard
de Honnecourt (BECHMANN 1993; per il macchinismo in generale si vedano i saggi in MORELLO
2000 e le considerazioni più generali in ROSSI 2002).
Una fonte a tutti nota che ricorda cosa comportò questo cambiamento nel sistema tecnico è
certamente il Domesday Book con i suoi 5624 mulini distribuiti in circa tremila comunità, ma tale
numero, per contrasto, rende anche evidente come altrove il mutamento sia molto più tardivo,
anche di un paio di secoli, e meno rilevante. È il macchinismo, che spesso poco compare nelle
testimonianze archeologiche, a segnare il nuovo sistema tecnico caratteristico di un periodo in cui
stabili poteri politici (regni e signorie) reclutano quelli che, allora, si iniziano a definire ingegneri:
da un lato Luigi XI, Carlo VII, Francesco Sforza, i Montefeltro, i Medici, dall’altra il Filarete,
Leonardo, Francesco di Giorgio Martini.
Bertrand Gille (1985, p. 317 e ss.) in questo sistema tecnico rileva “realismo, utilitarismo, em-
pirismo e ben presto una tendenza sperimentale e matematica” ma coglie anche come “la raziona-
lizzazione delle tecniche senza il bagaglio scientifico necessario arriva presto al suo limite” (Fig. 5).
Il fervore del XIII secolo diviene crescita esponenziale nei secoli successivi e conduce, fuori
dal medioevo, al Rinascimento, ma poi questa crescita si ferma proprio perché la scienza, figlia
della tecnica, è ancora immatura. Il tardo medioevo è anche il periodo in cui si forma l’artigiano
nel senso moderno del termine. In campagna costituisce forse meno del 10% degli abitanti, ma
in città è prevalente e, diversamente da prima, ha come ragion d’essere il guadagno monetario,
si assume i rischi di bottega e opera in un contesto sociale che egli stesso concorre a mutare. Un
contesto che spesso pone limiti all’attività imprenditoriale (sanzionando la concorrenza, limitando
le importazioni di beni, regolamentando i tempi di lavoro e l’apprendistato, imponendo un giusto
prezzo e, in più casi, veri e propri controlli di qualità) ma che consente anche, con l’affermarsi
delle associazioni di mestiere, il riconoscimento, agli artigiani, di un nuovo ruolo nella compagi-
ne cittadina. Ruolo che non sembra dipendere dall’ampiezza della rappresentanza artigiana, né
tantomeno dalla complessità del processo produttivo o dalla vastità degli impianti, ma dal tipo di
clientela che l’artigiano soddisfa: mestieri importanti erano quindi il produttore di panni o sete,
il gioielliere, l’armaiolo, il farmacista; certamente non il vetraio, il panettiere o il vasaio a cui si
rivolgevano clientele indifferenziate e di non grande prestigio (per questo cfr. FOSSIER 2002, p.
65 e ss.). Piaccia o non piaccia, in questo periodo così come nei successivi, a nobilitare l’uomo
non era la tecnica o il mestiere, ma il guadagno.

2. GLI ELEMENTI DEL SISTEMA


Per gli storici, a cambiare irreversibilmente l’Occidente nei secoli successivi al Mille, furono i
progressi nei settori tessile, siderurgico, navale; e questo dato va certamente considerato anche
quando si procede, da archeologi, a ragionare dell’innovazione tecnica riscontrabile in altri campi.
Lo sviluppo siderurgico offrì difatti strumenti efficaci e in quantità che, forse, in precedenza non
erano note, mentre gli sviluppi dei settori tessile e navale, sostennero i commerci e portarono
al progressivo accrescersi delle logiche di mercato non più su scala regionale, ma mediterranea
e europea.
A questo punto, tenendo in valore la fitta trama di questioni che caratterizza le evidenze ar-
cheologiche, la seconda parte del presente contributo, intende soffermarsi su quelle che ne sono
le specificità: prima fra tutte l’essere i reperti – in quanto manufatti – oggetti che ‘inglobano’ un
sapere tecnico specifico. Ciò ovviamente apre, ben aldilà del rapporto fra tecnica ed economia,
al rapporto fra tecnica e scienza, fra il lavoro che si faceva e la percezione che se ne aveva, fra
conservatorismo e innovazioni, fra singola tecnica e sistema tecnico complessivo.
TECNOLOGIE MEDIEVALI E RICERCA ARCHEOLOGICA 53

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Fig. 1 – Sistema tecnico e tecnocomplesso. Fig. 2 – L’esempio della staffa.

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Fig. 3 – Il macchinismo: modi di applicazione del Fig. 4 – Il macchinismo: raffigurazione di una sega
moto circolare e tipologie di impianti. idraulica dall’opera di Villard de Honnecourt (da
BECHMANN 1993 modificata rendendo evidente l’ap-
plicazione delle forze).

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Fig. 5 – Il macchinismo: le ‘parole chiave’ di Ber- Fig. 6 – Raffigurazioni di arcolaio da GILLE 1985.
trand Gille.
54 ENRICO GIANNICHEDDA

Ceramica, vetro, pietra e metalli sono i materiali su cui maggiori sono i dati a disposizione e
ciò rende possibile rilevare come, nell’ultimo trentennio, il progresso delle conoscenze archeolo-
giche sia dipeso dalla messa in valore di alcuni elementi: certamente un più attento scavo dei siti
produttivi, ma in misura ancora più estesa il sapere riconoscere correttamente gli indicatori della
produzione sia quando si configurano nella forma di scarti e semilavorati, sia nel caso di tracce
riconoscibili sui prodotti finiti. Nel fare questo non si può dimenticare il contributo derivante da
ricerche archeometriche che, spesso, rischia però di essere sovrastimato ben aldilà dei risultati
che lo stesso può concorrere a ottenere.
Nell’organizzare il presente contributo ragioni di tempo e di opportunità mi hanno convinto
a discutere solo di alcuni dei principali indicatori di produzione escludendo dalla trattazione i
semilavorati, le tracce nella stratificazione, gli oggetti d’uso non professionale2. Le prime due
categorie di indicatori se contestualizzati presentano problemi e opportunità di studio che sono
difatti riconducibili alle categorie di cui dirò, mentre gli oggetti della vita quotidiana imporrebbero
di affrontare questioni differenti e condurrebbero troppo lontano. Di seguito, non si accennerà
neppure alle materie prime, anche se le questioni dell’approvvigionamento delle stesse sono
spesso d’importanza fondamentale. In molti casi gli storici hanno ipotizzato che, per gran parte
del Medioevo, le cave solo raramente si configurassero come imprese economiche continuative,
essendo invece aperte e utilizzate solo nell’occasione di determinati lavori. Questa poteva essere
la situazione caratteristica dell’edilizia, e, in qualche caso da verificare, anche delle attività estrat-
tive finalizzate alla metallurgia, ma, più che per altre attività, non è possibile generalizzare e, ad
esempio, l’estrazione di pietre utilizzate per fare manufatti dovette avere storie diversissime a
seconda delle aree e degli stessi materiali. Nel caso delle cave di pietra ollare si ipotizzano lavo-
razioni stagionali condotte per secoli da gruppi di artigiani specializzati aventi un’organizzazione
di cui si sa ancora poco ma che certamente non era né occasionale né limitata a scelte di singoli
gruppi familiari.

2.1 Impianti fissi


Negli ultimi vent’anni l’indagine archeologica di molteplici siti produttivi sembra avere portato
a un progresso delle conoscenze diseguale a seconda del tipo di attività indagata. Ancor prima
di accennare ai problemi caratteristici delle diverse produzioni, si deve notare che, quasi a smen-
tire le spinte verso l’iperspecializzazione in archeologia, in molti siti si è riscontrato non essersi
avuta una sola attività. Nonostante ciò in più casi sembra essere ancora prevalente l’abitudine
a concentrare l’attenzione su alcune evidenze a scapito di altre. Le fornaci per le arti del fuoco
sembrano essere il più ambito oggetto del desiderio, ma ciò che se ne è finora ricavato è piuttosto
vario e non sempre soddisfacente.
Considerando i soli impianti produttivi, per quanto attiene alle produzioni ceramiche sembra
possibile sostenere che il quadro si è sostanzialmente complicato e mentre si nota per tutto il pe-
riodo il sopravvivere di impianti semplici, a catasta o a camere sovrapposte, si hanno una pluralità
di attestazioni, almeno per i secoli a partire dal dodicesimo, di soluzioni diverse e più diffuse di
quanto si credeva in passato; un esempio ne sono le fornaci cosiddette a barre e il doversi spesso
supporre l’uso di soluzioni di carico della fornace differenti anche all’interno del medesimo sito
e periodo. Per il tardomedioevo, la costituzione di centri produttivi poi sopravvissuti nei periodi
successivi, comporta spesso la mancata conservazione dei primi impianti e lo studio delle tecniche
di cottura sembra possa essere in molti casi meglio affrontabile guardando ai prodotti finiti e ad
altri indicatori, che non alle strutture da fuoco.
Nel caso della vetraria, benché esista un piccolo numero di raffigurazioni di impianti soprattutto
basso e tardomedievali, la ricerca archeologica, per quanto condotta a fondo solo in pochi ambiti
regionali, ha ottenuto di dimostrare come la realtà fosse più complessa di quanto prospettano le
fonti. Alla fornace meridionale a pianta rotonda e sviluppata su più piani si affiancavano difatti
fornaci di minore estensione destinate alle prime fasi di lavorazione e, in alcuni casi dal tardo-
medioevo, sono noti anche impianti specializzati solo nella preparazione della fritta.

2
In questa sede si adotta la classificazione degli indicatori di (metalli), Giannichedda (pietra ollare), Sergio Nepoti (tessile)
produzione proposta in MANNONI, GIANNICHEDDA 1996 a cui si in GIANNICHEDDA 2004. Per il vetro si veda anche STIAFFINI
rinvia. Oltre ai testi indicati relativamente a singoli materiali si 1999 e per il quadro delle ricerche nel mondo anglosassone
vedano i contributi di Maria Mendera (vetro), Marco Tizzoni BLAIR, RAMSEY 2001.
TECNOLOGIE MEDIEVALI E RICERCA ARCHEOLOGICA 55

Nel caso delle fornaci metallurgiche credo valga ancora la vecchia osservazione per cui spesso
informa più una scoria di una fornace e questo anche per la difficoltà ad indagare adeguatamente
impianti usati per lunghi periodi e molto differenziati: dall’arrostimento del minerale, alla ridu-
zione, alle seconde lavorazioni. In questo caso necessitano difatti competenze specialistiche sia per
affrontare la questione dal punto di vista macroscopico, per cui non basta parlare di arrossamenti
del terreno o presenza di concotti, sia dal punto di vista archeometrico. Alcuni progetti di ricerca
condotti nelle valli alpine da équipes comprendenti archeometallurgisti, sembrano ad esempio
comprovare un’intenzionale produzione di ghisa già dal V-VI secolo ben prima delle attestazioni
note alle fonti (cfr. CUCINI TIZZONI, TIZZONI 1999), mentre in più scavi si iniziano a riconoscere
gli indizi, spesso labili, di impianti di seconda lavorazione che potevano essere destinati alla
riparazione degli attrezzi in ferro impiegati in agricoltura e nell’edilizia o, in relazione a questa,
ad esempio al predisporre le strutture in piombo usate nelle vetrate.
Un caso particolare, ma di grande interesse è dato dalle strutture di una sola volta e in parti-
colare dalle fosse di gettata delle campane perché i due differenti metodi di preparazione delle
forme fusorie e di conduzione del processo che, come noto, sono riportati nei trattati tecnici di
Teofilo e Biringuccio, si è verificato essere confrontabili con quanto la ricerca archeologica porta
alla luce (NERI 2004). Come è ovvio l’archeologia mostra però una varietà di soluzioni molto più
estesa di quella restituita dai trattati e ha fra l’altro consentito di tratteggiare l’evolversi dei due
diversi processi di evoluzione tecnica. Grazie anche alle osservazioni condotte documentando
manifatture che si definiscono tradizionali e tuttora producono campane, lo studio delle fosse di
fusione si è difatti configurato come utile banco di prova per riflessioni ad ampio raggio, a partire
dai legami con la bronzistica classica, da un lato, e con le produzioni tardomedievali dall’altro.
In mezzo, sono noti maestri campanari che firmano porte bronzee, opere queste realizzate sia in
unica gettata sia in formelle, ed altri individui, appartenenti alla medesima categoria di artigiani,
che “gettavano” anche recipienti, parti di orologi, cannoni e altri manufatti. Un caso, quindi,
relativo ad un’attività svolta da pochi maestri specializzati che trasmettevano il proprio sapere
all’interno di gruppi ad attività itinerante riuscendo, altresí, a modificarlo a seconda della forma
e delle caratteristiche del prodotto richiesto (composizione della lega in relazione a fluidità di
colata, resistenza, sonorità, colore). Molti prodotti quindi per un solo mestiere di cui l’evidenza
migliore sono quasi sempre le fosse per campane. Questa è però un’archeologia a cui manca,
quasi sempre, il prodotto finito, spesso rifuso in antico, e che deve perciò basarsi su scavi accurati,
unico mezzo per contribuire a una più ampia comprensione della bronzistica medievale3.

2.2 Utensili
Gli attrezzi di base destinati alle principali attività artigianali, ma anche al lavoro dei campi o
alle attività genericamente rurali, restarono quasi sostanzialmente invariati per tutto il medioevo
e ciò a conferma del fatto che già dall’antichità si erano raggiunte forme ottimali. Solo in qualche
caso si introdussero innovazioni volte a una migliore resa del lavoro; ne sono esempi minuti, ma
significativi, la carriola ad una ruota inventata solo nel XIII secolo e la falce. È però il macchinismo
il segno distintivo del periodo. Macchinismo che da un lato significa impianti idraulici, sempre
inevitabilmente di una qualche complessità, e dall’altro può invece ritrovarsi in apparecchiature
semplici come l’arcolaio. Strumento questo che dagli inizi del XIV secolo sembra effettivamente
diffuso e portò alla quasi scomparsa delle fusaiole, l’indicatore di produzione per eccellenza dei
periodi precedenti. A proposito dell’arcolaio, le fonti ne ricordano il pregio di velocizzare il la-
voro e i difetti costituiti dai frequenti nodi che portarono a proibirne l’utilizzo così da garantire
la qualità del filato. Forse, con l’arcolaio, venne anche a costituirsi una posizione di lavoro fissa
che contribuiva a relegare la donna in casa (Fig. 6).
Proprio guardando al luogo del lavoro, fusaiola e arcolaio simboleggiano il modificarsi più
generale delle strutture del lavoro; dall’attività rurale accessoria svolta anche in stalle o all’aper-
to, alla specializzazione dipendente da un macchinario e caratteristica di uno specifico spazio
di attività. Il torcitoio da seta, per la qualità del materiale, segnerà ancor più questo distacco e
finirà con il configurarsi come attività svolta in appositi laboratori destinati esclusivamente alla
manifattura.
3
In particolare si vedano i contributi di diversi autori negli gnificati e prassi nell’uso delle campane dal Medioevo all’età mo-
atti del Convegno internazionale Dal fuoco all’aria. Tecniche si- derna, a cura di F. Redi e G. Petrella, Agnone 6-9 dicembre 2004.
56 ENRICO GIANNICHEDDA

Se poco può dirsi su cartoni e modelli, certamente utilizzati già in età precedenti e raramente
conservati, significativi di nuove forme di controllo della produzione sono i marchi di fabbrica e
la regolamentazione di quanto poteva essere immesso sul mercato. Una prova di come complessità
e standardizzazione siano collegate e determinino la creazione di attrezzi appositi sono, ad esem-
pio, le filigrane che distinguono provenienza e qualità della carta, i panni di paragon, che è noto
essere stati esposti nel XV secolo a Venezia in una “corte di paragon” come campionari, i pesi e
le misure tardomedievali delle Repubblica di Genova (Fig. 7). Utensili questi che, fatto singolare,
nascono per regolamentare e uniformare, ma proprio perché questa è un’esigenza extratecnica
sono fra i più mutevoli dovendo adeguarsi all’economia che cambia. Ovvia evidenza di ciò sono
anche i laterizi che, in più regioni, diminuirono di misura per tutto il medioevo.

2.3 Residui di lavorazione


Con questo termine si designa una classe di indicatori molto eterogenea che va dal vaso fes-
surato in cottura, alla goccia di vetro, alla scoria. Nel 1996 con T. Mannoni abbiamo ritenuto
di segnalare la frequenza con cui questi indicatori non vengono adeguatamente messi in valore
e questo ancor oggi va ben aldilà della caratterizzazione archeometrica dei singoli reperti. Quel
che necessita, e spesso non si riesce a fare, è, difatti, collocare questi indicatori di produzione
nell’ambito di circostanziate ricostruzioni dei cicli che tengano conto anche della possibilità di
scelte tecniche non sempre in apparenza razionali. Per fare questo occorre però valorizzare ogni
dato di contesto perché raramente un residuo di lavorazione, da solo, può essere chiarificatore
di un ciclo.
Per la ceramica quanto può ricavarsi dallo studio degli scarti di lavorazione è solitamente poca
cosa se non riconducibile a un contesto produttivo di cui siano noti altri elementi e in primo
luogo le strutture fisse e i prodotti finiti. Casi eccezionali, come ad esempio i pozzi riempiti di
scarti tardomedievali a Montelupo Fiorentino (VANNINI 1977), o il riuso di vasi difettosi nella
volta trecentesca del convento del Carmine a Siena (FRANCOVICH, VALENTI 2002), aprono però
una finestra importante, sia per la presenza di pezzi che definirei “eccezionalmente difettosi”,
veri capolavori se non d’imperizia perlomeno di eventi non programmati nella conduzione del
ciclo, sia per studi statistici difficili ma irrinunciabili per cogliere quale fosse la normale perizia,
il programma di lavoro, le scelte per ovviare a inconvenienti in corso d’opera.
In un caso semplice come quello dell’atelier di lavorazione della steatite di Bardi (GHIRETTI et
al. 1995) si sono peraltro dovuti raccogliere migliaia di scarti per ottenerne tre o quattro signi-
ficativi di alcune parti del processo altrimenti non rappresentate, come la finitura a mano libera
del disco rotondo, la successiva foratura in serie, il tipo di trapano utilizzato (Fig. 8).
Nel caso del vetro si segnala come più gruppi di studio, procedano insieme verso una carat-
terizzazione degli scarti di lavorazione in grado di valorizzare sia quanto descrivono le fonti sia
quanto si raccoglie nel terreno. Questo sempre nella logica del ciclo produttivo e riconoscendo
come lo stesso, aldilà del generalizzato passaggio da vetri sodici a vetri potassici, ipotizzato in
passato, si adeguasse localmente a materie prime diverse e fosse gestito con ripetute aggiunte di
correttivi chimici durante le diverse fasi della lavorazione. Gocce, colletti e ritagli vengono così
interpretati e distinti non solo sulla base di osservazioni macroscopiche, ma anche caratteriz-
zandoli archeometricamente con un approccio in microscopia elettronica che ha, fra l’altro, il
pregio di “leggere” le microstratigrafie presenti nelle masse vitree, erroneamente definite amorfe
e omogenee, e rinvia quindi immediatamente alle diverse sequenze tecniche (MENDERA et al. 2005,
GIANNICHEDDA et al. 2005).
Altro caso significativo è quello della pietra ollare il cui ciclo produttivo è stato ricostruito
a grandi linee oltre trent’anni fa distinguendo un periodo di escavazione a mano, la tornitura
di singoli lavezzi e, caratteristica del bassomedioevo, la tecnica cosiddetta “a cipolla”. Il senso
dell’evoluzione tecnica al proposito è chiaro, ma lo stesso non può dirsi delle motivazioni: forse
agirono le logiche macchiniste e mercantili del periodo, o le necessità del risparmiare materia
prima, il consentire un migliore stivaggio dei carichi, il soddisfare le esigenze del consumo o
quant’altro. Recenti ricerche hanno fra l’altro dimostrato come lo schema dicotomico, che di-
stingue una tecnica tardoantica e altomedievale da quella “a cipolla”, possa celare una qualche
variabilità regionale, di tempi e modi, e non soddisfi neppure a tutte le evidenze leggibili sugli
scarti di lavorazione noti. Scarti che al momento provengono però soltanto da ricognizioni di
TECNOLOGIE MEDIEVALI E RICERCA ARCHEOLOGICA 57

superficie in cui non possono escludersi frammistioni di materiali di periodi diversi. Un progetto
di ricerca che prevede lo scavo di siti produttivi è stato da più anni proposto alle competenti
autorità valdostane, ma devo ammettere che siamo ancora in attesa di una risposta definitiva e
non di pura cortesia (provvisoriamente un caso di grande interesse è brevemente descritto in
GIANNICHEDDA 2006).

2.4 Prodotti finiti


I secoli successivi al XII furono per molti aspetti caratterizzati dallo svilupparsi della domanda
di beni, in parte nuovi e in parte diffusi con un’ampiezza prima non conosciuta. A questi bisogni
la tecnica e il mondo della produzione sembrano avere risposto in modi diversi.
Un bisogno non fondamentale per il funzionamento dei contesti sociali è attestato, ad esem-
pio, dall’affermarsi di ceramiche da mensa e, addirittura, di interi servizi di ceramiche rivestite.
A ciò si rispose in modi diversi: adeguamento di vecchie tecnologie, importazione di materiali e
maestranze, scelte diverse da regione a regione.
Argomento di importanza fondamentale, e meno di altri dipendente da analisi archeometriche, è
certamente la messa in valore dei prodotti ceramici come indicatori delle tecniche e delle condizioni
di produzione medievali. Anche in questo caso intorno al XII secolo si pone una cesura netta fra
due momenti, il secondo dei quali segnato dall’introduzione di tecniche nuove e, in particolare,
dello smalto stannifero. Insieme all’uso di ingobbi stesi appositamente per coprirli con vetrina, lo
smalto indizia di nuove tecniche che, non solo rivoluzionarono il lavoro in bottega, ma portarono
al diffondersi di nuove forme funzionali che finiranno con l’alterare gli stessi modi di presentare e
consumare il cibo. Nella preparazione dello stesso il persistere di tradizioni spesso locali e legate
alle risorse, rese invece più lento il modificarsi delle forme da fuoco che, solo a partire dal XII
secolo, divennero costantemente invetriate. Nel corso del medioevo a grandissime linee si ebbe
un generalizzato modificarsi della struttura del mercato; fin verso il XII secolo prevalenti erano
le forme chiuse, sia destinate agli usi da fuoco che da acqua, mentre poi si fanno preponderanti
le forme aperte. Per il commercio sembra adottabile lo schema proposto da Peacock con, fino al
XIII-XIV secolo, circuiti locali e la soltanto eccezionale importazione sovraregionale (ad esempio,
i bacini murati), mentre successivamente si ebbe lo sviluppo di centri produttivi che perdurano in
età moderna e sono resi possibili dall’organizzazione di commerci a media e lunga distanza, da
un diffondersi delle ceramiche di pregio rinascimentali, dal contrastare le importazioni spagnole
grazie a produzioni regionali.
Le questioni legate alle diverse provenienze delle tecniche di smaltatura e di copertura con
ingobbio e vetrina sono state ampiamente studiate, anche legandole a vicende storiche di differente
portata, dalla cristianizzazione della Spagna al commercio nel mediterraneo orientale, ma forse
si può riprendere l’argomento scomponendolo alla luce di quanto noto sui modi di trasmissione
del sapere tecnico. I nuovi prodotti, presto imitati dai vasai italiani, erano caratterizzati, oltre che
dal rivestimento, da nuove forme e originali motivi decorativi. Se le forme erano imitabili anche
solo prendendo spunto da prodotti d’importazione, rivestimenti e decori erano tecnicamente
realizzabili solo ricorrendo a nuove materie prime, gesti tecnici, attrezzature e sequenze di cot-
tura. Per ottenere questo necessitava un nuovo sapere tecnico ottenibile solo con il trasferimento
di maestri da un paese all’altro. I maestri vasai liguri e toscani, ad esempio, divennero perciò
apprendisti temporanei, ma con un proprio ruolo nell’orientare verso scelte che valorizzavano
le tradizioni locali. Tentativi ed errori dovettero quindi essere compiuti per la scelta delle terre
più idonee ai nuovi rivestimenti. Le differenze fra le protomaioliche liguri, siciliane e pugliesi
sembrano costituire un indizio di questo periodo di trasformazione poi normalizzatosi in differenti
e autonome tradizioni regionali.
Di questa storia sembrano ancora da valorizzare non tanto gli aspetti più appariscenti, di cui
molto si è detto, ma quelli minuti. Ad esempio, è abbastanza probabile e supportato da qualche
evidenza che i vasai adeguatisi ad un nuovo processo mantenessero nel svolgerlo tutto quanto era
tradizionale e tale da non compromettere il risultato. Una questione fondamentale è la qualità
delle argille disponibili nelle diverse aree e di quelle effettivamente usate. Nel bassomedioevo si
distinsero sistematicamente le argille adatte agli usi da fuoco da quelle impiegate per manufatti
rivestiti che, per vari motivi, richiedevano cotture a temperature più elevate e fornaci più com-
plesse di quanto, in precedenza, aveva caratterizzato le produzioni altomedievali di gran parte
58 ENRICO GIANNICHEDDA

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Fig. 7 – Filigrana di Fabriano e misura da olio Fig. 8 – Scarti di lavorazione di steatite da Bardi
genovese. (PR).

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Fig. 9 – Esemplificazione di gesti elementari nel Fig. 10 – Dall’obiettivo intermedio di caratterizzazione


distacco della ceramica dal tornio (cortesia Lara dei materiali e dei cicli, allo studio del macchinismo e,
Comis). più in generale, la quantificazione della produzione,
il riconoscimento dei diversi gradi di specializzazione
artigianale, la valutazione dei fattori di standardizza-
zione dei prodotti e dei processi.

della penisola. Nel tornire manufatti destinati ad essere rivestiti non c’era motivo, ad esempio,
di modificare gli accorgimenti adottati per la centratura della massa d’argilla sul tornio o per
realizzare il piede. Si poteva quindi mantenere un proprio sapere gestuale celato e ininfluente
all’acquirente, ma riconoscibile all’archeologo. Un sapere consolidato in gesti elementari che
lasciano tracce importanti (quasi impronte digitali) perché inconsapevoli e, direi, di natura “mo-
relliana” (COMIS 2004 ripreso in GIANNICHEDDA 2006). Tracce analoghe, per natura, ai caratteri
distintivi messi recentemente in luce nello studio, ad esempio, delle produzioni di fibbie ageminate
longobarde (GIOSTRA 2000) (Fig. 9).
Nel caso del vetro la medesima esigenza di maggiori beni di consumo, limitata però a un mi-
nor numero di persone prevalentemente concentrate nelle città, comportò lo svilupparsi della
produzione con nuove ricette. Queste non dipendevano però dall’affermarsi di gusti nuovi – in
apparenza i prodotti erano difatti sempre simili – ma dal non potere più dipendere dall’impor-
tazione di semilavorati e ceneri vegetali d’oltremare. Nel caso del ferro la richiesta di armi e
utensili necessari a sostenere le imprese militari e di dissodamento comportò spesso nuove attività
minerarie, o la ripresa di quelle antiche, che, dal XV secolo, si avvalsero, per pompe e mezzi di
sollevamento, dei progressi del macchinismo. Lo stesso avvenne per il rame da quando i cannoni
in bronzo iniziarono a diffondersi.
TECNOLOGIE MEDIEVALI E RICERCA ARCHEOLOGICA 59

Nel caso del vetro e dei metalli gli studi composizionali, per quanto importanti, non possono
essere disgiunti da quelli tipologici, basati quindi su forme e decori e caratteristici più che di sin-
goli ambiti territoriali di interi periodi. Nel caso dei metalli un problema di non facile soluzione
sembra determinato dalle leghe di rame che pongono problemi di identificazione e, addirittura,
denominazione. Le fonti posteriori al Mille dimostrano che gli artigiani distinguevano fra leghe
diverse a seconda degli impieghi: da vasellame, da campane, da cannoni. Significativo, forse più
di ogni altro, è però il termine mistura, che indica la consapevolezza di composizioni incerte,
conseguenza di riciclaggio e impossibilità del controllo qualitativo. Archeologicamente, se non si
ricorre ad analisi, resta quindi difficile andare oltre il separare generiche leghe bronzee di colore
rossiccio (Cu e Sn) dall’ottone che, intenzionalmente, contiene percentuali variabili di Zn e ha
colore più giallo. Non raro era comunque anche l’uso di aggiunte di Pb soprattutto in manufatti
non sottoposti a stress termici come, ad esempio, misure e mortai.
Nel settore tessile, afflitto dalla pochezza dei resti conservati, più che in ogni altro la questione
tecnica è fondamentalmente questione di materiali e quindi di risorse che portarono a specia-
lizzazioni regionali con aree deputate alla lana, al cotone, alla seta. Le produzioni si conoscono
comunque ben poco e importante è quindi sia la messa in valore degli indicatori relativi agli
impianti, come nel caso di alcuni lavori esemplari per la comprensione delle evidenze di telai e
torcitoi, sia il difficile tentativo di stabilire una corrispondenza fra elementi accessori dell’abbi-
gliamento (fibbie, spilloni, bottoni) e tipo e consistenza degli abiti.
Tenendo conto della grande importanza che ogni forma di riciclaggio doveva assumere nella
società medievale, la questione composizionale resta certamente fra quelle tecnicamente rilevanti,
ma probabilmente va affrontata, manufatto per manufatto, dopo la corretta ricostruzione del
ciclo che, nel caso dei metalli, spesso vede il succedersi di tecniche diverse soprattutto in oggetti
complessi dove possono aversi fusione, saldatura, incisioni, agemine, ma anche riparazioni o
modifiche compiute in momenti diversi.
Oltre al riciclaggio a complicare lo studio delle produzioni, e del loro modificarsi, in taluni casi
si dovrà anche tenere conto del già menzionato trasferimento degli artigiani tra regioni spesso
distanti. Questo in una società dove esistevano ancora difficoltà notevoli allo spostarsi dei beni
materiali e a muoversi potevano essere vere e proprie comunità armate del proprio sapere tecnico:
con modalità differenti fu questo il caso di vetrai altaresi, ferrieri lombardi, maestri comacini,
minatori tirolesi.

3. CONCLUSIONI
Per finire è forse utile interrogarsi sui modi con cui, in tempi ragionevoli, si possa giungere ad
una migliore conoscenza archeologica delle tecniche medievali. Diversamente da quanto si poteva
pensare in passato, la risposta credo non stia nell’archeometria, che risolve problemi specifici,
ma ottiene di fornire valide ricostruzioni storiche solo quando si confronta con dati più generali
ed incerti. Quello è semplicemente uno strumento, come il migliorare le procedure di scavo o
approfondire la caratterizzazione degli indicatori. Altre sono le vie che si possono seguire e fra
queste l’archeologia sperimentale, poco praticata ma in certi casi importante.
Una passa per il censimento territoriale degli impianti produttivi e quindi per una sorta di
carta archeologica delle produzioni ed ha il pregio di configurarsi anche come strumento di tutela
(LA SALVA 1996); un’altra mira all’individuazione e caratterizzazione delle produzioni iniziali nei
singoli centri e quindi persegue una storia delle invenzioni (o delle acquisizioni) e del diffondersi
delle innovazioni. Entrambe queste vie, per quanto utili e da non trascurare, hanno però un
difetto. Nell’impossibilità di estese ricognizioni territoriali dovuta a carenza di risorse, esse fini-
scono con il dipendere dalla casualità dei rinvenimenti e non da una progettazione realistica di
nuove ricerche. Allo stato attuale delle cose, distinguendo le specificità proprie dei diversi ambiti
produttivi, credo che la via maestra sia un’altra (Fig. 10).
Fatto salvo l’obiettivo intermedio, ma fondamentale di caratterizzazione dei siti e messa in
valore degli indicatori credo non si possa parlare di tecniche, e tanto più di produzione, senza
quantificarne i risultati. L’esempio particolarissimo di Bardi (GHIRETTI et al. 1995), dove fra X e
XI secolo furono prodotte migliaia di fusaiole o vaghi in pietra, pone prepotentemente in eviden-
za che se non si quantifica non si può capire. Le difficoltà a quantificare è notorio essere molte
– penso alla parzialità degli scavi, alla frammentazione dei reperti, alla loro periodizzazione, al
60 ENRICO GIANNICHEDDA

problema posto da residui stratigrafici e da antiche pratiche di riciclaggio – ma quantificare non


significa ricercare impossibili numeri esatti. Quasi sempre sarebbe un grandissimo risultato avere
un’idea dell’estensione di un fenomeno produttivo, del trend che lo stesso ha avuto nel tempo,
fino al numero di oggetti che si possono ipotizzare essere stati presenti, e in uso, in un’abitazione
di questo o quel secolo.
Quantificare significa creare approssimativi modelli di quale fu l’equipaggiamento materiale dei
diversi nuclei sociali e questo dato, apparentemente di consumo più che di produzione, potreb-
be informare sulle strutture del mercato, sul successo o meno di una tecnica, su storie regionali
diverse le une dalle altre, fino a cogliere i tempi con cui molte tecniche di prestigio divennero
comuni e, aspetto fondamentale, il valore economico delle diverse attività. Da questo, dipende-
va il ruolo sociale degli artigiani, ma anche le strategie di controllo esercitate dai detentori del
potere. Quantificare credo debba tentarsi non solo guardando alle evidenze aritmetiche che lo
scavo propone (numero e peso reperti, ad esempio) ma valorizzando i dati di contesto e quindi
quanto ricavabile dal dimensionamento delle strutture, dalla standardizzazione degli utensili, dalla
quantità degli scarti di lavorazione, dalle carte di distribuzione dei prodotti finiti.
Per problemi non dipendenti dalla volontà degli archeologi gli scavi quasi mai informano
dell’organizzazione sociale interna alla bottega (numero e qualità degli addetti fra cui, spesso,
si possono ipotizzare maestri, apprendisti, lavoranti sia esterni che interni al nucleo familiare)
e, in molti casi, è perfino difficile accertare la dipendenza di una data lavorazione da forme di
gestione signorile di cui sono esempio fornaci, vetrerie e forge ubicate presso castelli o monasteri.
Con ogni probabilità l’artigiano indipendente è quello che maggiormente sfugge all’archeologo;
forse lo erano, in Liguria, gli addetti alle cosiddette vetrerie forestali in un primo periodo, ma
poi caddero, o si riorganizzarono, in situazioni controllate e dipendenti dalle commissioni della
Repubblica. Certamente nel medesimo periodo, XIII-XIV secolo, erano soggetti a un duro sistema
feudale i ferrieri, i carbonai, i trasportatori. Diversa poteva, invece, essere la situazione dei vasai
per la minore importanza sociale della produzione. Questo è ciò che dicono le fonti e che una
quantificazione delle produzioni potrebbe meglio aiutare a comprendere.
Oltre a quantificare necessita anche affrontare il problema, non disgiunto, della standardizza-
zione più o meno accentuata delle produzioni e della diversificazione dei caratteri accessori che,
fra l’altro, dal XIII secolo è legato anche al diffondersi del macchinismo (che significa maggior
ricorso a piombo, bronzo, ferro, legno, ma anche progettualità e impegno di risorse). Le fonti
possono apparire carenti, ma su questo tema gli archeologi credo possano contribuire più di altri,
ragionando a ricostruire non solo il diffondersi di mulini e impianti idraulici, ma anche affron-
tando il problema di quali macchine fossero impiegate nelle grandi costruzioni, quali servissero
all’assedio dei castelli, quali necessitassero per il carico delle merci arrivando, ad esempio, a
configurare gli spazi portuali e le stesse imbarcazioni.

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Monachesimo femminile nella Toscana occidentale:
il caso di S. Maria di Montescudaio

MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI

1. IL MONACHESIMO FEMMINILE NELLA TOSCANA OCCIDENTALE


Uno sguardo generale alle fasi del monachesimo toscano ci consente di vedere come, dopo i
primi esperimenti di vita religiosa maschile nelle isole del Tirreno (Capraia, Gorgona, Montecristo),
attestati dalla fine del IV secolo1 e sul Monte Pisano, noti dalla fine del VI2, una prima fioritura mo-
nastica si verificò nel corso dell’VIII secolo, cui possono essere fatte risalire le origini di diciassette
cenobi, sei dei quali femminili3. Di questi, due (S. Bartolomeo di Ripoli nella diocesi di Firenze e
S. Ponziano di Lucca) si trasformarono nei secoli successivi in maschili e di uno (Ss. Maria e Pietro
di Pisa) mancano notizie posteriori4. Al secolo IX e ai primi decenni del X appartengono solo sei
monasteri, due dei quali femminili5: anche in questo caso uno (S. Salvatore della Berardenga nella
diocesi di Arezzo) fu rifondato come maschile nel 10036.
A partire dall’ultimo trentennio del X secolo in Toscana, e più in generale nell’Italia centroset-
tentrionale, si verificò una vera esplosione monastica che, se pur con caratteri e scopi diversi, durò
fino al primo quarto del XII secolo, con quasi centoventi fondazioni o rifondazioni, registrando i
picchi maggiori nell’ultimo venticinquennio dell’XI secolo e nel primo quarto del successivo7. Gli
enti femminili tuttavia rimasero sempre in una proporzione piuttosto bassa, per un totale di ven-
tidue, con un picco di ben dieci, ossia poco meno della metà, nell’ultimo venticinquennio dell’XI
secolo (Fig. 1). La diffusione spaziale non fu tuttavia omogenea: un maggior numero di cenobi
femminili è presente nelle diocesi di Firenze8, Fiesole9, Pisa10 e Lucca11 in misura minore in quella
di Siena12, mentre Chiusi, Sovana e Grosseto non ne ebbero alcuno e Pistoia, Arezzo, Populonia
e Volterra uno solo ciascuna13. Si noti tuttavia che sia i cenobi maschili sia quelli femminili erano
prevalentemente caratterizzati da una popolazione piuttosto ristretta, da dieci a quindici unità, e il
relativamente esiguo numero di enti femminili fa capire come non si possa parlare di monacazioni
forzate, fenomeno inesistente nel Medioevo.

1
Cfr. SODI 2005. 8
S. Ambrogio di Firenze, noto dalla metà dell’XI secolo,
2
Cfr. CECCARELLI LEMUT 2005, p. 26. S. Felicita di Firenze, fondato dal vescovo Gherardo alla metà
3
Per non appesantire il testo, si danno qui solo i nomi dei dell’XI secolo, S. Pier Maggiore di Firenze, fondato dal ve-
cenobi con l’indicazione della diocesi medievale tra parentesi, scovo Pietro Mezzabarba nel 1067, S. Maria di Montignano,
rimandando per altre notizie a REPETTI 1833-1846, e a KEHR attestato dal 1084.
1908. I cenobi maschili erano S. Bartolomeo di Pistoia, S. 9
S. Ilario in Alfiano o S. Ellero, fondato dai conti Guidi
Salvatore in Agna o in Alina e S. Tomato sul Monte Albano alla fine del X secolo, S. Maria di Rosano, attestato dal 1034,
(Pistoia), S. Benedetto di Arezzo e S. Maria di Farneta (Arezzo), S. Martino di Maiano, testimoniato dal 1067, S. Maria di Ca-
S. Eugenio in Pilosiano o di Monastero (Siena), S. Antimo e vriglia, fondato da Berta figlia del conte Lotario dei Cadolingi
S. Salvatore del Monte Amiata (Chiusi), S. Pietro di Mon- e noto dal 1075, S. Maria in Colle, noto dal 1089.
teverdi (Populonia), S. Savino (Pisa), S. Pietro di Camaiore 10
S. Matteo di Pisa, fondato dai capostipiti della casata
(Lucca), quelli femminili S. Bartolomeo di Ripoli (Firenze), consolare dei Casapieri nel 1027, S. Paolo di Pugnano, fon-
Ss. Tommaso e Giorgio di Capraia (Pistoia), Ss. Maria e Pietro dato dai da Ripafratta nel 1086, S. Stefano ultra Auserem,
di Pisa, S. Ponziano, S. Salvatore Brisciano e S. Salvatore di testimoniato dal 1085.
Sesto (Lucca). 11
S. Martino di Gello presso Camaiore, che si ritiene
4
Per S. Ponziano cfr. SCHNEIDER 1975, pp. 309-312; per i fondato nel 1089, S. Frediano di Tolli, testimoniato dal 1091,
Ss. Maria e Pietro di Pisa CECCARELLI LEMUT 2005, pp. 7, 25. S. Maria di Pontetetto, fondato da un privato nel 1095, S.
5
Si tratta dei cenobi maschili di S. Michele di Passigna- Quirico in Casale, eretto alla fine dell’XI secolo.
no (Fiesole), Ss. Fiora e Lucilla di Torrita e S. Pietro d’Asso 12
S. Abbondio, noto dal 1095, S. Trinita e S. Ambrogio
(Arezzo), S. Pietro di Vada (Pisa), e di quelli femminili di di Montecelso, fondato dal vescovo Giovanni verso il 1063-
S. Mercuriale di Pistoia e S. Salvatore della Berardenga 1064.
(Arezzo). 13
Rispettivamente S. Desiderio di Pistoia, attestato dal
6
Su di esso e sulla casata fondatrice cfr. CAMMAROSANO 1105, S. Salvatore di Silvamunda, fondato da Griffo dei
1974. Rolandi/Ildebrandi della Verna intorno al 1000, S. Maria di
7
I dati sono ricavati da REPETTI 1833-1846, I, sub vocibus Asca, noto dal 1087, S. Maria di Montescudaio, fondato dai
abazia, abbadia, badia; KEHR 1908; cfr. anche KURZE 1973. conti Gherardeschi nel 1091.
64 MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI

È ben noto il ruolo che in questa fioritura monastica ebbero i vescovi delle singole diocesi, ma
soprattutto le casate laiche di vario livello, a partire dallo stesso marchese di Tuscia Ugo e sua madre
Willa nell’ultimo trentennio del X secolo, esempio seguito dalle stirpi comitali e da altre impor-
tanti famiglie, signorili ma anche cittadine. Da tempo gli studiosi hanno rilevato come, accanto a
reali e forti motivazioni di carattere religioso (beneficiare delle preghiere dei monaci e mantenersi
in contatto con una vita cristiana più pura), fossero presenti importanti aspetti di affermazione
sociale e politica e di coesione familiare delle casate fondatrici. In questo tipo di fondazioni man-
cava tuttavia ogni cosciente impulso riformatore ed esse rispondevano pure a tutta una serie di
precisi interessi politici ed economici. Per le casate laiche si trattava di monasteri privati, nucleo di
coordinazione di un ambito territoriale e punto di riferimento per larghi strati della società locale
– dai coloni che ne coltivavano i campi alle famiglie più cospicue che ne prendevano a livello le
terre o vi ponevano loro membri come monaci –, in grado di favorire il radicamento signorile dei
fondatori, in particolare di quelli che tendevano a rendere dinastici i loro poteri di origine pubblica,
come i casati comitali14, con un ruolo quindi non dissimile da quello dei castelli: il loro proliferare
rappresentava un fenomeno parallelo e complementare all’incastellamento.
Importanti impulsi riformatori comparvero sulla scena toscana nella prima metà dell’XI se-
colo, in particolare con i due importanti movimenti di riforma, facenti capo rispettivamente alle
fondazioni di Camaldoli15 e di Vallombrosa16, cui dalla metà del secolo si collegarono altri enti.
Essi tuttavia non si applicarono all’ambito femminile, salvo che nel caso di S. Pietro di Luco nel
Mugello, nella diocesi di Firenze, sorto nell’estate del 1086 presso il castello di Luco dall’azione
congiunta di Rodolfo, priore di Camaldoli, dei conti Guidi e della locale casata dei Gotizi17.
Se in generale dagli ultimi decenni dell’XI secolo prevalsero gli ideali riformatori, i cenobi
femminili allora fondati appaiono ancora legati al modello signorile dell’epoca precedente; ana-
logamente non si rifletté nell’ambito femminile il movimento cluniacense che nell’ultimo ven-
tennio dell’XI secolo rappresentò il fulcro organizzatore del partito gregoriano e riformatore18.
Si osservi per inciso che solo più tardi comparvero in Toscana congregazioni come i Benedettini
Pulsanesi, provenienti dal Gargano, dopo la metà del XII secolo19, i Cistercensi nel Duecento20
e i Certosini nel Trecento21. Il monachesimo che noi abbiamo di fronte, dunque, si configurò a
lungo costituito da cenobi autonomi, legati alla tradizione benedettina. Dobbiamo ad ogni modo
tenere sempre presente che la documentazione giunta sino a noi, sia scritta sia materiale, offre
una visione parziale della vita monastica, consentendo di cogliere prevalentemente gli aspetti
patrimoniali ed economici, e solo raramente e sporadicamente quelli culturali e religiosi.
Per quanto attiene alle fondazioni femminili anteriori al XII secolo, possiamo osservare nel
complesso alcuni elementi comuni: il forte vincolo con la casata fondatrice, dalla quale provenivano
pure monache e badesse, la vicinanza topografica a centri abitati più o meno consistenti, un ruolo
territoriale legato in particolare al possesso di molini o di frantoi, il mancato raggiungimento di
forme di esenzione dal potere d’ordine e di giurisdizione dell’ordinario diocesano. I monasteri
femminili infatti, anche se titolari di decime, di diritti di sepoltura e di patronato su altri edifici
sacri, rimasero di solito sottoposti ai vescovi locali.
In questo contesto, il caso dell’abbazia di S. Maria di Montescudaio appare esemplificativo
della generale situazione dei cenobi femminili della Toscana occidentale. Nelle diocesi di Pisa, di
Volterra e di Populonia-Massa Marittima nacquero prima della fine dell’XI secolo cinque mona-
steri femminili, tre nel Pisano e uno ciascuno negli altri ambiti (Fig. 2).
Il primo a comparire nelle fonti è S. Matteo, fondato il 18 maggio 1027 nel suburbio orientale
di Pisa, fuori della civitas altomedievale, dai coniugi Ildeberto detto Albizo della fu Ermengarda e
Teuta del fu Omicio, capostipiti dell’importante famiglia consolare dei Casapieri22. L’atto di fon-
dazione prevedeva un forte controllo della casata, alla quale era riservata la nomina della badessa,
scelta tra le monache del monastero. La documentazione attesta gli stretti legami tra i Casapieri e
la fondazione monastica, ove non fu infrequente la presenza di membri femminili della famiglia.

14
Cfr. su questi aspetti MICCOLI 1966; KURZE 1973; SERGI 19
Su questa congregazione si veda PANARELLI 1997.
1986, pp. 79-84; CECCARELLI LEMUT 2003 b. 20
Ad essi è dedicata una tesi di dottorato da me coordinata:
15
Su di esso cfr. ora VEDOVATO 1994. COLOMBINI 2004.
16
Cfr. L’Ordo Vallisumbrosae tra XII e XII secolo. 21
Sull’argomento sotto la mia direzione è in corso di elabo-
17
Su di esso cfr. FONTANI 1996-1997. razione una tesi di dottorato da parte di Gabriella Giuliani.
18
Cfr. a questo proposito L’Italia nel quadro della espan- 22
Sulle vicende del monastero cfr. VAGELLI 1992-1993,
sione europea del monachesimo cluniacense. sulla casata TICCIATI 1992.
MONACHESIMO FEMMINILE NELLA TOSCANA OCCIDENTALE: IL CASO DI S. MARIA DI MONTESCUDAIO 65

Fig.1 – I monasteri sorti in Toscana


tra l’VIII ed il XIII secolo.

Dal secondo decennio del XII secolo il cenobio promosse l’urbanizzazione dell’area circostante
attraverso il processo di quotizzazione dei terreni edificabili di sua proprietà, fenomeno accom-
pagnato dall’erezione di edifici per il culto e l’assistenza: le chiese di S. Barnaba, nota dal 1134,
di S. Luca, attestata dal 1156, e di S. Marco in Calcesana, consacrata dall’arcivescovo Baldovino
il 21 agosto 1139, cui era annessa una struttura ospedaliera dotata di diritti di sepoltura23. Chiesa
e ospedale, posti sull’importante asse viario che univa alla città l’area pedemontana sulla riva
destra dell’Arno, erano sotto il controllo (dominium) della badessa, cui spettava la scelta sia del
prete officiante la chiesa sia dello spedalingo.
Dal 1085 è noto un altro monastero suburbano, S. Stefano Oltrozzeri, a Nord della città, lungo
un percorso stradale che conduceva nel Valdiserchio. La perdita dell’archivio monastico impedisce
di conoscere l’epoca della sua nascita, i fondatori e i rapporti con il territorio circostante24.
Nel marzo dell’anno successivo i tre rami della casata dei da Ripafratta dettero origine a S. Paolo
di Pugnano, a non molta distanza dal castello eponimo della famiglia e non lontano dalla locale
pieve25. La nuova fondazione era destinata a rappresentare l’elemento unificante della stirpe di fronte
alla potenziale disgregazione della rete familiare e a svolgere, in quanto espressione e strumento del
radicamento territoriale, un ruolo importante all’interno di un ambito signorile in fase di avanzato
consolidamento; il cenobio, accogliendo diverse rappresentanti femminili della casata, facilitò da
parte dei fondatori l’esercizio di forme di controllo e il mantenimento di stretti rapporti, e inoltre
rappresentò una rilevante riserva di denaro liquido, funzione questa sovente assolta dagli enti
monastici. Negli atti di fondazione i da Ripafratta si riservarono un’indeterminata, e perciò tanto
maggiore e discrezionale, possibilità d’intervento nella scelta della badessa, eletta dalle monache
con il parere, certo vincolante e determinante, dei fondatori. Della dotazione del cenobio faceva
parte anche un molino nella contermine località di Lugnano. Il monastero ottenne il 18 novembre
1140 il riconoscimento, da parte dell’arcivescovo di Pisa, delle decime dei da Ripafratta e il 21
maggio 1141 il papa Innocenzo II prese il cenobio sotto la protezione apostolica e ne confermò
le proprietà e la libera elezione della badessa da parte delle monache, sottraendola in tal modo,
almeno formalmente, al controllo dei fondatori e patroni, riconobbe infine al monastero i diritti di
sepoltura, una concessione molto ambita, portatrice d’indubbi vantaggi economici, consistenti nei
lasciti testamentari e nelle offerte in occasione del funerale e delle messe in suffragio26.
Al 21 febbraio 1087 risale la prima attestazione dell’abbazia di S. Maria di Asca, nella diocesi
di Populonia-Massa Marittima, il cui ricordo permane nel toponimo Badia, 4 km e mezzo a Nord

23
Sul processo di urbanizzazione cfr. GARZELLA 1990, pp. 26
Il privilegio fu confermato dai pontefici Adriano IV il 17
133-135. febbraio 1157 e Clemente III il 5 aprile 1188. Elementi di no-
24
Cfr. MONETI AMICO 1975-1976. vità, relativi all’ingresso di nuove monache nella comunità e al
25
Sul cenobio cfr. FRIZZI 1992-1993. Un riesame delle vicende permesso di celebrare, in tempo d’interdetto generale, i divini
del monastero fino all’inizio del XV secolo e del ruolo signorile uffici a porte chiuse e senza il suono delle campane, compaiono
della casata fondatrice è in CECCARELLI LEMUT, GARZELLA c.s. nella bolla inviata il 17 aprile 1248 dal papa Innocenzo IV.
66 MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI

Fig. 2 – Localizzazione dei


monasteri benedettini fem-
minili fondati nella Toscana
occidentale anteriormente al
XIII secolo.

Ovest di Castagneto Carducci, presso il km 266 della SS 1 Aurelia. Di essa ci è pervenuto un


numero veramente esiguo di notizie, che tra la metà del Duecento e i primi decenni del Trecen-
to si riferiscono quasi esclusivamente a questioni inerenti l’elezione abbaziale. Non è pertanto
possibile dire niente di certo sull’origine e i fondatori di questo ente veramente enigmatico:
avevo ipoteticamente pensato ai conti Della Gherardesca27, ma una più approfondita riflessione
m’induce ad attribuire al cenobio, per la sua posizione lungo l’importante asse stradale romano
della via Aurelia, un’origine più remota, almeno del finire del X secolo, in un’epoca in cui un
ruolo dominante nell’area era rivestito dal monastero di S. Pietro di Palazzolo presso l’attuale
Monteverdi28.
L’ultima fondazione in ordine di tempo fu, nella diocesi di Volterra, S. Maria di Montescu-
daio, eretta il 3 ottobre 1091 dal conte Gherardo V della casata dei Gherardeschi. Il cenobio
sorse a breve distanza dalla località, incastellata, come le altre contermini, dalla stirpe comitale
che nell’area circostante il basso corso del fiume Cecina aveva dato vita ad uno dei propri più
rilevanti nuclei patrimoniali. Lì si concentrarono in particolare i possessi dei due rami, di Ugo I
e di Gherardo III, che sul finire dell’XI secolo legarono stabilmente le proprie sorti a quelle di
Pisa, ne divennero cittadini e, grazie a questa comunanza d’azione e d’intenti, mantennero un
forte vincolo familiare. Costoro assunsero nel Duecento il cognome Della Gherardesca e si de-
nominarono dai principali castelli maremmani, in cui esercitavano forme di signoria territoriale:
in particolare il ramo di Gherardo III si disse di Montescudaio ed è da essi che discendono gli
attuali conti Della Gherardesca29.

Cfr. CECCARELLI LEMUT 2003 a, pp. 44-45.


27 29
Su tutto questo cfr. CECCARELLI LEMUT 1995, pp. 189-
Su questo cenobio cfr. GIULIANI 1989-1990; sul suo ruolo
28
208, 223.
nel territorio vedi ora CECCARELLI LEMUT c.s.
MONACHESIMO FEMMINILE NELLA TOSCANA OCCIDENTALE: IL CASO DI S. MARIA DI MONTESCUDAIO 67

Il monastero di S. Maria rappresentò la terza istituzione monastica della casata, dopo le due
fondazioni maschili di S. Maria di Serena nel 1004 (presso Chiusdino, diocesi di Volterra)30 e di
S. Giustiniano di Falesia nel 1022 (presso Piombino, diocesi di Massa Marittima)31. Nell’atto di
fondazione Gherardo V si riservò uno stretto controllo sul cenobio: a lui e ai suoi discendenti
maschi legittimi erano attribuiti la protezione (mundium) del monastero e il consenso all’istitu-
zione canonica della badessa, la cui elezione sarebbe spettata alle monache. Era tuttavia previsto
l’intervento dei conti qualora le monache avessero indugiato troppo nel procedere alla nomina32.
Il cenobio presenta dunque caratteri simili a S. Matteo di Pisa e a S. Paolo di Pugnano, ma in
questo caso dobbiamo lamentare la perdita dell’archivio, di cui sono sopravvissuti 38 atti copiati
in un cartulario tardoduecentesco, ora conservato nell’Archivio Capitolare di Volterra, di difficile
accesso. Anche se la scarsa documentazione non offre informazioni sulla presenza di rappresentanti
femminili della casata fondatrice, cosa altamente probabile, possiamo tuttavia cogliere il ruolo
del cenobio come importante punto di forza della stirpe gherardesca, da cui l’abbazia ricevette
possessi e diritti, in particolare i frantoi delle olive, diritti di pascolo e il patronato sulla chiesa
di S. Andrea posta nel castello33.
La ricerca, di cui qui presentiamo i primi risultati, consente dunque di esaminare da vicino,
attraverso le fonti storiche ed archeologiche, le vicende di un ente che appare emblematico nel
panorama toscano. Dobbiamo per questo ringraziare l’attuale sindaco di Montescudaio, Aurelio
Pellegrini, già attivissimo assessore alla Cultura della Provincia di Pisa, con il quale alcuni colleghi
ed io avevamo da tempo iniziato una valida collaborazione, culminata nel 2003 nella grande mo-
stra dedicata a «Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici» che, sotto la
guida dell’indimenticabile Marco Tangheroni, coinvolse i più validi studiosi italiani e stranieri. La
preziosa esperienza allora maturata viene ora trasferita all’ambito spaziale della Maremma pisana,
un territorio che svolse un ruolo di primo piano nelle vicende della Repubblica marinara e con
essa mantenne sempre un legame privilegiato. È stato così che, dopo l’individuazione del sito del
monastero, abbandonato da quattro secoli ma il cui ricordo sopravviveva nella toponomastica,
il Comune di Montescudaio ne ha promosso lo scavo archeologico, iniziato nell’estate del 2005
sotto la direzione di Monica Baldassarri e di Marco Milanese. (M.L., C.L.)

2.1 IL PROGETTO DI LETTURA ARCHEOLOGICA DEL TERRITORIO DI MONTESCUDAIO


Montescudaio ed il territorio limitrofo costituiscono materia di grande interesse per approfon-
dire lo studio degli insediamenti medievali in questa parte della Tuscia e per seguirne le trasfor-
mazioni in Età moderna. Per tale motivo l’Università di Pisa34, in accordo con la Soprintendenza
ai Beni Archeologici della Toscana35 e con le Istituzioni Comunali, ha progettato e promosso una
serie di ricerche archivistiche ed archeologiche in quest’area36; queste ultime hanno previsto una
serie di interventi “sul campo” sia a carattere estensivo, sia come approfondimenti stratigrafici
in siti-campione.
Come prima fase del progetto archeologico è stata dunque effettuata una ricognizione di superficie
nel territorio comunale articolata in due successive campagne, con la quale si è cercato di verificare
sul terreno l’eventuale tipo di sopravvivenza corrispondente ai toponimi, ai siti e alle strutture
produttive individuate nei documenti, nella cartografia e nelle foto aeree. Infatti la lettura delle

30
Su di esso cfr. CECCARELLI LEMUT 1993. per la struttura dell’atto, tutti elementi che rimandano ad
31
Ad esso ho dedicato il volume CECCARELLI (LEMUT) 1972; un’epoca molto più tarda, almeno alla fine del XII secolo
ma cfr. anche CECCARELLI LEMUT 1996, pp. 28-33. o all’inizio del XIII. Il falso fu redatto per affermare diritti
32
Edd. MACCIONI 1771, pp. 17-19; RIGGIO 2006, n. 1 pp. 22- monastici contestati e infatti il 29 ottobre 1260 (ed. RIGGIO
28. Il documento si legge nel cartulario del monastero, redatto 2006, n. 3 pp. 32-39), in una ricognizione dei diritti e dei
alla fine del XIII secolo e conservato nell’Archivio Capitolare beni del cenobio, al monastero fu riconosciuta la proprietà
di Volterra; nell’Archivio di Stato di Firenze, Deposito Della di tutti i frantoi.
Gherardesca, si trovano un fascicolo della prima metà del XVIII 34
Gli insegnamenti di Esegesi delle Fonti per la Storia
secolo contenente questo (cc. 1-5) ed altri atti di quel cartulario Medievale (Prof.ssa Maria Luisa Ceccarelli Lemut) e di Ar-
(arm. G. XIII, n. 27, ora trascritto in RIGGIO 2006), un’altra cheologia Medievale (Prof. Marco Milanese).
copia settecentesca del nostro documento (arm. G. XIII, n. 26) 35
Rappresentata dalla Dott.sa Annamaria Esposito che qui
e un regesto e copia parziale, arm. A. IV, n. 2. si ringrazia per la cortese collaborazione.
33
Tali diritti appaiono donati da Gherardo V il 15 mag- 36
Oltre a Montescudaio, sono state già realizzate ricogni-
gio 1093 (edd. MACCIONI 1771, pp. 19-21; RIGGIO 2006, n. zioni nell’ambito del Comune di Guardistallo (coordinam.
8 pp. 58-63), ma si tratta di una palese falsificazione, sia scientifico di Monica Baldassarri e Gabriele Gattiglia) e sono
per la ben sviluppata ed assestata terminologia signorile, state raccolte le fonti d’archivio relativamente ad alcune zone
non riscontrabile in nessun altro documento dell’epoca, sia comprese nei limiti amministrativi di Riparbella e di Casale.
68 MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI

prese fotografiche, agevolata dal trattamento informatico delle immagini37, ha fornito la duplice
possibilità di approfondire la conoscenza indiretta delle aree da indagare e di integrarne l’elenco
con ulteriori zone che presentavano caratteristiche interessanti. Accanto a sopralluoghi puntuali,
per siti e toponimi definiti sulla base del lavoro archivistico, cartografico e fotografico, sono state
oggetto di analisi anche altre aree-campione nelle quali non erano state individuate tracce specifiche
di insediamento attraverso le altre fonti, o tramite geognostica.
Ogni zona è stata indagata e documentata sia per quanto riguarda le strutture ancora in elevato,
sia per quel che concerne la presenza in superficie di materiale archeologico, cercando di cogliere
i dati di interesse non solo circa gli insediamenti stabili, ma anche in riferimento alle tracce di
frequentazione saltuaria o sporadica delle campagne e dei boschi (transumanza, taglio della legna,
produzione del carbone etc.). In questo senso si è seguito l’approccio tipico della non site survey,
dove ogni unità di superficie individuata grazie alla presenza omogenea di reperti e resti strutturali
(Unità Topografica) è censita più oggettivamente possibile ed indipendentemente da ciò che essa
contiene e solo in seguito alla documentazione viene interpretata ed eventualmente caratterizzata
in siti o, meglio, in Unità Topologiche38.
Laddove possibile le aree sono state esaminate prendendo come riferimento i lotti catastali
attuali o i limiti, fisici e naturali, riscontrati sul terreno; questi sono stati, a loro volta, suddivisi
in strisce di uguale larghezza (da 5 m, o da 10 m a seconda dell’ampiezza del campo) percorse
ciascuna, in parallelo, da un archeologo (line walking). Soltanto in casi di eccezionale densità
e pezzatura di resti affioranti in superficie, dopo una prima rilevazione numerica per strisciate
omogenee, si è provveduto al rilievo di dettaglio e alla raccolta dei reperti riferendoli ad una
quadrettatura (analisi infra site). Pur essendo consapevoli del fatto che i materiali edilizi e gli altri
reperti visibili sulle interfacce superiori delle zone percorse possono essere stati dislocati anche di
molti metri dal luogo della loro giacitura primaria, questo sistema di conteggio è stato valutato
come efficace per ricostruire le dinamiche post-deposizionali che possono avere interessato il sito
e per riflettere in modo maggiormente controllabile, anche a posteriori, sulla possibile ubicazione
di un eventuale insediamento, sulla definizione dell’area di dispersione dei suoi materiali e di
altre evidenze connesse ad eventuali infrastrutture di collegamento39. La documentazione è stata
completata, infine, dal posizionamento della Unità Topografica, o della più ampia Unità Topo-
logica, sulla carta tecnica regionale in formato vettoriale grazie all’impostazione di una prima
piattaforma GIS.
Questo tipo di studio è stato finalizzato sia ad arricchire il quadro complessivo delle evidenze
archeologiche necessarie di tutela, sia a mirare più precisamente successive fasi della ricerca, avendo
già acquisito importanti conoscenze dal survey estensivo. In un secondo momento, infatti, hanno
avuto luogo alcune ricognizioni intensive in areali limitati che nella prima fase di ricognizione si
erano rivelati di particolare consistenza e/o interesse. Alcuni di questi, infine, a partire dall’area
del monastero di S. Maria40, sono stati scelti per diventare oggetto di saggi di scavo stratigrafico
e di studi più approfonditi.

2.2 IL QUADRO INSEDIATIVO TRA IL VII ED IL XIV SECOLO


I dati desunti dalla ricognizione di superficie del territorio comunale di Montescudaio hanno
confermato come le tracce dell’insediamento sparso medievale o dei siti anche nucleati alto-me-
dievali siano praticamente non visibili in un survey che non impieghi tecniche geognostiche e
non integri l’analisi con la realizzazione di piccoli carotaggi o saggi (shovel test). Neppure le zone
di Morazzano e di S. Perpetua, la cui frequentazione negli anni intorno al 1000 è attestata dalle
fonti scritte (il primo come castello, la seconda come chiesa)41, hanno restituito evidenze relative
a questo periodo. I siti riferibili al Medioevo ancora leggibili su tutta l’area comunale rimangono
per ciò soltanto quattro (Fig. 3): Castel Giustri, Montescudaio, S. Lucia e la Badia (monastero di
S. Maria), di cui si tratterà distintamente nel paragrafo successivo.

37
Realizzata da Marcello Cosci, che qui si coglie l’occasione illustrato in CAMBI, TERRENATO 19952, pp. 176-177, 184-187
per ringraziare. e bibliografia ivi citata.
38
RICCI 1983, pp. 495-506; CAMBI, TERRENATO 19952, pp. 40
Cfr. infra.
175-179; GATTIGLIA, STAGNO 2005, pp. 454-455. 41
CECCARELLI 1972, pp. 11, 92.
39
Su queste scelte per la ricognizione si veda quanto
MONACHESIMO FEMMINILE NELLA TOSCANA OCCIDENTALE: IL CASO DI S. MARIA DI MONTESCUDAIO 69

Castelgiustri (1020-XV sec.)


In prossimità del moderno toponimo Casalgiustri sono state rilevate le tracce di un insedia-
mento fortificato, identificato con il Casale Iustuli, Casaliusti/Casaliustri e anche Castello Iusti,
ricordato nelle fonti scritte fino dal 1020. L’indicazione più recente riguardante la vita di questo
sito è degli inizi del ‘400 quando il Comune di Firenze, al quale i conti della Gherardesca si erano
sottomessi, verifica la consistenza degli insediamenti dell’area e rileva che nella zona non esistevano
fortilizi42. L’indagine archeologica ha individuato nell’area sommitale del Poggio Castello diverse
concentrazioni di materiali edilizi (pietre sbozzate, laterizi e coppi), che sono state interpretate
come i resti, attualmente non meglio indagabili, di strutture edilizie sepolte, la cui presenza sembra
essere confermata anche dalla foto-interpretazione area. Gli scarsi frammenti ceramici recuperati
riconducono ad un generico orizzonte cronologico medievale. Ai piedi della collina oggi detta di
Poggio Castello è stato inoltre documentato uno spezzone di muratura a sacco, per la maggior
parte coperto dalla vegetazione boschiva, realizzato in pietre sbozzate e legato da malta di calce,
il quale è stato in parte coperto da un secondo paramento, addossato sul prospetto opposto al
colle, e in parte obliterato da un edificio postmedievale ad un unico piano, in relazione con il
vicino caseggiato rurale. La struttura e la tecnica costruttiva, tuttavia, farebbero interpretare
questa evidenza come relativa alla fortificazione dell’area nei secoli di mezzo.

Castello di Montescudaio (metà XII sec.-metà XIX sec.)


Del castello dei conti Gherardeschi in Montescudaio (prima attestazione in un documento au-
tentico della prima metà del XII secolo)43 attualmente resta visibile solo una porzione del cassero,
leggibile nei prospetto generale di un lungo muro di recinzione compreso tra l’Arena (il vecchio
teatro) ed il perimetrale orientale della attuale chiesa. Grazie allo studio archeologico di queste
architetture sono state poste in evidenza porzioni di muratura distinte in base alla differente tecnica
muraria. Nel prospetto generale nord, infatti, si passa dall’esclusivo utilizzo della pietra calcarea
organogena, cavata e ridotta in conci di forma quadrangolare e rettangolare allungata, posti in
opera su filari orizzontali, paralleli, di altezze differenti (più sottili nella parte inferiore) all’uso
di materiale cavato, di materiale di reimpiego e di laterizi spaccati usati per regolarizzare i filari,
in questo caso non sempre perfettamente orizzontali. L’analisi della distribuzione dei cantonali,
infine, ha permesso di evidenziarne due serie opposte che definiscono, all’interno dello sviluppo
totale del perimetrale moderno, i limiti originali di un edificio più antico dalla pianta rettangolare,
che può essere interpretato come una torre residenziale del XII secolo44.

Chiesa di S. Lucia (XII-fine XIX sec.)


La chiesa di S. Lucia sorge in aperta campagna un poco discosta dalla Strada Provinciale dei
tre Comuni, immediatamente fuori dal capoluogo di Montescudaio. L’edificio si presenta in una
facies per la maggior parte romanica (pieno XII secolo): l’abside è realizzata in conci di pietra di
piccole e medie dimensioni, squadrati e accuratamente spianati a punta singola, posti in opera
su filari orizzontali e paralleli di altezze differenti. In asse di simmetria centrale rispetto alla cur-
vatura dell’abside si apriva una monofora strombata verso l’esterno e attualmente tamponata. I
perimetrali nord e sud, strutturalmente legati ai cantonali dell’abside, sono invece realizzati in
bozzette di differenti litotipi, poste anch’esse in opera su filari suborizzontali e paralleli, di altezze
diverse. Il corpo di fabbrica ha subito un consistente intervento di restauro, probabilmente mirato
a risolvere il distacco tra la navata e l’abside; nello spigolo nord, infatti, si individua una struttura
muraria a scarpa addossata al prospetto, in corrispondenza di una ampia fessurazione verticale.
Questo potrebbe essere dunque il panorama insediativo nel quale si andò ad inserire il mona-
stero di S. Maria al momento della sua fondazione: sulle sommità collinari ad occidente dovevano
esistere già Castel Giustri, tra l’altro dotato di una pieve, e l’effimero castello di Morazzano, mentre
poco lontano, in basso, verso l’argine del Cecina si ergeva la piccola chiesa di S. Perpetua di cui
non è stata trovata ancora traccia. Dal documento relativo alla sua nascita si comprende inoltre
come il cenobio fosse stato localizzato laddove esisteva già un edificio di culto, probabilmente

42
IbId. 44
ANDREAZZOLI, BALDASSARRI 2006, pp. 82-83.
43
CECCARELLI LEMUT 1993, p. 62.
70 MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI

Fig. 3 – Gli insediamenti medievali localizzati nel Comune di Montescudaio e nel territorio ad esso limitrofo.

privato, ed in prossimità di una strada che collegava la dorsale collinare alle sue spalle con un
guado, o un ponte sul fiume. Soltanto con l’inoltrarsi del XII secolo fiorirono nuovi castelli sulle
sommità principali verso sud-est (Montescudaio e Guardistallo) e nacquero nuove cappelle di
privati ed ospedali posti lungo la viabilità di crinale che li raccordava (S. Lucia e lo scomparso
ospedale di S. Jacopo di Montescudaio).

2.3 LE PRIME INDAGINI ARCHEOLOGICHE PRESSO IL MONASTERO DI S. MARIA DI MONTESCUDAIO


Al momento del primo survey in corrispondenza del toponimo Case Badia sono state rilevate
una serie di Unità Topografiche costituite da concentrazioni di materiale ceramico, resti scheletrici
umani e lacerti di strutture murarie, lette come differenti indicatori della presenza del monastero
di S. Maria, fondato dai conti Gherardeschi nel 1091. Lo studio delle foto aeree disponibili per
questa zona, inoltre, ha permesso fin dalla fase iniziale della ricerca di individuare, in corrispon-
denza dell’area coperta dal bosco e al di sotto della zona a prato, una serie di anomalie con tutta
probabilità corrispondenti a setti murari sepolti45.
In seguito, avendo rinnovato l’indagine archeologica di superficie ad un livello più intensivo,
sono state documentate alcune significative differenze nella distribuzione dei frammenti ceramici
e dei resti di murature rinvenuti nell’area in questione. All’interno della zona boscosa concentra-
ta nel lotto catastale n. 98 e dislocata lungo il perimetro del n. 99 (Fig. 4) sono stati localizzati
spezzoni di strutture murarie legate con malta, realizzate in conci di arenaria riquadrata, attorno
ai quali sono stati rinvenuti consistenti accumuli di pietre e materiale fittile (mattoni e coppi)
accompagnati da rari frammenti ceramici.
All’esterno dell’area coperta dalla lecceta, seguendo l’andamento del pendio, sono stati distinti
diversi settori: nel primo, all’interno del lotto n. 99, sono stati ritrovati frammenti ceramici smaltati
(maioliche arcaiche trecentesche) e privi di rivestimento, così come nell’area a nord del lotto n.
98, dove però si sono presentati in associazione costante a resti scheletrici umani con un grado di
frammentazione piuttosto elevato. Nel settore contiguo, in direzione del pendio, i rinvenimenti
sono stati limitati a rari reperti ceramici, come nella fascia coltivata attigua al bosco verso est;
nel settore opposto, parallelo all’attuale viabilità, si sono inoltre ravvisate tracce di asportazione

45
ANDREAZZOLI, BALDASSARRI 2006, pp. 86-87.
MONACHESIMO FEMMINILE NELLA TOSCANA OCCIDENTALE: IL CASO DI S. MARIA DI MONTESCUDAIO 71

Fig. 4 – Planimetria catastale


dell’area della “Badia”, corrispon-
dente alla zona dell’intervento
archeologico (retinata in grigio).

del deposito archeologico, probabilmente per l’apertura o l’ampliamento della strada stessa, che
hanno messo in luce una sezione archeologica occasionale, sul fondo della quale sono state rilevate
tracce di strutture murarie in pietra sbozzata, conservate per un singolo filare.
Tali dati hanno consentito di orientare le scelte strategiche delle ricerche successive. Nell’at-
tuazione delle prime campagne di scavo infatti si è scelto di seguire un programma di intervento
finalizzato sia a recuperare gli elementi nodali per la definizione della planimetria e della topografia
interna del sito, sia a completare il più possibile la documentazione della sequenza stratigrafica
in approfondimento. Per tali motivi, dopo aver scavato i depositi più superficiali in alcuni saggi-
campione (sett. 2000, 1500) ed aver verificato la consistenza e la bassa qualità della stratificazione
postmedievale che copriva le creste delle murature medievali, si è optato per la rimozione degli
strati agricoli di età moderna con il mezzo meccanico, opportunamente controllato, fino a rag-
giungere i livelli di rasatura delle strutture del complesso monastico. Contemporaneamente sono
proseguite le operazioni di rimozione manuale dei depositi e di documentazione nei settori nei quali
erano stati già avviati gli scavi, oltre che sotto la piccola area boschiva, dove il mezzo meccanico
aveva minore possibilità di manovra. In base ai dati emersi è stato possibile distinguere alcuni
bacini stratigrafici differenziati relativi ai vani organizzati intorno al chiostro nelle aree 1500 (sett.
1500-1600, 1700, 1800, 1900) e 2000 (sett. 2000-2100, 2200, 2300, 2500), mentre nell’area
1000 si è potuto definire lo spazio occupato dall’aula e dal presbiterio dell’edificio ecclesiastico
e la zona cimiteriale ad essa esterna sul lato settentrionale (area 4000) (Fig. 5).
Questo ha permesso da un lato di confermare la ricostruzione della micro-topografia del mo-
nastero, e dall’altro di definire, sulla base di un campione sufficientemente ampio, la cronologia
assoluta e le dinamiche insediative delle fasi terminali di vita del sito.

L’area 1500: Settori 1500-1600, 1700, 1800, 190046


In questa zona, oltre allo spazio aperto del chiostro (sett. 1900), sono stati individuati:
– un corridoio coperto da tettoia o portico (sett. 1500-1600), che trova continuazione verso
ovest nell’area 2000;
– un vano rettangolare, che potrebbe corrispondere alla sala capitolare (sett. 1700);

46
Responsabili di area: Federico Andreazzoli, Marcella Giorgio.
72 MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI

Fig. 5 – Planimetria delle strutture del monastero di S. Maria in seguito all’ultima campagna di scavo.

– un altro ambiente (sett. 1800), la cui ampiezza rimane ancora da definire, visto che il perimetrale
sud si trova nella porzione della particella catastale rimasta ancora da scavare.
Nella passata campagna le indagini in approfondimento si sono concentrate soprattutto nel
settore 1500-1600, che si è rivelato essere un corridoio destinato ad ospitare sepolture al riparo
di una tettoia. Si tratta di sepolture di uomini, donne e bambini, sia in semplice fossa terragna, sia
in cassa litica, ascrivibili ad un arco cronologico compreso tra il XIV ed il XVI secolo, quando il
monastero viene abbandonato (Fig. 6). Oltre al recupero dei resti scheletrici umani da parte degli
antropologi dell’equipe, lo scavo ha restituito oggetti metallici relativi all’antico abbigliamento
(ganci, bottoni, fibbie in bronzo).

L’area 2000: settori 2000-2100, 2200, 2300, 250047


In questa area sono stati distinti diversi bacini stratigrafici, anch’essi organizzati intorno allo
spazio aperto del chiostro (sett. 2500) e corrispondenti a:
– il corridoio cimiteriale, in continuazione di quello del settore 1500 (sett. 2000-2100);
– un vano posto all’angolo NO del chiostro, destinato ad essere un magazzino nelle fasi di vita
due- e trecentesche del sito (sett. 2200);
– un ambiente posto immediatamente a meridione del precedente, nel quale si è giunti a mettere
in luce un potente strato di riempimento costituito da macerie e coppi di risulta dalle demolizioni
delle strutture (sett. 2300).
47
Responsabili di area: Sara Cucini, Michele Menchini, Irene Trombetta.
MONACHESIMO FEMMINILE NELLA TOSCANA OCCIDENTALE: IL CASO DI S. MARIA DI MONTESCUDAIO 73

Figg. 6 – Tombe in muratura rinvenute nell’area


1500-1600.

Fig. 7 – Sepolture in fossa terragna ubicate nell’area


cimiteriale sub-tecto (area 2000-2100).

Fig. 8 – L’ambiente parzialmente lastricato, proba- Fig. 9 – Particolare della navata all’articolazione con
bilmente adibito a magazzino, presso l’angolo NO il presbiterio alla fine della prima campagna di scavo
del chiostro (sett. 2200). (A= abside della chiesa originaria; B= pavimentazione
dell’edificio nel XII secolo; C= livello di calpestio
originario; D= rialzamento dell’area presbiteriale
realizzato nel XII secolo).
74 MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI

I settori in cui nella scorsa campagna si sono concentrate maggiormente le ricerche stratigrafiche
sono il 2000 e il 2200. Lo scavo del primo ha permesso di portare in luce una serie di sepolture
in fossa terragna, ascrivibili ad un arco cronologico compreso tra il XIII ed il XVI secolo (Fig. 7).
Nel secondo invece, rimossi gli strati maceriosi che in questo caso erano stati lasciati a riempire
l’ambiente fino alle rasature dei muri (fine XV-inzio XVI sec.), è apparso un vano lastricato nella
sua parte centrale, delimitato da una canaletta per il deflusso delle acque bianche a meridione e
caratterizzato da una grossa buca circolare presso l’angolo NE (Fig. 8). Dal riempimento di questo
taglio, realizzato per alloggiare un grande orcio interrato poi rimosso, proviene uno scarico di
materiali ceramici che ha contribuito a datare l’asportazione del recipiente al tardo XIV secolo.

L’area 1000: i settori 1000, 1500 e 400048


Lo scavo dell’area 1000 è stato reso più complesso dalla presenza di alberi di leccio e di alloro,
che la proprietà attuale del terreno ha voluto in buona parte conservare. È stato così realizzato
un saggio iniziale nella parte centro-orientale del lotto catastale n. 98, poi ampliato negli spazi
liberi da vegetazione verso est e verso nord, che ha permesso di:
– delimitare l’aula (unica) dell’edificio e di connotare la sua parte presbiteriale;
– acquisire i dati stratigrafici su un primo campione dell’area cimiteriale esterna ad esso verso
nord (a. 4000);
– identificare le murature caratteristiche della chiesa di primo impianto (X-XI secolo) sopravvissute
e riutilizzate negli ampliamenti posteriori.
All’interno della chiesa gli scavi si sono arrestati al livello del pavimento del XII secolo, realiz-
zato in fine cocciopesto, ad eccezione dello spazio interessato da due grandi buche di esplorazione
postmedievali che hanno costituito delle importanti finestre stratigrafiche sui piani di calpestio
dell’edificio originario e sui depositi ad esso preesistenti (Fig. 9).

2.4 LA SEQUENZA ARCHEOLOGICA PRELIMINARE ED I MATERIALI


In base ai dati raccolti in occasione dell’ultima campagna di indagine, in conseguenza del pri-
mo studio dei materiali portati in luce e dell’analisi preliminare delle tecniche murarie emerse,
è stato possibile definire la sequenza archeologica generale, le cui periodizzazione e cronologia
sono ovviamente provvisorie, soprattutto per quanto concerne le fasi più antiche di frequenta-
zione del sito.

PER. FASE Genere di attività e funzioni Cronologia


I 1 Uso agricolo dell’area XIX-XX sec.
I 2 Spoliazione delle strutture della chiesa ed obliterazione delle creste metà XIX sec. ca.
II 1-2 Spoliazione delle strutture del monastero, obliterazione delle creste, con uso residuo e saltuario XVI-XVII sec.
della chiesa e dell’area cimiteriale
III 1-2-3 Vita del cenobio al momento della sua massima espansione XIII-fine XV sec.
III 4-5 Ampliamento della chiesa e del cenobio e fasi di vita relative XII sec. inoltrato
IV 1-2 Fondazione del cenobio, adattamento della chiesa e costruzione dei primi edifici legati al monastero fine XI-inizi XII sec.
V 1 Uso della chiesa privata X-fine XI sec.

Tab. I – Periodizzazione preliminare della sequenza archeologica del sito.

L’abbandono del cenobio femminile sembra essere avvenuto progressivamente tra la fine del
XV e la fine del XVI secolo, quando cessano le tracce d’uso dei vani intorno al chiostro e dimi-
nuisce drasticamente la presenza del vasellame domestico nei depositi, cioè circa un secolo più
tardi di quanto citato dalle fonti scritte cinquecentesche. Probabilmente la chiesa e l’area cimite-
riale connessa restarono in funzione più a lungo, come testimoniano alcuni reperti devozionali
tardo-settecenteschi rinvenuti tra gli strati più superficiali e confermano alcune visite pastorali
di età moderna. Tra il pieno XIII ed il XV secolo il corridoio settentrionale fu usato come area
cimiteriale sub-tecto, mentre i vani immediatamente ad ovest e ad est di esso furono destinati
ad altre funzioni domestiche. La fonte archeologica sembra confermare che il monastero venne
fondato su una pre-esistente chiesa, di cui è necessario tuttavia chiarire ancora la data di edifica-
48
Responsabili di area: Federico Andreazzoli, Massimo Dadà.
MONACHESIMO FEMMINILE NELLA TOSCANA OCCIDENTALE: IL CASO DI S. MARIA DI MONTESCUDAIO 75

Fig. 10a – Maiolica di Monte-


lupo rinvenuta tra i materiali
che datano gli ultimi utilizzi
del chiostro (fine XV-inizi XVI
sec.).
Fig. 10b – Un graffito di rico-
noscimento sotto il piede di
una scodella graffita a stecca di
produzione pisana (XVI sec.).

a b

Fig. 12 – Anello in lega d’argen-


to con castone in pasta vitrea
da una delle ultime sepolture
inumate nel corridoio setten-
trionale (XVI sec.).

Fig. 11 – Crocetta devozionale


dalla stratificazione postmedie-
vale del sito (XVIII sec.).

zione. Questa nel corso del XII e XIII secolo subì modificazioni ed ampliamenti le cui dinamiche
e cronologie di dettaglio rimangono da definire con le future campagne di scavo.
Il materiale portato alla luce con la rimozione dei depositi è costituito in buona parte da due
classi di reperti: il vasellame ceramico in uso nel monastero (XII-XVI secolo), identificabile per-
ché usualmente contrassegnato con graffiti di riconoscimento realizzati “a cotto” (Fig. 10); i resti
scheletrici umani (laici: uomini, donne e bambini; forse un gruppo famigliare).
Sono stati rinvenuti inoltre piccoli oggetti in bronzo, sia di natura devozionale (croci, meda-
gliette: Fig. 11), sia di abbigliamento ed ornamento personale (bottoni, ganci ed asole in bronzo;
anelli in bronzo ed in argento con castoni in pasta vitrea: Fig. 12), accanto ad una decina di
monete medievali ed a resti di decori parietali (intonaci dipinti e frammenti di elementi lapidei
modanati). Dal punto di vista più generale il cenobio di S. Maria si è confermato come un buon
sito-campione sia sotto il profilo della qualità archeologica delle stratificazioni medievali, sia a
livello di leggibilità delle strutture, delle quali è stato possibile giungere ad una prima caratteriz-
zazione tecnologica nonostante le spoliazioni subite.
La sua rappresentatività in modo particolare è anche costituita dal fatto che è l’unico mona-
stero benedettino femminile, rurale e di dimensioni medie studiato sia sotto il profilo storico
che archeologico in tutta la Toscana. In questo senso i primi dati di scavo hanno rivelato già
delle forti analogie con insediamenti monastici e conventuali femminili di altre cronologie ed
altri ambiti, come la presenza di graffiti di proprietà sul vasellame49, ma anche alcune originalità

49
Si vedano tra gli altri GELICHI, LIBRENTI 2006 ed i nu- «Archeologia Postmedievale».
merosi contributi dedicati al tema nel numero 5 (2001) di
76 MARIA LUISA CECCARELLI LEMUT – MONICA BALDASSARRI

rispetto alla forma assunta dai vari ambienti dell’area claustrale ed alle funzioni da essi svolte,
come evidenziato per il corridoio settentrionale50. In questo caso il numero degli inumati già
individuati e documentati lascia pensare che la zona intorno agli edifici destinati ad accogliere le
monache sia stata utilizzata come area cimiteriale per l’intera comunità castellana, che trovava la
pieve di riferimento soltanto al di là del fiume Cecina nel territorio di Riparbella. Lo scavo di una
percentuale rappresentativa di queste sepolture per realizzare uno studio antropologico “a tutto
tondo” dei resti degli abitanti del castello di Montescudaio tra l’XI ed il XVI secolo costituisce
uno degli obiettivi della ricerca51.
La prosecuzione delle indagini contribuirà inoltre a definire le vicende del cenobio nei secoli
centrali del Medioevo, a caratterizzare più dettagliatamente l’edificio ecclesiastico pre-esistente
alla sua fondazione, e a rintracciare eventuali resti di un insediamento ad esso connesso, come
già denunciato da alcuni materiali ceramici altomedievali emersi come residui nelle stratificazioni
più recenti. (M.B.)

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lamento nella Toscana occidentale, in De re monastica. Committenza, scelte insediative e organizzazione

50
Cfr. ad esempio con altri monasteri maschili indagati CHI2006).
stratigraficamente in area pisana: San Michele alla Verruca L’équipe antropologica che collabora alla ricerca è coor-
51

(GELICHI, ALBERTI 2005), San Quirico (BELCARI, FARINELLI, dinata da Giuliana Pagni ed è costituita da Yuri Alese, Chiara
BIANCHI 2003), San Pietro di Monteverdi (FRANCOVICH, BIAN- Condoluci e Giuseppe Naponiello.
MONACHESIMO FEMMINILE NELLA TOSCANA OCCIDENTALE: IL CASO DI S. MARIA DI MONTESCUDAIO 77

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Note sulla viabilità medievale e le sue infrastrutture
(ponti e spedali) nel territorio fiorentino

RICCARDO CHELLINI

PREMESSA
In questo contributo cercherò di illustrare alcuni aspetti rilevanti della continuità, della crisi
e dell’innovazione della rete stradale antica in età medievale con particolare riguardo alla To-
scana e al territorio fiorentino. Per mezzo dell’indagine documentaria individuerò poi strutture
stradali salienti come ponti e spedali, mostrando come quelli documentati entro la prima metà
del XIII secolo si attestino con poche eccezioni su vie risalenti all’antichità. Accennerò infine ad
alcuni aspetti amministrativi della cosiddetta “rivoluzione stradale” del Duecento e descriverò
l’interessante caso di un ponte medievale, di cui resta il capitolato di appalto del 1293 e che fu
costruito lungo il percorso fiorentino della via Cassia.

1. CONTINUITÀ E INNOVAZIONE DELLA RETE STRADALE


Fra il IV secolo e l’età comunale, l’area dell’impero romano usufruì di una rete viaria dovuta
in gran parte agli sforzi dell’età precedente. Soprattutto i collegamenti fra centri urbani ebbero
una continuità, una longue durée, le cui interruzioni locali, per quanto consistenti, sono state
spesso enfatizzate onde accreditare il facile teorema di una regressione totale delle strade antiche
nei “secoli bui”1.
In alcune regioni gli eventi naturali e le vicende politiche altomedievali causarono variazioni
gerarchiche irreversibili alla rete stradale, ma nessuna compagine amministrativa fu in grado di
elaborare progetti organici, innovativi e consapevoli. La Tuscia fornisce un esempio ben noto
del cambiamento, forse unico nella sua portata, ma che soltanto un difetto di analisi ha finora
impedito di considerare sotto l’aspetto della continuità con l’età romana. In questa regione la
penetrazione longobarda legò tronchi di vie importanti a tratti di interesse locale, dando luogo a
quella che in età carolingia si chiamerà via Francisca, poi anche Romea o Francigena2.
La componente gota presente in Lucca, città che aveva resistito tre mesi a Narsete3, attirò il
re longobardo Alboino, che, alla testa di un coacervo di etnie germaniche, slave e sarmatiche,
dilagò in Italia settentrionale ed assediò Pavia per tre anni. Una parte di queste popolazioni sfon-
dò negli impervi passi montani della Garfagnana e si portò a Lucca, che divenne un caposaldo
strategico fondamentale, poi si spinse nella Tuscia centrale, occupando in breve tempo la zona
collinare intermedia fra la fascia costiera e l’Appennino, aree quest’ultime che i Bizantini riusci-
rono a mantenere più o meno a lungo4. La direttrice seguita dai Longobardi portava a Siena e
intercettava la via Cassia a Bolsena. Nel 641, quando Rotari conquistò la Liguria e la Lunigiana5,
i Longobardi si impadronirono del passo di Monte Bardone, l’odierna Cisa (q. 1039), sull’an-
tica via da Parma a Lucca, una strada fino allora controllata dalle milizie bizantine stanziate nel
territorio di Luni. Così nel 665 il re Grimoaldo poteva scendere in Tuscia per Alpem Bardonis,
ormai sguarnita da ogni controllo nemico, e tornare a valicare l’Appennino per attaccare alle
spalle l’ignara popolazione di Forlimpopoli nel giorno del Sabato santo6. La saldatura definitiva

* Abbreviazioni: ASF = Archivio di Stato di Firenze; s.c. esempio, DALL’AGLIO 2002, p. 73 e ss.
= stile comune. In assenza di specificazioni bibliografiche, la 2
PATITUCCI 2004, pp. 11, 13, 24, 47, 61.
notazione ASF, seguita dalla segnatura e dalla data della per- 3
Cfr. SCHNEIDER, p. 69, che cita Agath., Hist., I, 12-13 e
gamena tra parentesi, implica che l’atto pubblicato è inedito. Agnellus, Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis, c. 79.
Tutte le pergamene qui edite sono di dimensioni normali. 4
Paul. Diac., Hist. Lang., II, 26.
1
Contro la tesi, sostenuta per esempio da PALMIERI 1918, 5
Paul. Diac., Hist. Lang., IV, 45.
p. 9, che vede il Medioevo come un’epoca di rovina pressoché 6
Paul. Diac., Hist. Lang., V, 27.
totale della rete viaria realizzata dai Romani si pronuncia, per
80 RICCARDO CHELLINI

dell’asse viario che collegava Pavia, il porto di Luni e Lucca, e che proseguiva per Siena, Bolsena
e Roma, era un fatto compiuto.
I re longobardi cercarono di vitalizzare gli assi stradali appenninici di interesse strategico, fa-
vorendovi l’impianto di nuovi monasteri, allo scopo precipuo di controllare il fluttuante confine
con i Bizantini, i passi montani e le vie principali. Quando la Liguria era ancora in mano bizantina,
Agilulfo inviò l’irlandese Colombano a fondare Bobbio sulla via da Piacenza a Genova. Su invito
di Liutprando, il vescovo franco Moderanno fondò Berceto, sulla via del Monte Bardone. Fra
le innovazioni che investirono la rete stradale si può annoverare la fondazione del monastero di
Fanano e del relativo Ospitale più a monte, promossa nel 749 da Anselmo, cognato del re Astol-
fo, sulla via che sale da Modena al passo di Croce Arcana (q. 1715) e quindi dirama per Lucca
e Pistoia7. I Franchi, dal canto loro, si prepararono la via per l’Italia con Abbone, che fondò nel
726, l’abbazia benedettina di Novalesa sul versante italiano del Moncenisio, lungo l’antica strada
della Val di Susa (Segusio)8.
Le scarse notizie sulla cura delle strade italiane ricavabili dai Capituliaria carolingi, quello di
Pipino re d’Italia, datato fra il 782 e il 787, e quello di Lotario I ai messi regi nel febbraio 832,
suggeriscono che non si andò molto oltre la riparazione delle strade esistenti e dei ponti crollati,
e che per giunta le inadempienze erano frequenti9. In occasione delle loro spedizioni, imperatori
e sovrani erano soliti sollecitare operazioni di pulitura dalla vegetazione e di appianamento delle
strade, ma il successivo silenzio legislativo sembra indicare che la cura delle vie aveva ceduto il
passo a problemi ritenuti più urgenti. Soltanto nel XII secolo la documentazione imperiale mo-
stra un rinnovato interesse per le grandi vie di comunicazione. Nel 1111 i Torinesi ottengono la
concessione della publica strata che dalle ultramontanae partes attraversa la loro città e nel 1136
un privilegio di Lotario III agli stessi Torinesi stabilisce che strata penes ipsos sit nullusque alias
eam divertere audeat vel presumat, onde scoraggiare i tentativi di deviare il traffico proveniente
dalla Francia per esigere pedaggi. Nel 1154 i giuristi bolognesi riuniti alla dieta di Roncaglia ri-
vendicavano con maggior forza la strada alla sfera del diritto pubblico10 e con la pace di Costanza
(a. 1183) i Comuni lombardi si impegnavano a rifare strade e ponti a ogni passaggio dell’impe-
ratore11. Con ciò i Comuni erano chiamati a farsi carico della rete stradale nei loro territori e a
sviluppare competenze tecniche in un campo fino allora affidato all’iniziativa di ecclesiastici o
feudatari. L’espansione demografica, l’incremento del fabbisogno urbano di derrate, lo sviluppo
delle manifatture e l’intensificazione degli scambi commerciali furono i fattori economici con-
comitanti che stimolarono la “rivoluzione stradale del Dugento”, come la definì Johan Plesner,
durante la quale i Comuni curarono, con sempre maggiore impegno, le comunicazioni con le
città confinanti e la riappropriazione dei rispettivi territori.
Frattanto, nei secoli X e XI, si era avviato il capillare processo di incastellamento nel territorio:
i proprietari terrieri avevano costruito migliaia di nuovi insediamenti, occupando e rimodellando
un gran numero di alture atte al controllo, alla difesa e allo sfruttamento del territorio circostan-
te12. Dal punto di vista della viabilità, il fenomeno ebbe una rilevanza perlopiù locale.
Accrebbe la densità del popolamento e l’innervatura del reticolo viario, ma non modificò la
struttura macroscopica della rete stradale. Come la via longobarda del passo di Croce Arcana, le
nuove vie che raggiungevano questi insediamenti erano semplici sentieri, quasi mai carrabili. Vi
si poteva salire a piedi, a cavallo, o con somari muniti di basto o treggia13. Nel Medioevo, dove

7
DALL’AGLIO 1998, p. 93 ss. Per Bobbio vd. Paul. Diac., 11
SZABÒ 1992, pp. 40 ss.
Hist. Lang., IV, 41; per Berceto vd. Ib., VI, 58. Sui monasteri 12
Per la Toscana vd. FRANCOVICH, GINATEMPO (a cura di)
longobardi fondati lungo le strade vd. anche KURZE 1998, 2000. Non di rado i castelli medievali insistono su insedia-
p. 23 ss. menti preromani.
8
SERGI 1986, p. 36. 13
La prima via treggiaia documentata in Toscana si tro-
9
MGH, Capitularia regum Francorum, I, doc. 91, 4, p. 192 vava sotto Monte Morello nel piviere di Colonnata: Carte
(Pippini Italiae regis Capitulare): ut de restauratione ecclesia- canonica cattedrale Firenze, 4, p. 13 (868 marzo, Firenze): i
rum, vel pontes faciendum, aut stratas restaurandum omnino fratelli Adonaldo e Forteramo, figli del fu Agrafi, permutano dei
generaliter faciant sicut antiqua fuit consuetudo, et non ante- terreni fra loro, tra cui in pezzo di terra, quot est palaria, qui
ponatur emunitas; Ivi, II, 202, 13, p. 65 (Hlotarii Capitulare est posita in loco Monte Maurello, ubi et colle Daagio vocatur,
missorum): de viis et pontibus et ceteris excubiis ut inquirant, et plebe Sancti Martini sito Colomnata. Tamen decernimus terra
quae potuerint emendent, aut nobis quod invenerint renuntient. palaria ipsa: de unam parte decurrit eis via publica, de aliam
10
SZABÒ 1986, p. 78 ss. Il privilegio di Lotario III si legge parte de supto decurrit eis tregiaria, de tertiam parte decurrit
in Lotharii III diplomata, 106, p. 171 (1136, apud castellum eis rivo… REPETTI, V, p. 590 s.v. Treggiaia, cita testimonianze
Sancte Marie prope burgum Sancti Donnini). dal 980 per la località Treggiaia in Val d’Era.
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 81

Fig. 1 – Il territorio fio-


rentino: strade, ponti,
spedali. H = spedale;
P = ponte; + abbazia;
■ centro urbano sorto
in età medievale e data di
fondazione (f.), se nota.

le vie d’acqua non giungevano, o le strade antiche erano rovinate, gli animali da soma rimasero
il principale mezzo di trasporto delle merci.
Limitandoci alla più tarda situazione fiorentina del XIV secolo, che è ben documentata, le
testimonianze di traffico su carri riguardano in prevalenza le vie costruite dai Romani, l’Aretina
(Cassia), la Pisana (Quinctia), la Senese14, o certe vie della piana centuriale, per esempio quelle
che univano Campi Bisenzio alla via Cassia, a Firenze e al porto di Signa. La maggioranza dei
vetturali risiedeva infatti in centri disposti lungo le vie tracciate nell’antichità: sull’Aretina ad
Incisa, Figline e Montevarchi; sulla Senese a San Casciano e San Donato in Poggio; sulla Pisana
a Legnaia, Settimo, Gangalandi, Montelupo, Pontorme ed Empoli15.

14
Per la via Aretina vd. CHELLINI 2004. Per il primo tratto da insediamenti o centri di rilievo.
della via Senese vd. CHELLINI 2000. Per la via Pisana vd. MOSCA 15
Per i documenti relativi al traffico dei carri vd. DE LA
1992a e 1999, di cui però non condivido l’identificazione della RONCIÈRE 2005, p. 35 e ss. Per la carta di distribuzione dei
stazione in portu della Tabula Peutingeriana, IV, 2, presso la vetturali nel contado, nel periodo compreso fra il 1325 e il
fattoria di Scaletta a valle della stazione di San Miniato Basso 1375, vd. ID., p. 229. San Casciano è l’antica ad Decimum:
(EAD. 1999, p. 168): il toponimo è moderno e l’area è lontana CHELLINI 2000.
82 RICCARDO CHELLINI

Com’era accaduto in età longobarda con il monachesimo benedettino sostenuto da re e duchi,


nella seconda metà dell’XI secolo non tanto i proprietari incastellati, quanto i nuovi monasteri
benedettini riformati, cominciarono a riprendere il controllo della rete stradale, spesso in accordo
con i proprietari terrieri ed i grandi feudatari. Furono così stabilite, talora ristabilite, importanti
strutture ricettive lungo le principali vie antiche, riaprendo strade e valichi poco frequentati,
garantendo l’accesso a passi montani difficili e sfruttando selve e sorgenti fino allora intatte16.
L’ordine camaldolese ebbe maggiore importanza in territorio aretino17, mentre nel fiorentino fu-
rono i Vallombrosani, fautori di un ritorno alla purezza della Regula Benedicti, che contemplava
una precisa e severa normativa sull’ospitalità, a creare tutta una rete di strutture ricettive che nel
XII secolo si espanse anche in Italia settentrionale18.
Cominciò così, prima dell’ascesa dei Comuni, l’inversione di quella tendenza che dalla tarda
età imperiale aveva visto lentamente deteriorarsi il reticolo viario irradiante da Roma e dai singoli
municipi. I fattori di questa frammentazione erano stati insieme antropici e naturali.
La crisi economica e demografica aveva contratto l’insediamento urbano e rurale e le grandi vie
di comunicazione erano divenute veicolo di danno, più che di profitto, prima a causa delle scorrerie
ladronesche19, poi delle incursioni barbariche. La manutenzione delle strade era venuta gradual-
mente meno per l’abbandono delle aree da esse attraversate e la vegetazione incontrastata riassorbi-
va ciò che le era stato sottratto, soprattutto là dove i Romani avevano sfidato condizioni idrauliche
precarie in fondovalle, foci e litorali, o versanti montani poco compatti. Frane, avvallamenti, eson-
dazioni di fiumi, impaludamento, subsidenza, eustatismo e crescita incontrollata della vegetazione
dissiparono molti tratti di vie che i Romani avevano tracciato su suoli instabili, contribuendo al-
l’adozione di varianti che non di rado andavano a riattestarsi su percorsi di tradizione preromana20.

2. CRISI DELLE VIE ROMANE IN ETRURIA E VARIANTI DI ETÀ MEDIEVALE


Nella settima regione augustea la crisi sembra aver prima coinvolto la via costiera, detta Au-
relia, o anche Aemilia di Scauro. Fattori concomitanti furono lo scarso popolamento dell’Etruria
costiera fra Pisa e Centumcellae e lo sviluppo della malaria21. Già Plinio il Giovane notava: est
sane gravis et pestilens ora Tuscorum, quae per litus extenditur. La strada fu oggetto di restauro
sotto Antonino Pio, ma nel 417 d.C. Rutilio Namaziano tornò in Gallia via mare, sapendo che
i corsi d’acqua avevano invaso la strada in più punti e che molti ponti erano interrotti. Il poeta
accusava i Goti di Ataulfo, che nella loro recente incursione avevano saccheggiato e incendiato
gli insediamenti lungo la strada22. Quasi tre secoli dopo, nel 701, anche il vescovo franco Bonito

16
Mantiene intatta la sua validità il saggio di SETTIA 1996 de terra arativa infra plebe [Sancti St]ephani martiris Christi,
sull’Italia settentrionale, già pubblicato nel 1979, dove l’autore inter locum qui dicitur Rivus Sicco et loco Cerr[---]… Actum
rileva la funzione ‘stradale’ dei monaci e sfata l’inveterata in claustra de supradicto ospitale… Cfr. REPETTI, I, p. 200, s.v.
opinione che l’incastellamento in atto dal X secolo fosse in Badia di Vaiano, che cita donazioni per lo spedale di Pontec-
stretta relazione con il sistema viario. Vd. anche ID. 1999, p. 71 chio a partire dall’anno 1119. Nel 1146 il notabile torinese
ss., dove l’autore distingue i castelli di età romana, bizantina e Pietro Podisio mise a disposizione dei vallombrosani di San
longobarda, che ebbero per lo più funzione strategica, dall’in- Benedetto di Piacenza una domus fuori delle mura di Torino
castellamento più tardo, che ebbe come ruolo e scopo precipuo per istituirvi un hospitalis. Altri documenti di poco successivi
il controllo della produzione locale delle risorse. ci informano che lo spedale doveva provvedere alle naves ad
17
Lo spedale di Fonte Bona presso Camaldoli è documen- opus transeuntium flumen e che la struttura si trovava ultra
tato dal 1085: PIERI 1997, p. 44. fluvio Sture, iusta stratam de Septem: SERGI 1986, p. 42.
18
Vd. soprattutto le rubriche 53, De hospitibus suscipiendis, 19
Famosa è l’iscrizione CIL XI 6107 del 246 d.C., quando,
e 56, De mensa abbatis, che prescriveva all’abate di desinare per catturare dei grassatori attestati lungo la via Flaminia,
sempre con gli ospiti e gli stranieri. Lo spedale annesso all’ab- presso la gola del Furlo, fu addirittura scomodato un reparto
bazia di San Michele a Passignano, situata in pieno Chianti e della flotta ravennate.
in diocesi di Fiesole, è documentato diversi anni prima della 20
Per trattazioni puntuali sulla crisi delle vie romane
morte di Giovanni Gualberto, il santo fondatore dell’ordine († antiche vd. QUILICI 1999 ed ESCH 2000, che si integrano a
12 luglio 1073): ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele vicenda.
(1061 dicembre): Berardo e Rasimberto, figli del fu Rodolfo, 21
Vd. anche le mie considerazioni in CHELLINI 1997, p.
promettono a Leto, abate di Passignano, di non alienare, se non 390. In età imperiale chi scendeva a Roma sceglieva di regola
al monastero stesso, una parte di terra, poggio e selva posta in la via Flaminia, anche se proveniva dalle parti occidentali
luogo detto Meritulo e ricevono merito et launechild crosna de dell’impero. Lo testimoniano l’Itinerarium Gaditanum inciso
vulpe una. Actum intus castro de predicto loco Passiniano infra sui bicchieri di Vicarello (CIL XI 3281-84) e l’Itinerarium
casa ospitalis territurio Florentina. Uno dei primi spedali val- Burdigalense del pellegrino di Bordeaux che, tornando dalla
lombrosani in Italia settentrionale fu quello di Pontecchio, nella Terrasanta nel 334 d.C., si portò a Milano da Roma per le vie
valle del Reno bolognese: ASF, Diplomatico, Passignano, San Flaminia ed Emilia: cfr. UGGERI 2005, p. 165.
Michele (1112 aprile 18): i fratelli Telmo ed Alberto donano 22
Plin. Iun., Epist., V, 6, 2; CIL XI 6664 (142-143 d.C.):
al monastero di Vaiano ed al domino Alberto, abate eiusdem il miliario di Antonino Pio parla di via Aemilia; Rut. Nam.,
monasterii et osp[itali] q. vocatur de Ponticlo… turnaturias octo De red., I, 37-42.
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 83

evitò di percorrere la via Aurelia nel suo avventuroso pellegrinaggio ad apostolorum sacra limi-
na: valicate le Alpi presso il monastero di San Maurizio d’Agaune, Bonito raggiunse Ariberto in
Pavia, aiutandolo a liberarsi dall’assedio di Liutberto, poi valicò gli Appennini e s’imbarcò in un
porto non specificato della costa tirrenica, forse Luni, giungendo a Roma dopo una pericolosa
navigazione. Presa la via del ritorno sostò a Chiusi, dove fece numerose elemosine, ma la Vita
non specifica se abbia proseguito sulla Cassia verso Arezzo e Firenze, o se si sia portato a Siena
sulla futura via Francisca23.
Prove materiali della crisi della via Aurelia sono due interruzioni del percorso: un tratto co-
stiero fu assorbito dallo stagno litoraneo di Scarlino alimentato dal fiume Pecora e dal torrente
Riggiolato, dove defluivano le acque termali dei bagni di Gavorrano, mentre l’instabilità del basso
corso del fiume Cornia e la grande portata delle sorgenti termali di Caldana obliterarono un altro
segmento dell’Aurelia a Nord-Est di Piombino, l’antica Falesia. In entrambi i casi il percorso si
ritrasse più a monte, per aggirare le zone idraulicamente compromesse24.
Quanto al tracciato della via Cassia, alcuni punti depressi furono sommersi dalle acque del
Clanis, perché l’inumidimento del clima, la scarsa pendenza del vasto bacino della Chiana,
l’abbandono della manutenzione di fossi e canali, sempre più invasi dal limo, concorsero a im-
pedire il regolare deflusso delle acque verso la valle del Tevere25. Il Comune di Arezzo cercò di
sfruttare la situazione e, dopo il costoso rifacimento del ponte a Buriano nel 1277, realizzò nel
1278 le vie recte e il lago di Brolio, autorizzando gli affittuari ad esercitarvi lo ius piscandi fra il
primo maggio e il primo settembre con l’obbligo di vendere il pescato nella piazza del Comune
di Arezzo26, un lavoro che doveva essere assai poco salubre, se consideriamo le impressioni ri-
portate da Dante27. Non fu però la modesta opera del lago di Brolio, ben visibile con la sua diga
nelle mappe di Leonardo da Vinci, ad interrompere la via Cassia, ma l’allagamento naturale del
tratto di strada tra Foiano e Torrita, assai esteso nella stagione umida, evidente nella cartografia
del terzultimo decennio del XV secolo e, più in dettaglio, in quella realizzata da Leonardo da
Vinci dopo le ricognizioni del gennaio-febbraio 1503, quando l’artista era al servizio di Cesare
Borgia28. Il traffico di lunga percorrenza tornò quindi su suoli più stabili e percorsi più antichi,
come l’itinerario etrusco pedecollinare via Arezzo, Castiglione Aretino, Cortona, Perugia. Ciò

23
Vita Boniti, p. 131 s.; Bibliotheca Sanctorum, III, 1963, riporto i brani utili per la delimitazione del lago: il 10 aprile
col. 338. 1277, il podestà perfeziona l’acquisto omnium terrarum, silicet
24
Per le sorgenti termali di Gavorrano vd. CHELLINI 2002, pratorum et nemorum et terrarum laboratoriarum et totius lecti
p. 143 s. (4.35). Per il passaggio della via Emilia di Scauro aque et ipsius aque a loco qui dicitur Capanna Figuccii Grinte,
presso il Puntone di Scarlino vd. MARCACCINI, PETRINI 2000, a latere Castroncelli usque ad rectum collis Geriole, et ab alia
p. 36 fig. 2. Gli stessi autori riconoscono poi la difficoltà di parte aque a latere Broili in loco qui dicitur Gorga Guiringaczi
precisare il punto dove la via Aurelia attraversava la piana usque ad dictum collem… (204v). Altri appezzamenti acquistati
alluvionale del fiume Cornia (Ib., p. 45) e osservano che i dal Comune aretino si trovavano in loco dicto Castroncello,
viaggiatori medievali preferirono il percorso pedecollinare, ma cui ab una parte via Brulleise, et ab alia via de le Taxenaie et
danno più peso alla frammentazione politica tardomedievale ab alio aqua Clanis... (202v), supra via Aque Late iuxta aquam
e moderna che al disordine idraulico della piana (Ib., p. 38 qui dicitur Aque Late... (205r), in loco qui dicitur Bancherelle
ss.). Il torrente Milia, affluente del Cornia a diversi chilometri e in loco qui dicitur Valle Fellonica iuxta pratum Bancherelle...
dalla costa documentato dall’807, è forse un indizio dell’arre- (205v), in loco qui dicitur Vado iuxta silvam Castillionis, a
tramento della via Emilia di Scauro nell’alto medioevo dalla duabus partibus et a capite sunt Clanes... (206r), in loco dicto
piana di foce all’unghia dei colli, a meno che non si tratti di Valle Felonica versus Castroncellum...
un diverticolo interno: CHELLINI 1999, p. 162 s. 27
Dante, Inf. XXIX, 46-51: «Qual dolor fora, se de li spe-
25
CHERICI 2004, pp. 26 e 28. Cfr. Dante, che dopo aver dali / di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre / e di Maremma
descritto la visione delle due corone di beati, la dichiara e di Sardigna i mali / fossero in una fossa tutti ’nsembre, / tal
talmente distante dalle possibilità dell’esperienza sensibile, era quivi, e tal puzzo n’usciva / qual suol venir de le marcite
quanto la velocità del Primo Mobile può paragonarsi alla membre». Dante soggiornò ad Arezzo probabilmente fra il
lentezza della Chiana: Par. XIII, 22-24: …poi ch’è tanto di maggio e l’agosto 1304: cfr. PETROCCHI 1983, p. 96.
là da nostra usanza, / quanto di là dal mover de la Chiana / si 28
Per la situazione idrografica della Valdichiana al tramonto
move il ciel che tutti li altri avanza. del Medioevo vd. l’abbozzo di carta d’Italia alla Biblioteca
26
Annales Arretinorum maiores, p. 9: 1278… Tunc fuit Nazionale di Berlino, cod. Hamilton 108 (prima metà XV
factus noster lacus et vie recte et palatium populi. ASF, Capitoli, secolo), L’«Italia novela» nel cod. Parig. lat. 4802, attribuita
Registri, 24, ff. 212v-213v, edito in Documenti Arezzo, II, 653, al fiorentino Pietro del Massaio (1456), e la carta d’Italia
p. 445 (1279 ottobre 3): il consiglio del comune di Arezzo conservata nella Biblioteca Nazionale di Firenze, XIII, 16,
approva le convenzioni con gli affittuari del lacus communis firmata Henricus Martellus germanus: ALMAGIÀ 1929, tavv.
Aretii qui est in Broilo e stabilisce in primis… quod emptor VII, 1; IX, 1 e X; ID. 1960, p. 5, tav. III. Il lago di Brolio e
usus piscandi lacus debeat manutenere lacum in bono statu, l’interruzione della via Cassia sono ben visibili nelle mappe di
et arginem sive clusam, et sciaquatorium, pontem, et arbores Leonardo, Windsor, Royal Library, 12682, 12277 e 12278,
dicti lacus existentes circa arginem dicti lacus, et domum que ora edite in STARNAZZI 2003, p. 72 s., figg. alle pp. 43, 91-92
fieri debet pro comuni apud ipsum lacum… Il comune di e 63; una buona riproduzione della splendida 12278 si trova
Arezzo acquistò i terreni da allagare fra il 10 aprile 1277 e il in copertina. Per la datazione delle mappe leonardesche cfr.
17 dicembre 1279; tutti gli atti di questa operazione furono CHELLINI 2004, p. 170 s., n. 155.
copiati in ASF, Capitoli, Registri, 24, ff. 201r-214r, da cui
84 RICCARDO CHELLINI

contribuì a determinare l’isolamento e la decadenza dell’antica città di Chiusi, che in età tardoantica
e longobarda aveva mantenuto la sua importanza di centro lungo la via Cassia, ma che nel tardo
Medioevo era ormai considerata un piccolo centro29.

3. I PONTI PIÙ ANTICHI NEL TERRITORIO FIORENTINO


La scarsezza di documenti giuridici riguardanti la realizzazione di ponti prima del XIII seco-
lo non implica che l’uomo medievale sia stato inerte in questo ambito costruttivo. L’agiografia
concorre talvolta ad integrare un quadro lacunoso. Ricorderò il ponte sul fiume Segre, da cui
precipitò nel 1035 il vescovo della città pirenaica di Urgel, Ermengol, che ne dirigeva la costruzio-
ne30, il ponte sull’Isère a Grenoble, voluto dal vescovo Ugo († 1132)31, il ponte sull’Arno voluto
da sant’Allucio, frate ospedaliere originario di Pescia († 1134)32, e infine il ponte sul Rodano ad
Avignone, promosso nel 1177 dal giovanissimo pastore Bénézet, ma non ancora compiuto nel
1184, anno della sua morte33. L’impresa non rimase isolata nell’area, perché anche Lione si dotò
di un ponte nel 118334. Il racconto di Bénézet, che porta sulle spalle fino al Rodano l’enorme
prima pietra del ponte di Avignone, deriva forse anche dall’esigenza di spiegare la presenza di
resti murari appartenuti alla pila di un precedente ponte di età romana35.
Quando i ponti antichi crollavano sotto l’impeto dei fiumi, l’importanza di una strada spin-
geva a ripararli o a ricostruirli. Un’età tecnicamente povera come quella altomedioevale utilizzò
materiali deperibili, come corde, legname e ferramenta, ma dal XII secolo molti centri urbani in
ascesa cominciarono a costruire ponti in muratura, prima dove l’espansione urbana lo richiedeva,
più tardi lungo le vie di approvvigionamento che convergevano in città dal territorio.
La preminenza politica di Lucca nell’alto Medioevo fa sì che i documenti citino alcuni ponti
nel suo territorio già dall’VIII secolo. In area fiorentina invece le notizie sull’esistenza di questo
tipo di manufatti datano soltanto dall’XI secolo36.
Tranne qualche rara eccezione, i ponti del contado fiorentino anteriori alla metà del Duecen-
to, menzionati nei documenti e nelle cronache medievali, servivano vie risalenti all’antichità e
sostituivano precedenti strutture consimili.
Sulla via Cassia fra Firenze e Pistoia, il Ponte Petrino è documentato nel 1038. Secondo il
Repetti, superava il fosso di Santa Cristina, un esile affluente del Bisenzio, ma è più probabile che
attraversasse il Bisenzio, dove questo si accosta ai piedi del monte, formando una leggera ansa e
favorendo una fondazione sicura alla spalla settentrionale37. Di fronte al borgo di Prato, il ponte
sul Bisenzio che sarà poi detto a Mercatale è invece attestato nei documenti dal 110038.

29
Cfr. Dante, Par. XVI, 73-78: «se tu riguardi Luni ed 1099-1100, secondo il quale la Vita di Bénézet risalirebbe alla
Orbisaglia / come sono ite, e come se ne vanno / di retro ad fine del XIII secolo; WALTER 2006.
esse Chiusi e Sinigaglia, / udir come le schiatte si disfanno / 34
FÉDOU 1992, p. 131.
non ti parrà cosa nova né forte, / poscia che le cittadi termine 35
GROS 2006, p. 246.
hanno». 36
Per il territorio di Lucca vd. CHELLINI 1999, p. 170, dove
30
Per il ponte sul Segre vd. Acta Sanctorum, Nov. II, 1, Triponzo, attestato nel 757 (Tripuntio), è da assegnare alla
Bruxelles 1894, p. 84; J. FERNÁNDEZ ALONSO, Ermengol, in via Lucca-Volterra. Per i ponti urbani di Firenze vd. CHELLINI
Bibliotheca Sanctorum, V, 1964, col. 50. 2004, p. 148.
31
Per il ponte di pietra di Grenoble vd. M.O. GARRIGUE, Ugo 37
REPETTI, IV, p. 143 s., s.v. Petrino (Ponte) o Petreno; Ib.,
di Grenoble, in Bibliotheca Sanctorum, XII, 1969, coll. 759-64. VI, p. 179. BOLOGNI 1994, p. 185, ricostruisce il percorso della
32
La Vita Allucii, p. 235, non specifica la posizione del strada antica, mostrando come il primitivo ponte sul Bisenzio
ponte sull’Arno e del relativo spedale: …iuxta Arnum etiam in che portava al borgo di Prato corrispondesse al Ponte Petrino.
strata publica aliud hospitale constituit...; iuxta quod hospitale In questo punto è facile notare come la vicinanza del letto
fluvius erat magnus, ubi multi peregrini periclitabantur: ipse fluviale all’unghia del colle fornisca una base stabile alla spalla
vero ad episcopum Florentinum ferens litteras ut pontem ibi ae- settentrionale del ponte. Il primo documento sul ponte Petrino
dificaret, invenit nobilem cum [---] in partibus illis exsistentes, è in Conradi II diplomata, p. 379 (1038 luglio 23, Viadana):
qui de navigio et hominum transitu plura lucrabantur, pontem …in Ponticello et in Paterno et in Pedemontis (Pimonte, con
ibi aedificari non permittebant. Ipse vero Alluccius homines illos chiesa dedicata a Santa Cristina), in campo Castagneto, Mon-
suis dulcibus el blandis verbis mollificans, sedavit, et pontem ticello, in campo Anticorgni, et quicquid in Ponte Petrineo…
ibi aedificari permiserunt. Vd. anche B. MATTEUCCI, Allucio, 38
ASF, Diplomatico, Prato, Santo Stefano, propositura
in Bibliotheca Sanctorum, I, 1961, coll. 877-78. Emanuele (1100 giugno): Actum in burgo Prato in capite pontis, episcopa-
REPETTI, IV, 1841, p. 524, s.v. Ponte a Signa e V, 1843, p. 400, tu Pistorie…; ivi (1105 ottobre): Actum in burgo Prato in capite
s.v. Signa, identificava il ponte di Allucio con quello di Signa, in pontis…; ivi, Passignano, San Michele, abbazia vallombrosana
ragione dell’intervento del vescovo fiorentino, ma oggi prevale (1145 gennaio, s.c. 1146): Albertinus qui Cornus vocatur,
l’ipotesi che Allucio costruisse il ponte sulla Francigena sotto filius bone memorie Teuzi, et Ugolinus, filius bone memorie
Fucecchio: PATITUCCI 2004, p. 52. Ubertelli vendono in hospitale dedicato in loco Conbiate per
33
Per il ponte ex lapidibus et calce di Avignone vd. Acta manum Ugolini, qui modo in predicto hospitale preesse vide-
Sanctorum, Aprilis II, Anversa 1675, p. 256 s.; cfr. H. PLATEL- tur… unam petiam terre posite in Capo de Silva, que est tria
LE, Bibliotheca Sanctorum, s.v. Benedetto di Hermillon, coll. stariora territurio plebis Sancte Marie sito Carraia… Actum in
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 85

Sempre sulla via Cassia, ma ad Est di Firenze, il cronista trecentesco Giovanni Villani vide in
rovina il ponte sull’Arno fra Girone e Candeli. Interpretandone correttamente la funzione, capì
che serviva il ramo più antico della Cassia, quello utilizzato dai Fiesolani per dirigersi ad Arezzo
e Roma senza affaticarsi sui ripidi tornanti che scendevano precipiti alla nuova colonia di Flo-
rentia39. Più a monte, dove l’Arno imbocca la stretta che chiude il Valdarno superiore, il ponte
di Incisa, è documentato dal 110140. Esso serviva una diramazione della Cassia che attraversava
l’Arno e conduceva nel versante occidentale del Pratomagno. Risalendo ancora la sponda sinistra
dell’Arno, un ponte che superava l’affluente Cesto è documentato nel 119641.
Sulla via Pisana, il ponte sul fiume Greve è documentato dal 103842, il ponte sull’Arno che colle-
gava la via al porto fluviale di Signa è attestato dal 121743. Più antiche sono le menzioni del ponte
sul torrente Orme, alle porte di Empoli, che dette il nome al borgo murato di Pontorme44.
Sulla via per Faenza, la prima menzione di un ponte a Larciano risale al 1178. Un documento
del 1238 specifica che il ponte si trovava sulla Sieve. Il prestigio di questa strada nella tarda età
imperiale suggerisce che il primo impianto del ponte sia di epoca premedievale45.
Qualche anno fa ho avuto modo di precisare le prime dieci miglia dell’antico tracciato della
via da Florentia a Saena, studiando l’allineamento di alcuni toponimi guida e dei ritrovamenti
archeologici di età romana fino alla pieve di Santa Cecilia a Decimo (San Casciano in Val di
Pesa). Oggi, grazie ad alcuni rinvenimenti archeologici di superficie sotto il paese di Fabbrica46 e
alla documentazione medievale riguardante il ponte di Sambuca in Val di Pesa, sono in grado di
proporre una ricostruzione per sommi capi dell’intero antico tracciato: Firenze, Massapagana,
Monteboni, Spedaletto, Decimo, Calzaiolo, Bargino, Sambuca, San Donato in Poggio, San Gior-
gio Alleroso, Castellina in Chianti, Fonterutoli, Siena. Una volta scesa da Decimo al Calzaiolo,
la via risaliva la sponda destra del fiume Pesa fino al borgo di Sambuca, dove la gola che obbliga
l’alto corso del fiume a scorrere entro sponde stabili si apre nel fondovalle alluvionale. Qui la
morfologia marnosa e compatta del suolo è ancora favorevole all’impianto di un ponte e già dal
1123 ne troviamo documentato uno, la cui collocazione non è però ben precisabile47. Fra il 1154 e
il 1188 si parla di un ponte in Ramalliano48 e fra il 1180 e il 1195 abbiamo notizie della canonica

burgo Prato in capite pontis, iudicaria Pistoriense…; ivi, Pistoia, Diplomatico, Passignano, San Michele (1104 gennaio 14):
San Bartolomeo apostolo detto Badia dei Rocchettini (1188): Martino de Ponte Orme.
Factum est in Prato in capodiponte post casam Bannessi… 45
ASF, Diplomatico, Luco di Mugello, S. Pietro, appendice
39
CHELLINI 2004, pp. 137 e 142 (scheda 2), 169, figg. 2-5. (1178 marzo 27): Actum Larciano, in loco ponte, iuxta domum
40
CHELLINI 2004, pp. 160 e 179, doc. 11. iamdictorum iugalium; ivi (1238 aprile 30): Actum in villa
41
ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1196): Renu- de Larciano iusta pontem de Sieve. Per uno studio sulla via
cinus filius Jalli, et Bizoca filia Borcavi uxor Renucini, et Ricovarus Faventina in età antica vd. MOSCA 1992.
filius predicti Renucini… et Montana uxor eius, filia predicti Bor- 46
Il sig. Fabio Salvini, presidente del Gruppo Archeologico
cavi… vendono al presbitero Uberto canonico plebis Sancte Marie di Scandicci, ha rinvenuto due siti inediti a valle di Fabbrica,
de Figine… ed a Baldanza canonico canonice [Sancti Bart]holomei su un terrazzo fluviale in destra del fiume Pesa, l’uno sopra e
de Scampato… sex stariora terre [---------]ra de Figine in loco l’altro sotto la strada. Il materiale è databile all’età imperiale
Barbarini prope pontem constructum in flumine Cesto, que [sic romana. Il castello di Fabbrica è documentato dal secondo
decernitur a]primo latere inferius currit idem flumen Cestum, decennio dell’XI secolo: ASF, Diplomatico, Passignano (1013;
de secundo prefati (sic) venditoribus, [a tertio la]tere est ei terra 1015 febbr. 25; 1036 agosto; 1065 giugno). Vd. REPETTI, II,
Lamberti, a quarto latere suptus recurrit via publica… Actum in p. 79, s.v. Fabbrica in Val di Pesa.
castro Figine in domum predictorum iugalium… 47
Il ponte sulla Pesa si trovava presso il mulino di San
42
Carte Badia, p. 113, doc. 42 (1038 luglio 23): …in Pietro in Bossolo, piviere in cui rientrava il borgo di Sambuca:
loco Lignaria (Legnaia), in Sancto Quirico (San Quirico) et in ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1123 giugno,
aliis locis, scilicet prope pontem Florentinum, cit. in CHELLINI Poppiano): i fratelli Uberto, Lamanno e Idelbrando, figli di
1999, p. 171. Si aggiunga ora ASF, Diplomatico, Firenze, Santa Ildebrando, e le mogli dei primi due, Sibilia di Ildebrando e
Trinita, pergamene della badia di San Fedele di Poppi, già a Suffia di Dando, donano al monastero di Passignano, dove
Strumi (1172 ottobre 22): …nos Deotiguerìo filius Aldibrandini è abate Ambrogio, integra nostra portjone de terra et res illa
Ialli Ildole et Midonia iugalis eius… vendimus et tradimus tibi iuris nostra q. est posita in loco al punte de fluvio Pesa, sicut de
Tebaldo, accipienti vice et utilitate monasterii Sancti Fidelis unam pars est fine terra de filiis Ughi, filio Uberti, et Ughi, filio
sito Strume, ubi dominus Paulus est abbas, videlicet integram Uberti, filio Mainardi, et de aliam pars decurrit eis fluvio Pesa
unam petiam terre posita a Salitto (Saletto), cui ex duobus et de tertjam pars decurrit eis via de Allioni et de quartam pars
lateribus est terra predicti monasterii, ex tertio Cifi, ex quarto sine furto molino de plebiteus Sancti Petri in Bussile... Actum
de Ponte a Grieve… pro pretio quinquaginta et duos soldos et in loco Puppiano territurio florentino (C.se Poppiano, presso le
medium… Actum Cintoia. Quattro Strade, 113 I NO 82-31). Un altro documento parla
43
ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano in Cestello di un ponte sulla Pesa presso la località Fontenelle: ivi (1124
(1217 settembre 13), segnalato da DAVIDSOHN, Storia, I, p. giugno, Impruneta): Massaia, figlia del fu Giovanni, e Rodulfo,
1172, n. 1: Actum apud portum de Metatis subtus pontem Signe. figlio di Idebrando, vendono in ecclesia et monasterio Sancti
44
REPETTI, IV, 1841, p. 541, cita il documento di fondazione Angeli de loco Passiniano, ubi modo dominus Ambrosius abbas
dell’abbazia di San Savino presso Pisa, che però è noto in un et custos servire videtur, idest integra terra et res illa iuris nostra,
esemplare del XII secolo ed è di autenticità controversa: Re- que est posita in loco al ponte de Pesa, ubi Fontenelle vocatur...
gesto Camaldoli, I, 1, p. 3 (780 aprile 30, Cerasiolo): curte... Actum prope plebe Sancte Marie sito Pinita…
de Pontorme, e un altro del 1182. Da parte mia aggiungo ASF, 48
ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1154 luglio
86 RICCARDO CHELLINI

di Santa Maria a Ramagliano49. Dal 1179 i documenti cominciano a citare ininterrottamente un


ponte de Sambuco50, pur continuando a menzionare il ponte di Ramagliano fino al 1188. Le due
denominazioni non si trovano mai nella stessa pergamena e ciò corrobora l’ipotesi che il ponte
di Ramagliano e quello di Sambuco fossero la medesima struttura51. Esiste invero una singola
testimonianza da un contratto del 1180 che menziona due ponti, quello di Ramagliano e uno
non specificato a monte, ma quest’ultimo potrebbe essere un ponticello costruito in funzione
dei mulini e delle gualchiere che i vallombrosani di Passignano andavano progettando con una
famiglia di proprietari della zona52. Il prediale Ramagliano è oggi scomparso, forse assorbito dal
borgo della Sambuca, ma è ricordato ancora nel 1312 in un interessante contratto di locazione
triennale di un mulino53.

20, Fabrice, iudiciaria florentina): Ildibrandinellus, filius bone dei preti Orlando, Aldobrandino, Caroccio e Guidalotto, prior
memorie Ildibrandini filii Uberti, cede a titolo di permuta Sancte Marie de Ramalliano, et Grimaldi conversi, a Ugo abate
Iohanni fabro, filio bone memorie Brittonis... integram unam di Passignano videlicet integram medietatem per indiviso mo-
petjam terre positam iuxta Pesam, prope pontem in Ramallia- lendinorum de Petraia, de Ramalliano... tria modiora terre iuxta
no, cui ab una parte est finis terra Sancti Angeli, ab alia mea, pontem de Sabunco (sic) et in Farnito, inter boscum et terram
a tertja strata, et in aliquantum meam et est trigintaquattuor laboratoriam, boscus vero et terra que est iuxta predictum
panora... Insuper do et trado tibi in capite predicti pontis per pontem, est quinque scaffiliora et duo stariora... Ex una parte
amplum in recisu, sicut currit strata, duodecim brachia... e est predicti monasterii, ex alia via de Valiacki, ex tertia vero
riceve aliam tantam terram in valle Pese da Rimagio usque ad parte est quidam boscus qui comunis est inter predicta plebem
Riu Lavatuiu... Ivi (1180 giugno 14, in castro de Sambuco): et galigarium Artinisii...; Ivi (1182 aprile 9, in claustro Sancti
Guidotus prior de ecclesia et canonica Sancte Marie sita a Iacobi sito Florentie iuxta Arnum): Arrigus et Alamannus de
Ramagliano loca a livello Gotifredo clerico, videlicet integras Sambuco, filii Ildibrandinelli de Popiano, vendono a Ugo abate
totas terras et res quas ego habeo et teneo vel alii per me a ponte di Passignano videlicet integram quartam partem quam nobis
de Ramalgliano et a flumine Pesa usque ad viam a Valaki (V.la pertinebat molendinorum de Petraria de Ramalliano et totius
Vallacchio, presso Campoli); Ivi (1182 agosto 12, Pasignano in opere molendinorum... Insuper vendimus tibi domino abati...
burgo): Solmari faber e Stephania coniunx eius concedono in integram nostram partem quam nos habebamus et detinebamus
nome di tenimento Renaldo Giute de Farnito, videlicet novem in tria modiora terre prope pontem de Sambuco et in Farnito
petias terrarum que sunt posite tres petie alle Poli, quarta et inter boscum et terram laboratoriam que sic decernitur terra et
quinta sul fonte et supra fonte, sexta in Pratale et septima et boscus...; Ivi (1201, gennaio 9, s.c. 1202, Passignano): Kievellus
octava al ponte de Ramalliano, nona alli Otolini...; Ivi (1188 filio Rodulfi, tutor Petrucci filio Buonensingna, per rimediare a
novembre 25, in castro de Sambuco): Constat me priorem un debito usurario, vende Granello filio Rodulfi fabri, videlicet
Guidotum Gerardi yechonomum ecclesie et canonice Sancte in diversis locis tertiam partem de una petia de terra cum vinea,
Marie sito Ramalliano, per consensum meorum clericorum et que est posita prope pontem de Sambuco, que sic decernitur:
conversorum... concedere libellario nomine a Solmari figlio di ex primo latere decurrit flumen Pese, ex secundo filii Picconi,
Gratino, videlicet integre novem petie terrarum, una quarum ex tertio badia de Passignano, ex quarto via. Secunda petia est
est posita prope pontem de Ramalliano, que sic decernitur: ex posita in capite dicti pontis: ex primo latere decurrit Pesa, ex
primo latere detinet galligario, ex secundo Vitello, ex tertio secundo detinet badia, ex secundo similiter, ex tertio strata
decurrit flumen Pesa, ex quarto via. decurrit. Tertia petia est posita prope fossato de Rigrulli: ex
49
Vd. i documenti del 1180 e del 1188 citati alla nota primo latere decurrit Pesa, ex secundo strata...; Ivi (1213 luglio,
precedente ed anche ASF, Diplomatico, Passignano, San Mi- Pasignano): Ego quidem Pierus quondam Ugulini Angelini do,
chele (1195, febbraio 27, s.c. 1196, Passignano, in parlatorio trado atque concedo tibi domino Yeronimo, venerabili abbati
ipsius monasterii): l’abate del monastero di Passignano concede atque ychonomo ecclesie et monasterii Sancti Angeli et beati
nomine tenimenti ad Ugolino di Angelino e ai suoi eredi in Iohannis Gualberti de Pasignano... integram quandam petiam
perpetuo, integre unam petiam terre et rei posite iuxta flumen terre et rei posite ad Pesam prope pontem de Sambucho...; Ivi
Pesam prope pontem de Sambuco. Que sic decernitur: a primo (1220 febbraio 18, s.c. 1221, iuxta pontem de Sambuco):
latere currit predictum flumen Pesa, a secundo et tertio filiorum Monaldus filius olim Galligai de Sambuco vende a Rodulfo,
et nepotum Ianelli fabri, item a tertio canonice Sancte Marie abate di Passignano, integra quandam petiam terre et bosci et
de Ramalliano, a quarto vero Buonaccolti filii Neri... rei positam inter Passignanum et Sambucum, loco qui dicitur ai
50
ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1179 ot- Valacchi...; Ivi (1295 gennaio 8, in burgo pontis de Sambuco).
tobre 29, Sambuco territurio florentino): i fratelli Enrico, con 51
REPETTI, V, p. 13, s.v. Sambuca nella Val di Pesa.
la moglie Gisla, Alamanno, con la moglie Sobilia, e Guidone 52
Nel 1180 l’abate di Passignano costituì una società con i
vendono a Gerardo plebano Sancti Petri in Pixide tuisque fratelli Enrico ed Alamanno da Poppiano per costruire mulini e
successoribus... nostram partem molinorum de Petraia et gualchiere sulla Pesa nell’area fra il ponte di Ramagliano e un
striccariam (scil. steccaia) et aquam et goram... Item damus et ponte a monte: vd. ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele
vendimus adpodiamentum striccharie molinorum de Caselle (1179 marzo 24, s.c. 1180, monastero di Passignano): l’abate di
et de Valliari et ipsorum molinorum et aque ductum per nos- Passignano contrae societatem cum Enrigo de Popiano et fratre
tram terram... Item promittimus per nos et nostros heredes suo Alamanno ad molendinos et gualkieras faciendas, hoc scili-
solempniter quod a molino de Valiari usque ad molinum de cet modo: i contraenti mettono in comune omnes terras quas
Perdecena non faciemus aliquam operam... et insuper vendimus habent, ipsi et al. pro eis, a ponte de Ramalliano usque ad alium
et tradimus tibi plebano, et tuis et tuis successoribus, inter pontem qui est desuper, quecumque erunt modo, vel in antea
boscum et terram laboratoriam, tria modiora iuxta pontem necessaria ad faciendum predictum opus, sive in gora et opera
de Sambuco, et in Farnito boscum. Vero et terra que est iuxta facienda, sive in reficiendo sive mutando, si aliquo tempore
pontem est quinque scafiora et II stariora, cuius de una parte necesse fuerit... Et in hunc modum predicta societas contracta
est abbas de Pasignano, ex alia est via de Valechi, ex alia est est: quod iamdictus abbas predictum opus de hinc usque ad
quidam boscum, qui comunis est inter plebem nominatam festum beati Iacopi (25 luglio) debeat incipere et assidue sine
et galigarium Artinisi. Boscus de Farnito est X stariora, cuius fraude subtracta in opere perficiendo perseverare...
ex una parte est fossatum de Farnito, ex duabus partibus nos 53
ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1314
habemus, ex alia est boscus quidam, qui est comunis inter nos dicembre 27, Passignano): contratto di locazione triennale:
et priorem de Sambuco et galigarium... Ivi (1181 luglio 31): Religiosus vir dominus Nicholaus abbas monasterii Sancti
Gerardo pievano di San Pietro in Bossolo vende, col consenso Michaelis de Pasignano pro ipso monasterio locavit ad affictum
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 87

La via Chiantigiana diramava dalla via Aretina a Ricorboli, passava il Ponte ad Ema, Gràssina,
Strada in Chianti, Cintoia, Ottavo e Lucolena. Il ponte sull’Ema era già detto ‘vecchio’ nel 1193
e sarà restaurato nel 133054. Nel 1160 è documentato il ponte di Gràssina, situato sull’omonimo
torrente poco più a Sud55. Un ponte alla Mandria è documentato nel 1114 sul torrente Cesto, fra
Dudda e Ponte agli Stolli56, dove un manufatto detto localmente ‘ponte di Annibale’ è in realtà
una diga sul torrente Cesto57.
Due ponti documentati nel XII secolo non erano al servizio di vie di collegamento fra i centri
urbani, perché si attestavano su antichi percorsi di transumanza. Il primo è il ponte sull’Ema nei
pressi della località Altare, dove le colline che ospitano Tizzano e Strada in Chianti racchiudono
una piccola piana alluvionale. La via in questione è la “Maremmana” proveniente dal Mugello,
tracciato che ripete in gran parte il confine medievale tra le diocesi di Firenze e Fiesole58. Il ponte
sul Bisenzio in località Zani fu riedificato da un certo Benattone, che vi annetté uno spedale e
nel 1158 volle assicurare la continuità della sua opera donando il complesso alla pieve di Santo
Stefano a Prato. Già in rovina nel Cinquecento, il ‘Ponte a Zana’ si trovava poco a Nord del
borgo di Prato, nei pressi del tabernacolo dalla Madonna della Tosse, su una via che dirama
dalla strada di fondovalle per Montepiano, attraversa il Bisenzio e sale sui monti della Calvana
toccando Fonte Buia, Poggio Castellare, Valibona, Bufalacci, il Monte Maggiore (q. 916) e il
Poggio dei Mandrioni (q. 850)59.

4. I PIÙ ANTICHI SPEDALI NELLA CITTÀ E TERRITORIO FIORENTINO


A differenza di altre città della Tuscia, come Lucca, Pistoia e Pisa, dove troviamo i primi spedali
già dall’VIII secolo60, nella città e territorio fiorentini gli spedali compaiono nei documenti soltanto
dall’XI secolo. Sia in città che nel territorio essi si attestano quasi sempre su vie di origine romana,

Toro quondam Neri de Sambucho... medietatem pro indiviso 57


MOSCA 1995, p. 61, nr. 27, fig. 20.
unius molendini positi in populo Sancti Iacobi de Sambucho 58
ASF, Diplomatico, Siena, S. Vigilio, pergamene del mo-
in flumine Pese, quod dicitur molendinum de Ramaglano, nastero di Monte Scalari (1153 giugno 7, in foro Sancti Iusti):
quod est in comune inter dictum monasterium et canonicam Manifesti sumus nos Iohannes qui vocor Pelicino et Sensie qui
de Sambucho, cum duobus palmentis fornitis, macinis, palis, vocor Sakicto, germani filii Rustici… dare previdimus ecclesia
noctolis, randolis, retecinis et punteruolis, et cum omnibus aliis et monasterio Sancti Casciani sita Montescalario… unam
ferramentis ad ispum molendinum spectantibus... petiam terre posita a ponte de Altare (cfr. Mulino di Altare),
54
Carte San Miniato, doc. 126 (1193 marzo 7), p. 383: que sic decernitur: ex una parte est finis terra de filiis Uberti,
petiam terre... posita in capite pontis veteris ad Ymam. Per il de alia parte est finis terre Lupi, de tertia parte decurrit ei
restauro del 1330 vd. CONTI 2004, p. 216, nt. 47, e p. 248, flumen Ima, de quarta parte est finis iamdicte ecclesie Sancti
doc. 44: i sindaci dei popoli a cui spetta la manutenzione della Casciani…; ivi (1185 marzo 25, ad plebem Sancti Miniatis de
strata per quam itur Florentia versus mercatale de Gaviole, affi- Robiana): Manifestus sum ego Rolandinus de Lupo, quia per
dano a tre maestri muratori l’incarico di ricostruire il quartum hanc cartulam vendo et trado atque concedo tibi Ildebrandino,
archum pontis de Ema... super pilas veteres ibi existentes. Per filio Albarelli, recipienti ad vicem et utilitatem abatie Sancti
il percorso della via cfr. REPETTI, V, p. 732, s.v. Via o strada Cassiani de Monte Scalario, in qua dominus Benedictus residet
Chiantigiana. abbas… integram unam petiam terre ad Altare, cui ex omnibus
55
ASF, Diplomatico, Siena, San Vigilio, pergamene di lateribus est terra predicti monasterii, et integram quartam
Montescalari (1160 maggio 17): …nos Burnito, filius [spa- partem de alia petia posita ad pontem, et est ei ab uno latere
zio] et Saminella coniunx eius… vendimus et tradimus tibi podium de Casale, a secundo terra abatie, a tertio Mainardi,
Martino, filio Janni Bonci, ad vicem et utilitatem monasterii a quarto fluit Yma… pro finito pretio sedecim soldorum a te
Sancti Cassiani sito Montescalario, ubi dominus Bernardus loco abatie recepto…
est abbas, videlicet integram tertiam partem unius petie terre 59
ASF, Diplomatico, Prato, propositura (1158 marzo 8):
posite al ponte a Grassina, que sic decernitur: a primo latere …Benattone quondam Spatarii et tunc custos et rector atque
est via, a secundo latere terra Sancti Angeli, a tertio latere est reedificator pontis qui est super flumen quod vocatur Bisençone,
de filiabus Uguicionis, a quarto latere decurrit Yma… et inter iuxta villam que nuncupatur Zani, iuste et religiose previdens
nos convenit inter argentum et alias res pro valente soldorum utilitatem eiusdem pontis et hospitalis Ibidem ab eo constructi,
sedecim finito pretio… Actum Florentia… timens ne, id quod ab ipso ordinatum et constructum esset,
56
ASF, Diplomatico, Siena, S. Vigilio, pergamene del mo- post eius decessum ad nihilum reduceretur, ideoque statuit,
nastero di Monte Scalari (1114 maggio 31, Pavelli): Manifestus subposuit atque concessit ipsum pon[tem] et hospitale… do-
sum ego Actjo fili bone memorie Iohannis… dare previdi vobis mino venerabili Uberto prefate plebis preposito, omnibusque
Petrus et Teutjo germani, filii bone memorie Teutji, integram suis successoribus in perpetuo… edito integralmente in BOLOGNI
meam partem que michi pro quolibet ingenio pertinet de dua- 1994, p. 225 ss., che ricostruisce la vicenda del ponte. Nel
bus petie terre qui sunt posite in loco qui vocatur ponte ala 1573 era in rovina e non fu più ricostruito. Nel plantario
Mandria, integra medietate et alia medietate, Petro diacono dei popoli e sobborghi di Prato (Prato, Bibl. Roncioniana),
et rector (sic) ecclesie Sancti Miniatis (San Miniato a Celle). risalente al 1584, la mappa relativa al popolo di Santa Lucia
Tamen decernimus una ex ipse pe (sic) ex duabus partibus est in Monte mostra i resti della spalla occidentale, una pila e le
finis terra qui dicitur Ducdise (Dudda) de alie duabus partibus relative imposte degli archi. La località Bufalacio è ricordata
decurrit ei fluvio qui dicitur Cesto (fiume Cesto), alia petia ibi nel 1117: vd. nt. 96. Il toponimo Zani sembra connesso al
prope decernimus, ita quod de duabus partibus est finis terre teonimo Diana, ma può anche semplicemente significare ‘volto
que vocatur Eissise, de tertia parte est finis terra que appellatur ad oriente’: PELLEGRINI 1990, pp. 243, 395.
Gunuldinga, de quarta parte decurrit eis fluvio Cesto… Actum 60
Ad Arezzo dal 783: SZABÒ 1992a, p. 288, nt. 20 e p. 295,
Pavelli iudicaria Florentina. nt. 66. Per le radici religiose, etiche e sociali dell’ospitalità
88 RICCARDO CHELLINI

quali la Cassia, la Quinctia e le altre strade che collegavano Firenze ai municipi circostanti.
Dei tre spedali urbani e suburbani più antichi, quello della badia di Santa Maria si trovava ad
Est, fuori della primitiva porta a San Piero61, quello della canonica della cattedrale era in pros-
simità del battistero all’interno della porta Nord62, quello del caput pontis fu fondato Oltrarno,
di fronte alla chiesa di Santa Felicita, nel punto in cui diramavano le vie Aretina ad Est (Cassia),
la Senese a Sud e la Pisana ad Ovest (Quinctia)63. Lo spedale di San Pancrazio, fuori della porta
Ovest, è documentato più tardi, nel XII secolo64.
Quanto agli spedali presenti nel territorio, vedremo che i più antichi, cioè quelli documentati
nei secoli XI e XII, furono costruiti lungo strade importanti e quasi sempre in prossimità di
fiumi o valichi, in punti dove le condizioni idrografiche od orografiche rendevano opportuna o
necessaria la sosta. Talvolta fu invece la presenza di sorgenti a determinare la fondazione dello
spedale. Le poche eccezioni riguardano gli spedali annessi ai monasteri di San Miniato al Monte65
e San Michele a Monteripaldi66. Altri spedali in apparenza non intimamente connessi con strade
di grande comunicazione restano di incerta identificazione: penso allo spedale vecchio menzio-
nato in un atto rogato a Cavriglia, allo spedale di Cito di Azzino e allo spedale di Capursi67. Lo
spedale di Corneto, o Cornio, l’odierna Corniolo, è documentato dal 1157 nel piviere di Cor-
nacchiaia e fu costruito, con ogni probabilità, su una via aperta dagli Ubaldini, che conduceva a
Bologna o Imola attraverso il passo della Vecchia presso Castelguerrino (q. 1027), località dove
nelle giornate terse è possibile scorgere contemporaneamente i mari Adriatico e Tirreno68. Lo
spedale si trovava in posizione defilata rispetto alla direttrice più agevole che valicava il passo
di Fontemanzina (Osteria Bruciata, q. 910), ma anche rispetto alla prossima via del passo del

ecclesiastica dalla tarda antichità al Medioevo vd. ID. 1992a, petiam terre prope ipsam ecclesiam sancte Marie positam, que
pp. 286 ss.; cfr. ZAGNONI 1998, 102 ss. sic decernitur: a duobus lateribus finis est ei terra eiusdem
61
L’abate Pietro istituì e dotò lo spedale della Badia Fio- ecclesie, a tertio ecclesie sancti Pauli et hospitalis quod dicitur
rentina: Carte Badia, I, doc. 35, p. 86 ss. (1031 novembre 2). sancti Pancratii et filiorum Iohannis Rolandi, a quarto vero
Un documento del 1270 ricorda la struttura di fronte all’allora Ormanni, filii Pandolfi de Campo… al prezzo di 105 soldi
palazzo del Comune e del Popolo, poi detto del Bargello, di denari lucchesi. DAVIDSOHN, Forschungen, IV, p. 391, cita
fondato nel 1255: ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano attestazioni del 1219 e del 1274. Vd. anche RDTuscia, I, 158
in Cestello (1270 ottobre 23): …in curia sextus porte Sancti (1276-77): hospitale S. Panclatii de Florentia.
Petri sita ad pedem domus hospitalis abatie Florentine erga 65
De La Roncière cita uno spedale di Novoli, che non
palatium Comunis et Populi Florentie… sembra mai esistito: il documento da lui citato riguarda infatti
62
Il canonico Rolando istituì e dotò lo spedale di San lo spedale di San Miniato, che acquistò un terreno posto presso
Giovanni: Carte canonica cattedrale Firenze, doc. 42, p. 119 la chiesa Sancte Marie ubi dicitur Novole (Carte San Miniato,
(1040 novembre 4): Rolando chierico e canonico fiorentino 88, p. 296, 1165 giugno 27, in castro de Pogna).
dona alla chiesa di Santa Reparata molti beni posti nel contado 66
Lo spedalingo di Monteripaldi pagava due danari luc-
fiorentino, di modo che l’usufrutto e il reddito dei detti beni chesi di censo annuo alla mensa vescovile di Firenze: REPETTI,
venga in dispendio et vitualia et refectiionis pauperis et pere- III, 1839, p. 506 s. (1138 febbraio 17).
grinis, degentibus et venientibus in ospitale a donno Rollando 67
Spedale vecchio presso Cavriglia: ASF, Diplomatico,
Deo ordinato, clericus et prepositus dicte canonice, cum meo et Passignano, San Michele (1116 gennaio, s.c. 1117, Caprilia
fratribus nostris consilio predistinatum et inchoatum in civitate intus canonica Sancti Iohannis): Tederico, figlio di Ugo, vivente
Florentia iusta ecclesia et domui Sancti Iohanni batiste... sotto la legge romana, promette di non inquietare il monastero
63
Un Fiorenzo costruì e offrì al monastero di San Miniato di Passignano nel possesso dei beni che egli e suo padre avevano
lo spedale del caput pontis di Firenze. Carte San Miniato, 30 tenuto a livello dal monastero, et sunt positis iamdictis terris et
(1068 giugno, prope caput pontis civitatis Florentine): Fiorenzo rebus in loco ala Corbinaia, et neli Unbaldi, et al Botaio, et in
detto Fosco, figlio del chierico Fiorenzo, offre al monastero asio Hospitale Vetero, et nele Vince Morte, vel per aliis locis et
di San Miniato senodochium, quod ego a fundamento totum vocabolis ubicumque de predictis terris, vineis et rebus et decima-
construxi et edificavi ad usum pauperum et supervenientjum tionem esse invenitur infra territurio de plebe sito Caprilia… A
hospitum; ivi, 32 (1068 dicembre 16): papa Alessandro II conferma dell’atto Tederico riceve dalla mano di Pietro Cataldo
prende sotto tutela apostolica e conferma i possessi di due librum et stola ex parte Dei et sancte Marie. Spedale di Cito
spedali fiorentini, quello costruito da Fiorenzo iuxta caput di Azino: ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1146
pontis Florentine civitatis e quello istituito da Oberto abate di novembre): Giovanni di Terrarino promette di non molestare
San Miniato. All’epoca il solo ponte che attraversava l’Arno Cito di Azino nel possesso delle terre e vigne di Barracuzo,
era situato nell’area del trecentesco Ponte Vecchio e andava da suo nipote, in modo che il predetto Cito possa servirsene ad
Firenze alla chiesa e cimitero paleocristiani di Santa Felicita: utilitatem ospitum et perigronorum (sic), sicut ipse Barrachuzo
vd. CHELLINI 2004, p. 148. dixit et iudicavit… Actum ante prefatum ospitalem Citi Azini.
64
La prima inedita menzione dello spedale di San Pancra- Spedale di Caporsi: ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele
zio riveste un interesse storico ulteriore: ASF, Diplomatico, (1178 marzo 30): ego Iacobus qui Scaranus vocor, filius Ugolini,
Firenze, Santa Maria Novella (1163 febbraio 27, s.c. 1164, dono ad Ugo, abate di Passignano, omnes terras et actiones et
Firenze): Ego Bonicus, ecclesie sancti Andree site Florentie Dei iura et res, que mihi pertinent proprietario iure in quibuscumque
gratia rector, cum debitum sub gravibus usuris eidem ecclesie locis, unde antepono quicquid habeo in loco qui dicitur Vestri
immineret, quod ex movilibus solvi non poterat, contractum et quicquid habeo in Capursi et in Monte Moioni, videlicet ab
pro exactione quam cancellarius domini Federici imperatoris strata in a monte et ab fossato de Coloreto usque ad Biellam…
fieri iusserat, sicut pluribus innotuerat, per hanc cartulam vendo Actum est hoc prope ospitale de Capursi comitatu Florentino.
et trado tibi presbitero Ugoni, ecclesie sanctissime Dei genitricis 68
Così REPETTI, I, p. 550, s.v. Castelguerrino, nel riferire
et gloriose semper virginis Marie, que dicitur Novella, Dei dono un’osservazione dell’astronomo Inghirami fatta il 1° ottobre
venerando rectori, vice ipsius ecclesie, videlicet integram unam 1812.
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 89

Giogo (q. 882), che soppiantò la strada di Fontemanzina dal Trecento in poi. Ad ogni modo, la
funzione di accoglienza dei viandanti non sembra essere stata scopo primario di questo spedale,
visto che il primo documento che lo riguarda è una donazione ad substempatjione pauperum et
egenorum69.
Numerosi erano gli spedali allineati sulla via Aretina, l’antica Cassia. Importante, anche se
fondato soltanto nel 1214 da un Dioticidiede, è lo spedale del Fonte Vivo, così detto da una
fonte che gli sgorga dirimpetto, sul lato opposto della strada. Fu poi chiamato spedale del Bigallo
dal nome dell’istituzione che nel 1245 ne assunse il patronato (Fig. 2)70. Si trova in Comune di
Bagno a Ripoli, nel tratto oggi denominato via Vecchia Aretina. Chi veniva da Arezzo vi giungeva
scendendo per poche centinaia di metri dall’Apparita, un punto panoramico da cui il viaggiatore
vede per la prima volta la città e la vasta piana di Firenze. Nel 1294 il Comune di Firenze deliberò
di eseguire lavori per la riparazione della fonte, spendendo in totale 80 lire di fiorini piccoli71.
Purtroppo il manufatto è stato danneggiato dall’allargamento di una strada secondaria che dirama
dalla vecchia Aretina ed è deturpato da un tubo di plastica (Fig. 3).
Lo spedale di Memugnano appare controllato dai vallombrosani di Coltibuono sin dal 1129,
anno della sua prima attestazione. L’ubicazione non è certa, ma propendo per identificarlo con la
località Spedaletto, sulla via Aretina fra Palazzolo e Burchio (106 II NE, Troghi, PP 96-39), perché
le proprietà ad esso spettanti si trovavano tutte in quest’area. La prima donazione conosciuta gli
affidava un pezzo di terra in luogo Cambaile, l’odierna Gambale, nelle cui vicinanze troviamo
ancora oggi due case denominate Spedale, probabile persistenza toponomastica della più antica

69
ASF, Diplomatico, Riformagioni, Atti pubblici (1157 cionis eiusdem loci, vendono a Gianni hospitalario, custodi…
gennaio 2, Gagliano): Nos quidem in Dei nomine Brittus filius et rectori ho[spitalis et ec]clesie Sancti Nicholai de Cornio…
Guillelmini et Cidernella iugalis eius… ad substempatjione unam petiam terre et rei positam al Cuilliato (Covigliaio)…
pauperum et egenorum damus, tradimus, concedimus ad pro- Actum in foro de Rivicornaclario; Ivi (1235 dicembre 10):
prietate in perpetuum in ospitale posito Corgnite, ubi [mo]do Albertus, Cerbus et Pierus, filii olim Martini Rigecti de Castro
Iohannes, qui Falovello dicitur, Dei grazia rector esse videtur, vendono a Melliorello, converso ospitalis de Cornio… unam
idest una pezia terre cum vinea… posita in Cerliiano (Cerliano), petiam terre et rei positam in curta Castri, il loco qui dicitur
que cum hiis finibus designari videtur: primo latere filiorum Cuvilliaio… Actum in castello Castri; ivi (1238 giugno 18):
Johannis, duobus lateribus Guidonis Sichelmi, quarto Livisone Bonafides, filius olim Geremie dalle Valli vende a Melliorello
(torr. Levisone) aliquantisper comunale… Actum Galiano co- converso hospitalis dal [Co]rnio… unam petiam terre et rei
mitatu florentino; ivi (1186 maggio 1, Scarperia): Aldibrandino positam prope Cuvilliaium, in loco qui dicitur molendinum da
del fu Oderrigo e sua moglie Forentina vendono a [----]dinus, Risano… Acta fuere hec omnia aput dictum hospitale de Cornio.
custos et rector atque aministrator venerabilis ospitalis et domus 70
Bibliografia in CHELLINI 2004, p. 155, ntt. 84-85 e
positum (sic) in loco qui dicitur Cornio… unam petiam terre contesto. Purtroppo il quaderno conservato nel fondo diplo-
posita in loco qui dicitur Kasa Veckla, que sic decernitur: a tribus matico dell’ASF e datato 3 ottobre 1260, contenente più atti
lateribus currit ei via, a quarto est ei terra ipsorum de Favale… di acquisto e notizie sulla fondazione dello spedale era già
Actum in [spazio] de Scarparia comitatu florentino; ivi (1198 mancante al momento della stesura dell’Inventario cronologico
ottobre 9): Constat nos quidem Grecium et Albizum germanos (V, 52, 1, p. 45).
filios Ugonis hoc venditionis instrumento… vendidisse… tibi 71
Consulte, II, p. 405 (1293 aprile 28, ma 1294): il Con-
Johanni domino et rectori venerabili ospitalis de Corgno… siglio dei Cento stanzia 30 lire di fiorini piccoli per la ripara-
videlicet integram quartam partem unius petie terre et rei pro zione della fonte: Item, pro Fonte Vivo, qui est ante hospitale
indiviso, que est in loco qui dicitur la Cotorza, que sic decernitur: Bigalli, in strata publica per quam itur Aretium, reatando, possit
a primo latere est ei finis terre qui dicitur Colderise, a secundo expendi usque in quantitate librarum XXX florenorum parvorum
terra Castrise, a tertio terra Rodolfi filii Ciofoli, a quarto currit de pecunia Comunis, solvendarum offitiali ad hoc eligendo per
rio… Actum in mercato de Galliano; ivi (1221 maggio 15): dominos Priores et Vexilliferum; Ivi, p. 439 (1293 novembre 19,
Lanfridus olim filius Bonensingne vende ad Orlando masario, ma 1294): Item, in reparatione fontis et aqueductus de Bigallo,
rectori ospitalis Cornii… unam petiam terre et rei que posita est libras L florenorum parvorum, solvendas pro Comuni Lando
in Cornita… cui a duobus lateribus fosatus, a tertio via vadit, Albiczi et Duccio domini Bernardi Capecchi, officialibus ad
de quarto vero latere dicti ospitalis… Actum in claustro dicti predicta. Il carattere compendioso di questo tipo di documenti
ospitalis; ivi (1227 aprile 14): Albizzus, filius olim Ugolini de deve avere tratto in inganno il Gherardi quanto alla datazione
Ascianello vende al presbitero Ricovero, plebano atque rectori dei due provvedimenti, che devono risalire al 1294, come la
ecclesie et plebis Sancte Marie de Rivocornaclario vari pezzi di seguente Provvisione, citata in REPETTI, VI, p. 30, che riporta in
terra, alcuni con i rispettivi coloni: videlicet integre Johannem forma più dettagliata la seconda delibera sopra citata, compre-
Araldinum pro homine et colono cum resedio in quo residet so lo stanziamento aggiuntivo di 50 lire di fiorini piccoli: ASF,
seu residere debet, positum a la Strada, cui a primo latere est Provvisioni, Registri, 4 (1294 novembre 19), c. 109v: Item,
strada, a secundo Buonaviti, a tertio ecclesie predicte, a quarto super providendo, ordinando et firmando quod in reparatione
[spazio]; item altri pezzi di terra a le Sodora… ad podium Ne- et pro reparatione fontis et aqueductus fontis existentis in strata
rosi… ad Latum… al Cerro… al Pero… ne la Cotorza, quam publica per quam itur a civitate Florentie ad civitatem Aritii,
tenent filii quondam Parenti de Castro, de qua debent omni ante hospitale del Bigallo, et in hiis et pro hiis que expedierint
anno unam spallam et dimidium carnis porcine, vel si plura ad ipsius fontis reparationem opportunam, ultra quantitatem
servitia soliti sunt vel debent. Fines dicte terre hii sunt, cui a alias in hiis expendi debere pro Comuni Florentie stantiatam,
primo latere est Gianni, a secundo tenent homines da le Valli, libras quinquaginta florenorum parvorum de ipsius Comunis
a tertio hospitale de Cornio et dicta plebe… in Campo Bruni… pecunia expendantur solvende et assignande pro Comuni
neli Avani… Actum Ascianello ante domum dicti venditoris; ivi predicto, occasione predicta, per ipsius Comunis camerarium
(1234 settembre 20): Amichus pecorarius de le Valli et Bertoldus tam presentem quam futuros, Lando Albiczi et Duccio domini
filius olim Franciolini eiusdem loci, Ubaldinus, filius olim Guic- Bernardi Capecchi officialibus superstitibus...
90 RICCARDO CHELLINI

Fig. 2 – Spedale del Bigallo, facciata.

Fig. 3 – Spedale del Bigallo, fonte antistante.


NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 91

proprietà della struttura ricettiva. Altre località di pertinenza dello spedale sono le vicine Montelfi
e Marciana. Un atto del 1137 parla di una fonte de Memugnano72.
Il toponimo prediale Memugnano deriva, con ogni probabilità, dall’antico gentilizio Maemi-
nius, ricordato su un cippo marmoreo trovato nel Pratomagno73.
Il più antico spedale attestato sulla via Aretina è quello di Figline, nel Valdarno superiore, citato
dal 1071 nelle pergamene della badia vallombrosana di Passignano e situato in località Barbarino
presso il citato ponte sul torrente Cesto, un affluente dell’Arno74.
Qualche miglio più a Sud, intorno al 1131, compare lo spedale di Ubaldo, detto anche del Rivus
Finis dall’idronimo scomparso che, intorno alla prima metà dell’XI secolo, passò a designare la
località incastellata variamente documentata nelle forme Riofini, Rifini, Rivo Finis, Rufine, Rofino,
Rofini, Rufini, Rofine75. Incrociando i dati toponomastici forniti dai documenti, ho identificato
questa località a Sud della «terra nuova» di San Giovanni Valdarno, nel punto di incrocio fra la
via Cassia ed il confine diocesano fra Fiesole e Arezzo.
Come nell’antichità il fiume Fine segnava la linea di confine tra i municipi di Pisa e Volterra
ed incrociava la via Aurelia in località Ad fines, il nostro rivus Finis segnava un breve tratto del
confine tra i municipia di Fiesole e Arezzo in sinistra d’Arno.
Ho potuto così formulare l’ipotesi che lo spedale fosse costruito nel luogo della statio di età
romana imperiale citata nell’Itinerarium Provinciarum col nome di Ad fines sive ad Casas Caesaria-
nas76. Più a Sud, sempre lungo l’Aretina, lo spedale di Montevarchi è documentato dal 119677.

72
ASF, Diplomatico, Coltibuono = Reg. Colt. 339 (1129 «Franciscus Cini vocatus Farsata lasciò per testamento che de’
marzo): i fratelli Rodolfo, Ugo e Uberto, ed Imilda moglie suoi beni si facesse uno spedale per gli huomini della compa-
di Ugo donano in hospitale domini qui est positum in loco gnia di S. Cristoforo in Perticaia (106 II NE, Troghi, PP 95-43),
Memugnano, ubi modo presbiter Ildebrandus per obedientiam il quale fu fatto e frate Andrea conferma lo spedalingo».
venerabilis abbatis Cultubuoni custos esse videtur, id est unam 73
CIL XI 1616: Maeminia Maxima; PIERI 1919, p. 158.
petjam terre posita in loco Cambaili (C. Gambali, presso C. 74
Per lo spedale di Figline vd. CHELLINI 2004, pp. 162 s.,
Spedale, 106 II NE, Troghi, PP 95-42). Actum ad prefatum 177, fig. 13, docc. 7, 8 (1071 febbraio 24, castello di Cercina),
Hospitale; ivi = Reg. Colt. 363 (1136 luglio 19): Bernardino p. 180, docc. 12 (1102 maggio, Figline), 13 (1102/1103, Fi-
di Bernardino e il figlio Alamanno ricevono un mutuo di 30 gline). Vd. anche ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele
soldi da Rolando, abate di San Lorenzo a Coltibuono, e danno (1104 febbraio, ma 1105): ospitale da Cesto; il seguente do-
in pegno omnes terras et res et servitia hominum, quas nos cumento corrobora l’identificazione della località Barbarino
habemus et tenemus et al. per nos in loco qui dicitur Montolfi presso Figline e il fiume Cesto: ivi (1231 gennaio 30, s.c.
(San Quirico di Montelfi, 106 II SE, Troghi, PP 97-38) et in 1232): Guidone, figlio del fu Aldobrandino, vende al domino
plebe Sancti Viti… Actum in ospitale de Momungnano iudicaria Alberto, priori et rectori ecclesie et canonice Sancti Bartholomei
Florentina; ivi = Reg. Colt. 373 (1137 agosto): Actum prope de Scampato de Fighine… medietatem unius petie terre et soli,
fonte de Memugnano; ivi = Reg. Colt. 391 (1144 luglio): resedii et habiturii et rei posite ad hospitale pontis Cesti in curte
Pietro di Martino e la moglie Nera di Martino donano al de Fighini, qui locus olim vocabatur Barbarino, iuxta fluvium
monastero di San Lorenzo in Coltibuono duo stariora de terra qui vocatur Cesto... Per il ponte sul Cesto vd. supra nt. 41.
ad iustum starium de grano sementandum, que posite sunt 75
Nell’articolo citato alla nota precedente arrestai la ricerca
in loco Cluso site Montelfi et in loco qui dicitur Muricia… documentaria su questo spedale alla fine del XII secolo, facen-
Actum apud ospitale site Memugnano comitatu Florentino et domi però sfuggire alcuni atti che non cambiano la sostanza
Fesulano…; ivi = Reg. Colt. 397 (1146 febbraio): pegno per delle mie argomentazioni: ASF, Diplomatico, Passignano, San
un mutuo di 14 soldi lucchesi con cui si rifiutano 6 stariora Michele (1146 aprile), aggiunge il nome di un altro spedalingo:
di terra e vigna in culto Gregorii site Martjiana (Marciano, Moioro; ivi (1162 aprile), è la donazione di un pezzo di terra in
106 II SE, Troghi, PP 95-45) …q. detinet de casa S. Laurentii Vignale offerta in ospitio Dei et de peregrinis et Sancti Angeli de
et de hospitale de Memugnano… Actum prope ecclesia sancti Pasignano sito Rofini; ivi (1197 aprile 23) è la donazione di un
Niccolai sita Martjiana; ivi = Reg. Colt. 412 (1150 dicembre pezzo di terra in Aquaviva. In questa sede mi pare interessante
18, Marciana): terra dello spedale di Memugnano; ivi = Reg. proporre un documento del 1212 che parla di un ‘pellegrinaio’
Colt. 481 (1170, San Leonino a Rignano): …unam petjiam dello spedale: ivi (1212 maggio 13): …Manifestus sum ego
terre positam al Mackerino et ospitalis de Mamugnano…; ivi = Torsellus Cavarini et Marchisina eius uxor ipsius consensu pro
Reg. Colt. 490 (1175 marzo 20, Firenze): conferma di enfiteusi remedio anime nostre nostrorumque patrum et omnium paren-
di un pezzo di terra e vigna posto ad Rignano in località Foli, tum nostrorum, donmus, offerimus, tradimus et concedimus
per la pensione annua da pagare nella settimana della Natività tibi Brunecto Morandini, vice et recipienti pro pellegrinaio ospi-
in hospitali de Memugnano. ASF, Diplomatico, Vallombrosa, talis Ubaldi tuisque successoribus in perpetuum, integre totam
Santa Maria d’Acquabella (1194 giugno 14): Cappiardo del decimationem de duobus meis petiis terrarum, una quarum est
fu Ubaldino, il figlio Aldobrandino e le rispettive mogli, Ricka posita in loco qui dicitur neli Mogioro (case Moggiolo), cui I
e Ottimilia vendono a Gianni olim filio Gualducci, accipienti parte ospitalarii, II Garardo Lelli, III Gabioni. Secunda petia est
procuratorio nomine pro ecclesia et monasterio Sancte Marie in pagino de Vignallia, I currit fossatum, II Ugolino Taviani, III
de Valle Umbrosa… omnes terras et vineas et possessiones Raineri Bonaguida, IIII via vel siquis alii confines sunt… Actum
quas Teuzone cum uxore sua dedit et concessit hospitali de in castro Vignallia episcopatu Fesulano.
Mamugnano, quas ego iamdictus Cappiardus ab hospitalingo 76
CHELLINI 2004, pp. 164-166, e la relativa Appendice
eiusdem hospitalis emi et acquisivi…et sunt ipse terre et vinee documentaria. Il saggio confuta l’opinione del Repetti che,
et possessiones infra pleberium de Miransu et infra pleberium senza allegare documenti a sostegno, poneva la statio presso
de Antilla… pro pretio librarum undecim bonorum denariorum una fantomatica ‘Casa Cesare’, sulla tortuosissima via dei
Pisane monete… Actum Florentia. Soltanto nel 1358 è docu- Sette Ponti: REPETTI, I, p. 492, s.v. Casa Cesare, I, p. 671, s.v.
mentata la fondazione del vicino spedale della compagnia di Certignano, V, p. 715, s.v. Via Cassia, V, p. 732, s.v., Via, o
San Cristoforo a Perticaia (DE LA RONCIÈRE 2005, p. 110, c. strada Valdarnese. La segnalazione di un solo spedale sulla via
4, nr. 82, ms. BNCF, Magliabechiano, XXXVII, 303, p. 108): dei Setteponti, quello di Montemarciano (a. 1346), concorre
92 RICCARDO CHELLINI

Fig. 4 – Chiesa di Santa Maria Maddalena, facciata. Fig. 5 – Chiesa di Santa Maria Maddalena, abside.

Sempre sul tracciato della via Cassia, ma a Nord-Ovest di Firenze, lo spedale dei Malsani è
documentato dal 1198 nei pressi del citato ponte Petrino. Esso non era però riservato ai forestieri,
ma ai malati della zona, soprattutto lebbrosi78. Fu distrutto negli anni ’80 del secolo scorso, per
costruirvi villette. Resta soltanto la bella chiesa di Santa Maria Maddalena (Fig. 4), che conserva
un paramento in conci di alberese ben squadrati e disposti a filaretto. L’arco d’ingresso alterna
cunei di alberese e marmo verde di Prato, un tipo di pietra usato anche per la colonnetta della
bifora in facciata e nel coronamento esterno dell’abside (Fig. 5), dove il filare inferiore è scandito
da mensole di arenaria, due delle quali scolpite con volti maschili (Fig. 6). Il pavimento in coccio-
pesto giace m 1,40 circa sotto il piano di campagna e alcune abitazioni che si aprono sulla strada
si appoggiano al lato Sud della chiesa, cosicché la vicinanza di un antico pozzo e l’inefficienza
delle opere fognarie sotto la massicciata stradale favorisce l’attecchimento di muffe nerastre che
aggrediscono il pavimento e la parete meridionale della chiesa.
Venendo alla via Senese79, un documento del XII secolo non conservato in originale attribuisce
alla canonica fiorentina lo spedale di Massapagana, presso il Galluzzo80.
Proseguendo verso Siena, su un’altura che domina il passaggio del fiume Greve, era lo spedale
di Muliermala a Monteboni, sottoposto ai vallombrosani di Montescalari sin dalla sua prima
attestazione, che risale al 109581.

nel suggerire la scarsa consistenza di questo percorso nel Me- BOLOGNI 1994, pp. 173-203, con numerosi altri documenti
dioevo: ID., III, p. 423, s.v. Montemarciano; DE LA RONCIÈRE, relativi allo spedale, ma con qualche errore di trascrizione.
p. 110, c. 4, nr. 67. Di contro sulla via Aretina nel XIV secolo Cfr. Carta d’Italia 1:25.000, 106 IV SE, PP70-59, rilievo
abbiamo gli spedali di Ricorboli, del Bigallo, di San Donato 1950: C. Malsani.
in Collina, di Incisa, i sette di Figline, quello di Riofini-Pia- 79
Sull’antichità della via Senese vd. CHELLINI 2000.
nalberti-Ubaldo, e tre a Montevarchi. La via dei Setteponti 80
Delizie degli eruditi toscani, X, p. 188: dove si trae «dalle
non figura neppure nella veduta del Valdarno di Domenico scritture degli Ubaldini» il sunto di una bolla di papa Anastasio
Riccianti, datata 1589, che segnala invece due volte la «strada IV del 1153, che conferma, fra i vari possessi della canonica
maestra» fra Figline e Montevarchi: ASF, Piante dei Capitani fiorentina, l’hospitale ad Massapaganam. Lo spedale deve
del Bigallo, «Pianta di tutto el Valdarno e come oggi si trova essere stato fondato nel XII secolo, perché non è menzionato
el fiume d’Arno, 1589». nel privilegio di conferma dei beni della canonica fiorentina
77
CHELLINI 2004, p. 191 s., doc. 33 (1196 febbraio 6, prope dato a Roma da Pasquale II il 4 aprile 1102: Carte canonica
ospitale de Monteguarki). cattedrale Firenze, doc. 154, p. 372.
78
ASF, Diplomatico, Pistoia, San Benedetto, olivetani 81
Carte Montescalari, doc. 104 (1095 febbraio 11, Mon-
(1198 febbraio 6): ego Azo, venerabilis loci et domus a malattie tebuoni): in ospitali illi qui est positus et constructus in loco
ex illa parte pontis Petreni rector et custos... citato da REPETTI, ubi dicitur Muliermala, iusta castrum Monteboni, et est infra
IV, 1841, p. 143 s., s.v. Petrino (Ponte) o Petreno, ed edito da plebem Sancte Marie sito Peneta (pieve di Impruneta).
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 93

Fig. 6 – Chiesa di Santa Maria Maddalena, mensola Fig. 7 – Spedale del Calzaiolo, facciata.
figurata nell’abside.

Poche miglia a Sud di Decimo, dopo la ripida discesa del Borromeo, la via Senese si allinea al
fiume Pesa ed attraversa un suo affluente, il torrente Terzona, passato il quale un certo Giovanni,
figlio di Pietro detto Calzaiolo, gestiva uno spedale documentato nel 1139 e donato nell’aprile
1141 al vescovo di Firenze, Gottifredo dei conti Alberti. Più tardi, un successore di Gottifredo,
Giovanni da Velletri, donò lo spedale al pievano di Campòli con un atto confermato da papa
Gregorio IX nel 122882. Ancora oggi la località è detta Calzaiolo e conserva la struttura dello
spedale, più volte rimaneggiata e ristrutturata (Fig. 7)83.
Più a Sud, risalendo la destra del fiume Pesa, i vallombrosani della badia di Passignano pos-
sedevano uno spedale, forse situato presso il citato ponte di Ramagliano o di Sambuco e che fu
oggetto di una donazione nel 112384.
I vallombrosani dell’abbazia di Coltibuono sui monti del Chianti gestivano invece lo spedale
di San Giorgio Alleroso, ossia ‘al lebbroso’, situato al margine dell’area boschiva di alta collina
fra Olena e Castellina in Chianti e documentato dal 118485. La chiesa si trova sul lato Ovest
della strada. L’edificio ha subito restauri e rimaneggiamenti dal medioevo all’età moderna. Fra
gli elementi architettonici originari si notano un’angusta finestrella strombata in facciata e due
ingressi laterali, di cui il settentrionale conserva una croce scolpita nella lunetta fra arco e archi-
trave (Figg. 8-9).
I monaci benedettini di San Miniato al Monte e più tardi i vallombrosani di Passignano ge-
stirono lo spedale di Camollia, situato alle porte di Siena. Si trovava in località Le Piscine ed
era intitolato a San Basilio. Lo fondò un prete Bonfiglio, che ne fu rettore negli anni ’90 dell’XI
secolo, finché non gli successe un Giovanni86.

82
ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano in Cestello fa parte dei tre rogati a Poppiano nel giugno 1123, uno dei
(1228 giugno 3). quali cita per la prima volta un ponte sulla Pesa nel piviere di
83
LAMI, II, p. 734 e 737-744, presenta un nutrito regesto San Pietro in Bossolo: vd. ntt. 47 ss. e contesto. DE LA RONCIÈRE
di documenti conservati nell’Archivio Vescovile di Firenze 2005, p. 110, c. 4, nr. 104, trova documentato lo spedale di
e riguardanti lo spedale del Calzaiolo: gli atti più antichi San Lazzaro a Sambuco nel 1290.
sono alcune cessioni di terre compiute da vari personaggi nel 85
Regesto di Coltibuono, p. 225, doc. 505 (1184 aprile
novembre 1139 a favore dello spedale. Il giorno 15 aprile 19, Montecorboli): terra spedalis Sancti Georgi. Vd. anche
1141 Giovanni di Pietro detto Calzaiolo e la moglie Carina RDTuscia, I, nr. 550 (aa. 1276-77, pieve San Donato in Pog-
di Pietro donarono lo spedale, posto ai piedi del castellare gio): eccl. S. Georgii de Aleroso.
di Bibbione, non lontano dal fiume Pesa e presso il torrente 86
ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1091 aprile
Terzona, al vescovo di Firenze, Gottifredo, che lo designò 2): locazione a Bonfiglio, rettore dello spedale di Camollia,
ponendovi quattro croci. di un pezzo di terra arativa in Capraia: In Christi nomine
84
ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1123 giu- placuit atque convenit inter Quidolum et Perinum germanos,
gno, Poppiano): i fratelli Uberto, Lamanno e Idelbrando, figli filios quondam Vivenzi, ac Iohannem filium quondam Morunti,
di Ildebrando, e le mogli dei primi due, Sibilia di Ildebrando Barbanum et nepotes, nec non et Bonum Filium presbiterum
e Suffia di Dando, donano: Id est integra illa pars de terra cum et rectorem xenodochii quod est situm prope burgum de
illa mansione et res Ibidem pertinentes... que est edificato in Camollia et ecclesiam Sancti Basilii, ut in Dei nomine dare
loco prope Pesa, sicut modo designata et terminata est, ad onore debeant, sicut et a presenti dederunt ipsi Barbanus ac nepotes,
domini ospitale ad usus pauperum et egeno[rum], secundum eidem xenodochio ad pensionem reddendam libellario nomine,
domini voluntate in integrum in ipsa ecclesia et monasterio... id est petiam unam de terra aratoria quam habere visi erant
Actum in loco Puppiano territurio florentino (C.se Poppiano, in vocabulo Caprarie… Actum in predicto xenodochio; ivi
presso le Quattro Strade, 113 I NO 82-31). Questo documento (1095 agosto 1): Ingula, figlia di Pietro, e Stefano, figlio di
94 RICCARDO CHELLINI

Fig. 8 – Chiesa di San Giorgio, facciata. Fig. 9 – Chiesa di San Giorgio, ingresso laterale
a Nord.

Passando alla via Pisana, il conte cadolingio Ughiccione, sentendo vicina la morte, donò nel
1096 ai benedettini della badia di Settimo, una sors posta in loco ubi dicitur Corticelle, nel pi-
viere di San Giuliano a Settimo, a patto che vi fosse costruito un hospitjum peregrinorum sive
pauperum87. Nel 1226 i monaci lasciarono in gestione lo spedale a Bonamico e al figlio Guidone,
entrambi giudici88. Documenti più tardi citano lo spedale del ponte a Signa89. Passata la chiusa
della Gonfolina, avremmo trovato sulla via Pisana lo spedale di San Pietro a Capraia, situato
sulla sponda opposta dell’Arno rispetto all’omonimo castello dei conti Alberti, che dominava la
sponda destra90. Papa Alessandro III confermò l’hospitale de Capraria ai vallombosani di San Salvi
nel 116391. Più avanti, presso la frazione empolese di Terrafino, dove la via Pisana attraversa il

Ilpulo e di Ingula, [confessi] sumus ex nactione nostra lege (1226 agosto 16): Iacopo, abate di San Salvatore a Settimo,
vivere Langobardorum… accepimus a te Bono[filio], presbi- considerato che lo spedale di Corticelle era pervenuto ad
tero, filio quondam Petri, rectore et constructore xenodochii tantam deteriorationem quod pauperibus debita solatia non
quod est situm in capite burgi de Camollia, in vocabulo a la prebentur, nec adventare volentes ut deceret reciperentur
Piscina, ex parte suprascripti xenodochii, argenti denariorum ibidem, cede ai giudici Bonamico di Guidone e Guidone, suo
bonorum Lucensium libras viginti, finitum pretium, pro nostri figlio, integre hospitale de curticelle ad Septimum et eius terras
portionibus de petia una de vinea cum arco suo ubi extat iuris et possessiones et vineas, boscum et iura. Que terre sunt posite
nostri in integrum quas habere visi sumus in vocabulo Valle in primis iuxta et prope dictum hospitale, et tales habet fines
Longa… Actum apud suprascriptum xenodochium territorium dicta prima petia: a primo latere est strata, a secundo et tertio
Senense; ivi (1095 agosto 1): promessa di difesa, riguardante la decurrunt ei vie, a quarto vero latere currit ei via et de Fili-
precedente vendita, fatta dai medesimi a Bonofilio presbitero, guernis et consortum eorum. Alia petia sic decernitur et est ibi
filio quondam Petri, rectori et constructori xenodochii quod est prope: a primo latere est strata predicta, a secundo latere currit
situm in capite burgi de Camullia, in vocabulo a la Piscina; ivi ei via, a tertio latere est plebis de Septimo, a quarto vero latere
(1099 ottobre 2): …In Christi nomine placuit atque convenit est fili Angiolini de Curticelle. Item terra et vinea et boscum
inter Vuilelmum, filium quondam Stephani, et Vulpulam, filiam prope Villanum, et sic decernitur: a primo latere currit aqua sive
quondam Melani, iugales… nec non et Iohannem, rectorem et rivus qui dicitur Manimorta, a secundo est filiorum Castaldi
prepositum xenodochii Bonifilii presbiteri, quod est situm in de Sancto Martino la Palma, a tertio latere est hominum de
vocabulo ale Piscine, ut in Dei nomine dare debeant sicut et a Villano, a quarto vero latere est predicte plebis…
presenti dederunt ipsi iugales eidem xenodochio ad pensionem 89
ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano in Cestello
reddendam libellario nomine, idest petiam unam de terra (1257 marzo 10, s.c. 1258): vendita di un pezzo di terra e vigna
aratoria in integrum que iacet in vocabulo a Castagneto… nel distretto di Gangalandi... Actum apud ospitale pontis Sin-
per l’annuo canone intra mensem decembris di tre denari gne. Le dette terre non dovranno esser alienate e le loro rendite
lucchesi di argento… Actum ante supradictum xenodochio… dovranno servire ai poveri e ai pellegrini. Pro presenti quidem
Carte San Miniato, doc. 49 (1110 gennaio 9, Laterano): il contractu et ad recognoscendum honorem et reverentiam ab-
papa Pasquale II conferma al monastero di San Miniato tutti batie et abbatis, et ad futuram memoriam, dictus Bonamicus,
i beni, fra cui la ecclesiam Sancti Petri sitam in Camullia cum vel alia persona pro dicto hospitali, debeat et teneatur dare
ospitali et omnibus pertinentjis. Vd. anche REPETTI, I, p. 406, annuatim dicte abbatie in festo sancti Salvatoris unum cereum
s.v. Camollia, o Camullia. de libbra, et in festo sancti Quintini unam libbram piperis… Ad
87
Carte Settimo, 23, p. 62 ss. (1096 maggio 10, Monte maiorem firmitatem dictus abbas, inducens ipsos Bonamicum
Cascioli). Nel novembre 1114 era rettore dello spedale et Guidonem in corporalem possessionem dicti hospitalis et
Martino (Ivi, 44, p. 103 ss.), nel gennaio 1133 Iohanne de terre ibi posite, tradidit eis claves predicti hospitalis… Actum
Rivo (Ivi, 55, p. 125 s.), nel gennaio 1187 Raginerio (Ivi, 95, ad Septimum in ecclesia supradicta sancti Salvatoris…
p. 208 ss.), nel settembre 1204 Orlando (ASF, Diplomatico, 90
REPETTI, I, 1833, p. 465, s.v. Capraia (S. Miniato di).
Firenze, San Frediano in Cestello: 1204 settembre 5, segnato 91
Documento edito in LAMI 1758, II, p. 1233, e regestato in
per errore luglio 5). Vd. anche REPETTI, I, 1833, p. 509, s.v. Regesta pontificum Romanorum, ed. Ph. JAFFÉ, II, Lipsiae 1888,
Casellina e Torri. nr. 10875 (1163 giugno 5). Clemente III confermò il privilegio
88
ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano in Cestello del predecessore: LAMI 1758 II, p. 995 (1189 gennaio 2).
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 95

fiume Elsa, i conti Guidi possedevano nel XII secolo lo spedale di Cerbaiola, venduto nel 1255
con la cessione di Empoli al Comune di Firenze92.
Lo spedale di Ripalta, documentato dal 1168 presso la pieve di San Vincenzo a Torri, era in-
vece situato su un antico raccordo fra le vie Pisana e Senese. Esso partiva dalla confluenza della
Pesa nell’Arno e risaliva il corso della Pesa in destra del fiume, toccando le pievi di Sant’Ippoli-
to, San Vincenzo e San Giovanni in Sugana e congiungendosi alla via Senese in San Casciano a
Decimo93.
Sulla via che conduceva a Bologna per la val di Marina, lo spedale di Calenzano è documentato
dal 117194. Più a Nord, in vetta al valico delle Croci si trovava uno dei primi spedali noti nel
contado fiorentino, quello di Africo, o di Combiate, con chiesa dedicata ai santi Nazario e Celso95,
menzionato dal primo gennaio del 1073 nelle pergamene dei vallombrosani di Passignano, un
documento sfuggito al Repetti96. Le cronache fiorentine all’anno 1202 ricordano la distruzione di
Combiate e di Semifonte97, due luoghi dove i vallombrosani di Passignano avevano solidi interessi.
Pochi anni dopo troviamo comunque il nostro spedale in piena attività sotto la guida del nuovo
rettore Guerruzzo, protagonista di numerose acquisizioni di terre98. Sulla medesima direttrice
si trovava lo Stale, situato presso un importante snodo viario appenninico per Bologna, donato

92
REPETTI, I, 1833, p. 653, s.v. Cerbaiola. Tederico, figli di Ugo, donano in ospitale et venerabile loco, q.
93
Carte San Miniato, 94 (1168 maggio 29, in castro de est posito in loco q. vocatur Africo, infra pertinentja de castro
Pogne): Ricovero di Tancredi da Pogna e la moglie Aimelina di q. vocatur Combiate... terra et rebus q. sunt ad uno tenentes,
Gradalone da San Gimignano vendono a Boncio, spedalingo q. sunt posite in Silva Plana, entro i seguenti confini: de una
del monastero di San Miniato, tutti i beni posseduti in loco parte est clausura de Africo, et de alia parte est fini terra Angli a
Sancta Maria a Novole iusta Pesam, sicuti currit aqua que Cruce de Gitu (Croci di Calenzano), sibe de aliis ambo partibus
dicitur Soana (torr. Sugana) usque in flumen Pese, et sicuti decurrit eis vie, a patto che, venuto meno lo spedale e l’usum
currit Pesa usque ad rivum Tortum (borro Ritortolo), qui rivus pauperum, i detti beni tornino in loro proprietà, o passino al
suptus plebem Sancti Vincentii est (San Vincenzo a Torri), monastero di Passignano; ivi Passignano, San Michele (1116
iusta ospitale de Ripalta (cfr. Molino di Ripalta, 106 III SE marzo 23, s.c. 1117): Grisolfo del fu Arnolfo e la moglie Imi-
PP67-41), et sicuti trait podium de Marciaula (Marciola) usque lda del fu Giovanni donano in osspitjo et domus q. est posito
ad podium de la Romula (Romola) et usque ad supra dictam ad Africo, ubi modo Ugo regere videtur… una petja terra q.
Soanam. Lungo questa via, nelle località Certano e presso il est posita a Bufalacio… Actum in predicto osspitjo; ivi (1146
cimitero della pieve di San Giovanni in Sugana, il Gruppo aprile): Segnorellus filius bone memorie Petri Pagani dona in
Archeologico di Scandicci ha raccolto, in alcune ricognizioni hospitale et oratorio posito in Combiate, ubi Favallia dicitur,
di superficie, numerosi reperti archeologici riferibili a fattorie ad honorem et reverentiam monasterii Sancti Michaelis siti
di età imperiale romana. Pasingnano, et hoc per manum tuam Ugo custos qui modo in
94
ASF, Diplomatico, Archivio generale dei contratti predicto hospitale preesse videtur, videlicet unam petiam terre
(1171 settembre 12, segnato per errore 1172 settembre 13): posite in vico Sancti Rufiniani territurio plebis Sancti Donati
In nomine domini nostri Ieshu Christi Dei eterni anno ab sito Marine iudicaria florentina… Actum Somaria in ecclesiam
incarnatione eius millesimo centesimo septuagesimoprimo, II Sancti Michaelis (Sommaia); ivi (1159 luglio 6): Guido di
idibus septembris, indictione V. Manifestus sum Orlandinitthus, Ubaldo dona in ospitale de loco Comblade, in quo ospitale
filius quondam Ivoni de Combiate, quia per hanc cartam vin- Guillelmus residet ospitalingus, i beni posseduti in vico Ca-
do et trado tibi domino venerabili Piero, rectori ospitalis de sallia… Actum Montecucculi, iudicaria Florentina; ivi (1201
Calenzano ad proprietatem eiusdem ospitalis, videlicet unam febbraio 1, s.c. 1202): Fidanza olim Gianelli de Guego vende
petiolam terre que est in loco ubi dicitur Padule, et tenet caput a Banduccio, rectori ospitalis de Combiate, accipienti vice et
aquiloni in terra Capallese, aliud caput meridianum cum latere hutilitate eiusdem ospitalis de Combiate, quod ospitale est in
orientis in terra filiorum Teuthi Pagani, aliud occidentis in terra loco qui dicitur Africo… unam petiolam terre que est prope villa
eiusdem ospitali... Pro qua recepi a te suprascriptum XVI solidos de Vicc[lo] in Campo Silvoli, que petia sic decernitur: a duobus
lucensis monete… Actum loco Gereto prope ecclesiam Sancti lateribus est terra predicti ospitalis, a tertio filiorum quondam
Salvatoris in via publica. Un documento del 1343 ricorda lo Gerardini, a quarto mea predicti Fidanze reservata, muro in
spedale di San Lazzaro di Colle: Archivio Vescovile di Fiesole, medio… Actum in mercato callis de Matrocepto de Latera.
Ordinationes, VIII, 5; DE LA RONCIÈRE 2005, p. 111, carta 4, 97
DAVIDSOHN, Storia, I, p. 947.
nr. 12. Si tratta probabilmente dello stesso spedale. 98
ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele (1206 feb-
95
RDTuscia, I, 157 (aa. 1276-77): Hospitale S. Nacçarii braio 25, s.c. 1207): Beneincasa filius quondam Belgianni de
et Eccelsi de Conbiata. Ulmi dona a Guerruzo hospitalingo hospitalis de Combiate,
96
ASF, Diplomatico, Passignano, San Michele ASF, Diplo- recipienti pro dicto hospitali, 10 pezzi di terra posti in curia de
matico, Passignano (1072 gennaio 1, s.c. 1073): Breve securi- Combiate… Actum in hospitali dicto; ivi (1209 febbraio 4, s.c.
tatis hac (sic) firmitatis pro futuris temporibus ad memoriam 1210): Pietro figlio del fu Ivo e Guidone suo nipote, figlio del
habendam vel retinendam quod factum est infra castello quod fu Orlando di Ivo, donano a Guerruczo dei gratia hospitalis de
vocatur Latera. In presenza di diversi testimoni, fra cui Pietro Combiate rectori …unam petiam terre que est ad Soli in curia
de loco Comblade, i fratelli Uberto et Teuderico, figli del fu de Combiate… Actum apud predictum ospitale de Combiate;
Ugo, investono Uberto, rettore e custode dello spedale posto in ivi (1210 agosto 19): Buccia, figlio del fu Bruno da Vico,
loco qui vocatur Silva Plana prope loco qui nominatur Africo, Oddolino, figlio del fu Renucciolo, genero del detto Buccia,
ad partem eiusdem hospitalis de terra et vinea petja una que est e Adalina, moglie di Oddolino e figlia di Buccia, vendono a
posita in loco qui vocatur Stabli[a], a condizione che ibidem Guerruczo, rectori ospitalis de Combiate unam petiolam terre
permanead ad utilitatem et usum et victum pauperibus, et et rei que est in curia de Combiate a la Spelunca prope rivum
egenis advenis, et peregrinis, qui ibidem receptum fiunt, e che Backerai con i seguenti confini: a primo latere est terra filio-
Uberto e i suoi successori paghino ai detti fratelli una pensione rum Renuccini de Cetorniano, a secundo Rodolfuccii de Vico,
in septimana de nativitate domini per unumquemque annum filium olim [spazio vuoto] a tertio prescripti ospitalis, a quarto
argenti denarii duo boni et spendibili (sic); ivi (1078 maggio, via… Actum in villa de vico in curia de Combiate; ivi (1212
Vicisimo), cit. in REPETTI, I, p. 789, s.v. Combiate; Uberto e maggio 1): Giovanni figlio della fu Maria rinuncia in mano
96 RICCARDO CHELLINI

Fig. 10 – Spedale di San Piero a Sieve.

Fig. 11 – Spedale di San Piero a Sieve, iscrizione.

ai benedettini della Badia di Settimo dal conte cadolingio Guglielmo di Lottario nel 104899. La
località è documentata anche nel 1091 e nel 1092100.
Un po’ più tardi appaiono nei documenti tre spedali lungo la via che conduceva a Bologna od
Imola toccando la pieve di San Piero a Sieve, Fontemanzina, l’odierno passo di Osteria Bruciata,
e la pieve di Cornacchiaia. Nel 1221 abbiamo notizia di un rettore dello spedale di Tagliaferro101.
Lo spedale di San Piero a Sieve è documentato dal 1184 e un’iscrizione inserita nella controfac-
ciata della pieve ricorda che nel 1275 il prete Giambuono commissionò ad un maestro Panicia
la costruzione di uno spedale. Eccone il testo: † A. D. MCCXXV / presbiter Gia(n)ibuonus fecit

al domino Caputinsacco, superna gratia ecclesie et canonice 100


Carte Settimo, doc., 19, p. 53 ss. (1091 settembre 2;
Sancte Marie de Vicesimo priori venerabili atque dignissimo, Valle Bona): Angelus, priore de loco Stale, misso domni Actji
accipienti procuratorio pro monasterio et abatia de Pasingnano, abbati de monasterio de Septimo, versa 4 lire di denari luc-
et Jeronimo abate ipsius monasterii, et pro Guerruczo ospitalis chesi, per conto di Ughiccione, figlio de fu conte Bulgaro, a
de Combiate rectore… ad ogni diritto a lui competente nella Bernardo del fu Tegrimo, avendo da lui acquistato tutti i suoi
badia, monastero e spedale predetti… Actum iuxta mercatum beni posti in San Martino Adimari e nella corte e castello di
callis de Matracepto; ivi (1212 gennaio 3, s.c. 1213): Orlandino Montecarelli… Actum ubi nominatur Valle Bona, comitatu
figlio di Dente e Guinizzo col consenso di suo figlio vendono Florentino…; ivi, doc. 21, p. 58 ss. (1092 marzo 4): Angelus,
a Guerruczo, superna gratia ospitalis de Combiate rectori… priore de monasterio de Valle Bona sito Stale, versa 40 soldi
unam petiam terre prope crucem et collina de Combiate… di denari lucchesi, per conto del conte Ughiccione, figlio del
Actum apud predictum ospitale de Combiate. conte Guglielmo Bulgaro, a Porpore, figlia del fu Bernardo
99
Carte Settimo, doc. 9, p. 23 ss. (1048 dicembre 7, mo- Adimari da Campi e vedova di Tegrimo del fu Uberto, avendo
nastero di Settimo): il conte cadolingio Guglielmo Bulgaro di da lei acquistato la sua porzione della chiesa di S. Martino Adi-
Lotario dona ai monaci benedettini di San Salvatore a Settimo mari con le terre annesse… actum ubi nominatur Mercuiano
oratorium et ecclesiam, que olim fuit edificata ad honorem Dei comitatu florentino…
et sancti Salvatoris, que est posita in loco Gallano (Galliano), 101
ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano in Cestello
ubi dicitur Ospitale… più avanti si legge predictum oratorium (1220 novembre 30, in castro de Spugnole): questo documento
et ecclesiam sito Hospitale... Cfr. REPETTI, III, p. 702, s.v. contiene una mallevadoria datata 8 gennaio 1221, che è quella
Ostale, Stale. CHINI 1875, IV, 1, p. 13, asserisce che lo Stale fu che qui interessa perché scritta in presentia Reinaldi filii Rugeri
fondato da Lotario nel 984, ma non apporta documenti. et Sigardi rector ospitalis Tagliaferri.
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 97

fieri / istud ohspitale p(ro) a(n)i(m)a sua. M(agister) Pani/cia fec(it). La struttura è identificata con
l’odierno oratorio della confraternita, posto di fronte alla pieve sul lato opposto della strada
(Figg. 10-11)102. Più a Nord, sul passo di Osteria Bruciata, il nuovo spedale di San Niccolò a Fon-
temanzina fu costruito nel 1221 da Berlinghiero di Girolamo e dal socio Mannello de’ Galli103,
personaggi influenti, legati al movimento francescano, il primo dei quali si era fatto notare come
fiduciario del cardinale Ugolino dei conti di Segni, futuro papa Gregorio IX, che soggiornò a
Firenze nell’aprile e nel novembre 1221104. Dopo Mannello, furono rettori dello spedale Dono-
sdeo, Cambio e frate Pietro105. Hanno per noi notevole interesse due documenti del 1229, che
parlano del passaggio della strada Florentina publica presso lo spedale106. Dopo la realizzazione
della variante trecentesca che univa Scarperia e Firenzuola attraverso il passo del Giogo, l’ospedale
cadde in disuso e nel XVI secolo era in rovina107.
Sulla via per Forlì e Ravenna, a valle dell’odierno passo del Muraglione (q. 907) e nel versante
romagnolo, il conte Guido decise di erigere nel 1069 uno spedale ad usum monachorum et ospitum
nei pressi dell’Acqua Cheta, fiumicello alle sorgenti del Montone cantato da Dante108.

102
ASF, Diplomatico, Luco di Mugello, San Pietro, appen- in loco qui dicitur Fortio al prezzo di 4 lire e 10 soldi di bo-
dice (1184 giugno): Ugo, prete, abate, rettore ed amministra- lognini piccoli…; ivi (1268 ottobre 3, Castro): Maffeo del
tore ecclesie et monasterii Santi Petri sito Muscecto (badia di fu Buonafede di Castro vende per il prezzo di 5 lire… fratri
Moscheta) vende a Peppo olim filium Ugolini… unam petiam Piero, hospitalario hospitalis Sancti Nicolai de Fonte Mançina…
terre positam in loco qui dicitur Susciano… Actum in ospitale petiam unam castangneti positam in curia Castri in loco qui
Sancti Petri de Seve. L’iscrizione è trascritta e riprodotta da dicitur Furtio…; ivi (1273 novembre 6): Orlandino di Uguc-
BROCCHI 1748, p. 196 s.; cfr. REPETTI, V, p. 107, s.v. San Piero cione da Castro vende per 4 lire di bolognini piccoli a fratri
a Sieve. Una copia è murata nella parete laterale esterna del- Petro, hospitalario hospitalis Fontis Mançine… petiam unam
l’oratorio della confraternita. Castangneti postiam in curia Castri in loco qui dicitur Fortio,
103
ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano in Cestello cuius hii sunt confines: a primo eiusdem hospitalis, a secundo
(1221 dicembre 30): Florentinus vende a Berlingherio, filio Feducci, a tertio heredes Mannelli, a quarto via publica…
olim Jerolimi, recipienti procuratorio nomine ad vicem et Actum in foro Rivicornaclarii…
utilitatem hospitalis novi de Fonte Manzina, nuper a te, dicto 106
ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano in Cestello
Berlingherio, et Mannello de Galli, socio tuo, eddificato et facto, (1229 giugno 24): …Nos quidem Gianni de Acçone et Ben-
tuisque successoribus, aut cui vice et nomine dicti hospitalis civenni, filii olim Vivianucci, et Baldovinus a Campolungo,
dederis vel concesseris in perpetuum, videlicet integre tres petias et Gianni Fulkardini de populo Rivi Cornaclarii… vendimus
terrarum et rerum positarum in populo Sancti Mighielis de Lez- et tradimus tibi Donusdeo, rectori et yconomo ospitalis San-
zano… Actum apud ecclesiam Sancti Gavini de Cornochio...; cti Niccholai sitis (sic) in iugo Alpis, in loco qui dicitur Fons
ivi (1228 agosto 21): …Constat me quidem Bernardum filium Mançinus… pectiam unam terre boscive infra curte Rivi Cor-
olim Guilielmi de Rena… vendidisse, tradidisse et concessisse naclarii in iugo Alpis in Fonte Mançina, prope dictum ospitale
tibi Mannello, filio olim [spazio], rectori et vicario hospitalis ex parte Rivi Cornaclarii sub strada, cuius tales sunt confines:
siti in loco Alpis, qui dicitur Fonte Mançina… quandam petiam ab orientem est fossatum de Scortiaolo, a meridie possidet
terre et prati et rei posite ad iugum Alpis, in loco qui dicitur lo dictum ospitale, ab occidente sstrada (sic) Florentina publica,
Pogiarello, confines cuius sunt hii: a primo latere via, a secundo ab aquillone vero Ugolinus Garganelli de Rivo Cornaclario et
dicti hospitalis, a tertio Gianni del Fabro, a quarto idem Gianni ospitale prefatum… pro pretio sex librarum bononinorum et
et Gerardus Tieti… per il prezzo di 40 soldi… Facta fuerunt diodecim (sic) solidorum et otto denariorum… Actum in curia
hec omnia aput Meçallam. plebis Rivi Cornaclarii…; ivi (1229 settembre 4): …Constat
104
DAVIDSOHN, Storia di Firenze, II, p. 121, nt. 2; VII, me quidem Bencivenni olim Viviani da Rivo Cornaclario…
p. 95 s.; ID., Forschungen, IV, p. 391, cita un documento vendidisse… tibi Donusdeo… rectori ospitalis Sancti Niccholai
dall’Archivio dello Spedale di Santa Maria Nuova, reg. A, f. de Fontemançina siti in iugo Alpis… petiam unam terre boscive
2 (1224 luglio), in cui «Ventura et Rinaldi f. Nane vendero a que est infra curte et districtu de Rivo Cornaclario in loco qui
Berlinghieri, ricevente per lo spedale di Fontemanzina posto dicitur Fontemançina… cuius tales sunt confines: primo latere
nell’Alpi una casa et terra poste fuori de le mura nuove de la de subtus versus orientem est fossatum, secndo possidet tu ipse
città nel borgo di Santa Maria Novella…». emptor, tertio strada Florentina publica, quarto vero Ugolinus
105
ASF, Diplomatico, Firenze, San Frediano in Cestello Garganelli et ospitale prefatum… pro pretio viginti et septem
(1229 maggio 12): …Constat Guilielmectum, filium olim solidorum bononinorum bonorum, quatuor denariorum…
Guidocti de Ferroni… vendidisse, tradidisse et concessisse Don- Actum in burgo Rivi Cornaclarii domum Pagani…
nusdeo, massario et hospitalario hospitalis siti in iugo Alpium, 107
STERPOS 1961, p. 42 ss., n. 61, lo identifica a ragione con
in loco qui dicitur Fonte Mançina… unam petiam terre et rei lo «spedaletto rovinato» raffigurato a breve distanza dal passo
posite prope Gretole in loco qui dicitur Carpineta… pro pretio in uno schizzo topografico del perito Santi Parigi, datato 22
vigintasex librarum bonorum denariorum Pisanorum… Factum settembre 1585: ASF, Nove conservatori, 1338.
apud Castangnolium…; ivi (1231 novembre 17): …Constat me 108
DANTE, Inf. XVI, 97. Carte S. Miniato, doc. 34 (1069
quidem presbiterum Iohannem rectorem et custodem ecclesie gennaio 13, Firenze): Il conte Guido stabilisce di far edificare
Sancte Marie de Mercoiano… vendidisse… tibi Donosdeo, uno spedale e una chiesa in onore di San Miniato in località
custoditori et gubernatori hospitalis de Fontemançina… quan- Quercus Sancti Martini e, per dotazione, offre all’abate e ai
dam petiam terre et prati positam prope dictum hospitale in suoi successori un pezzo di terra: Concedimus autem et iure
loco qui dicitur ale Guardore... et unam petiam terre positam perpetuo confirmamus edificande ecclesie et ospitali ad usum
al Farfalaio… al prezzo di 21 lire di moneta pisana… Actum monachorum et ospitum terram totam ex omni parte predicte
Meçalle… Il medesimo, nello stesso giorno e luogo, vende a ecclesie per designatos terminos, id est: ex una parte fini plano
Donosdeo quandam petiam terre, prati et boski positam in de Forcelle, ex alia parte fini rivo qui dicitur Aqua Quieta, de
Monteguççoli al prezzo di 6 lire; ivi (1252 febbraio 3, s.c. 1253, tertia fini iugo Alpis et ex quarta parte fini Ripa de Sopra. Del
ad Kastro): …Giannes dalla Fonte et Argomentus eius filius… percorso della via da Forlì a Firenze in età romana ha trattato
vendiderunt… Cambio, rectori hospitalis de Fontemançina… UGGERI 1992, p. 192.
petiam unam terre, rei et castagneti, positam in curia Kastri
98 RICCARDO CHELLINI

12

14

Figg. 12-14 – Ponte di Vicelli. 12. Paramento


coscia; 13. Paramento murario del viadotto; 14.
13 Imposta dell’arco con risega fra spalla e arcata.

Sulla via aretina passante per il Casentino, l’ospedale del Girone è documentato dal 1204109. Più
avanti oltre la Sieve e in prossimità del passo della Consuma (q. 1060), è documentato dal 1178 lo
spedale di Moscia, così chiamato perché era vicino alle sorgenti del torrente Moscia, un affluente
di sinistra della Sieve110. Dopo la metà del secolo XIII, le strutture spedaliere si moltiplicano e
si ramificano ovunque. Non possiamo perciò più considerarle segnali affidabili dell’antichità di
una strada, anche perché sembra che la funzione di assistenza ai poveri e ai malati cominciasse a
prevalere sull’accoglienza dei pellegrini111. Fra gli anni ’90 del Duecento e la fine del XIV secolo,
si contano ormai più di cento spedali sparsi capillarmente nel territorio fiorentino112.
109
PASSERINI 1876, p. 396 (1204 agosto 13): Ugolinus, 111
Cfr. SZABÒ 1992a, p. 298 ss.
conversus hospitalis de Girone, …dicit quod non venit de li- 112
Il nutrito elenco approntato da DE LA RONCIÈRE 2005,
centia Lotarigi, hospitalarii de Girone. Presso la chiesa di San p. 110, carta 4, documenta 7 spedali negli anni ’50 del Due-
Michele Angelo di Sieve fu costruito un ponte, documentato cento, nessuno nel decennio successivo, 4 negli anni ’70, 5
nel 1299, che diede il nome al villaggio di Pontassieve: cfr. negli anni ’80, 12 negli anni ’90 e ben 90 nel XIV secolo, ma
ASF, Provvisioni, Registri, 10, f. 108 (1299 settembre 25), cit. la documentazione anteriore alla metà del XIII secolo è scarsa.
in CHELLINI 2004, p. 148. Le mie ricerche d’archivio hanno evidenziato l’omissione di
110
ASF, Diplomatico, Vallombrosa, Santa Maria d’Ac- alcuni spedali, Acquacheta, Memugnano, Cornio, Moscia, Ri-
quabella (1177 gennaio 29, s.c. 1178, in castro de Licio): il palta, e anticipato la datazione di molti altri. ID., p. 110, carta
monastero di Vallombrosa conferma la locazione libellario 4, nrr. 39-45, trova notizie di ben 7 spedali a Figline, quello
nomine tibi Licesi et tuis heredibus legitimis descendentibus a dedicato a San Domenico, documentato nel 1279, ed altri sei,
te, videlicet integram venditionem et donationem quas fecisti tutti attestati nel XIV secolo; in CHELLINI 2004, p. 162, scheda
in predicto monasterio de castro de Restunclo (Ristonchi) et de 12, ho retrodatato al 1071 la presenza di uno spedale in questa
curia eius, et ita decernuntur: de ecclesia Sancti Petri sito Pitiani località. DE LA RONCIÈRE 2005, carta 4, nrr. 85 e 101, distingue
(Pitiana) usque ad ecclesiam et plebem de Glacito (Diacceto), lo spedale di Ubaldo da quello di Riofino, citando rispettive
et de ospitale de Musce usque ad fossatum de Castellunclo (cfr. attestazioni del 1239 e del 1174, ma si tratta del medesimo
Fattoria di Moscia presso la Consuma)… Et tu, iam dicte Licise, spedale, documentato già nel 1131-1132 (CHELLINI 2004, pp.
et tui prefati heredes dare debeatis pensionem in predicta eccle- 165 e 181, doc. 14). Per Montevarchi, DE LA RONCIÈRE 2005,
sia et monasterio… annualiter in ebdomanda Nativitatis domi- carta 4, nrr. 69-71, documenta lo spedale della Ginestra dal
ni… soldos sex bonorum denariorum et in Assumptione sancte 1283, altri due dal XIV secolo, ma una pergamena da me pub-
Marie de mense augusti triginta sex panes et nichil amplius… blicata vi ricorda uno spedale già nel 1196: CHELLINI 2004, p.
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 99

5. ASPETTI TECNICI DELLA «RIVOLUZIONE STRADALE» DEL DUECENTO: IL PONTE DI VICELLI


Contrapponendosi alle grandi famiglie comitali e agli ordini monastici che gestivano le strade,
le città italiane più vitali cominciarono a riappropriarsi del comitatus dal XII secolo, attuando
una politica di acquisti e conquista dei castelli circostanti. I maggiori mercanti avevano sempre
più bisogno, per i loro scambi, di collegamenti sicuri con le altre città, mentre il notevole accre-
scimento demografico e le ricorrenti carestie imponevano l’acquisto di derrate da luoghi sempre
più lontani. Questo processo stimolò l’attuazione di una politica stradale incisiva, atta a garantire
la sicurezza attiva e passiva dei trasportatori e dei viaggiatori. Il mantenimento della sicurezza
attiva richiedeva l’impiego di posti di controllo e di milizie a cavallo, mentre la sicurezza passi-
va si poteva ottenere soltanto con la manutenzione continua delle strade, con la costruzione e
la ricostruzione dei ponti, in modo da prevenire i numerosi incidenti causati da frane, crolli e
piene113. Gli interventi interessarono soprattutto le vie maestre, ma anche vie di mero interesse
locale. Non si ebbe del resto ovunque una crescita omogenea e generalizzata della rete stradale.
La volontà di attrarre i traffici indusse alcuni centri urbani medievali a smantellare le vie che li
evitavano. Per esempio, nel 1342 gli Aretini cercarono di distruggere la cosiddetta “stradella”,
una via che raccordava la Cassia della Valdichiana con quella del Valdarno, evitando Arezzo114.
In età più antiche, vescovi e uomini di chiesa avevano usato finanziare opere impegnative
come i ponti con il sistema delle elemosine115. Nel XIII secolo i Comuni adottarono il sistema
delle imposizioni. Firenze addebitava il costo intero o parziale dei lavori alle comunità circostanti
l’opera, garantendo la solvibilità con un sistema di fideiussioni, il cui funzionamento traspare
dalla vertenza sul crollo del ponte di Montesassi sulla Sieve116.
La viabilità nel territorio fu affidata ai Sei del biado o dell’Abbondanza, ufficiali deputati al
vettovagliamento117, ed infatti l’esigenza di garantire un viaggio sicuro ad uomini e bestie che
trasportavano le derrate a Firenze dai mercati agricoli del contado è spesso dichiarata a chiare
lettere nelle petizioni presentate al Comune per il restauro dei ponti e delle strade118.
Tra la fine del Duecento e il primo terzo del Trecento gli interventi sulle strade furono nume-
rosissimi e l’attività dei maestri costruttori notevole119. Alcuni documenti forniscono informazioni
sui materiali, la carpenteria e le tecniche usate per erigere i ponti, oltre che sulle misure120. A
questo proposito, vorrei spostare l’attenzione su un ponte costruito sulla via Aretina nel 1293.
Ci troviamo sul fosso di Vicelli, nel versante collinare fra l’Apparita e San Donato in Collina. Di
questa opera pubblica ho potuto rintracciare l’accurato capitolato tecnico d’appalto, che riporta
tutte le misure del ponte da edificare in località Viscelle sulla strada per Figline. Il ponte deve
essere costruito de lapidibus et calcina, per una lunghezza di 50 braccia (m 29,15) e una larghezza
di 9 braccia (m 5,247); l’arco deve essere alto 12 braccia dal letto del fossato al piano del ponte
(m 6,996); le cosce devono essere fondate sotto terra per 3 braccia (m 1,749) e devono distare
fra loro 8 braccia (m 4,664); i parapetti devono esse alti un braccio (m 0,583); il piano del ponte
deve essere lastricato. I maestri costruttori sono obbligati a garantire la manutenzione del ponte

191 s., doc. 33. A Calenzano, DE LA RONCIÈRE 2005, carta 4, Cassia abbia scelto un percorso che raccordava direttamente
cita lo spedale di San Lazzaro di Colle dal 1343, mentre ve ne Chiusi con Firenze evitando Arezzo, non escluderei che che
è documentato uno dal 1171 (vd. nt. 94). A San Piero a Sieve la ‘stradella’ ne abbia ricalcato un segmento. Indicatore è
lo studioso francese ricorda lo spedale costruito nel 1275, ma un toponimo moderno designante il pilastro posto sul trivio
ne esisteva uno già nel 1184 (vd. nt. 102). Firenze-Arezzo-Valdichiana nel 1778 (BACCI, p. 95).
113
In generale vd. SZABÒ 1986, p. 104 ss., che ha compul- 115
Cfr. Thom. Aquin., Summa theologiae, quest. 187.
sato le fonti statutarie di molti Comuni. Per Firenze CHELLINI 116
Per un’analisi articolata dell’uso amministrativo delle
2004a. imposizioni vd. CONTI 2004, p. 211 ss. Per la vertenza sul ponte
114
BACCI, p. 73 ss., che cita ASF, Segreteria di Finanze, 868, di Montesassi CHELLINI 2004b, p. 293 ss., doc. 1.
anno 1777. Le località sulla ‘stradella’ citate dal Bacci, Re di 117
MUZZI 2005, p. 31.
Fonte presso San Giuliano e il Cerro sono entrambe situate 118
Per i ponti delle Sieci e di Bovino vd. CHELLINI 2004a,
a ovest del canale maestro della Chiana. Il Bacci nota che in docc. 2 (1297 ottobre 2) e 3 (1297 dicembre 7), p. 296 ss. Per
età medievale la ‘stradella’ attraversava la Chiana al Ponte alla il ponte di Cerbaia sulla via Volterrana e via da Dicomano a
Nave, per proseguire verso Castiglion Fiorentino e Cortona. Firenze vd. CONTI 2004, p. 217 s. (1295 maggio 26), doc. 8, p.
La naturale prosecuzione della ‘stradella’ resta però ad Ovest 228 (1305 agosto 13). Per la via da Porta alla Croce a Pontas-
della Chiana e conduce a Mugliano e Pieve al Toppo, dove da sieve vd. CHELLINI 2004, p. 147, nt. 40 (1320 agosto 14).
tempo è stato riconosciuto un troncone della via Cassia che 119
CASALI 1995; DE LA RONCIÈRE 2005, p. 88, carta 2.
prosegue verso Sud per Alberoro, Foiano, La Selce, Bettolle, 120
CONTI 2004, docc. 31 (1325 aprile 30): costruzione di
Acquaviva e Chiusi. La presenza di spedali a Battifolle nel un ponte di legno sulla Sieve presso Borgo San Lorenzo; 44
1154 e a Pieve al Toppo nel 1182 (PIERI 1997, pp. 31 e 62) è (1330 marzo 6): ricostruzione in pietra di un arco del ponte
un indizio che corrobora l’ipotesi di antichità della ‘stradella’. sull’Ema; 84 (1334 gennaio 2): modifiche al ponte sulla Sieve
Se è attendibile l’ipotesi che il rifacimento adrianeo della via a Sagginale.
100 RICCARDO CHELLINI

a proprie spese per i quindici anni successivi alla data di completamento, ricevendo 150 lire di
fiorini piccoli in tre rate, la prima da corrispondere il primo maggio, la seconda a metà giugno,
la terza ad opera finita.
Confrontando le dimensioni odierne del ponte con quelle indicate dal documento, notiamo
che la maggior parte di esse collima. L’altezza dal livello dell’acqua al piano di calpestio del pon-
te corrisponde esattamente, essendo di m 6,90/7.00. La coscia è più larga dell’arco, misurando
m 5,60; il nostro documento prescrive 5,25 m di larghezza, forse calcolando la sola larghezza
dell’arcata (Fig. 14), le spallette sono larghe 0,50 m e alte 0,50/0,60 m, cioè un braccio. Soltanto
la lunghezza della campata, ammontando a 5,60/5,50 m, è superiore di circa 0,90 m alla misura
indicata nel capitolato. Fra le misure non riportate nel documento, la larghezza della carreggiata,
senza calcolare le spallette, è di 4,60/4,85 m. I conci sono squadrati nell’armilla e nelle testate,
il restante paramento murario è in pietre accapezzate (Fig. 12). La malta è piuttosto povera, un
misto di sabbia e calce ricavata dalla roccia calcarea locale detta alberese. Alcuni punti conserva-
no residui di una malta molto dura, che sembra di posa recente. Il viadotto adotta la medesima
tecnica muraria in pietre accapezzate del ponte (Fig. 13).
Nonostante l’esiguità del fosso di Vicelli, normalmente secco fra agosto e ottobre, due muri
continui incanalano le sponde raccordandosi alle cosce del ponte sia a monte sia a valle. Pochi
metri a monte del ponte è una piccola diga dal profilo concavo, realizzata a secco con conci di
alberese di grosse dimensioni (alt. media 0,30 m; lungh. max. 0,80). Il piano della diga è legger-
mente concavo e permette all’acqua di defluire per sfioramento. L’acqua in caduta ha formato
un’imponente concrezione calcarea, spessa fino a 90 cm, che suggerisce una certa antichità del-
l’opera. Esempi analoghi di età romana funzionavano da guado in sostituzione del ponte121, ma
qui il manufatto non pare proseguire oltre i due muri laterali di sponda e serve a regimentare il
getto d’acqua. Nuovi elementi per la comprensione dell’intera infrastruttura potrebbero venire
da una ripulitura dalle piante infestanti e dal consolidamento dei muri e dell’arcata.
Le nuove esigenze di Firenze, città ormai espansa in modo considerevole rispetto all’età ro-
mana, consigliarono la costruzione del ponte di Vicelli. Già nell’agosto 1285 era stata discussa
la fondazione di una o più terre, nel Valdarno superiore e in Casuberti, a condizione che fosse
proibito ai magnati della città o del contado di insediarvisi, ma il provvedimento non fu esegui-
to122. Nel 1289, la vittoria dei Fiorentini a Campaldino lasciava campo libero all’espansione del
Comune di Firenze in direzione di Arezzo, ma la decisione di procedere alla costruzione e alla
sistemazione di ponti e fonti lungo la via Aretina giunse più tardi, nel 1293-94, e soltanto nel
1299 il Comune riprese il programma di fondazione dei nuovi centri urbani nel Valdarno: San
Giovanni, Castelfranco di Sopra e Terranuova123.

FONTI EDITE
Annales Arretinorum = Annales Arretinorum maiores et minores, edd. A. BINI, C. GRAZZINI, in Rerum
Italicarum Scriptores, 2, XXIV, 1, Città di Castello 1909.
MGH, Capitularia regum Francorum, I, ed. A. Boretius, Hannoverae 1883; II, edd. A. Boretius, V.
Krause, Hannoverae 1897.
MGH, Conradi II diplomata, ed. H. Bresslau, Hannoverae-Lipsiae 1909.
MGH, Lotharii III diplomata nec non et Richenzae imperatricis placita, edd. E. v. Ottenthal, H. Hirsch,
Berolini 1927.
Carte Badia = Le carte del monastero di Santa Maria in Firenze (Badia), I (sec. X-XI), ed. L. Schiaparelli,
Roma 1913; II-III (sec. XII), ed. A.M. Enriques, Roma 1990.
Carte canonica cattedrale Firenze = Le carte della canonica della cattedrale di Firenze (723-1149), a
cura di G. Piattoli, Roma 1938.

121
BRUSCHETTI 1993, p. 170 ss., figg. 5-7; GALLIAZZO, I, dovette aspettare il 1337: FRIEDMAN 1996, pg. 28, doc. 2
1994, p. 162 ss. (1299 gennaio 26), doc. 16 (1337 aprile 2). Le fondazioni
122
FRIEDMAN 1996, p. 278, doc. 1. Le ‘terre nuove’ erano di Scarperia nel 1306 e di Firenzuola nel 1332 aprirono una
centri di fondazione pianificati con pianta ortogonale. Nel variante della via per Bologna, quella del passo del Giogo,
1284 il Comune di Firenze cominciò a costruire la ‘terra nuova’ fino allora poco battuta dai viaggiatori. Documenti del 17
di Pietrasanta sulla via Faentina, in prossimità del passo della settembre 1332 ricordano un ufficiale eletto dal Comune di
Colla di Casaglia. Firenze in terra que dicitur Fiorenzuola che riscuotere i tributi
123
I lavori per la fondazione di San Giovanni e Castel- pro faciendo portas et pontem dicte terre: CONTI 2004, doc.
franco di Sopra cominciarono subito, mentre Terranuova 65 e 68, p. 258 s.
NOTE SULLA VIABILITÀ MEDIEVALE E LE SUE INFRASTRUTTURE (PONTI E SPEDALI) NEL TERRITORIO FIORENTINO 101

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INDICE DEI PONTI E SPEDALI CON LA PRIMA ATTESTAZIONE

Ponti Calzaiolo 1139


de Altare 1153 Camollia, loc. Piscina (Siena) 1091
sul Cesto 1196 Capraia 1163
a Ema (pons Vetus) 1193 Cavriglia 1117
di Gràssina 1160 Cerbaiola XII sec.
a Greve (pons Florentinus) 1038 Combiate, o di Affrico 1073
di Incisa 1101 Corneto, o Cornio 1157
alla Mandria 1114 Corticelle 1096
di Larciano-Borgo San Lorenzo 1178 Figline, loc. Barbarino 1071
Petrino 1038 Fontemanzina (Osteria Bruciata) 1221
Pontorme 780(?), 1104 Fonte Vivo, poi del Bigallo 1214
di Prato 1100 Girone 1204
Ramagliano-Sambuca 1123(?), 1154 Malsani 1198
a Signa 1217 Massapagana 1153
di Zani 1158 Memugnano 1129
Monteboni 1095
Spedali urbani e suburbani Monteripaldi 1138
Montevarchi 1196
Badia di Santa Maria 1031 Moscia 1178
Caput pontis 1068 Ripalta 1168
San Giovanni 1040 San Giorgio Alleroso 1184
San Pancrazio 1163 San Piero a Sieve 1184
Sambuco 1123
Spedali nel territorio Stale, San Salvatore 1048
Acquacheta 1069 Tagliaferro 1221
Calenzano 1171 Ubaldo, o di Riofini 1131
Gli insediamenti fortificati
nel territorio della Diocesi di Veroli:
primo contributo

SABRINA PIETROBONO

PREMESSA
Il Medioevo della Valle Latina non ha ricevuto, sul piano archeologico, attenzione in maniera
continuativa e coordinata1: mentre nel corso degli ultimi anni si sono proposti articolati temi di
ricerca sul piano nazionale, soltanto di recente si è proceduto ad avviare indagini sistematiche in
tal senso nell’area in esame2, ed era pertanto metodologicamente vincolante apprestare il censi-
mento dei siti e delle evidenze monumentali, l’aggiornamento e la verifica dei dati, la ricostru-
zione della rete dei toponimi e soprattutto la ricognizione del territorio, finalizzati non soltanto
a realizzare un semplice catalogo delle emergenze, bensì a fornire una linea guida per le future
ricerche, da affrontare attraverso ogni strumento che la Topografia Storica e l’Archeologia del
Paesaggio mettano oggi a disposizione3.
Con la redazione della Carta Archeologica Medievale del Lazio Meridionale è stato intrapre-
so, tra i molti filoni di ricerca individuati, lo studio topografico territoriale degli insediamenti
fortificati nella diocesi di Veroli4. In questa sede, si è esteso l’esame ai comuni di Boville Ernica,
Monte S. Giovanni Campano, Strangolagalli, Ceprano e Falvaterra5, mentre restano escluse la
città di Veroli e il circondario di Casamari6.

1. ASPETTI GEOMORFOLOGICI ED INQUADRAMENTO GENERALE


La diocesi di Veroli (oggi Frosinone, Veroli e Ferentino) incorporava la città di Frosinone,
capoluogo della odierna omonima provincia laziale. Il territorio considerato è composto da una
sequenza di cime collinari, di natura calcareo-arenacea, con settori di natura vulcanica, separate

1
Desidero ringraziare i proff. Stella Patitucci e Giovanni poi normanno, svevo, angioino ed aragonese; i due ambiti
Uggeri per i consigli, i suggerimenti e l’appoggio dato a queste sono grossomodo separati dal corso del fiume Liri e da alcuni
ricerche. Diversi scavi e campagne di indagine archeologica spartiacque montani; la scelta è stata necessaria per evitare
riguardano i siti romani e preromani; rari sono gli interventi l’uso anacronistico di termini, quali “Stato Pontificio”, “Stato
che individuino fasi tardo antiche o alto medievali. Un esem- della Chiesa”, “Campania et Maritima”, “Regno di Napoli”,
pio, estremamente importante, è quello della Villa del Casale etc., anche per periodi in cui tali entità, sul piano amministra-
di Castro dei Volsci, condotto dalla competente Soprinten- tivo, non esistevano o non erano così definibili. La decisione
denza Archeologica (G. R. Bellini, M. G. Fiore, etc.), per la di circoscrivere insiemi storicamente omogenei nell’ambito di
bibliografia: PIETROBONO 2006b, p. 59; sch. 129, pp. 161-164. tali aree ha pertanto indotto a preferire una distinzione: 1) per
Sono ancora valide alcune osservazioni in proposito di CAGIANO diocesi nell’area romana, conformemente all’importante ruolo
DE AZEVEDO 1978, pp. 17-26. del vescovo come rappresentante del potere ecclesiastico e della
2
Si vedano la Toscana, esemplare per il livello di cono- attuale incertezza nella definizione cronologica e territoriale
scenze raggiunto (FRANCOVICH, GINATEMPO 2000, pp. 7-24), delle signorie dell’area; 2) per contee e distretti nell’area
o le nuove ricerche avviate (ad esempio AUGENTI 2006, pp. meridionale, in virtù del differente assetto amministrativo
225-232); si sono, nel frattempo, affinati gli elementi metodo- che permette di individuare i limiti di alcune precise entità
logici tipici della Topografia storica (quali l’analisi delle fonti storico-amministrative, ad esempio la Terra di S. Benedetto. Il
storiche e della documentazione d’archivio, la ricognizione di termine “campano”, come quello “basso laziale” e di “Terra di
superficie, etc., PATITUCCI UGGERI 2000a, pp. 63-83; PATITUCCI Lavoro”, che avvia considerazioni da affrontare in altra sede,
UGGERI 2000b, pp. 105-118; UGGERI 2000a, pp. 15-21; UG- è stato, sul piano topografico, preferibilmente evitato.
GERI 2000b, pp. 85-104; UGGERI 2000c, pp. 119-132; UGGERI 4
PIETROBONO 2006b.
2000d, pp. 207-232), finalizzandoli alla revisione e alla verifica 5
PIETROBONO 2006b, pp. 28-57; 59-67. Anche PIETROBONO
delle conoscenze considerate acquisite. 2006a.
3
Un problema da affrontare in via preliminare è stato 6
Per l’antica Verulae si rimanda momentaneamente a:
quello della terminologia da adottare sul piano storico-ammi- QUILICI, QUILICI GIGLI 1998, pp. 157-224; PUTTI 1980a, pp.
nistrativo: dovendo vagliare documentazione relativa ad un 195-219, per l’impianto urbano medievale, e ROSAZZA FERRA-
settore di confine tra territori soggetti ad una stratificazione RIS 1978. Per Casamari, da ultima PICUTI 2006, pp. 297-304.
di differenti poteri e con distinto centro politico, ho preferito I limiti settentrionali del F°. 159, Q. I (Frosinone), e del F°.
adottare il termine “area romana” per il territorio del ducato 160, Q. IV (Arpino), sono stati considerati tali anche per
romano prima, del patrimonio ecclesiastico e Stato della Chiesa quest’indagine. Per il territorio si vedano i recenti contributi
poi, ed “area meridionale” per il territorio prima longobardo, di MARCHETTI 2003 e STASOLLA 2004.
106 SABRINA PIETROBONO

da fossati e torrenti che solcano il terreno da nord a sud, creando le condizioni per percorsi di
crinale grossomodo regolari, dal corso del Rio Bagno7, affluente del Cosa a NE di Frosinone, fino
al fiume Sacco (Figg. 1-2), posto a sud. Nel territorio tra Ceprano e Monte S. Giovanni Campano
si trovano vaste e superficiali placche di travertino (pietra tartara) usate per cava di materiali per
costruzione8.
La fascia montuosa tra Castro dei Volsci e Falvaterra (Fig. 2) è solcata da vie di comunicazione
che attraversano i monti in direzione del mare, districandosi in un comparto montano-collinare di
media altitudine (M. Siserno, m 789; M. Campo Lupino, m 791; M. Calvilli, m 1116), aggirabile
ad est e a ovest dei picchi principali, tramite vallecole di percorrenza locale.
I principali fossi e corsi d’acqua dell’interno sono il Meringo o Moringo ed il fosso di Arnara.
Il primo è il più citato nei documenti notarili; esso crea una separazione netta tra le colline di
Torrice ed Arnara, alla sua destra, e Ripi alla sua sinistra, dividendo in seguito il territorio di
Pofi a sud da quello di Strangolagalli a nord, per confluire nel fiume Sacco presso la contrada
S. Angelo, tra Ceprano e Monte Nero; il fosso di Arnara corre ad ovest del primo fosso, quasi
parallelamente al suo primo tratto, in senso nord-sud, sboccando nel fiume Sacco tra Arnara e
Castro dei Volsci9.
Veroli è sita a 570 m, più a settentrione rispetto ai castra dislocati tra le colline ad essa sottostanti
(Fig. 1); le appendici settentrionali del territorio cittadino e diocesano sono rappresentate dalle
vallecole montane formate da Colle S. Giacomo (m 1059), dal torrente Masena o Amaseno, e
dai Prati di Campoli e la vetta di Pizzo Deta (m 2041), al confine con l’Abruzzo; a NO e a NE,
vi sono le diocesi di Alatri e di Sora. Veroli ebbe inizialmente l’amministrazione di un esteso
territorio10, sul lato SO fino al fondo detto Mani Iano11, limite con Frosinone, a lambire la riva
sinistra del fiume Sacco (Fig. 2), fino alla confluenza con il torrente Meringo, e a SE il territorio
del problematico sito di Fregellae/Fregellanum-Ceperanum, e di Fabrateria Nova. Sul lato orientale,
era posta l’antica Cereatae Marianae (Casamari) (Fig. 1, n. 26)12.
Tutti i castra ancora abitati sono centri di bassa/media collina; Ceprano è a quota ridotta
(100 m); gli altri sono nuclei fortificati ed abitati chiusi posti a diverse altitudini: Boville q. 487;
Monte S. Giovanni q. 420; Castro dei Volsci q. 385; Torrice q. 321; Ripi q. 300; Frosinone q.
291; Pofi q. 283; Falvaterra q. 275; Montenero, q. 270; Arnara q. 265; Strangolagalli, q. 234. Sei
castelli della diocesi sono stati abbandonati: di questi soltanto uno è individuabile con certezza
(Montenero / Montenero Castellone, presso Castro dei Volsci).

2. IL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI


È da tempo noto che i territori della diocesi e della città di Veroli non coincidevano intera-
mente (Fig. 1)13. In origine, il secondo si arrestava al fiume Sacco includendo l’intero comparto
collinare ai piedi del centro urbano, con l’esclusione della piccola porzione attribuita al castrum
di Frosinone e del più distante comprensorio di Ceprano14: lo sviluppo dei castra ad esso interni e

7
Il torrente Rio Bagno è situato a nord dell’area consi- sono i cittadini di Veroli a procedere a conferme dei terreni e
derata, che esclude l’attuale territorio comunale di Veroli, e dei beni al monastero di Casamari. Per Cereatae Marianae, ora
procede in senso est-ovest. PICUTI 2006. STASOLLA 2005, pp. 514-515, per la descrizione
8
FIORANI 1996, p. 14; GGR 20043, pp. 132-133. degli attuali limiti amministrativi.
9
L’area delimitata conserva abbondanti residui topono- 13
La città ed il vescovo mantennero giurisdizioni di diversa
mastici riferentisi a boschi e selve. Segnali, quali l’esistenza di natura su territori in parte sovrapposti, ma non è determinabile
chiese dirute, ad esempio la chiesa di S. Oreste, presso Torrice se lo sviluppo territoriale civile preceda o segua lo stabilizzarsi
(PIETROBONO 2006b, sch. 74, p. 127) o vicino mura antiche, della giurisdizione vescovile. SCACCIA SCARAFONI 1930/32, pp.
come S. Giovanni presso il Cagnano (PIETROBONO 2006b, sch. 255-282. Erano inclusi nella diocesi (ma non nel territorio
64, pp. 121-122), rimandano ad una frequentazione difficil- cittadino) i castelli di Frosinone, Castro (dei Volsci), Falvaterra,
mente collocabile sul piano cronologico, ma significativa sul Montenero e Ceprano, come meglio si vedrà in seguito.
piano della continuità di sfruttamento del territorio. I castelli, 14
Secondo FALCO 1919, p. 541-542, nota 2, il territorio
occupando le colline dei Monti Ernici, hanno sì rimesso a col- amministrato dalla città, “se pure ebbe durante il dominio
tura le valli interne, seguito e controllato la viabilità, ma hanno bizantino e franco il valore di circoscrizione amministrativa”
anche sfruttato siti collocati in larga parte presso insediamenti perse gradualmente valore come punto di riferimento nel
precedenti, divenuti all’occorrenza luoghi di estrazione di corso dei secoli X-XI-XII, e si sottolinea la difficoltà di risalire,
materiali per costruzione. tramite i documenti, alla sua esatta estensione. Comprendere
10
Ripreso in A CV 1960, pp. XVI-XVII, con cartina che tipo di rapporti esistessero tra castra e città verulana, è
schematica. un problema reale, anche perché un centro civico ha una
11
È stato correttamente riletto il toponimo da SCACCIA forte necessità di amministrare il territorio a sé circostante; si
SCARAFONI 1999, pp. 146; 153, nota 4. nota nella documentazione scritta pervenutaci che all’interno
12
MOTTIRONI 1958, pp. 85-88, doc. n. 46, 13 ottobre 1076: dei castra, nella prima fase, vi furono consorterie di abitanti,
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 107

Fig. 1 – Stralcio dalla Carta topografica dello Stato Pontificio e del Granducato di Toscana, 1851. H 16
(Frosinone). Archivio Storico dell’Istituto Geografico Militare, Firenze. Sono stati marcati, in questa e nell’im-
magine successiva, gli elementi geomorfologici più importanti nella definizione degli ipotetici confini; sono
stati inseriti a tratteggio i limiti ipotizzati sulla base della toponomastica o di vincolanti condizioni naturali.

la costituzione di più o meno importanti signorie15 ne determinarono un lento ridimensionamento


anche per il successivo distacco dei castra stessi dalla città, con frequenti conflitti sui confini16.
Le bolle pontificie di conferma dei beni appartenenti all’episcopio verolano, emanate dopo la
metà dell’XI secolo, tramandano l’elenco degli abitati e dei castra assegnati alla diocesi17. Nascono
così, oltre al problema storico inerente il rapporto tra il vescovo, la città e i castelli, due problemi
topografici: 1 – stabilire quale fosse il territorio pertinente alla città e quale quello pertinente al
singolo castello, onde poter comprendere la funzione delle strutture medievali residue, soprattutto
quando si tratta di manufatti di difesa; 2 – indagare le motivazioni che hanno condotto alla scelta
dei siti ove fondare o organizzare i castra.

deputate probabilmente a gestire l’amministrazione comune. I 16


Un esempio in MOTTIRONI 1958, doc. 158, pp. 257-258,
primi cittadini dei castra sembrano molto legati anche alla città, 2 giugno 1147, per la restituzione delle terre del fosso Bal-
mentre solo in un secondo tempo appariranno, con sempre neum, dove la chiesa di S. Maria può essere identificata, allo
maggiore frequenza, signori di varia importanza. stato attuale della ricerca, anche con una chiesa omonima sita
15
SCACCIA SCARAFONI 1930/32, pp. 263-264: tra XI e XII presso Veroli, come ad esempio S. Maria in Murata, situata
secolo si costituirono le signorie feudali di Monte S. Giovanni presso il fiume Cosa. BARBAGALLO 1975, pp. 110-112, è invece
e Babuco, che permisero un progressivo distacco dal centro sicuro che si tratti della chiesa di S. Maria di Frosinone, anche
cittadino. Sottolinea TAGLIENTI 1995, p. 11, che la stipula del- se gli elementi forniti dal documento edito non forniscono
l’atto del 20 luglio 1028, in cui si istituisce una congregazione certezze in tal senso.
di canonici del tutto svincolati dal controllo del vescovo di 17
Uno dei principali problemi storici investe la reale
Veroli, con sede nella chiesa di S. Pietro di Arenula, sottostante proprietà o quanto meno il tipo di amministrazione esercitata
la rave maiore di Monte S. Giovanni, lascia propendere verso dal vescovo di Veroli sui castelli elencati; SCACCIA SCARAFONI
il riconoscimento di una associazione consortile nell’ammi- 1930/32, pp. 258-259. Localmente si riscontra la convinzione
nistrazione del castello da parte di un gruppo di almeno 60 che il Vescovo di Veroli fosse «barone di Torrice, Ripi e Pofi» nel
uomini (anche una donna per sé ed i suoi figli e tre sacerdoti). XII secolo, VALERIANI 2001, p. 19, ma l’argomento attende uno
Nella seconda metà del XII secolo, a Monte S. Giovanni si studio storico che conferisca maggiore chiarezza al ruolo sia del
insediarono i d’Aquino (infra). potere ecclesiastico sul territorio sia delle Signorie locali.
108 SABRINA PIETROBONO

Fig. 2 – Stralcio dalla Carta topografica dello Stato Pontificio e del Granducato di Toscana, 1851. Foglio H
17 (Latina-Frosinone). Archivio Storico dell’Istituto Geografico Militare, Firenze.

La dislocazione dei castelli, infine, permette di seguire le direttrici della nuova viabilità conso-
lidatasi in seguito alla definitiva loro organizzazione. La ricerca deve necessariamente prevedere
l’acquisizione di tutti i dati archeologici utili sulle preesistenze, sull’assetto viario e, come nel
primo caso, sulle condizioni geomorfologiche del territorio ove sorsero.
La città di Veroli non è al centro di questa indagine, ma era, senza dubbio, il fulcro della con-
tinuità di vita dell’area (Fig. 1)18. Frosinone (Fig. 1, n. 1; Fig. 3) e Ceprano (Fig. 1, n. 9; Fig. 4),
prevalentemente autonome, ricevono nell’XI secolo a volte l’appellativo di civitas19: la natura e
l’estensione dei due centri lascerebbero pensare ad un uso del termine giustificato dal maggior
prestigio (per storia, tradizione, funzione, etc.) da essi assunto rispetto ad altri castra.
Dalle bolle del 108120 e del 109721 si ricava il seguente elenco, disposto in ordine cronologico
secondo le attestazioni precedenti a quelle delle bolle:
Frusinonem (Frosinone, esistente nella prima metà del secolo VI22 e nell’81723); Oppidum Tur-
ricis (Torrice, menzionato il 9 giugno 95924); Ceperanum (a volte Ciperanum, Ceprano, esistente
l’8 gennaio 98725); Montem S. Johannis (oggi Monte S. Giovanni Campano, documentato il 20
maggio 1018 come castello... monte Santi Johannis, territorio berolano26); Pofen (Pofi, esistente
intorno al 101927); Babucum (Boville Ernica, già menzionata nel 102428); Fabrateriam (Falvaterra),
attestato nel 107929; Ripas (Ripi); Castrum (Castro dei Volsci); Larnariam (Arnaria, attestato, in
un documento pure del 1097, come Castello della Arnara30); Strangulagallum (Strangolagalli; in
seguito sarà specificato oppidum quod homines dicunt Strangulagallo vulgo31); Montem Nigrum

18
Sorvolando su problematiche epigrafi cristiane di IV e doc. LXXX, pp. 104-105; doc. LXXXII, pp. 106-107.
V secolo, il cenno più significativo della presenza di una co- 22
L. P. I, pp. 269-274.
munità cristiana organizzata si raccoglie in una lettera di papa 23
Liber Censuum, I, p. 363, anno 817.
Gelasio I, datata al 494-495, in riferimento ad una contesa tra 24
ACV 1960, doc. III, pp. 3-5.
gli honorati et primarii Verulanae civitatis e Agnello diacono; 25
Sedimen unam positam intro castello qui appellatur
la menzione del primo vescovo certamente verolano si ebbe Ciperano, ACV 1960, doc. VII, pp. 10-12.
nel 743, LANZONI 1927, pp. 169-170. 26
ACV 1960, doc. XXV, pp. 28-29.
19
Quasi contemporaneamente, tra il 1080 ed il 1081: in 27
Castello Pufe, 1019 ca, ed. CAMPOLI 1982, pp. 566-567.
civi. Ciperano, ACV 1960, doc. LXIV, pp. 81-82, 25 settem- 28
LECCISOTTI 1973, p. 75, n. 1-1943.
bre 1080; in civ. Fresilone, Ibid., doc. LXV, pp. 82-83, 15 29
CMC III, 61, p. 442.
dicembre 1081. 30
ACV 1960, doc. LXXIX, pp. 102-103; In seguito castro
20
Bolla di Gregorio VII, del 19 Giugno 1081, PIERALISI qui nominatur Arnarea/infra castello qui nominatur Arnarea nel
1899, pp. 9-11; KEHR 1907, p. 156: riporta i nomi di Frusi- 1106, ACV 1960, doc. n. LXXXXII, pp. 119-120; Arenariam
nonem, Oppidum Turricis, Larnariam, Pofen, Ripas, Castrum, in una menzione del 1121, Ann. Cecc., p. 282.
Montem Nigrum, Fabrateriam, Ceperanum, Cannetum, Stran- 31
In un documento che menziona anche il territorio di
gulagallum, Carpinum, Montem S. Ihoannis, Babucum (...). Canneto, ACV 1960, 28 agosto 1112, doc. C., pp. 129-131;
21
Bolla di papa Urbano II, del 2 Luglio 1097 in ACV 1960: copia in doc. CI, pp. 131-133, e doc. CII, pp. 133-135.
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 109

(Montenero Castellone, poco distante da Castro dei Volsci); Cannetum; Castellum Novum32;
Carpenum.
A quest’elenco andrebbe aggiunto, presso la chiesa di S. Angelo de Forma, il più tardo castrum
episcopale, noto da un successivo documento33 (Fig. 1, n. 16). Fu costruito nella seconda metà
del XIII secolo, ed inaugurato dal vescovo Loterio (1280-1314), con rocca, cinta muraria, abi-
tazione del castellano e carceri34. Nel 1239 si trovavano ancora una semplice Domus S. Angeli
ed una Silva S. Angeli35.

3. FROSINONE
Antico centro volsco36, poi conquistato dai Romani (Fig. 1, n. 1)37. L’odierno abitato di
Frosinone si distingue in due settori: la città “alta” (Fig. 3) su un colle dalla fisionomia allungata
in senso N-S, di 291 m, e la città “bassa”, connessa ai tracciati di fondovalle e ad un tragitto che
si snoda quasi parallelamente al corso del fiume Cosa. Si ritiene che la sommità della collina (Fig.
3) ospitasse l’arx; la continuità abitativa dall’età antica ai nostri giorni del centro di sommità con-
diziona pesantemente le ricerche nel centro storico. La zona periferica al contrario ha restituito,
in recenti scavi, aree sepolcrali e contesti abitativi preromani e romani, disposti prevalentemente
lungo l’arteria di fondovalle. Un quartiere sviluppatosi dall’età tardo repubblicana si dislocò sul
terreno scosceso del versante nord occidentale del colle, compreso tra il sito dell’attuale Viale
Roma e la Via detta Ferrarelle (un tempo detta “dei Cavalli”)38. Il Foro della città romana è
ipoteticamente collocato nell’area della Piazza Garibaldi39, un tempo detta “della Valle”, mentre
nell’area suburbana, dal perimetro non ben delineato, trovò sede l’anfiteatro40.
Unendo dati di varia natura, si è proposto un disegno (ipotetico) dell’abitato menzionato al-
meno due volte tra tarda antichità ed alto medioevo (nel VI e nel IX secolo)41. Il nucleo centrale
del castrum doveva forse coincidere con la Civita (Fig. 3, n. 3; n. 10: via della Civita), termine
noto dal Catasto Gregoriano (Frosinone 1, 1819), con i limiti dati dal perimetro dei muri rotti,
segnati a settentrione da orti, da profili di case sporgenti a mo’ di torri (Fig. 3, n. 4), e da una
strada detta la Carbonara (Fig. 3, n. 11); il foro antico fu forse lasciato all’esterno42.
La chiesa di S. Maria (Fig. 3, n. 12), posta al centro della Civita, sul Colle Tinello, è attestata
nel XIII secolo; va indagata la possibilità che abbia avuto un titolo iniziale differente, ancora da
individuare43; sorse forse sull’acropoli antica44. L’edificio ricostruito dopo i bombardamenti è
oggi la Cattedrale di Frosinone.

32
Contemplato nella bolla del 1097, ACV 1960, n. 82, era dimostrato convinto della sua origine volsca, contestando
p. 107. il Sigonio e richiamando altri autori tra i quali Cluverio; sulla
33
ACV 1985, n. 388, 22 settembre 1261, p. 81; vi sorgerà condizione di praefectura, attestata più tardi da Festo (p. 233),
la torre del vescovo di Veroli accanto ad una precedente vi è incertezza; la menzione ha comunque lasciato ipotizzare
domus. la presenza di praefecti, anche se le cariche attestate da docu-
34
PIETROBONO 2006b, n. 64, pp. 121-123; MAGNANTE menti epigrafici si riferiscono a cariche pubbliche tipiche delle
1999, pp. 10-11. colonie, come sottolineato dalla stessa Onorati, Ibid. Per una
35
ACV 1985, doc. n. 334, p. 60. Il documento che men- sintesi sull’età romana, anche FRASCA, PIETRAFESA 2006; cfr.
ziona l’esistenza del castrum nel 1287 è la “lettera collettiva PIETRAFESA 2006.
d’indulgenze rilasciata in Roma dal vescovo Loterio e da altri 38
PIETRAFESA 2006, pp. 25-26.
undici presuli per la costruzione della Chiesa di S. Michele 39
PIETRAFESA 2006, p. 25.
Arcangelo nel Castello episcopale di S. Angelo presso Veroli”. 40
Un documento del 1153, lascia risaltare la presenza di un
Ibid., Premessa, n. 2, pp. 12-13, 17 gennaio [1287]. Sottolinea murus veteris civitatis presso l’anfiteatro, di cui non è chiaro
giustamente MAGNANTE 1999, p. 9, che non è chiaro se per il riferimento: Litardo, forse abitante in Frosinone, donò a
chiesa da costruire si intenda una cappella nel castello vescovile Casamari un terreno posto iuxta Anphiteatrum, i cui confini
oppure si sia un riferimento ad una ricostruzione della chiesa erano: a primo subtus se est terra Benedicti Magistri Petri, et a
antica; in ogni caso, un edificio dedicato all’Angelo era già secundo per longitudinem est terra Benedicti Johannis de Timo,
stato eretto, come provato dalle bolle. et a tertio super se murus veteris civitatis, et a quarto Cosa (DE
36
Per i recenti ritrovamenti: ONORATI 1999; TOMASSETTI MATTHAEIS 1816, pp. 36-37, nota 3; FLORIDI 1985, p. 173, nota
2003, pp. 67-74; GATTI 2004; PIETRAFESA 2006, p. 25. 1), PIETROBONO 2006b, sch. 53, pp. 116-117. Specifico che l’an-
37
Richiamo la sintetica scheda di PIETROBONO 2006b, p. 36: fiteatro fu individuato nel 1965, grazie a dei lavori intrapresi
l’antica Frusino appare nelle fonti verso la fine della seconda alla fine del 1964 che condussero alla scoperta dell’edificio e
guerra sannitica, circa due anni prima della sua conclusione. di numerosi basoli della via Latina, che vi giungeva, secondo
La menzione di Diodoro (Diod. 20, 80) di una ribellione MASTRANTONI 1975, p. 21.
operata dagli Ernici su istigazione dei Frusinati, è stata infatti 41
Fonti in PIETROBONO 2006b, pp. 36-40.
rinviata all’anno 306 (ONORATI 1996, p. 51, nota 2, che si rifà 42
PIETROBONO 2006b, sch. 86, pp. 136-138.
a DE SANCTIS 1908, p. 321), ma fu scoperta, se si segue Livio 43
Le menzioni della chiesa sotto il titolo di S. Maria
(X, 1) alcuni anni dopo, nel 303; il Mommsen definì Frusino sono tarde, PIETROBONO 2006b, sch. 86. 10, pp. 143-144, cfr.
sicuramente volsca (CIL X, p. 554), ma non fu il primo, se non BARBAGALLO 1975, pp. 110-113, anche se è evidente nel basa-
per autorità, a dichiararlo, in quanto già DE MATTHAEIS 1816 si mento del campanile il reimpiego di materiali di recupero e
110 SABRINA PIETROBONO

La Civita sembra chiudersi nella zona SE della sommità del colle, coincidente con il cosiddetto
Colle Tinello; a NO della stessa sommità, separato da una sella oggi quasi impercettibile, si tro-
vava il Colle Ceraso o Cerase (Catasto Gregoriano 1819, Frosinone 1, Fig. 3, n. 13), presso cui
si collocava la rocca settecentesca poi sostituita dal Palazzo della Delegazione Apostolica ed in
seguito della Prefettura (Fig. 3, n. 2); tale situazione è erede di un assetto risalente almeno alla fine
del XIII secolo. Infatti, il centro di sommità, nel 1291, è associato al termine motta, riconducibile
ad una struttura fortificata che sappiamo restaurata in seguito45. Per Motta e Rocca, almeno nel
XIV secolo, si deve quindi intendere la fortificazione tra il colle Ceraso ed il Colle Belvedere46,
cioè il luogo dove sorgeva il “castello” di protezione della Civita, posto sopra una collina naturale
rinforzata artificialmente. Un indizio interessante per tale lettura è dato da un’epigrafe del 1553,
letta sul portone di accesso della struttura, ove la rocca era designata con il termine arx: Iulio III
P(ontefici) M(aximo)/ I(ohannes) B(aptista) Cigada Card(inalis) S(ancti) Clementis/ legat(us), arcem
prope collapsam/ restituit, sedem iuridicundo re/posuit, aream tumulo exciso/ ampliavit, mercatus
indixit, an/no MDLIII Hier(onimo) de Federicis Ep(iscopo)/ Savon(ense) prolegato curante47.
Sul piano architettonico o archeologico, come intuibile da quanto esposto, ben poco può essere
al momento rilevato; va però sottolineato che il rinvenimento di blocchi squadrati, avvenuto a
più riprese nella Civita48, non è riconducibile esclusivamente a cinte murarie d’età romana, ma
anche a cinte rimaneggiate o erette in età tardo antica ed altomedievale, come accertato in altre
realtà della Valle Latina (infra).
La posizione del castrum lungo la via Latina, del resto, obbligava al mantenimento delle difese
(Fig. 3, n. 1, tratto residuo). Un segnale della percorrenza viaria è dato anche dalla presenza, in
corrispondenza dell’omonimo guado sul fiume Cosa (Fig. 1, n. 27) della chiesa cassinese di San
Giuliano49, della quale non si conoscono per il momento resti murari, ma che era comunque
parte del territorio frusinate: questo si estendeva verso sud, probabilmente fino al Bosco Faito,
ceccanese alla fine del XV secolo50. Il confine occidentale giungeva forse a ridosso del fosso
Cenica51, includendo un settore della vasta zona pianeggiante tra Ferentino e Frosinone, solcata
dalla via Latina52.

basoli pavimentali, che ricondurrebbero ad edifici e strutture 46


È necessario chiarire la toponomastica dell’area: oggi
precedenti da dove estrarre i blocchi: si veda per questo anche si chiama Belvedere il passeggio panoramico che attraversa
PIETRAFESA 2006, p. 25. Sempre BARBAGALLO 1975, pp. 55-56; Piazzale Vittorio Veneto, posto a nord-ovest del palazzo
70, 183, suggerisce che la casa de Siconibus si trovasse presso della Prefettura, e la via Belvedere si stacca dal Corso poco
la chiesa di S. Maria, e che inizialmente ospitasse i funzionari oltre il piazzale, affiancando la chiesetta moderna di S. Lucia,
pontifici: espletava in pratica le funzioni di palazzo curiale ove nel Catasto Gregoriano si posiziona il termine “colle
(compie un paragone con il successivo palazzo della Delega- Belvedere”.
zione apostolica) o palazzo maggiore. 47
Letta da DE MATTHAEIS 1816, p. 25. Il Cardinale Giovanni
44
PIETRAFESA 2006, p. 25; LEO, PIETRAFESA 2006, p. 3. Battista Gigada pochi anni prima dell’occupazione spagnola
Dall’erezione a Chiesa Cattedrale ci si riferisce a S. Maria con (1555-1556), restaurò l’arce vicina alla distruzione, ripristinò
tale titolo; la cattedra del vescovo nell’XI secolo era a Veroli, il tribunale, indisse il mercato, con l’ausilio del vescovo di Sa-
anche se la dignità della cittadina (fonti in PIETROBONO 2006b, vona Geronimo di Federico prolegato, ma soprattutto ampliò
p. 39), spinge ad indagare ancora più profondamente il ruolo un’area tumulo exciso. Nella prima metà del ’500, la cima
della chiesa di S. Maria nell’ambito della Civitas frusinate, ed dell’arx, doveva quindi avere (in una sua parte) l’aspetto di un
il suo rapporto con il Vescovo verolano. “tumulo” che venne poi livellato per accogliere la nuova strut-
45
Il termine Motta è registrato nelle carte Caetani, tura del Palazzo del rettore. Ritengo che il tumulo vada legato
PIETROBONO 2006b, sch. 86, 7, pp. 140-141. Si possiedono a quanto restava del primitivo impianto della “motta” rifatta
testimonianze sui lavori alla Rocca frusinate. Tra il 1323 ed il nel XIV secolo. PIETROBONO 2006b, sch. 86, 7, p. 140-141.
1324 erano presenti due torri, detta turris nova e turris vetus; la 48
Segnalati nel XIX secolo nell’area più elevata del colle,
prima era collocata supra portam, e venne interessata da alcuni PIETROBONO 2006b, sch. 86, 1, p. 137.
lavori (si aprirono delle finestre e si pavimentò il solaio); la 49
Cfr. PIETROBONO 2006b, sch. 55, pp. 117-118: per
seconda venne coperta mediante tegolae cave. La dimora del BARBAGALLO 1975, p. 62, la chiesa fu donata dal clero e dai
rettore si trovava in una domus menzionata per la sistemazione condomini/milites di Frosinone a Montecassino il 2 gennaio
di una porta in capite scalae. Esisteva altresì un’aula maior ed 1154. LECCISOTTI 1964, p. 40, n. 36, riassume la conferma di
una camera que est in capite aule maioris, riparata come la Anastasio IV della chiesa a Montecassino (31 ottobre 1153),
stessa camera del tesoriere. All’inizio del 1323 si procedette data dal vescovo Leone di Veroli all’Abate Rainaldo. LECCISOTTI
al restauro della Loggia della Rocca, e si costruì un carcere. 1965, p. 65, n. 19, riporta che nel 1154, indizione II, anno I
Sono menzionate la cucina ed il celliere tra le strutture di del pontificato di Anastasio IV, su richiesta del papa si concesse
servizio; nel febbraio del 1324 vennero registrate spese pro la chiesa a Montecassino. BLOCH 1986, 104a, p. 932 scioglie
furno faciendo, e nel luglio si provvide ad inundare la cisterna. la data della donazione nel 22 gennaio 1154.
Nello stesso periodo si rinnovarono le porte delle stalle, delle 50
Inventarium Caetani, p. 288, Selva de lo Fayto; p. 292,
quali una si trovava subtus coquinam. La difesa della rocca è Selva de lo comune de Ceccano chiamata lo Fayto.
affidata ad una guarnigione per contrastare gli inemici Eccle- 51
Come propone STASOLLA 2005, p. 520.
sie. Dal marzo 1324 all’agosto 1325 la compongono sedici 52
Il cui percorso era forse spostato verso settentrione ri-
servientes, due portarii e un banditore. È presente un vettorale spetto all’attuale via Casilina, collegata al territorio attraverso
per i rifornimenti di legna e combustibile del vino e dell’acqua tracciati ortogonali o trasversali; si rinvia ad altra sede la ripresa
necessaria ai servientes. CORTONESI 1984, pp. 7-8. di tale problematica. La Torre Pidocchiosa (oggi
Fig. 3 – Frosinone. Planimetria, rielaborazione da PIETROBONO 2006b. I riferimenti nu-
merici sono esplicitati nel testo.

Fig. 4 – 1: Ceprano. Planimetria. Da PUTTI 1980c, rielaborazione Pietrobono: n. 1, Via del Campidoglio; n.
2, Il Carbonale; n. 3, Piazza Umberto I; n. 4, Piazza del Plebiscito (Platea communis?); n. 5, Piazza Cavour;
n. 6, posterula; n. 7, Via di S. Nicola; n. 8, Porta Nuova; n. 9, Porta Romana (Porta Vecchia); n. 10, Via
Amedeo; n. 11, chiesa di S. Rocco (scomparsa); n. 12, via Colle Uccelli (fossato antistante le mura); n. 13:
probabile sito della “Rocca” pontificia.
112 SABRINA PIETROBONO

4. CEPRANO
Si trova su un terrazzo di ridotte dimensioni, racchiuso dall’ansa del fiume Liri (Fig. 1, n. 9):
questa era forse maggiormente pronunciata, come si deduce dal confronto tra il catasto Grego-
riano (mappa 44, Ceprano), la cartografia IGM della fine dell’800 e la cartografia odierna: si
è accentuata la curva del fiume, ampliando così la superficie della lingua di terra delimitata dal
fiume Liri53. Resta incerta la posizione del ponte che conduceva oltre fiume; secondo le ultime
ipotesi, si doveva trovare a NE del castrum54, in genere identificato con il Fregellanum degli
itinerari romani55.
Si sono registrate nel corso degli anni numerose presenze romane, forse anche preromane,
sul suolo di Ceprano e nel territorio; la ricognizione indica la presenza di un insediamento56 nel
settore nord del pianoro di Opri, ove erano i resti di una cisterna; una necropoli imperiale fu
scavata nei dintorni57, messa in relazione con una villa. Un altro insediamento era presso l’odierna
Ceprano, testimoniato dalla presenza di una necropoli tarda scavata in Via Cornete, tra Ceprano
e la stazione ferroviaria58.
Il castello Ceperani59 è menzionato per la prima volta nel 98760. Le cronache attestano nume-
rose distruzioni e conquiste del castrum: 1113 fu dato alle fiamme61. Nel 114062; nel 114463 vi
giunse il re di Sicilia, nel 1155 fu dato alle fiamme64, sempre ricostruito.

te rivestita d’edera e quasi invisibile nella struttura), la Torre fosse stato eretto sul sito dell’antica città di Lirio; la strada
delle case (scomparsa) e la Palazza (ancora esistente), erano detta di S. Antonio restituì abbondante materiale che fu legato
forse disposti lungo questi percorsi, PIETROBONO 2006,b sch. a tale tradizione: «ne li è rimasto che il nome fuori delle sue
29 e 45, pp. 97; 101-103. Una descrizione più dettagliata della proprie rouine, et molti vestigie di maestosi edifici, con alcune
Torre Pidocchiosa è in STASOLLA 2005, pp. 521-522: all’epoca colonne, et portichi di marmo, et insieme alcuni monumenti di
della sua ricognizione era meglio visibile. tegole et di musaico, con un aquidotto dentro le viscere della
53
Cfr. MONTI 2004, p. 79. terra, che dopo tanti secoli, a scherno del tempo ammirabile si
54
Colasanti, nella prima metà del secolo scorso, lo collo- conserva ove con stupor di ciscuno si vede l’egregia macchina
cava a poca distanza dall’attuale, ubicazione ripetuta da PUTTI di proportionata grandezza, con l’artificiose conserve delle vie
1980c, tav. LXXI e MONTI 1998, p. 96, 32. 19. COLASANTI et limpide aqui, che del continuo vi scorrono».
1912 (e COLASANTI 1928, p. 5, nota 3), posiziona il ponte in 57
Scavata nel corso dei lavori pluridecennali e segnalata
un luogo dove le due sponde erano ai suoi tempi separate di da MONTI 1998, p. 53, ma priva di un rilievo preciso delle
soli 60 m. Un indizio per la sua giusta collocazione potrebbe deposizioni e della loro distribuzione.
rintracciarsi nel Catasto Gregoriano, mappa 44 (Ceprano), ove, 58
«Tombe con fondo in marmo, rivestite lateralmente e
tra i mappali 1027 e 1028, si snoda un breve tratto di strada coperte di tavelloni di terracotta rossa»; quasi tutte conte-
che termina direttamente sulla riva sinistra del fiume. Fu rifatto nevano «un obolo, un lacrimatoio ed una piccola anfora». Si
insieme alla strada nel corso di lavori effettuati tra il 1612 ed trattava di sepolture «di età tardo romana alla cappuccina,
il 1620, nell’ambito dei quali, nel 1614 (VITAGLIANO 1653, pp. costituite da tegole romane e lastre di marmo grezze di vari
85-86), fu scavata una cassa ritenuta per via di una epigrafe la tipi e dimensioni». Si tratta di «sporadiche sepolture di un
cassa contenente le ossa di Manfredi, esumato dal sepolcro di probabile piccolo nucleo di comunità agricole», tarde in quanto
Benevento e trasportato in terra di confine tra Napoli e Roma era impiegato «materiale vario ed eterogeneo, indicante una
(si veda in generale COLASANTI 1924). Nel 1777 fu nuovamente riutilizzazione del materiale stesso» (relazione Nalli, 1967, in
restaurato (MONTI 1998, p. 83, nota 3; per i lavori del XVII MONTI 1998, p. 98, nota 70).
secolo, anche SCAVIZZI 1985, pp. 235-273). 59
Una serie di ipotesi per spiegare il termine sono formulate
55
Terminazione in -anum, -ana: Philosophiana, in Sicilia, da VITAGLIANO 1653, pp. 12-18. Si tratterebbe di un toponimo
UGGERI 2004, p. 251-266. prediale, derivante secondo l’autore seicentesco, da Caepario
56
Secondo PUTTI 1980c, p. 239, esisteva un castrum a (Ibid., p. 16). Una differenza toponomastica tra Fregellanum e
controllo del ponte romano ad est dell’attuale. Il Colasanti Ceperanum potrebbe essere stata determinata dalla non totale
segnala il ritrovamento di numerosi pozzi a suo dire di natura coincidenza topografica; le rovine descritte da Vitagliano sono
sepolcrale esterni al perimetro del castrum, distribuiti in loca- in effetti poste extra oppidum sulla strada verso S. Antonio,
lità detta di S. Lucia, a segnare una vasta necropoli (COLASANTI mentre il castello si trovava in fundo Ceperani, pure in prossi-
1928, pp. 39-43); la datazione è stata posticipata da COARELLI mità. COLASANTI 1906, p. 74. MONTI 1998, p. 92. Si vedano le
1979, p. 202, all’età medio repubblicana, per confronto con riflessioni generali sui prediali di CALZOLARI 1997, pp. 117-146.
sepolcri ad anelli rinvenuti sull’Esquilino alla fine del secolo 60
8 gennaio 987. ACV 1960, n. VII, pp. 10-12. Roffredo
scorso; il Coarelli scartò immediatamente la possibilità di consul et dux, comes Campaniae, figlio di Giovanni, vende
una Fregellae volsca a Ceprano. Strabone attesta che la città alcune terre alla chiesa di S. Magno di Ceprano, nella persona
di Fregellae, distrutta, si era trasformata in un villaggio, ed del religioso presbiter et rector Costantius. Il testo indica la
era luogo di mercato (secondo COLASANTI 1906, pp. 172-173, cessione di alcuni possedimenti:... sedimen una, posita intro
si trattava di un nucleo posto forse sul pianoro di Opri; vi castello qui appellatur Ciperano..... Item et terra.... ubi vineam
fu scavato anche un deposito di 200 ca monete di Antonino faciatis, posito in fundum quod appellatur Ceperano. Iusta via
dell’anno 141, coniate in argento); una distinta statio di Fre- Silicata... Item et alia petia de terra... posita in fundum quod
gellae, in età imperiale, può essere ricercata presso Ceprano, appellatur Ceperano. Item et alia petia de terra.... in super
se si pensa che nel caso di Otranto la mansio era collocata a asscripto (sic) fundo qui appellatur Ceperano......
circa un miglio di distanza dal centro abitato (Itinerarium Bur- 61
Ann. Cecc., p. 282; l’anno successivo vi si svolse il sinodo
digalense, 609, 4; UGGERI 1983, pp. 287-289; anche COLASANTI con la presenza di papa Pasquale II, Ibid.
1906, pp. 173-174, propendeva a riconoscere la presenza di 62
Ann. Cecc., p. 283.
un villaggio presso Opri e di una statio presso Ceprano detta 63
Ann. Cas., pp. 307; 310.
Fregellanum). VITAGLIANO 1653, p. 30, sosteneva che Ceprano 64
Ann. Cecc., p. 284.
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 113

La fisionomia del castrum è stata ricostruita sulla base di una planimetria catastale custodita
in originale presso l’Archivio di Stato di Roma (Catasto Gregoriano, Ceprano 44)65. Nell’attuale
piazza centrale di Ceprano si trovava la chiesa di S. Rocco, oggi distrutta (Fig. 4, n. 11, era indi-
cata con C nel Catasto Gregoriano), fatta costruire dal papa Giulio II nel 1510, evidentemente
la struttura posta a nord della porta vecchia (Fig. 4, n. 13), dotata di torre circolare (oggi con-
servata)66.
Il circuito murario (Fig. 4, n. 12) ha avuto numerosi rimaneggiamenti. Il lato occidentale del
castrum conserva un tratto a vista, anche se fortemente danneggiato. La cinta muraria è stata
descritta con attenzione ai resti di reimpiego di età classica, le strutture conservate, notevolmente
alterate, sembrerebbero richiamare modalità costruttive tardo antiche o alto medievali. Vi sono due
ipotesi cronologiche: 1) che siano mura in opera poligonale attribuite all’oppidum volsco sulle rive
del fiume, distrutto dai Sanniti67; 2) che siano opere tardo antiche o alto medievali68. La tecnica
muraria impiegata e verificabile oggi rimanda però alle tipologie in opera quadrata con blocchi
di reimpiego, dal modulo variabile, e confrontabile con murature tarde, restaurate in più punti. I
tratti visibili sono inclusi in una tessitura discontinua a diversi momenti di montaggio e ripristino,
anche con nuova lavorazione. Ciò può essere suggerito dall’osservazione della base del primo
tratto visibile in Via Colle Uccelli (Fig. 4, n. 12), procedendo dalla piazza centrale, esternamente
alle abitazioni, dove i primi due filari di base, rispetto ai filari a grandi blocchi sovrastanti, hanno
diversa lavorazione e messa in opera (dimensioni minori, regolari, messi di testa, che sembrano
mantenere una certa aderenza alla tradizione romana conservatasi in età bizantina)69.

65
Da cui le copie inviate agli uffici periferici e quindi la quanto non più visibile; si trattava di una «piccola parete di 5x2
carta edita in PUTTI 1980c, p. 240, tav. LXXII (Fig. 4). m, formata da blocchi avvicendati a due filari per lunghezza e
66
Nella mappa presso l’Archivio di Stato di Roma, è a due per testata»; a due metri di distanza all’esterno dell’abi-
distinta nei mappali 1, 2, 3, 4 che racchiudono una piccola tazione, ove si conservava la parete, iniziavano i tratti scoperti;
corte interna raggiungibile attraverso il mappale 2. Verso est, al 3) un tratto esterno si trovava “sotto la casa Martucci: ha una
mappale 13 e 15, si nota una sporgenza semicircolare, dubbio- lunghezza di undici metri ed un’altezza di cinque”, COLASANTI
samente una torretta. La prima torre a base circolare è comun- 1928, p. 8; MONTI 1998, p. 95, 2° t., registra vegetazione
que successiva alle torri a base quadrata, individuabili sul lato fitta, oggi tagliata, ed una lunghezza di 3, 5 m; la descrizione
occidentale delle mura, in via Colle Uccelli; la carta catastale del Colasanti riporta la lunghezza del blocco maggiore (circa
pubblicata (MONTI 1998, p. 95) lascia intuire l’intervento di 1,55 × 0,60 m), ma le misure sono variabili per lunghezza,
risistemazione dell’angolo NO ad opera di papa Giulio, il quale mediamente costanti per l’altezza (0,60; 0,65; 0,70 cm); «i
costruì un castello, ben munito con ponte levatoio (VITAGLIANO massi sono avvicendati a filari di due in lunghezza e due per
1653, infra); se si deve ricercare una struttura in connessione testata». In questo settore diverge la descrizione delle mura,
al fossato, è il punto più utile al suo posizionamento. Il resto danneggiate sia dalle distruzioni belliche sia dall’incuria; 4)
dell’impianto non fornisce adeguati appoggi. Alla metà del dopo quindici metri dalla segnalazione precedente, infatti,
XVII secolo (1653) il castello si presentava: «Recinto di MONTI 1998, p. 95, 3° t., ha notato un lacerto di 1 m di lar-
saldi muri, di forti antemurali guarniti e difesi da un doppio ghezza × 2, 5 m di altezza, con blocchi i più grandi di ca 0,74
e profondo fosso, d’una ben fondata e stabile rocca; di tre × 0,60; i più piccoli di ca 0,40 × 0,50 cm; sono assemblati
superbe e inespugnabili torri, di due gagliarde e stabili porte, con l’aiuto di malta e laterizi; si tratta del residuo del muro
con seracine, e ponti levatori, sollevati da gravi e dure catene che il Colasanti vide «sotto la Casa Conti; essa si estende per
di ferro, con l’aggiunta di venti pezzi da tirar sù i merli delle una lunghezza di quindici metri e raggiunge i quattro metri
muraglie, e d’una numerosa soldatesca di Giovani ben esperti di altezza, con blocchi di m 1,80 × 1,60, disposti anche qui a
nell’armi. La di lei Rocca, oltre il ponte levatoio, et serraglio due filari per lunghezza e per testata. Lo stato di conservazio-
da investir gli inimici; vi avea la porta fodrata di grosse lame ne di questo tratto murale è migliore del primo»; è parte di
di ferro, tempestata da puntati adamantini chiodi et un’altra questo muro il 4°t. descritto dal Monti «a 4 m dal precedente;
porticina non diseguale, ferrata, et appuntata in una parte è lungo m 9 alto 4 m al massimo, 1, 10 al minimo. Il primo
segreta di essa rocca per lo scampo dei cittadini in occasion filare di blocchi è disposto per taglio, il secondo per testa, il
di bisogni le di cui qualità insiememente unite, rendevano il terzo è formato da spezzoni di blocchi, mentre il quarto ed il
luogo invincibile, et inespugnabile, nelle fattioni et imprese quinto giacciono per taglio. Tutti i blocchi posti in basso sono
di guerra», VITAGLIANO 1653, pp. 3-4; a p. 101, la Torre del in pietra calcarea locale, mentre gli altri sono in travertino.
castello è un elemento architettonico di estrema rilevanza, Verso l’inizio del tratto si nota un blocco modanato (...) prova
rispetto alle altre due da lui stesso menzionate in precedenza; dell’uso di materiale archeologico di reimpiego»; 5) Sotto la
una pittura era presente su una muraglia incontro la torre, con “casa Bianchini” e “Vannucci”, Colasanti riconobbe un tratto
raffigurazioni delle terre tributarie del pontefice, Ibid., p. 138. verso sud, in direzione del Liri, avvisando che il rialzo del
67
COLASANTI 1928, pp. 8-9. terreno permetteva di riconoscere soltanto due filari giacenti
68
MONTI 1998, p. 84, che non esclude a priori di conside- di testata lungo ca trenta metri. Dovrebbero corrispondervi
rare anche la tesi di Colasanti. Si veda però CROVA 2005, pp. i tratti segnalati da MONTI 1998, p.95, tt. 5-7: il 5° t. era
105-111, per i primi risultati sugli studi dei manufatti medievali «lungo m 7 ed alto m 3 al massimo e m 1,30 al minimo»,
in opera quadrata nel Lazio Meridionale. blocchi di m 1,00 × 0, 48; 0,60 × 0,40. Il 6°t. era a 12 metri
69
Sono stati riconosciuti i seguenti tratti: 1) MONTI 1998, dal precedente, altezza di m 17, lunghezza ca m 7; blocchi m
p. 95 (1° t.): nella cantina di un edificio in Piazza Martiri 1,05 × 0,55; 0,40 × 0,35; il 7° t. a 6 m. dal precedente, era
di Via Fani; si tratta di un muro costituito in grossi blocchi lungo 2,5 m ed alto 3 m al massimo; blocchi m 1,15 × 0,56;
calcarei squadrati, dei quali il maggiore misurava cm 80 × 52; 0,50 × 0,42. La mappa 44 del Catasto Gregoriano, segnala
il minore 40 × 40. il muro era allineato alle murature esterne; al mappale 359 una torretta quadrangolare, ma rivela anche
2) un tratto posto ad angolo nel medesimo sito, fu visto dal una sorta di torretta semicircolare, da verificare, addossata al
COLASANTI 1928, p. 8, e non dal MONTI 1998, p. 95, 1° t., in muro delle abitazioni al mappale 348.
114 SABRINA PIETROBONO

Il muro occidentale aveva un ingresso, il principale all’oppidum; era detto Porta Romana70 o
Porta Vecchia71 (Fig. 4, n. 9), presente nelle carte catastali ottocentesche; di fronte era scavato un
fossato doppio, intuibile dal nome di una strada (Fig. 4, n. 2), via del Carbonale72, che si staccava
dalla via del Campidoglio (Fig. 4, n. 1), alcuni metri prima del recinto, dove probabilmente si
trovava il secondo fossato, ricordato dal Vitagliano e descritto da Colasanti (Fig. 4, n. 10): si
snodava dalla Piazza Amedeo fino a Via Colle d’Uccelli, segnalato da un avvallamento che univa
le due anse del fiume, lungo il recinto murario73. Il colle così formato (Colle Uccelli) aveva la
quota più elevata nella ex Piazza del Plebiscito (Fig. 4, n. 4)74, proseguiva declinando ad ovest,
collegandosi al terreno del Carbonale, e verso est in direzione del fiume.

5. CASTRA ESISTENTI
5.1 Falvaterra
Collocato sulle propaggini dei Monti Ausoni-Aurunci, a quota 275 m, il borgo suggerisce un
ruolo di fortilizio di confine e di passo (Fig. 2, n. 8); si identifica con il castrum di Fabrateria
menzionato nelle bolle pontificie e nel 107975. Il nome parrebbe richiamare quello di Fabrateria
Nova, città romana posta nella sottostante pianura, ritenuta abbandonata alla fine del VI secolo,
ma senza indagini archeologiche al riguardo, e non è escluso che un qualche tipo di insediamento
sia stato mantenuto nell’area della città76.
I Chronica Monasterii Casinensis attestano il toponimo Fabrateria nella seconda metà del XII
secolo (1079)77. Nel 1128 si menzionano gli homines Castri Frabratterie78. Nel 1139 Falvatera fu
data alle fiamme dai Romani79. È ricordata nelle carte verolane in rapporto alla chiesa di S. Egidio,
al confine tra i territori di Ceprano e Falvaterra, presso il fiume Tolerus (Sacco)80; questa chiesa
possedeva molte terre e ´limate´ adiacenti al fiume e si trovava nella Valle che da essa prendeva
nome, attraversata dal rivum Archarii81. Dopo i Pagani, ai quali fu concessa in feudo nel 1178,
confermato nel 120882, era feudo dei Caetani nel 1303, e spesso viene menzionato nelle carte
di famiglia83. Nel 1369 Francesca da Ceccano aveva diritto alla metà del castrum84. Le Decime
riportano le menzioni de Falbateria agli anni 1328-132985; castrum Falvatere, nella decima degli
anni 1331-133386. La presenza di un fortilizio è attestata il 6 maggio 144387.
Nel 1491, l’Inventarium Honorati Cajetani descrive «in castro Falvaterie (...) lo castelo (...)
consistente in una torre deroccata et un altro torrione che pate royna, revellino, sale, camere,
furno, cisterna et altri membri ed hedeficii; dintro lo quale castelo so le infrascripte robe, ar-
telliarie et monetioni, et ence per castellano Iacobo Martelo de Trayecto con sey compagni et
lo bombarderi». L’inventario si dilunga nell’elenco delle armi da fuoco88. Un casalino era posto
«sopra la porta de lo revellino, da la banda de socto, iuxta le mura de la tera (...)»; una porta
aveva nome di “Porta Cancello”89.

70
MONTI 1998, p. 140, fig. 21. 78
Ann. Cecc., p. 282, anno 1128; FALCO 1919, p. 600;
71
COLASANTI 1912, p. 17. TOROSSI 1980a, p. 243.
72
COLASANTI 1912, pp. 13, 18. 79
Ann. Cecc., p. 283, anno 1139; TOROSSI 1980a, p. 243.
73
COLASANTI 1912, p. 14, ricorda un piccolo ciglio del 80
ACV 1985, doc. 463, p. 103, 20 luglio 1296; doc. 467,
vallum proprio di fronte alla Porta Vecchia. Ibid., p. 16. da dove si evince che Adinulfus Paganus il 30 marzo 1297
74
La menzione di una turrim del 1335 potrebbe indicare era dominus et particeps castri Fabraterie, p. 104; nel 1299
non la torretta circolare del recinto oggi residua, ma anche una lo erano Thomasius, doc. 475, p. 110, e Iohannes, doc. 477,
torre di dimensioni più rilevanti in posizione elevata, come p. 111.
quella descritta dal Colasanti. 81
ACV 1985, doc. 464, pp. 103-104, 21 luglio 1296.
75
Per le citazioni del castrum provenienti dai documenti 82
KEHR 1907, p. 173.
cassinesi, BLOCH 1986, sch. 254, p. 818: l’offerta di S. Pietro in 83
CAETANI 1927, II, p. 275. Fu distrutta ai primi del ‘500
Fabrateria all’abate Desiderio nel 1079, da parte di Petrus (...) da Giulio II, e divenne feudo dei Colonna, TOROSSI 1980a,
et Iohannes filii Atenulfi de Ceperano; CMC III, 61, p. 442. p. 243.
76
MONTI 1998, p. 105 rileva la mancanza di materiale 84
CAETANI 1926, p. 300.
archeologico di reimpiego a Falvaterra; il legame diretto tra 85
BATTELLI 1946, p. 178, n. 1798. Cfr. PIETROBONO 2004,
la fondazione del castrum e il sopraggiungere dei Longobardi p. 98.
deve invece essere dimostrato. CRESCENZI 1985 pubblicò le 86
BATTELLI 1946, p. 191, n. 1945.
informazioni inerenti saggi nell’anfiteatro di Fabrateria nova; 87
CAETANI 1929, pp. 221-222, nel lascito di Colantonio
DE LUCIA BROLLI 1983; CERAUDO 2006. Caetani ai figli di Elena de Montechiaro, oppure in mancan-
77
CMC III, 61, p. 442; anno 1091, IV, 12, p. 481: et S. za di questi di Onorato II Caetani, dei castelli di Ceccano e
Iohannis de Fabrateria loco Campusani. CDC, II, n. CCLXIIII, Falvaterra, con i diritti sulla terra di S. Lorenzo
pp. 143-145: anno 1091, vocabulo S. Iohannis situs in actu de 88
Inventarium Honorati Caietani, p. 315.
Falbatera ab ipso Capusanna. 89
Inventarium Honorati Caietani, p. 320.
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 115

Il Toubert in effetti sostiene che gli apprestamenti per la difesa fossero particolarmente curati90,
ma ben poco del loro assetto si rivela oggi: alcune murature individuate al centro dell’attuale
paese sembrano disegnare il perimetro di un piccolo insediamento, con cortina ortogonale su
due lati (Fig. 5, 1: ricostruzione). L’aspetto attuale corrisponde ad un borgo ridefinito in età
moderna e conserva pochi elementi presumibilmente medievali: un avanzo di torretta circolare,
dalla datazione incerta (Fig. 5, 1, n. 1) e passaggi coperti, a carattere difensivo (Fig. 5, 1, n. 4), in
via Roma; un arco a tutto sesto segnala l’esistenza di una porta (Fig. 5, 1, n. 3)91. La chiesa di S.
Maria92, menzionata nelle Rationes Decimarum93, ne era la chiesa castrale; nel Catasto Gregoriano
(Falvaterra, 47), la chiesa è affiancata da un’area cimiteriale, e presso la porta si trovava l’edificio
delle carceri. Si nota un bastione circolare all’inizio del borgo (Fig. 5, 1, n. 2).

5.2 Strangolagalli (Fig. 1, n. 12)


Discosto dalla Via Latina, raggiungibile mediante un diverticolo interno, collocato lungo un
asse viario che costeggiava Bauco ed il fosso di S. Leucio, su un colle di m 234, l’insediamento
nel 1112 (quod dicitur Strangulagallo vulgo)94 è segnalato come oppidum. Giunse in feudo ai
d’Aquino nel 1159, dopo una serie di transazioni95. Il 29 aprile 1253 si nomina l’antiquum
castrum Strangulagalli quod nuper reedificatur96, a seguito di distruzioni avvenute in circostanze
non chiare e per segnare forse il ritorno al vassallaggio alla diocesi verolana97.
Oggi poco resta delle fortificazioni e dell’impianto originario dell’oppidum: una torre quadran-
golare (Fig. 5, 2, n. 3) ed una sequenza di case a schiera (Fig. 5, 2, n. 2), compresa una casa-torre
(Fig. 5, 2, n. 1), in genere ricondotte alla ricostruzione della metà del XIII secolo98. Può essere
confrontato con gli impianti di Torrice e di Ripi, dalla forma allungata, aderente all’orografia.
Interessante la presenza all’interno del castrum della chiesa di S. Angelo, come avviene anche
nella vicina Bauco (Boville Ernica)99 e Monte S. Giovanni Campano100; è attestata anche nelle
Rationes Decimarum101, ma la costruzione attuale non presenta indizi delle fasi originarie.
Il nome ha suggerito fantasiose spiegazioni102, ma è forse plausibile un collegamento a termini
longobardi quali gualdo, galdo, gallo103, da unire ad altri fitonimi circostanti (Canneto, Carpine)
indicanti le condizioni dell’area al momento della fondazione del castrum.

5.3 Torrice (Fig. 1, n. 2)


Era posto lungo l’asse viario della via Latina, discosto a nord su un colle di quota 321 m; è
definito oppidum, nelle bolle come nei documenti notarili104; fu sede di un fortilizio, attestato
nel 1264, di cui oggi restano solo supposti lacerti (un muro in blocchi squadrati attribuito, con
molti dubbi, alla rocca)105, collocato in posizione dominante (Fig. 5, 3, n. 1). La menzione tarda
induce a ritenere possibile un legame tra la costruzione, o potenziamento, di fortilizi nei suddetti
castra e l’instabilità del clima politico e militare alla metà del XIII secolo. Il nome lo collega alla
presenza di torri, ma il termine diminutivo (Turriccla)106 lascia pensare ad una originaria piccola
torre di confine, che ben si adatterebbe alla sua posizione più esterna, in direzione ovest, nel-
l’ambito del territorio cittadino.

90
TOUBERT 1973, p. 1145, nota 2; TOROSSI 1980a, p. 243. 101
BATTELLI 1946, n. 1858, p. 185, anni 1331-1333; n.
91
TOROSSI 1980a, pp. 243-244. 2037, anni 1333-1335, p. 199.
92
Dove si stipulò un atto riguardante S. Egidio di Ceprano, 102
TOROSSI 1980b, p. 269; CAMPANELLI 1994, p. 70 nota 9.
il 16 maggio 1299, ACV 1985, doc. 475; 6 luglio 1299, doc. 103
Termini longobardi quali *wald, quindi gualdo, galdo
476, p. 110. (SABATINI 1963-64, pp. 171-184), e gallo, in quest’ultima forma,
93
BATTELLI 1946, n. 1945, p. 191, anni 1331-1333. sono attestati in Campania settentrionale, Irpinia e Lucania
94
ACV 1960, docc. C-CII, pp. 129-135. Secondo TOROSSI (Ibid., pp. 177-178).
1980c, p. 269, «ciò lascerebbe intravedere l’eventualità che 104
In oppidum qui dicitur Turrice territorio Verulane
avesse anche un altro nome, di cui però non rimane il ricordo». civitatis, MOTTIRONI 1958, doc. 70, pp. 125-127, 25 giugno
TOMASSI 1980, p. 21. 1084.
95
18 gennaio 1159, ACV 1960, doc. CLV, pp. 202-204. 105
Si richiamano alcuni dei dati già raccolti: In castro
96
ACV 1985, doc. 363, pp. 71-72. Turricis, intus in Fortelizia iuxta muros Fortelleze, ACV 1985,
97
TAGLIENTI 1995, p. 52. n. 393, 28 maggio 1264; Castro Turricis, in Fortellicia, iuxta
98
TOROSSI 1980b, pp. 269-270. portam, Ibid., n. 394, p. 82. PIETROBONO 2006b, sch. 84, p.
99
ROBINO 1980a, p. 226. 129-132; anche PUTTI 1980e.
100
VALERIANI 1982, p. 160; ROBINO 1976/77, pp. 123-131, 106
Turriccla in CMC IV, 64, p. 526, anno 1118. Nel 1480-
per uno studio dei due impianti a confronto. 1481, Turreci, in MARTINORI 1934, p. 244.
116 SABRINA PIETROBONO

5.4 Ripi (Fig. 1, n. 5)


È l’altro centro costituitosi presso la via Latina, a nord del tracciato d’età romana, a quota 300
m; fu sede di un fortilizio (Fig. 5, 3, n. 1), ricordato dalla toponomastica moderna107. Del centro
medievale (Fig. 5, 4) resta anche in questo caso ben poco di visibile (una torretta semicircolare
collegata al circuito murario oggi obliterato dalle costruzioni moderne). Il castrum ha un’impo-
stazione simile all’impianto torriciano108.

5.5 Arnara (Fig. 1, n. 3)


Sorge sopra il fosso omonimo109. Al vertice del colle, a quota 265 m, si trova il complesso
fortificato, in pietra tufacea locale, detta pietra di Arnara; forse generato da una primitiva tor-
re110, le sue strutture si conservano per lo più nelle fasi di XIII e XIV secolo (Fig. 5, 5, n. 1)111. È
uno dei pochi fortilizi ben conservati: restano le cortine ed salienti esterni, spesso indicati come
torrette, posti a NO e a SE, la torre-maschio a NE, presso l’ingresso, e la fascia meridionale
occupata da ambienti abitativi112. L’abitato si sviluppò a sud, assumendo una particolare forma
triangolare, chiuso da mura e torri rettangolari, oggi difficilmente riconoscibili, se non nelle carte
catastali113.

5.6 Pofi (Fig. 1, n. 4)


Sorge in un’area che ha restituito resti di insediamenti di età romana (come in località S. Bene-
detto114). Il fortilizio ha occupato, forse fin dalle origini, una vasta area recinta, di forma pentago-
nale, con torri ai vertici NE, SE, e NO, rinforzata dalla Torre Nova; l’insieme delle fortificazioni è
riconducibile al XIV secolo (Fig. 5, 6, n. 5) con successivi inteventi; sul versante est, la costruzione
di un palazzo moderno determinò l’inclusione nelle sue murature dei due torrioni del recinto
ai vertici NE e SE (Fig. 5, 6, nn. 2-3)115. Come nei casi precedenti, il castrum, a quota 283 m,
racchiudeva al suo interno la chiesa (Fig. 5, 6, n. 5) e la maggiore struttura di difesa, il torrione
a base pentagonale di NO (Fig. 5, 6, n. 1), trasformato nel corso dei secoli116.

5.7 Castrum Castri


Oggi Castro dei Volsci (Fig. 2, n. 7), si trovava sulla strada di collegamento tra la Valle del
Sacco e la Valle dell’Amaseno, sulla cima di un colle di m 385. Mancano dati archeologici che
possano confortare l’ipotesi della precoce organizzazione del castello117.
La più antica autorità castellana attestata, alla metà del XII secolo, fu il balivo Gregorio, il
quale presiedette al patto col quale quondam castri Montis Nigri habitatores rilasciarono le terre
avute in concessione da Casamari, abbandonando progressivamente il sito118.
Nel punto più elevato del colle, si trova l’area della Civita, che rappresenterebbe la sede del
primo nucleo fortificato del paese; era chiusa da un recinto, il cui accesso è conservato in una
porta ad un vano e due accessi ad L, caratterizzata da un arco a sesto acuto nella facciata ester-
na119. Della seconda cinta, che comprese in seguito gli ampliamenti del nucleo abitativo, resta la
linea muraria, con due torre semicircolari residue, di cui una ben visibile, sul lato orientale. Della

107
Via Fortellizze, e via della fortezza, PIETROBONO 2006b, tale e del tratto superiore della cortina della rocca di Arnara
sch. 87, pp. 132-136. In arce castri de Ripis, ACV 1985, n. 305, presenta conci tufacei regolari (superficie media 40 × 19 cm),
17 novembre 1230, p. 51. collocati su malta pozzolanica lisciata e spessa 0,5-1cm».
108
TOROSSI 1980b, pp. 265-267. 112
Descrizione in PIETROBONO 2006b, sch. 133, pp. 170-
109
Il riuso dei castelli, 1999, p. 17; p. 166; PUTTI 1980b, 177.
p. 221. 113
PUTTI 1980b, p. 222.
110
Il castello è proprietà privata, ancora difficilmente ac- 114
PIETROBONO 2006b, sch. 119, p. 156.
cessibile. Resta pertanto da riprendere la problematica inerente 115
PIETROBONO 2006b, sch. 132, pp. 165-170.
la cosiddetta “torre longobarda”, una struttura a base quasi 116
Si veda anche PUTTI 1980d.
trapezoidale posta a SO del complesso, e della sua presunta 117
PIETROBONO 2006b, sch. 129, pp. 161-164.
anteriorità rispetto agli altri manufatti, in particolare rispetto 118
SCACCIA SCARAFONI 1989, p. 11.
al maschio posto a NE; al momento si può solo registrare la 119
In PIETROBONO 2006b, p. 178, la descrizione di questa
presenza di questa tradizione di studi. Si veda anche PUTTI porta è stata inserita nel contesto della seconda cinta, quella
1980b, p. 222. più esterna, dove si trovava invece una porta detta “dell’Olivo”,
111
FIORANI 1996, p. 148: «la torre della Rocca di Arnara è questa sì citata da FIDOMANZO 1980, p. 234, oggi non conser-
stata edificata probabilmente nella seconda metà del XII secolo vata. Le due porte, quella della cittadella e quella del recinto
o nel XIII secolo»; p. 156, nota 79: «la muratura del maschio esterno, si trovavano agli estremi della stessa strada, detta
disposto presso il vertice settentrionale, del saliente occiden- “dell’Olivo” o “dell’Oliva” nel Catasto Gregoriano.
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 117

seconda cinta muraria e della rocca cinquecentesca, restano oggi due torrioni cinquecenteschi a
base circolare, l’uno al vertice del colle, di notevoli dimensioni, in coincidenza della rocca distrutta
(Fig. 5, 7, n. 3), l’altro ben visibile dalla strada che costeggia la fronte esterna delle mura verso
occidente120 (Fig. 5, 7, n. 1), a rinforzare questo lato della Porta della Valle, principale accesso,
da sud, attraverso la seconda cerchia muraria; il resto del circuito era forse in parte composto da
case-mura (Fig. 5, 7, n. 2)121.

5.8 Monte S. Giovanni (Fig. 1, n. 14)


Si trova sulla cima di un colle dalla forma allungata in senso NO-SE, con quota massima di
420 m (Fig. 5, 8)122. Il castello è menzionato per la prima volta in territorio berolano nel 1018123,
e successivamente ricordato come parte del medesimo territorio124. Nel 1112, l’importante
donazione di Geroino (Girino), Mirone e Peregrino, figlio di Peregrino e Boniza, all’Episcopio
e al Vescovo Leto di Veroli, lega Canneto e Strangolagalli, commanentibus territorio iam dicta
civitatis, a Monte S. Giovanni125. Nel 1155, Guglielmo di Sicilia, dopo aver incendiato Ceperano,
si recò a Monte S. Giovanni e da lì a Boville Ernica, che diede alle fiamme126. Gli accordi stretti,
nel periodo 1155-1157, tra la famiglia d’Aquino ed il Papa, portarono alla creazione di un feudo,
da allora strettamente unito anche alle sorti del regno meridionale127.
Il castrum era circondato da un articolato circuito murario con “torrette quadrate” e “roton-
de”128. Al vertice (Fig. 5, 8, n. 1) si trova il complesso della rocca dei d’Aquino-D’Avalos, ora
proprietà privata129, composta da distinti edifici (Fig. 6): un palatium (A); una torre quadran-
golare (B); una torre pentagonale (C); un palazzo (d’Avalos) notevolmente trasformato (D); un
palazzetto (il corpo di fabbrica a SE del palatium) (E); un torrione recentemente individuato
come cisterna (F)130.
Il nucleo centrale e l’ala residenziale della rocca vanno forse assegnati ai secoli XIII-XIV131, con
alcuni significativi resti, forse riconducibili alla costruzione di fine XII secolo, quando i d’Aquino
giunsero nel centro, apprestando una dimora fortificata: murature assegnate a questo periodo
sono nel basamento del palazzetto orientale132, trasformato nel Seicento in carcere, posto nei
piani alti (E), inglobando le strutture medievali visibili nell’area basamentale.
Il fabbricato era indipendente ed al momento della costruzione del palazzo al suo fianco, se ne
elevarono gli alzati in modo da lasciare un’intercapedine tra i due complessi, uniti solo in seguito
attraverso i piani superiori, come è chiaramente visibile dalla strada sottostante.
Il Palatium (A) dei d’Aquino, forse lo stesso palatium quondam magnifici viri Comitis Acerra-
rum, Tommaso d’Aquino, menzionato in una carta del 1313133, fu restaurato nel XIV secolo134 su
strutture più antiche risalenti alla fine del XII secolo135. Il basamento è rifinito tramite murature
a grandi conci risalenti all’XI-XII secolo136, rialzato con murature in blocchi regolari di minori

120
PIETROBONO 2006b, sch. 134, pp. 177-180. Una veduta 127
Erano anni in cui la città aquinate si trovava al centro
di Castro di Vincenzo Iannozzi, affresco del 1854, nel Palazzo di una serie di assalti: nel 1157 fu presa dal conte Andrea.
Episcopale di Veroli, dipinge i resti netti di un considerevole Ann. Cas., p. 311.
torrione a base cilindrica sulla cima del colle presso la chiesa di 128
ROBINO 1980b, pp. 251-253.
S. Oliva, mentre un torrione cilindrico di dimensioni inferiori 129
Desidero ringraziare la famiglia proprietaria del castello,
è posto presso una Porta (della Valle) a destra; non si rileva la in particolare il Dott. Franco Mastrantoni, per avermi consen-
traccia del circuito murario, che potrebbe coincidere con una tito l’ingresso e permesso gli studi della e nella struttura, che
sequenza di case torri; si staglia sulla sinistra una porta castren- hanno portato al riconoscimento della cisterna, a sua volta
se; San Nicola sorge al centro, esterna alle mura, in primo piano trasformata in officina per la lavorazione dei metalli (infra).
(in SCACCIA SCARAFONI 1989, immagine di copertina). 130
Si veda anche ROBINO 1980b, p. 252.
121
FIDOMANZO 1980, pp. 233-238. 131
FIORANI 1996, p. 233, nota 38.
122
VALERIANI 2001, p. 11. 132
FIORANI 1996, p. 133; p. 132, fig. 18; la studiosa
123
ACV 1960, doc. XXV, pp. 28-29, 20 maggio 1018. riconosce murature affini alla classe A4, IIa, fine XII- inizi
124
Ancora nel XII secolo: il nobile Benedetto havitator in XIII secolo.
castro qui nominatur Arnarea, commanente de civitate verula- 133
TAGLIENTI 1995, p. 53.
ne, effettuò, il 5 novembre 1106, una donazione ad Altruda, 134
Presenta nell’elevato una muratura corrispondente al
abitante in castro Monte Sancti Iohanni, territorio cibitatis tipo A4 IIb della FIORANI 1996, p. 133.
super ascripta, ACV 1960, doc. LXXXXII, pp. 119-120. 135
Murature classificate come B2, III, FIORANI 1996, p. 142,
125
Diversi documenti in ACV 1960, docc. C, CI, CII, CIII, XII secolo, sono poste immediatamente al di sopra del basa-
CIV, pp. 129-137; ancora nel 1114, doc. CVI, pp. 139-140. mento del Palatium, Ibid., nota 68, p. 155. All’attacco a terra
Anche 1123, MOTTIRONI 1958, doc. 143, pp. 238-239. del basamento del fianco meridionale del Palatium, si trovano
126
Ann. Cecc., p. 284, che non ne attestano il saccheggio murature del tipo A4, IIIa, databile dalla metà del XII alla
o l’incendio; gli Ann. Cas., p. 311, menzionano l’incendio prima metà del XIII secolo, Ibid., p. 133; nota 49, p. 153.
di Ceprano e di Bauco e dei loca vicina, sempre evitando di 136
Classe C IIIa, FIORANI 1996, p. 147; nota 76, p. 156.
riferirsi direttamente al castello. 137
Classe C IIIb, FIORANI 1996, p. 147; nota 77, p. 156.
1 2

3 4

Fig. 5 – Castra della diocesi di Veroli. Planimetrie schematiche: 1. Falvaterra, da TOROSSI 1980a. 2. Stran-
golagalli, da TOROSSI 1980b. 3. Torrice, da PUTTI 1980e. 4. Ripi, da TOROSSI 1980b. 5. Arnara, da PUTTI
1980b. 6. Pofi, da PUTTI 1980d. 7. Castro dei Volsci, da FIDOMANZO 1980. 8. Monte San Giovanni, da
ROBINO 1980b. 9. Babuco (Boville Ernica), da ROBINO 1980a. Le indicazioni numeriche poste sulle carte
sono spiegate nel testo.
5 6

8 9
120 SABRINA PIETROBONO

Fig. 6 – Monte San Giovanni Campano. Castello d’Aquino D’Avalos. Planimetria (da Il Riuso dei Castelli
1999, rielaborata). Orientamento: NE.

dimensioni, forse del XIII secolo137. Sono stati abbattuti da terremoti ed interventi irreversibili
i piani superiori del palazzo. Nei residui piani inferiori restano ampi spazi voltati sostenuti da
pilastri e colmi di detriti; cisterne si trovano ai lati della scala d’accesso che conduce a tali spazi.
Il piano oggi superiore è parzialmente privo di tetto138.
La torre (B), per eleganza e dimensioni, si distacca dalle altre dell’area: non ha pianta perfet-
tamente quadrata (i lati misurano m 10, 37; 11, 06; 10, 35; 11, 17). È alta m 20 circa, m 3, 30
di spessore murario139, fondata sulla nuda roccia al vertice del monte, trasformata in tempi più
recenti140; il paramento è in bozze e blocchetti in pietra di monte di medie dimensioni; le catene
angolari sono realizzate in blocchi in pietra di monte e travertino, lavorati in molti casi a punta; in
altri casi le facce dei blocchi sono profilate da nastrino; si tratta spesso di materiale di reimpiego.
Può essere definita il mastio del castello, ma particolari della sua struttura141 lasciano sospettare
una serie di interventi ancora da definire nel dettaglio142. Non sarebbe stato in origine l’edificio più
alto; era infatti sopravanzato dalla mole del Palazzo; la sua erezione va comunque collocata dopo
la metà o la fine del XII secolo, con fasi successive da vagliare attentamente. Il livello pavimentale
esterno fu riattato al momento della costruzione del recinto cinquecentesco, poiché si riconosce
un intervento di distruzione delle strutture murarie (il torrione-cisterna detto F) disposte tra il
palazzetto delle carceri pontificie ed il mastio. Infine pare che successivamente alla dismissione
della torre come elemento di difesa l’area del recinto fosse stata destinata ad orti143.
I rilievi in corso144 hanno restituito il profilo di un torrione quadrangolare (F) (Figg. 7; 8; 9),
costituito da un muro in bozze irregolari di dimensioni medie, legate da malta grigio cenere,
poste a filari regolari sulla roccia ove poggia la fondazione del mastio (Fig. 7, a); il muro ha

138
VALERIANI 2001, pp. 202-211, per una generica descri- e sta studiando i rapporti tra cisterna, recinto e torre; il Dott.
zione del palazzo. Sergio del Ferro ha analizzato, in particolare, il palazzo e la
139
Secondo VALERIANI 2001, p. 206. torre quadrangolare: è prevista una collaborazione, estesa
140
In particolare il taglio della roccia in corrispondenza all’intero impianto castellano di Monte S. Giovanni, a scopo di
dell’attuale facciata interna del palazzetto e della torre, segue integrazione, revisione, aggiornamento dei dati e prosecuzione
la dismissione della cisterna e dell’officina per metalli (infra), e delle indagini di rilievo, che potrebbe anche apportare lievi
l’inclusione della struttura delle carceri. Forse fu effettuato per modifiche alle interpretazioni presentate.
la costruzione della scala fissa che collegava la corte alla torre 143
Si veda VALERIANI 2001, p. 206, descrizione del castello:
all’epoca in cui il castello era proprietà della camera apostolica. «orticello intorno alla suddetta torre».
141
Impiego di materiali di recupero, soprattutto nelle 144
Per la I campagna di rilievo, effettuata tra maggio e ago-
catene angolari. sto 2006, mi sono avvalsa dell’aiuto del Sign. Roberto Gaspa-
142
Il castello è attualmente oggetto di nuovi studi; la scri- rone. Di seguito sintetizzo i dati principali, in via preliminare.
vente ha, per il momento, rilevato l’ambiente della cisterna, 145
Per operare sul cantiere di costruzione del mastio, si
Fig. 7 – Monte San Giovanni Campano. Castello d’Aquino D’Avalos. Cisterna. Planimetria (rilievo
Pietrobono). Orientamento: NE.

Fig. 8 – Monte San Giovanni Campano. Castello d’Aquino D’Avalos. Palazzetto e torrione della cisterna,
esterno (foto Pietrobono).
122 SABRINA PIETROBONO

uno spessore di ca 80 cm; è stato distrutto in età moderna, con ogni probabilità al momento
della costruzione del recinto esterno dotato di scarpa, rasandone la superficie al livello voluto e
lasciandovi un significativo varco d’ingresso. Alcuni indizi sul paramento esterno della torre, il
disegno del muro e i rapporti con la roccia, alla quale la torre si incardina tenacemente, sembre-
rebbero indicare il mastio come antecedente145. Prima della costruzione del torrione di raccordo,
il mastio doveva sorgere discosto dal palazzo. La superficie calcarea naturale, in questo punto
di notevole pendenza, è stata utilizzata per guidare l’appoggio della nuova struttura alla torre; il
secondo lato della torretta si appoggia invece al basamento del palazzetto, anche se in maniera
poco leggibile (Fig. 10), ricavando così un vano di servizio all’interno di una struttura a torrione
quadrangolare, evidentemente necessaria a chiudere in via definitiva lo spazio esistente tra il
mastio e il palazzetto stesso.
In seguito, all’interno del torrione, fu ricavata una cisterna (3, 44 × 3, 43 m) nella quale re-
stano ampi settori del rivestimento parietale in malta idraulica di color rosa chiaro (Fig. 11); essa
fu costruita foderando il muro precedente con uno nuovo (Fig. 7, b), a bozze pure irregolari ma
di dimensioni minori, legate da malta di color rosa chiaro146.
La cisterna fu poi dismessa e fu destinata ad officina metallurgica, che la incluse come zona
di lavoro prospiciente l’apertura dell’altoforno, ove trovò sede un piccolo bacino di raccolta di
forma circolare ed un piccolo vano formato da due muretti ortogonali con risega (Fig. 12). La
bocca del forno è ben visibile in parete, colmata da materiale a sostegno del sovrastante muro
delle carceri (Fig. 13): si legge il processo di progressiva riduzione della sua apertura, avvenuto
forse in due tempi147; il forno era impiantato in corrispondenza di un’ala dell’attuale palazzetto
ed oggi risulta inglobato nel muro laterale delle carceri.
Uno dei problemi più spinosi da risolvere è stato comprendere come mai il muro del torrione
sul lato del recinto quadrangolare e del mastio fosse stato quasi interamente abbattuto, tanto da
avere oggi scarse tracce del contatto con il paramento esterno della torre, evidentemente ben
rasato, e, nonostante ciò, si fosse comunque aperto, nella muratura residua, un varco semicir-
colare, per accedere appositamente da quel versante alla ex-cisterna, ben foderato internamente
impiegando i materiali di risulta della stessa cisterna dismessa; è infatti visibile un lacerto murario
reimpiegato che conserva un frammento di malta idraulica. Inoltre, all’esterno del muro resi-
duo fu appoggiato un consistente scarico di materiali (soprattutto detriti, polvere di calcare,
sassolini, etc.) che fu compattato per una pavimentazione grezza che necessariamente doveva
essere al livello della “soglia” del varco ricavato nel muro distrutto. Oltre a ciò, sul lato ovest del
torrione quadrangolare, si aprì una feritoia strombata internamente (Fig. 14) per poter tenere
sotto controllo eventuali assalitori dal basso; la presenza di questa feritoia, sormontata da un
elevato murario adeguato (in seguito più volte rifatto), appoggiato al muro esterno del bargello,
ma necessariamente collegato sul lato opposto con il recinto del mastio, induce a considerare la
trasformazione del torrione-cisterna in un’opera di difesa e di servizio collegata al recinto, che fu
anch’esso costruito all’epoca della trasformazione della cisterna in una officina per la lavorazione
dei metalli. Se si accetta la lettura data dalla Fiorani relativa ad un riassetto generale della rocca
nel XIV secolo, si può attribuire, come ipotesi di lavoro, allo stesso periodo la costruzione della
cisterna, ed al momento della costruzione del recinto quadrangolare della torre, tra il XV ed il
XVI secolo, la sua trasformazione in officina.
Il palazzo detto d’Avalos (D) ingloba un torrione quadrangolare e strutture medievali nel
pianterreno148; si trova nella zona prossima alla torre pentagonale (C), a nord ovest, unita al

doveva avere una piena disponibilità di spazio e visibilità; il palazzetto e del mastio; II – utilizzo come cisterna (le due fasi
paramento della torre è estremamente regolare, e su di esso possono essere non distanti); III – dismissione della cisterna ed
si inseriscono grumi di malta che consentono di riconoscere allestimento di un altoforno sul lato NO, mentre la struttura
l’appoggio del muro in bozze della successiva cisterna al pa- fu trasformata in cortile di lavoro; apertura nel muro SO della
ramento esterno della torre mastio. ex cisterna di una feritoria, mentre un varco fu apprestato
146
La fodera interna della cisterna è di ca 40 cm, presso il attraverso il muro SE, come raccordo al recinto esterno del
passaggio tra mastio e torrione; che si tratti di una struttura mastio, evidentemente già costruito; IV – obliterazione dell’al-
quadrangolare ricavata dalla costruzione di due sole murature toforno, suo riempimento, parallela colmatura e copertura dei
collegate a strutture già preesistenti (palazzetto, parte inferiore, resti del torrione-cisterna, ed elevazione del muro superiore
e mastio) è verificabile tramite l’osservazione della cisterna del palazzetto delle carceri, forse a seguito di una consistente
presso il muro esterno del palazzetto, dove si nota infatti la distruzione. Ricordo comunque il carattere preliminare di
presenza della sola fodera della muratura interna ricoperta da queste note, e rinvio a prossima pubblicazione sia l’edizione
malta idraulica (ca 33 cm di spessore). definitiva dei rilievi sia delle schede USM.
147
Al momento si sono rilevate le seguenti fasi di utilizzo: 148
É stato restaurato e destinato ad attività di ristorazione.
I – costruzione della torre di raccordo tra le due strutture del 149
Lo spessore murario della torre pentagonale è di circa 2
Figg. 9-10 – Monte San Giovanni Campano. Castello d’Aquino D’Avalos. Cisterna (foto Pietrobono). 9.
Interno; 10. Interno, parete sudoccidentale.

Figg. 11-12 – Monte San Giovanni Campano. Castel-


lo d’Aquino D’Avalos. Cisterna (foto Pietrobono).
11. Parete nordoccidentale, particolare del rivesti-
mento; 12. Interno, parete nordoccidentale, visuale
dall’alto.

Figg. 13-14 – Monte San Giovanni Campano. Castello d’Aquino D’Avalos. Cisterna (foto Pietrobono).
13. Interno, parete nordoccidentale, particolare della chiusura del forno dell’officina; 14. Interno, angolo
occidentale, feritoia e collegamento della struttura con il palazzetto delle carceri.
124 SABRINA PIETROBONO

palazzo da un camminamento di ronda esterno; il basamento conserva una catena angolare a


grandi blocchi, mentre il paramento esterno degli alzati ha subito interventi di restauro eccessivi,
tanto da renderne difficile la datazione149.
5.9 Babuco (Boville Ernica) (Fig. 1, n. 15)
Dai dintorni provengono segnalazioni di ritrovamenti archeologici, sia di necropoli sia di ville
romane (La Lucca e Ararsa150; contrada Sasso151). Il castrum sorge al contrario a quota 487 m,
su un sito apparentemente senza preesistenze dirette.
Babuco è documentato nel 1024. Il castelo qui appelatur Babuco era posito territorio Berolano
nel 1047, come in seguito152. La frequenza con la quale sono attestati gli attacchi e le distruzioni
del centro potrebbe lasciare pensare che si trovasse sulla strada maggiormente trafficata e che
fosse di notevole importanza strategica153: nel 1155 fu dato alle fiamme154; nel 1186 Enrico di
Svevia fece depredare il castrum155, ordine che ripeté nel 1194156. Nel 1204 il castrum fu silen-
ziosamente assaltato nottetempo e le mura della prima cortina superate dalle truppe di Corrado
conte di Sorella157.
L’impianto castrale (Fig. 5, 9) ha come elemento più significativo il circuito murario, con 18
torri (alcune a base circolare, altre quadrangolare): presenta rifacimenti della fine del XIV secolo158.
Il fortilizio interno è supposto in corrispondenza dell’attuale Palazzo Filonardi (Fig. 5, 9, n. 1)159
e della chiesa di S.Pietro Ispano; la stessa chiesa poggia su parte della cinta muraria, e nelle sue
immediate adiacenze, tra le torri dell’estremità nord dell’abitato, spicca un torrione di maggiori
dimensioni, a pianta quadrata, che presenta “carattere tipologicamente più vicino a quello di un
maschio che non di una torre perimetrale”160.
A sud-est è riconoscibile, grazie a residue torrette circolari (Fig. 5, 9, indicate con la lettera
“a”), una linea di fortificazione interna che separa un settore SE, meno edificato, dal resto del-
l’abitato161. Essa deve essere chiaramente più antica rispetto alla cerchia che abbraccia il lobo
d’espansione sud-orientale percorso dalla Via Nuova.

6. CASTRA ABBANDONATI
6.1 Monte Nero e Monte Nero Castellone162 (Fig. 2, n. 7)
Il sito è posto all’ingresso della Valle Maiura, uno stretto canale di percorrenza stradale secon-
daria, che si apre tra il Monte Nero a NO e il Monte Canada a SE. Questo percorso permetteva
di raggiungere l’area di Pastena, da dove si poteva proseguire verso Fondi ed il mare. Il monte
ha una chiara posizione strategica e questo, in una fase di forte instabilità militare, ne poteva
determinare l’occupazione.
Un altro castrum Montem Nigrum è attestato nel giugno 1169 (non 1069163), nella donazione
a Gerardo de Insula fideli quoddam nostrum castrum Montem Nigrum nomine..., ma l’azione di
un Robertus Divinae Casertanorum aliorum plurium comes, unita alla menzione di Insula (Isola
del Liri)164, induce a riferire la menzione all’omonimo Monte Nigro, che si trova oltre la linea

m, altezza di ca 25 m; fotografie pubblicate in VALERIANI 1982, pp. 225-229.


p. 18, mostrano la finestra ad arco acuto. 160
ROBINO 1980a, pp. 226-227.
150
GIANNETTI, BERARDI 1970, pp. 110-118. 161
ROBINO 1980a, p. 228.
151
CANETRI 2003, p. 9-14, che vi riconosce un’area inse- 162
PATITUCCI UGGERI 2004, ha rilevato un collegamento
diativa che giunge fino alla metà del IV secolo. tra impianti fortificati bizantini e il tardo termine tecnico
152
ACV 1960, doc. XXXVIII, pp. 47-48, 30 marzo o maggio castellum, per l’area toscana. Il toponimo, nel Lazio Meri-
1059. MOTTIRONI 1958, doc. 115, anno 1101, pp. 197-198. dionale, è frequente: Colle Castellone ad ovest di Ceccano;
153
La posizione topografica è in effetti fondamentale, poi- Castellone presso Pisterzo-Prossedi; Monte Castellone a NO
ché il castrum sovrasta il corridoio di comunicazione interno di Casamari; Castellone a NO di Alvito; Monte Castellone a
nel triangolo tra Arce, Ceprano e Veroli. Si tratta di una terra nord di Montecassino; Colle Castellone a sud di S. Giorgio a
murata che conserva buona parte del suo circuito difensivo, Liri, e molti altri. Per altri toponimi d’età bizantina, DE VECCHIS
anche se l’impianto urbanistico ha subito una profonda rico- 2004, pp. 710-714.
struzione in età rinascimentale e barocca. 163
FARINA, FORNARI 1983, p. XVI, da un regesto del 1490.
154
Ann. Cecc., p. 284. 164
FARINA, FORNARI 1983 in seguito rinviano più corretta-
155
Ann. Cecc., p. 288. mente al documento dell’anno 1169, pp. 163-164, il Privile-
156
Ann. Cecc., p. 292. gium Comitis Roberti de Caserta, doc. VIII, proveniente dalle
157
Ann. Cecc., p. 296. ROBINO 1980a, p. 229. carte di S. Domenico di Sora, con gli stessi attori (infra per il
158
FIORANI 1996, p. 121. Catalogus Baronum).
159
La descrizione più articolata è ancora in ROBINO 1980a, 165
Il documento contempla la presenza di una chiesa di S.
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 125

Fig. 15 – Montenero Castellone di Castro dei Volsci. Stralcio della CTR, 402060. Particolare del rapporto
tra le due cime di Monte Nero Castellone (indicato come Monte Nero) e di Montenero Diruto (indicato
dalla quota 281,2).

del confine verolano, in territorio arpinate, precisamente in località Monte Nero (oggi Torre
Montenero) tra Arpino e Santopadre165, riconducendo la datazione al XII secolo.
Il papa Eugenio III elargì a Casamari un ampio possesso fondiario, sito presso Castro, nelle
pertinenze di Monte Nero; il 22 Ottobre 1151, al momento della consacrazione della Chiesa di
Casamari, il papa aveva forse già effettuato donazioni al monastero166. Il 26 Marzo 1157 alcuni
uomini castri Montis Nigri habitatores siglarono la rinuncia ai propri beni in favore dell’abate
di Casamari, Gregorio, di fronte all’omonimo balivo167. Nel 1170 Alessandro III emanò la bolla
Piae Postulatio voluntatis, confermando le concessioni date all’abbazia dai suoi predecessori
Eugenio III, Anastasio IV ed Adriano IV. In essa vengono ribaditi all’abbazia di Casamari pascua
ad usum silvarum in toto territorio castrensi et montis nigri, pascua et usum silvarum et totam
castellaturam ipsius montis nigri, et ultra muros adiacentem centum passus, sicut inde descendit

Amasio nel territorio dello stesso castrum, e i nomi dei testi pre- 11: i mulini in territorio castrese, i pascoli e le selve di Castro
senti si riferiscono a personaggi dell’area arpinate (Iohanne de e Monte Nero.
Berardo et Iohanne Bove Arpini iudicibus nostris fidelibus etc..). 167
TONETTI 1902, pp. 228-234. I beni erano stati elargiti dal
La documentazione di Casamari, in effetti, non include soltan- Papa Eugenio a Casamari e poi dati in concessione ad uomini
to atti riguardanti la diocesi verolana, ma anche sorana, poiché di Monte Nero; SCACCIA SCARAFONI 1989, pp. 11-12, carta
in esso sono confluite la carte del Monastero di S. Domenico di dell’Archivio Colonna, perg. LVIII, 42, che segnala un errore
Sora, che vi possedeva numerosi beni. Il monastero sorano fu del Tonetti, il quale riferì a Veroli alcune indicazioni riguardanti
affiliato a Casamari da papa Onorio III nel 1222, sostituendovi Castro. Gregorio fu il custode castelli quod Castrum nominatur
i monaci benedettini con monaci cistercensi, FARINA FORNARI anche nella bolla raccolta nell’Ughelli, SCACCIA SCARAFONI 1989,
1983, p. XXII. Montenero è presente anche nel Catalogus p. 11, nota 10, che rileva come il custos fosse il tipico fiducia-
Baronum, in riferimento a Robbertus de Caserta, ed era rio dell’amministrazione papale preposto al governo di una
feudo di due militi, JAMISON 1972, n. 964, p. 172. Montenero castellania della chiesa; va prestata attenzione all’omonimia
presso Arpino è lo stesso donato, per metà, da Landone di dei personaggi, cfr. PIETROBONO 2006b, sch. 128, pp. 160-161,
Arpino a Montecassino nel 1076, GATTOLA 1734, p. 181. da TONETTI 1902, pp. 232-233.
166
Si veda la ricostruzione di SCACCIA SCARAFONI 1989, p. 168
RONDININI 1707, pp. 24-30.
126 SABRINA PIETROBONO

Fig. 16 – Montenero Castellone di


Castro dei Volsci. Schizzo planimetrico
del recinto medievale, reimpiegante
murature in opera poligonale, secondo
GIANNETTI BERARDI 1970.

ab utraque parte in rivum, et circuit versus aquilonem ipsum praecipitium montis et terram in
territorio suprascripti montis quantum duo aratra sufficiunt laborare168.
Il possibile abbandono del sito, e certamente la perdita definitiva di un ruolo territoriale, è
segnalato nel diploma di Onorio III, 11 Ottobre 1216, inviato all’abate del convento di Casamari,
con il quale si conferma la donazione di Innocenzo III della Chiesa di S. Vincenzo, positam in
territorio Castri in loco qui dicitur Mons Niger169.
Il castello è un importante tassello in una panoramica preliminare sui rapporti tra strutture
fortificate medievali e preesistenze, in quanto conserva resti di mura poligonali, dal perimetro
ben definito, aderente alla morfologia della collina; il manufatto è realizzato in blocchi di calcare
cavati sul posto; la cinta poligonale racchiudeva due sommità, dette Monte Nero Diruto, ad est, a
quota 281, e Monte Nero Castellone, ad ovest, a quota 270 (Fig. 15); aveva uno spessore murario
variabile dai m 1, 50 ai m 2 ca. La tecnica non è uniforme, il che lascia presumere la possibilità
di successivi interventi di manutenzione e ricostruzione.
Il lato occidentale del circuito fu riutilizzato come base per una fortificazione medievale,
ristretta alla cima ovest ed a parte dell’insellatura centrale, con una forma irregolare (Fig. 16).
Il nuovo complesso fortificato escludeva la cima orientale (detta di Monte Nero Diruto), dove
si vuole riconoscere un’antica arx. La foto aerea rivela la differente ampiezza dei due impianti,
entrambi riconosciuti sul terreno; il torrione medievale che si ergeva sul Castellone riutilizzava
su due lati le murature in opera poligonale, ed era forse servito da ambienti ad esso collegati170.
Il toponimo Castellone, si riferisce pertanto ad un recinto fortificato medievale parzialmente
reimpiegante antiche strutture difensive in opera poligonale171.

169
FARINA, FORNARI 1983, p. XVIII, che riprendono le 22, p. 67.
pp. 26-27, del Cartario. La chiesa di S. Vincenzo, proprietà 171
Un caso simile è stato notato a Ceccano dove esistono
di Casamari, si potrebbe forse identificare con i resti di una brandelli di mura in opera poligonale che in alcuni tratti sono
costruzione absidata e di un poderoso basamento di torrione, stati inclusi in strutture medievali (presso la distrutta chiesa
all’interno del circuito in opera poligonale, nel settore nord di S. Pietro; nelle fondazioni di S. Giovanni Battista), appa-
dell’impianto antico, in corrispondenza di un probabile accesso rentemente in coincidenza con tratti delle mura medievali,
alla cinta, secondo GIANNETTI, BERARDI 1970, pp. 14; 66, tav. II; PIETROBONO 2006b, sch. 135, pp. 180-187.
rinvenimenti riesaminati da AVILIA, BRUTO 1998, p. 67, nota 22.
170
AVILIA, BRUTO 1998, pp. 61-67, in particolare la nota
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 127

7. CASTRA SCOMPARSI
Ricorrono nei documenti i nomi di castelli che sono scomparsi, apparentemente senza lasciare
alcuna traccia materiale172.

7.1 Castrum Roianum o Paccianum


É tra i castelli più antichi, con abbandono precedente alla bolla del 1081, che non lo menzio-
na. Era integro il 3 Gennaio 1016, quando Donatus (...) avitator in castello de Roiano territorio
civitatis Verulis, vendette a Jacone avitator in supradictum castellum, una terra con atto redatto
da Ratuardus, cioè un tavellio de castello de Roiano, territorio civitatis verulanae173. Il 20 Gennaio
1066, Laidolfo di Bauco dona a Casamari ecclesia santi Stef[ani pri]mi martiris, quae posita est
in locum qui appellatur Pacciano [...]174. Nel 1069 Oderisio di Bauco offre a Casamari la chiesa
di Santo Stefano protomartire, in loco qui appellatur Paccano, ubi modo dicitur Roiano, ubi
castellum destructum, cum terris et binea (...). Ulteriore donazione si ebbe nel 1072175. Intorno
alla metà dell’XI secolo, pertanto, il castello di Roiano era distrutto. Il 22 febbraio 1131 appare,
in una donazione, una contrada non ben localizzata detta Castello176. La coincidenza topografica
tra le attestazioni non è diretta, poiché non ho riscontrato nei catasti indicazioni sufficienti per
stabilirla, ma è probabile sulla base di un altro documento. Il 7 aprile 1159 Johannes Roncione ed
il fratello Berardo diedero al papa un castello detto Ramaiano o Castro Reiani, posto in territorio
collinense177. Non è chiaro se il toponimo possa essere una corruzione del precedente Roianum;
un collegamento potrebbe essere effettuato esclusivamente sulla base del nome del proprietario,
un Giovanni Roncione, che potrebbe aver trasmesso il nome al Colle Rongio (Fig. 1, n. 22), un
toponimo mobile, che nelle carte topografiche moderne si trova spostato verso est e verso il sito
di Boville Ernica (160 IV NO, Coord. Km. 7109), nel F°. 159, Q.I. si trova immediatamente a
nord del Colle Castello (tra questo e Colle S. Pietro), mentre nel Catasto Gregoriano risulta inse-
rito (nella CG 87, S. Suzio, mappali 1197-99), immediatamente a sud di Valle Oriana oggi Valle
Diana, e sulla destra dell’Ara Castello (l’attuale Colle Rongio era detto Farnete), espandendosi
fino al sito di Colle Castello, presso la Cittadella (Fig. 1, n. 20). Quest’ultimo toponimo, pur se
suggestivo, non è termine raro, in quanto nella forma civitella è presso Monte S. Giovanni, in
località S. Nicola (ecclesiam S. Nicolai de Civitella, in territorio di Monte S. Giovanni)178 dove, in
un insediamento di epoca non definibile, è stato riconosciuto un muro in opera poligonale179.
Un toponimo che potrebbe essere messo in collegamento diretto con il sito di Roiano è quello
di S. Pietro (l’8 novembre 1180, Giovanni di Ottone, signore e condomino di Bauco, rinunciò a
quanto dovutogli dalle chiese di S. Leucio, di S. Maria e di S. Pietro de Ruiano180); non è escluso
che possa esso stesso rappresentare il sito del castrum scomparso181.

7.2 Castrum Viarum


È una problematica segnalazione, proveniente dalla descrizione dei confini delle terre cedute
a Casamari nel 1076 da un gruppo di trenta cittadini di Veroli, a nome di tutta la città, in rico-
noscenza del riscatto pagato dai monaci a Riccardo di Capua182. Il confine descritto muove dal
monte de licinetum (Colle Lucinetto, a nord est di Monte S. Giovanni?) al castellum antiquum
qui nominatur Viarum et mittit in rivum Peditaro et intrat in predicta Masinula sicca. La possibilità

172
La toponomastica può soccorrerci, in taluni casi, ma LXXXXIV, pp.121-123.
non è elemento vincolante in quanto, nell’area, estremamente 179
CRISTOFANILLI 1988, p. 20.
mobile. Sulla base del Catasto Gregoriano, e dei documenti 180
ACV 1960, doc. CLXXIX, pp. 228-229. Ulteriori men-
editi, si è individuato un numero di siti che potrebbero essere zioni della chiesa de Roiano si trovano in PIETROBONO 2006b,
messi in relazione con i castra scomparsi delle bolle (il Castrum n. 68, p. 124.
Viarum ed il Castrum Paccianum/Roianum). 181
Una tarda pergamena dell’Archivio Capitolare verolano,
173
SCACCIA SCARAFONI 1951, p. 11. nell’anno 1514, menziona la contrada detta “Torre di Santo
174
ACV 1960, doc. n. XXXXVII, pp. 59-61. Stefano”, posta nel territorio di Babuco. SCACCIA SCARAFONI
175
SCACCIA SCARAFONI 1951, p. 5. 1951, p. 12. Secondo STASOLLA 2005, p. 516, il toponimo
176
ACV 1960, doc. n. CXX, p. 156. Santo Stefano di Roiano è “localizzabile attorno alle località
177
Secondo il Fabre, il territorio di Colli, Liber Censuum, Ara Castello, Colle Castello e contrada Castello”. La distru-
I, doc. CXIIII, p. 396. La mia ipotesi parte dalla possibilità di zione del castello avrebbe determinato, per la studiosa, un
una svista dello studioso, in quanto non ho rilevato un possibile ampliamento territoriale della città di Veroli. Il territorio era
castello con tale nome presso Colli. comunque considerato verolano, come visto.
178
Bolla di Pasquale II, 4 settembre 1108, ACV 1960, doc. 182
MOTTIRONI 1958, pp. 85-88, doc. n. 46, 13 ottobre 1076.
128 SABRINA PIETROBONO

di identificazione è duplice: 1) un toponimo Viarii è presso S. Angelo in Villa183 (Fig. 1, n. 16), e


potrebbe accordarsi con la presenza del Colle Lucinetto e del moderno confine comunale, forse
includente i limiti tradizionali di Casamari; 2) la cartografia moderna (F°.152 III SO, Coord. Km.
7417) riporta un Colle Viaro presso la Bagnara, a nord di Casamari (Fig. 1, n. 21).

7.3 Cannetum
È menzionato nella bolla pontificia del 1081; è problematico stabilire con certezza che si tratti
di un castrum184; fu anche il luogo del convegno per la successione di Agostino, monaco di S.
Lorenzo di Aversa, all’abate Orso di Casamari, intorno al 1088, ma la data è dibattuta185. Gli
Annales Ceccanenses186 riportano l’indicazione della distruzione di Canneto, avvenuta ad opera
di Adinulfus comes, in una data successiva al 1028187, ma immediatamente precedente una lacu-
na, cui segue la data del 1084; sono state considerate le date del 1047188, del 1183189, e la data
dell’elezione di Agostino190; fin dalle prime bolle è presente la chiesa di S. Pietro tra i monasteria
canonicorum191, insieme a S. Paterniano di Ceprano.
Successivamente alle bolle, il territorio di Canneto viene menzionato il 28 agosto 1112, legato
a quello dell’oppidum detto Strangulagallo, commanentibus territorio iam dicte civitatis (Veroli)192.
Il 18 maggio 1134, si ebbe una vertenza tra l’abate di S. Pietro di Canneta e l’arciprete di S. Pie-
tro de Arenula, corsi in giudizio di fronte al vescovo Stefano193. Nel 1170194 il papa Alessandro
giunse a S. Pietro di Canneto. Nel 1313 fu stipulato il passaggio di proprietà di orti in contrada
Villa Cannete, iuxta ruinam195.
Oggi la chiesa di S. Maria di Canneto, che tramanda il nome della località (Fig. 1, n. 10), è posta
in comune di Monte S. Giovanni Campano, frazione di Colli, presso il sito detto “La Torre”196,
forse la contrada Torre di Canneto del 9 marzo 1436, nella donazione di un orto al Monastero di
Trisulti197. Il termine Canneto è diffuso nei dintorni (ad esempio CG 9, Torrice, mappali 48-59;
92-112), ma è concordemente associato a questa chiesa il toponimo del presunto castrum. La
chiesa di S. Pietro di Canneto non coincide con la struttura dell’attuale chiesetta, in quanto era
segnalata diruta il 29 novembre 1670198 e nel 1674, quando sul sito della chiesa attuale era stata
costruita una cappelletta tonda199. Era detta in territorio di Colli, e vi si trovavano alcuni muravi
(sic) di una chiesa, chiamati Le mura di S. Pietro200.

7.4 Castellum Novum


Si trova menzionato nelle bolle pontificie; una sola volta gli vengono attribuite chiese, Ca-
stellum Novum cum canonica S. Petri et ecclesia S. Iohannis201. In altra sede ho considerato la
possibilità che possa identificarsi con la Contrada Castello, presso Ripi202. Esiste però un colle
denominato Castellum Novum, sito presso S. Maria di Canneto e presso la contrada Carpine,
che potrebbe soddisfarne la posizione assunta all’interno dell’elenco delle bolle pontificie (Fig.
1, n. 11). In due pergamene distinte un Castellu Novu è posto rispettivamente in territorio di
Canneto e di Strangolagalli203; il legame con Canneto si rileva anche nella posizione, attestata il 3
maggio 1479, rispetto alla ruina della villa Cannete204; il 27 maggio 1330 una terra in territorio
di Strangolagalli era posta in castellu novu205.

183
PIETROBONO 2006b, n. 66, p. 123. 193
ACV 1960, doc. CXXIII, pp. 158-159.
184
Secondo FARINA FORNARI 1983, p. 61, la cronaca del car- 194
Ann. Cas., p. 286.
tario di Casamari attesta il toponimo castrum canneti. I docu- 195
TAGLIENTI 1995, pp. 49-50.
menti verolani pongono il toponimo in connessione alla chiesa 196
Citata da STASOLLA 2005, p. 525.
di S. Pietro. Nelle cronache e nella documentazione dell’archivio 197
TAGLIENTI 1995, pp. 136; 140.
capitolare di Veroli prevale la menzione semplice (Cannetum). 198
TAGLIENTI 1995, p. 183.
185
FARINA, FORNARI 1983, pp. 57-60. 199
TAGLIENTI 1995, p. 176.
186
Ann. Cecc., p. 281. 200
TAGLIENTI 1995, p. 172.
187
Cfr ROBINO 1980b, p. 252. 201
Bolla di Pasquale II, del 4 Settembre 1108; ACV 1960,
188
TAGLIENTI 1995, p. 177. doc. LXXXXIV, pp. 121-123
189
Ann. Cecc., p. 287. 202
PIETROBONO 2006b, n. 68, p. 124.
190
1088: Agostinus fit abbas Casamarii, Ann. Cecc., p. 281. 203
TAGLIENTI 1995, p. 51: il 14 febbraio 1295, Donna
191
Nel 1097, ACV 1960, doc. LXXX, pp. 104-105. Sapia e Maria vendettero a Giovanni di Oddone della Villa
192
ACV 1960, docc. C-CII, pp. 129-135. Altre donazioni il Cannete, una terra posta nel territorio della stessa Villa, loco
5 novembre dello stesso anno, docc. CIII-CIV-CVI, pp. 135- ubi dicitur Castellu Novu.
140. Anche la convenzione con Girino, 28 agosto 1152, doc. 204
TAGLIENTI 1995, p. 52.
CXXXXVII, pp. 191-192. 205
Ivi, p. 51.
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 129

7.5 Carpenum
È menzionato ripetutamente nelle bolle pontificie; castrum Carpini si rinviene spesso anche
nelle carte Caetani206. L’indicazione toponomastica conduce alla contrada Carpine attualmente
in territorio di Strangolagalli. L’intitolazione della chiesa del castrum Carpini non è indicata nelle
Rationes Decimarum207.
Una tarda ma importante menzione del 25 marzo 1471 lo indica diruto: era di proprietà di
Francesco Antonio d’Aquino, marchese di Pescara, che donò in perpetuo a Nicola “de Arcis” il
castello ed il territorio: territorium castri nostri diruti, sito (!) in pertinentijs Campanee, quod
vulgariter dicitur lo Carpino, iuxta pertinentijs (!) castri Riparum et pertinentiis castri nostri Montis
Sancti Iohannis et pertinentiis Ceperani et castri Pofarum, cun iuribus, actionibus et pertinentiis
suis omnibus208. La donazione fu confermata da re Ferdinando I nel 1472209. Nicola “de Arcis”
vendette il castello diruto nel 1473 a Onorato II Caetani d’Aragona, conte di Fondi210.

8. VIABILITÀ
I percorsi, ormai asfaltati, che collegavano la città di Veroli ai suoi castelli, conservano a volte
tracce di piccoli insediamenti rurali lungo l’asse viario o nelle vicinanze (in località Amici211;
in località S. Vito212; Tombelle213) o torri di osservazione. Non sono visibili, nella diocesi ed in
prossimità del confine, torri isolate pari ai migliori esempi delle tipologie basso laziali comprese
nell’area romana, quali la struttura della Torre della Mola presso Supino, o la torre Noverana214,
ma questo non significa che non vi siano state strutture di tale imponenza; numerosi riferimenti
della toponomastica (meglio evidente nel caso di castrum Babuci) inducono alla prudenza nella
lettura della distribuzione topografica delle strutture d’avvistamento215.
La denominazione via antiqua (ad esempio, presso Torrice), consente di riconoscere l’esistenza di
assi viari precedenti l’assetto castrale216. Frosinone (Fig. 1, n. 1) è uno dei nodi fondamentali della
rete di comunicazione locale, sia in senso NE-SO (dalla conca di Sora in direzione del mare), sia
in senso NO-SE, lungo l’antico percorso della via Latina, in direzione di Ceprano (Fig. 1, n. 9).
Lungo la via Latina, il cui percorso è probabilmente quello individuato sulle colline tra Ripi e
Pofi217, sorgevano quattro castelli, due a nord del suo asse (Ripi e Torrice) e due a sud (Arnara e
Pofi), che ne controllavano il tracciato fino a Ceprano, ad una quota utile ad evitare allagamenti
da parte dei fossati attraversanti le vallecole interne. La strada antica non perse in tal modo la
sua funzione in età medievale ma fu integrata da altri percorsi; il più illustre è certamente quello
denominato Via Francesca, che correva nella contrada omonima a sud di Veroli218. Il prevalere di
uno o più castelli nell’ambito della rete castellana riconoscibile ha condotto a preferire nel tempo
uno o più assi rispetto ai rimanenti.
Castro dei Volsci (Fig. 2, n. 6) e Montenero (Fig. 2, n. 7) sono all’imbocco di due diversi per-
corsi viari in direzione del mare; su quello ancora oggi trafficato, a breve distanza dalla strada
moderna, la chiesa di S. Tammaro219 (Fig. 2, n. 23), ai piedi del colle di Castro, conservava strutture
precedenti inglobate nel muro di fondo, interpretate come i residui di una casa-torre dismessa nel

206
Ad esempio l’8 febbraio 1335, documento redatto PIETROBONO 2006b, sch. 58, p. 119, per la segnalazione del sito.
ad Anagni (in cui «il notaio Giovanni Siracuse giurò di non 212
PIETROBONO 2006b, sch. 60 e 62, p. 120, dove presso una
ricordare di essere stato presente né di aver interposto decreto cisterna d’età romana e a breve distanza da un’ulteriore strut-
alla emancipazione di Giovanni Caetani, figlio di Loffredo, tura idraulica reimpiegata in una casa moderna, ho riscontrato
il quale in tale occasione gli avrebbe donato i castelli di frammenti di ceramiche invetriate e da fuoco (Fig. 1, n. 18).
Selvemolle, Carpino e la torre di Ceprano»), CAETANI 1926, 213
PIETROBONO 2006b, sch. 65, p. 123 (fig. 1, n. 19).
p. 96, ed altri documenti a seguire, sempre citato come 214
FIORANI 1998, pp. 62-72, colloca, nell’ambito delle
castrum Carpini (21 febbraio 1359, pp. 191-192, castro torri di area romana, due tipi o modelli: quello che risente
Carpini; 13 marzo 1361, pp. 203-204; 24 aprile 1363, pp. maggiormente delle modalità costruttive del distretto romano,
218-223, spt 219). ed un tipo più autonomo, detto basso laziale, confrontabile ad
207
BATTELLI 1946, n. 1859, p. 185, anni 1331-1333; n. esempi presenti nell’area meridionale.
2036, p. 199. 215
PIETROBONO 2006b, sch. 63, p. 121: Torre Emiliani e la
208
CAETANI 1932, pp. 4-5. Torretta; si veda la precedente ricognizione di STASOLLA 2005,
209
CAETANI 1932, pp. 16-17, 6 settembre 1472. p. 517, che ha schedato la torre di Colle Cologni e la torre
210
CAETANI 1932, p. 20. Verracchia; ricorda il toponimo la Torretta inserito nel cartario
211
A nord del fosso Bagno (Fig. 1, n. 17), si notano i resti di Casamari del 1498.
di strutture abitative di incerta datazione. STASOLLA 2005, p. 216
PIETROBONO 2006b, p. 78, via antiqua ad tumbelle.
515 ha schedato una costruzione a pianta quadrata (4, 5 circa 217
GATTI 1998, pp. 73-86.
per lato; spessore 0,60 m) fortemente diruta e coperta da fitta 218
PIETROBONO 2006b, pp. 82-83.
vegetazione, con murature in pietrame di piccola pezzatura. 219
PIETROBONO 2006b, sch. 134, 8, p. 180.
130 SABRINA PIETROBONO

Fig. 17 – Boville Ernica. Stralcio CTR, 390140. Rapporto tra i siti di Boville Ernica (Bauco, Babuco) e
Monte dei Fichi.

XIII secolo220. Montenero Castellone, invece, reimpiega delle preesistenze, che suggeriscono una
continuità d’uso dell’asse viario di fondovalle; Falvaterra era castrum finalizzato al controllo del
passaggio attraverso una piccola gola, che dalla Valle del Sacco conduceva a Fondi, ed è pertanto
paragonabile, in quanto a funzioni, al sito di Montenero Castellone221.

CONCLUSIONI
La carenza di scavi archeologici mirati non contribuisce a colmare la scarsità delle informazioni
attualmente in possesso. Poche indicazioni si hanno sul processo di trasformazione degli abitati
e sulla loro organizzazione. La topografia dei castelli nel territorio della diocesi di Veroli rivela,
ciò nonostante, dati interessanti circa le dinamiche insediative, le modalità di sfruttamento delle
colline che separano la Valle del Sacco da quella del Liri e il processo di creazione di una linea
difensiva tra area romana e area meridionale.
Nell’ambito della diocesi di Veroli, sorsero un cospicuo numero di castra, almeno dieci dei
quali inizialmente legati alla città, retti a quanto pare da consorterie di cittadini; il loro compito
era facilitare il controllo dei collegamenti e dell’intera area, sia sul piano economico, sia sul piano
strategico-militare. Da tutti gli impianti è ancora oggi possibile constatare la possibilità di comu-
nicare visivamente con il centro urbano, nonostante la scomparsa, a volte, delle singole torri di
avvistamento o di difesa delle quali è presumibile che fossero dotate. Torrice/Turrice è con molta
probabilità l’attestazione, ormai quasi soltanto toponomastica, di questo particolare sistema di

220
Segnalate in STASOLLA 2005, p. 519, forse una casa torre stenza di una scafa gestita dal castello («have la scafa et rasone
diruta nel XIII secolo. de lo passo in lo flume de dicta terra»), Inventarium Honorati
221
L’inventarium attesta per la fine del XV secolo, l’esi- Caietani, p. 316.
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 131

controllo territoriale, e non a caso, allora, l’oppidum serviva per la definizione dei confini con
Frusino. Questo gruppo di castelli “cittadini” non rivela, al momento, coincidenze topografiche
dirette con preesistenze.
Più di un elemento accomuna Boville e Monte S. Giovanni sul piano topografico: la forma
oblunga dei castra; l’orientamento NO-SE; la posizione della rocca nel vertice NO; la collocazione
della chiesa dell’Angelo presso la rocca; l’esistenza a breve distanza di siti terrazzati da murature
in opera poligonale, disposte in entrambi i casi su una collina rivolta al fiume Liri, in direzione
SE: per Boville Ernica si tratta del Monte dei Fichi (Fig. 17)222; per Monte S. Giovanni Campano,
l’area detta significativamente Civitella (Fig. 18), dove la presenza di una chiesa ed il toponimo
non può lasciar escludere un fallito incastellamento223: S. Nicola di Civitella fu eretta presso il
muro in opera poligonale224. I due siti, oltre ad essere a breve distanza dal castrum, erano legati
ai percorsi viari precedentemente citati.
Proprio Bauco e la vicina Monte S. Giovanni erano le sentinelle a guardia di due strade ben
importanti verso la città di Veroli: esse si ricongiungevano al tracciato della via Francisca, presso
S. Angelo in Villa, ed al percorso verso Casamari ed i confini con il Sud. Bauco-Boville è difatti
un castello attorniato da ben quattro torri di segnalazione; sul piano topografico rivelano la fun-
zione di controllo dei movimenti lungo il fosso di S. Leucio, dove si snodava uno dei percorsi,
mentre dal sito de La Torretta la perfetta visuale di Monte S. Giovanni ed Arce-Rocca d’Arce
è la spiegazione dell’esistenza della struttura, trasformata in casa colonica ed ora abbandonata.
Anche i castelli scomparsi delle Carpine, Canneto, Castrum Novum, e l’attuale Strangolagalli,
sono posizionati sulla direttrice che dal Liri conduce verso Boville Ernica. Non è segnale irrile-
vante in tal senso la presenza di edifici ecclesiastici donati a Montecassino: S. Maria225, S. Paolo,
S. Arcangelo e S. Quinziano226.
La nuova erezione o ricostruzione di castelli dopo il 1250 (S. Angelo, 1261, Strangolagalli
1252), evidenzia la necessità, da parte in primo luogo del vescovo, di riattare il sistema di difesa
lungo gli assi viari interni che conducono alla città.
Se la valenza economica è riscontrabile dalla posizione dei singoli castra, tutti a breve distanza
dal Meringo e dai fossi che determinano fertili vallecole infracollinari ed ampi spazi boschivi sui
rilievi, la valenza militare è attestata dall’apprestamento di torri e difese sempre più solide, tanto
da condurre all’elaborazione delle rocche baronali nei secoli più tardi; sul piano topografico, si
determina una rete ben articolata e strettamente connessa, che urta contro la consueta lettura della
“disorganizzazione” del papato nell’apprestare difese su tale versante della frontiera, lasciate alla
volontà dei singoli baroni, sui quali il vescovo di Veroli aveva pure peso politico. La distribuzione
dei singoli castra è, in tal senso, il segnale della presenza di un disegno originario da ricondurre
ad un potere da meglio definire.
La diocesi mantenne una qualche forma di controllo sia sui castra in territorio verolano227,
sia su nuclei castellani ivi non compresi; in quest’ultimo caso, i collegamenti a forme insediative
preesistenti sono più diretti: Frusino è un castrum erede di un centro urbano romano; Ceprano
e Monte Nero Castellone devono essere considerati in rapporto a precedenti strutture: il primo
all’importante ponte romano sul fiume Liri, sede di un insediamento, da meglio definire crono-
logicamente, ma cinto da mura presenti già in età altomedievale; il secondo connesso ad una
postazione fortificata collocata lungo un percorso secondario, anch’essa da definire cronologi-
camente; particolarissimo il sito di Falvaterra-Fabratteria, che forse solo nel nome continua il
vecchio centro romano di fondovalle228.
Probabilmente è in questa differenza di rapporti con le preesistenze ed i territori di pertinenza
degli insediamenti precedenti, la cui tipologia va specificata di volta in volta, che si può ricercare

222
G ATTI 1995, pp. 603-613: le strutture in opera 225
BLOCH 1986, pp. 728-729.
poligonale all’epoca visibili delimitavano una terrazzo di ca 226
BLOCH 1986, p. 817. Due chiese di S. Maria, S. Paolo, S.
70x35 di lato; un muro in opera quadrata poco distante è stato Arcangelo in Mozzano, e la chiesa di S. Quinziano sono citate
posto in relazione ad un tempio; strutture romane (loc. Sasso) nei CMC III, 61, p. 443.
ed una ipotetica necropoli arcaica (La Lucca) sono disposte a 227
Per il castrum di Ripi, il riferimento territoriale (Reg.
corona del sito, nelle aree di fondovalle. Ang., VI, p. 60, n. 108) è dato dalla diocesi di Veroli ancora
223
Un toponimo Civitella è stato riconosciuto sul sito della nel 1271 (Roberto Brianzano era signore di metà del Castello
successiva Alvito, ANTONELLI 1999, p. 46. di Ripi, e dipendeva evidentemente dal re angioino, cui fu
224
Ricognizione sul sito pubblicata da CRISTOFANILLI 1988, presentata una protesta da parte degli abitanti del castello; il
pp. 19-21. Segnalazione di murature medievali in località il re intervenne da Trani il 28 Maggio 1271).
Casino, posta sul colle detto di S. Nicola, Ibid., p. 20. 228
PIETROBONO 2004, p. 98.
132 SABRINA PIETROBONO

Fig. 18 – Monte S. Giovanni Campano. Stralcio CTR, 390150. Rapporto tra i siti di Monte S. Giovanni
Campano e Civitella.

un indizio per il momento per la fondazione di castelli nell’ambito del territorio cittadino, ove
pare risaltare la scelta di nuove sedi. Nel territorio diocesano extra verolano si individua per lo
più la risalita in altura in sedi occupate in antico: ciò può significare legami con comunità comun-
que organizzatesi ed autosufficienti, spostatesi secondo precisi criteri. Indagini archeologiche e
non solo topografiche in tal senso dovrebbero a questo punto investire soprattutto Montenero
Castellone, Ceprano, Frosinone, Castro dei Volsci.
Per la viabilità medievale, finalmente considerata nella sua autonomia, e non più solo suppor-
to alla studio della viabilità romana, la raccolta delle indicazioni ricavabili dalle fonti è stata da
tempo intrapresa e si stanno rendendo noti negli ultimi anni i primi risultati229.
Richiamando i punti esposti inizialmente, riguardanti il territorio e le motivazioni delle scelte
insediative, si è verificato nella lettura del terreno che vi sono condizioni geomorfologiche in parte

229
PIETROBONO 2002b, pp. 197-228, per la Via Latina presso Aquinum; PIETROBONO 2006a.
GLI INSEDIAMENTI FORTIFICATI NEL TERRITORIO DELLA DIOCESI DI VEROLI: PRIMO CONTRIBUTO 133

vincolanti che, unitamente alle tracce nella toponomastica, permettono di ipotizzare i contorni
dei territori castrensi230. Tutti i castra lentamente riuscirono ad assumere un ruolo rilevante ed
autonomo, ed attestazioni sempre più concrete di proprietà e terre esistenti nei territori dei sin-
goli castelli si contano dalla fine dell’XI secolo, fino alle grandi estensioni visibili nei documenti
del XIII secolo231.
I nuclei abitativi si raccolsero all’interno di cinte murarie di differente grandezza, adattate
all’orografia del terreno, intervallate da salienti e torrette a pianta sia circolare, sia quadrangolare
(Ripi; Bauco; Monte S. Giovanni Campano ed altri)232. Nel corso dell’XI e del XII secolo, e con
le ristrutturazioni del XIII e del XIV secolo, che portarono alla costruzione di rocche (spesso
all’interno dell’abitato, separate da un’ulteriore cinta o esaltate dalla posizione dominante233) e
palazzi signorili, i castra citati si sviluppano in impianti molto articolati intuibili attraverso le
menzioni di edifici ecclesiastici, case, casalia anche nel territorio di pertinenza, a servizio di una
popolazione evidentemente aumentata.
Si tratta in definitiva di tappe fondamentali del processo che condurrà alla creazione del
tessuto insediativo mantenutosi nel tempo sostanzialmente inalterato fino alle notevoli tra-
sformazioni avviatesi dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso.

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230
Una proposta di ricostruzione ipotetica dei confini furono definiti alcuni castra, come Strangolagalli, nel XIV
della città e dei castra vicini, sempre ipotetici, si trova ora in secolo, TAGLIENTI 1995, p. 94) appaiono sempre più legati ai
STASOLLA 2005, pp. 513-531. Da SCACCIA SCARAFONI 1930/32, singoli castelli.
pp. 255-282, ho ritenuto opportuno richiamare la distinzione 231
SCACCIA SCARAFONI 1930/32, p. 265: nel momento in cui
tra territorio cittadino e diocesi e non le differenze territoriali i castelli si resero autonomi, sorsero infatti cause riguardanti i
tra castelli e città, dal momento che i primi erano sorti nel- confini ed i territori, le selve e vari beni un tempo comuni.
l’ambito del territorio del secondo (in territorio berulano). 232
FIORANI 1996, p. 40.
Dal XII secolo, invece, i fondaci, le città e le ville (come pure 233
Ivi, p. 44.
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I monasteri di Sora e Val di Comino (Frosinone)

MARIANNA NORCIA

INTRODUZIONE
Il presente contributo si inserisce in un progetto più ampio, che si prefigge lo scopo di studiare
gli insediamenti monastici del Lazio meridionale.
In questa sede presenterò i primi risultati, che si riferiscono ad un’area geografica limitata,
corrispondente alla regione sud-orientale del Lazio (Fig. 1), attraversata dalla Valle del Sacco,
dalla Valle di Comino e dalla Valle del Liri, percorsa da millenni da una delle arterie fondamentali
dell’Italia centrale, la Via Latina.
La città di Sora sorge alle pendici meridionali del Monte San Casto, presso la riva destra del
fiume Liri e rappresenta l’unico possibile accesso alla Marsica e alla Piana del Fucino1.
La Valle di Comino è delimitata dai rilievi calcarei del monte Morrone a nord e dalla catena
della Meta e dalle Mainarde a nord-est, che la separano dall’Abruzzo e dal Molise; a sud il Monte
Cairo la separa dalla pianura di Cassino e Pontecorvo; ad ovest è separata dalla valle del Liri da
colline sabbioso-argillose2. Il fiume Melfa e il suo affluente di sinistra, il torrente Mollarino, ne
costituiscono i principali elementi idrografici.

Sora, sede di un insediamento dell’età del Ferro3, fu città volsca e poi sannita4; nel 354 a.C.,
con il trattato romano-sannita, passò sotto l’influenza romana, e nel 345 a.C. fu occupata dai
Romani5. Nel 303 a.C. divenne municipio e, in seguito, colonia triumvirale o della prima età
augustea6.
La città fu una delle più antiche Diocesi d’Italia7.
Sora sorge in una posizione topograficamente strategica, all’incrocio di diverse strade, rap-
presenta un nodo viario che mette in comunicazione la Marsica alla Via Latina; è collegata alla
città di Cassino da un’antica strada romana, detta Sferracavalli8.
La Valle di Comino risulta abitata sin dall’epoca preromana9. Dopo la conquista romana nel
293 a.C. tutto il territorio, assegnato al Latium adiectum fu retto a prefettura, con Atina capo-
luogo. Nel fondovalle sono frequenti le tracce di età romana10. Durante il periodo longobardo11
la Valle venne divisa tra il Ducato di Spoleto a nord e quello di Benevento a sud. Nell’856 il duca
di Spoleto riunì sotto il suo potere tutto il Cominese e lo mantenne fino al 96312. Nel 994 l’abate
Mansone di Montecassino rivendicò il possesso delle contee di Sora e Comino, che rimasero, per
più di cinquant’anni, oggetto di contesa tra i monaci e i conti d’Aquino.
Questa zona, nevralgica per le comunicazioni verso la Marsica e verso la Terra di Lavoro, nel
Medioevo fu organizzata in un sistema di fortificazioni.
L’influenza del vicino Monastero di Montecassino ha notevolmente determinato lo sviluppo
e l’organizzazione del territorio cominese nell’alto e nel basso medioevo.
Nei secoli intorno al Mille, e anche successivamente, il Monastero cassinese ebbe notevoli
possedimenti in quest’area, con prepositure, celle, chiese isolate, mulini13.

1
SCARDOZZI 2004, p. 63. 1982, tom. 59, col. 148; MARSELLA 1935, p. 48.
2
RECCHIA 1982, p. 83. 8
Tale strada offriva una valida alternativa alla via Casi-
3
RIZZELLO 1998, pp. 13-15. lina.
4
Volsca tra il VI e il IV sec. a.C.; Sannita nel IV sec. a.C. 9
RECCHIA 1982, p. 83.
5
Liv., VII, 28, 6. 10
Tali tracce sono riscontrabili in ruderi di santuari, ville
6
SCARDOZZI 2004, p. 63. terme, sepolcri, lastricati stradali; RECCHIA 1982, p. 83.
7
Il primo documento che attesta la diocesi risale all’anno 11
Periodo dell’interregno seguito alla morte di Clefi (574)
496, si tratta di una lettera di Papa Gelasio I (492-496) indiriz- e concluso dall’elezione di Autari (584-90).
zata al vescovo di Sora Giovanni (491-496), al quale concede 12
In tale anno Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua
l’autorizzazione, accolta positivamente la richiesta di Megezia, e Benevento, ottenne dall’imperatore Ottone I i feudi di
nobile e facoltosa matrona sorana, a celebrare i divini uffizi Spoleto e Camerino.
nell’oratorio privato della donna: IAFFÈ 1885, p. 92; MIGNE 13
RECCHIA 1982, p. 84.
138 MARIANNA NORCIA

Fig. 1 – Sora e Valle di Comino con possibile ubicazione degli insediamenti monastici: 1. San Silvestro,
2. San Germano, 3. San Domenico, 4. Santa Chiara, 5. San Pietro Celestino, 6. San Donato, 7. San Martino,
8. San Paolo, 9. Santa Maria di Canneto, 10. San Valentino, 11. Santa Trinità, 12. Sant’Angelo di Pesco-
mascolino, 13. San Nazzario.

I. I MONASTERI DI SORA
I monasteri sorani sorgono nel centro della città e solo uno extra moenia (Fig. 2) e sono: San
Silvestro, San Germano, Santa Chiara, San Pietro Celestino e San Domenico.

1. San Silvestro
Il monastero, che sorgeva presso l’omonima chiesa urbana, fu fondato nel 1029 da Domenico
abate ad radicem montis14 San Casto.
Nei secoli XI-XIII S. Silvestro fu prima una dipendenza di San Domenico e poi di Casamari15.
Nel 1222, come avvenne anche a San Domenico, furono soppressi i benedettini neri ed introdotti
quelli bianchi.
Dopo gli eventi che portarono alla dipendenza dei due monasteri sorani da Casamari, San
Silvestro non è ricordato per più di un secolo, finché non si rinviene il nome di Frà Giacomo16
de casa di Sora, cistercense.
Quindi, nei primi cinque secoli di storia questa chiesa fu prima un cenobio, finché vi dimorarono
i benedettini, poi una dipendenza di Casamari. S. Silvestro perse sempre più i suoi connotati di
monastero con una vita comunitaria, fino a ridursi a semplice cappellina, affidata ad un monaco
cistercense.
In seguito a San Silvestro fu restaurata la vita monastica17, fino al 16 aprile del 1663, anno in
cui il monastero fu soppresso18.
Nel 1707 S. Silvestro è attestato come chiesa curata ancora officiata da un cistercense nominato
da Casamari19. Sotto il vescovo di Sora Sisto Y Britto (1768-1796) passò definitivamente nelle
mani del clero secolare.
Oggi è una delle sette parrocchie della città di Sora.
14
BARONIO 1605, p. 104. San Domenico. In seguito alla bolla di Innocenzo del 1652
15
Con i Cistercensi San Silvestro seguì le vicende del entrambi i monasteri sorani furono soppressi; DE BENEDETTI
monastero di San Domenico. 1952, pp. 17-18.
16
Annales ceccanenses, MGH, SS, XIX, p. 281. 18
CARAFFA 1981, p. 171.
17
Tra il 1599 (anno in cui era rettore curato Don Michele 19
RONDININI 1707, p. 70.
Papi) e il 1601, quando vi risiedevano due monaci e uno a
I MONASTERI DI SORA E VAL DI COMINO (FR) 139

Fig. 2 – Sora, con localizzazione dei monasteri urbani: 1. San Silvestro, 2. San Germano, 3. Santa Chiara,
4. San Pietro Celestino.

2. San Germano
La prepositura di San Germano era situata nel centro di Sora, nelle vicinanze del luogo dove sorse
il monastero di Santa Chiara. Il monastero dipendeva da Montecassino.
Il primo accenno alla cella di San Germano risale al 3 febbraio del 1047 in un diploma di Enrico
III a favore di Montecassino, dove viene citata in Sora ecclesiam S. Germani20. La prepositura nel
XIII secolo appare come una dipendenza di Montecassino21.
Le vicissitudini storiche ridussero il monastero a chiesa affidata al clero secolare22.
Quando il vescovo di Sora Tommaso Gigli (1561-1577) programmò la demolizione di San
Germano, per ampliare il monastero di S. Chiara, l’abbazia cassinese23 si oppose e cedette solo a
condizione che si ergesse un altare dedicato a San Germano nella chiesa delle monache24.

3. Santa Chiara
Il monastero sorgeva nel centro della città di Sora, a circa 100 metri dal vescovado25, dove oggi
si estende la villa comunale.
Il primo documento “ufficiale” sul Monastero risale al 3 luglio 126026. Il documento è conser-
vato, in copia, presso la Curia Vescovile di Sora27 e risale alla fine del XVII secolo. Nel documento

20
GATTOLA 1734, p. 150. 24
Fin dal sec. XVII in questa chiesa esisteva una cappella
21
FABIANI 1968, p. 39. dedicata a San Germano; ACVS, Libro verde, f. 51.
22
ANTONELLI 1986, p. 280 25
LAURI 1951, p. 93.
23
Montecassino continuò ad avere interesse per la chiesa di 26
ACVS, Libro Verde, ff. 47v.
San Germano, anche dopo che fu abbandonata dai suoi religiosi. 27
ACVS, Libro Verde, ff. 47v-48.
140 MARIANNA NORCIA

Fig. 3 – Sora, Planimetria del 1896 di Santa Chiara, piano terra, scala 1:200 nell’originale
Fig.Fig.
3 –3Sora, Planimetria
– Sora, Planimetriadel
del1896
1896didiSanta
SantaChiara,
(Archivio Storico piano
Chiara, piano terra,scala
terra,
comunale). scala1:200
1:200(Archivio
(Archivio Storico
Storico
comunale)
comunale)

Fig. 4 – Sora, Planimetria del 1896 di Santa Chiara, primo piano scala 1:200 (Archivio Storico
comunale)
Fig. 4 – Sora,
Fig. 4Planimetria del 1896
– Sora, Planimetria del di Santa
1896 Chiara,
di Santa primo
Chiara, piano
primo scala
piano, 1:200
scala 1:200(Archivio Storico
nell’originale
comunale) (Archivio Storico comunale).
I MONASTERI DI SORA E VAL DI COMINO (FR) 141

è citato il vescovo di Sora Filippo che, con un diploma confermato da Alessandro IV28, nel sesto
anno del suo pontificato, concesse alle monache del Monastero di Santa Chiara la chiesa o cappella
di S. Stefano con un orto adiacente, affinché vi edificassero un monastero sotto la Regola di San
Damiano, con l’obbligo di dare, come censo annuale, una libra di cera, nella festa dell’Assunta,
alla “Chiesa sorana”29, ossia alla Mensa Vescovile, in segno di sudditanza30.
Il monastero acquistò una notevole indipendenza economica ed aveva diversi possedimenti,
che venivano amministrati dalla badessa31.
È possibile ricostruire la struttura del Monastero, del quale non resta più nulla, grazie ad una
planimetria del 189632. La costruzione era imponente, si sviluppava su più piani. Al piano terra
(Fig. 3) vi erano complessivamente quaranta stanze, alcune utilizzate come parlatorio con sale
annesse, la portineria, il refettorio, la cucina, la dispensa.
Al piano superiore (Fig. 4) vi erano i dormitori delle coriste, delle converse e delle educande,
la cappella interna, la farmacia. Nel cortile del monastero vi era il pozzo, la cantina, il pigiatoio,
il pollaio e l’orto. Accanto vi era la chiesa, che aveva una struttura molto semplice, ad un’unica
navata33.
Il terremoto del 13 gennaio del 1915 distrusse il monastero34.

4. San Pietro Celestino


Il monastero, del quale non resta alcuna traccia, sorgeva al centro della città, sul Corso Volsci,
nell’area ancora visibile nel largo di Via Caio Sorano, una traversa del Corso Volsci35.
La fondazione può essere fatta risalire all’ultimo decennio del XIII secolo, più precisamente
al 5 aprile 129336, data di vari redditi fondiari, appartenenti prima a due facoltosi fratelli sorani,
Gregorio e Giovanni Cello, e poi ceduti, da costoro al cenobio di San Pietro37.
Dal XIII secolo fino alla seconda metà del secolo XVI, il monastero ebbe vicende alterne,
finché iniziò una fase di decadenza, che andò sempre più accentuandosi e dalla quale non si
riprese più38.
Il 15 ottobre del 1652 il monastero, in seguito alla bolla Instaurandae di Innocenzo X, venne
soppresso39.
5. San Domenico
L’abbazia sorge nel punto in cui il Fibreno confluisce con il Liri, sulle rovine di una villa romana40,
lungo l’odierno Viale San Domenico, all’estremità sud del territorio sorano.
28
Il Diploma venne conservato dalle monache di S. Chiara Britto, in ASCS 1663, vol. 37). Al centro della chiesa vi era il
fino al 13 gennaio del 1915, lo custodivano dall’epoca del sepolcro dove venivano sepolte le suore. Le messe erano cele-
vescovo Guzoni (1861-1702), che, transuntando l’originale, brate dai canonici della chiesa di Santa Maria (Visita pastorale
aveva prima scritto “Ecclesie cathedrali”, poi, cancellata questa del Vescovo Sisto y Britto, in ASCS 1663, vol. 43).
espressione, aggiunse “Ecclesie Sorane” al fine di uniformarsi 34
Vi resiedevano otto religiose: Suor Gaudenzia Gentili,
al testo che aveva sotto mano. suor Orsolina Vezzosi, suor Cenerina Vernali, suor Ester Broz-
29
La dizione “Chiesa sorana” e non “chiesa cattedrale”, zichera, suor Maria Giuseppa Campanari, suor Nazarena Di
è tipica dell’epoca (ACVS, Libro verde, foglio 47v). I censi Pippo, suor Celidonia Briganti e suor Antonietta Cacciotta,
annuali venivano versati nel giorno delle feste dei santi titolari; unica sopravvissuta; Della S. Famiglia 1974, p. 164; Latempa
in questo caso il 15 agosto rappresentava la festa del titolare 1994, p. 391; le religiose si trovavano nella cappella e stavano
della Cattedrale. ascoltando la Santa Messa celebrata dal sacerdote cappellano
30
ACVS, Libro Verde, f. 47v. don Gian Andrea della nobile famiglia sorana Annonj; Pa-
31
COPPOLA 2006, pp. 44-50. niccia 1990.
32
La planimetria è conservata presso l’ Archivio Storico 35
SQUILLA 1978, p. 25.
Comunale di Sora. 36
Redditi fondiari, appartenenti prima a due facoltosi
33
Visita pastorale del Vescovo Maurizio Piccardi, 23 fratelli sorani, Gregorio e Giovanni Cello e poi ceduti da
febbraio 1663, in ASCS 1663, vol. 37; ASCS, 1632, p. 40; costoro al cenobio di San Pietro possono essere considerati
Tavernesa 1986, p. 21 ss. Visita pastorale del Vescovo Sisto y come la prima attestazione del monastero; LECCISOTTI 1973,
Britto, in ASCS 1663, vol. 7. Dalla visita pastorale effettuata pp. 80 e 152 n. 372.
dal vescovo Maurizio Piccardi (1659-1675) nel 1663, risulta 37
Abbazia di Montecassino, III, p. 80 n. 200: alcuni cit-
che sulla destra dell’altare maggiore, dedicato a Santa Chiara e tadini di Sora si dichiararono arbitri di certi redditi e servizi
consacrato il 17 giugno del 1582 dal Vescovo Orazio Ciceroni annuali passati poi al monastero di S. Pietro. Giudice: Giovanni
(1578-1591), sorgevano gli altari dedicati a San Germano, al de Notario; Notaio: Oliverio.
SS.Crocifisso e una cappella dove era sepolta la duchessa di 38
ANTONELLI 1986, pp. 239-251.
Sora Costanza Sforza Boncompagni; sulla sinistra vi era l’altare 39
ACVS, Atti della visita pastorale del vescovo di Sora
di S. Domitilla della Neve e San Achille, e l’altare di Sant’Anna. Matteo Gagliano 1703, ff. 166-166v.
Nel 1778 tale struttura appare modificata, a destra dell’altare 40
Sul lato sinistro della chiesa fu praticato un piccolo scavo
vi erano gli altari dedicati al SS. Crocifisso, a Santa Lucia, San che mise in luce un muro lungo 15 metri e largo 0,80 metri con
Germano e San Benedetto (Visita pastorale del Vescovo Sisto y tre pilastri che aderiscono al muro stesso, ognuno largo 0,05
142 MARIANNA NORCIA

Figg. 5-6 – Sora, San Domenico. 5. Facciata (M. Norcia); 6. Planimetria (RONDININI 1707).

Il documento più antico, in cui viene citato il monastero, risale al settembre del 103041.
Subito dopo la fondazione nel monastero furono introdotte delle monache benedettine, che
in seguito furono sostituite con monaci benedettini; nel 1036 l’abate Giovanni dà la regola
benedettina e l’abito monastico ad un gruppo di sacerdoti che fondano l’abbazia di Casamari.
Nel 1222 Onorio III sostituì ai monaci benedettini i Cistercensi e ridusse il monastero sorano a
semplice priorato, totalmente soggetto all’Abate di Casamari42. I due monasteri costituivano un
corpus unum, grex unus et pastor unus43.
L’attuale complesso di San Domenico non rispecchia più il disegno architettonico originario.
Le prime modifiche apportate alla chiesa risalgono all’arrivo dei Cistercensi a San Domenico;
fu in tale circostanza che venne costruito, molto probabilmente, il nartece, di cui resta testimo-
nianza in un solo pilastro (Fig. 5).
Una descrizione, molto sommaria, dell’antico monastero, ci è fornita da Filippo Rondinini
nel 170744: la chiesa risulta essere costituita da tre navate, prive di volte, con un unico altare,
collocato nella navata centrale, dove si trovava l’ampia scalinata, in pietra viva, che portava al
presbiterio. La chiesa aveva un solo ingresso.
Il monastero, affiancato alla chiesa, era costituito da un ampio claustrum, un horreum e un
dormitorium (Fig.6).

II. I MONASTERI DELLA VALLE DI COMINO


I monasteri attestati nella Valle di Comino (Fig. 7) sono: S. Donato (S. Donato Val di Comi-
no), S. Martino di Alvito, S. Paolo in Comino e Santa Maria di Canneto (Settefrati), S. Valentino
(Picinisco), S. Trinità (Villa Latina), S. Angelo di Pescomascolino e S. Nazzario (Casalattico).
6. San Donato
Il monastero sorse alle pendici dei monti Traversa e Panico, dove si sviluppò l’abitato medievale45.
La Chiesa è attestata per la prima volta nel maggio del 778, quando fu donata da Ildebrando,
duca di Spoleto, all’abbazia di S. Vincenzo al Volturno46.

metri e sporgente 1,24 metri; NSc 1879, p. 118. Sono state 43


Regesta Honoris Papae III, II, n. 3392; RONDININI 1707,
rinvenute anche diverse iscrizioni; CIL, X, 5765. p. 45.
41
Diploma di donazione di Pietro di Raineirio a San 44
RONDININI 1707.
Domenico; BARONIO 1605, pp. 103-104. 45
Il castello e l’habitat medievale si svilupparono intorno
42
Da quest’anno l’ ordine, il regime e il patrimonio fon- alla chiesa-monastero.
diario, dipendevano da Casamari. Regesta Honoris Papae III, 46
Chronicon Volturnense, I, pp. 243-244, doc. 30.
II, n. 4017; BARONIO 1605, pp. 105-106.
I MONASTERI DI SORA E VAL DI COMINO (FR) 143

Fig. 7 – Valle di Comino con possibile ubicazione dei monasteri: 6. San Donato, 7. San Martino, 8. San
Paolo, 9. Santa Maria di Canneto, 10. San Valentino, 11. Santa Trinità, 12. Sant’Angelo di Pescomascolino,
13. San Nazzario.

La chiesa-monastero venne confermata all’abbazia volturnense dal 983 fino al marzo del 1059,
quando nell’intera Valle venne meno la presenza dei monaci volturnensi47.
Dal 1340 è attestata solo la chiesa48, ancora visibile, pur se in forme moderne; del monastero
non se ne ha più traccia.

7. San Martino di Alvito


Il monastero sorgeva in località “Montanisci”49, presso Alvito.
La prima attestazione, riferita alla chiesa, risale al novembre del 102050.
Nell’aprile del 1085 alcuni abitanti di S. Urbano51 offrirono a Montecassino un terreno per
la costruzione di un monastero52. La chiesa, con l’annessa comunità di sacerdoti, che vi viveva,
e i suoi beni, passarono a Montecassino, affinché l’abate Desiderio (1058-1087) vi edificasse un
monastero53.
Dallo scorcio dell’XI secolo fino alla metà del XV secolo a San Martino si sviluppò una vita
monastica fiorente, salvo qualche interruzione54. Il 30 luglio del 1465 la prepositura fu affidata
a Don Giovanni Francesco di Alvito55. Dopo tale data la chiesa di San Martino nei documenti
viene ricordata come un semplice beneficio del clero secolare56.

8. San Paolo
Sorgeva in territorio di Settefrati, al confine con S. Donato. Oggi è conservato solo il toponimo57.
La chiesa è attestata fin dal 99058, quando Mansone, abate di Montecassino (986-996), la con-
cesse a livello a Rainaldo, conte dei Marsi, insieme a 300 moggia di terra al prezzo di cinquanta
soldi e con l’obbligo di cinquecento tinche l’anno59. Il monastero viene menzionato, per la prima

47
Chronicon Volturnense., III, pp. 91-94, doc. 204. 52
AMC, Caps. CXIV, fasc. II n. 17.
48
Chronicon Volturnense, I, pp. 243-244, doc. 30. 53
AMC, Caps. CXIV, fasc. II n. 17.
49
Dal 1039 la località è ricordata come “Barbischi”, in 54
ANTONELLI 1986, pp. 116-144.
seguito con la determinazione di luogo “sotto la città di S. 55
AMC, Registrum diversorum, caps. 93, ff. 32-32v.
Urbano”, ovvero sotto “Monte Albeto”; AMC, Caps, CXIV, 56
AMC, Codex dipl. cas., IX, ff. 474 e 579. Anche dopo
cap. III. l’introduzione del clero secolare Montecassino conservò anco-
50
Pietro, figlio di Landone, abitante del castello di Cel- ra per qualche secolo il diritto di conferire quel beneficio.
larola, donò alla chiesa di San Martino una sua terra, AMC, 57
Abitato rurale di San Paolo, oggi appartenente al comune
Caps, CXIV, Fasc. 1, n. 1. di San Donato.
51
Oggi Alvito. 58
GATTOLA 1733, I p. 327.
144 MARIANNA NORCIA

volta, in un placito del maggio del 102060, riguardante una vertenza fra Stefano di Giovanni e il
monastero di San Paolo.
La prepositura di S. Paolo fu, quindi, inizialmente una chiesa, poi monastero ed abbazia e in
ultimo chiesa.
Nel 1411 la chiesa di S. Paolo compare tra le dipendenze del demanio del monastero di Valleluce,
al quale doveva ogni anno cinque tareni come censo61; era cessata, dunque, la vita comunitaria
e l’amministrazione dei suoi beni era passata al cenobio di Valleluce.

9. Santa Maria di Canneto


Sorge sui monti del Meta a 1020 m s.l.m., presso le sorgenti del Melfa, in territorio di Settefrati.
Il luogo, dove oggi sorge il Santuario di Canneto, nel IV sec. a.C. era destinato al culto di una
divinità, identificata con la dea Mefite, sulla base del rinvenimento di una colonna in pietra, un
ex-voto, che riporta un’iscrizione di dedica alla dea Mefite62. I rinvenimenti archeologici relativi
al culto pagano sono avvenuti durante i lavori di imbrigliamento delle acque da parte del Con-
sorzio dell’acquedotto degli Aurunci63.
Apparteneva ai possedimenti di San Vincenzo al Volturno, all’incirca dalla metà del XIII fino
al XIV secolo; fu officiata da una comunità di chierici e divenne poi un cenobio benedettino.
Il primo documento relativo al monastero è datato al 13 dicembre 128864, è un rescritto di
Niccolò IV65, che concede la regola di San Benedetto ai religiosi di Canneto, fino ad allora non
soggetti ad alcuna regola66.
Con la crisi religiosa, che colpì anche le altre prepositure della zona, fu affidata da Montecassino
al clero secolare67.
Nel 1392 la comunità lasciò il monastero per trasferirsi presso Settefrati68 da dove continuò,
comunque, ad officiare il monastero. Nel 1475 il monastero è diruto: il 25 novembre 1475 i
cardinali Bartolomeo Roverella e Giuliano Della Rovere concedono 100 giorni di indulgenza ai
visitatori per il restauro della chiesa monasterii colapsi di Santa Maria di Canneto69.
Ruderi dell’antico monastero sono conservati a sud dell’attuale chiesa.

10. San Valentino


Il monastero sorgeva sulla sponda destra del fiume Mollerino, su una collina a confine tra i castelli
di Agnone e Picinisco.
Il documento più antico risale al maggio dell’894, nella concessione De Sancto Valentino70, Il
monastero, fondato dai monaci cassinesi, passò in mano ai benedettini del Volturno, che se ne
appropriarono71.
La chiesa di San Valentino, come si apprende dal diploma del 6 marzo del 1017, rilasciato a
Montecassino dai principi di Capua Pandolfo IV e Paldolfo II, è appartenuta fin dalle origini a
Montecassino e, essendo stata distrutta a causa delle guerre, fu ricostruita da Ponzio, figlio di
Allone, che l’aveva riconsegnata, con tutti i suoi beni, all’abbazia di Montecassino72.
Questo documento ci presenta una sintesi delle vicissitudini del monastero: fondato dai monaci
cassinesi, passò in mano ai benedettini del Volturno, trovandosi in una zona di confine con le loro
dipendenza cominesi, che approfittarono dell’esilio dei monaci cassinesi a Capua, in seguito alla
distruzione della loro abbazia (883). I volturnensi tennero il cenobio fino al 994 d.C.

59
Ibid. 67
L’ 8 giugno 1569 il vescovo di Sora Tommaso Gigli unì
60
Riguardante una vertenza fra Stefano di Giovanni e il la chiesa rurale e senza cura d’anime di Canneto al Seminario
monastero di San Paolo; GATTOLA 1733, I p. 329; LECCISOTTI di Sora, forte delle facoltà concesse ai vescovi dal Concilio
1975, X, 116 n. 3902 di Trento sui benefici vacanti in favore dei nuovi seminari
61
AMC, Codex dipl. cas. VIII, ff. 305 e 329. voluti dal grande sinodo (Sess. XXIII, Cap.116); ANTONELLI
62
N. SATRIUS N. L. STABILIO P. POMPONIUS P.L. 1986, p. 99.
SALVIUS MEFITI D.D. (CIL X, 5047). 68
LECCISOTTI, 1973, VII, 287 n. 1490.
63
Relazione del 25-12-1958 presso l’Archivio della So- 69
LECCISOTTI 1973, I, 74 n. 6.
printendenza Antichità, Roma I. 70
Chronicon Volturn. II, 10-11 doc. 75.
64
Arch. Vat.: Nicolò IV, Reg. 44, ep. 351, f. 80; ANTONELLI 71
Il cenobio si trovava in una zona di confine con le loro
1969, p. 139. dipendenza cominesi, ed approfittarono dell’esilio dei monaci
65
Niccolò IV indirizza questo rescritto all’abate e al con- cassinesi a Capua, in seguito alla distruzione della loro abbazia
vento del monastero di S. Maria di Canneto. (883 d.C.).
66
ANTONELLI 1986, p. 88. 72
LECCISOTTI 1973, II, 53, n. 47.
I MONASTERI DI SORA E VAL DI COMINO (FR) 145

Figg. 8-9 – S. Trinità. 8. Resti dell’antica abbazia


(Antonelli 1986); 9. Facciata della chiesa (foto M.
Norcia).

Dopo la distruzione, causata dall’invasione saracena, la vita riprese lentamente73. Una piccola
comunità religiosa si ebbe dalla seconda metà dell’XI secolo fino agli inizi del XIII. In seguito
San Valentino, pur essendo citato nel 1474 come cella, fu una chiesa affidata al clero secolare
della diocesi di Sora74.
Sulla sponda destra del Mollerino, sono visibili i resti dell’antico cenobio. A fior di terra si
vedono grandi blocchi squadrati e diverso materiale laterizio, indice dell’esistenza, in loco, di un
grande edificio75. Poco distante si notano i resti di un acquedotto, che doveva servire all’approv-
vigionamento idrico del monastero76.

11. S. Trinità
Sorgeva a mezza costa, in territorio di Agnone (Villa Latina)77; fu una dipendenza cassinese, fon-
data nel 124378; il cenobio, in origine chiamato eremo della S. Trinità79, si sviluppò velocemente
ed iniziò ad avere dai suoi fedeli le prime donazioni e a versare alla casa-madre la “pensione”
annua. La prima somma che il suo abate consegnò alla camera abbatis di Montecassino fu di
dieci carlini d’argento80.

73
Non raggiunse un livello spirituale ed organizzativo come 77
Accessibile dalla strada statale della Vandra, risalendo
le prepositure di S. Nazario e di S. Martino. Nel privilegio di attraverso una mulattiera che diventa impraticabile nella parte
Enrico III del 1047 la prepositura è definita “cella” (LECCISOTTI terminale.
1973, II, 54-55, n. 50.), il che lascia intendere che accanto alla 78
Il monaco Leone costruì la chiesa e il monastero a ridosso
chiesa si fosse stabilita una piccola comunità. della sua grotta, con l’aiuto degli Atinesi; PALOMBO, p. 215.
74
Ai tempi di Palombo (1575-1640) la chiesa era caduta 79
PALOMBO, p. 222.
in rovina; PALOMBO p. 101. 80
AMC, Registrum II Bernardi abbatis (a. 1273), f. 82v.
75
ANTONELLI 1986, p. 80.
76
ANTONELLI 1986, pp. 79-87.
146 MARIANNA NORCIA

Fig. 10 – San Nazario, facciata dell’at-


tuale chiesa (foto M. Norcia)

Questa abbazia, pur essendo sorta in ritardo rispetto alle altre prepositure cominesi, tuttavia
non ebbe un iter spirituale diverso dagli altri cenobi, perciò anche la sua vita monastica ebbe
decadenze e riprese finché, nella seconda metà del XV secolo giunse ad esaurimento81.
I ruderi dell’abbazia (Fig. 8), visibili su un massiccio terrapieno, affiorano dai costoni rocciosi
de il “Monte”, sulla cui sommità si erge ancora la Chiesa di “S. Trinità nuova” (Fig. 9).

12. Sant’Angelo di Pescomascolino82


Il monastero, già San Michele Arcangelo83, dell’ordine benedettino, sorgeva sulla sponda sinistra
del fiume Melfa, circa 7 km a sud di Casalattico, nei pressi della contrada “Plauto”, ancora oggi
denominata “Convento di S. Agnero”84.
Il primo ricordo è ancorato alla sua chiesa, donata nel 103285 a Montecassino da un sacerdote
di Casalvieri, di nome Pietro. La vita monastica, attestata dal 108586, non va oltre il XIII secolo.
Il 10 dicembre del 1453 S. Angelo era unito all’abbazia di S. Trinità di Atina, mentre i suoi beni
venivano amministrati direttamente da Montecassino87.
Per più di mezzo secolo S. Angelo fu solo una chiesa; i suoi beni erano amministrati prima dai
prepositi di S. Nazario, poi dagli abati di S. Trinità e poi definitivamente da Montecassino.
Oggi sono ancora visibili i ruderi della chiesa di Sant’Angelo, che lasciano intravedere un
impianto romanico88.
La chiesa è orientata ad est, con tre absidi, di cui la centrale più grande (m 3,37 × m 1,80 ×
m 3 circa), le due laterali sono più piccole ma non uguali tra loro. Presenta un’unica navata a
forma rettangolare89; l’altezza dei muri perimetrali varia da m 2,40 a m 3,40. Davanti all’ingresso
doveva trovarsi un piccolo nartece. Sullo stesso lato, attiguo alla chiesa, sorgeva il monastero,
articolato intorno ad un chiostro90.

81
ANTONELLI 1986, pp. 64-79. 85
Pietro Diacono, Registro (Reg. 3), f. 204 n. 477.
82
Il toponimo “Pesco” ha etimo osco e significa «rupe»; 86
AMC, Caps. CXIV, Fasc. II, n. 18.
il toponimo Pesclum è utilizzato nel Lazio meridionale per 87
LECCISOTTI 1973, VIII, p. 250, n. 1402.
indicare una sommità; TOUBERT 1973, p. 372 n.1. 88
ANTONELLI 1986, p. 45.
83
CARAFFA 1981, p. 129. 89
La navata, di forma rettangolare, era più larga che lunga
84
Tale località è attraversata a monte dalla strada provin- (m 2,40 × m 4,60).
ciale Casalvieri-Roccasecca. 90
ANTONELLI 1986, p. 45. Dal cortile interno, dal muro
I MONASTERI DI SORA E VAL DI COMINO (FR) 147

13. San Nazario


Il monastero, poco distante da S. Angelo in Pescomascolino, sorgeva sulla sponda sinistra del
fiume Melfa.
Il monastero, che sorse prima del Mille, apparteneva91 a Montecassino. Dopo la sua distru-
zione92 fu riedificato dall’abate Atenolfo (1011-1022)93.
Il massimo sviluppo San Nazario lo raggiunse nel periodo in cui da questo monastero dipen-
devano molte chiese e cappelle della zona tra il XIV e il XV secolo94.
La comunità monastica è attestata fino alla fine del XV secolo. Nel 1545 la chiesa, ridotta a
beneficio, venne affidata al clero secolare95.
Attualmente resta la chiesa in forme moderne (Fig. 10).

CONCLUSIONI
Nonostante l’assenza di indagini archeologiche e le poche fonti documentarie, è possibile trarre
le prime conclusioni sul fenomeno monastico nella Valle di Comino tra il X e il XIV secolo.
Nella città di Sora dimorarono prima i benedettini neri, di San Vincenzo al Volturno e di Sora,
poi i benedettini bianchi: cistercensi e celestini. L’influenza dei monaci volturnensi, come in Val
di Comino, andò gradualmente indebolendosi, fino a scomparire poco dopo la metà dell’XI
secolo.
I monaci cassinesi ricevettero donazioni a Sora fin dal 93296. La loro influenza crebbe grazie
alle elargizioni di beni dei fedeli, che, però, intorno all’XI secolo, iniziarono a beneficiare i mo-
nasteri della città.
Nella città di Sora quattro97 monasteri sono databili al periodo che va dal X al XIII secolo, il
più antico è San Silvestro.
Cronologicamente i monasteri della Valle di Comino possono essere collocati tra il X e il XIII
secolo, escluso S. Valentino98, menzionato già nel maggio dell’89499.
Nella Valle di Comino si insediarono prima i monaci volturnensi, già dalla seconda metà del-
l’VIII secolo, e poi quelli cassinesi.
I monaci volturnensi sono documentati nella zona fin dal 778100. La loro presenza nella Valle
tra la metà del X e la prima metà dell’XI secolo, segue prima una linea ascendente, che culmina
nel 981 con varie elargizioni fondiarie, poi declina del tutto.
Il periodo di presenza dei monaci cassinesi, invece, copre un arco cronologico più lungo, che
vede diverse fasi alterne, che vanno dal progressivo sviluppo dei secoli X-XI, al massimo incremento
del XII secolo, alla fase di decadenza, ripresa ed estinzione, che va dal XIII al XV secolo.
I benedettini di Montecassino dal X secolo possedevano chiese e beni che andarono sempre
più aumentando, finché tra l’XI e il XII secolo si moltiplicarono tanto che resero necessaria una
presenza più vigile ed organizzata per amministrarli, sorsero, così, molte celle e prepositure.
Nei monasteri della città di Sora, escluso in quello di S. Chiara, unico monastero femminile, si
osservava la regola benedettina, come negli altri monasteri della Valle; tutti, escluso San Domenico,
sorgono all’interno della città di Sora.
Nella Valle di Comino i monasteri sorgono per lo più in prossimità di corsi d’acqua o vicino a
sorgenti (Santa Maria di Canneto), o in riva ad un fiume, come San Nazario e San Valentino, per
sfruttare la caduta naturale delle acque allo scopo di azionare i mulini o altre opere idrauliche.

di cinta che si allungava verso il fiume, e dalle rovine ancora 94


ANTONELLI 1986, p. 57.
presenti a vasto raggio sul territorio circostante, si percepisce 95
GATTOLA, 1733, p. 206; CARAFFA, BORSELLINO 1977, p. 101.
che dovesse essere abbastanza grande. 96
AMC, Caps. CI, Fasc. IV n. 41; Codex dipl. cas., I, ff.
91
MGH, SS, VII, p. 648. Questa prepositura, come altre 369-369v.
dipendenze cassinesi, era dotata di molti beni provenienti da 97
S. Chiara, S. Germano, S. Maria e S. Domenico, S.
diverse donazioni. Pietro e Celestino.
92
Periodo che va dalla distruzione delle due abbazie di 98
Citato nella concessione “De Sancto Valentino” Chroni-
S. Vincenzo al Volturno (881) e di Montecassino (883), alla con Volturn. II, 10-11 doc. 75.
battaglia del Garigliano (915), nella quale i saraceni furono 99
L’abate di San Vincenzo al Volturno, Maione, concesse a
sconfitti. livello la chiesa di San Valentino, con l’atrio, le celle e tutte le
93
La cella di San Nazario fu confermata a Montecassino il sue pertinenze, a Grifone e Leone, figli del defunto Teobaldo
3 febbraio del 1047 da Enrico III; GATTOLA, Ad historiam, I, p. di Atina.
150; Abbazia di Montecassino, II, pp. 54-55 n. 50. 100
Anno in cui fu donata la chiesa di S. Donato.
148 MARIANNA NORCIA

Solo i monasteri di S. Trinità e S. Angelo in Pescomascolino, sorgono su alture scoscese e in


luoghi solitari.
I monasteri di San Domenico e di Santa Maria di Canneto sono ancora abitati da piccoli nuclei
monastici.
Sono ancora visibili tracce sul terreno dei monasteri di Sant’Angelo di Pescomascolino, del quale
restano alcuni ruderi della chiesa. Di S. Trinità sono visibili la nuova chiesa realizzata nel 1749
e alcune vestigia dell’antico monastero. Di San Valentino restano alcuni grossi blocchi quadrati.
Per quanto riguarda i monasteri di S. Nazario, S. Donato, S. Silvestro (Sora) ne abbiamo traccia
grazie alle loro chiese, ancora oggi esistenti e funzionanti. Di altri monasteri sorani, come Santa
Chiara, San Germano, San Pietro Celestino conosciamo, grazie alle fonti, il luogo dove sorsero,
ma non ne abbiamo alcuna traccia evidente, fatta eccezione per un frammento in marmo di un
portale d’ingresso, probabilmente della chiesa di Santa Chiara101.
Infine è interessante notare che San Domenico di Sora sorse sui ruderi di un complesso
romano, forse una villa, mentre Santa Maria di Canneto sorse su un’area di culto pagana,
presso le sorgenti del fiume Melfa.
È auspicabile l’avvio di attività di ricerca archeologica, necessaria per conoscere l’artico-
lazione concreta di questi e di gran parte dei monasteri del Lazio meridionale, in virtù del-
l’importanza che hanno assunto gli enti ecclesiastici nelle modalità insediative e nelle forme
di occupazione e organizzazione del territorio.

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101
Il frammento è stato rinvenuto presso l’attuale Villa circa la metà dell’arco.
comunale di Sora, dove sorgeva il Monastero. È conservata
I MONASTERI DI SORA E VAL DI COMINO (FR) 149

LENTINI 1952 = A. LENTINI, Alberico di Montecassino nel quadro della riforma gregoriana, “Studi gregoriani
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L’assetto urbanistico di Benevento tardoantica

MARCELLO ROTILI

1. La diagnostica archeologica condotta nel 2001 dal Dipartimento di studio delle componenti
culturali del territorio della Seconda Università di Napoli per la programmazione delle ricerche
archeologiche funzionali alla realizzazione del parco archeologico-naturalistico di Cellarulo
progettato dal Comune di Benevento, ha confermato che la città romana si estendeva a NW fino
a questa contrada, fornendo elementi di prova circa il suo abbandono e la conseguente ruraliz-
zazione causati entro il IV secolo da generali fattori di declino e dai terremoti del 346 e del 3751
ai cui devastanti effetti, rapportabili all’elevata magnitudo macrosismica, si può attribuire l’avvio
di un ampio processo di ristrutturazione della città. Esso si concretò nel dimezzamento della
superficie urbana (con abbandono della parte pianeggiante più esposta ad attacchi e al rischio di
allagamenti) e nell’arroccamento collinare a scopo difensivo2 configurato dalla cinta ristretta (che
racchiuse il colle della Guardia) entro la quale si sarebbe svolta, sostanzialmente, l’intera vicenda
urbanistica fino all’unità d’Italia (Fig. 1).
2. Ubicata tra i fiumi Sabato e Calore che lì confluiscono, Cellarulo (Fig. 9) svolse funzioni urbane
almeno dal III a.C., come hanno dimostrato le ricerche condotte dalla Soprintendenza archeologica
di Salerno-Avellino-Benevento fra gli anni 1990-92 e il 1998 in seguito ai rinvenimenti provocati
nel ’90 dagli sbancamenti per la realizzazione della tangenziale ovest: risultò che le strutture antiche
allora individuate a circa 2 m dal piano di campagna erano relative ad un quartiere artigianale
per la produzione di ceramica, racchiuso da una cinta muraria in opera quadrata a blocchi di
tufo che si sviluppava lungo il fiume e che le fosse di spoliazione hanno dimostrato essere stata
demolita ed erasa per ampi tratti fra tarda antichità e alto medioevo. Gli impianti, impiegati
con continuità sin dal tempo della deduzione della prima colonia latina nel 268 a.C., erano stati
ubicati in un ambito periferico, lungo il fiume, per il necessario rifornimento di acqua, perché
la presenza di un banco di argilla garantiva l’approvvigionamento della materia prima e per po-
ter disporre della via di trasporto fluviale comprovata dal rinvenimento, lungo la riva orientale
del Calore (nel corso di interventi di regolarizzazione dell’argine condotti nel 1991-92), di una
struttura lineare in conglomerato cementizio entro blocchi di calcare e tufo, interpretabile come
la banchina attrezzata di un porto fluviale destinato allo svolgimento di attività commerciali.
Documentato da una iscla de Cellarulo, cum posta (postazione di pesca lungo il Calore) e da una
vineam de Cellarulo nell’elenco dei beni fiscali passati dai principi longobardi alla S. Sede nell’XI
secolo3, il toponimo Cellarulo deriverebbe dalla funzione di cellarium per lo stivaggio di merci
attribuita ai monumentali resti del complesso4 detto dei Santi Quaranta (Fig. 10) dalla dedicazione
ai quaranta martiri di Sebaste5 della chiesa in esso impiantata probabilmente tra il 1119 e il 11806.
3. Raggiunta dalla via dell’alto Sannio attraverso il pons maior, distrutto non prima della tarda età
longobarda e quindi definito Ponte Fratto7 (Fig. 1 n. 35), la zona rimase probabilmente all’esterno
della città antica (Fig. 3). Infatti se la cinta muraria con porta monumentale appare confrontabile con
apprestamenti difensivi propri della prima colonizzazione romana, quindi databili al III a.C., risulta
problematico sostenere, per motivi dimensionali, che essa si sia estesa dal limite orientale della città,
nei pressi della chiesa di S. Sofia ove sono testimoniate un’area santuariale di età repubblicana8 e
coeve strutture abitative individuate nel Palazzo Petrucciani, ora sede della Banca Popolare di No-
vara9, fino all’ansa fluviale di Cellarulo, con un’evidente accentuazione longitudinale dell’impianto
urbano testimoniato per l’età medievale e moderna da vedute (Fig. 6) e da una cartografia storica

1
Catalogo parametrico 1999, p. 27, nn. 14, 17. 5
AMORE 1968; FALLA CASTELFRANCHI 1996, pp. 418-419.
2
ROTILI 1986, pp. 86-87; ID. 2003, pp. 864-865; ID. 6
ROTILI 2006, pp. 15-16.
2005, pp. 44-45. 7
ROTILI 1986, p. 28, nota 80.
3
Proprietas que remansit curie de regalibus Beneventi, 8
GIAMPAOLA 1990, pp. 285, 290, nota 54; TOCCO SCIARELLI
BORGIA 1764, pp. 265-266, 270; ZAZO 1956, pp. 135-136. 1989, p. 504.
4
MEOMARTINI 1889-95, pp. 333-334. 9
LUPIA 1998, p. 22; TORELLI 2002, pp. 106-108.
Fig. 1 – Benevento e area di Cellarulo, planimetria con restituzione grafica delle indagini geodiagnostiche
e ricostruzione della città tardoantica: 1. Porta Somma con fortilizio nella Rocca dei Rettori. 2. Chiesa
e monastero di S. Maria di porta Somma, nei pressi chiesa di S. Giovanni di porta Somma. 3. Chiesa e
Xenodochio di S. Benedetto ad Caballum, nei pressi platea «[…] loco Caballi nomine»; nei pressi, torre
detta di Santo Panàro. 4. Chiesa e monastero di S. Sofia. 5. Chiesa S. Pietro ad Caballum; nella zona,
chiesa di S. Angelo de Caballo e torre detta di Santo Panàro. 6. Chiesa di S. Ilario a port’Aurea; nella zona,
a varie distanze, monastero di S. Sofia a Ponticello, chiesa e Xenodochio di S. Michele Arcangelo «foras
[…] civitatem ultra portam Auream, trans ipsum ponticellum», chiesa di S. Valentino. 7. Monastero di S.
Giovanni a port’Aurea. 8. Arco di Traiano, porta Aurea. 9. Chiesa di S. Matteo a port’Aurea; nella zona,
chiesa di S. Angelo a port’Aurea. 10. Monastero di S. Vittorino; lungo la «trasenda qui descendit ad porta
Rufini» monastero di S. Salvatore. 11. Porta Rufina; nei pressi trasenda de Olibola, chiese di S. Artellaide
e S. Renato, ecclesiae S. Benedicti de adobbatoris detta più tardi de scalellis e S. Nicolay de suburbio, pla-
tea puplica vicino alla chiesa di S. Renato. 12. Chiesa di S. Costanzo; nella zona chiesa di S. Mauro. 13.
Monastero di S. Adeodato. 14. Monastero di S. Paolo «secus murum huius Beneventane civitatis […] erga
trasendam puplicam que dicitur de Leone iudice». 15. Platea puplica recta; nei pressi casa di Dacomario
con torre e pontile e altro pontile; a non grande distanza, quasi certamente nella Civitas nova, chiesa di S.
Giovanni de fabricatoribus. 16. Cattedrale; basilica di S. Bartolomeo apostolo de Episcopio. 17. Arco del
Sacramento, porta della cinta di IV-V secolo. 18. Chiesa e monastero di S. Modesto. 19. Porta Noba; nei
pressi chiesa di S. Nazzaro de lutifiguli. 20. Teatro, nei pressi monastero dei Ss. Lupulo e Zosimo; vicino
trasenda e «platea puplica, qui descendit ad porta que dicitur de Hiscardi». 21. Ecclesia S. Stephani de
monialibus de Foro, nei pressi ecclesia S. Jacobi a Foro, chiesa di S. Gregorio e, in piazza cardinal Pacca,
monastero di S. Pietro de monachabus sorto sulle strutture di un edificio termale; nei pressi acquedotto
romano. 22. Ponte di S. Onofrio. 23. Chiesa dei Ss. Filippo e Giacomo; nei pressi trasenda dei Calderari;
chiese di S. Tecla e S. Secondino. 24. Porta S. Lorenzo; nei pressi chiesa di S. Lorenzo. 25. Edificio termale;
nei pressi ecclesia S. Bartholomei in thermis. 26. Turris Pagana, con arco di porta romana o tardoantica;
nei pressi ecclesia S. Nicolay Turris Paganae. 27. Port’Arsa-Porta de Hiscardi-Porta Liscardi; al n. 76 di via
Torre della Catena, edificio romano sul cui muro perimetrale è fondato il muro di cinta della Civitas nova.
28. Anfiteatro. 29. Monastero di S. Pietro fuori le mura. 30. Ponte Leproso. 31. Chiesa di S. Cosma. 32.
Edificio romano detto I Santi Quaranta dal titolo dell’omonima chiesa. 33. Area del porto fluviale. 34.
Quartiere artigianale, area degli scavi archeologici 1990-98. 35. Pons Maior-ponte Fratto. 36. Torre detta
della Catena. 37. Porta Foliarola.
L’ASSETTO URBANISTICO DI BENEVENTO TARDOANTICA 153

di notevole interesse qual è quella prodotta dal Pizzella entro il 1764, da Saverio Casselli10 intorno
al 1781 e da Luigi Mazarini nel 1823 nell’ambito della redazione del Catasto gregoriano11.
Anche il particolare orizzontamento NE-SW (Figg. 1-2), con angolazione di 63° rispetto al N
geografico, delle strutture del quartiere artigianale individuate grazie agli scavi degli anni Novanta
(Fig. 1 n. 34) e ad una parte delle indagini geofisiche condotte nel 2001, sembra confermarne
l’originaria natura di nucleo diverso e perciò, molto probabilmente, esterno al perimetro della
città il cui impianto, rispondente ad altro tipo di pianificazione documentato da centri come Alba
Fucens, Cosa, Ferentum, è registrato dall’attuale assetto del centro storico, ad isolati allungati
disposti con il lato corto (1 actus, pari a 120 piedi, circa 35 m) sui decumani (mentre quello
lungo i cardines oscilla da 2 a 3 actus) e orientati N-NE/S-SE con angolazione di 35° rispetto al
N geografico, un assetto che nell’area di Cellarulo risulta individuato dagli analoghi orizzonta-
menti di strutture (edifici e/o strade) alle quali dovrebbero corrispondere le tracce riconosciute
dall’aereofotointerpretazione e da una parte delle indagini geodiagnostiche (Figg. 1-2).
Va d’altra parte evidenziata la possibilità che le attività produttive caratterizzanti il quartiere
artigianale siano state impiantate all’esterno del perimetro della città che doveva essere racchiusa
da mura come attestato dal Liber Coloniarum12 e da Livio13: nel primo caso l’annotazione relativa
alla colonia dedotta da Nerone reca la formula «colonia muro ducta», nel secondo, la descrizione
delle due battaglie vinte dai Romani presso Benevento durante la guerra annibalica reca l’accen-
no alle mura della città14; si può quindi supporre che la fortificazione del quartiere industriale
configurasse un ulteriore aggregato difensivo, rispetto a quello della colonia del 268 a.C. che
comunque includeva gran parte di Cellarulo, a protezione dell’immediato suburbio a vocazione
industriale. È da valutare se in rapporto alla riurbanizzazione della contrada nel II secolo, proba-
bilmente parallela al riassetto della città e al completamento dell’opera di monumentalizzazione,
il centro non sia stato ulteriormente esteso fino alla cinta e alla porta monumentale del quartiere
artigianale la cui prossimità al corso del Calore si spiega solo con il progressivo slittamento del
letto fluviale verso l’abitato.
4. Le indagini di diagnostica archeologica hanno verificato la consistenza dei resti attraverso una
metodologia codificata15 che fonda sullo studio delle fonti d’archivio, su quello della cartografia
storica e della cartografia IGM nonché sulla ricognizione diretta e sistematica condotta, nel caso
specifico, avvalendosi dell’interpretazione di rilevamenti aerei dal 1945 al 198816, di prospezio-
ni geofisiche eseguite dall’Istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali del CNR17 su una
superficie di 8,5 ha (Figg. 1-2) con tre diverse metodologie (geoelettrica, georadar (GPR), ma-
gnetometria) e avvalendosi ancora di attività di ricognizione in aree di affioramento di frammenti
fittili, vitrei, ecc. selezionate anche in rapporto ai risultati delle parallele indagini geodiagnostiche
e alla praticabilità della ricerca per l’assenza di colture pregiate o di bosco o di edifici rurali e,
più in generale, di zone edificate, senza l’intendimento di operare su campioni che peraltro non
sarebbero privi di rappresentatività essendo nel complesso nota la configurazione insediativa
dell’area. È stata esplorata sistematicamente (Fig. 2) una superficie di 3 ha suddivisa in 4 settori
2 (A e B) da 1 ha e 2 (C e D) da 0,5 ha.
La ricerca ha comportato anche lo studio delle sussistenze edilizie con rilevazione delle
stratificazioni del complesso dei Santi Quaranta (Fig. 1 nn. 32, 10) e con registrazione dei dati
inerenti l’anfiteatro (Fig. 1 n. 28), individuato nel 1985 in seguito all’abbattimento di un edificio
abbandonato (la Casa della madre e del fanciullo, un’istituzione sociale degli anni Trenta), quindi
oggetto di alcune campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza archeologica di Salerno-
Avellino-Benevento18; sono state inoltre rivisitate le conoscenze relative al pons maior (Fig. 11 n.
35) i cui restauri altomedievali sono stati evidenziati, insieme alle strutture antiche, dagli scavi del
199819; attenzione è stata dedicata anche alla naumachia che sarebbe stata ubicata presso contrada
Pantano e la confluenza di Sabato e Calore, quindi non lontano dall’anfiteatro20.

10
Incisioni 1965, p. 22; ROTILI 1986, pp. 16, 68, nota 29. 16
PICCARRETA, CERAUDO 2006, pp. 101-122.
11
AS-RM, CPG, 277 n. 1; ROTILI 1986, pp. 16, 68, nota 30. 17
GARRAFFO, GABRIELLI, MAURIELLO, MASCELLANI, PIRO 2001;
12
Liber Coloniarum I, p. 231; ROTILI 1986, pp. 37-40; GARRAFFO, MAURIELLO, PIRO 2006, pp. 123-129.
ID. 2006, p. 63. 18
GIAMPAOLA 1987, p. 616; BISOGNO 2001, pp. 355-356.
13
Ab Urbe condita, XXIV, 14; Ibid. XXV, 13. 19
TOCCO SCIARELLI 1999b, p. 678.
14
ROTILI 1986, pp. 37-40. 20
ROTILI 1986, p. 57 nota 229.
15
QUILICI, QUILICI GIGLI 2004 e la bibl. cit. a pp. 189-196.
Fig. 3 – Benevento. Da RIZZI ZANNONI […] 1808,
particolare del foglio 10 edito nel 1789 (Atlante
1789, f. 10).

Fig. 2 – Cellarulo, ansa del fiume Calore. Indagini


geodiagnostiche, con individuazione degli alline-
amenti di strutture; settori delle ricognizioni di
superficie (A-D).

Fig. 5 – Cantiere archeologico presso l’arco del


Sacramento, arco 2000 e, sulla sinistra, muro di
cinta.

Fig. 4 – Benevento, Port’Arsa e mura della Civitas


nova prima della seconda guerra mondiale.

Fig. 6 – Veduta di Benevento, incisione sul fronte- Fig. 7 – Rocca dei Rettori, arcata di un acquedotto
spizio di P. Piperno, De magicis affectibus […] et de romano inglobata dal fortilizio che muniva porta
nuce Beneventana maga, Napoli 1634. Somma.
L’ASSETTO URBANISTICO DI BENEVENTO TARDOANTICA 155

5. La datazione al IV-V secolo della cinta ristretta al colle della Guardia (Fig. 1) nella quale, dopo
l’abbandono di Cellarulo, della zona di arrivo dell’Appia attraverso il «[…] ponte(m) marmoreu(m)
quod dicitur de Leprosis»21 e del vicino anfiteatro, si concretò in parte la ristrutturazione della cit-
tà22, viene confermata dalle ricerche in corso dalla fine del 2004 nell’area dell’arco del Sacramento
(Fig. 1 nn. 17, 5, 11-13): già prospettata in varie sedi23, tale datazione diverge sensibilmente da
quanto proposto dai diversi studiosi che hanno attribuito la realizzazione della cinta all’iniziativa
di Narsete (al termine della guerra greco-gotica) o a quella dei Longobardi24 che, dopo il loro
insediamento nel 552, propiziato dallo stesso Narsete25, avrebbero ricostruito le mura distrutte
da Totila nel 545, durante il conflitto goto-bizantino26. In questo caso si sarebbe trattato di una
distruzione parziale, con apertura di varchi e abbattimento di torri e porte27 per cui i Longobardi
si sarebbero trovati nella condizione di dover restaurare un impianto difensivo già configurato
qual è quello individuato dal muro 1074-1075 (Fig. 13): costruito fra l’arco romano 2000 (Fig.
5) posto a W dell’arco del Sacramento (Fig. 1 nn. 17, 11) e questo stesso antico arco di accesso
al foro (area 21000) che fu reimpiegato come porta urbica e come tale munito da una possente
torre pentagonale (Figg. 11-12) in grossi blocchi di calcare di risulta e laterizi usati come cunei di
sostegno, il muro condivide questo connotato costruttivo con la cinta di IV-V secolo cui vanno
riferiti numerosi tratti della murazione urbana, peraltro ripetutamente restaurata28 come risulta
dalle fonti e com’è stato evidenziato dalle ricerche archeologiche condotte lungo viale dei Ret-
tori e nel giardino di palazzo De Simone (attuale Conservatorio di musica). Qui gli scavi hanno
riportato in vista una torre di età tardoantica-altomedievale all’interno della torre detta di Santo
Panàro (Fig. 1 nn. 3, 5) la cui ricostruzione, unitamente a quella del contiguo tratto di mura, è
stata assegnata al XVI-XVII secolo29.
Alla murazione di IV-V secolo sembra di dover assegnare anche le strutture rinvenute durante
gli scavi condotti all’esterno della trecentesca Rocca dei Rettori30 diversamente da quanto pro-
spettato31 sulla base di un’indicazione tendente a differirne la datazione alla seconda metà del VI
secolo32. E, per quanto riguarda l’organizzazione della città romana, va ricordato che all’interno
della Rocca dei Rettori (Fig. 1 n. 1) sono state individuate le strutture di un acquedotto roma-
no33 al quale va probabilmente riferita la struttura in laterizi ed opus reticulatum34 incorporata
dall’edificio e dal fortilizio di età tardoantica o longobarda che muniva porta Somma (Fig. 1 n.
1), struttura per la quale in precedenza era stata prospettata l’interpretazione di monumento
funerario (Fig. 7).
La possente torre pentagonale, area 20000 (Figg. 11-12), intessuta a tutt’altezza, soprattutto
nello sperone frontale, di grossi blocchi di calcare locale di risulta e laterizi (perlopiù frammen-
tari), riflette modelli dell’architettura tardoimperiale o schemi bizantini35. Con la costruzione del
muro 1074-1075 e della torre e con il reimpiego dell’arco del Sacramento come porta urbica
(Fig. 1 nn. 17, 11), assunse un assetto completamente diverso l’area connotata da quell’impor-
tante monumento che, edificato probabilmente in età adrianea, aveva svolto funzioni di accesso
al foro36 testimoniandone la monumentalizzazione promossa (nell’ambito di un più generale ed
ampio riassetto urbano) nel II, allorché, per consentirne la costruzione, dovette essere demolito
l’edificio termale risalente al I secolo, individuato nel 2005 grazie agli scavi condotti in rapporto
alla sistemazione in corso dell’insula danneggiata dai bombardamenti aerei del settembre 1943
(Fig. 1 nn. 17, 5) e da allora abbandonata: le strutture riportate in vista sono quasi sicuramente
parte di quel «grandioso edificio, probabilmente termale» parzialmente scavato all’inizio degli
anni Cinquanta alcune decine di metri a N dell’arco 2000, «in un’area limitata prospiciente il
fianco del Duomo»37.
Che il foro, o il più importante dei fori della città se essi furono più d’uno, fosse in questa
zona, tra le attuali piazze Orsini e Cardinal Pacca, fra le quali corrono via Carlo Torre e via S.

21
ROTILI 1986, pp. 16, 141. 356; ROTILI 2003, p. 870.
22
ROTILI 1986, pp. 86-87. 30
TOCCO SCIARELLI 1993, p. 736.
23
ROTILI 1999, p. 233; ID. 2003, pp. 864-865; ID. 2005, 31
ROTILI 2003, pp. 865-866.
pp. 42-45. 32
LUPIA 1998, p. 21.
24
ROTILI 1986, pp. 86-87, 222-223 note 30-31, 38. 33
LUPIA 1998, p. 21.
25
ROTILI 1986, pp. 83-84, 221 note 4-10, 12, 14-15. 34
ROTILI 1986, pp. 18-19.
26
La guerra gotica, III, 6. 35
ROTILI 2006, p. 70.
27
ROTILI 1986, p. 87. 36
HASSEL 1968; ROTILI 1986, p. 41; DE MARIA 1988, pp.
28
ROTILI 2006, p. 64. 162, 235.
29
TOCCO SCIARELLI 1993, pp. 736-737; BISOGNO 2001, p. 37
DE FRANCISCIS 1953; ROTILI 1986, p. 42.
156 MARCELLO ROTILI

Gaetano, è indicato dalle intitolazioni di due chiese medievali scomparse, l’ecclesia S. Jacobi a Foro
e l’ecclesia S. Stephani de monialibus de Foro (Fig. 1 n. 21) che sorgevano nei pressi della seconda
piazza38, e dal toponimo Cortile del foro dato ad un largo di via S. Gaetano (via Mazzamacrietto
nella pianta del Mazarini) cancellato dagli interventi edilizi successivi alle distruzioni belliche.
I cospicui rinvenimenti di strutture riferibili a edifici pubblici verificatisi durante i lavori di
ricostruzione dell’immediato dopoguerra nell’area prossima alla cattedrale confermano del resto
la tesi che appare avvalorata proprio dalla presenza dell’arco del Sacramento e dell’arco onorario
2000 (Fig. 5), a pianta rettangolare, in opus testaceum su un basamento formato da grossi blocchi
di calcare e di forma anomala, con due grandi nicchie sulle pareti interne del varco destinate a
ospitare due statue, a metà fra l’arco consueto ad un fornice, che ha in genere il lato corto largo
quanto il pilone della facciata, e l’arco quadrifronte a pianta quadrata.
6. Separata dalla terma dal cardo maximus che, in rapporto alla costruzione dell’arco del Sacra-
mento, è verosimile che abbia subito uno spostamento di qualche metro venendo a coprire in
parte la stessa terma, l’insula episcopalis era ugualmente racchiusa dalle nuove difese che prove-
nivano da porta S. Lorenzo (Fig. 1 n. 24) secondo il tracciato a suo tempo individuato lungo via
S. Filippo39. Dall’arco del Sacramento, nei pressi del quale anche l’arco 2000 (cui si appoggia il
muro 1074-1075) venne ad assumere connotati propri di una struttura difensiva, le mura della
cinta ristretta proseguivano lungo l’attuale via Gaetano Rummo fino alla porta Rufini (Fig. 1 n.
11) che nell’VIII secolo, in rapporto alla costruzione della Civitas nova, fu spostata in avanti nel
punto in cui la nuova recinzione si saldò a quella di IV-V; quindi, lungo il costone meridionale
del colle della Guardia, risalivano a porta Somma (Fig. 1 n. 1) che, rinnovata alcune volte, nel
XIV secolo fu incorporata dalla Rocca dei Rettori, per scendere fino all’Arco di Traiano (Fig. 1
n. 8) che divenne la port’Aurea40 e ricollegarsi a porta S. Lorenzo (Fig. 1 n. 24).
7. I dati, ancora provvisori, dello scavo condotto nell’insula tra via Carlo Torre e via S. Gaetano,
anch’essa coincidente con un cardo, indicano peraltro che le funzioni difensive assunte fra IV e
V secolo dall’area dell’arco del Sacramento (Fig. 1 nn. 17, 5, 11-13) sarebbero state disattivate
probabilmente dopo la costruzione, più a meridione, prima del 774, delle mura della Civitas nova
(Fig. 1) su iniziativa di Arechi II (758-787), un nobile longobardo41 che fu insediato quale duca
di Benevento nel 758 dal re Desiderio di cui sposò la figlia Adelperga e che assunse la dignità di
principe nel 774 dopo la conquista della Langobardia maior da parte di Carlo, re dei Franchi
e la sconfitta di Desiderio. Arechi, che rinnovò Salerno42 e Benevento costruendo in entrambi
i centri un Sacrum palatium (Fig. 1 n. 8), intese migliorare le difese per il timore di un attacco
dei Franchi e per accrescere il peso politico della città attraverso una consapevole politica urba-
nistica che, oltre tutto, restituì le originarie funzioni urbane alla zona pianeggiante meridionale
del centro forse mai abbandonata del tutto43: questo sembrano infatti indicare la conservazione
e il reimpiego del teatro (Fig. 1 n. 20) di età adrianea44, per il quale è stata forse individuata
una fase più antica45, che, a differenza del non lontano anfiteatro demolito entro il IV (Fig. 1
n. 28), fu riutilizzato nell’alto medioevo per scopi abitativi, indicati dalla sua parcellizzazione,
avvenuta probabilmente allora, in tante piccole unità abitative. Evidentemente esso era stato
salvaguardato quale elemento significativo del suburbio: tale doveva essere diventata infatti la
parte meridionale della città lungo il Sabato ai cui apparati difensivi ripresi dagli interventi edilizi
dell’VIII secolo fanno riferimento la porta individuata da un arco in laterizi su mensole di pietra
di una porta romana o tardoantica inglobata dalla turris Pagana (Fig. 1 n. 26) e la cosiddetta
torre della Catena, un fortilizio rinnovato al tempo di Dacomario46 e nel 147547 su strutture più
antiche (Fig. 1 n. 36) che prima della realizzazione della Civitas nova verosimilmente presidiò
l’area di arrivo dell’Appia e del teatro48. Oggi appare isolata dalle mura della Civitas nova le cui
porte sono porta Foliarola (Fig. 1 n. 37), porta de Hiscardi o Liscardi, realizzata con materiali di
spoglio e corrispondente alla port’Arsa delle fonti moderne (Fig. 1 n. 27, 4) ed una terza porta
individuata grazie al frammento di uno stipite e alla sua ubicazione al termine di via Porta Nuova
che dovrebbe corrispondere alla porta Noba (Fig. 1 n. 19).
38
ROTILI 1986, pp. 41, 74 nota 157, TBL 57. pp. 870-871.
39
ROTILI 1986, p. 90. 44
TORELLI 2002, p. 214.
40
ROTILI 1972, pp. 13 ss.; ROTILI 1986, pp. 94-95. 45
GIAMPAOLA 1994, p. 658.
41
GASPARRI 1978, pp. 98-100. 46
Liber Preceptorum, XXV, VI, 25, pp. 747-750.
42
DELOGU 1977. 47
BORGIA 1769, p. 405.
43
ROTILI 1986, pp. 143-155, 231 nota 283; ID. 2003, 48
ROTILI 2006, pp. 75-76.
Fig. 8 – Duomo, navata centrale prima dei bombar-
damenti del 1943.

Fig. 9 – Mappa ridotta Monte S. Pietro. Roma, Ar-


chivio di Stato, CPG, 277 n. 12.

Fig. 10 – Cellarulo, complesso dei Santi Quaranta.


Interno della galleria A prima dei bombardamenti
del 1943.

Fig. 11 – Arco del Sacramento e torre pentagonale


di IV-V secolo.

Figg. 12, 13 – 12. Torre pentagonale contigua all’ar-


co del Sacramento.13. Cantiere archeologico presso
l’arco del Sacramento, muro di cinta 1074-1075,
IV-V secolo.
158 MARCELLO ROTILI

È ipotizzabile che la costruzione degli apprestamenti difensivi tardoantichi, che sembrerebbe


aver preceduto le devastazioni provocate dai Visigoti di Alarico (410), dai Vandali di Geiserico
(455) e dagli Ostrogoti, rientri nel riassetto complessivo del centro49 attuato anche mediante lo
spoglio di edifici antichi: l’anfiteatro (Fig. 1 n. 28), già abbandonato nel IV, venne rasato anche
per evitarne l’impiego da parte di eventuali aggressori quale base d’attacco contro la città. Alle
radicali trasformazioni subite dalla città fa riferimento l’epistola50 che Quinto Aurelio Simmaco51,
reduce dall’Africa dov’era stato proconsole, inviava al padre nell’autunno del 375 da Benevento
dov’era in visita: la missiva sottolinea che la città è maxima e soprattutto pone l’accento sulla
gara apertasi tra i cittadini per ridarle l’antico splendore. Non si sa se Simmaco si riferisse solo
agli effetti del sisma del 375 o anche a quelli del terremoto del 34652. Sebbene ricordi che i
maggiorenti beneventani erano pagani, la penetrazione del cristianesimo aveva incominciato a
incidere sul mancato restauro di edifici di culto pagani, sull’edificazione delle prime chiese e sul
mutamento della topografia urbana. Alle ristrutturazioni promosse dall’aristocrazia impegnata
nel rinnovare la città può essere attribuita la costruzione della chiesa vescovile dedicata alla
Vergine: nell’edificio sorto su un’insula nei pressi del foro e dell’arco del Sacramento (Fig. 1 nn.
16-17, 8) con l’impianto basilicale proprio delle grandi chiese paleocristiane (un impianto che
le ricerche in corso sembrerebbero confermare) sono reimpiegate 56 colonne uguali con relative
basi e capitelli53 che non possono essere state prelevate da un monumento antico (forse il teatro
o l’anfiteatro) se non tutte insieme, quando l’assetto complessivo di questo le rendeva ancora
disponibili, cosa che non sarebbe stata possibile in età altomedievale.
Del resto, tralasciando l’improbabile figura del protovescovo Fotino, dopo S. Gennaro i primi
vescovi certi si registrano proprio a partire dal 31354. Restaurata alla fine del VI secolo, la cat-
tedrale fu nuovamente consacrata dal vescovo Davide, contemporaneo di Arechi II, nell’ultimo
quarto dell’VIII: ai lavori allora condotti vanno sommati quelli effettuati al tempo di Sicone55, ma
l’impianto paleocristiano dell’originaria chiesa a tre navate precedute dal pronao venne modificato
nel XII secolo allorché l’edificio fu strutturato su cinque navate e accorciato, attuando in forme
romaniche una redistribuzione dei materiali da costruzione antichi oltre che degli spazi.
8. Al ripristino delle difese che i Longobardi, anche per porre riparo ai danni prodotti dalle
distruzioni di Totila del 54556, attuarono subito dopo il 552 allorché un nucleo di mercenari al
soldo di Bisanzio57 fu trattenuto e fatto insediare nel Beneventano da Narsete per le esigenze della
guerra non ancora terminata58, venne presto accompagnandosi un’attività edilizia che sarebbe
divenuta più intensa nel VII e soprattutto nell’VIII secolo: chiese, monasteri, case non di rado
collegate da pontili, vennero modificando e arricchendo il paesaggio urbano59.
L’impianto della colonia di III a.C., a modulo costante su un lato degli isolati sfuma in un profilo
sempre più lontano dal modello; in tal modo Benevento tardoantica e altomedievale si qualifica
come prodotto degli interventi che adeguano la struttura urbana di un periodo di pace (qual è la
prima parte dell’età imperiale) alle esigenze di arroccamento difensivo proprie della transizione
romanobarbarica. Dalla cinta muraria tardoantica rimasero fuori l’intera area di Cellarulo (Fig.
9) e la zona meridionale con orientamento NW-SE tra l’anfiteatro, il corso del Sabato e il settore
in cui sarebbe sorta la porta Rufini (Fig. 1 n. 11): il perimetro del centro (Fig. 1), corrispondente
a quello che è stato possibile ricostruire vent’anni fa, risultò di poco inferiore a 3 km60; con la
costruzione della Civitas nova sarebbe aumentato di oltre 400 m61.
9. Caratterizzata già nel tardo antico dalla penetrazione della campagna al suo interno, anche a
causa dell’abbandono di alcune parti, Benevento sarebbe venuta progressivamente strutturandosi
nell’alto medioevo attraverso il riuso e la trasformazione degli edifici d’età classica e mediante
l’occupazione graduale delle aree resesi libere per abbandoni e crolli. Tutto ciò e le ricostruzioni
seguite ai numerosi terremoti spiegano gli assestamenti della viabilità antica e le modifiche ap-
portate all’impianto romano il cui modulo di pianificazione a misura costante, come si è visto,
non si individua ovunque62.

49
ROTILI 2003, p. 865 nn. 175-176; ID. 2006, p. 77. 56
La guerra gotica, III, 6.
50
Symmachi Epistulae, III, pp. 4-5. 57
La guerra gotica, IV, 29, 32.
51
SEECK 1883, p. LXXIV. 58
ROTILI 2003, p. 830.
52
Catalogo parametrico 1999, p. 27, nn. 14, 17. 59
ROTILI 1986, pp. 178-180.
53
PENSABENE 1990, pp. 107-109. 60
ROTILI 1986, pp. 86-106.
54
ROTILI 2006 p. 78. 61
ROTILI 1986, pp. 145-149.
55
ROTILI 1986, pp. 178-180. 62
ROTILI 1986, pp. 34-35.
L’ASSETTO URBANISTICO DI BENEVENTO TARDOANTICA 159

Elementi significativi del panorama edilizio connotato da costruzioni sia in muratura che in
legno, sarebbero stati, in età longobarda, i quartieri degli adalingi e arimanni sorti molto pro-
babilmente intorno alla sede del potere dei duchi, la curs ducis insediata sin dal VI secolo nel
Praetorium romano e ricordata dal toponimo medievale Planum curiae corrispondente a «Piano
di Corte» moderno63. Oltre che quella del Sacrum Palatium, ad Arechi si deve la fondazione del
monastero benedettino femminile annesso a S. Sofia64 che contribuì a delineare il panorama edilizio
della città, fittissimo di chiese e monasteri progressivamente istituiti e strutturati nel corso dell’alto
medioevo65. Più volte elencati e discussi66, gli edifici religiosi, fra i quali spiccano, nei pressi di S.
Sofia e del vicino Palatium (Fig. 1 n. 4) le chiese67 di Sant’Angelo de Caballo, di S. Benedetto e
S. Pietro ad Caballum (Fig. 1 nn. 3, 5), quella di S. Giovanni a port’Aurea (Fig. 1 n. 7), attestata
nel 774, che sembra fosse pertinente ad un monastero, e i monasteri di S. Paolo (Fig. 1 n. 14) e
Sant’Adeodato (Fig. 1 n. 13), attestati nel 774 e nel 98168, e ancora la chiesa (Fig. 1 n. 12) di S.
Costanzo69, questi edifici contribuiscono alla ricomposizione dell’assetto urbano.
Referenze delle illustrazioni: figg. 1, 2 (F. CORDELLA, S. Maria Capua Vetere); 3 (G. A. RIZZI
ZANNONI [...] 1808, f. 10); 4, 6-7, 11 (M. ROTILI 1986, tav. LXV, fig. 46, tavv. V, XXXXII n. 1);
5, 12-13 (M. R. CATALDO, S. Maria Capua Vetere); 8 (A. MEOMARTINI 1909, p. 52); 9 (Archivio
di Stato di Roma, concessione a pubblicare ASR n. 13/2006); 10 (A. ZAZO 1928, tav. XI).

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63
ROTILI 1986, pp. 107-109. 2006, pp. 83-84.
64
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65
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66
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160 MARCELLO ROTILI

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Il territorio di Buonalbergo (Benevento)
fra tarda antichità e medioevo

NICOLA BUSINO

1. LA VALLE DEL MISCANO


Le ricognizioni condotte nel territorio di Buonalbergo e Casalbore, centri situati a nord-est
di Benevento (Tav. I) nella media valle del fiume Miscano, hanno evidenziato alcuni aspetti delle
trasformazioni verificatesi fra la tarda antichità e il medioevo. Com’è stato osservato per altri
contesti dell’alta Irpinia, quali i comprensori di Montella1, Sant’Angelo2 e Torella dei Lombardi3,
la tarda antichità ha segnato un radicale cambiamento degli assetti insediativi in questo settore
della Campania nord-orientale, posto tra l’Irpinia e il Sannio, che costituisce uno dei pochi va-
lichi naturali tra il versante tirrenico e la pianura pugliese e che perciò ha avuto a lungo grande
importanza strategica tanto da essere frequentato fin dall’età del bronzo4: il popolamento sparso,
che caratterizzava i contesti extraurbani fino al V-VI secolo, evolve verso forme accentrate costi-
tuite da villaggi talvolta fortificati5 in seguito, secondo un processo che comportò in alcuni casi
l’antropizzazione di luoghi pressoché disabitati, in altri la rioccupazione di aree già frequentate
in precedenza6.

2. LA TARDA ANTICHITÀ
2.1 La via Traiana
L’elemento generatore dell’insediamento di età romana è, oltre al fiume Miscano il cui toponimo
è attestato per la prima volta alla fine del X secolo (in fluvio Misclanu7), la via Traiana, costruita
dall’imperatore di origine iberica nel primo decennio del II secolo d.C., ristrutturando antichi
percorsi8; questa importante arteria, restaurata più volte tra l’inizio del III e la fine del IV secolo9,
collegava Benevento a Brindisi in alternativa all’Appia che seguiva un percorso appenninico at-
traverso l’Irpinia e la Basilicata; la strada fu attiva in parte fino alla seconda metà del VII secolo,
come confermato sia dalle indagini svolte in numerosi siti della Daunia10, ad esempio Herdonia11,
sia dalle fonti che documentano per un verso il tentativo di Costante II di riconquistare nel 662
Benevento, roccaforte longobarda che l’imperatore raggiunse da Brindisi avvalendosi dell’arte-
ria costiera, per l’altro attestano la marcia in senso contrario del duca beneventano Romualdo12
verso Brindisi.
Segni tangibili del passaggio della via Traiana sono i ponti-viadotto in laterizi, realizzati per
superare le balze che costeggiano la sponda destra del Miscano13: tra di essi il ponte delle Chian-
che14 (Fig. 3) che attraversa il vallone Santo Spirito, uno dei torrenti che confluiscono sulla sponda
destra nel Miscano. Dotato in origine di sei archi, lungo m 120, largo m 7,20, è costruito in opus
coementicium entro cortine di laterizi. Il basamento dei piloni è realizzato in blocchi di calcare
lavorati che racchiudono il conglomerato cementizio, come si rileva per il ponte Santo Spirito15,

1
ROTILI 1999a, pp. 9-12. 294; PATITUCCI UGGERI 2002, p. 26.
2
ROTILI 2002, pp. 11-12. 9
CIL IX, 6006, 6007, 6010.
3
ROTILI 1997, pp. 9-10. 10
ROMANO 2005, p. 255; VOLPE 2005, p. 307; MARCHI
4
LIVADIE 1994; EAD. 1996. 2005, p. 180.
5
ROTILI 1999b, p. 236; ID. 2003, pp. 844-861; BUSINO 11
VOLPE 2000, pp. 538-541.
2003, p. 284. 12
QUILICI 1999, p. 183; ROTILI 2001, p. 294.
6
PANI ERMINI 2001, p. 101. 13
QUILICI 1989, pp. 66-68; ID. 1999, p. 183 e bibl. ivi
7
San Modesto, Praeceptum concessionis et confirmationis cit.
databile tra il 12 agosto 991 e il 29 novembre 992 (?), p. 15. 14
ASHBY, GARDNER 1916, pp. 132-134; QUILICI 1989, pp.
8
Hist. Lang. VI, 1; ASHBY, GARDNER 1916, pp. 106-108; 67-68; ID. 1999, p. 183; GALLIAZZO 1994, pp. 114-117.
OSTROGORSKY 1968, p. 107; VON FALKENHAUSEN 1983, p. 255; 15
ASHBY, GARDNER 1916, p. 135; QUILICI 1989, p. 68;
QUILICI 1989, pp. 63-94; ID. 1999, p. 183; ROTILI 2001, p. GALLIAZZO 1994, p. 112.
162
NICOLA BUSINO

Tav. I – Carta archeologica del territorio di Buonalbergo. È evidenziata la villa in località fonte di Monte Palumbo.
IL TERRITORIO DI BUONALBERGO (BENEVENTO) FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 163

ubicato più a est nel territorio di Casalbore. Sul ponte delle Chianche è ancora visibile parte
del lastricato, costituito da conci poligonali lavorati; la rampa occidentale mostra un restauro
in piccoli blocchi di pietra, visibile sul lato esposto a nord (Fig. 4). Rinvenuto tra le strutture
del ponte, un mattone con il bollo pont(es) v(iae) Tra(ianae)16 testimonia la presenza di fornaci
deputate esclusivamente alla produzione di laterizi per i ponti della strada17.

2.2 Stationes, vici e villae rusticae


Lungo la Traiana e il Miscano si disponevano insediamenti sparsi, quali ad esempio le statio-
nes o mutationes per il rifornimento e il cambio dei cavalli: nella valle del Miscano si segnalano
la statio di Forum Novum18, nel territorio di Sant’Arcangelo Trimonte, ad est di Buonalbergo,
quindi il vicus di Aequum Tuticum19, oggetto d’indagine negli anni ’9020, insediamento scomparso
probabilmente in seguito ai terremoti del 346 e del 375 d.C.21 che danneggiarono gravemente
Benevento22 e l’Irpinia, e la mutatio Aquilonis, riconosciuta nel territorio di Castelfranco in Mi-
scano23, ultimo stanziamento appenninico.
Il paesaggio era altresì scandito da una rete di ville rustiche di varia grandezza, ubicate lungo
la direttrice viaria ed attive fino alla seconda metà del VII secolo: nel territorio di Buonalbergo
l’indagine autoptica ne ha individuate due, rispettivamente in località La Starza e in località fonte
Monte Palumbo (infra). Ubicata su un pianoro di forma triangolare poco digradante verso sud-
ovest, la villa situata in località La Starza, toponimo attestato sin dall’età del bronzo, occupava
un’area di circa 2000 m2: l’eccessiva dispersione del materiale non consente di individuare l’arti-
colazione degli ambienti. La ceramica ingobbiata in rosso, la ceramica a ‘stralucido’, la ‘steccata’
e la dipinta a bande larghe confermano la frequentazione del sito in età tardoantica24.
Nel territorio di Casalbore, altro nucleo insediativo, ritenuto un vicus25, è individuato dal monu-
mento funerario situato lungo la Traiana a Santa Maria dei Bossi (Fig. 1): datato al II secolo d.C.26,
è un mausoleo le cui strutture in laterizi vennero riutilizzate per impiantare la chiesa medievale
di Santa Maria dei Bossi, edificio monoabsidato a pianta quadrata, la cui prima attestazione27 è
in un privilegium papae del 110128.
2.2.1. La villa rustica in località fonte Monte Palumbo
Di dimensioni superiori (circa 3000 m2) all’insediamento de La Starza è la villa rinvenuta in
località fonte Monte Palumbo29(Tav. I); l’area, distribuita su un lieve pendio rivolto a sud-est, è
stata individuata poco a sud della strada statale 90 bis che, superato il centro di Buonalbergo,
collega Benevento e Foggia.
L’insediamento ha restituito un’alta concentrazione di fittili ascrivibili in prevalenza all’età
tardoantica, di cui si fa cenno:
– acroma. Un orlo ingrossato con carenatura e profilo interno concavo convesso identifica un
bacino (Fig. 6, nr. 10), rifinito con stecca; ha impasto di colore marrone (valore Munsell 5YR 5/8
yellowish red30) e inclusi di mica, quarzo e calcare. Sulla carenatura esterna è presente un’inci-
sione a linea ondulata, effettuata con un punzone. Richiama un bacino di fine V-metà VI secolo
rinvenuto nel complesso napoletano di Carminiello ai Mannesi31;
– acroma da fuoco. I manufatti da fuoco sono rappresentati da forme chiuse (pentole e olle),
rifinite a stecca. Un orlo a tesa con parete, appartenente ad una pentola (Fig. 6, nr. 6), presenta
impasto marrone (7.5YR 5/6 strong brown), con quarzo, calcare e mica. Un esemplare (Fig. 6, nr.
8), analogo ad una pentola da contesti beneventani di VI-VII32, mostra orlo a tesa con margine

16
CIL IX, 6011. 26
BISOGNO 1984, pp. 149, 151-152.
17
GALLIAZZO 1994, p. 117; ASHBY, GARDNER 1916, p. 132 27
L’attribuzione della chiesa di Santa Maria dei Bossi al V
n. 2. secolo (GNOLFO 1968, p. 21; IANNELLI 1985, p. 716; SANTILLO
18
ASHBY, GARDNER 1916, pp. 126-128; ROTILI 1986, p. 30; FRITZELL 1996, p. 77) appare essere un fraintendimento del
QUILICI 1989, p. 66. testo di Zazo, relativo alla Platea antiqua Sanctae Sophiae usque
19
SILVESTRINI 1997, pp. 13-14. ad annum 1382 (ZAZO 1964, pp. 59, 65): il documento infatti
20
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 106; EAD. 2005, pp. 283- include la ecclesia sancte marie in casali albulo tra i possedi-
288. menti del monastero di Santa Sofia nel XIV secolo.
21
Catalogo dei terremoti 1999, p. 27, nn. 14, 17. 28
Liber Praeceptorum, V, 5, p. 638.
22
TORELLI 2002, pp. 271-277; ROTILI 2006, pp. 18-19. 29
IGM, F.o 174 IV S.O. (ed. 1955), Montecalvo Irpino.
23
QUILICI 1989, p. 69. 30
Munsell Soil Color Charts, New York 2000.
24
ROTILI, BUSINO 2006, c.s. 31
ARTHUR 1994, p. 185, fig. 83 n. 25.1.
25
TOCCO SCIARELLI 1999, p. 248. 32
CARSANA 1998b, p. 172, fig. 96 n. 13.
164 NICOLA BUSINO

arrotondato, impasto rosso chiaro (2.5YR 6/8 light red) con inclusi calcarei. Tra le olle si citano
due esemplari: il primo (Fig. 6, nr. 15) presenta orlo ingrossato poco estroflesso e impasto rosso
chiaro (2.5YR 6/6 light red) con inclusi quarziferi e calcarei; la seconda (Fig. 6, nr. 12), rifinita
con panno, ha orlo estroflesso e ingrossato, impasto arancio (5YR 6/6 reddish yellow) con mica,
quarzo e calcare;
– acroma da fuoco dipinta. Un orlo estroflesso a sezione triangolare identifica un’olla (Fig. 6, nr.
2), con superficie rifinita a stecca. Ha impasto di colore marrone (7.5YR 5/4 brown), con inclusi
di chamotte e calcare e presenta tracce di dipintura sulla parte interna dell’orlo. L’esterno mostra
tracce di bruciatura;
– ingobbiata in rosso. Più cospicui i rinvenimenti di ceramica ad ingobbio rosso (2.5YR 6/6 light
red; 2.5YR 5/8, 5/6 red) rappresentata prevalentemente da ciotole con superficie rifinita a stecca
o con panno. Due esemplari hanno orlo introflesso: uno (Fig. 6, nr. 9) è prodotto con impasto
rosso chiaro (2.5YR 6/6 light red) con inclusi di quarzo e calcare; l’interno reca tracce di ingobbio
rosso. L’altro (Fig. 6, nr. 7) presenta impasto marrone (5YR 5/6 yellowish red) con inclusi calcarei,
micacei e quarziferi; è interamente rivestito di ingobbio. Due ciotole sono caratterizzate da orlo
introflesso: la prima (Fig. 6, nr. 4), interamente ingobbiata, presenta una carenatura ed è foggiata
con impasto arancio (5YR 6/8 reddish yellow) e rari inclusi di quarzo e mica; la morfologia è
accostabile a quella di un bacino attestato dal VII secolo a Benevento33; la seconda ciotola (Fig.
6, nr. 5), con impasto arancio (7.5YR 6/6 reddish yellow) e inclusi di quarzo e calcare, reca scarse
tracce di ingobbio all’esterno e all’interno; quest’ultimo esemplare è accostabile ad un recipiente
da contesti di inizio III secolo d.C. della domus A di Herdonia34.
Altre forme aperte sono rappresentate da un grosso contenitore che presenta orlo ingrossato con
margine superiore a sezione trilobata (Fig. 6, nr. 1); l’impasto, di colore rosso (7.5YR 5/8 strong
brown), reca inclusi di calcare e mica. Il margine superiore dell’orlo, con tracce di ingobbio, è de-
corato da piccole incisioni parallele tra loro e disposte perpendicolarmente alla circonferenza.
Un orlo a sezione triangolare, rivestito da ingobbio rosso all’interno e in parte all’esterno,
identifica un coperchio (Fig. 6, nr. 13) con l’impasto rosso chiaro (2.5YR 6/8 light red) e rari
inclusi di quarzo e calcare. È accostabile ad un recipiente di VI-VII secolo attestato a Carminiello
ai Mannesi35.
L’unica forma chiusa è rappresentata da un fondo (Fig. 6, nr. 14) foggiato con impasto arancio
(7.5YR 6/6 reddish yellow) e ricoperto da ingobbio bruno (5YR 4/2 dark reddish gray);
– stralucido. Ascrivibile a questa classe è una ciotola-coperchio (Fig. 6, nr. 11), con carenatura e
rifinitura a stecca; l’impasto ha colore rosso chiaro (2.5YR 6/8 light red), con rari inclusi di quarzo
e calcare. La decorazione consiste in uno strato d’ingobbio rosso (2.5YR 5/8 red), reso lucido, che
ricopre l’interno; l’esterno appare lisciato, ma è meno lucente. Qualche analogia morfologica è
stata riscontrata con un recipiente da fuoco di IV-V secolo, rinvenuto a Herdonia36;
– invetriata da fuoco. Ascrivibile ad un orizzonte cronologico più tardo è un’olla individuata da un
orlo ingrossato e introflesso con profilo concavo convesso (Fig. 6, nr. 3) e impasto di colore rosso
(2.5YR 5/6 red) che presenta pochi inclusi calcarei; la superficie è resa liscia mediante panno; la
vetrina è diffusa all’interno e all’esterno (2.5YR 4/6 red).

3. IL MEDIOEVO
Gli eventi traumatici che investirono la Campania fra la metà del IV e il VI secolo37 determi-
narono la fine delle ville e del popolamento sparso e la comparsa di siti d’altura che offrivano
maggiori garanzie di sicurezza; il fenomeno è ben attestato in alcuni contesti extraurbani dell’Ir-
pinia, mentre la stessa contrazione urbana di Benevento, con l’abbandono dell’area pianeggiante
di Cellarulo e con la fortificazione della collina de La Guardia, documenta l’arroccamento dei
siti urbani38.

33
CARSANA 1998a, p. 144, fig. 81 n. 42. 37
ROTILI 2005, pp. 36-37; CUOZZO 2003, p. 567; MARTIN
34
TURCHIANO 2000a, p. 260, tav. V tipo 3.1. 1990, p. 260.
35
CARSANA 1994, p. 250, fig. 119 n. 100.1. 38
ROTILI 2006, pp. 63-64.
36
TURCHIANO 2000b, p. 370, tav. VI tipo 4.1.
Fig. 1 – Casalbore, chiesa di Santa Maria dei Bossi. Fig. 2 – Collina di Montegiove-Montechiodo, foto
aerea (volo 1998).

Fig. 3 – Buonalbergo, ponte delle Chianche. È visibile Fig. 4 – Buonalbergo, ponte delle Chianche. Re-
l’ultima arcata interamente ricostruita. stauro di età postclassica della rampa occidentale
(lato nord).

Fig. 5 – Il comprensorio di Buonalbergo e Casalbore. È visibile la quinta montana retrostante costituita da


M. La Guardia, M. Chiodo e M. Calvello (da Atlante 1807, foglio n. 15).
166 NICOLA BUSINO

5 6

7 8

9 10

11 12

13 14

15

Fig. 6 – (rapp. 1:4) 10, acroma; 1, 4-5, 7, 9, 13-14, ceramica ad ingobbio rosso; 2, dipinta da fuoco; 6, 8,
12, 15, acroma da fuoco; 11, ceramica a stralucido; 3, invetriata da fuoco.
IL TERRITORIO DI BUONALBERGO (BENEVENTO) FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 167

3.1 Alipergus
Nella valle del Miscano un centro d’altura d’origine altomedievale è l’attuale Buonalbergo,
citato dal Chronicon Sanctae Sophiae39: strutturato sulla collina di San Silvestro (Tav. I) tra la via
Traiana (a sud) e il tratturo Pescasseroli-Candela (a nord), risale almeno ai secoli VIII-IX, come
si arguisce dall’origine del toponimo Buonalbergo formato dal prefisso latino bonus aggiunto
al sostantivo germanico alipergus, secondo la consuetudine onomastica di ambito longobardo,
nota per l’appunto nei secoli VIII-IX40 che sembra trovare riscontro anche nella tradizione
toponomastica.
Il centro lievitò d’importanza in età normanna, a seguito alla distruzione del vicino villaggio
fortificato di Montegiove e alla soppressione della contea di Ariano da parte di Ruggero II, nel-
l’ambito della riorganizzazione del regnum attuata nell’assemblea di Silva Marca nel 1142: la nuova
contea normanna di Buonalbergo fu assegnata a Robertus de Medania che diventerà Robertus de
Bono Herbergo. Alla sua morte, nel 1154, gli succederà il figlio, Comes Rogerius de Bonialbergi, i
cui possedimenti si erano ormai notevolmente ingranditi, a testimonianza del potere raggiunto.
Segno tangibile del potere normanno a Buonalbergo è il cosiddetto castello ‘di Boemondo’,
edificato sullo sperone di roccia calcarea al margine sud-orientale della collina di San Silvestro
e in posizione dominante rispetto all’abitato che si sviluppava a valle del fortilizio; sebbene la
cartula oblationis et confirmationis del gennaio 1079 menzioni tra i possedimenti di Girardo
gran conte di Ariano il castellum nostrum q(uo)d vocatur Alip(er)go41, l’edificazione del fortilizio
è attribuibile all’attività di Robertus de Bono Herbergo42, primo comes della contea. L’edificio,
molto danneggiato e in parte obliterato dai crolli e dalla vegetazione, potrebbe avere tuttavia
delle fasi di costruzione prenormanne in virtù dell’origine longobarda di Buonalbergo, com’è del
resto attestato in contesti analoghi43.
Dopo numerosi passaggi di consegna tra XIII e XV secolo, il centro venne distrutto nel 1495
dall’esercito di Carlo VIII, allorché il re francese invase i possedimenti napoletani di Ferdinando
II d’Aragona: l’evento fu peraltro successivo ai rovinosi terremoti del 145644 e del 146645 e ad
alcune frane. Solo trent’anni dopo, nel 1525, la nuova Buonalbergo (denominata Terra nova46)
fu riedificata sulla collina di San Silvestro, sede dell’attuale abitato, a monte del castello ‘di Boe-
mondo’47.

3.2 Mons Iovis


1. Come Buonalbergo, ma probabilmente ad esso precedente48, il villaggio fortificato di Monte-
chiodo/Montegiove (Fig. 2), altro caso di incastellamento altomedievale strutturato sulle pendici
meridionali dell’omonima collina alle spalle di Buonalbergo, a diretto controllo del tratturo
Pescasseroli-Candela e della Traiana, sorse in conseguenza dell’articolato processo di abbandono
della valle in età tardoantica. Probabilmente l’insediamento costituì l’anello di un sistema di
fortificazioni che aveva in monte La Guardia, ad ovest di Montegiove (alla cui sommità sono state
rilevate alcune tracce di strutture, visibili anche da foto aerea), e in monte Calvello più a nord
(ove alcune ricognizioni segnalano strutture di fortificazione49) gli altri caposaldi, come indicato
dall’Atlante del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni50 (Fig. 5).
Il toponimo attuale, Montechiodo, è versione corrotta dell’antico Mons Iovis con cui il centro
è ricordato da Falcone Beneventano51 in occasione della sua distruzione ad opera di Guglielmo
duca di Puglia. La Terra e Feudo di Monte Chiovo sono attestati nelle transazioni di beni immobili
fino al XVIII secolo, anche se dopo la distruzione del 1122 il sito decadde progressivamente an-
che in seguito alla progressiva crescita d’importanza di Buonalbergo: la collina, tuttavia, in base
alle indagini del materiale ceramico di superficie52, fu contrassegnata da fenomeni di sporadica

39
Liber preceptorum VI, 13, p. 716; V, 3, pp. 243 e nota 45
BARATTA 1901, p. 78 n. 325; FIGLIUOLO, MARTURANO 1996;
266, 626. ROTILI 2002a, p. 15.
40
MORLICCHIO 1985, pp. 126-127; ROTILI 2001, pp. 294- 46
PICCINATO L. 1978, p. 27.
296; BUSINO 2003, pp. 287-288. 47
ROTILI 2001, p. 296.
41
Liber preceptorum VI, 13, p. 716. 48
Ivi, p. 294.
42
ROTILI 2001, p. 297. 49
SANTILLO FRITZELL 1996, p. 70.
43
ROTILI 1997b, p. 34; ID. 1999a, pp. 29, 95; ID. 2002a, 50
Atlante 1807 foglio n. 15 (incis. di G. GUERRA).
p. 41. 51
ROTILI 2001, p. 293; Chronicon, p. 68.
44
Catalogue of strong Italian Earthquakes 2000, pp. 849, 863. 52
Montechiodo-Montegiove. I materiali 2001, pp. 305-324.
168 NICOLA BUSINO

continuità insediativa almeno fino ai secoli XV-XVI, circostanza quest’ultima indirettamente


confermata da una notizia data da Tommaso Vitale53, il quale afferma che Pietro Guevara, conte
di Ariano e Gran Siniscalco, nel 1483 concedeva franchigie alle popolazioni di Buonalbergo e di
Monte Chiovi, indicando ancora una qualche presenza presso la collina.
2. L’indagine preliminare condotta nel novembre 1999 ha permesso di rilevare la rocca trapezoidale
che costituisce il nucleo principale dell’insediamento: realizzata con muri con nucleo in opera
cementizia entro cortine di conci calcarei, secondo la tecnica ‘a sacco’, essa è strutturata in vari
ambienti54. Il successivo scavo, eseguito tra settembre e novembre del 200055, ha riguardato lo
scavo di lunghi tratti del circuito murario di età altomedievale, già individuato nel ’99 attraverso
le foto aeree e le indagini di superficie e quindi riportato alla luce in larga parte sul versante ovest
e chiesa ad aula rettangolare monoabsidata con ingresso laterale.
La cinta, strutturata in alcuni punti sul calcare di sedimentazione geologica, presenta uno
spessore che varia da 1,30 m a 1,75 m; il legante utilizzato è molto povero, con vari inerti di
mica, quarzo e frammenti calcarei. Tra le dodici trincee di scavo realizzate lungo la murazione, si
segnalano la trincea n. 1, aperta a ridosso del lato occidentale della rocca, nella quale si innesta,
le trincee 4 e 6 che hanno evidenziato tratti della rampa d’accesso in pietra all’area murata e la
trincea 8 relativa alla porta carraia aperta nel muro di cinta.
Il vasellame rinvenuto è principalmente costituito da ceramica d’uso comune (acroma, acroma
incisa, dipinta e ingobbiata) e ceramica da fuoco, mentre meno attestato è il vasellame da mensa
(protomaiolica, invetriata monocroma, smaltata di transizione, smaltata monocroma bianca)56.
Malgrado si constati che nella maggioranza dei casi i reperti sono pertinenti alle fasi basso-
medievali, alcuni manufatti sono ascrivibili ad ambiti cronologici più antichi, come si rileva ad
esempio per il vasellame dipinto a bande larghe57 che documenta la frequentazione del sito in età
altomedievale: tra le morfologie meglio attestate, alcuni bacini richiamano esemplari analoghi
rinvenuti a Benevento in contesti di VII secolo.
Il sito di Montegiove, oltre a rappresentare un esempio di accentramento insediativo deter-
minato dalle condizioni di insicurezza del fondovalle, costituisce un caso di rioccupazione di
un’area già frequentata in età preromana: secondo una casistica spesso prospettata dalla ricerca58,
ma poco documentata per i contesti campani, l’ipotesi è supportata sia dall’individuazione, sul
versante meridionale della collina, di una rampa di accesso (tagliata nel banco geologico) ad una
probabile area sacra, sia dal rinvenimento di sporadici frammenti di ceramica a vernice nera (II-I
secolo a.C.) alle sue pendici.

CONCLUSIONI
Le indagini condotte nel territorio di Buonalbergo inducono ad ascrivere al VII secolo i fenomeni
di trasformazione dell’assetto insediativo di quest’area subappenninica: la forte contrazione del
popolamento sparso determinò tra la fine del VII-inizi VIII secolo la nascita di villaggi accentrati
che, come nel caso di Buonalbergo, costituirono gli embrioni dei successivi centri di età medievale
e moderna, secondo quanto riscontrato in altri contesti appenninici dell’Italia meridionale, quali
ad esempio Sant’Angelo dei Lombardi in Irpinia ove lo scavo della residenza dei Caracciolo ha
restituito i resti di una necropoli tardoantica59; analogie in tal senso sono state altresì riscontrate
con insediamenti extraurbani della campagna toscana, come Montarrenti (Siena), insediamento
nato tra metà del VII e la metà secolo successivo60, Poggio Imperiale (VI-VII secolo)61, nei pressi
di Poggibonsi, e Scarlino (fine del VI-VII secolo)62.
Rispetto ai contesti irpini, ove già nel IV (Sant’Angelo dei Lombardi) appaiono i primi
insediamenti d’altura (fenomeno che si ripropone nel VI: è il caso di Montella63), a Buonalbergo
l’abbandono generalizzato del fondovalle appare un fenomeno piuttosto tardivo (seconda metà

53
VITALE 1794, p. 309. 59
GATTO 2001, pp. 255-276.
54
ROTILI 2001, p. 297. 60
CANTINI 2003, pp. 227-245; VALENTI 2004, p. 50; FRAN-
55
ROTILI, CALABRIA, BUSINO c.s. COVICH, HODGES 2003, p. 68.
56
ROTILI, CALABRIA, BUSINO c.s. 61
VALENTI 1996; ID. 2004, pp. 47-50.
57
FUSARO 2001, pp. 312-313. 62
Scarlino 1985; VALENTI 2004, pp. 56-59.
58
Ad esempio nel caso di Scarlino, nel Grossetano (FRAN- 63
ROTILI 1999a, pp. 24-27; ID. 2005, pp. 50-51.
COVICH, HODGES 2003, pp. 69-70).
IL TERRITORIO DI BUONALBERGO (BENEVENTO) FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 169

del VII secolo), così come riscontrato per i centri dell’Apulia64: ciò appare legato alla presenza
della via Traiana e alla continuità funzionale di centri produttivi, il cui processo di abbandono
non fu repentino65.

Referenze delle illustrazioni: tav. I (IGM, Firenze); fig. 1, 3-4 (Nicola Busino); fig. 2 (volo 1998,
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Il territorio di Montella (Avellino)
tra Tarda Antichità e Medioevo

PALMINA PRATILLO

1. INTRODUZIONE
Le ricerche archeologiche condotte negli ultimi venti anni in Irpinia hanno consentito di
registrare lo sviluppo tra Tarda Antichità e Alto Medioevo di nuove forme di insediamento e
l’adeguamento alle esigenze del momento di nuclei abitativi antichi1.
Le valli dell’Ofanto, del Fredane e del Calore, caratterizzate in età romana da nuclei abitativi
sparsi sorti attorno a luoghi di culto e a centri di produzione e smercio di prodotti agricoli o ad
aree destinate all’allevamento, vedono un progressivo trasferimento della popolazione verso siti
accentrati talvolta arroccati2, fenomeno che trova riscontro nei dati archeologici emersi grazie
alle indagini condotte da Marcello Rotili. Gli scavi dei castelli di Torella dei Lombardi3, Sant’An-
gelo dei Lombardi4, Rocca San Felice5, Ariano Irpino6, Montella7, Bisaccia, hanno permesso di
avanzare l’ipotesi di una contrazione dell’insediamento nel fondovalle tra Tarda Antichità e Alto
Medioevo dal momento che gli impianti di età normanno-sveva celano resti di strutture collocabili
tra VII-VIII secolo8, tra le quali anche una calcara in uso nell’VIII secolo9, e di fortificazioni di
IX-X che configurano le principali forme insediative nella zona per tutto l’Alto Medioevo10. In
modo particolare a Montella il Monte, punto nevralgico di controllo tra i gruppi del Terminio e
del Cervialto, i Monti Picentini, Bagnoli Irpino, Nusco, Cassano Irpino, Volturara e il passo delle
croci di Acerno, con una posizione dominate sulla piana di Montella, attraversata dal primo tratto
del fiume Calore e snodo di percorsi che mettevano in comunicazione con l’avellinese e il nolano
nonché con Benevento, Salerno e la Puglia, fu interessato da un insediamento accentrato già nel
VI-VIII secolo11. Si trattava di una curtis come si evince dal giudizio relativo ai servi di Prata,
riportato dal Chronicon Sanctae Sophiae, che Arechi II pronunciò nel 762 a favore dell’abate di
S. Sofia Maurizio: «in curte n(os)tra que vocatur montella»12.
Alle strutture relative alla prima fase insediativa, si sovrappongono quelle di IX, realizzate
quando i longobardi fortificarono il sito per adattarlo alle nuove esigenze di conquista e controllo
del territorio, determinando un significativo passaggio dalla curtis al castrum13. I nuovi conqui-
statori istituirono il gastaldato di Montella, citato per la prima volta nell’849 dalla Radelgisi et
Siginulfi principum divisio ducatus beneventani14, che si estendeva tra l’alta valle del Calore e
quella del Sabato e confinava con i gastaldati di Quintodecimo, Avellino, Conza, Rota e la città
di Salerno15. Il castello di Montella assunse quindi un ruolo determinante soprattutto dal punto
di vista strategico-militare dal momento che era posto a guardia della strada che partendo da
Benevento consentiva di spingersi verso la Basilicata senza esporsi ad offese nemiche e poter
quindi attaccare la Puglia16. La centralità di Montella si evince ancora da un documento dell’XI
secolo che la indica come civitas ovvero come il centro più importante del gastaldato17.

2. LO STUDIO DEL TERRITORIO


Tali dinamiche insediative vanno ulteriormente chiarendosi per il territorio di Montella grazie
all’indagine topografica, ancora in corso, che consente di fondere dati archeologici, bibliografici e
archivistici a quelli che sono già emersi e che continueranno ad emergere dalle ricognizioni dirette

1
ROTILI 1999a, p. 225. 10
ROTILI 1996, p. 257.
2
ROTILI 1999a, p. 227. 11
ROTILI 1999b, p. 9.
3
Torella dei Lombardi 1997. 12
Liber preceptorum, II, 15, p. 461.
4
Sant’Angelo dei Lombardi 2002. 13
ROTILI 1999b, p. 9.
5
ROTILI 1994. 14
Divisio ducatus 1868, pp. 221-224.
6
ROTILI 1996, p. 268. 15
ROTILI 1999b, p. 9
7
ROTILI 1999b. 16
SCANDONE 1911, p. 63.
8
EBANISTA 1999; GATTO 1999; ROTILI 1999a, p. 228. 17
Codice diplomatico Verginiano, Cartula donationis, 19,
9
PRATILLO 2006, pp. 496-497. pp. 71-74.
174 PALMINA PRATILLO

e sistematiche che riguardano la piana di Montella (Tav. I, n. 1) individuata dal tratto iniziale del
fiume Calore che nasce dal colle Finestra, sul versante sud del monte Accellica (monti Picentini).
I massicci del Terminio (1786 m) e del Cervialto (1809 m), ne costituiscono rispettivamente il
confine E e SW dividendo il bacino del Calore da quelli del Sabato, dell’Ofanto, del Sele.

3. L’ASSETTO TERRITORIALE
I dati bibliografici ed una prima lettura delle foto aeree e delle mappe topografiche rivelano
una significativa frequentazione in età romana del fondovalle.
La piana di Montella risulta già centuriata in età graccana come attestano un cippo rinvenuto
in località Stratola (Tav. I, nn. 2, 4) che conserva sulla sommità l’indicazione del K(ardo) II e
del D(ecumanus) III, appartenente alla specie dei termini latiores usati per segnalare la divisione
dell’ager publicus18, ed un altro recuperato in località Chianola (Tav. I, n. 2), situata in prossimità
della riva destra del fiume Calore, al confine tra le circoscrizioni amministrative di Cassano Irpino
e di Nusco19. Quest’ultimo, utilizzato ancora oggi come delimitazione di proprietà anche se non
nel luogo originario, presenta oltre all’indicazione del cardo primo e del decumano sulla sommità,
anche i nomi dei magistrati che operarono la divisione degli appezzamenti agricoli: Marco Fulvio
Flacco, Gaio Papirio Carbone, Gaio Sempronio Gracco (129-123 a.C.)20.
L’ipotesi della divisione agraria di tale territorio in età graccana trova conferma anche nella
presenza di alcuni toponimi quali ad esempio Limiti21, attribuito ad una località non molto
distante dalle aree di ritrovamento dei due termini citati (Tav. I, n. 2). Un ulteriore contributo
giunge anche dalla lettura delle carte topografiche22(Tav. I, n. 3) e delle foto aeree23(Tav. II, n. 7)
che hanno consentito di individuare probabili tracce del reticolo di centuriazione nelle località
Folloni e Stratola e nella zona posta tra le sorgenti Bagno e Pollentina.
Scandone, nel libro dedicato all’alta valle del Calore, localizza in un sito piano ed aperto sulla
sinistra del Calore tra le sorgenti di Bagno (balneum) e Pollentina (bullientina), attualmente poste
al limite N della circoscrizione amministrativa di Montella al confine con quella di Cassano Irpino,
il luogo in cui in età romana furono costruiti alcuni edifici pubblici ed un mercato cui venne dato
il nome di Forum Felix24. L’esistenza di un’area pubblica in questa zona è inoltre confermata dal
rinvenimento nei pressi della sorgente Pollentina, adiacente al luogo in cui è ipotizzato il Forum
Felix, di un’iscrizione (Tav. II, n. 5, 8) in cui sono citati due liberti di Gaio Quinzio Valgo, perso-
naggio noto per la polemica contro Cicerone a proposito dei suoi vasti possedimenti, che doveva
avere degli interessi nel territorio irpino25. L’iscrizione risulta di notevole importanza in quanto
fornisce indicazioni circa gli edifici che furono innalzati nel forum dal collegio dei sei Magistri
Mercuriales: tre tabernae, botteghe dove si svolgevano gli scambi commerciali tra gli abitanti,
di un’edicola dedicata al dio Giano, e di un vestibulum, vale a dire di un portico destinato allo
svolgimento di operazioni di credito e compravendita, tutti eretti su di un’area comprata per
decreto del senato romano. Il collegio dei Mercuriales è menzionato in altre iscrizioni provenienti
dal territorio di Benevento26 e da Compsa27 dove è spesso associato a professioni legate alla sfera
economica come mercator e nummularius28. Ciò si spiega con il fatto che tra i tanti collegia nati
a Roma fin dalle origini con gli scopi più disparati (destinati a soddisfare esigenze pubbliche ed
interessi dei loro membri definiti per l’appunto magistri) e che si moltiplicarono soprattutto nella
fase imperiale29, è documentato anche un collegium mercatorum o Mercurialium30, costituito
come si evince dal nome, da mercanti dediti al culto di Mercurio. L’esistenza di tale collegium
rivela una forte connotazione commerciale dell’area, dove ad essere venduti erano con buona
probabilità soprattutto prodotti agricoli e di allevamento. La lapide inoltre specifica che al popolo
romano spettava la rendita che si traeva dalle botteghe e dal portico. Il toponimo Forum Felix
fa riferimento ad uno spazio31 il cui attributo felix32 denoterebbe una certa fertilità del suolo,

18
PESCATORI COLUCCI 1998, p. 41; SCANDONE 1911, pp. 25
Ivi pp. 45-47, 167 fig. 14; PESCATORI COLUCCI 1998, p. 41.
158-159, fig. 9. 26
CIL IX, 1707-1710.
19
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92; EAD. 1998, p. 41. 27
CIL IX, 972.
20
PESCATORI COLUCCI 1998, p. 41. 28
TORELLI 2002, p. 240.
21
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92. 29
Mercuriales 1904, XIII, pp. 1802-1823.
22
IGM F.°186 IV S.O., Montella, levata 1955. 30
WALTZING 1895, p. 35.
23
Alisud, volo 28. 06. 1984, strisciata n. 53. 31
Forum 1896, XII, pp. 1277-1320.
24
SCANDONE 1911, pp. 44-47. 32
Felicitas 1896, XII, pp. 1031-1032.
IL TERRITORIO DI MONTELLA (AV) TRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 175

1 2

Tav. I – 1. Veduta della piana di Montella. 2. Indicazione delle località Limiti,


Chianola, Stratola (IGM F.°186 IV S. O., Montella, ridotta). 3. Tracce di divi-
4 sioni agrarie (IGM F.°186 IV S.O., Montella, ridotta). 4. Termine graccano con
l’indicazione del decumano e del cardine (SCANDONE 1911, pp. 158-159, fig. 9).
176 PALMINA PRATILLO

cosa plausibile in quanto il luogo cui è attribuito è posto al centro di due sorgenti d’acqua, in un
punto in cui il fiume Calore forma un’ansa. Il toponimo si trasforma in età medievale in «locum
felice» come attesta un documento risalente al 100133. Tale trasformazione terminologica sembra
riflettere una riorganizzazione agraria del territorio avvenuta probabilmente a partire dalla età
tardoantica, così come è stato osservato per il territorio di Rota, il cui paesaggio si configura
per loca, ovvero abitazioni sparse, attestate a decine nel IX-X secolo: nell’837 locum Felline,
nel 959 locum Rota, locum Beteri34. Attualmente tale importante iscrizione risulta essere murata
all’ingresso dell’asilo Capone di Montella35.
Funzionale alle attività commerciali che si svolgevano nel forum dovette essere la costruzione
in età augustea di una strada di comunicazione e di un ponte che consentiva di superare il Calore
per accedere all’area36(Tav. II, n. 5). Ancora oggi nei pressi delle sorgenti Bagno e Pollentina è
presente un ponte denominato Stratola ubicato nella località omonima. Il toponimo Stratola po-
trebbe derivare da una trasformazione in epoca medievale del latino strata, facendo riferimento
all’esistenza già in antico di una strada e di un ponte ancora in uso in epoca medievale37.
Altre tracce di frequentazione in epoca romana sono emerse grazie ad alcune ricognizioni con-
dotte negli anni ’90 dalla Soprintendenza archeologica: nella località Lavinella (Tav. II, n. 6) nei
pressi della confluenza tra il Calore e il suo affluente Lacinolo, sono documentate numerose tombe
ad inumazione coperte da tegoloni. Nella stessa località sono attestati inoltre una grande quantità
di laterizi, tracce di strutture murarie e rocchi di colonne38che fanno ipotizzare l’esistenza di una
villa romana. Anche nella località Cerrete (Tav. II, n. 6), posta in prossimità della riva destra del
torrente Lacinolo al confine tra le attuali circoscrizioni di Montella e Bagnoli Irpino, sono stati
rinvenuti resti di tombe, iscrizioni, un frammento di fregio ed un blocco di mausoleo funerario
decorato da un fascio littorio39. Già lo Scandone parla di numerosi resti antichi ritrovati nella
contrada detta S. Giovanni in Galdo o Cerrete, tra i quali numerose tombe ed iscrizioni ad esse
appartenenti. Di queste iscrizioni dice «poche se ne sono salvate, altre sono irrimediabilmente
perdute essendo state usate come rozzo materiale nella ricostruzione del non lontano monastero
di S. Francesco»40, introducendo il tema del reimpiego di materiali antichi per la costruzione di
edifici moderni. Le epigrafi rinvenute in questo luogo sono tre. La prima (Tav. III, n. 9), attual-
mente murata nell’angolo NW del casolare di proprietà Granese, è riferibile alla tomba di un
cittadino romano, tale Erennio o Ennio (ENNIUS) appartenente alla tribù Galeria (GAL)41. La
seconda (Tav. III, n. 10) ugualmente murata nel casolare Granese ma sul lato S, cita un tale Pedio
anch’esso cittadino romano42. L’ultima epigrafe che lo Scandone definisce “malconcia”43, mentre
la Pescatori Colucci dice essere andata perduta, recava la scritta Q. AED. P. S. /L. FECIT44. Altre
iscrizioni funerarie sono state segnalate nella contrada Tagliabosco45, posta al limite NE del ter-
ritorio di Montella al confine con la circoscrizione di Nusco, mentre nella contrada Prati è stata
recuperata la base di un busto (Tav. III, n. 11) con iscrizione funeraria che reca inciso il lamento
di una madre per il figlio defunto ed un frammento di colonna (Tav. III, n. 12) con decorazione
a foglie di alloro46. Sempre in questa località è segnalato il ritrovamento di un’ara votiva dedicata
ad Augusto da un soldato della seconda legione nel luogo su cui poi sorse la chiesa di S. Pietro
vecchio47. Nella contrada S. Croce, infine, situata a N di Montella piccola tra il fiume Calore e il
suo affluente Lacinolo, lo Scandone afferma che un colono ritrovò un’anforetta piena di monete
d’argento risalenti all’età repubblicana48. Non si sa però quale sia stata l’entità del ritrovamento,
ma di certo il tesoretto monetale andò disperso in collezioni private 49.
La pressocchè totale assenza di notizie relative ad evidenze tardoantiche è stata superata solo
negli anni ’90 quando, in occasione della realizzazione del gasdotto transmediterraneo, sono
stati condotti dalla Soprintendenza alcuni sondaggi archeologici in località Folloni che hanno
riportato in luce nove tombe adiacenti relative ad un’estesa necropoli (Tav. II, n.6). Durante lo

33
SCANDONE 1911, pp. 193-194, doc. III. 43
SCANDONE 1911, p. 151.
34
PEDUTO 1994, p. 280. 44
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92.
35
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92. 45
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92.
36
SCANDONE 1911, p. 47 46
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92; SCANDONE 1911, pp.
37
PATITUCCI UGGERI 2006, p. 62. 165-166.
38
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92. 47
CASIELLO DE MARTINO 1974, p. 60; SCANDONE 1911, p. 46.
39
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92. 48
SCANDONE 1911, p. 173.
40
SCANDONE 1911, p. 148. 49
PESCATORI COLUCCI 1991, p. 92.
41
SCANDONE 1911, p. 150. 50
CINQUEPALMI, IANNELLI 1998, p. 44.
42
SCANDONE 1911, p. 151. 51
CINQUEPALMI, IANNELLI 1998, p. 44.
5

7
Tav. II – 5. Area di rinvenimento dell’iscrizione dei Magistri Mercuriales e indicazione del ponte
Stratola (IGM F.°186 IV S.O., Montella). 6. La necropoli di Folloni e i rinvenimenti nelle loca-
lità Lavinella e Cerrete (IGM F.°186 IV S.O., Montella). 7. Foto aerea della piana di Montella
(Alisud, volo 1984, strisciata n. 53). 8. Iscrizione dei Magistri Mercuriales (SCANDONE 1911, pp.
44-47, fig. 14).
178 PALMINA PRATILLO

scavo, tra gli altri materiali del corredo funerario, è stata recuperata una moneta bronzea (follis)
riferibile al periodo di Costantino (319-324 d.C)50. I manufatti ceramici rinvenuti sono ancora
ascrivibili al repertorio tipologico di tradizione romana: la ceramica costolata ben documentata
sia nelle aree interne che nei centri urbani costieri tra il 350-370 e la metà del V secolo d.C.;
la ceramica con ingobbio opaco di colore rosso associata ad incavi o a decorazioni incise dopo
cottura, prodotto la cui circolazione è riferibile ad un arco cronologico che va dalla seconda
metà del IV d.C. fino alla prima metà del VI51. Proprio i materiali consentono di datare l’utilizzo
della necropoli, da riferirsi ad un insediamento rurale non distante, dal secondo ventennio del IV
fino alla prima metà del VI secolo. Il suo disuso a partire dalla seconda metà del VI consente di
ipotizzare l’abbandono o quantomeno una contrazione dell’abitato a partire da quel momento.
Mettendo in relazione ciò con l’inizio dell’insediamento accentrato del Monte nel VI-VIII52 si
avvalora l’ipotesi di un graduale scomparsa dell’insediamento sparso nell’area pianeggiante di
Montella sia in favore del sito d’altura sia in favore di nuclei accentrati di fondovalle in un periodo
di grande instabilità socio-politica.
Nel citato giudizio di Arechi II sui servi di Prata si fa riferimento all’atto con cui Gisulfo I
(689-706)53 e la madre Teoderada, per qualche tempo reggente del ducato di Benevento54, dona-
no le condome di Prata al monastero beneventano55. Significativo è il fatto che nelle curtes della
Langobardia minor il termine condoma, già utilizzato da Gregorio Magno in alcune lettere datate
tra 592 e 60256, indicasse i dipendenti57. La parola compare nei documenti meridionali tra il 720
e 84958 assumendo l’accezione di capofamiglia detentore di una casa59e facendo inoltre riferimen-
to al nucleo familiare ad esso relativo comprendente anche le famiglie dei figli e talvolta quelle
dei fratelli minori e nipoti60. In un documento del Chronicon Sanctae Sophiae del 774 vengono
donate a S. Sofia tre condome, intendendo con tale termine le abitazioni di Teroaldu, Ferrandu e
Pepino61, evidenziando che il conteggio per case (introdotto nel regno franco nel VII secolo) che
segna un notevole miglioramento della gestione curtense, comincia ad essere utilizzato nel ducato
di Benevento62. Anche nella documentazione d’archivio altomedievale toscana l’unità elementare
dell’insediamento rurale è detta casa, intesa come insieme di strutture e di appezzamenti fondiari
di cui si componeva un’azienda contadina retta da un nucleo familiare63.
Il fatto che Prata, citata nel giudizio di Arechi come sede di più condome, può corrispondere
alla località Prati posta alle pendici dell’altura su cui sorge l’attuale abitato di Montella, confer-
ma l’esistenza nel VII-VIII secolo di un insediamento rurale accentrato di fondovalle ascrivibile
alla curtis montellese. Ciò richiama un modello insediativo documentato nell’area del Chianti
senese, dove nell’VIII-IX secolo alle curtes fanno riferimento nuclei accentrati composti da tre-
otto case abitate da una popolazione servile legata al potere signorile locale e operosa in ambito
agricolo64.
Alcune fonti locali documentano inoltre in zona Prati due chiese (Tav. III, n. 13), S. Pietro
vecchio e S. Salvatore del Prato65 di ancora incerta collocazione cronologica. Della prima chiesa,
ipotizzata ai piedi dell’attuale rione Serra, non si sono conservate tracce ma il ricordo del luogo
sacro sembra perdurare attraverso il toponimo Corte di S. Pietro, attribuito alla probabile area
di edificazione. Di sicuro è stata sostituita dalla chiesa di S. Pietro nuovo, edificata sulla collina
su cui sorse in età bassomedievale il casale Serra. La chiesa di S. Salvatore è indicata nei pressi
di Monticchio; una volta diruta, la veneratissima statua del Salvatore sarebbe stata trasferita
dapprima nella chiesa di S. Elia, posta a mezza costa in località Toppolo del Mulino, quindi sulla
sommità del monte del Salvatore che oggi ospita per l’appunto il Santuario del SS. Salvatore66.
Tali trasformazioni, per le quali è necessario individuare limiti cronologici precisi, rivelano una
tendenza al trasferimento dei luoghi di culto dal fondovalle verso siti d’altura, confermando lo
spostamento degli abitati verso luoghi meglio difendibili e dai quali era senza dubbio possibile
un maggiore controllo del territorio.

52
EBANISTA 1999, pp. 255-270; GATTO 1999, pp. 245-254; 58
MARTIN 1990, p. 273; CUOZZO 2003, p. 588.
ROTILI 1999b, p. 228. 59
MARTIN 1990, p. 273.
53
GASPARRI 1978, p. 91; ID. 1988, p. 103. 60
CUOZZO 2003, p. 588.
54
GASPARRI 1978, p. 91 nota 244. 61
Liber Preceptorum, Preceptum oblationis, pp. 279-280.
55
Liber Preceptorum, II, 15, p. 461. 62
MARTIN 1990, p. 274; CUOZZO 2003, pp. 588-589.
56
Registrum epistularum, II 50, p. 141; IX 72 p. 627; 63
FRANCOVICH 2004, p. XX.
XIII 16 p. 1016. 64
GUIDERI 1994, pp. 209-210.
57
MARTIN 1990, p. 273. 65
SCANDONE 1911, p. 65; MOSCARIELLO 1991, p. 113.
IL TERRITORIO DI MONTELLA (AV) TRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 179

Il clima di insicurezza che contraddistinse il periodo dell’occupazione del territorio da parte


dei longobardi fece registrare un incremento di costruzioni a carattere difensivo non solo nel
sito del Monte, ma in tutto il territorio montellese. Lungo il tratturo che dalla costa di Battipa-
glia conduceva ad Avellino attraverso Montecorvino ed Acerno, nei pressi del valico Croci, è
documentato il sito fortificato noto come La Rotonda, fondato probabilmente in questa fase ed
indicato da Cuozzo come uno dei siti posti lungo l’itinerario seguito da Roberto il Guiscardo nella
spedizione contro Salerno del 107667. Al periodo normanno sembra invece risalire per tipologia
costruttiva una torretta difensiva (Tav. III, n. 14) di forma quadrangolare individuata nell’attuale
rione dal significativo toponimo Torre Serra. Tale struttura, situata in posizione dominante ri-
spetto al fondovalle, consentiva un totale controllo della piana di Montella, costituendo un vero
e proprio avamposto difensivo del castello del Monte.
I dati emersi dalle ricognizioni dirette del territorio ci consentono di completare il quadro.
L’area già sottoposta ad indagini comprende le località Prati, Monticchio e Folloni (Tav. III, n.
15). Le località Prati e Monticchio, attualmente si configurano come aree destinate al pascolo,
con abitato sparso e pochi appezzamenti coltivati, quasi tutti annessi alle case. Qui, a causa della
scarsa visibilità, è stato rinvenuto in superficie sporadico materiale ceramico collocabile tra bas-
somedioevo ed età moderna con un’elevata concentrazione negli appezzamenti posti lungo la
statale che raggiunge l’attuale centro abitato di Montella. Tale circostanza ci informa di una ripresa
dell’insediamento a partire dal bassomedioevo. La ricognizione in località Folloni, attualmente
caratterizzata da abitato sparso e da un intenso sfruttamento agricolo, ha ugualmente individuato
produzioni ceramiche bassomedievali e moderne che attestano una ripresa abitativa in queste
fasi. In tal caso però bisogna aggiungere un altro dato fondamentale: l’attestazione di tale area
come bosco rigoglioso già nel XII68, segno che una contrazione dell’abitato, con conseguente
abbandono delle aree coltivate, possa essersi verificata già in precedenza.

4. CONCLUSIONI
Dalla prima lettura comparativa dei dati fino ad ora emersi dallo spoglio bibliografico, dalle
ricognizioni e dall’interpretazione delle foto aeree, sembra delinearsi un’ipotesi ricostruttiva
dell’assetto territoriale, che sebbene debba essere ulteriormente validata da nuovi dati, consta di
alcuni punti fondamentali:
– frequentazione romana del fondovalle documentata dai numerosi ritrovamenti citati e dalle
tracce di centuriazione individuate;
– esistenza di un insediamento rurale tra Tardantichità e Alto Medioevo tra Prati e Folloni;
– contrazione di tale abitato a partire dalla seconda metà del VI secolo, epoca del disuso della
necropoli, che potrebbe essere sopravvissuto solo nella zona Prati, maggiormente riparata rispetto
a Folloni, e abbandono anche di buona parte dell’area coltivata al punto che nel XII secolo la
località Folloni è ormai divenuta un bosco rigoglioso;
– ripresa dell’insediamento a partire dall’epoca bassomedievale come rivela il materiale da rico-
gnizione di superficie.

5. SITI DA RICOGNIZIONE
Sito n. 1 Prati (IGM 1:25000 4522743-2522443, 186 IV S.O. Montella)
Area di dispersione materiali; età bassomedievale-moderna;
Il sito, posto vicino alla strada statale che conduce all’attuale abitato di Montella, è situato nella
zona N della località Prati e si presenta pianeggiante con sporadici alberi da frutto, confinante con
una serra ormai in disuso (N). Il campo ha ottime condizioni di visibilità che hanno consentito di
recuperare lungo il lato SW abbondante materiale ceramico rappresentato dalle seguenti classi:
invetriata monocroma, dipinta, smaltata monocroma bianca, collocabili tra bassomedioevo ed
età moderna.

66
MOSCARIELLO 1991, pp. 113-114. 68
SCANDONE 1911, p. 89.
67
CUOZZO 1969, pp. 713-720; ID. 1989, pp. 78-79.
180 PALMINA PRATILLO

9 10 11 12

13 14

15
Tav. III – 9. Epigrafe di Ennio (SCANDONE 1911, p. 150). 10. Epigrafe di Pedio (SCANDONE 1911, p.151).
11. Base di busto con iscrizione funeraria (SCANDONE 1911, p. 165). 12. Frammento di colonna con foglie
di alloro (SCANDONE 1911, p. 166). 13. Indicazione delle chiese di S. Pietro vecchio e S. Salvatore al Prato,
e della Torre Serra (IGM F.°186 IV S.O., Montella, ridotta). 14. Torre Serra. 15. Aree di dispersione dei
materiali (IGM F.°186 IV S.O., Montella, ridotta).
IL TERRITORIO DI MONTELLA (AV) TRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 181

Sito n. 2 Prati (IGM 1:25000 4522455-2522540, 186 IV S.O. Montella)


Area di dispersione materiali; età bassomedievale;
Il sito, non lontano dal sito 1, è attiguo ad un’abitazione situata nella zona centrale di Prati. Il
campo che si presenta pianeggiante ha discrete condizioni di visibilità il che consente di recupe-
rare nella zona centrale in prevalenza forme ceramiche da fuoco (acrome ed invetriate) ma anche
vasellame da mensa in invetriata monocroma collocabile in epoca bassomedievale.

Sito n. 3 Prati (IGM 1:25000 4522667-2522554, 186 IV S.O. Montella)


Area di dispersione materiali; età bassomedievale;
Il sito è posto nella zona S di Prati, nei pressi della linea ferroviaria Avellino-Rocchetta. Il campo
si presenta leggermente digradante da S verso N con discrete condizioni di visibilità che hanno
consentito di recuperare nella zona N abbondante materiale ceramico, in prevalenza forme in
invetriata monocroma, dipinta, smaltata monocroma bianca collocabili tra bassomedioevo ed
età moderna.

Sito n. 4 Prati (IGM 1:25000 4522535-2522731, 186 IV S.O. Montella)


Area di dispersione materiali; età bassomedievale- moderna;
Confinante con il sito 3, si presenta come area destinata al pascolo che restituisce materiale ce-
ramico in smaltata monocroma bianca.

Sito n. 5 Monticchio (IGM 1:25000 4522837-2522766, 186 IV S.O., Montella)


Area materiali; età bassomedievale-moderna;
Il sito, individuato alle pendici della collina di Monticchio, è posto lungo la strada che arriva
al convento di S. Francesco a Folloni. Si configura come campo arato le cui buone condizioni
di visibilità consentono di recuperare ceramica acroma, invetriata da fuoco, invetriata dipinta e
qualche frammento di protomaiolica, smaltata monocroma bianca e ceramiche moderne.

Sito n. 6 Monticchio (IGM 1:25000 4522830-2522894, 186 IV S.O., Montella)


Area materiali; età bassomedievale-moderna;
Il sito, individuato alle pendici della collina di Monticchio, è posto nella zona centrale della
località. Le buone condizioni di visibilità consentono di recuperare materiale ceramico acromo,
invetriato da fuoco e dipinto e qualche frammento di protomaiolica, smaltata monocroma bianca
e ceramiche moderne.

Sito n. 7 Folloni (IGM 1:25000 4521890-2523386, 186 IV S.O., Montella).


Area materiali; età bassomedievale-moderna;
Il sito, individuato nella zona centrale di Folloni, si presenta pianeggiante, arato, circondato da
alberi da frutto. Ha restituito un buon numero di frammenti acromi e smaltati.

Sito n. 8 Folloni (IGM 1:25000 4521727-2523386, 186 IV S.O., Montella).


Area materiali; età bassomedievale-moderna;
Il sito, individuato nella zona centrale di Folloni, nei pressi del luogo in cui è attestata la necropoli
tardoantica, ha restituito ceramica invetriata dipinta e smaltata associate a numerosi frammenti
di laterizi.

Sito n. 9 Folloni (IGM 1:25000 4521980-2523501, 186 IV S.O., Montella).


Area materiali; età medievale;
Il sito, individuato nella zona centrale di Folloni, non lontano dal sito 7, ha restituito ceramica
acroma ed invetriata oltre a frammenti di mattoni e tegole.

Sito n. 10 Folloni (IGM 1:25000 4521803-2524090, 186 IV S.O., Montella).


Area materiali; età bassomedievale-moderna;
Il sito posto in prossimità di alcune abitazioni, è individuato nella zona E di Folloni. Si presenta
pianeggiante, con una buona condizione di visibilità che ha consentito di recuperare ceramica
acroma, invetriata dipinta e smaltata monocroma bianca.
182 PALMINA PRATILLO

Sito n. 11 Folloni (IGM 1:25000 4522303-2523157, 186 IV S.O., Montella).


Area materiali; età bassomedievale-moderna;
Il sito, posto in prossimità di alcune abitazioni, è stato individuato nella zona NW di Folloni.
Si presenta leggermente digradante da N verso S con una buona condizione di visibilità che ha
consentito di recuperare lungo il lato S ceramica invetriata monocroma e soprattutto smaltata
monocroma bianca.

Sito n. 12 Folloni (IGM 1:25000 4521231-2523130, 186 IV S.O., Montella).


Area materiali; età bassomedievale-moderna;
Il sito è stato individuato nella zona S di Folloni. Si presenta pianeggiante con una buona condi-
zione di visibilità che ha consentito di recuperare lungo il lato S ceramica invetriata monocroma,
invetriata dipinta, maiolica.

Referenze delle illustrazioni: P. PRATILLO, Tav. I n. 1, Tav. III n. 14; IGM Firenze, Tav. I nn. 2-3, Tav. II nn.
5-6, Tav. III nn. 13,15; ALISUD, Tav. II n. 7; F. SCANDONE 1991, Tav. I n. 4, Tav. II n. 8, Tav. III nn. 9-12.

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Per una carta archeologica medievale: L’Aquila e il territorio
FABIO REDI

Dopo l’ampia sintesi regionale presentata nel 1992 da Anna Maria Giuntella in occasione del
Convegno Internazionale su “La storia dell’alto medioevo italiano alla luce dell’archeologia” e gli
sviluppi presentati dalla stessa e da suoi collaboratori dieci anni dopo in occasione del convegno
spoletino su “I Longobardi dei Ducati di Spoleto e Benevento”1, ricerche di superficie e scavi
archeologici condotti all’Aquila e nel territorio dal gruppo di ricerca guidato dal sottoscritto
hanno prodotto ulteriori conoscenze che consentono una puntualizzazione, sia pure non defini-
tiva, sulle dinamiche insediative e sul paesaggio della Valle dell’Aterno che la Carta Archeologica
Medievale che stiamo elaborando rappresenterà tra breve in forma sintetica, sinottica, diacronica
e tematica.2
La città dell’Aquila, con il dibattito storiografico riguardante la fondazione nel 1254 per volere
di Corrado IV, le eventuali preesistenze, le motivazioni della scelta del sito e le dinamiche di ur-
banizzazione dopo la distruzione voluta per rappresaglia da Manfredi nel 1259, la ricostruzione
sotto Carlo I d’Angiò nel 1265 e l’impulso impresso da Carlo II nel 1294 al cantiere cittadino,
ancora scarsamente decollato, in virtù della costituzione della città-territorio per mezzo del de-
castellamento degli insediamenti fortificati di origine normanna, costituisce da circa un decennio
uno dei poli della ricerca archeologica da noi attivata.3 Insieme con questo, e strettamente con-
seguente, l’altro polo è rappresentato dall’indagine sulle dinamiche insediative del territorio che
originò e costituì la città con un sinecismo osmotico particolarissimo che riprodusse nel tessuto
cittadino i nessi sociali, politici, religiosi ed economici che tenevano coesi i confocolieri convenuti
dai castelli di origine, forzatamente e mai completamente abbandonati. La ripartizione dello spa-
zio urbano in Quarti e Locali rappresentò, concentrandolo in circoscrizioni compatte, orientate
centripetamente, la disposizione spaziale degli insediamenti del territorio:4 ogni circoscrizione
de intus era rivolta verso quella di origine de foris.
La strutturazione del territorio di tipo paganico-vicana di ascendenza italica, protrattasi in
età romana, e la viabilità di epoca imperiale costituiscono il presupposto della nostra ricerca
archeologica e topografica sulle modificazioni o sul perdurare degli assetti in età tardoantica e
nel corso dell’alto medioevo fino alla conquista normanna che produsse il massiccio e capillare
incastellamento dei secc. XI-XII e la ripresa della transumanza.5
Le relazioni che seguono mostrano alcuni risultati acquisiti con la ricerca topografica messa
in campo e attuata, con diversi gradi di completezza dipendenti dallo scaglionamento dell’inizio
temporale della stessa, dalle Dott.sse Alberini, Acone e Leuzzi, con tesi di dottorato o di laurea, e
dal Dott. Forgione, in collaborazione con il sottoscritto, seguendo alcune tesi di laurea assegnate
a tal fine.
In ambito urbano, infatti abbiamo avviato da tempo il rilevamento completo delle strutture
ecclesiastiche, abitative e difensive medievali, con approfondimenti sulla cronotipologia degli ele-
menti architettonici e con la elaborazione di un atlante delle tecniche murarie e dei materiali.6
Anche il censimento e la localizzazione di reperti scultorei erratici, di età romana e medie-
vale, recuperati come materiale di spoglio nell’edilizia cittadina, rientra pienamente nella Carta
Archeologica Medievale della città, nella quale sono compresi anche gli scavi archeologici da noi
compiuti nei monasteri di S. Basilio e di S. Domenico e nella basilica di Collemaggio.7
La Carta Archeologica Medievale della città e del territorio rappresenta evidentemente un
indispensabile supporto sul quale riversare tutte le informazioni archeologiche e topografiche in

1
GIUNTELLA 1994, pp. 231-249; EAD. 2003, pp. 763-799. pp. 56-69.
2
REDI 2006a, pp. 66-70. 5
CLEMENTI 1993a, pp. 121-150; ID. 1993b, pp. 71-79;
3
REDI 2003a, pp. 587-593; ID. 2003b, pp. 371-379; ID. ID. 1996b.
2004, pp. 211-215; ID. 2006b, pp. 71-133; ID. c.s.a.; ID. 6
REDI 2003a, pp. 587-593.
c.s.b.; ID. c.s.c. 7
REDI 2003b, pp. 371-379; ID. 2004, pp. 211-215; ID.
4
CLEMENTI, PIRODDI 1988, pp. 18-49; CLEMENTI 1996a, 2006b, pp. 71-133.
186 FABIO REDI

Fig. 1 – Pianta delle catacombe paleocristiane di S. Vittorino (da PANI ERMINI 1979, fig. 1).

nostro possesso, ma al tempo stesso, man mano che si arricchisce e si completa di dati, diviene
uno strumento fondamentale per la comprensione delle interconnessioni dei diversi fenomeni
riportati cumulativamente e sinteticamente su essa.
Soltanto la panoramica complessiva riportata sulla Carta Archeologica può contribuire valida-
mente all’interpretazione delle dinamiche cronologiche e spaziali del quadro insediativo territoriale
di ampio raggio e di lungo periodo.

IL TERRITORIO
A uno sguardo complessivo, nonostante l’incompiutezza della ricerca, colpiscono fino da adesso
la quantità numerica e la densità dei fenomeni, la sostanziale continuità, pur con modificazioni,
deperimenti e nuove comparse, fra le realtà di età romana e quelle successive.
È nota l’importanza del territorio in esame in età romana per la presenza di città come Amiter-
num, Forcona, Aveia, Peltuinum, Superaequum, ecc. e per il complesso intrecciarsi di arterie stradali
come la Claudia Valeria, la Claudia Nova, la Cecilia, la Calatina o Litina, la Via dell’Aterno, ecc.8,
oltre alle maglie del reticolo di appoderamento del fondovalle costituite dalla centuriazione.
La viabilità principale, pur con restauri e adattamenti che ne manifestano l’utilizzo prolungato
e la vitalità anche oltre la fine dell’impero romano, permane assai a lungo mantenendo efficienti
la sede stradale in basolato o in inghiaiato e i ponti.

8
QUILICI 1983, pp. 399-420.
PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE: L’AQUILA E IL TERRITORIO 187

Fig. 2 – Veduta di Peltuinum e degli avanzi della Chiesa di S. Maria degli Angeli.

Fig. 3 – La cattedrale romanica di Forcona.

Ne sono conferma attestazioni epigrafiche di restauri e di integrazioni di parti danneggiate,


come per la Claudia Nova e la Claudia Valeria, e la sopravvivenza di ponti, come presso Bari-
sciano, presso Campana, presso S. Eusanio (Ponte Capone) e presso Preturo.
Frequentemente i tratturi medievali ripercorrono lunghi segmenti della viabilità romana, come
si verifica per la Claudia Nova attraverso Peltuinum e la piana di Navelli, dimostrando che gli
antichi percorsi romani, se non continuità fisica d’uso, avevano mantenuto almeno una continuità
di memoria attraverso i cinque secoli dell’alto medioevo.
Come già è stato notato, le città subiscono contrazioni o riduzioni, ma anche restauri o interventi
di adattamento che segnalano la volontà delle autorità e degli abitanti di non staccarsi dal sito,
che evidentemente mantiene più forti motivazioni di sussistenza, anche quando l’insediamento
188 FABIO REDI

Fig. 4 – S. Paolo di Barete: pianta degli scavi raffigurante gli impianti delle diverse costruzioni
succedutesi dal V-VI sec. al XVI-XVII.
PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE: L’AQUILA E IL TERRITORIO 189

si limita a restauri di edifici preesistenti che invadono parzialmente gli assi stradali del reticolo
urbanistico o alla conversione ad uso privato di edifici pubblici come il foro, il teatro, l’anfitea-
tro, le terme, o alla realizzazione di chiese con cimitero annesso, e quindi a piccole comunità
di parrocchiani, o perfino di monaci, che utilizzano o riadattano parti dell’edilizia o del tessuto
viario e urbanistico precedente.
Sono i casi ormai acclarati, pur bisognosi ancora di una più intensa e programmata campagna
di scavi puntuali ed estesi, delle città di Amiternum e di Peltuinum e, in misura minore, di Forcona
e, quasi inesistente, di Aveia, Superæquum ecc.9
Per Amiternum conosciamo soltanto le emergenze monumentali di epoca imperiale10, ma manca
un accertamento della presenza e della consistenza della cattedrale di S. Maria nelle adiacenze
dell’anfiteatro, sebbene le fonti storiche ne attestino l’esistenza fin dal V secolo e la sopravviven-
za anche otre l’occupazione longobarda, pur nello stato di decadenza della città riscontrato da
Deoderico, in cerca di reliquie per Ottone I, nel 97011.
Ignoriamo completamente, però, il tessuto e gli spazi abitativi della città nel periodo della
contrazione tardoantica e in quello successivo nel quale il santuario di S. Vittorino e il modesto
rilievo su cui sorge, defilato ai margini dell’impianto cittadino, acquisirono un forte significato
attrattivo dell’insediamento.
Non conosciamo, inoltre, l’ubicazione e la consistenza della dimora del potere civile quando
Amiternum divenne sede di gastaldato all’interno del ducato di Spoleto.
Gli scavi condotti a Peltuinum dall’Università “La Sapienza” di Roma e dalla Soprintendenza
Archeologica dell’Abruzzo fin dal 1983, hanno accertato che la fine della città maturò nel VI
secolo, a seguito della guerra greco-gotica che segnò la decadenza della Claudia Nova, che col-
legava la conca peligna con quella aquilana di Amiternum12.
Già il sisma del 346 aveva segnato la prima tappa del progressivo abbandono della città che
verso la metà del IV secolo risulta ristretta lungo l’asse della Claudia Nova, che la percorreva da
SE a NO, coincidente con il percorso tratturale noto, a partire dalla riattivazione normanna, con
l’appellativo Magno che ne evidenzia la preminenza nel complesso reticolo medievale13.
La scoperta della chiesa di S. Maria degli Angeli a ridosso delle mura urbane di età imperiale nei
pressi della porta rivolta verso la conca aquilana, di incerta cronologia fra V e VII secolo, suggerisce
che la città, dopo il sisma del 346, pur sottoposta a un graduale processo di decadenza, si attestò
lungo l’asse viario principale, anche invadendone parzialmente la carreggiata con il restauro degli
edifici frontisti, contraendosi in un’area decisamente più ristretta, ma manifestando ancora una
vitalità non aliena da ricostruzioni e nuovi impianti che fecero largo uso di materiali di spoglio.
Meno acclarate sono ancora le vicende del periodo tardoantico e altomedievale di Forcona-
Civita di Bagno, nella quale recenti scavi della Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo stanno
riportando alla luce imponenti strutture di età imperiale.
Eccetto le strutture superstiti di quella che fu la cattedrale romanica anteriormente al trasfe-
rimento della sede e delle funzioni nella città dell’Aquila appena tre anni dopo l’istituzione nel
125414, non conosciamo testimonianze archeologiche del periodo altomedievale, eccetto l’impian-
to di una basilica precedente quella romanica, riportato alla luce con metodo non stratigrafico
dalla Soprintendenza ai BAP dell’Aquila negli anni ’70 del secolo scorso, e parte del cimitero
annesso dal quale provengono il celebre bassorilievo sepolcrale del vescovo Albino insieme ad
altro frammento, datati al VII secolo15.
Pitinum (attuale Pettino) fra IV e V secolo, al contrario di altri centri urbani che registrano
una battuta di arresto, gode di un incremento attestato da aree cimiteriali con sepolture di V-VII
secolo e un ruolo centripeto connesso con l’istituzione di diocesi, attestata nel 49916.
Un panorama variegato e articolato, con il perdurare di antichi insediamenti, il sorgere di nuovi
e un generale allentamento delle maglie insediative nell’area centrale della conca amiternina e un
decentramento ai margini della Claudia Nova, restaurata appunto nel IV secolo17, e nelle fasce
pedemontane o di altura, recuperando precedenti posizioni italiche paganico-vicane, risulta dalle
ricognizioni compiute da Flaminia Alberini.

9
GIUNTELLA 1994, pp. 233-243. 13
GIUNTELLA 1994, p. 236.
10
SEGENNI 1985. 14
CLEMENTI, PIRODDI 1988, pp. 17-18; REDI c.s.d.
11
PANI ERMINI 1975; EAD., 1979; EAD. 1980; Vita Deoderici 15
GIUNTELLA 1994, pp. 237, 246; PANI ERMINI 1978, pp. 67-69.
1941; Chronica Sigeberti 1844; SERENI 2001. 16
Cfr. infra ALBERINI.
12
SOMMELLA 1989. 17
QUILICI 1983.
190 FABIO REDI

Fig. 5– San Paolo di Barete:


veduta della tribuna della
chiesa di V-VI secolo.

La nostra indagine, infatti, lasciando a successivi approfondimenti, anche mediante scavi fina-
lizzati, il problema assai variegato delle vicende insediative delle città nel periodo tardoantico e
nel corso dell’alto medioevo, si è appuntata principalmente, con approfondimenti e ricognizioni
sistematiche, alla meno organica indagine sul territorio finora solo parzialmente compiuta da
storici medievali18.
La diffusione del Cristianesimo precocemente, a partire già dal IV-V secolo, conferma l’im-
portanza del territorio e gli stretti legami con Roma.
Del resto, l’elezione per la sepoltura di Flavia Domitilla, figlia dell’imperatore Vespasiano, nella
necropoli di Barete, a soli tre chilometri da Amiternum, conferma quanto detto sulla centralità
della città come incrocio di arterie stradali di primaria importanza.
Anche la traslazione del corpo e del culto del martire Vittorino, istitutore di Domitilla e suo
maestro nella fede cristiana, da Cotilia, residenza della figlia dell’imperatore e luogo del marti-
rio, lungo la via Salaria, nelle catacombe esistenti sulla collina prospiciente Amiternum, rafforza
quanto già affermato19.
Annesso alla sepoltura di Domitilla, il sarcofago della quale è stato trafugato nel secondo quar-
to del secolo scorso, gli scavi da noi condotti recentemente all’interno alla pieve di S. Paolo di
Barete hanno portato alla luce l’impianto murario di una basilica ad aula unica con ampia tribuna
orientata, databile al V-VI secolo per la connessione con sepolture, una delle quali ha restituito
un pettine d’osso analogo a quelli rinvenuti sul Palatino e nella Crypta Balbi20.
Il rinvenimento di strutture pertinenti a ricostruzioni della chiesa in età longobarda, carolingia,
ottoniana, romanica e successive, attesta una continuità di vita dell’edificio con frequente cadenza di
interventi edilizi, quasi con periodicità secolare, e quindi una forte vitalità insediativa e cultuale.
Il rinvenimento di numerosi frammenti dell’arredo liturgico, in particolare dell’VIII-IX secolo,
evidenzia infatti la presenza di una consistente produzione artigianale locale, attestata dall’impie-
go di materiali litici cavati dal territorio, e una circolazione di motivi decorativi e di stilemi che
manifestano rapporti con l’Umbria longobarda in particolare e soluzioni iconografiche proprie
di una più diffusa area culturale “barbarica”21.
In proposito ricordiamo la più nota lastra di recinzione presbiteriale proveniente dalla chiesa
di S. Giustino di Paganica, oggi conservata all’Aquila nel Museo Nazionale d’Abruzzo22, ma più
numerosi sono i frammenti scultorei, presenti anche in città, che sono stati reperiti con il siste-
matico censimento dei frammenti reinseriti in successive costruzioni o rinvenuti durante scavi
archeologici recenti.

18
CLEMENTI 2003. 21
PANI ERMINI 1978; EAD. 1987; GIUNTELLA 1994, p. 246;
19
CLEMENTI 2003, pp. 9-24; REDI c.s.c. REDI c.s.c.
20
Ibid. 22
PANI ERMINI 1978; GIUNTELLA 1994, p. 246; EAD. 1998.
PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE: L’AQUILA E IL TERRITORIO 191

Fig. 6 – San Paolo di Barete: ve-


duta della tribuna della chiesa di
IX secolo.

Questi materiali e l’iscrizione incisa sul retro della lastra di transenna di S. Giustino di Paganica
attestano abbondantemente la presenza sul territorio delle etnie “barbariche”, gotiche, longobarde
e franche, insediatesi dopo la dissoluzione degli assetti perdurati nel periodo tardoantico, quando
ancora basiliche cristiane, come S. Maria nei pressi dell’anfiteatro di Amiternum e S. Maria degli
Angeli presso la porta occidentale delle mura di Peltuinum, ma anche luoghi di culto martiriali,
come le catacombe di S. Vittorino di Amiternum e di Superæquum (attuale Castelvecchio Su-
bequo)23 e la basilica di S. Paolo di Barete, s’inserivano, come in altri casi noti, nel panorama di
decadenza-sopravvivenza delle città.
Abbiamo riscontrato con una certa frequenza anche fenomeni di continuità cultuale dei luoghi,
avendo rinvenuto numerosi esempi di celle o chiese altomedievali e medievali costruite sopra
il podio di templi italici o romani, pur dopo più o meno prolungati periodi di abbandono delle
strutture originarie. Cito ad esempio le chiese di S. Maria della Vittoria a Fontecchio, S. Michele
Arcangelo a Vittorito, S. Marco a Marcianisci (Castel del Monte).
Il caso della pieve di S. Paolo di Barete, indagata integralmente con scavo stratigrafico, pur non
potendo essere assunto come emblematico di un fenomeno diffuso, finché altri scavi archeologici
metodologicamente analoghi non saranno effettuati nel territorio, costituisce tuttavia una spia
eloquente e significativa della continuità di vita di alcune chiese paleocristiane pur attraverso la
prima fase bellicosa dell’occupazione longobarda del territorio.24
Ne è prova l’uccisione di monaci del monastero di S. Lorenzo di Marruci, presso Pizzoli,
fondato da Equizio nel sec. VI, riportata dalle fonti storiche, che confermano implicitamente la
natura sparsa dell’insediamento rurale nel V-VI secolo a fronte di quello accentrato delle città
in dissolvimento e l’esistenza di fondazioni monastiche anteriormente alla fioritura benedettina
del IX secolo.25
Chiese paleocristiane preesistenti vengono quindi restaurate, ricostruite o monumentalizzate,
come le catacombe di S. Vittorino, ma anche nuove costruzioni vengono fondate lungo i per-
corsi della viabilità principale di età romana, restaurata e mantenuta efficiente ben oltre il IV-V
secolo. Ne sono spia i frequenti frammenti di arredo liturgico a bassorilievo, dei secoli VIII-IX,
reimpiegati nelle ricostruzioni romaniche o sporadici in edifici anche successivi.
Certamente nel periodo longobardo si assiste a una trasformazione della configurazione delle
aree gravitazionali dell’insediamento, come attesta la presenza ancora oggi di toponimi di origine
longobarda con significato militare (Arringo), insediativo (Sala), agronomico (Cafaio, Cafasse,
Gualdo)26.

23
PANI ERMINI 1975; EAD. 1979; EAD. 1987; GIUNTELLA et 25
PANI ERMINI 1980; EAD. 1983; EAD. 1987; SALADINO 2000;
al. 1991; EAD. 2002. CLEMENTI 2003, pp. 33-57.
24
PANI ERMINI 1983; EAD. 1987; GIUNTELLA 2003; SERENI 26
ZENODOCCHIO 1989; CLEMENTI 2003, pp. 12-24; 33-
2001; STAFFA 1992. 40.
192 FABIO REDI

Fig. 7 – San Paolo di Barete: (sopra) frammento


scultoreo di VIII-IX secolo, simile ad una lastra
rinvenuta nella chiesa di S. Giusta di Bazzano
(immagine di sinistra).

Fig. 8 – La chiesa di S. Maria della Vittoria presso Fig. 9 – La chiesa di S. Michele Arcangelo a Vittorio
Fontecchio sorge sul podio di un tempio italico- e le preesistenze italico-romane.
romano (da C ONSOLE , M ARSILI C. 1995 Fontec-
chio nel Parco Nazionale Regionale Sirente-Velino,
L’Aquila, p. 24).

Fig. 10 – La cripta altomedie-


vale della chiesa di S. Lorenzo
di Marruci.
PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE: L’AQUILA E IL TERRITORIO 193

Riscontriamo anche la presenza di insediamenti sparsi, a piccoli nuclei, che conservano il


toponimo “pagus”, e “villae” che si aggregano attorno a complessi ecclesiastici o produttivi.
Il periodo franco vede un’intensificazione della presenza farfense e un incremento demografico
connesso con la colonizzazione agraria di vaste estensioni della conca aquilana, che comporta
un ulteriore mutamento della facies insediativa antica. Assistiamo, infatti, al trasferimento dei
nuclei demici dal fondovalle alle pendici pedemontane in funzione dell’intensificazione dello
sfruttamento dei terreni agricoli di pianura.
I nuclei demici si coagulano ulteriormente attorno ad antichi poli a carattere paganico-vicano
che, per la permanenza delle motivazioni originarie legate alla viabilità e alle attività produttive,
continuano a svolgere un’azione centripeta. Pagi, vici, villae, santuari riattivano flussi di concen-
trazione demica come le curtes legate a Farfa che vanno a occupare posizioni strategiche rispetto
all’economia agro-silvo-pastorale e alla viabilità maggiore e minore che consente una più capillare
e intensa penetrazione nelle maglie del tessuto produttivo agrario e nei circuiti di ampio raggio
per il trasporto e la commercializzazione dei prodotti agro-pastorali.27
Anche le fondazioni ecclesiastiche sembrano rispondere a esigenze strategiche di posizionamento
capillare rispetto al tessuto agricolo e alla viabilità.
Generalmente le chiese si collocano in aree periferiche rispetto agli abitati, rivolte verso la
campagna, lungo assi stradali o agli incroci, mentre le pievi, cioè le chiese battesimali, sono co-
struite all’esterno degli insediamenti, distanziate da essi.
La consistenza dell’arredo liturgico rivela, in assenza di strutture materiali pervenuteci, lo slan-
cio costruttivo e qualitativo delle chiese di nuova costruzione o l’impulso dato al rinnovamento
e all’arricchimento, oltre che alla monumentalizzazione, degli edifici esistenti.28
Il caso analizzato di S. Paolo di Barete è assai eloquente e significativo, come la quasi coeva
monumentalizzazione della tomba di S. Vittorino.29
Non è casuale che una cella di Farfa venga istituita nello stesso periodo ad Amiternum.30
Se investimenti erano rivolti alle chiese, anche le opere pubbliche o di utilità collettiva non
sembrano trascurate.
Infatti, a partire dal sec. IX troviamo attestazioni delle opere di difesa approntate in seguito
alle incursioni saracene e ungare che in successione interessarono il territorio apportando razie
e devastazioni.31 Quasi un vero e proprio sistema difensivo è possibile riconoscere dalle rico-
gnizioni di superficie a Monte Mozzano, Castello Paganica, Mons Aureus (loc. Torretta presso
Preturo) e probabilmente a Monte Castelvecchio sopra Pettino.
Le prime due fortificazioni, a breve distanza fra loro, una in quota (Monte Mozzano, m
1403) l’altra ai suoi piedi (Castello Paganica, m 885), controllavano l’alta Valle dell’Aterno e il
percorso che da Teramo, prima di attraversare il valico delle Capannelle, seguiva la vallata delle
Cafasse nell’altopiano di Aielli, in direzione SE-NO, e scendeva verso Capitignano e Montereale
fino alla confluenza, in riva sinistra, con l’Aterno.
Le altre due fortificazioni controllavano la conca amiternina incombendo, una a bassa quota
su Preturo (Mons Aureus, m 785), l’altra ad alta quota su Pettino, dalla dorsale che separa la
conca aquilana da una vallata in quota, parallela in direzione SE-NO (Monte Castelvecchio,
m 1087).
Non ci deve stupire eccessivamente, quindi, lo stato di rovina e di abbandono delle città
che, forse troppo enfaticamente, segnalano Deoderico, vescovo di Metz, nel 970 ed Echeberto,
vescovo di Treviri, in occasione dei viaggi nel territorio.32
Amiterninae urbis, quae et ipsa ruinas tantum ostendit riferisce Deoderico, al seguito di
Ottone I, in cerca di reliquie per il sovrano.
Ma lo spettacolo desolante che registravano i due illustri viaggiatori si riferiva in particolare
alle sole città, poiché i villaggi e i poli di aggregazione rurali non versavano in cattive condizioni,
salvo forse quelli colpiti dalle incursioni saracene e ungare.

27
PANI ERMINI 1980; EAD. 1983; CLEMENTI 1993b, pp. 71- 2003, pp. 79-120.
79; ID. 2003, pp. 79-120. 31
CLEMENTI 1993a, pp. 121-150; ID. 1996b.
28
PANI ERMINI 1978; GIUNTELLA 1994, p. 246; EAD 1998. 32
Vita Deoderici 1841; Cronica Sigeberti 1844; Gesta
29
PANI ERMINI 1975; EAD. 1979; GIUNTELLA 2002. Treverorum 1848.
30
PANI ERMINI 1980; EAD. 1983; SALADINO 2000; CLEMENTI
194 FABIO REDI

Il caso esplorato archeologicamente della chiesa di S. Paolo di Barete che viene ricostruita
quasi e fundamentis nel X-XI secolo, forse proprio a seguito di una delle incursioni devastanti
ora dette, non va interpretato come eccezionale, ma molto probabilmente, in attesa che altri
scavi sistematici confortino o non questa lettura, come fenomeno abbastanza diffuso che atte-
sta una certa vitalità costruttiva negli insediamenti rurali anche dopo le incursioni saracene e
ungare, in pieno periodo ottoniano o preromanico.33
Anche le vicine chiese di S. Mauro a S. Eusanio di Barete e di S. Giacinto a Cavallai e altre
del territorio sembrano vivere in questo periodo una stagione di restauri o di ricostruzioni.
Esempio di proporzioni notevoli è costituito dalla abbazia fortificata di S. Eusanio a S. Eu-
sanio Forconese, a tre navate triabsidate, con cripta ad oratorio.
Un capitolo a parte richiederebbe l’intervento normanno della metà del sec. XII e successivo,
quando il territorio aquilano viene accorpato con il Meridione normanno e viene ristabilita
la pratica della transumanza sancendola con l’assise De animalibus in pascuis affidandis, di
Guglielmo II, del 1172.34
Antichi percorsi vengono ripristinati o semplicemente adattati al passaggio delle greggi, con
carreggiate erbose estese in larghezza anche oltre 100 m, e con una fitta rete di chiese tratturali
e infrastrutture di sosta, di ricovero, di transito.
In questo periodo le fonti scritte e quelle materiali attestano una massiccia ristrutturazione
della facies insediativa e in particolare difensiva con la creazione di opere collettive di inqua-
dramento e di organizzazione territoriale che rientrano nel diffuso fenomeno dell’incastella-
mento.35
L’intervento normanno crea una rete di punti strategici di addensamento demico e di orga-
nizzazione territoriale che in larga misura sono giunti fino a noi e che caratterizzano ancora il
quadro insediativo e il paesaggio attuali.36
Una fonte documentaria fondamentale, che ne elenca per motivi prestazionali militari
toponimo e importanza, è costituita dal Catalogus Baronum.37
La fiera opposizione dei vassalli normanni al nuovo sovrano svevo fu repressa duramente da
Federico II nel 1228.38
La donatio comportò, fra l’altro, una modifica del rapporto del sovrano con il territorio, che
venne amministrato attraverso una corte regionale da tenere due volte l’anno a Sulmona dal
1234.39
Una centralizzazione siffatta modificò di conseguenza anche gli assetti territoriali e le forme di
organizzazione delle difese castellane lasciando tracce nelle loro strutture difensive.40

LA CITTÀ
Nell’annoso dibattito sulla fondazione della città dell’Aquila, sulle eventuali preesistenze e sulle
motivazioni della scelta del sito, oltre alle testimonianze contenute in documenti d’archivio del
1193 e del 122941, e alla presenza di reperti sporadici o di strutture di età romana, fondamentale
è l’apporto di conoscenza offerto dallo scavo che abbiamo effettuato nell’area dell’ex monastero
di S. Basilio nel corso del 2003.42
È nota l’esistenza di un insediamento attestato attorno alla chiesa di S. Maria de Acquili, o de
Acculis, fin dal 1193, nell’area dell’attuale monastero di S. Chiara, incombente sulla Rivera, cioè
sulla Fontana delle 99 cannelle, che avrebbe dato origine al nome della città, dall’abbondanza di
scaturigini idriche piuttosto che dal rapace divenuto simbolo imperiale.43
Le due lettere di Gregorio IX, indirizzate al vescovo di Forcona e alle popolazioni di Amiterno
e di Forcona, rispettivamente il 27 luglio e il 7 settembre 1229, facendo riferimento al luogo
Acculi o Acculae e al preesistente insediamento che faceva riferimento alla chiesa di S. Maria fin
dal 119344, possono essere considerate probative soltanto dell’esistenza di un modesto nucleo

33
CLEMENTI 2003, pp. 121-168. 39
Ibid.
34
CLEMENTI 2003, pp. 169-177; 199-214. 40
CLEMENTI 2003, pp. 226-251.
35
CLEMENTI 1993a, pp. 121-150; ID. 1996b. 41
CLEMENTI, PIRODDI 1988, pp. 15-18; 23-25.
36
Abruzzo dei Castelli 1993; Atlante dei castelli 2002. 42
REDI 2004; ID. c.s.a.; ID. c.s.b.
37
JAMISON 1972; CUOZZO 1984. 43
CLEMENTI, PIRODDI 1988, pp. 23-24.
38
CLEMENTI 2003, pp. 194-198. 44
Ibid., pp. 17-18; REDI c.s.d.
PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE: L’AQUILA E IL TERRITORIO 195

Fig. 11 – Il mausoleo nelle catacombe di S. Vittorino


di Amiternum (da PANI ERMINI 1979, fig. 2).

Fig. 12 – La chiesa di S. Mauro a S. Eusanio di Barete.


Qui sotto un frammento scultoreo reimpiegato nelle sue
strutture absidali (immagine in basso a sinistra).

insediativo, di tipo rurale o semirurale, anche data la posizione topografica non preminente, bensì
di pendio. L’idea della nuova città e la scelta del sito da parte delle popolazioni dei contadi di
Forcona e di Amiterno traspaiono però già distintamente dalle due lettere pontificie nelle quali
possiamo leggere già l’idea della nuova città e la scelta del sito.45
Possiamo essere certi tuttavia, che ancora prima, già dalla metà dell’XI secolo, come ha con-
fermato il rinvenimento da noi effettuato nell’area di S. Basilio, il colle su cui nel 1254 venne
fondata L’Aquila era interessato da nuclei insediativi.
45
CLEMENTI 1996a; ID. 2003, pp. 253-265.
196 FABIO REDI

Fig. 13 – La chiesa dei SS. Giacinto e Proto a Cavallari.

Fig. 14 – (Sotto) Il castello normanno-svevo di Barete.

Una chiesa a semplice aula rettangolare con annesso cimitero, datata all’XI secolo dai reperti
ceramici di pettinata a stuoia e vetrina sparsa rinvenuti nelle stratigrafie pertinenti alle strutture
della chiesa e alle tombe46, arricchisce di altre presenze, ma dalla parte opposta del colle rispetto
ad Acculi, il panorama insediativo attestato dal documento del 1193, che è nostra intenzione
verificare archeologicamente tra breve. Un insediamento forse ben più articolato delle due
attestazioni archivistica e archeologica attualmente in nostro possesso occupava il sito dell’Aquila
già attorno alla metà del sec. XI.
I due poli insediativi di Acculi e di S. Basilio, che finora costituiscono le uniche attestazioni
di chiese e di nuclei abitativi nell’area successivamente occupata dalla città, rappresentano con
buone probabilità una fievole testimonianza tardiva della memoria di un ben più consistente inse-
46
PANTALEO 2004, pp. 210-227.
PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE: L’AQUILA E IL TERRITORIO 197

Fig. 15 – Il castello normanno-svevo


di S. Pio delle Camere (da Abruzzo
dei Castelli, Pescara, 1988, p. 191,
fig. 141).

diamento italico-romano attestato finora soltanto dai ruderi di due consistenti strutture murarie
di superficie e da reperti mobiliari sporadici.
Mi riferisco al cosiddetto Torrione, struttura muraria di pietre e mattoni alta ben 16 metri,
ancora esistente all’estremità orientale della città e riferibile a una tomba monumentale “a torre”
del II sec. d.C.47, e al segmento di mura megalitiche sul quale s’imposta la trecentesca cinta urbana,
dalla parte opposta della città, di fianco alla Stazione Ferroviaria.48
Recentemente la Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo ha evidenziato, in aderenza con le
strutture murarie ora dette, contesti di tegole e ceramica di età imperiale in giacitura primaria.49
Analogamente gli scavi da noi condotti nel 2002-2004 all’interno del monastero di S. Domenico,
in un contesto del XVIII secolo, hanno restituito un ingombrante rocchio di colonna di età ro-
mana, con ogni probabilità non proveniente da lontano bensì da ambito urbano.50
Come interpretare, al contrario, il riutilizzo di reperti scultorei altomedievali, sia pure di pez-
zatura, e quindi di ingombro e di peso, minori di quelli di epoca romana ora detti, nelle murature
di alcune chiese cittadine, come S. Marco?
Se non possiamo escludere la provenienza di questi reperti dalle località di origine delle co-
munità affiliate alla chiesa cittadina, con un evidente significato di nobilitazione del Locale di
appartenenza e di rivendicazione di un’antichità distintiva rispetto ad altri, escludendo il mero
recupero strumentale ingiustificato per il rapporto massa muraria-distanza, non possiamo escludere
il reperimento del manufatto in loco. In questo caso, trattandosi di manufatti risalenti all’VIII-IX

47
ORSETTI 1992, p. 506. della Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo non mi ri-
48
CLEMENTI, PIRODDI 1988, p. 5 fig. 4; MARTELLA, MEDIN sulta ancora edito. Ringrazio la dott.ssa Tuteri per la cortese
1997, pp. 51-94; ORSATTI 1992, p. 506. segnalazione.
49
Il ritrovamento effettuato dalla dott.ssa Rosanna Tuteri, 50
REDI c.s.a.; ID. c.s.b.
198 FABIO REDI

Fig. 16 – Pianta degli scavi della chiesa di XI secolo all’interno dell’ex monastero di S. Basilio in L’Aquila.

secolo, saremmo di fronte a testimonianze di edifici ecclesiastici dello stesso periodo insistenti
nell’area successivamente occupata dalla città.
Il che non ci deve stupire eccessivamente. La nostra ricerca in ambito urbano, oltre alla
collocazione in pianta dei dati archeologici o toponomastici e archivistici ora detti, consiste
PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE: L’AQUILA E IL TERRITORIO 199

Fig. 17 – Le mura italico-romane in piazza della Stazione Ferroviaria a L’Aquila.

Fig. 19 – Lastra a bassorilievo, di VIII-IX secolo, nella


facciata della chiesa di S. Marco a L’Aquila.

Fig. 18 – Il “torrione” romano a L’Aquila.

principalmente nella elaborazione di carte diacroniche derivanti dalle relazioni stratigrafiche di


cronologia relativa dei diversi nuclei edilizi o corpi di fabbrica medievali da noi censiti, potenziate
da indicatori di cronologia assoluta derivanti dalle attestazioni documentarie della costruzione
delle chiese cittadine e dall’atlante delle tecniche murarie strutturato sui paramenti murari degli
edifici a cronologia assoluta nota e sulla cronotipologia degli elementi architettonici.51

51
Per una prima esposizione cfr. REDI 2003.
200 FABIO REDI

Fig. 20 – Veduta della città dell’Aquila con le chiese esistenti alla fine del XIII secolo e gli spazi ancora
non edificati nel XVI-XVII secolo (da Fonticulano, incisa da G. Lauro, 1600, in CLEMENTI, PIRODDI 1988,
p. 98, fig. 75).

Da questa ricerca, per la quale sono state assegnate e discusse alcune tesi di laurea, conseguono,
in sintesi, nuove acquisizioni sulla dinamica dell’occupazione degli spazi cittadini e dell’edifica-
zione dilazionata delle abitazioni di pietra.
Precisiamo questo dato materiale – la pietra – perché, in assenza di verifiche archeologiche,
non possiamo escludere che una prima fase di occupazione degli spazi e costruttiva abbia potuto
privilegiare strutture di legno attualmente non a vista o murature povere, eventualmente di terra,
sostituite successivamente, anche a seguito dei numerosi terremoti che hanno colpito la città.52
Un dato in proposito che emerge già chiaramente è costituito dalla funzione centripeta dell’in-
sediamento svolta dalla piazza del Mercato, sulla quale si affaccia la Cattedrale dei S.S. Massimo
e Giorgio e attorno alla quale gravita la più antica edilizia civile di pietra.53
L’assenza di questa in alcuni Locali, confermata da un confronto con la cartografia storica
raffigurante la città, evidenzia come il territorio urbano non venne occupato ed edificato conte-
stualmente alle delibere di urbanizzazione, bensì come alcuni popoli del contado furono più restii
di altri a lasciare i castelli di origine e insediarsi in città, o come addirittura alcuni Locali vennero
urbanizzati assai tardivamente o mai, nonostante che, almeno dalla fine del XIII secolo, tutte le
chiese di Quarto e di Locale praticamente fossero state costruite.54
L’azione di promozione e di traino dell’insediamento affidata alle fondazioni ecclesiastiche,
nei casi ora detti non era stata sufficientemente motivata ed efficace, e perfino dove abbiamo
rinvenuto tracce dell’edilizia civile medievale più antica, di maggiore o minore consistenza, esse

52
GUIDOBONI 1989, pp. 580-621. 54
VITTORINI 1996, pp. 42-43; ANTONINI 1999, pp. 11-29;
53
REDI c.s.d. ID. 2004, pp. 15-25.
PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE: L’AQUILA E IL TERRITORIO 201

non risalgono anteriormente all’ultimo quarto del secolo XIII, vale a dire rappresentano uno
scarto di almeno un quarto di secolo rispetto alla costruzione delle chiese del Quarto e del Locale
di appartenenza.
In conclusione, le nostre indagini di superficie in città sono quasi concluse e prossime a un’ela-
borazione complessiva dei dati registrati, che potrà sfociare in una sintesi interpretativa ancora
mancante in particolare riguardo all’edilizia civile e difensiva. Più arretrate, invece, sono ancora
le ricerche archeologiche mirate alla soluzione dei più specifici problemi relativi alle preesistenze
insediative e alle fasi edilizie delle principali chiese cittadine.

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Per una topografia medievale dell’alta valle dell’Aterno

FLAMINIA ALBERINI

1. INTRODUZIONE
Il territorio considerato in questa ricerca, situato lungo l’alto corso del fiume Aterno nell’area
nord-occidentale dell’Abruzzo, è stato oggetto di un’indagine svolta nell’ambito di una tesi di
dottorato1 che consente di proporre, relativamente a questa area, interpretazioni sufficientemente
motivate e affidabili. Lo studio del territorio ha preso in considerazione le tipologie insediative
e la maglia occupazionale del periodo tardoantico e altomedievale, evidenziando gli aspetti di
continuità, di trasformazione o di nuova acquisizione di aree adibite, in precedenza, ad altre
funzioni, e individuando le nuove modalità di gestione. La ricognizione sul territorio è stata
preceduta sia da un ampio spoglio della documentazione archeologica ed epigrafica e delle fonti
storiche e archivistiche altomedievali, sia dallo studio della cartografia con la quale, attraverso il
riconoscimento dei toponimi e la lettura della morfologia del territorio, sono state individuate
aree caratterizzate da evidenti tracce di occupazioni e di interventi umani. L’indagine territoriale
sistematica ha comportato sopralluoghi estesi ad ampio raggio e ha interessato la valle dell’Aterno
nel suo alto corso, fino a una quota di circa 1000 m s.l.m., il vasto Altopiano di Aielli a Nord, a
circa 1200 metri di quota, e alcuni rilievi montuosi situati a un’altitudine di 1500-1600 m s.l.m.,
e la Conca di Amiternum.

2. IL QUADRO TERRITORIALE
L’alta Valle dell’Aterno è localizzata in una regione segnata dalla presenza predominante dei
massicci montuosi che la racchiudono: il sistema Gran Sasso (2912 m s.l.m.)-Monti della Laga
(2458 m s.l.m.), a nord, costituisce il maggiore ostacolo alle comunicazioni, sia con il bacino
teramano, sia con il territorio reatino sabino: qui, presso Aringo, l’Aterno ha le sue sorgenti e
ha dato origine alla valle omonima attraverso una progressiva millenaria erosione dei massicci
montuosi; a sud-ovest l’allineamento Monte Gabbia (1502 m s.l.m.)-Monte Giano (1826 m
s.l.m.) rappresenta il confine naturale con il territorio di Antrodoco, sebbene una serie di valichi
attraverso alte e strette conche lungo il corso del torrente Colonnelle metta in comunicazione
le aree abruzzesi con quelle laziali. Infine, a sud, la barriera del Velino-Sirente (2486 m s.l.m.)
costituisce il limite con il territorio Cicolano, con il Fucino e l’area marsicana. Il confine orientale
dell’area considerata è molto più sfumato, sviluppandosi lungo il corso dell’Aterno attraverso
conche e valli separate da colline e terrazzi montuosi non particolarmente elevati. L’orografia
ha condizionato profondamente la regione obbligandone non soltanto le scelte insediative e gli
assi di percorrenza, ma anche l’impostazione economica, l’articolazione sociale e le modalità co-
struttive, per le formazioni rocciose impiegate nell’edilizia, la gestione delle risorse boschive, lo
sfruttamento delle limitate aree pianeggianti. Infatti quelle poste ad alte quote, come gli “Altopiani
di Aielli” (1200 m s.l.m.), i “Prati di Foce” (circa 800 m s.l.m.), “I Pozzi” (circa 950 m s.l.m.)
e l’altopiano di Roio (circa 800 m s.l.m.), hanno consentito, ancora fino ad alcuni decenni fa,
uno sfruttamento agricolo stagionale capace di garantire un’integrazione importante nell’ambito
delle risorse produttive: lo attesta la toponomastica con i suoi chiari riferimenti ai prediali, e la
documentazione archivistica, essenzialmente farfense, che ricorda atti di varia natura relativi ad
alcuni poderi e ai prodotti da questi ricavati.

1
La tesi di dottorato, dal titolo “Gli insediamenti nel ter- condotta nel corso del XVIII ciclo, nell’ambito della cattedra
ritorio amiternino in età tardoantica e altomedievale”, è stata di Archeologia Medievale dell’Università dell’Aquila.
204 FLAMINIA ALBERINI

3. IL CONTESTO STORICO
Il territorio amiternino ha sempre costituito parte integrante di un contesto geografico unita-
rio gravitante nell’area montuosa dell’Appennino Centrale, condividendone lo sviluppo storico
attraverso le diverse configurazioni politiche. Le fonti antiche ricordano la conquista militare di
M. Curio Dentato nel 290 a.C.2, l’istituzione della praefectura di Amiternum, il suo inserimento,
in età augustea, nella IV Regio3, le diverse configurazioni nell’ordinamento amministrativo nel
corso del IV, V e del VI secolo4, fino alla conquista longobarda nel periodo compreso tra gli anni
591 e 598, al progressivo insediamento dei Longobardi e all’inserimento dell’Amiternino nel
Ducato di Spoleto5. In seguito, con la vittoria di Carlo Magno sui Longobardi, anche il ducato
di Spoleto fu inglobato nel regno franco e nell’843, con la fondazione della Contea dei Marsi, il
territorio fu strutturato in sette gastaldati, quelli di Rieti, di Amiterno, di Forcona, della Marsica,
di Valva, di Penne e di Chieti, preesistenti all’organizzazione franca, ma investititi di un nuovo
ruolo amministrativo. Alle prime operazioni di conquista ad opera dei Normanni, condotte tra
il 1067 e il 1077, seguirono le vere e proprie campagne militari di Ruggero II che, nel 1140,
aggiunse ai territori conquistati il comitato di Apruzzo e nel 1143 inglobò nel Regno anche il
comitato dei Marsi attraverso una serie di soluzioni pacifiche6.

4. L’OCCUPAZIONE DEL TERRITORIO


L’analisi diacronica delle tipologie insediative, della rete viaria e della utilizzazione del ter-
ritorio amiternino dall’età preistorica a quella altomedievale, ha permesso di rivalutare la fase
preromana della storia della Valle di Amiternum che ha rappresentato la matrice del modello
insediativo paganico-vicano, funzionale allo sfruttamento delle risorse naturali della regione. La
classe dirigente romana, dopo la conquista, comprese l’importanza nevralgica della valle amiter-
nina, situata, nel cuore dell’Appennino Centrale, tra il mondo tirrenico etrusco-laziale e il mondo
adriatico di cultura sannita ma segnato dagli influssi ellenici: la valle rappresentava il punto di
passaggio più breve da Roma verso est attraverso la via Salaria e la via dell’Aterno fino al mare.
La romanizzazione stravolse il sistema paganico-vicano, con l’introduzione di una cultura urbana
e di uno sfruttamento territoriale diverso: lo sviluppo di una rete viaria concepita razionalmente,
come valorizzazione di antichi tracciati, e l’attuazione della centuriazione su tutto il territorio della
valle, consentirono di ottimizzare al massimo le risorse boschive e pastorali, agricole e produttive7.
I principali assi viari erano costituiti dalla Via Calatina8 che collegava Amiternum ad Interocrium,
attuale Antrodoco, innestandosi nella Salaria, mentre un’altra diramazione da questa arteria,
posta tra Montereale ed Amatrice e diretta ad Amiternum, era costituita dalla cosiddetta “Via
dell’Aterno”, documentata dalla presenza di un miliario rinvenuto in una località situata lungo
il fiume, da tratti di un basolato presso Montereale9, e dall’esistenza di un consistente nucleo di
emergenze architettoniche, funerarie e insediative dislocate sui terrazzi collinari e nel fondoval-
le10. Tappa obbligata del lungo percorso della Caecilia tra Roma e Interamnia Praetuttiorum11,
Amiternum era direttamente collegata al settore orientale della conca omonima da un tracciato
secondario diretto a Pitinum12, nell’area dell’attuale Pettino, nel cui sparso nucleo insediativo
era posta una mansio: qui convergeva anche la Via Claudia Nova che da Foruli si innestava nella
Claudia Valeria in corrispondenza di ad confluentes Aternum et Tirinum13, corrispondente al
centro di Bussi sul Tirino.

2
FORNI 1953, p. 193. nio, e per il tratto di basolato vd. SEGENNI 1985, pp. 109, 246.
3
Plin. N. H., III, 106-107; THOMSEN 1947, pp. 103 e ss.; 10
Per la ricostruzione del tracciato viario CIL IX, 5957,
DE MARTINO 1975, pp. 245 e ss. SEGENNI 1985, pp. 109, 235, 246; l’individuazione dei siti
4
THOMSEN 1947, pp. 217 e ss.; PAIS 1923, pp. 74, 277; archeologici è stata possibile, oltre a SEGENNI 1985, pp. 234-
CLEMENTE 1968, pp. 439 e ss.; ID., 1969, pp. 173-184. 246, con la ricerca condotta dalla sottoscritta nell’ambito della
5
FLORIDI 1976, p. 23; PELLEGRINI 1990, pp. 232-233; propria tesi di Dottorato.
STAFFA 1994, p. 187. 11
Per gli aspetti relativi alla identificazione e alle carat-
6
FLORIDI 1976, pp. 19-33. teristiche del tracciato SEGENNI 1985, pp. 107 e MIGLIARIO
7
Un ampio studio sulla romanizzazione di questi territori 1995, pp. 85, 106.
è stato condotto da GABBA 1975, pp. 81 e ss. e poi da SEGENNI 12
MARINANGELI 1960, p. 364, n. 174; SEGENNI 1985, p.
1985, pp. 75-96. 218; la ricerca presente ha permesso l’individuazione di un
8
Per gli aspetti relativi alla identificazione e alle caratte- tratto viario in località Capo Croce.
ristiche del tracciato SEGENNI 1985, pp. 104-110 e MIGLIARIO 13
Per gli aspetti relativi alla identificazione e alle carat-
1995, pp. 87-90. teristiche del tracciato SEGENNI 1985, pp. 105-111, 183 e
9
Per il miliario, rinvenuto presso Barete in località S. Eusa- MIGLIARIO 1995, pp. 108-110.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTA VALLE DELL’ATERNO 205

La valorizzazione delle risorse naturali apportò ricchezza e benessere ad Amiternum che divenne
un centro vivace anche culturalmente, come attestano le evidenze monumentali. Le emergenze
architettoniche dislocate nel suo comprensorio, inoltre, provano il continuo dialogo tra centro
e periferia e la diffusione di modelli artistici e architettonici elaborati nella capitale e comuni a
tutte le città della penisola14.

L’età tardoantica
Contemporaneamente al modificarsi delle strutture amministrative dello Stato romano si
verificò, nel corso del IV secolo d. C., una evoluzione nelle forme insediative e architettoniche
che risentì anche della distruzione traumatica provocata dal violento sisma del 346. Alla fitta
occupazione delle aree pianeggianti del periodo precedente si sostituì la concentrazione demica
in alcuni insediamenti e l’impianto di altri attestati prevalentemente sulle dorsali o sui terrazzi
collinari oppure in pianura lungo le principali vie di comunicazione: considerando le aree prossime
al centro urbano si rileva la persistenza insediativa di un sito posto tra Amiternum e gli altopiani
di Cascina e caratterizzato da un infittirsi delle attestazioni per il periodo compreso tra il III e la
fine del VI-inizi del VII secolo (loc. Le Vicende, presso Pozza di Preturo, n. A35), mentre nell’im-
mediata periferia sud-orientale della città (loc. Colonnella, non lontano dall’area dell’anfiteatro di
Amiternum, n. A36) l’abbondanza dei reperti archeologici individuati fa ipotizzare l’ampliamento
di una struttura produttiva e lo sviluppo di una vera e propria villa tardoantica con le sue valenze
di polo aggregativo oltre che produttivo. Gli insediamenti prossimi a Preturo in parte perdurano
fino al VII, come sembra attestare la documentazione archeologica (loc. Vaìno, n. A42 e Verzie-
ri15, n. A40, rispettivamente alla periferia nord e sud di Preturo), in parte scompaiono: a questa
fase probabilmente risale anche l’accentrarsi delle proprietà nel centro di Preturo, nell’ambito
di un complesso produttivo che nel toponimo rivela il suo sviluppo edilizio ed economico (n.
A32)16. Sulla dorsale collinare parallela a sud all’Aterno sembra di assistere, addirittura, a due
nuovi impianti demici, per i quali i dati archeologici documentano una vitalità tra il V e il VII
secolo (loc. Prato Iagone, n. A37, e Pratiglio, n. A60 nell’area a sud-est di Amiternum): in questa
zona si verifica anche l’abbandono di una delle due ville individuate nell’area della Scuola della
Guardia di Finanza (n. A63)17, mentre sulla riva opposta dell’Aterno (loc. Acquadoria, n. A44) le
testimonianze materiali rimandano ad una occupazione dall’età tardo-repubblicana agli inizi del
VII secolo. Nell’area orientale della valle la mansio di Pitinum, accresce ulteriormente il suo ruolo
centripeto, come attesta l’estendersi di aree sepolcrali limitrofe databili tra il V e il VII secolo18,
localizzate in un zona destinata, già nei secoli precedenti, ad uso funerario, e caratterizzate dal
reimpiego di epigrafi sepolcrali più antiche: la presenza di un contesto archeologico indagato
recentemente e di prossima pubblicazione19 fornisce ulteriori dati sulla base dei quali diventa
possibile l’ipotesi della fondazione di una diocesi, attestata per il 499, come nuovo complesso
cultuale cristiano. Sulle alture che dominano a nord-est la valle (loc. Monte Castelvecchio, n. A71)
l’apparire di una fitta documentazione materiale sembra coincidere con la scomparsa del contesto
insediativo sparso di S. Sisto (n. A70), situato a valle e riferibile ad età romana20: l’occupazione
14
Per quanto riguarda lo sviluppo architettonico e urbani- dell’Aquila con la collaborazione scientifica della Soprinten-
stico di Amiternum vd. SEGENNI 1985, pp. 119-163; l’indagine denza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo.
condotta nel territorio amiternino dalla scrivente nell’ambito 20
La destinazione funeraria di questa area in epoca romana
della tesi di Dottorato ha permesso di approfondire e com- è attestata sia dal rinvenimento di sepolture a cappuccina e a
pletare l’ampia rassegna bibliografica fornita da SEGENNI 1985, cassone nei terreni limitrofi alla chiesa di S. Sisto (PERSICHETTI
pp. 164-246. 1895, pp. 397 e ss.; SEGENNI 1985, pp. 220-221), sia dall’in-
15
I siti hanno restituito materiale fittile che attestano una serimento di una lastra di chiusura tombale recante la rappre-
continuità di vita dal II al VII secolo d.C. per Verzieri e dal I sentazione di una porta e due battenti, evocante la porta Ditis
a.C. al IX-X d.C. per Vaìno. e confrontabile con altri esemplari analoghi rinvenuti a Preturo
16
MIGLIARIO 1995, p. 164. e nella Marsica in contesti databili tra la fine del I secolo a.
17
L’indagine archeologica, condotta dalla Soprinten- C. e il I d. C.(vd. LETTA, 1975, pp. 267-273). Il reimpiego
denza per i Beni Archeologici sotto la direzione della dott. nello stesso edificio ecclesiastico di blocchi calcarei squadrati
ssa R. Tuteri, è tuttora in fase di studio e sarà di prossima pertinenti ad architravi, soglie ed altri elementi architettonici,
pubblicazione. documenta l’esistenza di strutture forse riferibili a complessi
18
I rinvenimenti sono localizzati nelle località Capo Croce abitativi antichi e sembra riconducibile ad una fase nella quale
(n. A66) e Vetoio (n. A67). Per il ricorrere di tale specifica era possibile fruire di materiale lapideo a portata di mano e le
tipologia funeraria nell’Italia centrale e in Abruzzo, PAROLI strutture spogliate doveva essere ancora in elevato: in parti-
1997, p. 98; STAFFA 1997, pp. 144-145. colare il riutilizzo di blocchi calcarei da tombe o monumenti
19
L’intervento, effettuato nel 1999 in località Vetoio (n. funerari è piuttosto frequente nel periodo compreso tra la
A67), in occasione dei lavori relativi alla realizzazione dell’asse fine del V e il VII secolo d. C. (vd. PAROLI 1997, p. 98; STAFFA
L’Aquila-Ospedale Regionale, è stato condotto dal Comune 1997, pp. 144-145).
206 FLAMINIA ALBERINI

dell’altura sembra assumere i caratteri di uno stanziamento stabile di carattere civile con funzio-
ni produttive in forme sia stagionali costanti nel tempo, sia definitive, per le ampie possibilità
di sfruttamento agricolo offerte dall’esteso altopiano su cui si affaccia il sito. Lo suggerisce la
presenza di una lunga struttura muraria, ancora inedita, forse un limite di proprietà, e di un asse
viario pedemontano che lo attraversa collegandolo, ad ovest, con la via Caecilia e, quindi, con
il polo urbano di Amiternum, e ad est con i percorsi montani collegati con il Gran Sasso in cui
intense erano le attività pastorali. Nel settore meridionale della conca, a nord della Via Claudia
Nova, perdurano gli insediamenti già esistenti in età imperiale con un aumento delle attestazioni
relative ad attività produttive e a contesti abitativi per il periodo compreso tra il V e il VII secolo
(in loc. Piano di Sassa, a nord della frazione di Sassa, n. A49, e presso il cimitero di Palombaia di
Sassa, n. A51), mentre, contemporaneamente, si sviluppa un nuovo nucleo demico, inquadrabile
cronologicamente dal V al VII secolo (a nord di Palombaia, n. A50), forse per lo spostamento
a valle dei precedenti stanziamenti sui dossi collinari retrostanti. Così se nell’area centrale della
Conca di Amiternum sembra allentarsi la maglia insediativa, lungo l’asse della Claudia Nova
si costituiscono nuovi poli aggregativi. In effetti gli interventi di restauro di questo tracciato
nel corso del IV secolo21 attestano da un lato il riconoscimento implicito, da parte dell’autorità
imperiale, del ruolo nevralgico rivestito dalla fascia territoriale interessata dall’attraversamento
della via stessa, dall’altro il dissesto in atto in questo ambito territoriale, forse connesso con
un accentuarsi dello squilibrio idrogeologico e della fragilità della zona. Risalendo il corso del-
l’Aterno la documentazione archeologica sembra rarefarsi per il periodo tardoantico sebbene le
fonti storiche relative alle prime scorrerie longobarde nell’amiternino ricordino l’esistenza di un
monastero e del vicino oratorio di S. Lorenzo, nella omonima frazione di Pizzoli (n. A29), evi-
dentemente preesistente e in pieno funzionamento nell’ambito di un sistema insediativo sparso22.
E così nella limitrofa area di Barete, se la vitalità del polo aggregativo Colli-S. Sabino-Basanello
(n. A21) è testimoniata da una dedica all’imperatore Massimiano divinizzato, la persistenza del-
l’insediamento di Tarignano (n. A13) sembra connessa alla favorevole collocazione geografica di
quello che doveva essere l’impianto di una villa, mentre la realizzazione di una seconda cisterna
sul Monte Marine, a nord di Barete, e la sua frequentazione per tutto il VI e il VII secolo (n.
A19), testimoniano la piena efficienza del sistema di rifornimento idrico. In questo contesto è
spiegabile il fenomeno della “conquista” o della “riconquista” delle alture in funzione insediativa
e produttiva: i toponimi Civita e Civitella sono, significativamente, connessi con siti ubicati in
posizione geografica dominante per i quali la documentazione archeologica e la sistemazione
strutturale sembra rimandare a epoca tardo-romana23. In altri siti, svincolati da questo riferimento
toponomastico, l’insediamento appare funzionale allo sfruttamento agricolo di terre in quota nelle
quali le favorevoli condizioni geomorfologiche e idrologiche dovettero rappresentare una valida
alternativa, almeno stagionale, alle attività produttive24. L’esistenza di percorsi pedemontani, che
attraversano gli altipiani e li mettono in comunicazione con i principali centri abitati della valle
fluviale e della conca amiternina, attestano la stretta connessione tra economia di pianura ed
economia di montagna, tra centro e periferia, tra strade “consolari” e antiche calles tratturali25.
Il recupero dell’altura assume i caratteri funzionali di una nuova evoluzione economica e quelli
monumentali dei nuovi edifici di culto che si pongono come i nuovi poli di attrazione della po-
polazione residente e non residente: l’impianto di un monumento in onore di S. Vittorino, nel
centro abitato omonimo, indica le diverse direzioni dello sviluppo insediativo26, il nuovo ruolo
21
DONATI 1974, pp. 177-178. monumentali di carattere sacro e onorario inquadrabili in età
22
PANI ERMINI 1980, pp. 43-44; SEGENNI 1985, pp. 234- romana, mentre l’insediamento di Civitatomassa (n. A77), sul
237; EAD. 1992, pp. 4, 10, 17, 100, 140, 175, 190, 204. Colle della Civita, tuttora occupato, si è sovrapposto al vicus
23
Il toponimo ricorre in riferimento ad un’altura, piatta sul- di Foruli, sulle colline ad est della Conca di Amiternum.
la sommità, situata sulla displuviale tra la Conca di Montereale 24
Si ricordano i siti di Monte Marine (n. A19 e di Monte
ad Ovest e il comprensorio di Campotosto e quello di Amatrice Castelvecchio n. A71).
ad est (n. A1), caratterizzata dal terrazzamento della pendice 25
Un caso emblematico è rappresentato dall’Altopiano
settentrionale, dove si riconoscono scale e strutture e grandi di Aielli (n. A6) attraversato da una strada basolata lungo la
blocchi, e dalla presenza di un tracciato stradale realizzato in fascia pedemontana dell’allineamento montuoso meridionale,
blocchetti lapidei accostati regolarmente. Più a sud il Colle collegata agli insediamenti localizzati lungo il corso dell’Ater-
Civitella (921 m s.l.m.) costituisce la modesta altura domi- no, da tracciati montani come quelli che si innestano nella
nante le frazioni di Cagnano e alle cui falde il piccolo nucleo Via dell’Aterno all’altezza di S. Pelino di Cagnano Amiterno,
abitativo ha ereditato il toponimo. Nel limitrofo territorio di a Tarignano e a Pizzoli.
Barete un nucleo aggregativo è localizzabile sul versante sud- 26
Per quanto riguarda l’analisi stilistica e archeologica della
est del Colle Civita, a ridosso dei sottostanti Piani di Foce (n. prima tomab monumentale del martire vd. GIUNTELLA 2002,
A22) interessati dalla presenza di aree funerarie e di complessi p. 325; EAD., 2003, pp. 316-318 (n. A76).
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTA VALLE DELL’ATERNO 207

assunto dagli edifici ecclesiastici che, per la preferenza di siti emergenti geograficamente, rivela-
no l’esigenza di polarizzare, anche visivamente, la vita della popolazione spostando i riferimenti
topografici dalla pianura alla collina.

La dominazione longobarda
Su questa configurazione insediativa evoluta rispetto a quella antica si innesta l’episodio della
conquista longobarda con il conseguente inserimento in una nuova organizzazione politica; i
modi e i percorsi della penetrazione longobarda determinarono una complessiva trasformazione
nella configurazione delle aree gravitazionali che sono identificabili, sostanzialmente, nella valle
fluviale e nel settore settentrionale della Conca di Amiternum di cui, in un certo senso, rappresenta
il proseguimento verso oriente. I frequenti riferimenti toponomastici all’elemento longobardo
sia nella sua connotazione di sito militare (Aringo, corrispondente a una frazione di Montereale
e a una località prossima a S. Giovanni di Cagnano Amiterno)27, sia di tipo agronomico (Cafaio,
Cafasse)28, sia, più spesso, in quella di complesso produttivo, rivelano il ruolo prioritario svolto
dall’asse stradale parallelo all’Aterno rispetto a quello della Via Calatina proveniente da Antrodoco
e, nello stesso tempo, la preferenza per una coagulazione demica lungo il margine settentrionale
della Conca di Amiternum a scapito di quello meridionale: qui l’assenza di toponimi si accompa-
gna a un’assenza di attestazioni nel territorio di Pile, alla periferia di L’Aquila. La frequentazione
della valle dell’Aterno da parte dei Longobardi e il loro progressivo radicamento sono attestati
non solo dall’esistenza di gualdi di proprietà ducale, tra i quali sembra di poter identificare quel-
lo di Rivus Curvus29 in un’area compresa nel territorio di Cagnano Amiterno30, ma anche dalla
persistenza di siti a vocazione produttiva, come Sala31, in un contesto di economia mista agricola
e pastorale strutturata su insediamenti sparsi, a piccoli nuclei, attestati dalla conservazione del
toponimo pagus32. Inoltre l’edificazione o la nuova monumentalizzazione di complessi ecclesiastici
dedicati a culti particolarmente cari alla tradizione longobarda, quali quello di S. Eutizio e quello
di S. Michele Arcangelo, sovrapposto o, meglio, affiancato a quello tradizionale di S. Vittorino,
conferma l’avvenuta profonda occupazione longobarda del territorio. L’impegno economico
corrispondente a quello architettonico, non valutabile per la chiesa di S. Eutizio di Marana33, è
invece ben percepibile nel caso di S. Vittorino dove i recenti interventi di scavo e lo studio dei
reperti scultorei ed epigrafici34 ha evidenziato la monumentalità del complesso. In entrambi i casi
gli impianti ecclesiastici rappresentarono un potente fattore poleogenetico35, come del resto sembra
verificabile anche in altri siti coagulatisi prima della colonizzazione farfense e definiti villae: in
questi casi è possibile che l’aggregazione sia avvenuta attorno a complessi produttivi tardoantichi
o a nuclei demici di carattere vicano che, per l’impianto di una struttura di culto anche minima,
avevano cominciato a rappresentare un ulteriore motivo di polarizzazione. In tutti questi casi
sembra di poter riconoscere nella localizzazione gravitante sulla viabilità uno degli elementi
principali della vitalità e dello sviluppo degli insediamenti36. L’unica eccezione a questo quadro

27
Il toponimo ricorre, significativamente, sia in un sito collinare (circa 1200 m s.l.m.) della dorsale che a sud deli-
localizzato sulle alture che separano la Conca di Montereale mita gli Altopiani di Aielli, nel territorio di Montereale, ed
dall’Alta Valle del Velino e dal territorio di Norcia, sia in è caratterizzato da un perimetro murario quadrangolare e
un’area situata tra le frazioni di S. Cosimo e S. Giovanni di da un podio in pietra. A Cagnano Amiterno nella frazione di
Cagnano Amiterno. Sala (n. A10) si potrebbe riconoscere lo sviluppo di un nucleo
28
Tale denominazione, per cui BATTISTI 1955, pp. 621- demico preesistente attestato dal rinvenimento di documenti
649, riguarda le aree pianeggianti poste a valle di Capitignano epigrafici di età romana.
nella Conca di Montereale dove si riscontra una interessante 32
Il toponimo ricorre sia nella Conca di Montereale sulle
coincidenza tra l’attuale suddivisione poderale dei campi e il pendici dei rilievi retrostanti Capitignano e S. Giovanni Paga-
modulo agronomico di 67-75 metri adottato nella organizza- nico, sia sulle pendici delle alture a Nord di Pizzoli.
zione centuriale romana del territorio amiternino. Il toponimo 33
La presenza di un capitello monoblocco databile al VII-
è attestato anche a sud-est di Arischia in una zona che le fonti VIII secolo (per i confronti vd. NOVARA, 1997, pp. 328-331,
ricordano con il prediale di Ofinianus/Ufinianus/Finianus: fig. 1), rimanda ad un complesso architettonico coevo e ad un
MIGLIARIO 1995, pp. 58, 160. contesto culturale prettamente longobardo per la provenienza
29
Reg. Farf., II, doc. 58 (=CDL, IV, 1, n. 18); doc. 76 nursina del culto di S. Eutizio (n. A8).
(=CDL, IV, 1, n. 20). 34
GIUNTELLA 2002, pp. 316-320.
30
Il sito è localizzato, tra il corso dell’Aterno e la frazione 35
Una situazione analoga sembra riscontrabile a Barete
di Fiugni nell’altopiano di Cesa Vecchia ai piedi di Capo in corrispondenza della chiesa cimiteriale di S. Paolo oggetto
Antico (1226 m s.l.m.), dove un insediamento articolato su di recenti indagini stratigrafiche condotte dall’Università del-
bassi terrazzamenti lungo un tracciato viario regolare sembra l’Aquila sotto la direzione del Prof. F. Redi a cui contributi di
attestare uno stanziamento legato alla fruizione di risorse prossima pubblicazione rimando.
pastorali e forestali (n. A11). 36
Si ricordano i siti di Tarignano nel territorio di Barete
31
Il sito di Sala Rossa (n. A7) è ubicato su un terrazzo (Reg. Farf., II, p. 126, doc. 152; n. A13), di Villa Rajolo in
208 FLAMINIA ALBERINI

generale sembra rappresentata proprio dal centro urbano di Amiternum (n. A75) che, nonostante
fosse la sede dell’amministrazione politica e di quella religiosa della circoscrizione territoriale,
e gli assi stradali regionali ed extraregionali che in essa si raccordavano fossero ancora in piena
efficienza, probabilmente cominciò a registrare una progressiva riduzione dello spazio abitativo,
legata al trasferimento sulla collina di S. Vittorino, e una decadenza delle funzioni pubbliche37.

Il dominio franco
Questo processo risulta accelerato nel successivo periodo carolingio, e ultimato al momento
della conquista normanna, quando la facies insediativa del territorio si presentava ben diversa
da quella antica, definitivamente “incastellata”. Il passaggio a una nuova entità politica, quella
franca, e l’accentuarsi della presenza farfense nell’Amiternino determinarono un’accelerazione di
quei processi insediativi che si erano andati delineando negli ultimi decenni della dominazione
longobarda. I nuclei demici si coagularono ulteriormente attorno ad alcuni aggregati principali
che coincisero, prevalentemente, con gli antichi poli di età romana, ovvero con quei siti che, in
quanto nevralgici della configurazione paganico-vicana, avevano rappresentato i riferimenti to-
pografici dell’occupazione territoriale: complessi santuariali, villaggi paganici, vici, villae. La loro
funzione centripeta, probabilmente, non era venuta mai del tutto meno sebbene in alcuni casi la
loro decadenza si era fatta più evidente38; del resto tale centralità era legata alla collocazione lungo
gli assi viari principali, che non avevano mai perduto il loro ruolo di nervi vitali del territorio
mantenendo, sostanzialmente, anche la sede stradale per i condizionamenti morfologici. Alcuni
insediamenti, addirittura, si originarono proprio dalla frequentazione dei punti di incontro di
alcuni assi preferenziali, legati all’incremento delle comunicazioni e dei commerci conseguenti
il potenziamento delle attività produttive39; l’impulso ad una maggiore produzione delle attività
agricole e silvo-pastorali dovette derivare dall’incremento demografico e dalla colonizzazione
farfense, che determinarono anche il trasferimento dei nuclei abitati verso la costa dei rilievi,
allo scopo di riservare all’agricoltura maggiori estensioni di terreno e avviando, al contempo, una
ulteriore aggregazione demica40. La presenza del monastero dovette infittirsi nel territorio che vide

quello di Pizzoli (Chron. Farf., I, 360, nota 2; I, 258; UGHELLI, 233, 249; Reg. Farf., III, p. 71, doc. 366, p. 62, doc. 359; Ibid.
I, col. 1199; n. A26), di Cavallari di Pizzoli (Chron. Farf., I, p. IV, p. 134, doc. 729, a. 1016; Chron. Casaur., in MURATORI,
270; LUZZATTO 1966, p. 39; n. A27), di Colonnella (n. A36) e RIS, t. II, pars II, col. 820). Nel settore orientale della Conca
di Vaìno (n. A42) presso Preturo, della stessa Preturo (Chron. di Amiternum la Villa S. Xisti documenta una sostanziale
Farf., I, doc. 259; n. A32), di Piano di Sassa (n. A49) presso persistenza abitativa dall’età romana che nel X secolo fu de-
Sassa, di S. Sisto (Chron. Farf., I, 258; n. A70). finita dall’istituzione di una struttura curtense farfense (Reg.
37
Un’ampia e approfondita indagine in proposito è stata Farf., III, doc. 331 dell’888, pp. 33-34, doc. 331; ib. IV, doc.
affrontata in PANI ERMINI 1987, pp. 33-55, in MIGLIARIO 1990, 733 del 1030-1031; Chron Farf., V, 1280; PANI ERMINI 1980, p.
pp. 49-60, e in GIUNTELLA 2003, pp. 763-799. 52; SEGENNI 1984, pp. 220-221; CLEMENTI 2003, pp. 144-147;
38
Il borgo di Marana, attestato per il X secolo (Chron. n. A70); una dinamica evolutiva simile è riscontrabile del sito
Farf., I, p. 249; n. A8)) si sovrappone ad un nucleo demico di Coppito dove l’esistenza di una chiesa nel IX secolo attesta
documentato da epigrafi funerarie di età romana (SEGENNI una presenza insediativa ricordata per il 1012 come Villa de
1985, pp. 245-246), analogamente a quanto accade nelle fra- Poplito, sovrapposta ad un nucleo demico attivo in età romana
zioni di S. Giovanni (Chron. Farf., I, 258, 260; Lib. Larg., I, p. (Reg., Farf., III, p. 163, doc. 449; M.G.H., Dipl., I, p. 624;
79; SEGENNI 1985, pp. 243-244; EAD. 1992, nn. 11, 81, 118, SEGENNI 1985, pp. 213-214; n. A58): ad essa si era affiancata
167; n. A9) e Sala (Reg. Farf., IV, p. 305, doc. 909; SEGENNI una curtis farfense nel X secolo (Chron. Farf., I, p. 54); infine
1985, pp. 245; EAD. 1992, nn. 168-169; n. A10) di Cagnano nelle aree immediatamente periferiche a quello che era stato il
Amiterno, e a quanto si riscontra in S. Lorenzo di Pizzoli dove centro urbano romano, nei siti di Prato Iagone (ricordato con
gli impianti demici romani, attestati da complessi monumentali il prediale Erinianus, Reg. Farf., III, p. 46, doc. 344; Chron.
di carattere sacro e da aree funerarie (SEGENNI 1985, pp. 234- Farf., I, 303; n. A37) e di Colonnella (n. A36) si assiste ad una
237; EAD. 1992, nn. 4, 10, 17, 100, 140, 175, 190; n. A29), persistenza insediativa dell’impianto antico.
persistono senza soluzione di continuità con un progressivo 39
È il caso di Arischia localizzata all’incrocio tra la via
accentramento culminato nella fondazione della pieve nel Caecilia e il percorso che attraversa l’altopiano “I Pozzi” diretto
X secolo (PANI ERMINI 1980, pp. 44-45; Chron. Farf., I, pp. verso i pascoli del Gran Sasso e attestata nel 949 (Chron. Farf.,
306-307). Nella Conca di Amiternum il sito di Vaìno (n. A42), I, p. 317; Lib. Larg., I, p. 105; n. A31); nel caso di Cavallari,
situato presso Preturo lungo la Via Calatina e di fondazione la Civitas Caballari (Chron. Farf., I, p. 270; Chron. Casaur.,
romana, presenta un lungo arco di vita tra il I sec. a. C. e il col. 800; LUZZATTO 1966, p. 39; n. A27), situata nel punto di
IX-X d. C., mentre Foruli, vicus di Amiternum in età classica convergenza della “Via dell’Aterno” e dell’asse Amiternum-
(n. A77), sebbene contratto negli spazi abitativi, ospitava una Teora, Colli, Basanello-S. Sabino, insiste su un precedente
comunità abbastanza consistente confermata dall’esistenza nucleo romano (CIL, IX, 4503, 4507); e così anche il Castellum
della chiesa di S. Giovanni ricordata dall’870 (SEGENNI 1985, di Pile, lungo la via Claudia Nova, nel toponimo tradisce il
pp. 167-183; Lib. Larg., I, doc. 29); per i limitrofi abitati di carattere aggregativo dell’insediamento e il riferimento alle
Collettara (n. A79), Pizzano (n. A80), Colli (n. A81) e Casale risorse idriche della zona (Reg. Farf., p. 249; Chron. Farf., I,
(n. 82) possono essere fatte considerazioni analoghe (PANI p. 249; M.G.H., Dipl. I, p. 625; Lib. Larg., I, p. 179; CLEMENTI
ERMINI 1980, pp. 50-51; SEGENNI 1985, pp. 185-188; EAD. 2003, pp. 117, 146-147; UGGERI 1991, p. 33; n. A68-A69).
1992, nn. 13, 57, 62, 99, 127, 138, 145-146, 176, 213; Lib. 40
Nel territorio di Barete lo sviluppo insediativo di siti a
Larg., I, p. 66, luglio 894, p. 203, agosto 982; Chron. Farf., I, vocazione agricola strutturati su partizioni poderali antiche
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTA VALLE DELL’ATERNO 209

Tav. I – Carta archeologica dell’alta valle dell’Aterno (su base IGM, F.° 140, ridotto).

il sorgere di complessi edilizi di carattere funzionale, le curtes, destinate ad accentrare le attività


organizzative, a raccordare i proventi di queste attività, ma a diventare, soprattutto, nuovi poli
di aggregazione, alternativi a quelli sviluppatisi spontaneamente. La distribuzione delle curtes ai

è documentato per i siti di Dommazzano (n. A16) e di Ma- 955, p. 101, a. 947; n. A34), similmente a quanto si verificò
donna della Valle (n. A15), mentre per il sito di Tarignano, a Pagliare di Sassa in relazione agli abitati dislocati lungo il
documentato archeologicamente fino al X secolo, si assiste ad Raio (nn. A49-51), e del Castellum Saxae (Chron. Farf., I, 259,
un arretramento verso monte con la conseguente attivazione 265; n. A45) nell’attuale Sassa nel settore meridionale della
di un asse stradale parallelo a quello più antico sul quale una Conca di Amiternum. Sulle alte terre che da Campo Felice
chiesa dedicata a S. Gennaro è attestata dall’897 (Reg. Farf., III, digradano verso la Conca di Amiternum, il Castellum Roge,
p. 41, doc. 339; n. A13); così l’abitato di “Le Vicende” presso corrispondente a Poggio di Roio, è documentato dal 930-936
Preturo, documentato archeologicamente fino al X secolo, fu (Chron. Farf., 305; n. A74) e doveva costituire il nucleo demico
trasferito, probabilmente, sul costone collinare retrostante, a delle attività agricole che si svolgevano nell’area sottostante
Pozza ricordata per la prima volta nel 950 (Lib. Larg., I, p. 107, definita Vicus (Lib. Larg., I, doc. 89, 91, 185), mentre il Rogum
a. 950, p. 138, a. 961, p. 207, a. 985; n. A35). La vicina Cese Dimidium ricordato nel Catalogus Baronum dovette coagularsi
di Preturo si era coagulata sul versante collinare soprastante nello stesso contesto storico (JAMISON 1972, n. 1155; CUOZZO
i possedimenti farfensi nella piana (Lib. Larg., I, p. 103, a. 1984, n. 1155).
210 FLAMINIA ALBERINI

Fig. 1 – Monte Civitella (Capitignano): in primo piano la via che sale sulla sommità del monte, realizzata
con blocchetti in pietra arenaria; sullo sfondo i rilievi del Gran Sasso.

Fig. 2 – Marana di Montereale: capitello e Fig. 3 – Monte Mozzano: resti della torre a pianta circolare
sommoscapo di colonna antistante la chiesa edificata in funzione strategica durante le incursioni saracene
di S. Eutizio (secc. VI-VII). e ungare del X secolo.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTA VALLE DELL’ATERNO 211

Fig. 4 – S. Eusanio di Barete: fregio reimpiegato


nella muratura della chiesa di S. Mauro.

Fig. 6 – S. Pietro di Pagliare di Sassa: lastra altome- Fig. 5 – S. Pietro di Preturo: base e imoscapo di co-
dievale reimpiegata. lonna reimpiegati in posizione capovolta.

margini delle aree coltivate41, lungo le fasce pedemontane42, in posizione strategica rispetto alla
viabilità e agli altipiani montuosi, rivela l’attuazione di un programma di potenziamento delle
risorse agricole e silvo-pastorali strettamente connesso con l’istituzione di una cella proprio ad
Amiternum: la centralità topografica della città, sebbene non più coincidente con quella politi-
41
Si ricordano la curtis de Tegoria (Chron Farf., I, pp. stesso contesto geografico sembra riconoscibile la curtis de
249, 260; n. A24) attestata dalla metà del X secolo, quella di Silva Plana o de Columento (Reg. Farf., III, doc. 332) per la
Marruci (Reg. Farf., III, p. 304, doc. 601; n. A30) ricordata quale considerazioni di carattere topografico e toponomastico
per l’XI secolo, quella di Mozanum limitrofa ai nuclei demici suggeriscono una localizzazione sull’altopiano posto tra Sassa
di Foruli, Casale, Colli, Collettara, Pitizzano documentata nel e Campofelice e attraversato, significativamente, dalla SS di
973 (Reg. Farf., III, p. 74, doc. 369; Lib. Larg., I, pp. 66, 181; Silva Plana (n. A48).
n. A78), quella in Saxa citata dal 967 (Lib. Larg., I, doc. 330; 42
Presentano questa collocazione la curtis de Lavareta,
Chron. Farf., I, pp. 249, 259, 353; n. A56), da cui dipendeva attestata per il 952 (Lib. Larg., I, doc. 152; n. A25) e quella
un altro polo aggregativo, il Collis Monaciscus (Lib. Larg., di Preturo, ricordata nel 928 (Reg. Farf., III, p. 43, doc. 341;
I, p. 105; Reg. Farf., IV, p. 142, doc. 735; n. A52). Nello n. A32).
212 FLAMINIA ALBERINI

co-amministrativa e religiosa, continuava a rappresentare un potente fattore strategico. Questa


stretta relazione tra poli aggregativi e nuclei demici di minore entità sembra, in qualche modo,
riflessa nella distribuzione degli edifici ecclesiastici per cui essi si vengono a trovare, nella maggior
parte dei casi, nell’area periferica o chiaramente esterna agli abitati, rivolti a quel contado che era
ancora, in una certa misura, sparso sul territorio. Localizzate lungo gli assi viari e spesso allineate
alla sede stradale, le chiese rappresentarono un ulteriore fattore centripeto sul territorio di cui
coagularono anche le risorse economiche43: l’impegno monumentale di queste strutture, delle
quali a livello architettonico sono visibili attualmente solo le tracce, è riassunto nelle lastre e nei
fregi reimpiegati nelle murature successive degli edifici; esso rivela non solo l’adesione ai motivi
decorativi più diffusi in età carolingia tra la fine dell’VIII e la prima metà del IX secolo, ma anche
la contemporaneità di questo sviluppo architettonico che, traduce, a sua volta, l’estensione e la
profondità del fenomeno demografico ed economico che si stava verificando e che si era in parte
già verificato. Il caso più significativo di tale ruolo centripeto svolto dall’elemento ecclesiastico è
rappresentato dal complesso architettonico di S. Vittorino per il quale si assiste tra l’VIII e il IX
secolo ad un rinnovamento dell’arredo liturgico e ad una sistemazione degli spazi interni44. In
realtà proprio questa fase storica, comprendente gli ultimi decenni del primo millennio e i primi
del secondo, dovette rappresentare una accelerazione della evoluzione insediativa che, senza ab-
bandonare le modalità attuate in precedenza e innervate sul sistema romano, tuttavia le accentuò
rendendo ancora più vitale quel sistema antico la cui validità era persistita sia per la razionalità che
ne costituiva il fondamento, sia soprattutto perché i condizionamenti geografici rappresentavano
un fattore, sostanzialmente, immutabile: si assistette ad una più vasta adesione a tali condizio-
namenti per sfruttarne le potenzialità45. In tale contesto occupazionale rientra l’organizzazione
del sistema difensivo approntato nel corso del IX secolo, verosimilmente, contro le incursioni
saracene ed ungare e rintracciabile negli impianti fortificati di Monte Mozzano (n. A5), a ridosso
dell’Altopiano di Aielli, di Castello Paganica (n. A4), affacciato sulla Conca di Montereale, del
Mons Aureus (n. A33), alle spalle di Preturo46 e, probabilmente di Monte Castelvecchio (n. A71).
Su questa vasta organizzazione insediativa l’intervento normanno innestò un sistema di distri-
buzione demica e di complessi architettonici che andò a modificare la facies antropica originaria
attraverso la creazione di corpi strutturali difensivi dislocati in punti strategici.

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43
Nella Conca di Montereale la chiesa di S. Pietro a Pa- p. 124), e considerazioni analoghe possono essere fatte in
terno (n. A2) attesta, nel reimpiego di fregi di età augustea via ipotetica per le chiese di S. Giusta di Sassa (n. A47) e di
e nell’inserimento in quelli di VIII secolo, sia la persistenza S. Pietro di Pagliare di Sassa (n. A57), per la quale i resti di
insediativa, sia la disponibilità economica e l’esistenza di con- un arredo liturgico, inquadrabile in questo periodo, risultano
tatti culturali con l’area romana da parte della popolazione significativi. Nel territorio di Roio la chiesa della SS. Annun-
locale, in parte raggruppata nel nucleo di Noveri (Reg. Farf., ziata a Colle Roio (n. A72), situata sulla dorsale collinare
III, doc. 574), mentre la chiesa di S. Rufo presso S. Giovanni nord-occidentale, doveva costituire il polo di riferimento
Paganico, rivela l’esistenza di un contesto abitativo abbastanza anche visivo della popolazione sparsa nella zona, in rapporto
consistente (Reg. Farf., III, doc. 607); a Barete la chiesa di S. alla Madonna delle Corti situata in pianura e rivelatrice del-
Paolo, recentemente oggetto di indagine stratigrafica, reca l’appartenenza ad una struttura produttiva (ANTONINI 2001,
elementi di decorazione architettonica riferibili al IX secolo II, pp. 343-344; SEGENNI 1985, pp. 225-226; EAD., 1992, nn.
coerentemente con il ricordo della sua funzione plebana per 44, 59; n. A73).
l’898 (Chron. Farf., I, p. 248; n. A17), mentre per la vicina 44
GIUNTELLA 2002, pp. 325-327(n. A76).
chiesa di S. Mauro (n. A18), situata lungo la medesima via 45
In questo senso significativo è il caso dei siti di Monte
parallela all’Aterno, è attestata una fase costruttiva carolingia Castelvecchio (n. A71), a monte di S. Sisto, connesso alla
senza il riconoscimento della dignità plebana. Nella Conca colonizzazione dell’altopiano “I Pozzi” e di Monte Marine
di Amiternum la pieve di S. Marinella, localizzata tra Colli affacciato sulla piana di Aielli (n. A19).
e Pozza di Preturo, fu sostituita nelle sue funzioni solo nel 46
PANI ERMINI 1987, pp. 38-39; Reg. Farf., III, p. 50, doc.
1170 dalla chiesa di S. Pietro a Preturo (ANTONINI 2001, III, 348; ib., V, p. 277, doc. 1280; Lib. Larg., I, p. 191.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTA VALLE DELL’ATERNO 213

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Per una topografia medievale dell’altopiano di Navelli
e della bassa valle dell’Aterno
ROBERTA LEUZZI

1. INTRODUZIONE
L’attività di ricerca, attinente al progetto di dottorato presentato quest’anno, è finalizzata
all’elaborazione di una carta archeologica medievale del territorio comprendente la piana di
Navelli e la bassa valle dell’Aterno.
L’attuale fase di impostazione della ricerca è interessata sostanzialmente dalla raccolta di infor-
mazioni generali sul territorio, da una prima analisi della cartografia IGM e da alcune ricognizioni
non sistematiche. Queste indagini preliminari si integreranno con un esame critico delle fonti
storiche, che, per il contesto oggetto di studio, sono costituite essenzialmente dalle cronache di
San Vincenzo al Volturno, di San Clemente a Casauria e di Farfa e dal Catalogus Baronum. Sono
in corso anche uno spoglio della bibliografia storica e archeologica e un più dettagliato studio della
cartografia, prendendo in considerazione anche le ortofotocarte e, per le eventuali osservazioni più
accurate, le carte catastali. L’accurata analisi del territorio che è offerta da questa preziosa fonte
archeologica è funzionale a un programma di ricognizioni più intense e sistematiche, in particolar
modo su siti connotati da una toponomastica antica o rivelatrice di contesti antropizzati.
I dati raccolti dalle diverse fonti e frutto delle nuove ricerche verranno quindi interconnessi
e intrecciati con quelli provenienti dagli studi dei territori limitrofi in un’ottica di comprensione
globale delle dinamiche insediative di un comprensorio, come quello della valle dell’Aterno.

2. IL QUADRO TERRITORIALE
L’altopiano di Navelli e la valle Subequana, che costituiscono le unità territoriali principali della
zona da indagare, sono parte dell’articolato sistema di depressioni che va sotto il nome di conca
aquilana1. L’altopiano di Navelli si sviluppa parallelamente alla valle più prossima all’Aterno, dalla
quale è separato da una serie di rilievi che non superano i 1300 m di altitudine. La valle Subequana
si apre sulla destra dell’Aterno ed è delimitata a nord-ovest dai rilievi del Sirente. Il terzo settore
è costituito dall’area attraversata dall’ultimo tratto dell’Aterno, che dopo essersi incuneato nelle
gole di San Venanzio, raggiunge le sorgenti del Pescara e la confluenza con il Tirino, costituen-
do uno spartiacque tra l’altopiano di Navelli e la Valle Peligna. La conca Subequana consisteva
in un originario bacino lacustre di cui il paleo corso fluviale dell’Aterno costituiva il principale
immissario. Il drenaggio dell’acqua verso la conca Peligna, probabilmente attraverso le gole di S.
Venanzio, ha portato all’attuale sistema fluviale2. Nell’altopiano di Navelli mancano corsi d’acqua
perenni e sono invece presenti piccoli laghetti di origine carsica, alcuni dei quali risultano oggi
prosciugati, che senz’altro condizionarono la scelta di alcuni stanziamenti umani3.

3. OCCUPAZIONE DEL TERRITORIO


In età tardoantica, dopo l’ultima riorganizzazione amministrativa riferibile alla metà del IV
secolo d.C., il territorio oggetto della ricerca, che in età preromana era diviso fra due diverse
popolazioni, i Vestini Cismontani, che occupavano il territorio della piana di Navelli, e i Peligni,
stanziati lungo l’ultimo tratto del fiume Aterno e nella valle Subequana, doveva trovarsi compreso
nella provincia Valeria4.
Il modello insediativo paganico-vicano, che caratterizzava le due popolazioni preromane ed era
diffuso in tutta l’Italia centrale, non solo non fu sostanzialmente intaccato in età romana, ma non

1
AGOSTINI 1998, p. 198. 3
MATTIOCCO 1986, pp. 19-21.
2
Ibid. 4
STAFFA 1993, p. 52.
216 ROBERTA LEUZZI

subì un totale stravolgimento neanche dopo la definitiva crisi dell’Impero e l’impatto, circa due
secoli dopo, della penetrazione longobarda. A influenzare i quadri del popolamento fu piuttosto
la diffusione, tra la fine del III e il IV secolo, del cristianesimo. Piccole chiese e pievi andarono
a collocarsi nei pressi di abitati più antichi, spesso vicani, e le sedi episcopali, inserendosi all’in-
terno delle città tardoantiche ormai in crisi, andarono lentamente organizzando i loro territori
di pertinenza ricalcando spesso quelli appartenenti agli antichi municipi5. Testimonianza della
penetrazione del cristianesimo nella valle subequana e della frequentazione tardoantica dell’area
del municipio romano di Superaequum (attuale Castelvecchio Subequo) è una piccola catacomba
per la quale i dati dello scavo, condotto dalla Giuntella nel 1991, sembrano indicare, sulla base
dei materiali rinvenuti, un utilizzo che va dal IV al VII secolo d.C.6 (Tav. I, C1).
Le superstiti tracce di antiche strutture cristiane sono spesso collegate alle principali vie di co-
municazione, lungo le quali si verificò in maniera più massiccia la diffusione della nuova religione7.
In piena età romana la viabilità era incentrata sulla Claudia Nova e sulla Claudia Valeria, che si
incrociavano nei pressi di Bussi. Le due strade furono costruite nella prima metà del primo secolo
d. C. ma sicuramente andavano a ricalcare percorsi più antichi. La Claudia Nova attraversava
Peltuinum (Tav. I, C2), di cui costituiva l’asse principale del tessuto urbano, ed era un importante
collegamento tra la viabilità settentrionale e la viabilità meridionale, imperniata, quest’ultima, sulla
Claudia Valeria, che, prolungando l’antica Valeria, attraversava Corfinium (Tav. I, C3) e arrivava
fino a Ostia Aterni8. Superaequum era collegato alla viabilità principale tramite una diramazione
della Claudia Valeria, che attraversava la valle Subequana dirigendosi verso Aveia (attuale Fossa)9.
Testimonianza materiale della Claudia Nova è un ponte nelle vicinanze del vicus Furfo10 (Tav. I,
C4) presso Barisciano. In età tardoantica questa viabilità principale dovette continuare a essere
utilizzata se, ancora nell’inoltrato IV secolo, vennero predisposti interventi di restauro delle vie
Claudia nova e Claudia Valeria testimoniati da alcune epigrafi11.
Proprio lungo l’asse stradale della Claudia Nova, evidentemente ancora in uso, andò restrin-
gendosi l’abitato di Peltuinum (Tav. I, C2), che in età tardoantica non venne completamente ab-
bandonato, nonostante ad aggravare la crisi fosse sopraggiunto anche il forte terremoto del 346
d.C.12. Chiaramente ci furono cambiamenti di tecniche edilizie e di destinazioni d’uso di alcuni
edifici, ma si continuò a occupare parte dell’antico spazio urbano. A ridosso delle mura, in pros-
simità della porta occidentale, venne costruito, con materiale di spoglio, un edificio ecclesiastico
(Fig. 1), la cui prima fase risale probabilmente all’età tardoantica13, dedicato a Santa Maria degli
Angeli o di Ansedonia, nome, quest’ultimo, che in età medievale avrebbe caratterizzato tutto il
sito della città e potrebbe essere collegato al toponimo Sitonia, ad indicare un punto di raccolta
del frumento14. Come hanno messo in luce gli scavi condotti da Sommella e dalla Campanelli
negli anni 1983-1986, l’edificio cristiano, intorno al quale nel tempo si sono andate disponendo
una serie di tombe costituite da fosse terragne, continuò a vivere, probabilmente collegato a un
monastero, fino al XVI-XVII secolo. Anche l’area del teatro della città romana è stata interes-
sata da una rioccupazione di epoca medievale; gli scavi hanno infatti evidenziato i resti di una
struttura fortificata di avvistamento costruita su parte della cavea (Fig. 2). La Tulipani, inoltre,
ipotizza, in base ad alcuni dati di scavo consistenti in strati contenenti ceramica in terra sigillata
chiara coperti da cenere relativa a fasi di incendio, una occupazione della zona del teatro sin
da epoca tardoantica15. Almeno due erano dunque i nuclei insediativi a continuità di vita che
insistevano sull’area dell’antica Peltuinum. Appena fuori la città, sorgeva anche la chiesa di San
Paolo ad Peltuinum16, le cui forme attuali sono il risultato di molteplici trasformazioni, ma che
conserva nelle strutture sia materiale di spoglio romano, consistente in grandi blocchi calcarei,
sia frammenti scultorei di VIII-IX secolo (Figg. 3, 4).
La continuità dell’assetto tardoantico è evidente anche nel territorio di Navelli in cui il
toponimo Incerulae (Tav. I, C5) venne utilizzato per individuare tutta la zona fino all’XI secolo

5
STAFFA 1993, pp. 52-55, 63-65, 93. 10
STAFFA 1992, p. 837; GIZZI et al. 1996, pp. 26-31.
6
STAFFA 1992, pp. 793 e 808; SALADINO 1998b, pp. 77-79; 11
STAFFA 1992, p. 790.
GIUNTELLA et al. 1991, pp. 249-321. 12
STAFFA 1992, p. 790; SALADINO 1998a, pp. 29-30; GIU-
7
STAFFA 1993, p. 53. STIZIA 1985, pp. 96-102; TULIPANI 1996, p. 50.
8
STRAZZULLA 1998, pp. 25-26. 13
SALADINO 1998a, p. 29; TULIPANI 1996, pp. 52-61.
9
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 115; SALADINO 1998b, p. 14
PATITUCCI UGGERI 2002, p. 13.
77. 15
TULIPANI 1996, pp. 54-60.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTOPIANO DI NAVELLI E DELLA BASSA VALLE DELL’ATERNO 217

Tav. I – Carta archeologica (su base IGM, F.° 146, ridotto). Per il tracciato della via Claudia si veda
ORSATTI 1982.

quando cominciò a essere citato anche un castello de Nabelli (Tav. I, C6). La distinzione tra le
due località è rimasta fino al XVI secolo17 e a individuare l’antico vicus permane l’intitolazione
della chiesa di Santa Maria in Cerulis 18, che, esistente ancora oggi, si trova ai piedi del rilievo
sul quale sorge Navelli (Fig. 5).
Dopo l’annessione al Ducato longobardo di Spoleto, verso la fine del VI secolo19, il territorio
andò lentamente riorganizzandosi nelle nuove strutture dei gastaldati che fecero comunque ri-
ferimento a ciò che restava degli antichi quadri amministrativi e in particolare alle circoscrizioni
ecclesiastiche tardoantiche20.
I territori di Peltuinum, sull’altopiano di Navelli, Superaequum, nella valle Subequana, e
Corfinium, all’imbocco della conca Peligna, insieme a quelli di Sulmo (Sulmona) e Aufinum
(Ofena), vennero inquadrati nel gastaldato-diocesi di Valva: l’unità politico-religiosa che insieme

16
DE VITIS 1996, pp. 62-64. 18
COARELLI, LA REGINA 1984, pp. 31-34.
17
STAFFA 2000, p. 75. 19
FLORIDI 1976, p. 22.
218 ROBERTA LEUZZI

Fig. 1 – S. Maria degli Angeli o di Ansedonia, co-


struita a ridosso delle mura della città romana di
Peltuinum.

Fig. 2 – Struttura fortificata costruita sulla cavea del


teatro romano di Peltuinum.

Fig. 3 – S. Paolo a Peltuinum. Fig. 4 –Bassorilievo altomedievale reimpiegato nella


muratura della chiesa di S. Paolo a Peltuinum.

alla Marsica costituiva il confine meridionale del Ducato di Spoleto21. Nel gastaldato, divenuto
contea dopo la conquista franca, non esisteva una vera e propria “città di Valva”, ma almeno a
partire dall’VIII secolo il vescovo risiedeva nella cattedrale di San Pelino, collocata presso l’antica
Corfinium (Tav. I, C3).
L’abitato dell’antico municipio subì una lenta riduzione da città a villaggio, con un restringi-
mento, attuato però soltanto in piena età medievale, sulla zona collinare, nella quale ebbe sede
successivamente il Castrum de Pentima, soprastante l’area pianeggiante in cui si sviluppava l’antico
insediamento romano22. Sebbene con spazi più contratti la città sembra presentare una continuità
20
STAFFA 1993, p. 59. 21
WICKHAM 1982, pp. 14-15; FLORIDI 1976, p. 23.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTOPIANO DI NAVELLI E DELLA BASSA VALLE DELL’ATERNO 219

di vita incentrata sui due nuclei del Castrum e della cittadella vescovile. I dati presentati nella
pubblicazione degli scavi degli anni 1988-1989 mettono in risalto anche la sopravvivenza di
una toponomastica antica legata a una frequentazione altomedievale della zona compresa tra il
Castrum de Pentima e l’area di San Pelino, spazio già occupato dalla città romana23. Una situazione
analoga si riscontra a Superaequum (Tav. I, C1), il cui abitato, tra tardoantico e altomedioevo,
ha continuato a occupare la zona nord-orientale dell’antico centro e soltanto più tardi, in età
medievale, si è costituito, sull’altura vicina, il borgo di Castelvecchio Subequo (Tav. I, C7) ancora
oggi esistente24. La frequentazione dell’area del municipio romano è testimoniata dalla chiesa
medievale di Sant’Agata, sorta in sovrapposizione a un santuario italico-romano25.
Diversamente, invece, nell’area di Peltuinum (Tav. I, C2) i cambiamenti di assetti insediativi
hanno visto la progressiva perdita di importanza del sito della città romana compensata dalla
nascita di centri limitrofi che sono risultati nel tempo più adatti a coagulare la popolazione26.
Anche l’assetto territoriale altomedievale, in molti casi conservativo del modello dell’abitato
sparso oltre che riflesso di una più antica organizzazione insediativa, è spesso evidenziato dalla
presenza di strutture ecclesiastiche: l’area del vicus Furfo (Tav. I, C4), presso Barisciano, già
precedentemente indagata tramite ricognizione27, oltre a restituire reperti mobili di età roma-
na, presenta strutture riferibili alla chiesa di Santa Maria di Forfona, dipendenza farfense il cui
toponimo conserva il nome dell’antico insediamento romano28. Le strutture superstiti dell’edifi-
cio sembrerebbero databili al XII-XIII secolo ma alcuni elementi decorativi floreali di X secolo
rimandano probabilmente alla prima fase della chiesa29. La stessa cartografia moderna indica
ancora l’area con il toponimo Farfona.
Una toponomastica antica è riscontrabile anche nelle chiese di San Valentino e San Libante de
Freriis, a Picenze, sorte nei pressi dell’antico pagus Frenetium30 (Tav. I, C8). Le prime ricerche
effettuate hanno consentito, per il momento, di localizzare una piccola chiesa dedicata a San
Valentino, che sorge nei pressi di Petogna, una delle tre frazioni che costituiscono Picenze. Lo
stesso toponimo, San Valentino, denota anche una zona a nord dell’abitato di Petogna.
Testimonianze della vitalità di alcuni insediamenti italico-romani sono costituite, oltre che
dalla toponomastica, dai reimpieghi di materiale romano proveniente dalle aree limitrofe e dai
riutilizzi di antiche strutture.
A Vittorito (Tav. I, C9), la chiesa di San Michele Arcangelo, costruita su un antico tempio31,
conserva alcune epigrafi romane inglobate nelle strutture murarie, e, nel territorio di Collepie-
tro, la chiesa di Santa Maria de Benatero (Tav. I, C10), di cui sono visibili solo poche strutture
superstiti nascoste dalla vegetazione, è collocata sul sito di un precedente vicus italico-romano.
Questa chiesa è menzionata per la prima volta nella bolla di Clemente III del 1188 e poi in carte
posteriori, ma il toponimo, legato alla fonte medievale annessa all’edificio ecclesiastico e costruita
riutilizzando materiali romani di spoglio, è attestato, nel Chronicon Vulturnense fin dall’81632.
Tra VIII e IX secolo, gli insediamenti monastici influirono profondamente nella riorganizzazione
delle strutture territoriali, proponendosi, oltre che come centri propulsori dell’economia, anche
come nuclei generatori dei più tardi processi di accentramento e quindi di incastellamento33.
L’altopiano di Navelli e la bassa valle dell’Aterno sono stati interessati dalla “colonizzazione” dei
più importanti monasteri benedettini limitrofi: San Benedetto di Montecassino, San Vincenzo al
Volturno, San Clemente a Casauria e, in maggior misura, Santa Maria di Farfa34. In particolare
gran parte del territorio preso in considerazione orbitava intorno alle abbazie di Santa Maria e
San Pellegrino a Bominaco35 (Tav. I, C11; Fig. 6) e di San Benedetto a San Benedetto in Perillis36
(Tav. I, C12; Fig. 7). La prima, situata in una posizione strategica, seppur leggermente defilata, a
controllo del tratturo, nonché via di comunicazione che ricalcava l’antica Claudia Nova, possedeva
un territorio molto vasto comprendente anche i centri demici circostanti quali Caporciano, Tussio
e San Pio. La configurazione architettonica attuale delle due chiese abbaziali si può far risalire al
22
STAFFA 1992, p. 793; GIUNTELLA et al. 1990, p. 488. 31
STAFFA 1992, p. 834; STAFFA 2000, p. 78.
23
GIUNTELLA et al. 1990, p. 488. 32
STAFFA 1992, p. 835; GUALTIERI, GUALTIERI c.s.; MATTIOCCO
24
SALADINO 1998b, p. 77; STAFFA 1992, p. 793. 1986, pp. 87-90.
25
STAFFA 1992, p. 828. 33
D’ANTONIO 2003, pp. 16-22 e 40-46; PROPERZI 1988,
26
SALADINO 1998a, p. 32. pp. 27-28; SALADINO 1998a, p. 31.
27
STAFFA 1992, p. 837; GIZZI et al. 1996, pp. 26-31. 34
D’ANTONIO 2003, pp. 229-239.
28
GIZZI et al. 1996, pp. 26-31. 35
D’ANTONIO 2003, pp. 146-154; GATTO 1986, pp. 224-
29
GIZZI et al. 1996, p. 31. 278.
30
STAFFA 1992, p. 837; STAFFA 2000, p. 78. 36
D’ANTONIO 2003, pp. 160-161; GUALTIERI, GUALTIERI c.s.
220 ROBERTA LEUZZI

Fig. 5 – S. Maria in Cerulis, presso Navelli. Fig. 6 – Oratorio di S. Pellegrino a Bominaco.

Fig. 7 – Abbazia di S. Benedetto a San Benedetto


in Perillis.

Fig. 8 – Torre del castello di Caporciano trasformata


in campanile.

XII secolo, per Santa Maria, la cui esistenza è però documentata dal X secolo, e al XIII secolo,
per San Pellegrino, edificata probabilmente nell’VIII secolo sul luogo di sepoltura dell’omonimo
santo37. Secondo D’Antonio può essere considerata attendibile l’ipotesi, riportata dal Chronicon
Vulturnense, in base alla quale Carlo Magno avrebbe partecipato alla fondazione del cenobio e
l’avrebbe donato all’abbazia di Farfa; non si hanno notizie sui primi due secoli di vita ma sembra
che l’insediamento monastico abbia conquistato l’indipendenza all’inizio dell’XI secolo, in seguito
alle ricche donazioni del Conte Oderisio, dei conti di Valva. Sull’altura che sovrasta l’abbazia
rimangono alcune strutture del castello di Bominaco (Tav. I, C11), nato probabilmente come
presidio per il sottostante monastero38. Gli scavi condotti presso il castello, diretti da Staffa e
dalla Pannuzi39, hanno evidenziato la presenza di un primo impianto, probabilmente difensivo,
realizzato con strutture lignee, più deperibili e andate perse nei successivi riusi del sito; i resti di
questa primitiva occupazione consisterebbero in pozzi scavati nella roccia che hanno restituito,

37
D’ANTONIO 2003, pp. 150-154. 39
PANNUZI, STAFFA 1994, pp. 299-306.
38
D’ANTONIO 2003, p. 45; PANNUZI, STAFFA 1994, p. 299.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTOPIANO DI NAVELLI E DELLA BASSA VALLE DELL’ATERNO 221

fra l’altro, ceramica a vetrina pesante, e in una cisterna probabilmente costruita in muratura. L’in-
terpretazione di tali risultati di scavo ha portato a supporre l’esistenza di un primitivo impianto
fortificato altomedievale databile tra IX e XI secolo e forse da ricollegare alla nascita del mona-
stero di Momenacum. Sembrerebbe, però, anche plausibile l’ipotesi di una prima fortificazione
di età normanna, probabilmente una motta realizzata con strutture difensive in legno, alla quale
sarebbe seguita la fortificazione in pietra databile al XII-XIII secolo40. Come Bominaco anche San
Benedetto in Perillis (Tav. I, C12) si pone al centro del problema dell’incastellamento in quanto
il borgo fortificato si formò intorno al nucleo generatore costituito dal monastero41. Fondazione
privata, l’abbazia di San Benedetto vide contrastata la sua indipendenza dalla diocesi di Valva:
situazione, questa, comune a quella dell’abbazia di Bominaco. Posto anch’esso in una posizione
strategica a controllo dell’altopiano di Navelli e della Valle Peligna, il monastero di San Benedetto
in Perillis era ricco di possedimenti che andavano da Popoli e Bussi fino a Caporciano. Il borgo è
caratterizzato da una prima cinta muraria, che racchiude la chiesa monastica e il monastero, e da
una seconda cerchia, sicuramente più tarda, che circonda le abitazioni costruite in un successivo
momento di espansione. Appoggiata al fianco sinistro della chiesa è visibile una torre cimata,
ulteriore struttura difensiva e di avvistamento, che, a una prima analisi delle strutture, sembra
essere posteriore all’edificio ecclesiastico.
La radicale riorganizzazione del territorio incentrata sul consistente sviluppo dei centri for-
tificati sembra comunque riferibile ai secoli X-XII, periodo al quale risalgono la maggior parte
degli incastellamenti noti e per il quale si cominciano ad avere sicuri agganci a determinate classi
di materiali42. Il processo sembra subire dunque un’accelerazione al momento dell’avanzata nor-
manna43, anche se non si possono escludere forme di accentramento precedenti, causate dalle
invasioni saracene e ungare, secondo le ipotesi di Del Treppo, oppure legate ad un diverso uso
del territorio, in base agli studi di Clementi44; successive e più lente, sintomo di nuovi assetti
insediativi, come sostiene Wickham per la valle Peligna, l’altopiano di Navelli e la valle Tritana45.
È comunque evidente, al di là di ogni generalizzazione, che la prova ultima per determinare la
fase originaria dell’incastellamento di un determinato sito rimane la verifica archeologica.
Già in età longobarda nella piana di Navelli si erano verificati, contrariamente alla continuità
insediativa su aree interessate da abitati di tradizione antica, dei precoci spostamenti su siti di
altura, seppure ancora non fortificati: è il caso di Turri46 (Tav. I, C13), citato già nell’816 dal
Chronicon Vulturnense e ubicato a 1006 m sull’altura della Castellina, e dell’abitato situato nei
pressi della chiesa di Santa Maria di Pede Vivo (Tav. I, C14), citato nel Chronicon Vulturnense fin
dal 787 con il toponimo Lapide Vivo47.
Sembrano pochi, comunque, i casi di fondazioni anteriori alla conquista normanna; tra questi
si può citare il castello di Popoli (Tav. I, C15), costruito dal vescovo di Valva, Tidolfo, nella prima
metà dell’XI secolo in una posizione strategica a controllo della confluenza dei fiumi Aterno e
Pescara48; il castello di Pentima, attuale Corfinio (Tav. I, C3), anch’esso di fondazione vescovile, e
i castelli di Navelli (Tav. I, C6) e Collepietro (Tav. I, C16) che risultano costruiti alla fine dell’XI
secolo49.
È dunque seguendo le fasi dell’avanzata normanna che il fenomeno dell’incastellamento si
avvia a caratterizzare capillarmente il territorio; il Catalogus Baronum risalente al 1156-1168,
pur riportando ancora un numero relativamente basso di castelli, testimonia che il processo è
chiaramente iniziato50.
Tra le realizzazioni da ascrivere a epoca normanna è possibile inserire il castello di Caporcia-
no51 (Tav. I, C17), caratterizzato da un impianto di XII secolo, del quale si conserva parte delle
strutture difensive, tra cui la torre trasformata in campanile della parrocchiale (Fig. 8). La torre
è dotata di scarpa ma originariamente, come accade di consuetudine nell’architettura normanna,
doveva esserne priva. A una prima analisi, la muratura della scarpa sembra in effetti appoggiarsi
alla precedente struttura muraria della torre. Ulteriore esempio costruttivo normanno sembra
essere costituito dal campanile della chiesa di San Francesco, a Castelvecchio Subequo (Tav. I,

40
PANNUZI, STAFFA 1994, p. 305. 46
STAFFA 1992, p. 836; MATTIOCCO 1986, p. 92.
41
D’ANTONIO 2003, p. 44. 47
STAFFA 1992, p. 836; MATTIOCCO 1986, p. 93.
42
STAFFA 2000, p. 81. 48
SANTORO 1988, p. 95.
43
PROPERZI 1988, pp. 29-37. 49
Ivi, p. 96.
44
CLEMENTI 1996, p. 23. 50
PROPERZI 1988, p. 32.
45
PROPERZI 1988, pp. 28-29; REDI 1997, p. 427. 51
CHIARIZIA, LATINI 2002, p. 79.
222 ROBERTA LEUZZI

C7), che conserva il basamento di una torre priva di scarpa52. Un impianto originario di XII
secolo caratterizza probabilmente il castello di Navelli (Tav. I, C6), la cui torre, che faceva parte
della fortificazione precedente al più tardo palazzo signorile, costituisce oggi il campanile della
parrocchia53. Anche il castello di San Pio della Camere (Tav. I, C18), del quale con ogni proba-
bilità, la torre principale faceva parte di una struttura preesistente poi ampliata, sembra riferibile
al XII secolo54.
Attribuibile, secondo alcuni, al XII secolo è anche Castelnuovo (Tav. I, C19), un borgo fortifi-
cato nato dal dissolvimento di Peltuinum, la cui struttura sembrerebbe ispirata ai criteri urbanistici
della città romana, che fu fonte di materiale costruttivo per il nuovo insediamento55. L’abitato,
però, sembra appartenere più verosimilmente alla tipologia del borgo nuovo o borgo franco da
riferire cronologicamente al XIII secolo. Oltre a fondazioni di nuovi castelli o a fortificazioni
di nuclei già accentrati, si verificano anche rioccupazioni di siti interessati da antiche strutture
fortificate italiche56: è questo il caso del castello di Leporanica (Tav. I, C20), che, documentato
per la prima volta nel Catalogus Baronum, mostra in alcuni punti della cinta muraria il riutilizzo
delle strutture di un antico castelliere italico57.
I dati presentati in questa sede costituiscono una prima sintesi delle informazioni raccolte nella
fase iniziale delle ricognizioni, che proseguiranno in maniera più capillare e verranno contempo-
raneamente affiancate dalla schedatura aggiornata dei siti studiati e dalla documentazione grafica e
fotografica delle emergenze più significative, ma anche di materiali erratici e fittili. Eventualmente
sarà di rilevante interesse la possibilità di inserire anche i risultati di auspicabili saggi di scavo in
punti chiave del territorio, che consentano di raccogliere dati certi e di chiarire alcuni problemi
specifici riguardo, ad esempio, ai principali passaggi che segnano l’evoluzione dell’organizzazione
insediativa dal tardoantico al medioevo.

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52
SANTORO 1988, p. 103. 56
PROPERZI 1988, p. 28.
53
CHIARIZIA, LATINI 2002, p. 154. 57
CHIARIZIA, LATINI 2002, p. 184; STAFFA 1992, p. 837;
54
Ivi, pp. 190-200. STAFFA 2000, p. 72; MATTIOCCO 1985, pp. 361-385; MATTIOCCO
55
Ivi, p. 184; DI PIERO, ANNIBALI 1990, p. 17. 1986, pp. 148-154; MATTIOCCO 1989, p. 73.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELL’ALTOPIANO DI NAVELLI E DELLA BASSA VALLE DELL’ATERNO 223

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Dati preliminari per una Carta Archeologica Medievale
della città dell’Aquila. Censimento e rilevamento
dell’edilizia ecclesiastica e civile

ALFONSO FORGIONE

Il primo passo della ricerca, ancora lontana dalla sua conclusione, è stato quello di effettuare
un censimento delle murature e degli elementi architettonici medievali della città, partendo dal-
l’osservazione e dall’analisi degli elevati, usando questi ultimi come campo di ricerca1.
Il censimento completo di tutti gli edifici, reso indispensabile a causa del diffuso fenomeno di
reimpiego di elementi architettonici e murari in strutture rinascimentali e moderne, dipendente dai
frequenti terremoti che hanno colpito la città, è finalizzato all’individuazione di edifici medievali
e alla ricostruzione di una cronologia relativa e assoluta del tessuto edilizio cittadino.
L’indagine ha come obiettivo, tra l’altro, l’individuazione dell’esistenza, o meno, di influenze
esterne alla città stessa, provenienti dai comuni vicini, frutto dell’esperienza delle maestranze
autoctone o itineranti operanti all’interno della città nel periodo preso in esame2.
È nostro intento poter cogliere la presenza o meno delle eventuali sfumature o specificità che
provino le diversità culturali, tecniche e metodologiche dell’edilizia cittadina e dei castelli che
hanno contribuito alla fondazione della città.
L’analisi è strettamente legata alla suddivisione della città e del suo territorio in Quarti e Lo-
cali, a loro volta distinguibili in intus (interni alla città) ed extra (esterni alla città, appartenenti
ai castelli di origine dei primi abitanti). (Figg. 1-2)
L’organizzazione e la distribuzione di quelli intus cerca in qualche modo di rispecchiare l’ar-
ticolazione geografica del territorio aquilano e l’ubicazione di quelli extra. Alla suddetta ripar-
tizione si aggiunge quella in Quarti, utile ad amministrare il potere di un nucleo estremamente
frammentario.
Si forma così una struttura policentrica che ha i suoi fulcri nelle chiese Capo Quarto, attorno
alle quali si intrecciano le prime maglie urbane.
Nello studio dei singoli Locali si procede con la comparazione della cartografia storica della
città, che raffigura gran parte dell’edilizia storica, con la planimetria catastale moderna, per fornire
un raffronto visivo e quindi immediato, stabilendo una prima cronologia assoluta per gli edifici
ancora esistenti e ivi rappresentati, grazie al termine ante quem fornito dalla cartografia storica
in questione3. (Figg. 3-4)
Al momento, in città, non sono state rinvenute specifiche tecniche murarie riferibili a maestranze
appartenenti ai castelli extra; per cui, l’ipotesi più plausibile è che l’assenza di una dipendenza
tecnica e architettonica dei locali intus da quelli extra, sia da attribuirsi a un omogeneizzarsi delle
tecniche costruttive dell’intero territorio.
Gli unici edifici superstiti della prima fase di vita della città fanno parte dell’edilizia religiosa:
sono questi, infatti, che costituiscono un potente traino nell’iniziale inurbamento.
Le indagini, quindi, hanno riguardato i più antichi e rappresentativi monumenti religiosi
della città, prendendo come campione quelli meglio documentati archivisticamente: S. Giusta
di Bazzano, S. Pietro a Coppito, S. Maria di Paganica, S. Maria di Roio, S. Silvestro, il convento
di S. Domenico, quello di S. Basilio e la Basilica di Collemaggio (questi ultimi tre indagati anche
tramite scavi stratigrafici) e la Cattedrale dei SS. Massimo e Giorgio.

1
REDI 2003, pp. 589-591. 1639, in Heroico splendore dele cità del Mondo; riedizione della
2
REDI, c.s. Pianta prospettica del Fonticulano realizzata nel 1600, incisa da
3
Pianta dell’Aquila eseguita da G. Pico Fonticulano nel 1575; Blaeu e pubblicata nel 1680 ad Amsterdam; Pianta prospettica
Pianta della città dell’Aquila di G. Pico Fonticulano incisa da G. della Fedelissima et nobil citta dell’Aquila nel Abruzzo incisa da
Lauro nel 1600; Pianta prospettica di Aquila, incisa da G. Lauro, G. Lauro su disegni di S. Antonelli nel 1622.
226 ALFONSO FORGIONE

Fig. 1 – Divisione della città in Quarti e Locali.

L’analisi stratigrafica dei paramenti murari dei principali edifici di culto della città ha portato
a interessanti conclusioni e spunti per ulteriori indagini: risulta, infatti, che la regione absidale di
alcuni di questi edifici, che sviluppa terne di tribune poligonali, realizzate con apparati in opus
quadratum, con conci rettangolari di medie e grandi dimensioni, è in appoggio o ammorsata alle
navate degli edifici stessi, quindi successiva alla prima fase edilizia costituita nella maggior parte
dei casi da opus aquilanum4.
Questo fenomeno è stato individuato in S. Giusta (Locale di Bazzano, Quarto di San Giorgio),
in quella di S. Domenico (Locale di Pile, Quarto di S. Pietro), in S. Silvestro (Locale di Colle-
brincioni, Quarto di Santa Maria) e in S. Pietro (chiesa capo-quarto nel Locale di Poppleto, nel
Quarto omonimo).
Oltre alla documentazione archivistica e cartografica, anche il susseguirsi degli eventi sismici
ha dettato termini cronologici utili alla presente indagine: le architetture e le murature supersiti,
infatti, sono state modificate e danneggiate in maniera consistente dai diversi sismi che hanno
interessato la città, la quale subisce, nell’arco di quattro secoli, dal Trecento al Settecento, ben
cinque terremoti che di volta in volta ne alterano l’aspetto urbanistico e configurativo5.
In progressione assistiamo al primo evento sismico nel 1315, molto vicino alla fondazione della
città e pertanto relativamente incidente sugli assetti configurativi ancora in fase di attuazione,
un secondo nel 1349 che, sebbene rovinoso, stando alle fonti, agisce su un insediamento molto
simile a un immenso cantiere cittadino. Decisamente seri i due terremoti avvenuti nel 1461 e nel
4
REDI 2003, p. 589. 5
CLEMENTI, PIRODDI 1986, p. 47.
DATI PRELIMINARI PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE DELLA CITTÀ DELL’AQUILA 227

Fig. 2 – Mappa della ripartizione del


contado della città dell’Aquila (XVI
secolo).

1462: non solo gli eventi sismici vanno a incidere su una città già formata e in linea di massima
ben definita (sono ormai trascorsi due secoli dalla sua fondazione), ma la stretta susseguenza tra
un evento e l’altro farebbero supporre tragiche conseguenze, dato che il secondo sisma facilmente
avrebbe potuto abbattere quanto già pericolante o non ancora restaurato in forma definitiva.
Devastante, infine, il sisma del 1703 che distrugge una città florida e definitivamente ben
urbanizzata6.
Gli eventi sismici in questione costituiscono un terminus post quem per la datazione dei diversi
apparati murari e di restauri, integrazioni e tamponature.
Altro riferimento cronologico fondamentale ai fini di questa ricerca è rappresentato dal 1294,
anno cruciale caratterizzato da due grandi eventi: l’emanazione del diploma di Carlo II e l’incoro-
nazione papale di Celestino V7. Questa data rappresenta un terminus ante quem per la datazione
di gran parte delle chiese aquilane, già esistenti e censite al momento della proclamazione della
perdonanza nel capoluogo abruzzese.
Al momento dell’elezione al soglio pontificio di Celestino V L’Aquila appariva ancora come
un enorme cantiere cittadino, all’interno del quale solo le diverse chiese e pochi palazzi risulta-
vano terminati, con il resto del territorio lottizzato e destinato ai diversi castelli, ma non ancora
urbanizzato, come notava il cardinale Stefaneschi8.

6
Ibid. 8
CLEMENTI, PIRODDI 1986, p. 35.
7
CLEMENTI, PIRODDI 1986.
228 ALFONSO FORGIONE

Fig. 3 – Esempio del confronto della planimetria catastale con le planimetrie storiche della città e ubicazione
dell’edilizia storica.
DATI PRELIMINARI PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE DELLA CITTÀ DELL’AQUILA 229

Fig. 4 – Planimetrie storiche della città.


230 ALFONSO FORGIONE

Alcuni dei cinquantaquattro locali censiti risultano quasi totalmente disabitati e non urbanizzati
almeno fino a tutto il rinascimento, ciò si evince non solo dall’analisi autoptica dell’edilizia super-
stite, ma soprattutto dall’esame delle planimetrie storiche della città precedentemente descritte.
I Locali in questione occupano il territorio a Sud e a Sud/Ovest della città, a ridosso della cinta
muraria. Fossa, Ocre, Fontecchio e Barile nel Quarto di San Giorgio, Preturo nel Quarto di San
Pietro, Scoppito, Civita Tomassa, Poggio Santa Maria e Tornimparte nel Quarto di San Giovan-
ni verranno edificati solo dopo il 1622, come si evince dalla sovrapposizione delle planimetrie
storiche. (Fig. 5)
Altri Locali, quelli di Assergi, Aragno Intempera, Guasto, Chiarino, Filetto e Pescomaggiore,
tutti nel Quarto di Santa Maria, risultano, invece, distrutti per la costruzione del castello cinque-
centesco e della piazza d’armi antistante.
Un’attenta analisi dell’urbanizzazione dei diversi Locali ha messo in rilievo come questa vari
notevolmente; non sono noti, al momento, criteri omogenei seguiti nello sviluppo della vita
cittadina, ma il territorio urbano risulta diviso tra aree in cui l’urbanizzazione inizia già nel tardo
XIII secolo, e altre in cui ritarda fino al XX secolo o non avviene affatto.
Dopo i terremoti del 1315 e del 1349 la città assume, probabilmente, una topografia e un
tessuto edilizio diverso rispetto a quello progettato e realizzato in età sveva, epoca della sua
prima fondazione e inurbamento. Non sono pervenute, infatti, strutture insediative, al di fuori
degli edifici ecclesiastici, appartenenti a questa facies della città; non è da escludere che i primi
impianti insediativi fossero costituiti da materiali deperibili (semplice legname e murature assai
modeste) che lasciano labili tracce, e che un maggior interesse fosse volto alle strutture religiose,
prontamente restaurate dopo i numerosi sismi9.
Dagli elementi finora raccolti può essere tracciato un primo, quanto significativo, quadro
delle dinamiche insediative urbane derivante dall’individuazione, dal censimento e dall’analisi
delle tipologie di elementi architettonici presenti nei diversi edifici cittadini, oltre che dall’analisi
delle tecniche murarie medievali associata alla stratigrafia degli elevati e dai rapporti stratigrafici
fra edifici contigui. Anche l’analisi e la comparazione della cartografia storica con quella attuale
e l’osservazione degli strumenti utilizzati nella messa in opera delle strutture murarie rendono
possibile la realizzazione di una carta diacronica dell’insediamento medievale e di una carta dei
reperti reinseriti o erratici presenti nell’edilizia cittadina che confluiscono in una carta del rischio
archeologico e in una proposta di vincolo.
Inoltre, la realizzazione di un atlante delle murature e di una cronotipologia degli elementi
architettonici rende più agevole il passaggio da una cronologia relativa a una cronologia assoluta
degli edifici o delle USM, alle quali appartengono specifiche tipologie murarie o architettoniche,
non databili altrimenti.
L’intera ricerca, condotta dall’equipe della Cattedra di Archeologia Medievale coordinata dal
Prof. Fabio Redi, ha come obiettivo finale quello di produrre una carta archeologica medievale
della città, mediante le due planimetrie già citate:
I. Nella carta diacronica, relativa ai secoli XIII, XIV e XV, vengono riportati i Corpi di Fabbrica
che costituiscono il tessuto edilizio cittadino: i prospetti visibili e ben inquadrabili cronologica-
mente sono evidenziati dicromicamente a seconda dell’arco temporale che ricoprono affinché
siano ben distinguibili.
Per la maggior parte degli edifici religiosi, e solo per alcuni palazzi ad uso abitativo, disponiamo
di fonti documentarie e cartografiche in grado di fornire utili informazioni sulla loro effettiva
architettura e planimetria.
La funzione di questa rielaborazione della planimetria della città è di risalire alle fasi costruttive
e insediative dell’Aquila, individuando gli ipotetici nuclei del primitivo inurbamento seguendone
le dinamiche e gli sviluppi nei secoli successivi.
Gli edifici ad uso residenziale più antichi rinvenuti tramite questa ricerca risultano ubicati nei
pressi della piazza del Duomo, nel pieno centro cittadino, nei Locali di Bazzano, La Torre, S.
Vittorino, Roio, S. Eusanio, Rocca di Corno e Bagno.
Da fonti documentarie10 e da primi confronti cronotipologici degli elementi architettonici
presenti nelle murature, alcune delle quali costituite da Opus aquilanum, possiamo ascrivere

9
REDI 2003, pp. 589-591. 10
MORETTI, DANDER 1974.
DATI PRELIMINARI PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE DELLA CITTÀ DELL’AQUILA 231

Fig. 5 – Planimetria dell’Aquila con indicazione dei Locali non urbanizzati.

questi edifici agli inizi del XIV secolo: in questa fase di vita i Locali in prossimità della Piazza del
Duomo sono i maggiori centri urbanizzati della città.
Al tardo XIV secolo e alla prima metà del XV appartiene la maggior parte dell’edilizia resi-
denziale cittadina medievale censita. Allontanandosi dalla Piazza del Duomo e dai Locali citati, si
individuano edifici con cronologia sempre più tarda; ciò è dovuto, probabilmente, a uno specifico
fenomeno di urbanizzazione.
I Locali che presentano il maggior numero di corpi di fabbrica con murature medievali non
risultano dislocati casualmente, ma si collocano tutti nella medesima zona, almeno da quanto si
evince dai dati parziali a disposizione, in attesa della conclusione delle indagini: La Torre, Baz-
zano, S. Vittorino, Roio e parte dei Locali di Bagno e Rocca di Corno, per poi estendersi verso
232 ALFONSO FORGIONE

Ovest (i Locali di Pile, Forcella, Poppleto, Cascina, Barete, Pizzoli e Cagnano nel Quarto di S.
Pietro) e verso Nord (i Locali di Paganica, Poggio Picenze e Navelli nel Quarto di Santa Maria,
quello di più recente formazione).
Possiamo quindi ipotizzare un primo nucleo insediativo nelle adiacenze della Piazza del Duo-
mo, che poi risulta espandersi verso le zone limitrofe, verso il Quarto di S. Maria di Paganica e
i locali esterni degli altri quarti.
II. La seconda planimetria prodotta ai fini di questo studio, la carta dei reperti reinseriti o er-
ratici presenti nell’edilizia cittadina, indica, tramite una simbologia specifica per ciascun elemento
rappresentato, l’esatta ubicazione di qualsiasi elemento architettonico o reperto archeologico,
presente all’interno e all’esterno degli edifici, caratterizzando con segni diversi gli elementi in
situazione primaria e quelli reimpiegati. In questa planimetria è stato preso in considerazione tutto
il tessuto edilizio cittadino, censendo i reperti medievali inglobati in murature più tarde, e quindi
di riutilizzo, oltre a fontane, pozzi, cisterne e qualsiasi altra traccia dell’insediamento medievale.
Da quanto esposto finora si evincono interessanti, seppur parziali, conclusioni.
Come è stato notato, gli edifici medievali censiti con elementi architettonici e tecniche murarie
appartenenti ai primi tre secoli di vita della città non sono presenti in numero costante in ogni
Locale, ma concentrati solo in pochi di essi.
Questo fenomeno, probabilmente, può essere spiegato considerando che, nonostante l’obbligo
del trasferimento in città dal contado aquilano, non tutti gli abitanti dei castelli extra optarono
per questa soluzione. Ciò potrebbe spiegare perché solo alcuni Locali risultano già urbanizzati
nel XIV secolo, come quelli limitrofi alla Piazza del Duomo, a differenza di altri che vengono
occupati solo un secolo dopo, come all’interno del Quarto di S. Maria di Paganica, o non vengono
edificati se non alla fine del XVIII secolo, come i Locali di Preturo, Scoppito, Civita Tomassa,
Poggio S. Maria, Tornimparte, Ocre, Barile, Fontecchio e Fossa.
Sia dall’analisi autoptica degli edifici presenti in questi Locali, sia soprattutto dall’analisi delle
planimetrie storiche della città, si evince che queste zone sono state destinate a orti e giardini
fino almeno al XVII secolo11.
Altro spunto interrogativo scaturisce dall’osservazione dei singoli elementi architettonici: sia
da un punto di vista qualitativo che costruttivo si nota, infatti, una certa somiglianza tra tutti i
Locali; spesso si ripetono i motivi di decorazione e molto simili sono anche i portali d’ingresso
delle chiese “capo-quarto” e ”capo-locale”.
Nello specifico è stato notato come le cornici marcapiano della tipologia “a spirale” sono
presenti in edifici riferibili al XIV e XV secolo, mentre quelle “a cuspidi piramidali” fanno la
propria comparsa solo dal tardo XV secolo, indifferentemente nei vari Locali, senza specifiche
zone di appartenenza.
Inoltre i segni degli attrezzi per lavorare la pietra leggibili sulle murature sono i medesimi in
ogni zona cittadina, e i segni dei lapicidi (sia quelli “simbolici” che di “appartenenza”) che si ri-
scontrano su diversi portali e paramenti murari compaiono un po’ ovunque, sia su edifici religiosi,
sia, fenomeno assai più raro, su edifici privati.
Dalla disposizione spaziale dell’edilizia storica cittadina, quindi, si può ipotizzare che un pri-
mitivo nucleo insediativo sia da ricercarsi nelle adiacenze della Piazza del Duomo, mentre la zona
Nord della Città, il Quarto di S. Maria, sia stato maggiormente interessato dalla rifondazione
angioina dopo la distruzione da parte di Manfredi.
Come le città di fondazione angioina, anche una vasta zona dell’Aquila presenta le medesime
peculiarità nell’organizzazione demica del territorio: una griglia a maglie rettangolari e ortogo-
nali. La differenza sostanziale rispetto alle altre Civitates novae, risulta essere una preesistenza
di un nucleo insediativo al quale la nuova organizzazione urbana trecentesca ha dovuto adattare
il proprio impianto.
Il “disordine” aquilano è una conferma dell’ipotesi che vede il centro preesistere alla rifondazio-
ne angioina; illuminante a tal proposito è l’ubicazione della piazza principale, esterna alla griglia,
ed estranea ai locali della riorganizzazione della casata francese, costituisce un elemento di rottura
sia dal punto di vista urbanistico che sociale: difatti è preesistente e di impianto svevo12.

11
Cfr. la Pianta della città dell’Aquila di G. Pico Fonticu- 12
COLAPIETRA 1988.
lano, incisa da G. Lauro nel 1622. 13
REDI 2003, pp. 589-591.
DATI PRELIMINARI PER UNA CARTA ARCHEOLOGICA MEDIEVALE DELLA CITTÀ DELL’AQUILA 233

Durante la ricostruzione e riorganizzazione dell’insediamento i particolarismi costruttivi dovuti


alla diversa provenienza degli abitanti vengono meno, uniformandosi e andandosi a influenzare
a vicenda.
Quindi il dato fondamentale messo in evidenza dalla presente indagine è rappresentato dalla
quasi totale assenza di specificità riscontrate, dipendenti da particolarismi delle popolazioni rurali
dei castelli extra riproposte o riprodotte nei locali intra13.
Semmai siamo di fronte a una omogeneità delle tecniche costruttive e a un appiattimento
delle stesse.

BIBLIOGRAFIA
ANTONINI 1988 = O. ANTONINI, Architettura religiosa aquilana, vol. I, L’Aquila.
ANTONINI 1993 = O. ANTONINI, Architettura religiosa aquilana, vol. II, L’Aquila.
CENTOFANTI, COLAPIETRA, CONFORTI, PROPERZI, ZORDAN 1992 = E. CENTOFANTI, R. COLAPIETRA, C. CONFORTI,
P. PROPERZI, L. ZORDAN, L’Aquila città di piazze, L’Aquila.
CHIODI 1988 = D. CHIODI, Le 170 chiese di L’Aquila dal ’200 al ’900, L’Aquila.
CLEMENTI, PIRODDI 1986 = A. CLEMENTI, E. PIRODDI, L’Aquila, Le città nella Storia d’Italia, Bari.
CLEMENTI 1990 = A. CLEMENTI, L’organizzazione demica del Gran Sasso nel Medioevo, L’Aquila.
COLAPIETRA 1988 = R. COLAPIETRA, Il Quarto di S. Maria Paganica e i simboli del potere civile religioso.
GAVINI 1980 = I.C. GAVINI, Storia dell’architettura in Abruzzo, Voll. I-III, Avezzano.
MORETTI, DANDER 1974 = M. MORETTI, M. DANDER, Architettura civile aquilana dal XIV al XIX secolo, L’Aquila.
REDI 2001 = F. REDI, Per una ricerca archeologica sulla presenza normanno-sveva in Abruzzo. Gli scavi
nel castello di Rocca Calascio e nella grancia cistercense di S. Maria del Monte di Paganica (L’Aquila) in Scavi
Medievali in Italia. 1996-1999, a cura di S. Patitucci Uggeri, Roma, pp. 272-276.
REDI 2003 = F. REDI, Materiali, tecniche e cantieri: primi dati dal territorio aquilano, in III Congresso
nazionale di Archeologia Medievale, a cura di R. Fiorillo, P. Peduto, Salerno, 2-5 ottobre 2003, Firenze,
pp. 589-591.
REDI c.s. = F. REDI, Conurbazione e decastellamento: il caso dell’Aquila fra mitologia e dati archeologici,
in Metodologia, insediamenti e produzioni. Il contributo di Gabriella Maetzke e le attuali prospettive delle
ricerche, Convegno Internazionale di studi sull’archeologia medievale in memoria di Gabriella Maetzke
(Viterbo, 25-27 novembre 2004), in c.s.
SPAGNESI, PROPERZI 1972 = S. SPAGNESI, P. PROPERZI, L’Aquila, Problemi e storia della città, Bari.

CARTOGRAFIA
S. ANTONELLI, La fedelissima et nobil città dell’Aquila nel Abruzzo, 1622, coll. B.P.A.
G. PICO FONTICULANO, Città dell’Aquila, 1600. coll. in Liber Reformationum 1597-1602.
A. VANDI, Pianta della città dell’Aquila ripartita nei suoi locali, 1753, coll. in C. Franchi, Difesa per la
fedelissima città dell’Aquila, Napoli 1752.
Per una topografia medievale della valle del Raio

MARIA RITA ACONE

1. INTRODUZIONE
L’area oggetto dello studio è parte della più ampia conca amiternina (Tav. I) e si distingue per
alcune caratteristiche geografiche che la caratterizzano come territorio di confine e nello stesso
tempo come importante area di comunicazione con lo sviluppo, sin da epoca romana, di un
sistema viario di primaria importanza per il collegamento tra il nord e il sud d’Italia.
La ricerca, volta alla ricostruzione della topografia dei luoghi dall’Altomedioevo alla fondazione
dell’Aquila, si è avvalsa di dati raccolti da fonti edite e inedite, da ricognizioni di superficie, da
analisi delle strutture in elevato, da cartografia storica e moderna e ha consentito il censimento
di siti di varia tipologia che documentano una particolare continuità di vita.
Il contributo che si intende dare riguarda il periodo che va dall’VIII secolo alla fondazione
dell’Aquila con riscontri topografici che si spingono fino al XVIII secolo per lo studio delle cam-
pagne e mira ad approfondire le conoscenze sugli insediamenti demici in rapporto alle possibilità
di vita fornite dalle risorse naturali e alla strutturazione dell’ultima età imperiale che ha spesso
determinato una continuità legata non solo ai resti materiali delle strutture, quali ad esempio le
vie di comunicazione, ma anche all’organizzazione economica del territorio.
La posizione degli insediamenti a una altitudine intermedia tra la valle fluviale e i pascoli
montani, presuppone infatti una comune motivazione storica da ricercare probabilmente nel
tipo di economia legata sia all’agricoltura, sia all’allevamento del bestiame e nella concomitante
necessità di difesa e di controllo della viabilità.
L’acqua, il calcare, il fiume, le praterie, la vegetazione, il clima sono quindi da considerare gli
elementi chiave per comprendere l’insediamento umano. Per ogni sito si è operata una verifica
basandosi su dati ricavati dalle fonti, dai resti materiali, dalla geografia del territorio.
L’analisi della toponomastica attuale e di quella dedotta dai documenti farfensi e da più tardi
documenti d’archivio, ha messo in evidenza una particolare continuità non solo nelle denomina-
zioni dei luoghi, ma anche nel loro uso a fini economici.
La ricostruzione del paesaggio nell’XI –XII secolo ha consentito di individuare un modulo
insediativo che mostra costanti legami topografici tra le pievi e i castelli, sistematici rapporti
spaziali con le fonti di sostentamento (campi, selva, pascoli), frequenti rapporti con strutture di
epoca romana e in particolare con la viabilità, chiare motivazioni legate alla difesa dell’intero
comprensorio.

2. L’OCCUPAZIONE DEL TERRITORIO


La romanizzazione
Livio, la principale fonte per questo periodo storico, colloca nel 293 a.C. la conquista di Ami-
ternum1, e nel 290 a.C. la conquista dell’intera Sabina e l’acquisizione da parte degli amiternini
della cittadinanza senza suffragio.
Inizia quindi per questi territori il processo di romanizzazione che condurrà a una integrazione
completa dopo la guerra sociale e a un periodo di particolare benessere e sviluppo in età augustea
come ampiamente dimostrato dal materiale epigrafico e archeologico rinvenuto nell’area.
Foruli e Fisternae erano i vici di cui abbiamo notizia per il territorio in studio: Foruli (A77)
l’attuale Civitatomassa, ha restituito abbondante materiale archeologico tra cui statue di buon
livello artistico e numerose iscrizioni con dediche degli abitanti a imperatori o a personaggi locali2,

1
SEGENNI 1985, p. 50. 2
SEGENNI 1985, p. 167.
236 MARIA RITA ACONE

Tav. I – Carta archeologica del territorio di Scoppito (su base IGM, F.° 139, I edizione, ingrandito).

Fisternae, indicata nella tavola Peutingeriana tra Antrodoco e Foruli, non è stata localizzata anche
se, in base alle distanze indicate nella tavola, si è individuata una località nei pressi di Vigliano
(suggestivo il toponimo “Cisterne”); a sostegno di tale ipotesi il ritrovamento in tale località di
un sepolcreto con tombe a inumazione.3

La viabilità nel tardo antico e alto medioevo


La conformazione naturale dell’area, i valichi determinati dall’orografia e la vallata dell’Aterno,
hanno consentito il collegamento tra i due versanti dell’Appennino, e quindi anche tra le due coste
Tirrenica e Adriatica, secondo una direttrice che interessa il territorio in studio. La più antica tra
le vie di comunicazione è con ogni probabilità la via Salaria, raccordo tra Roma, la Sabina e il
mare Adriatico(Castrum truentum). Discussa fra vari autori4 la denominazione del diverticolo, che
qui principalmente interessa, che si distaccava dal tracciato principale a Interocrium (Antrodoco)
per raggiungere Amiternum (A75) e quindi, attraverso la valle del Vomano, Castrum Novum
(Giulianova). La tesi più accreditata è quella che considera tale diverticolo parte della stessa via
Salaria considerando il fatto che il computo delle miglia continuava senza interruzione sia sul
tratto che raggiungeva l’Adriatico, sia su quello che da Interocrium raggiungeva Amiternum.5 La
tavola Peutingeriana documenta del resto l’esistenza di questo collegamento viario con l’indica-
zione delle località di Interocrium, Fisterne e Foruli6: questi ultimi importanti vici in territorio
amiternino. Ancor oggi questa strada rappresenta il principale asse viario dell’area amiternina. In
questa sede interessa rilevare che Foruli (l’odierna Civitatomassa) era da considerare un importante
nodo viario e che la strada che da nord a sud qui transitava, costituì anche in epoca medioevale
un fondamentale raccordo tra le regioni a nord e a sud dell’Abruzzo.
L’area in studio era poi collegata con due strade al Cicolano: un percorso univa Corvaro a Foruli
attraverso i monti di Lucoli (monte Rotondo) e la valle Ruella nel territorio di Tornimparte; un
secondo importante asse, secondo l’ipotesi del Persichetti, dalla valle del Salto scendeva attraver-
sando la valle di Acquafredda e le Cisterne (probabile Fisternae) nel territorio di Vigliano (B1) a
ridosso dei “Palazzi”(B2) da cui poi proseguiva fino al Ponte Nascuso, Foruli e Amiternum.
3
Ivi, p. 165. 6
La tavola riporta il toponimo Erulos comunemente
4
MIGLIARIO 1995. restituito con Foruli.
5
PERSICHETTI 1893.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELLA VALLE DEL RAIO 237

La località in cui ancor oggi esistono ruderi noti come i “Palazzi” (Fig. 2), costituiva quindi
anch’essa un importante nodo viario posto nella gola naturale che si apre sulla conca amiternina
(Fig. 1).
La ricostruzione dei tracciati medievali si avvale di molteplici fonti e tra queste, di particolare
importanza, oltre alle fonti scritte e a eventuali manufatti, il tessuto insediativo servito dalla strada
e la toponomastica. Madonna della Strada (B3), frazione di Scoppito, è un chiaro esempio di come
una importante arteria viaria, la Salaria, abbia segnato la storia del territorio. Da un sito di età
romana, interpretato come villa rustica, alla chiesa ancor oggi esistente con sul portale una dedica
del 1613 a Maria, protettrice dei viandanti, proviene la conferma dell’importanza di quel tratto
stradale per i collegamenti dell’Abruzzo interno. La persistenza per tutto il Medioevo di questa
strada è sicuramente dovuta alla sua essenziale funzione di collegamento con le regioni italiane
poste a nord e quindi con Spoleto durante il dominio longobardo, con Farfa, centro del potere
monastico e con Roma sede papale e importante meta di pellegrinaggio per tutto il medioevo.
Nel territorio in studio, oltre alla viabilità principale di cui si è detto era ed è ancora esistente
un reticolo di sentieri e vie secondarie che collegavano fra loro i vari insediamenti. Per il perio-
do altomedievale ne troviamo traccia nei documenti farfensi la cui attenta lettura ha consentito
di individuare alcuni percorsi interni, grazie alla conservazione di numerosi toponimi. Alcune
citazioni confermano l’esistenza e l’utilizzo della via Salaria in epoca alto-medievale: nell’anno
9817 infatti la chiesa di S. Pietro in Corno (B4) (Fig. 3), che si trova a breve distanza dall’attuale
percorso stradale che segue l’antico, nell’attuale frazione di Sella di Corno, era raggiunta dalla
via che proveniva da Amiterno e l’area territoriale denominata Collectarium (A79) come indicato
in un documento farfense dell’anno 9828, era percorsa da una via antiqua identificabile o con il
tratto di strada che congiungeva Foruli ad Amiternum costeggiando Preturo(A82) e l’anfiteatro o
al tratto che, passando sulla sinistra del colle della Civita, raggiungeva Amiterno transitando per
le attuali frazioni di Collettara e Cese (A34). Nell’area di Collettara, tra la fine del nono e la metà
dell’undicesimo secolo, è documentata dal Regesto Farfense una rete viaria particolarmente con-
sistente che dimostra l’importanza della zona da un punto di vista economico dovuta alla fertilità
delle sue terre legata alla presenza di corsi d’acqua e canalizzazioni. I toponimi Pantano e Formule,
la presenza del fiume Raio e del rio Pantano, la costante coltivazione del suolo, sono prova della
vocazione agricola di questa area che oggi ricade completamente nel comune di Scoppito.
La persistenza dei toponimi consente di ricostruire la viabilità minore (Tav. II): Colli, Cu-
poli, Colle Cantaro, Casale, Pinzano, Pantano, Cese, Pratelle, Spineto, torrente Raio, Civita,
S. Bartolomeo, sono tutte località che conservano il nome già presente nel Regesto e l’esame
dell’attuale rete viaria rilevato dalla carta I.G.M.9 e dalla carta dei sentieri edita dal Club alpino
italiano,10oltre ai dati delle mappe catastali11, consente l’identificazione di alcuni tratti con quelli
indicati nelle carte farfensi. Importante ad esempio il documento del regesto n. 731 dell’anno
1028 in cui si fa menzione di un confine segnato da una croce, da un muro e da una strada che
conduce a S. Felice e da Casale a Cupoli e che costituisce il limite per una terra situata in Stibi-
liano. Cupoli e Casale sono ben identificabili, S. Felice era in Scoppito12 (B5) e Stibiliano13, come
argomentato dallo Zenodocchio, è da identificare con la località oggi denominata lo Scerto. La via
che conduce a S. Felice è probabilmente l’attuale strada che da Civita- Colli conduce a Scoppito,
la strada che da Casale a Cupoli costituiva “confine” è individuabile solo per un breve tratto se
si identifica il rio di cui si parla con il rio Pantano.
Dai documenti farfensi non si ricavano elementi sulla viabilità montana, collegata all’attività
pastorale e determinata dalla presenza di valichi e passaggi naturali.
La stabilità dei caratteri fisici delle regioni montuose e la ricostruzione, in base alle fonti e
ai resti materiali, della topografia degli insediamenti d’altura e delle pievi, permette di rilevare
come percorsi ancor oggi esistenti siano riconducibili almeno al periodo normanno. È in questo
periodo che l’allevamento ovino riacquista una particolare valenza economica grazie alle rinnovate
possibilità di sfruttamento dei pascoli della Puglia ed è in questo periodo che il territorio situato
a nord-ovest della conca amiternina diventa area di confine del Regno.
7
Lib. Larg., I, doc. 365. dell’alto Aterno”, Firenze 1996.
8
Lib. Larg., I, doc. 369. 11
Fogli 15 e 16, comune di Scoppito. Ufficio del territorio
9
Cartografia IGM: 1:25000, Scoppito, F.° 139 II SO. dell’Aquila.
10
I sentieri montani della provincia dell’Aquila, n° 4, scala 12
ZENODOCCHIO 1989 in nota p. 348.
1:25.000, “I gruppi M. Nuria, M. Calvo M. Giano, Monti 13
ZENODOCCHIO 1989.
238 MARIA RITA ACONE

CUPOLI PINZANO

STIBILIANO

COLLI
CASALE

PANTANO

Tav. II – Ortofotocarta della Regione Abruzzo, sezione n°358040, Scoppito, scala 1:10.000,
ridotta. I toponimi indicano le località sede di possedimenti dell’Abbazia di Farfa.

Fig. 1 – Panoramica sulla valle di Corno.

La rete di sentieri e la strada pedemontana ancor oggi esistente costituivano nel medioevo, e
in particolare a partire dal XII secolo, un importante sistema di accesso ai pascoli e un’alternativa
al percorso di fondovalle per raggiungere la Sabina reatina. Tale affermazione è resa possibile
dal tessuto insediativo che emerge da una attenta osservazione dei rapporti tra i luoghi e gli
insediamenti demici testimoniati dalle fonti, dai toponimi, dai resti materiali e dalla posizione
delle attuali frazioni di Scoppito.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELLA VALLE DEL RAIO 239

Una ricostruzione del paesaggio dai documenti farfensi


Nell’alto medioevo si è indotti a ritenere che, anche in questa ristretta area dell’Amiternino,
si sia sviluppato un importante movimento religioso con la nascita di almeno un monastero pre-
benedettino, S. Bartolomeo (B6) (Fig. 4), e che le successive invasioni longobarde non abbiano
avuto un particolare impatto distruttivo, ma abbiano determinato l’impianto di nuovi proprietari
su un territorio ad alta valenza agricolo-pastorale. L’organizzazione politica in gastaldato ha avuto
forse una sua espressione nella costruzione dei primi castelli dell’area a Preturo e a Forcellette
(B7), ipotesi questa meritevole di approfondimento con uno scavo archeologico nei due siti che
ancora conservano i resti degli antichi insediamenti.
La fonte scritta più importante per l’alto medioevo è data dai documenti dell’Abbazia di Farfa
che esercitava il suo potere su ampia parte del territorio non escludendo, tuttavia, l’importanza
di altri proprietari come ad esempio la Diocesi di Rieti e i possidenti di origine longobarda.
Foruli, il più importante centro romano, nel IX secolo accoglieva ancora una comunità che aveva
in S. Giovanni in Foruli il proprio centro religioso di riferimento14. La chiesa del IX secolo sorgeva
ai margini dell’antica civita e il successivo impianto medievale si sviluppò sulla parte più elevata del
colle, ai margini del “piano della civita” e dell’antica chiesa di S. Giovanni. La forma del castello
è oggi testimoniata unicamente dal disegno urbano con l’antico perimetro circolare evidenziato
dall’anello viario costituito dalle vie Oberdan, dell’Aia e della Chiesa. Nel X e XI secolo si andò
affermando un ulteriore centro di aggregazione, Collectarium, che viene definita villa15 e quindi
insediamento ben individuabile, probabilmente in continuità con complessi architettonici di epoca
romana (acquedotto, complesso termale?) che costituisce nei contratti di compravendita luogo
di riferimento per l’area pianeggiante e collinare prevalentemente situata sulla sinistra orografica
del Rio Pantano, tra gli attuali paesi di Civitatomassa, Collettara e Scoppito. Terre coltivate, vigne
e prati sono merce di scambio tra monastero e proprietari, ma anche terre incolte da dissodare
e coltivare grazie alla presenza di una rete di canalizzazione dimostrata da toponimi, Fomule,16 e
dall’indicazione di confini costituiti da canali e rii. Come evidenziato nella carta (Tav. II) i posse-
dimenti farfensi sono localizzati in località Pizzano (A 80) (Butizano o Putizano nel regesto17) con
appezzamenti di terreno di pochi moggi nel X secolo (240, 480, 640 m²) e con un’acquisizione di
una più ampia proprietà (circa 3.200 m²) coltivata anche a vigna nell’XI secolo; un’altra area inte-
ressata dalle proprietà farfensi è localizzata a ridosso del Rio Pantano con appezzamenti di terreno
in Casale (A82)18 località abitata 19già dall’anno 883, Colli20, Pratella e Pantano (probabilmente
anche Sanguinetum e Formula) tutti acquisiti nell’XI secolo, estesi tra i 2000 e 3000 m² circa e
con confine verso sud segnato dal torrente Raio. Altre terre e prati nell’XI secolo in Stibiliano e
Labareta di estensione maggiore (6.400 e 4.800 m²), sono localizzabili in località “lo Scerto”21 e,
insieme alle proprietà in Cupoli delimitate da un confine, costituiscono le aree più periferiche gra-
vitanti intorno a un probabile insediamento demico presso la chiesa di S. Felice, attestata anch’essa
negli stessi documenti e localizzata nell’attuale Scoppito. Il confine verso il territorio di Preturo
lo possiamo desumere da un documento del 1037 in cui si tratta di un terreno, localizzabile in
base al toponimo in “Pratelle”,22 a est di Collettara, a ridosso probabilmente dell’antica via Cecilia
che costituiva il più ovvio confine in considerazione anche dei toponimi ancor oggi esistenti che
permettono la individuazione dei terreni situati nel territorio di Preturo.
A ovest, ai limiti della valle di Corno ritengo possa essere localizzato l’insediamento di “Casale
Porcule”23 documentato in un atto dell’anno 898 e ceduto all’abbazia di Farfa con i “casali, terre
e vigne nonché con la chiesa di S. Silvestro e la torre anch’essa in Porcule”, da Albuino della
provincia dei Marsi. La località S. Silvestro è indicata come confine tra le diocesi amiternina,
forconese e reatina nel Diploma di Ottone I del 956 e le successive vicissitudini della chiesa, che
si trasformerà in Abbazia, consentono tale definizione topografica.24
Ancora un documento farfense, un atto del 1034, indirettamente conferma tale attribuzione e
ci rende noto che un altro centro insediativo si trovava all’inizio della valle di Corno in “Villano”

14
SALADINO 2000, p. 86. 20
PANI ERMINI 1980, p. 50-51.
15
Chron. Farf., 249. 21
SALADINO 2000, p. 46-47.
16
Reg. Farf., III, doc. 366. 22
SALADINO 2000, p. 46.
17
Reg. Farf., III doc. 359, IV doc. 729. 23
ACONE 2003.
18
PANI ERMINI, 1980 pp. 50-51. 24
ACONE 2003.
19
ALBERINI 2005.
240 MARIA RITA ACONE

Fig. 2 – Sito “i Palazzi”.

Fig. 3 – S. Pietro di Corno: il portale del 1291.

Fig. 4 – S. Bartolomeo. Fig. 5 – S. Valentino.

sorto probabilmente in relazione alla Fisternae romana. Il suddetto documento informa su terre
appartenenti alla chiesa di S. Silvestro che, secondo l’interpretazione data, non si trovava lontana,
e fornisce importanti elementi anche su una attività “mineraria” esistente in zona e deducibile
dal toponimo ad ferrum cavatum.
Tra i possessori delle terre è da annoverare certamente anche il monastero di S. Bartolomeo,
identificabile con l’attuale chiesa dello stesso nome, documentato in Collectario di Amiterno per-
ché sede di un placito nel 102125 anche se solo nei secoli successivi si ha nei documenti la prova
di un suo importante ruolo economico nell’area in studio.
Il diploma di Ottone 1 del 981 attesta l’esistenza a tale data della chiesa di S. Valentino, attuale
chiesa di S. Valentino(B8) (Fig. 5), un documento farfense del 103126 la chiesa di S. Beroto, attuale
S. Dorotea (B9) come proprietarie di terre. Nel 1154 le suddette chiese sono elencate tra le pievi

25
Chron. Farf., II, p. 46. 26
Reg. Farf., doc. 734.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELLA VALLE DEL RAIO 241

confermate nella bolla di Anastasio IV al vescovo reatino. Completa il quadro insediativo risalente
al X-XI secolo la chiesa di S. Pietro in Corno nominata in un documento dell’anno 98127.
La presenza di un numero elevato di pievi e/o monasteri in un territorio di dimensioni
modeste(ben sette), la documentata esistenza di centri di aggregazione (vedi Villanum, Casale
Porculae, Casale, Collectarium, Foruli) e il loro sorgere in luoghi in qualche modo sede di antichi
insediamenti di epoca romana, depongono per una continuità di vita anche per i secoli dell’alto
medioevo per i quali non si dispone di una documentazione d’archivio e/o archeologica in assenza
di ricerche archeologiche sistematiche.
I documenti farfensi danno soltanto un’idea di quello che doveva essere il tipo di proprietà
delle terre coltivate e coltivabili; se ne può dedurre che, oltre all’abbazia di Farfa, possedevano
terre piccoli proprietari, pievi, la diocesi di Rieti, probabilmente altri monasteri. Le indicazioni dei
confini fanno dedurre che la pianura era almeno in gran parte coltivata, tenuta a prato o a vigna,
in ogni caso utilizzata, bisogna tuttavia rilevare che la quantità di terreni di cui abbiamo notizia
costituiscono una parte non rilevante dell’intero territorio anche se certamente significativa. Per
quanto riguarda terreni pubblici si ha notizia di un «gualdo pubblico di monte Calvo» che Teodi-
cio duca di Spoleto nell’anno 76728 concede all’abbazia di Farfa in uso per il pascolo di pecore e
giumente, il che ci conferma la presenza di proprietà ducali da affiancare ad una probabilmente
vasta proprietà fondiaria di famiglie longobarde affidata a servi in piccoli e medi appezzamenti.
In altri luoghi dell’amiternino ciò è dimostrato da atti di donazione all’Abbazia ed è da ritenere
che la terra sia in parte rimasta proprietà di ricchi possidenti che entrano quindi a far parte della
complessiva gestione del territorio che si è tentato di delineare.

Il paesaggio nell’XI-XII secolo: il sistema della pieve e del castello


All’inizio del secolo XI, per questa ristretta aerea dell’Amiternino si ha un’unica attestazione
di una costruzione con funzioni difensive: la torre di Casale Porcule del documento farfense
dell’anno 89829. La localizzazione proposta per la posizione strategica al termine della valle di
Corno, a ridosso dell’ultima gola prima della conca amiternina, ben si accorda con le motivazioni
di difesa e controllo della viabilità principale di accesso a tutta l’aerea. Un altro insediamento
con tali funzioni e di probabile antica origine è da considerare il castello di Forcellette se si ac-
coglie la tesi che lo indica come «unico castelliere di VI secolo della provincia dell’Aquila»30. La
posizione del castello, desumibile dai resti materiali ancora visibili, era legata al controllo di un
importante percorso di accesso ai pascoli di monte Calvo e Cascina. Il castello, posto proprio
all’inizio del sentiero diretto al valico la Forca, era probabilmente, in età normanna, parte di un
sistema di difesa e controllo delle vie delle transumanza che, proprio in tale epoca, aveva ripreso
vigore grazie alla nuova situazione politica che vedeva l’Abruzzo nuovamente legato alla Puglia,
tradizionale terra di pascolo per i suoi armenti31.
Si trattava certamente anche di un sistema di difesa posto lungo un’ulteriore via di accesso al
Regno da nord-ovest, ai confini con lo stato della Chiesa. Il piano di Cascina consente infatti, at-
traverso valli montane, il passaggio al piano di Cinno e quindi il collegamento con Antrodoco.
L’osservazione della topografia dei luoghi permette di supporre che il castello di Forcellette,
pur se già esistente in epoca longobarda, abbia avuto sotto i Normanni nuovo impulso per la
funzione di difesa ai confini del Regno e di controllo delle greggi transumanti.
L’altro sito, sorto probabilmente in relazione al controllo della viabilità montana nella fase
dell’incastellamento normanno, è denominato dai locali “le Turri”(B10) e nella cartografia IGM
“la Torretta”32. Si trova a circa 1000 metri di altitudine, sulle pendici del monte Soffiavento,
lungo la valle S. Leonardo che collega Scoppito al valico la Forca. Il sentiero che percorre la valle
ha inizio nei pressi della chiesa di S. Valentino di Scoppito che, come già esposto, è in stretto
collegamento con l’attuale abitato ed è documentata come cella di S. Silvestro nel 1122 e come
pieve nella bolla di Anastasio IV del 1154.
Il Catalogus Baronum33 documenta l’ulteriore fase di incastellamento confermata dalla confi-
gurazione degli attuali villaggi e dalla presenza di resti archeologici di altri ormai scomparsi.

27
V. in nota 8. 31
CLEMENTI 1991.
28
Reg. Farf., doc. 76. 32
Carta IGM 1: 25.000, 139 II SO.
29
Reg. Farf., doc. 340. 33
Catalogus baronum.
30
AA.VV. 2001.
242 MARIA RITA ACONE

Tra questi il “Castelluccio”(B11) di Vigliano, ben individuabile dalla carta IGM e con riscontri
di murature ancora visibili sul terreno, quello di Rocca di Corno, che doveva essere in relazione
topografica con la chiesa di S. Pietro in Corno oggi nell’abitato di Sella di Corno, la Rocca S.
Silvestro, localizzabile sul colle S. Silvestro in località denominata dai residenti “Castelluccio”
(B12) con riscontri di murature ben individuabili sul terreno.
Il Catalogus fornisce una testimonianza della seconda metà del XII secolo, ma il fenomeno
doveva aver avuto probabilmente origini più antiche, legate alla rinascita economica del X-XI
secolo e alle necessità di difesa sorte dopo le invasioni saracene. Con i Normanni, in ogni caso,
l’incastellamento di questa particolare area ha avuto sicuramente un impulso dovuto, sia alla ripresa
della transumanza, sia alla valenza di area di confine del Regno. Ne sono prova i numerosi castelli
della valle di Corno, tra cui quello di Rocca di Corno (attuale Sella di Corno) e di Vigliano, la
presenza di castelli e torri con funzione difensiva lungo la viabilità montana, nei luoghi strategici
per il controllo dei valichi. Soltanto una verifica con tecniche di scavo archeologico, potrà o meno
confermare l’ipotesi di un incastellamento risalente al X-XI secolo e, per alcuni siti, ad epoche
ancora precedenti (Forcellette).
Le località censite hanno poi una particolare potenzialità dimostrativa in relazione alle dina-
miche del popolamento più accreditate per il territorio aquilano34.
La ricerca conferma infatti il percorso più probabile nell’evoluzione del popolamento e cioè
il passaggio dal vicus alla pieve e dalla pieve al castello senza fasi di abbandono. Nei siti studiati
è costante una preesistenza romana dimostrata o dalla presenza di un vicus, o di un toponimo
significativo in tal senso (Collettara), o dall’esistenza di resti materiali risalenti ad epoca imperiale
(ad es. S. Bartolomeo). È costante anche il rapporto territoriale con la rete viaria che, come de-
scritto, ha una forte connotazione di continuità, con strade romane che ancor oggi si conservano
nella loro direttrice e a volte nel percorso. Sorge la pieve a testimonianza di un popolamento che
riutilizza le strutture, non solo materiali, ma anche organizzative ed economiche del precedente
status, manca il potere centrale di Roma, ma, in base a quanto si può arguire, il sistema pagani-
co-vicano rimane integro e siti come Collettara acquisiscono una funzione di centralità rispetto
al territorio dovuta fondamentalmente alla loro posizione strategica per il controllo della zona
agricola e delle vie di accesso.
L’incastellamento, così come oggi ci appare, è stato un fenomeno che ha profondamente segnato
questo territorio. Comprenderne fino in fondo le dinamiche e l’evoluzione nel tempo è uno dei
motivi che possono rendere particolarmente utile una ricerca archeologica nell’area studiata per
il numero e la qualità dei siti castellani. Forcellette ha probabilmente la più antica origine, ma
non è da trascurare il fatto che, probabilmente una torre con funzioni di avvistamento e difesa
era situata, in epoca antecedente al X secolo, in località S. Silvestro. Castelli e torri sorti in epoca
normanna sono Vigliano, le Turri di Scoppito, Rocca di Corno, Rocca S. Silvestro e anche quelli
già citati che hanno avuto, se più antichi, una continuità di vita che ne rende particolarmente
auspicabile lo studio con lo scavo archeologico.
La ricerca dimostra la presenza di uno schema topografico che si mantiene costante in ogni
sito: la pieve, situata a mezza costa o ai margini della piana coltivabile; l’insediamento fortificato,
posto a breve distanza, su una altura, con ampia visibilità sul territorio; il villaggio, sorto dopo la
distruzione del castello, in continuità con l’antica pieve. Tipici in questo senso Forcellette, Scoppito,
Rocca di Corno, mentre per Vigliano si ha una ricostruzione tardiva su un sito diverso anche se
a breve distanza dall’antico castello e per Rocca S. Silvestro si ha la completa distruzione anche
se ricerche in corso confermerebbero per questo castello le osservazioni topografiche esposte.

CONCLUSIONI
Le costruzioni medievali più rappresentative e antiche censite sono quelle di natura religiosa e
quelle di natura difensiva. Le chiese si sono conservate nel tempo e, anche se presentano caratteri
e strutture derivanti dalle varie ricostruzioni, mostrano quasi sempre elementi che rimandano
all’originale impianto, antecedente all’XI secolo, caratterizzato da una estrema essenzialità spaziale
e formale. Si tratta infatti di chiese ad aula, a volte monoabsidata, con copertura a tetto a due

34
REDI 1997, pp. 427-428.
PER UNA TOPOGRAFIA MEDIEVALE DELLA VALLE DEL RAIO 243

falde, con caratteri di estrema semplicità, come ad esempio la chiesa di S. Maria di Fontepianura
(B13).
Una maggior ricchezza architettonica e decorativa caratterizza gli edifici sorti nel XII secolo,
con facciata realizzata in blocchi di pietra ben squadrati e lavorati in superficie, di portali in pietra
con talvolta decorazioni negli stipiti e affreschi nella lunetta, presenza di decorazioni in pietra,
di cicli di affreschi all’interno e di statue lignee dipinte.
Per i complessi monastici nulla si può dire, considerata la sopravvivenza della sola chiesa di S.
Bartolomeo: un approfondimento con tecniche di scavo, potrà fornire elementi e conferme sui
due monasteri individuati, S. Silvestro di Pietrabattuta e S. Bartolomeo.
Lo studio dell’edilizia civile e difensiva presenta maggiori difficoltà per lo stato in cui versano
i ruderi dei castelli censiti, ma nello stesso tempo potrebbe costituire una insostituibile fonte di
notizie, proprio per lo stato di abbandono dei siti che risale al XIII-XIV secolo. Resti murari
importanti caratterizzano il colle dell’antico Castello di Vigliano: le dimensioni dell’area, le
murature ancora visibili, la conformazione del colle, fanno ritenere che le pendici volte a ovest
fossero terrazzate per dare spazio alle abitazioni del borgo.
Il castello di Forcellette non conserva murature visibili, ma tutta l’area sommitale del colle
Castello è caratterizzata da avvallamenti e crolli che testimoniano la presenza di ambienti inter-
rati, è inoltre ben individuabile l’andamento del muro perimetrale che segue una quota di livello,
formando una ellissi che circonda l’area sommatale..
Le turri di Scoppito, il monte “la Torretta”, il monte “la Rocca” e lo stesso monte S. Angelo,
sede di un insediamento non ancora indagato ma testimoniato da resti materiali ben individuabili
sulla sella del monte, non costituiscono soltanto un insieme di nomi che potrebbero far ipotizzare
l’esistenza di ulteriori presidi difensivi, ma, per la loro posizione e la loro altitudine, dai circa 1000
metri del monte “la Torretta” ai 1440 del monte “la Rocca”, potrebbero costituire un’ulteriore
“cintura” difensiva della conca amiternina. Dedicare ricerche a questi siti contribuirà certamente
a chiarire dubbi e a verificare le ipotesi che vengono avanzate sulle fasi dell’incastellamento nelle
zone più interne dell’Abruzzo.

BIBLIOGRAFIA
AA.VV. 2001 = AA.VV., Abruzzo dei Castelli, L’Aquila.
ACONE 2003 = M.R. ACONE, L’insediamento medievale nella valle del Raio, tesi di laurea Facoltà di
Lettere Università degli Studi dell’Aquila, Anno Accademico 2002-2003.
ALBERINI 2005 = F. ALBERINI, Insediamenti nel territorio amiternino in età tardoantica e altomedievale,
tesi di dottorato, Università degli Studi dell’Aquila, Anno Accademico 2004-2005.
Chron. Farf. = I. GIORGI, U. BALZANI (a cura di), Il Chronicon Farfense di Gregorio da Catino, Roma,
1903, Fonti per la Storia d’Italia, Istituto Storico italiano.
CLEMENTI 1991 = A. CLEMENTI, L’organizzazione demica del Gran Sasso nel medio evo, L’Aquila.
Lib. Larg. = G. ZUCCHETTI, Liber Largitorius vel Notarius Monasterii Pharphensis, in Regesta Chartarum
Italicarum, Roma, 1913 (vol. I), 1932 (vol. II).
MIGLIARIO 1995 = E. MIGLIARIO, Uomini, terre e strade, aspetti dell’Italia centro appeninica fra antichità
e alto medioevo, Bari.
PANI ERMINI 1980 = L. PANI ERMINI, Possessi farfensi nel territorio di Amiterno. Note di archeologia
altomedievale, «Archivio della Società Romana di Storia Patria».
PERSICHETTI 1893 = N. PERSICHETTI, Viaggio archeologico sulla via Salaria nel circondario di Cittaducale,
Roma.
REDI 1997 = F. REDI, L’incastellamento nel territorio aquilano: primi dati per una ricerca archeologica,
«Archeologia medievale» XXIV, pp. 427-438.
Reg. Farf. = U. BALZANI (a cura di), Il Regesto Farfense, Roma, 1879-1892 (vol. II-V), 1914 (vol. I).
SALADINO 2000 = L. SALADINO, I monasteri benedettini dell’Abruzzo interno, Roma.
SEGENNI 1985 = S. SEGENNI, Amiterno archeologica, Pisa.
ZENODOCCHIO 1989 = S. ZENODOCCHIO, Saggio di toponomastica amiternina dai regesti farfensi, Bullettino
della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, L’Aquila.
I centri urbani del Molise fra tarda antichità e medioevo*

CARLO EBANISTA

1. DAL SAMNIUM AL MOLISE: CONFINI AMMINISTRATIVI E CONTESTO GEOGRAFICO


Con la divisione augustea dell’Italia, la regio IV (Samnium et Sabina), oltre alle città sannitiche
di Aesernia, Bovianum, Saepinum, Fagifulae e Terventum1, comprese anche il territorio di altre
popolazioni italiche (Equi, Sabini, Vestini, Peligni, Marsi, Marrucini, Frentani)2. Questo ordina-
mento, corrispondente solo in una certa misura all’attuale Molise (poiché includeva anche centri,
quali ad esempio Aufidena, che oggi fanno parte dell’Abruzzo), rimase praticamente invariato
per circa tre secoli, fin quando, con la nuova ripartizione voluta da Diocleziano, fu costituita la
provincia Samnium et Campania3. Inglobando anche territori dei Frentani, dei Larinati e forse dei
Marrucini, il Samnium (Fig. 1) venne così ad occupare un’area, i cui confini coincidevano, grosso
modo, con quelli dell’odierno Molise4. Intorno alla metà del IV secolo, a seguito del terremoto del
346, il Samnium fu staccato dalla Campania e divenne una provincia autonoma che comprendeva
il territorio situato tra i fiumi Aterno e Fortore5. A partire dall’alto medioevo, le vicende storiche
dell’area molisana si collegarono alla presenza dei Longobardi, i quali aggregarono il territorio
al ducato di Benevento, istituendo il gastaldato di Boiano e creando le premesse per la formazio-
ne dell’attuale regione. L’occupazione da parte dei Beneventani differenzia il Molise dal vicino
Abruzzo che fu conquistato perlopiù dai Longobardi del ducato di Spoleto6: già di per sé molto
differenti tra loro, i due ducati ebbero una storia completamente diversa, soprattutto quando,
nella seconda metà dell’VIII secolo, Spoleto (e quindi l’Abruzzo) cadde in mano franca, mentre il
ducato di Benevento (comprendente l’attuale Molise) conservò la sua autonomia e fu trasformato
in principato7. L’organizzazione amministrativa longobarda, probabilmente non ancora fissa almeno
sino al IX secolo8, è poco documentata; gastaldi risiedevano a Boiano e forse ad Isernia9, mentre
il gastaldato Bifernensis non è riconducibile ad una specifica città. Durante la seconda metà del
IX secolo, con l’esaurirsi dell’autorità del duca di Benevento e il fiorire di signorie locali, si assisté
alla frammentazione del territorio molisano in contee10. Sottoposte alla pressione militare e alla
politica unificatrice dei sovrani normanni, nell’XI secolo le contee furono costrette a soccombere
di fronte all’agguerrita feudalità; il loro territorio, che alla fine del X secolo abbracciava l’intera
regione molisana, venne suddiviso tra le due contee di Molise e Loritello11.
Il Comitatus Molisii ebbe il suo primo nucleo in Boiano, ma poi estese il suo dominio sulle
contigue signorie longobarde di Venafro e Isernia e su una parte della Terra Burrellensis12. Il
termine Molise, com’è noto, è di origine normanna: Moulins-la-Marche (arrondissement di
Mortagne-au-Perche, departement dell’Orne) è il luogo di origine della famiglia normanna che
nell’XI secolo conquistò la contea longobarda di Boiano e altre minori13. La contea di Molise
venne istituita nel 1142 da re Ruggiero II d’Altavilla, quando riorganizzò tutta la struttura feu-

* Rivolgo un doveroso e sentito ringraziamento alla prof. 5


THOMSEN 1947, pp. 217, 295-296, 303-307; CHASTAGNOL
ssa Stella Patitucci Uggeri per avermi cortesemente invitato a 1963, pp. 362, 366; CÀSSOLA 1991, p. 138; DE FELICE 1994,
partecipare al Congresso. Per le proficue discussioni sull’ar- p. 33; WIGHTMAN 1994, p. 48; DE BENEDITTIS 1995a, p. 331;
gomento affrontato in questa sede, ringrazio il dott. Mario DE BENEDITTIS 2000, p. 1; BARKER et al. 2001, p. 235; NIGRO
Pagano, soprintendente per i Beni Archeologici del Molise, e 2003, pp. 94-95; SAVINO 2005, p. 299.
i proff. Letizia Pani Ermini, Marcello Rotili, Gianfranco De 6
GIUNTELLA 1994, p. 232; STAFFA 1997a, p. 113; STAFFA
Benedittis e Michele Raddi. 2004, pp. 230-231.
1
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 163. 7
MARTIN 2004, p. 11.
2
THOMSEN 1947, pp. 101-103; DE BENEDITTIS 1988a, pp. 8
MARTIN 2004, p. 18.
23-24; SOLIN 1996, pp. 17-20; BRANCACCIO 2005, p. 18. 9
MARAZZI 2006, p. 55.
3
THOMSEN 1947, pp. 210-217; DE BENEDITTIS 1991c, p. 10
DE BENEDITTIS 2000, p. 12; BARKER et al. 2001, pp. 280-
325; BALDACCI 1991, p. 16; NIGRO 2003, p. 94; SAVINO 2005, 281; BRANCACCIO 2005, pp. 30-33.
p. 18, nota 13. 11
DE BENEDITTIS 2000, p. 13; BRANCACCIO 2005, p. 35.
4
MARTIN 2004, p. 11; BRANCACCIO 2005, pp. 18-19; SAVINO 12
BRANCACCIO 2005, p. 35.
2005, p. 299. 13
MARTIN 2004, p. 11.
246 CARLO EBANISTA

Fig. 1 – Il Samniun nella ricostruzione di H. Kiepert.

dale e militare del regno di Sicilia14; essa fu così chiamata dal cognomen toponomasticum del
suo primo titolare, un vecchio feudatario della regione, già conte di Boiano, che si chiamava
Ugo de Mulisio15. Nella prima età angioina la contea si estinse quale organismo feudale e il suo
territorio, come Contado di Molise, fu associato dapprima alla Terra di Lavoro e dal 1538 alla
Capitanata16; solo nel 180617, allorché Giuseppe Bonaparte le aggregò il distretto di Larino e
i circondari di Venafro e Castellone, ebbe il riconoscimento definitivo della sua delimitazione
geografica e della propria autonomia18.

2. IL TRACOLLO DEI CENTRI URBANI


Nell’area molisana, dopo la guerra sociale, esigenze di ordine amministrativo condussero al
potenziamento di centri situati in località montane come Terventum e Fagifulae, insieme con altri
(Saepinum, Aesernia, Bovianum)19, ove il processo di urbanizzazione si era già avviato spontanea-

14
CUOZZO 2004, p. 39. Telesia (SIMONELLI, BALASCO 2005 con bibliografia precedente)
15
CUOZZO 2004, pp. 39-40. e Allifae (cfr. da ultimo MIELE 2005, pp. 490-492), oggi ap-
16
PELLICANO 2004, pp. 69-70. partenenti alla Campania, e Aufidena che è ubicata nell’alta
17
SCERRATO 1981, p. 111. valle del Sangro, in territorio abruzzese (COARELLI, LA REGINA
18
BRANCACCIO 2005, pp. 12, 18. 1984, pp. 260-261; STAFFA 1995, p. 201; STAFFA 1997a, p.
19
Dedicato esclusivamente alle città dell’odierno Molise, 118; STAFFA 2004, p. 231).
questo contributo non prende in esame centri importanti, quali
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 247

mente20. La romanizzazione determinò una graduale urbanizzazione che portò al concentramento


delle attività edilizie, grazie all’evergetismo dei magistrati e ai finanziamenti dei collegia dei liberti;
nonostante la vastità della regione, il processo di municipalizzazione, tuttavia, si affermò attraverso
una rada trama di insediamenti urbani21 (Fig. 1). Con l’età severiana, come nel resto dell’Italia
suburbicaria, i centri urbani cominciarono peraltro a risentire gli effetti di una crisi latente e solo
con la soluzione politica tetrarchica e poi costantiniana si assisté ad una ripresa22. La situazione
venne ulteriormente aggravata dal terremoto del 346 d.C.23 che, come già detto, portò al distac-
co del Samnium dalla Campania24. Tra IV e V secolo i principali centri urbani erano Venafrum,
Larinum, Bovianum, Saepinum, Aesernia e Terventum25; se si eccettuano le ultime due città, per
le quali non abbiamo testimonianze, le altre erano sedi diocesane26. Come documentato nel resto
d’Italia, dopo il 410 d.C. i restauri degli edifici pubblici non furono più promossi da privati o
magistrati locali, ma solo dal patronato del governo centrale e limitatamente ai palazzi imperiali e
alle fortificazioni, sicché si assisté all’abbandono e alla decadenza di teatri, anfiteatri e terme27. La
guerra greco-gotica e la conquista longobarda peggiorarono ulteriormente la situazione28, tanto
che, tra VI e VII secolo, i centri urbani erano in profonda crisi29. La gravità della condizione del
Samnium traspare dalle parole di Paolo Diacono che, nel registrare gli eventi dell’epoca del duca
Romualdo, fa riferimento agli «spatiosa ad habitandum loca, quae usque ad illud tempus deserta
erant»30. Nell’età di transizione alcune città furono abbandonate (Fagifulae, Saepinum), altre
subirono una dislocazione (Bovianum, Larinum), mentre altre continuarono ad essere abitate
(Aesernia, Venafrum, Terventum), anche se con una probabile contrazione del tessuto urbano.
Stando alla documentazione superstite, nessuna di esse conservò la sede vescovile; per ritrovarne
una bisogna, infatti, giungere alla metà del IX o X secolo31. Le modifiche del quadro religioso
indotte dagli accadimenti della conquista longobarda diedero luogo a consistenti trasformazioni
nell’assetto amministrativo del territorio32. Dal VII secolo sino al X-XI il territorio molisano venne
a trovarsi, molto probabilmente, sotto il diretto controllo del vescovo di Benevento33; qualora
ciò fosse confermato, si dovrebbe supporre la scomparsa di tutte le diocesi molisane incluse nel
Samnium tardoantico34 (Fig. 1).
L’analisi delle diversità locali del fenomeno urbano prende avvio dalle cosiddette ‘città di
successo’35, cioè quelle che sono state ininterrottamente abitate. Ad Isernia (423-461 m s.l.m.),
ubicata nell’alta valle del Volturno (Fig. 1) su un’altura tagliata dai valloni dei fiumi Sordo e
Carpino36 (Fig. 2), la continuità tra la città romana di Aesernia e l’insediamento medievale è
garantita dalla sostanziale sopravvivenza del tessuto urbano, anche se con una contrazione del-
l’abitato e un ridimensionamento del circuito murario sui versanti occidentale e orientale37. Se

20
LA REGINA 1966; MATTEINI CHIARI 1974, pp. 177-182; 31
Cfr. infra, nota 34.
TERZANI 2001a, p. 29. 32
STAFFA 1995, p. 222.
21
MATTEINI CHIARI 1974, p. 180; D’HENRY 1991a, p. 33
MARTIN 2004, p. 20.
205. 34
Fatta eccezione per la sede vescovile di Isernia che è
22
PAVOLINI 1993, p. 178; BROGIOLO 2006a, p. 620; per documentata nell’847 (Chronica monasterii Casinensis, I, 28,
la Campania cfr. ROTILI 2005, pp. 30-31; per l’Abruzzo cfr. p. 82: «Eo tempore cum annus ab incarnatione Domini oc-
STAFFA 2006, pp. 449-450. tingentesimus quadragesimus septimus volveretur, tam ingens
23
Catalogo dei terremoti 1999, p. 27, n. 14; MATTEINI terremotus per universam Beneventi fuit regionem, ut Isernia
CHIARI 2004, p. 185; SAVINO 2005, p. 299. fere tota a fundamentis corrueret multusque ibi populus, et
24
Per la questione cfr. SAVINO 2005, p. 299, nota 196. ipse cum eis eorum pontifex interiret»; Chronicon Vulturnense,
25
Ben poco sappiamo sull’esistenza dell’oppidum di Buca p. 306: «et hoc quoque tempore tam ingens terremotus per
che va forse identificato con Campomarino (CARROCCIA 1992) universam Beneventi factus est regionem, ut Hysernia fere tota
o con Termoli (DE BENEDITTIS 1997, p. 15). a fundamentis corrueret, multusque ibi populus, et ipse cum eis
26
La diocesi di Venafro è attestata dal 496 al 595; quella di eorum pontifex, interiret»; cfr. DE BENEDITTIS 1991c, p. 327;
Larino dal 493-494 al 556-561; la sede di Bovianum forse nel TERZANI 2004, p. 174) e con maggiore certezza a partire dal 943
495, ma di certo nel 501-502; quella di Saepinum nel 501-502; e per la diocesi di Trivento che è attestata nel 946, le altre sedi
nel 502 è documentato anche un Marcus, episcopus ecclesiae molisane compaiono solo a partire dalla prima metà dell’XI se-
Samninae (LANZONI 1927, pp. 177, 263, 277, 378-379; KEHR colo; a seguito della ristrutturazione delle rete diocesana, Iser-
1935, pp. 238-239; KEHR 1962, pp. 175, 200; VITOLO 1990, nia e Venafro rientrarono nella metropolia di Capua, mentre
pp. 76-78; DE BENEDITTIS 2000, p. 2; NIGRO 2003, pp. 97-103; Larino, Termoli, Guardialfiera, Limosano, Trivento e Boiano in
MARTIN 2004, p. 14); per l’identificazione della sede di Marcus quella di Benevento (KEHR 1935, p. 242; KEHR 1962, pp. 172,
cfr. NIGRO 2003, pp. 108-114. 195; VITOLO 1990, pp. 77-78, 118; MARTIN 2004, pp. 14, 21).
27
PAVOLINI 1993, p. 195; ARTHUR 1999, p. 188. 35
Per i termini ‘città di successo’ e di ‘insuccesso’ cfr. da
28
BARKER et al. 2001, pp. 276-278; NIGRO 2003, pp. ultimo ARTHUR 2006, p. 28.
104-105. 36
DE BENEDITTIS, MATTEINI CHIARI, TERZANI 1999, p. 32;
29
BROGIOLO 2003, p. 598. TERZANI 2001a, p. 25.
30
PAULI DIACONI Historia Langobardorum, V, 29; cfr. DE 37
DE BENEDITTIS, MATTEINI CHIARI, TERZANI 1999, pp. 63-
BENEDITTIS 1995a, pp. 331-332; BARKER et al. 2001, p. 235. 64; TERZANI 2004, p. 174.
248 CARLO EBANISTA

Fig. 2 – Isernia, planimetria: 6, S. Maria delle Monache; 7, cattedrale.


I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 249

diversi atti di evergetismo documentano l’interessamento dei rectores del Samnium al rilancio di
Aesernia negli anni successivi al terremoto del 346 d.C. (restauro del macellum e delle mura)38,
la cristianizzazione della città è documentata da un’epigrafe del V secolo scoperta nella chiesa di
S. Maria delle Monache39, oltre che dall’edificio di culto rinvenuto al di sotto del duomo (Fig. 3).
Gli scavi condotti alla fine del secolo scorso all’interno della cattedrale (Fig. 2 nr. 7) e nel cortile
dell’adiacente episcopio hanno messo in luce il podio di un tempio italico con ingresso sul lato
meridionale40, sul quale furono edificate, in successione di tempo, due chiese: la più antica man-
tenne l’orientamento del tempio (ingresso a sud e abside a nord), mentre la più recente ebbe un
orientamento opposto (ripreso dall’attuale cattedrale)41. La circostanza che all’edificio templare si
accedeva da sud sembra escludere l’identificazione del foro di Aesernia con l’attuale piazza Andrea
d’Isernia che sorge sul lato nord del complesso cultuale42. Di recente Pagano, nell’evidenziare che
la posizione elevata del tempio fa pensare ad un’area sacra nell’ambito dell’arce piuttosto che del
foro, ha supposto che quest’ultimo sorgesse presso la chiesa di S. Maria delle Monache43 (Fig. 2 nr.
6). I risultati degli scavi nel complesso della cattedrale sono rimasti in gran parte inediti, almeno
per ciò che riguarda le trasformazioni del tempio in edificio di culto cristiano44 (Fig. 3), secondo
una prassi peraltro poco diffusa in Italia45. Tra tarda antichità e alto medioevo intorno alla chie-
sa46, dotata di vasca battesimale47 e annesso cimitero, si organizzò «un primo polo amministrativo
religioso [...] nella parta alta della città romana»48. La Pani Ermini, in concomitanza con il riesame
dei risultati delle vecchie ricerche archeologiche, ha fatto analizzare le ossa che nel corso degli
scavi erano state trovate in un sarcofago (Fig. 4) ubicato nell’abside della chiesa di prima fase, in
una posizione chiaramente privilegiata. È stato così possibile accertare che l’individuo (a lungo
ritenuto un personaggio ecclesiastico di alta dignità, se non addirittura uno dei primi vescovi di
Isernia49) venne deposto all’età di 30-40 anni in un’epoca compresa tra la fine dell’VIII secolo e il
X; la sua tomba fu realizzata dopo che la chiesa era stata ruotata di 180°, sicché venne a trovarsi
nell’area antistante l’ingresso del nuovo edificio, al centro della vecchia abside50. Gli scavi hanno
evidenziato che il cimitero si sviluppò sia all’interno della chiesa, sia al suo esterno nell’area
dell’attuale cortile dell’episcopio: le sepolture scoperte all’esterno dell’edificio, se si eccettua un
sarcofago in tufo, furono realizzate con cassa in muratura e coperte da lastroni squadrati; la pre-
senza di tracce di combusto tra le tombe potrebbe indicare l’uso di pratiche rituali51. Nella tomba
3, appartenuta ad un infans, è stata rinvenuta una forma chiusa ansata dipinta in rosso scuro con
bande oblique parallele, contrapposte, e a reticolo52 (Fig. 5); si tratta di un frammento di fiasca
in ceramica tipo Crecchio della caratteristica forma IX che sembra segnalare anche nel Molise
interno l’esistenza di inumazioni con corredo di questa classe ceramica così diffusa nell’Abruzzo
costiero53. In attesa che il materiale proveniente dal sepolcreto venga integralmente pubblicato,
l’uso dell’area cimiteriale è stato datato genericamente all’alto medioevo54. Resta peraltro da
appurare se l’impianto della necropoli urbana coincise con la dismissione dell’area funeraria
antica che sorgeva in località Quadrella, alla confluenza dei fiumi Sordo e Carpino, in relazione
alla strada proveniente da Venafro; gli scavi condotti in quest’area extraurbana hanno, infatti,
individuato un sepolcreto con tombe perlopiù ‘a cappuccina’, che, se si esclude la sepoltura 33
databile fra IV e VI secolo55, risulta impiegato fino al IV secolo56. Un’altra area cimiteriale urbana

38
COARELLI, LA REGINA 1984, pp. 183, 185; DE CARO 1991, 45
PANI ERMINI 2004, pp. 265-266.
p. 270, nota 21; TERZANI 2001a, p. 32; BUONOCORE 2003, pp. 46
La costruzione della chiesa è stata assegnata al V secolo
46-51, nn. 15-18. (VALENTE 1982, p. 258; VITI 1984, p. 268, nota 17; TERZANI
39
DE BENEDITTIS, MATTEINI CHIARI, TERZANI 1999, pp. 107- 2001b, pp. 85-86), all’«età ostrogota o bizantina» (PAGANO
108, n. 17; BUONOCORE 2003, p. 209, n. 241; TERZANI 2004, 2004, p. 76), al VI-VII secolo (VITI 1981, p. 200), al VII-VIII
p. 174, nota 60. secolo (MARASCO, DE ROSE 2000b, pp. 48-49).
40
TERZANI 1989a, p. 95; D’HENRY 1991b, p. 14, nota 10; 47
La vasca battesimale sorgeva in un annesso ubicato a
TERZANI 1995, p. 129; ZULLO 1996, p. 24. lato dell’abside (PANI ERMINI 1998a, p. 240, nota 94; CANTINO
41
PANI ERMINI 1998a, p. 240, nota 94; PANI ERMINI 1998b, WATAGHIN 1999, p. 682; CANTINO WATAGHIN, CECCHELLI, PANI
pp. 22, nota 2; PANI ERMINI 2004, pp. 265-266. ERMINI 2001, p. 238, nota 37).
42
Cfr. da ultimo MARASCO, DE ROSE 2000a, pp. 28-29; TER- 48
TERZANI 2004, p. 174.
ZANI 2001a, p. 31; TERZANI 2001b, p. 83; TERZANI 2004, p. 172. 49
TERZANI 2001b, p. 86.
43
PAGANO 2004, pp. 76-77. 50
PANI ERMINI 2004, p. 266.
44
La mancata pubblicazione dei dati di scavo non permette 51
TERZANI 2004, pp. 172-173.
di appurare «il rapporto cronologico fra l’abbandono del 52
TERZANI 2004, p. 173, fig. 9.
tempio e la fondazione della chiesa, le condizioni del tempio 53
STAFFA 2000, p. 118; STAFFA 2004, p. 228, fig. 12.
al momento del suo recupero, il nesso strutturale fra l’uno e 54
TERZANI 2004, p. 173, nota 54.
l’altro edificio e le procedure messe in atto per realizzarlo» 55
TERZANI, MATTEINI CHIARI 1997, p. 42.
(CANTINO WATAGHIN 1999, p. 682). 56
TERZANI 1991, pp. 227-228; TERZANI 1995, p. 130.
250 CARLO EBANISTA

Fig. 3 – Isernia, cattedrale. Pian-


ta con il sottostante tempio.

Fig. 4 – Isernia, cattedrale. Il


sarcofago al centro dell’abside
della chiesa altomedievale.

è stata scoperta presso la chiesa di S. Maria delle Monache (Fig. 2 nr. 6): dalle tombe, in nuda
terra o con cassa in muratura, provengono orecchini a cerchio aperto con decorazioni incise e
una fibula ad anello aperto con terminazioni a volute; il cimitero risale ai primi secoli di vita del
convento che è attestato dall’VIII secolo57. Tra i motivi che spiegano la continuità di vita di Isernia
va certamente inclusa la posizione strategica della città, all’incrocio della direttrice proveniente
da Aufidena (Fig. 6) con il percorso viario che collegava Venafro con l’Adriatico58; proprio sulla
base di questa considerazione, è stato supposto che i Bizantini avrebbero conservato il controllo
di Isernia sino al 595, quando la città sarebbe passata sotto il controllo longobardo59. Rimane
da accertare se, nei frangenti della guerra greco-gotica o dell’invasione longobarda, il circuito
murario antico subì eventuali restauri e adattamenti, in rapporto all’esigenza di presidiare un
ambito ristretto dell’abitato (magari proprio la zona più alta, ove sorgeva la cattedrale).

57
TERZANI 1984, p. 196; TERZANI 2004, p. 175; PAGANO TERZANI 2001a, p. 25.
2004, p. 72. 59
STAFFA 2000, p. 118; STAFFA 2004, p. 228.
58
DE BENEDITTIS, MATTEINI CHIARI, TERZANI 1999, p. 9;
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 251

Fig. 5 – Isernia, area dell’episcopio.


Fiasca frammentaria.

A Venafrum (222 m s.l.m.), ricadente nell’alta valle del Volturno (Fig. 1), fu dedotta una colonia
in età triumvirale e una in età augustea, allorché la città venne inserita nella regio I (Campania)60.
Ubicato su due alture separate da una valletta, l’abitato romano aveva una pianta regolare co-
stituita da una rete stradale a incrocio ortogonale che in buona parte si conserva nell’attuale
assetto viario (Fig. 7); oltre ai resti del teatro e dell’anfiteatro (Fig. 7 nr. 3-4), rimangono alcuni
tratti delle mura in opera incerta erette tra l’età sillana e quella triumvirale61. Le necropoli erano
collocate lungo le arterie che dalla città si dirigevano a Cassino, Teano e Isernia62. Un’iscrizione
del IV secolo (CIL X/1, 4858) ricorda la statua eretta in onore di Antonius Iustinianus, praeses
provinciae Samnitium, perché statum iam conlapsum pro beatitudine saeculi reparavit63. È stato
supposto che questa espressione faccia riferimento ai danni provocati dal terremoto del 346; gli
scavi hanno d’altra parte rilevato che a Venafro il teatro (Fig. 7 nr. 3) venne fortemente danneg-
giato dal sisma, tanto che si provvide a smontare gran parte della decorazione architettonica e
scultorea, in previsione del restauro che, però, non venne attuato64. Sull’altura (nota come colle
San Leonardo) ad occidente del teatro, forse alla fine del V secolo65, fu edificata la cattedrale66
(Fig. 7 nr. 1): la posizione periferica rispetto all’abitato medievale, sviluppatosi nel settore nord-
orientale della città romana ai piedi del colle Sant’Angelo dominato dal castello (Fig. 7 nr. 5), ha
fatto ipotizzare che nell’alto medioevo l’abitato subì una contrazione che lasciò fuori la chiesa
vescovile e l’anfiteatro67 (Fig. 7 nr. 4). I recenti scavi in via del Carmine (Fig. 7 nr. 2), ubicata a
sud-est del duomo, hanno dimostrato che l’area della cattedrale fu ininterrottamente frequentata
tra l’età romano repubblicana e il basso medioevo68. Alla metà del IV secolo, forse a seguito del
terremoto del 346, nel settore orientale di una villa di età imperiale venne ricavata una cantina
che «fu usata con continuità fino alla conclusione della vita bizantina di Venafro, caduta in mano
longobarda nel 595»69. Il colle San Leonardo, che alla fine del V secolo rappresentava un’area
60
CAPINI 1991, pp. 209, 212; CAPINI 1996, pp. 37, 41. (CAPINI 1991, p. 212; CAPINI 1996, pp. 49, 55-56).
61
LA REGINA 1964, pp. 57, 60-62, figg. 3-4; COARELLI, LA 65
GIOVANNINI 2004, p. 21.
REGINA 1984, pp. 178-180; D’HENRY 1991a, p. 208; CAPINI 66
CAPINI 1991, pp. 212-213; MORRA 1996, pp. 104-105;
1991, p. 209, fig. 2; CAPINI 1996, pp. 40-41, 44-50; CERAUDO MORRA 2000, pp. 91-92.
2003, p. 433, fig. 781. 67
AURIGEMMA 1922-23, pp. 58, 75-76, nota 2; CAPINI 1991,
62
CAPINI 1991, p. 212; CAPINI 1996, pp. 50-51. pp. 212-213; CAPINI 1996, pp. 49-50, 105; DE BENEDITTIS
63
DE CARO 1991, p. 270, nota 22; CAPINI 1991, p. 212; 2000, p. 11.
CAPINI 1996, p. 55; CAPINI 1999, pp. 47-48, n. 22. 68
GIOVANNINI 2004, pp. 5-6.
64
Al previsto restauro del teatro di Venafrum sembrano 69
Ivi, pp. 10-12, figg. 6-7. Per la conquista longobarda
riconducibili le sculture e il materiale architettonico che furono di Venafro cfr. DE BENEDITTIS 1988a, p. 26; STAFFA 2004, pp.
accumulati in alcuni ambienti affrescati adiacenti l’emiciclo 225, 228.
252 CARLO EBANISTA

Fig. 6 – Tabula Peutingeriana, segmentum V.

Fig. 7 – Venafro, planimetria: 1, cattedrale; 2, via del Carmine; 3, teatro; 4, anfiteatro; 5, castello.
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 253

«marginale dal punto di vista topografico», sebbene fittamente popolata, non fu, dunque, abban-
donato alla fine del VI secolo, in relazione alla presunta dislocazione dell’abitato in direzione del
colle Sant’Angelo, dove, nel X secolo, sarebbe sorto il castello70. Nella prima metà del VII secolo,
a sud della cantina, fu, infatti, costruita una capanna, a pianta quadrangolare, sulla quale nel X
secolo venne edificato un grande edificio con annessa area produttiva71. Le tracce di frequenta-
zione sono documentate sino all’incendio che nel 1213 distrusse la vicina cattedrale72. Solo nel
corso del XIV secolo l’area, forse a seguito di un’alluvione, fu coperta da uno spesso strato di
natura argillosa che ne segnò il definitivo abbandono73. L’ininterrotta occupazione del colle San
Leonardo, come del resto la frequentazione dell’area del teatro (Fig. 7 nr. 3) almeno fino al VII
secolo74, non esclude, però, che il tessuto urbano abbia subito una contrazione, dal momento che
nell’alto medioevo, com’è noto, le città assunsero l’aspetto di un abitato sparso caratterizzato
dalla disposizione disordinata delle case nelle aree delle antiche insulae e dalla crescita degli spazi
destinati alle colture o abbandonati75. Il fatto poi che a Venafro l’abitato medievale si sia sviluppato
ai piedi del castello (Fig. 7 nr. 5) e non intorno alla cattedrale (Fig. 7 nr. 1) è chiaramente una
scelta strategico-difensiva76, laddove la costruzione dell’attuale duomo nell’area dell’antica chiesa
vescovile conferma che questa solo eccezionalmente venne trasferita dalla sua sede originaria77.
L’altro importante centro romano a lunga continuità di vita è Terventum (Fig. 1), il municipium
istituito, intorno alla metà del I secolo d.C. o poco dopo, nella media valle del Trigno alla con-
fluenza con il Rivo78. All’abitato antico, che non è documentato archeologicamente, si sovrappone
l’attuale centro di Trivento (603 m s.l.m.) che mostra una sostanziale mancanza di regolarità nel
disegno urbanistico79. In netto contrasto con i criteri di distribuzione e organizzazione urbana
è l’arteria che si snoda da via Roma a via Don Rocco attraverso piazza della Cattedrale; l’asse
stradale, che nella parte iniziale risale dritto il versante meridionale del colle incrociando una
serie discontinua di bracci viari ortogonali tracciati in forte pendenza, potrebbe corrispondere
al cardo maximus80, laddove la piazza della Cattedrale, aperta e orientata sull’asse di questo
percorso, sembra coincidere con il foro81. La mancanza di scavi non consente di individuare le
trasformazioni che la città subì nella fase di transizione tra tarda antichità e medioevo, allorché
prese avvio il reimpiego dei materiali di epoca romana (frammenti scultorei, rilievi, iscrizioni,
elementi architettonici) che sono attualmente murati in diversi edifici del centro storico, oltre
che nella cripta del duomo82 (Fig. 8).
Veniamo adesso alle città romane che nell’alto medioevo hanno subito una dislocazione,
ossia Bovianum e Larinum (Fig. 1). Nella prima, ubicata alle pendici settentrionali del Matese,
in prossimità delle sorgenti del fiume Biferno83 (Fig. 9), furono dedotte due colonie, una in età
triumvirale e un’altra sotto l’imperatore Vespasiano84. L’abitato romano (482 m s.l.m.) sorgeva
lungo il tratturo Pescasseroli-Candela (che attraversava anche Saepinum), ai piedi dell’altura di
Civita (717 m s.l.m.), ove rimangono ampi resti di un circuito murario di età sannitica85. L’impianto
urbanistico romano si sviluppò nell’area pedemontana con uno schema ad assi ortogonali86 (Fig.
10), simile a quello di Venafro. La viabilità esterna era costituita dalla strada che, come documenta
il segmento V della Tabula Peutingeriana (Fig. 6), aveva inizio proprio a Bovianum e terminava

70
GIOVANNINI 2004, pp. 21, 23. 1991a, p. 255; MATTEINI CHIARI 1997b, p. 851.
71
Ivi, pp. 13-14, 22-23, figg. 9-11. 80
MATTEINI CHIARI 1974, p. 153.
72
Ivi, p. 24; per la notizia dell’incendio cfr. MORRA 1996, 81
Ivi, p. 155, fig. 10; MATTEINI CHIARI 1997b, p. 852;
p. 107; MORRA 2000, p. 94. CRISTINI 2000, p. 394.
73
GIOVANNINI 2004, p. 24. 82
MATTEINI CHIARI 1974, pp. 155-156; MATTEINI CHIARI
74
GENITO 1998, p. 709. 1997b, p. 852.
75
CARANDINI 1993, p. 29; BROGIOLO, GELICHI 1998, pp. 83
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 193.
45-53. 84
DE BENEDITTIS 1977, p. 23; DE BENEDITTIS 1991a, p. 235;
76
VALENTE 1979, p. 74; l’Autore ha supposto l’esistenza, DE BENEDITTIS 1995b, p. 11; CIMMINO 2006, p. 22.
sin dalla tarda antichità, di due poli aggreganti: uno a carattere 85
DE BENEDITTIS 1977, pp. 8, 23; DE BENEDITTIS 1980, p.
politico-amministrativo (il borgo attorno al castello) e l’altro 203; COARELLI, LA REGINA 1984, p. 194; DE BENEDITTIS 1995b,
con funzione religiosa (la cattedrale) (VALENTE 1982, p. 115; pp. 12-13; STAFFA 1995, pp. 196-197; STAFFA 2004, p. 227;
cfr. GENITO 1998, p. 708, nota 15). CIMMINO 2006, pp. 15-16.
77
PANI ERMINI 1989, pp. 869-872. 86
DE BENEDITTIS 1977, pp. 24-26, tav. VII; COARELLI, LA
78
MATTEINI CHIARI 1974, pp. 143, 147-148; MATTEINI REGINA 1984, p. 198; D’HENRY 1991a, p. 207; DE BENEDITTIS
CHIARI 1997b, p. 851. 1991a, p. 235; DE BENEDITTIS 1995b, pp. 14-16; MUCCILLI
79
MATTEINI CHIARI 1974, pp. 151, 153, fig. 10; COARELLI, 2004b, p. 103, fig. 1; CIMMINO 2006, pp. 16-19, fig. 1.
LA REGINA 1984, p. 273; D’HENRY 1991a, p. 207; DI NIRO
254 CARLO EBANISTA

Fig. 8 – Trivento, cripta della cattedrale.

Fig. 9 – Il territorio di Boiano e Civita (IGM F° 162).


I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 255

a Larinum (o forse a Teanum Apulum)87; meno chiaro risulta il rapporto con la via Minucia,
rispetto alla quale Bovianum appare svincolata, in posizione isolata88. Sulla presenza degli edifici
pubblici e sulla loro manutenzione siamo informati dalle iscrizioni; sappiamo, ad esempio, che,
a seguito del terremoto del 346 d.C., Fabio Massimo, rector provinciae Samnii, fece ricostruire
il secretarium89. Gli scavi condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise in via
Cavadini (Fig. 10 nr. 2), lungo il torrente Calderari, hanno permesso di ipotizzare la presenza
del foro in quest’area, ubicata a nord della cattedrale90 (Fig. 10 nr. 1). Secondo De Benedittis,
le colonne che, stando ad una tradizione orale purtroppo non verificabile, sarebbero state rin-
venute in via Colonno (Fig. 10 nr. 3) potrebbero appartenere al colonnato di una basilica o ad
un altro edificio pubblico che affacciava sul foro; nel ritenere plausibile che questo edificio fosse
«un luogo sacro o anche una basilica divenuta poi chiesa paleocristiana», lo studioso esclude che
possa essere identificato con la chiesa vescovile91. D’altra parte la mancanza di scavi sistematici
non consente di accertare se l’edificio (Fig. 10 nr. 1) sia stato fondato in età paleocristiana, epoca
per la quale la sede vescovile di Boiano è documentata negli anni 495, 501 e 50292, ovvero sia
sorto in età medievale, allorché la diocesi, a partire dal 1058, è nuovamente attestata93. All’XI
secolo è stata assegnata l’abside scoperta nello scorso decennio al di sotto del presbiterio del
duomo, insieme ad alcune tombe94. L’esistenza di un edificio altomedievale nel luogo ove sorge
il duomo potrebbe essere, invece, attestata dal frammento di pluteo a nastri intrecciati (Fig. 11),
risalente all’VIII-IX secolo95 o al IX96, che è murato nella parete meridionale della cattedrale. Un
altro frammento di pluteo, decorato però a stuoia (Fig. 12) e databile al IX secolo, è inglobato
in un’abitazione ubicata sul colle della Civita97, dove sono presenti consistenti strutture difensive
di età bassomedievale98. Non del tutto chiara, peraltro, è la dinamica insediativa che sottende al
recupero di quest’altura che sovrasta Boiano (Fig. 9). Se si eccettua l’ipotesi di Staffa che riconduce
l’abbandono della città romana alla conquista longobarda99, generalmente si ritiene che solo tra
IX e X secolo una nuova organizzazione urbana privilegiò il colle della Civita rispetto alla zona
pianeggiante100, dove solo la parte alta del centro antico continuò ad essere utilizzata101. Recen-
temente è stato supposto che il nucleo fortificato sulla sommità del colle coesistette con l’abitato
pedemontano esistente attorno alla cattedrale, in una sorta di dualismo insediativo102. Rimane,
però, da accertare a quale dei due centri si riferisce Erchemperto quando ricorda che nell’880 i
Saraceni espugnarono e incendiarono il castrum Bovianum103. Se l’istituzione del gastaldato di
Boiano (nucleo originario della contea di Molise) svolse, senza dubbio, un ruolo fondamentale
nel garantire la continuità di vita dell’insediamento, il mancato abbandono completo dell’area
pedemontana sembra riconducibile all’esigenza di sfruttare le abbondanti risorse idriche, oltre
che alla presenza del tratturo104.
Una situazione solo per certi versi paragonabile a quella di Boiano si rinviene a Larinum (Fig.
1), il municipium istituito nel I secolo a.C.105 e che, in età augustea, entrò a fare parte della regio

87
DE BENEDITTIS 1977, pp. 27-28; DE BENEDITTIS 1991d, 1995, pp. 196-197; STAFFA 2004, p. 227; CIMMINO 2006, pp.
pp. 25-26; DE FELICE 1994, p. 36; BARKER et al. 2001, p. 236; 45-52, figg. 7-8.
OCCHIONERO 2005, pp. 223-225; CIMMINO 2006, p. 19. 99
Staffa accomuna il caso di Bovianum a quello di Sae-
88
OCCHIONERO 2005, pp. 223-225; inaccettabile è quanto, pinum, i cui abitanti, a suo avviso, si sarebbero trasferiti sul-
a tal proposito, riferisce CIMMINO 2006, p. 19. l’altura di Terravecchia nel VI secolo (STAFFA 1997a, p. 120;
89
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 201. STAFFA 2000, p. 118, fig. 2 n. 125); per quest’ultima questione
90
Ibid. cfr., però, infra, pp. 261-262.
91
DE BENEDITTIS 1991a, p. 235. 100
KEHR 1962, p. 199; DE BENEDITTIS 1977, pp. 38, 49;
92
Cfr. supra, nota 26. La presenza cristiana a Bovianum DE BENEDITTIS 1980, pp. 196, 204; MUCCILLI 2004a, p. 357;
è documentata da un’iscrizione (CIL, IX 2584) databile tra MUCCILLI 2004b, p. 104; CIMMINO 2006, p. 45.
IV e V secolo (DE BENEDITTIS 1995b, p. 80, n. 66) ovvero ad 101
DE BENEDITTIS 2000, p. 11.
un periodo non anteriore al V secolo (BUONOCORE 2003, pp. 102
CIMMINO 2006, p. 45.
27, 209). 103
ERCHEMPERTI Historia Langobardorum, p. 255, cap. 48
93
KEHR 1962, p. 199. («Per idem tempus Iserniam, Suessulam uno mense, castrum
94
MUCCILLI, SPINA 2000, pp. 26-27, 104; CIMMINO 2006, etiam Bovianum eodem anno, capta et combusta sunt»); per la
p. 42. datazione dell’evento all’881 cfr. Le pergamene di S. Cristina
95
MUCCILLI, SPINA 2000, p. 70, fig. a p. 65; CIMMINO 2006, 1998, p. 13.
p. 42. 104
MUCCILLI 2004b, pp. 104-105.
96
MATTIOCCO 1981, p. 185. 105
DI NIRO 1991b, p. 263.
97
DE BENEDITTIS 1980, fig. a p. 203; MATTIOCCO 1981, 106
BARKER et al. 2001, p. 235.
p. 185, fig. a p. 187; DE BENEDITTIS 1981a, p. 21, nota 65; 107
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 304; DE FELICE 1994, pp.
CICOGNANI 1988, p. 115, fig. 22. 42-46, fig. 18.
98
DE BENEDITTIS 1977, p. 38; DE BENEDITTIS 1980, p. 108
DI NIRO 1991b, p. 264, fig. 10.
196; COARELLI, LA REGINA 1984, p. 194; GENITO 1985; STAFFA 109
DI NIRO 1991b, p. 264; DE CARO 1991; BARKER et al.
256 CARLO EBANISTA

Fig. 10 – Boiano, planimetria: 1, cattedrale; 2, via Cavadini; 3, via Colonno.

Fig. 11 – Boiano, cattedrale. Frammento di pluteo. Fig. 12 – Civita di Boiano, frammento di pluteo
murato in un’abitazione.

II (Apulia et Calabria)106. L’abitato romano si estendeva in località Piano della Torre e Pian San
Leonardo (quota 402 m s.l.m.)107. Gli scavi condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Molise hanno portato in vista, tra l’altro, i resti di un edificio pertinente verosimilmente al
foro: le strutture, articolate su due livelli, subirono numerosi rifacimenti dalla metà del I secolo
d.C. almeno fino al IV108, allorché venne eretta una statua in onore del governatore Antonius
Iustinianus reimpiegando la base della statua della sacerdotessa Coelia Tertulla risalente al I
secolo d.C.109. Questa circostanza, assimilabile al riuso dell’iscrizione bronzea riproducente un

2001, p. 261. 124-129, fig. 157.


110
DE FELICE 1994, p. 33, fig. 15. 112
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 303; BARKER et al. 2001,
111
MORRICONE MATINI 1991; DE FELICE 1994, pp. 33, p. 249.
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 257

senatoconsulto del 19 d.C. per incidervi la delibera di concessione del patronato ad Herennius
Lupercus (prima metà IV secolo)110, sembra testimoniare un livello di decadenza, soprattutto se
si tiene conto della situazione precedente. Statue di marmo e bronzo, ricchi monumenti funerari
e pregevoli mosaici policromi111 indicano, infatti, che Larinum, almeno fino al III secolo d.C.,
godé di una straordinaria vitalità, grazie alla presenza di una classe di ricchi proprietari112. Le
necropoli erano situate lungo le principali direttrici della rete stradale extraurbana113: tra la
seconda metà del II secolo e gli inizi del III d.C. è attestato l’utilizzo funerario del sepolcreto
ubicato, a breve distanza dall’anfiteatro (nella zona della stazione ferroviaria), lungo la strada
che conduceva a Boiano114; un’altra necropoli, collegata alla città grazie ad una strada lastricata,
sorgeva nell’area in cui si sarebbe sviluppato l’abitato medievale115 (Fig. 13). Ad est della città
romana, presso l’attuale cimitero, si trovano i resti di un edificio absidato a pianta rettangolare
(7,30 × 15 m) (Fig. 14); costruito in opus vittatum mixtum, forse su strutture preesistenti, è
stato interpretato come una chiesa del V secolo116. L’abbandono e la sistematica spoliazione degli
edifici pubblici risultano documentati dagli scavi condotti nell’anfiteatro, dove sono venuti alla
luce diversi blocchi asportati dalle gradinate dell’ima cavea e abbandonati sul posto117. Tra VI e
VII secolo nell’ambulacro del secondo ordine furono impiantate sette sepolture a cassa; quattro
hanno restituito oggetti di corredo (fibule, orecchini a cestello e spilloni in bronzo, bracciale di
ferro, pettini in osso, vaghi di collana in pasta vitrea) e una brocchetta dipinta a bande118 (Fig. 15).
Nel 793 l’anfiteatro venne occupato dalle truppe franche che lo utilizzarono come fortilizio119,
ma non va escluso che avesse svolto funzioni difensive sin dal VI-VII secolo, com’è attestato, ad
esempio, per il vicino anfiteatro di Histonium (Vasto)120. L’area della città romana venne abban-
donata nei secoli finali dell’alto medioevo, in rapporto al trasferimento della popolazione su uno
sperone roccioso, difeso naturalmente su tutti i lati da pendii scoscesi121, ubicato ad una quota
inferiore (341 m s.l.m.). In questo sito, dove in età romana sorgeva una necropoli, si sviluppò il
centro medievale e moderno, mentre l’abitato di Larinum andò progressivamente in rovina, per
essere rioccupato solo in tempi recenti.
Una dinamica insediativa diversa da quella riscontrata a Bovianum e Larinum si registra a
Saepinum122 (Fig. 1). Come hanno appurato gli scavi condotti dall’Università di Perugia123, l’in-
sediamento (Fig. 16 nr. 1) sorse nel IV secolo a.C. nel punto in cui la direttrice stradale che
univa la Sabina settentrionale all’Apulia s’incontrava con la strada che collegava la pianura con
l’area montana del Matese; l’abitato (554 m s.l.m.) raggiunse vera e propria dignità urbana solo
in età augustea, in concomitanza con la costruzione delle mura124 (Fig. 17). Saepinum, come
Peltuinum, era attraversata dal tratturo da una porta all’altra125. Alla metà del IV secolo d.C. sono
attestati restauri alla basilica, alle terme, al macellum e alle mura; gli interventi, ispirati dai recto-
res provinciali e messi in pratica dai patroni locali, erano finalizzati a mantenere in funzione le
strutture urbane municipali, ormai in rapido decadimento126. L’intensa opera di rinnovamento,
che ha fatto parlare di «improvviso revival edilizio», viene generalmente ricondotta al terremoto
del 346 d.C., anche se a Saepinum mancano tracce archeologiche rapportabili ai danni inferti dal
sisma127. La rete fognaria fu completamente interrata nel corso del IV secolo, anche se non man-
carono episodici interventi di spurgo128. L’aggiunta di un’abside all’aula retrostante il tribunal
columnatum della basilica (Fig. 18) è stata interpretata come una trasformazione dell’ambiente

113
DE FELICE 1994, p. 43, tav. I nn. 2-4, 90-92, 144, 162- 2004, pp. 233-234.
175, 184-187. 122
DE BENEDITTIS 1981a, p. 21.
114
DI NIRO 1991b, p. 267. 123
MATTEINI CHIARI 1988, p. 89.
115
DE FELICE 1994, p. 43, tav. I n. 162. 124
COARELLI, LA REGINA 1984, pp. 212, 214; GAGGIOTTI
116
I dati pubblicati (CIANFARANI 1949, p. 377; DE FELICE 1991a, p. 244; BARKER et al. 2001, pp. 240-241.
1994, p. 47, figg. 20-21, tav. I n. 18) sembrano escludere 125
PATITUCCI UGGERI 2002, p. 24.
che alla chiesa fosse annessa una necropoli (NIGRO 2003, p. 126
DE BENEDITTIS 1981a, p. 10; COARELLI, LA REGINA 1984,
115). pp. 221-222; GAGGIOTTI, DE BENEDITTIS 1986, p. 136; GAGGIOTTI
117
DI NIRO 1991b, p. 267. 1991a, p. 246; GAGGIOTTI 1991b, pp. 247, 249; BUONOCORE 1992;
118
DE TATA 1988; DE TATA 1990; DE TATA 1995, pp. 56-62, BARKER et al. 2001, p. 259; MATTEINI CHIARI 2004, p. 185.
64-67; BARKER et al. 2001, p. 26; BERTELLI 2001, p. 114. 127
GAGGIOTTI 1991a, p. 246; GAGGIOTTI 1991b, p. 249.
119
DE BENEDITTIS, LAFAURIE 1998, pp. 220-221, 229; DE 128
MATTEINI CHIARI 2004, pp. 186-187. Per il collasso del
BENEDITTIS 2000, p. 8; DE BENEDITTIS 2002, pp. 45-46. sistema fognario delle città tra tardo antico e alto medioevo
120
STAFFA 2000, p. 120; STAFFA 2004, pp. 233-234. cfr. BROGIOLO, GELICHI 1998, pp. 78-86.
121
DI NIRO 1991b, p. 267; STAFFA 1995, p. 273; STAFFA
258 CARLO EBANISTA

Figg. 13-15 – Larino. 13. Il territorio


(IGM F° 154); 14. Chiesa paleocristiana;
15. Brocchetta proveniente dalla tomba 8
impiantata nell’anfiteatro.
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 259

Fig. 16 – Il territorio
sepinate: 1, Saepinum;
2, San Pietro di Can-
toni; 3, Terravecchia
(Saipins); 4, Sepino
(IGM F° 162).

Fig. 17 – Saepinum,
planimetria.

in luogo di culto cristiano (fine IV-V secolo), in rapporto alla presenza di «alcuni elementi di
riutilizzo» che farebbero pensare ad «una mensa d’altare addossata all’abside (cui sembrerebbero
peraltro affiancarsi due piccoli locali in funzione di prothesis e diaconicon)»129. Le ricerche ar-
cheologiche hanno evidenziato la continuità dell’occupazione del sito, seppure parziale e setto-
riale, fra VII e IX secolo, in sintonia con le scarne e peraltro generiche notizie offerte dalle
fonti contemporanee130. La contrazione dell’area urbana comportò la dislocazione della popola-
129
GAGGIOTTI 1991b, p. 249; cfr. anche DE BENEDITTIS, 130
MATTEINI CHIARI 1997a, p. 219.
GAGGIOTTI, MATTEINI CHIARI 1993, pp. 76, 83.
260 CARLO EBANISTA

Fig. 18 – Saepinum, tribunal


columnatum della basilica.

Fig. 19 – Saepinum, il foro con


i resti della basilica.

zione ai margini dei terreni posti a coltura, mentre si riadattarono alle mutate esigenze le taber-
nae, le abitazioni lungo il decumano e gli edifici pubblici prospicienti il foro131 (Fig. 19). La
continuità di vita è documentata da materiale archeologico minuto perlopiù fuori contesto, ma
soprattutto dalle sepolture che, tra VII e VIII secolo, furono impiantate sugli spessi strati di ter-
reno che avevano coperto le rovine degli edifici pubblici132. Nel teatro, abbandonato nel V seco-
lo, le tombe invasero il postscaenium133 e l’area tra la cavea e il muro di cinta134; da queste ultime
inumazioni provengono due ollette da fuoco e una brocca dipinta a bande rosse (Fig. 20), databili
tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo135. Nel foro sono state rinvenute 29 sepolture con cas-
sa in muratura costituita in rari casi da materiale di spoglio (lastre marmoree e laterizi): per la
realizzazione delle tombe, che in massima parte furono addossate alle murature preesistenti, in
qualche caso vennero asportati i piani pavimentali degli edifici136. Tra i pochissimi oggetti rinve-

131
MATTEINI CHIARI 1988, p. 93. 135
CIANFARANI 1951, pp. 98, 106, fig. 29, nn. 8-9, 11; DE
132
MATTEINI CHIARI 1997a, p. 219; MATTEINI CHIARI 2004, BENEDITTIS 1981a, pp. 14-15, nota 42; DE BENEDITTIS 1988b, pp.
pp. 187-188. 106-107, figg. 14-15; STAFFA 1995, p. 198; STAFFA 2004, p. 232.
133
CAPPELLETTI 1984, p. 209; CAPPELLETTI 1988, p. 87. 136
MATTEINI CHIARI 1988, pp. 91-93; MATTEINI CHIARI
134
CIANFARANI 1951, pp. 93, 97-98, figg. 12-15. 2004, pp. 187-188.
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 261

Fig. 20 – Saepinum, brocchetta rinvenuta nel foro. Fig. 21 – Saepinum, fibula bronzea con iscrizione
+Aoderada biva.

nuti nelle sepolture del foro, che gravitavano verso la basilica trasformata in luogo di culto cri-
stiano137 (Fig. 18), si segnala una fibula bronzea a croce con decorazione ad occhi di dado, che
ricorda un esemplare del VII secolo trovato nella necropoli di Vicenne138. Nel perimetro urbano
è stata rinvenuta una fibula bronzea ad anello aperto con protomi animali e l’iscrizione + Aode-
rada biva (Fig. 21) che sembra una variante del tipo Lupu biva; l’ipotesi di identificare Aoderada
con un comandante militare goto vissuto nella prima metà del VI secolo, qualora fosse accertata,
attesterebbe l’esistenza di uno stanziamento goto a Saepinum, prima dell’arrivo dei Bizantini139.
Certa è, invece, la presenza saracena, considerato che nell’888 Guido iunior, duca di Spoleto,
fece la pace con i Saraceni che si erano fortificati a Sepino140. Passata alle dipendenze del gastal-
dato di Boiano, Saepinum perse la sua importanza, ma non fu completamente abbandonata, dal
momento che alla fine dell’XI secolo nell’area dell’antica città sorgeva la chiesa di S. Maria141.
Nonostante la maggior parte della popolazione preferì stabilirsi in siti d’altura più sicuri, non ci
fu la desertificazione e l’abbandono generalizzato della città antica142 che, però, mostrava un
«graduale, progressivo, inarrestabile degrado»143. La scomparsa della transumanza dovette influi-
re non poco sulla crisi della città di Saepinum, anche se non è possibile individuare un collega-
mento preciso tra la fine di questa attività e l’avvio delle vicende medievali dell’insediamento144.
Se l’antica città non fu completamente abbandonata, il toponimo passò ad indicare un nuovo
insediamento collocato in una posizione più elevata rispetto alla «civitate veteri Sepina»145: si
tratta del castellum Sipinum (Fig. 16 nr. 4), nucleo originario dell’odierna Sepino146 (quota 703
m s.l.m.), che è menzionato per la prima volta nel 1038147. Dalla fine dell’XI secolo nell’ager
dell’antica città è, tuttavia, documentata l’esistenza di un altro insediamento che le fonti defini-
scono Castellum Vetus, Castrum Betere o Castello Vecclo; abbandonato anteriormente al 1461,
il sito sorgeva in località Castelvecchio o Terravecchia148 (Fig. 16 nr. 3). L’abitato si sovrappose,
almeno in parte, alle strutture del centro sannitico di Saipins, individuato da un recinto in opera
poligonale del IV secolo a.C. esistente su un colle (953 m s.l.m.) circondato da due affluenti del
Tammaro149. Le indagini archeologiche hanno evidenziato un insediamento medievale fortificato
che si estendeva sull’arx e sul primo terrapieno sottostante; nella parte sud-occidentale di Saipins,

137
DE BENEDITTIS, GAGGIOTTI, MATTEINI CHIARI 1993, p. 92; 143
Ivi, pp. 189-190.
BARKER et al. 2001, pp. 259, 261. 144
Le pergamene di S. Cristina 1998, p. 9.
138
MATTEINI CHIARI 1988, p. 93; DE BENEDITTIS, GAGGIOTTI, 145
COLONNA 1962, p. 104, nota 3; DE BENEDITTIS 1981a,
MATTEINI CHIARI 1993, p. 92; STAFFA 1995, p. 198; STAFFA 2000, p. 23; Le pergamene di S. Cristina 1998, p. 15.
pp. 118-119; STAFFA 2004, p. 232. 146
DE BENEDITTIS 1981a, p. 19; COARELLI, LA REGINA 1984,
139
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 228; STAFFA 1995, p. 196; p. 215; STAFFA 1995, p. 198, nota 137; STAFFA 2004, p. 233,
Le pergamene di S. Cristina 1998, p. 9; STAFFA 2004, p. 226; per nota 90.
la presenza gota nell’area molisana cfr. NIGRO 2003, p. 104. 147
Le pergamene di S. Cristina 1998, p. 16.
140
ERCHEMPERTI Historia Langobardorum, p. 263, cap. 148
COLONNA 1962, pp. 103-105; SCERRATO 1981, p. 113;
79 (Guido «cum Saracenis in Sepino castrametatis pacem DE BENEDITTIS 1981a, p. 23; Le pergamene di S. Cristina 1998,
fecit»). pp. 17-19.
141
Le pergamene di S. Cristina 1998, p. 15; MARTIN 2004, 149
COLONNA 1962; SCERRATO 1981, p. 113; COARELLI, LA
p. 14. REGINA 1984, pp. 214, 226, 228; MATTEINI CHIARI 1997a, p.
142
MATTEINI CHIARI 2004, pp. 188-189. 217; Le pergamene di S. Cristina 1998, pp. 7, 19.
262 CARLO EBANISTA

l’abitato era costituito da una porta, una grande cisterna, una sala e tre chiese150. Staffa ha sup-
posto che lo «spostamento degli equilibri dall’insediamento d’età imperiale verso l’antico sito
italico ben più agevolmente difendibile sembrerebbe forse addirittura risalire ad epoca tardoantica,
ed essere dunque precedente gli ultimi decenni del VI secolo»151. In particolare, sottolineando
che il toponimo Terravecchia «sta ad indicare attendibilmente in varie situazioni quello che era
stato l’assetto del relativo centro urbano fra tarda antichità ed altomedioevo»152, ha messo in
evidenza la consistente occupazione tardoantica e postclassica del colle dov’era sorto il primitivo
abitato sannita153. L’affermazione è fondata sul presupposto che sul colle di Terravecchia fosse
ubicato il Kástron Sámnion menzionato da Giorgio Ciprio alla fine del VI secolo154; l’altura
avrebbe ospitato un forte presidio bizantino fino al 585-590, a controllo della strada che giun-
geva da Benevento155. L’ipotesi si basa sulla circostanza che il toponimo Sampnium citato nel
Catalogum provinciarum Italiae è stato interpretato come una corruzione paleografica del ter-
mine Saepinum156. Esistono, però, due argomenti decisivi che si oppongono a tale identificazione
e inducono a supporre che la città scomparve verso il VI secolo: la compresenza dei vescovi
Proculeianus di Saepinum e Marcus Samninus al concilio convocato da papa Simmaco nel 502 e
un documento del X secolo che menziona un castellum Sampnie che è «ben diverso da Sepino»157.
Stando alle indagini archeologiche sinora condotte, l’insediamento di Terravecchia non sembra
peraltro frequentato tra tarda antichità e alto medioevo, anche se non va escluso che la sua for-
mazione possa risalire al periodo compreso tra la fine del IX secolo e gli inizi del X o addirittura
al VI in relazione alle vicende della guerra greco-gotica e della conquista longobarda158. Un inse-
diamento di altura sorto tra tarda antichità e alto medioevo è, invece, archeologicamente docu-
mentato nell’area del santuario italico di San Pietro di Cantoni a Sepino (665 m s.l.m.) (Fig. 16
nr. 2), a metà strada e a mezza quota tra il centro antico di Saepinum e Terravecchia; le ricerche
archeologiche hanno, infatti, portato in vista i resti di un edificio di culto cristiano (Fig. 22) sor-
to sui resti del tempio tra IV e VI secolo159, nonché alcune sepolture coeve alla chiesa160. Nel
territorio sepinate (Fig. 16) sembra profilarsi, secondo quanto attestato in diversi contesti italia-
ni, una graduale risalita dell’insediamento dal fondovalle (Saepinum, 554 m s.l.m.), alla mezza
costa (San Pietro di Cantoni, 665 m s.l.m.) e quindi all’altura (Terravecchia, 953 m s.l.m.). Ri-
mane, tuttavia, da accertare quando si è formato il castrum Sepini, nucleo originario dell’odierna
Sepino (703 m s.l.m.). A tal proposito Colonna ha sostenuto che Terravecchia costituirebbe un
passaggio intermedio nello spostamento tra Saepinum e l’attuale Sepino161, laddove De Benedit-
tis, sollevando forti dubbi su questa ipotesi, ha rilevato che nei documenti di età normanna
compaiono sia il castrum Sepini (l’odierna Sepino) sia il Castrum Vetus (Terravecchia); quest’ul-
timo peraltro appare subordinato al primo che costituiva la residenza del feudatario162. Scerrato
ha, pertanto, ipotizzato che il castrum Sepini e il Castrum Vetus siano entrambi sorti alla fine del
IX secolo in occasione delle scorrerie saracene163.
Concludiamo la rassegna dei centri urbani con la scomparsa Fagifulae (Fig. 1), di cui parlano
Livio e Plinio164. Dell’abitato rimane traccia toponomastica nella chiesa di S. Maria di Faifoli
(594 s.l.m.) che sorge nella media valle del Biferno, a nord di Montagano165. Il suo territorio era
attraversato dalla strada che da Bovianum conduceva a Larinum (o forse a Teanum Apulum),
secondo quanto attesta il V segmento della Tabula Peutingeriana166 (Fig. 6), ove, però, Fagifulae
non è registrata. Non si hanno elementi per poter avanzare ipotesi sulla conformazione urbana e
sull’estensione del centro romano che, comunque, doveva essere piuttosto limitata. Un’epigrafe del
I secolo d.C. attesta che l’edile C. Pontius Priscus fece erigere, a sue spese, un porticato in pietra

150
COLONNA 1962; SCERRATO 1981, p. 113; Le pergamene 159
MATTEINI CHIARI 2004, pp. 190-192, figg. 2-20.
di S. Cristina 1998, p. 19. 160
MATTEINI CHIARI 2004, pp. 190-192, figg. 2-20; in pre-
151
STAFFA 2004, p. 227, nota 58. cedenza l’Autore aveva assegnato la costruzione della chiesa
152
STAFFA 2004, p. 227, nota 57. ad un’epoca compresa tra VII e IX secolo (MATTEINI CHIARI
153
STAFFA 2000, p. 118; STAFFA 2004, p. 226. 1997a, p. 219).
154
STAFFA 1995, p. 196; STAFFA 2000, p. 118, fig. 2 n. 124a; 161
COLONNA 1962, p. 106; SCERRATO 1981, p. 121.
STAFFA 2004, pp. 225-227. Sulla controversa ubicazione del 162
DE BENEDITTIS 1977, p. 35, nota 54; SCERRATO 1981,
Kástron Sámnion e dell’ecclesia Samnina cfr. da ultimo NIGRO pp. 121-122.
2003, pp. 108-114. 163
SCERRATO 1981, p. 122.
155
STAFFA 1995, p. 221; STAFFA 1997a, pp. 113, 117. 164
DE BENEDITTIS 1991b, p. 259; DE BENEDITTIS 1997, p. 12.
156
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 163; STAFFA 1995, p. 196; 165
COARELLI, LA REGINA 1984, pp. 280, 298.
STAFFA 2004, p. 226. 166
DE BENEDITTIS 1991d, pp. 25-26; DE FELICE 1994, p. 36;
157
Le pergamene di S. Cristina 1998, p. 11, nota 19. DE BENEDITTIS 1997, p. 7; BARKER et al. 2001, p. 236; OCCHIO-
158
SCERRATO 1981, p. 113. NERO 2005, pp. 223-225; CIMMINO 2006, p. 19.
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 263

Fig. 22 – San Pietro di Cantoni a Sepino,


edificio di culto cristiano. Planimetria.

Fig. 23 – S. Maria di Faifoli, orecchini a


cestello rinvenuti in una tomba.

dinanzi alla basilica167. Un’altra iscrizione, ora irreperibile, ma che, agli inizi del XVIII secolo, era
inserita nel pavimento della chiesa di S. Maria di Faifoli, menzionava i decuriones Fagifulanorum
e i Fagifulani168. Gli scavi eseguiti presso la chiesa nel 1981 e nel 1988 hanno messo in luce due
ambienti di età imperiale (uno con mosaico pavimentale, l’altro con calpestio in opus spicatum),
un vano absidato e alcune sepolture; le strutture murarie sono orientate in direzione SE-NO, come

167
DE BENEDITTIS 1997, p. 47, n. 8. 168
DE BENEDITTIS 1997, pp. 7-8, 44-45, n. 7.
264 CARLO EBANISTA

Fig. 24 – Il territorio tra Limosano, S. Maria di Faifoli e Montagano (IGM, F° 154 e F° 162). Scala 1:30.000.

l’edificio di culto169. Il rinvenimento di una tomba con corredo costituito da orecchini a cestello
databili al VII secolo (Fig. 23) sembra indicare una continuità d’uso del sito sino all’alto medioe-
vo170, allorché il ruolo amministrativo svolto dal centro romano pare sia rifluito nel gastaldato
Bifernensis, prima di essere riassorbito nelle contee longobarde di Boiano e Trivento171. La crisi
del centro romano e la relativa perdita d’importanza sono testimoniate dalla circostanza che il
toponimo Fagifulae è rimasto a designare l’area ove sorge la chiesa e non è passato ad indicare un
nuovo insediamento, com’è invece avvenuto nel caso di Saepinum-Sepino. A tal proposito resta
da capire se la popolazione da Fagifulae si sia trasferita sull’altura di Montagano (801 s.l.m.), che
è ubicato 1,2 km a sud dal sito romano (Fig. 24), oppure sulla collina di Limosano (647 s.l.m.),
situata sulla sponda opposta del Biferno a 4,2 km dall’antico centro172.

169
D’HENRY 1991a, p. 207; DE BENEDITTIS 1991b, p. 259; 171
COARELLI, LA REGINA 1984, p. 298; DE BENEDITTIS 1997,
DE BENEDITTIS 1997, p. 12. p. 26.
170
DE BENEDITTIS 1991b, p. 260; POSSENTI 1994, p. 93, tav. 172
DE BENEDITTIS 1997, pp. 26-27, 30; cfr. altresì DE BE-
XXXV nn. 1-2; STAFFA 1995, p. 199; DE BENEDITTIS 1997, p. NEDITTIS 1981b, p. 249.
13; BERTELLI 2001, p. 114; STAFFA 2004, p. 235.
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 265

3. CITTÀ ‘DI SUCCESSO’ E ‘DI INSUCCESSO’: PROSPETTIVE DI RICERCA


Nei centri urbani del Molise è mancato finora un programma di ricerche sistematiche volte ad
indagare i fenomeni di destrutturazione verificatisi tra tarda antichità e alto medioevo. Le trasfor-
mazioni del tessuto insediativo urbano (Fig. 1) sono, tuttavia, facilmente riconoscibili: di contro
agli abbandoni, limitati ma pur sempre evidenti (Fagifulae, Saepinum) e alla dislocazione di alcuni
insediamenti urbani in nuovi siti (Bovianum, Larinum), si assiste alla permanenza in vita di altre
città (Aesernia, Venafrum, Terventum), sia pure con un probabile restringimento dell’abitato173.
Il paesaggio urbano è segnato, a partire dalla seconda metà del VI secolo, dall’ingresso in città
delle sepolture (nell’anfiteatro a Larinum, nel teatro e nel foro a Saepinum), dalla ruralizzazione,
dalla crescita dei livelli e dall’affermarsi di quel modello policentrico che è la caratteristica più
tipica dell’urbanesimo altomedievale174. Le recenti indagini condotte a Venafro e Isernia dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise hanno fornito nuovi elementi per aggiornare
il quadro regionale che era stato efficacemente proposto negli anni scorsi da De Benedittis e
Staffa175. La mancanza di dati altrettanto circostanziati per le rimanenti città (in particolare Ter-
ventum e Fagifulae) non consente una ricostruzione complessiva delle vicende che interessarono i
centri molisani tra tarda antichità e alto medioevo, ma soltanto la presentazione di un contributo
preliminare. È indubbio che solo l’avvio di ricerche sistematiche, unitamente alla pubblicazione
dei vecchi scavi (cattedrale di Isernia, Fagifulae), potrà contribuire significativamente alla com-
prensione degli aspetti peculiari dell’urbanesimo tardoantico e altomedievale.
Il primo indizio di discontinuità che si riscontra nei centri urbani del Samnium (Fig. 1) è
rappresentato dal terremoto del 346 d.C.176. Avvertito in una vasta area compresa fra Abruzzo,
Molise, Campania e Puglia, il sisma determinò la crisi dell’antica Herdonia che perse così il con-
fronto con Canusium per il primato all’interno della provincia di Apulia et Calabria177. Nell’area
molisana, grazie perlopiù all’evergetismo dei rectores della neocostituita provincia del Samnium,
segnali di ripresa si ebbero ad Aesernia, Saepinum, Bovianum e forse Venafrum. Sino alla conquista
longobarda, avvenuta alla fine del VI secolo, il quadro socio-economico di quest’ultima città si
mantenne pressoché immutato, privilegiando i rapporti con i centri bizantini dell’area laziale e
pugliese178. I recenti scavi in via del Carmine (Fig. 7 nr. 2) hanno evidenziato che alla sporadica
presenza della sigillata africana si contrappone la diffusione di imitazioni locali documentate
sino al VII secolo inoltrato179. Ed è proprio nella prima metà di quel secolo che a Venafro si
assiste ad un reale mutamento nell’edilizia residenziale: nel cortile della villa di età imperiale,
che era stata più volte restaurata nel corso dei secoli, fu impiantata una capanna quadrangolare;
gli individui che decisero di insediarsi in quell’area optarono per una costruzione ex-novo con
materiale di recupero, anziché per il ripristino delle superstiti murature, a testimonianza di una
tradizione costruttiva differente, anche se, comunque, riconducibile alla popolazione locale180.
L’area di via del Carmine occupa un settore piuttosto marginale dell’abitato romano (Fig. 7 nr.
2); sarebbe interessante accertare cosa avvenne nell’area forense che, però, non è stata ancora
identificata archeologicamente181. Nel caso di Saepinum (Fig. 17), invece, sappiamo che, prima
dell’abbandono definitivo della città, gli edifici pubblici esistenti sul lato nord-orientale del foro
vennero riutilizzati grazie alla tamponatura degli ingressi, mentre le tabernae e le abitazioni lungo
il decumano furono adattate alle mutate esigenze182. L’impianto di sepolture nel teatro e nel foro
di Saepinum183, analogamente alla presenza delle tombe nell’anfiteatro di Larinum, testimonia la

173
Si tratta, nel complesso, di fenomeni ampiamente atte- 178
GIOVANNINI 2004, pp. 21-22.
stati nel resto della penisola (BROGIOLO, GELICHI 1998, pp. 45- 179
GIOVANNINI 2004, p. 25, fig. 20. Forme in sigillata
101; ARTHUR 1999; VERA 2005, pp. 34-35; BROGIOLO 2006a); africana, databili tra la fine del VI secolo e il successivo, sono
tanto per rimanere nelle aree geografiche contermini, rinvio attestate in diversi siti molisani, ubicati sia lungo la costa
alle analoghe situazioni registrate in Abruzzo (GIUNTELLA 1994, adriatica, sia nelle zone interne (DE BENEDITTIS 1991c, p. 327;
pp. 233-241; STAFFA 1995, pp. 222-223; STAFFA 1997a, pp. STAFFA 2005, p. 130).
117-120; STAFFA 1997b; STAFFA 1999; STAFFA 2006), Campania 180
GIOVANNINI 2004, pp. 13-14, 21-22, figg. 9-11.
(ROTILI 2003, pp. 846-850; VITOLO 2005; ROTILI 2005; ROTILI 181
Il foro, a quanto pare, dovrebbe essere localizzato
2006a; ROTILI 2006b) e Puglia (VOLPE 2006). nell’area oggi occupata dal largo S. Sebastiano e dal largo
174
BROGIOLO 2003, p. 598. Ciaraffella (VALENTE 1979, p. 46).
175
STAFFA 1995, pp. 180-201; DE BENEDITTIS 2000; STAFFA 182
MATTEINI CHIARI 1988, p. 93.
2000, pp. 118-120; STAFFA 2004. 183
La presenza di sepolture nel foro è stata interpretata
176
SAVINO 2005, pp. 202-203, 299-305. come elemento di discontinuità (MATTEINI CHIARI 2004, p. 188)
177
STAFFA 2006, p. 450, nota 278; VOLPE 2006, pp. 561- o di continuità (DE BENEDITTIS 1988b, p. 107); per il vivace di-
562. battito tra ‘catastrofisti’ e ‘continuisti’ cfr. WARD-PERKINS 1997.
266 CARLO EBANISTA

persistenza del popolamento, sia pure in condizioni fortemente degradate e nell’ambito dell’ormai
avvenuta disgregazione del tessuto civile e amministrativo della città184. A Boiano gli scavi hanno
permesso di ipotizzare la presenza del foro nella zona di via Cavadini (Fig. 10 nr. 2), dove, tra
l’altro, è venuta alla luce una canaletta in pietra simile a quella esistente nell’area forense di Sae-
pinum185. La circostanza che a Boiano la canaletta fosse coperta da uno strato di fango privo di
reperti, più che alla presunta formazione di un lago a seguito del terremoto dell’853 (tramandata
dall’erudito cinquecentesco Marino Freccia)186, va forse ricondotta ad un fenomeno alluvionale,
secondo quanto attestato di frequente nei centri urbani tra tarda antichità e alto medioevo187. Le
recenti ricerche condotte ad Isernia sembrano indicare che il foro sorgesse nell’area della chiesa
di S. Maria delle Monache (Fig. 2 nr. 6), piuttosto che presso il tempio su cui è impiantata la cat-
tedrale (Fig. 2 nr. 7). La controversa esistenza di una chiesa paleocristiana al di sotto di S. Maria
delle Monache è basata su un documento del 1004, peraltro di dubbia autenticità188; considerato
che il monastero è, invece, sicuramente attestato a partire dal 738189, si potrebbe ipotizzare che
in quegli anni l’area dell’antico foro fu interessata da un sostanziale progetto di ristrutturazione.
È noto, d’altra parte, che solo nell’VIII secolo, quando si affermò l’idea di città espressa da una
nuova aristocrazia, i luoghi di culto urbani divennero poli fondamentali di riorganizzazione degli
spazi urbani190.
Le indagini archeologiche sinora svolte in Molise consentono di riconoscere solo in parte gli
effetti della cristianizzazione sulla trasformazione del paesaggio urbano191. L’identificazione delle
cattedrali paleocristiane è, ad esempio, uno dei nodi che ancora restano da sciogliere. Nel caso
di Saepinum (sede vescovile nel 502192) rimane da accertare se la chiesa vescovile possa essere
identificata con l’aula absidata retrostante il tribunal columnatum della basilica (fine IV-V seco-
lo)193 (Fig. 18) o, piuttosto, con la chiesa di S. Maria che è documentata per la prima volta nel
1089194 e corrisponde forse alla scomparsa chiesa dell’Annunziata che nel XVII secolo sorgeva
nel quartiere sud-orientale della città romana, nei pressi del cardo maximus195. La permanenza
di un luogo di culto nell’area dell’antica città accomuna Saepinum a Fagifulae che, però, non è
documentata come sede vescovile e sembra sia stata completamente abbandonata sin dal VII se-
colo196; non sappiamo, peraltro, se la chiesa duecentesca di S. Maria di Faifoli insista su strutture
paleocristiane e/o altomedievali197. Per la diocesi di Larino, che è attestata dalla fine del V secolo
alla metà del successivo198, disponiamo di qualche dato in più: tra la fine del 493 e gli inizi del
494, papa Gelasio chiese al vescovo Giusto di consacrare all’Arcangelo Michele la basilica rurale
che Priscilliano e Felicissimo avevano costruito nel fundus Mariana di loro proprietà199; mentre
questa basilica è scomparsa, all’esterno della città romana rimangono tuttora i resti di un edificio
monoabsidato (Fig. 14) che è stato interpretato come una chiesa paleocristiana e identificato con
«l’antica ecclesia cathedralis»200. Se le modeste dimensioni (7,30 × 15 m) lasciano perplessi su
tale identificazione, non va esclusa la possibilità che la cattedrale paleocristiana sorgesse nell’area
occupata dall’attuale duomo201 (Fig. 13), considerato peraltro che le chiese vescovili solo eccezio-
nalmente sono state trasferite dalle sedi originarie202. A Boiano (sede diocesana nel 501-502203)
l’esistenza di luoghi di culto altomedievali è provata dalla presenza di due frammenti di plutei204
184
VERA 2005, p. 34. 195
Le pergamene di S. Cristina 1998, p. 16.
185
DE BENEDITTIS 1995b, p. 16. 196
Cfr. supra, p. 264.
186
FRECCIA 1579, p. 91; cfr. DE BENEDITTIS 1991a, p. 236; 197
Secondo la tradizione, nel corso dell’XI secolo alcuni
DE BENEDITTIS 1995b, pp. 11-12 («un alto strato di dilavamento monaci benedettini, provenienti dall’abbazia di S. Sofia a
composto di limo fluviale (tra i due ed i tre metri di altezza) Benevento, fondarono un monastero presso una preesistente
formatosi in epoca relativamente recente a più riprese nella chiesa (AUBERT 1967; DE BENEDITTIS 1997, p. 13).
parte dell’abitato posta al di là del torrente Calderari»). 198
Cfr. supra, nota 26.
187
BROGIOLO, GELICHI 1998, pp. 87-90. 199
Regesta Pontificum Romanorum 1885, p. 84, n. 630;
188
CATALANO, TERZANI 2001, p. 139; PAGANO 2004, p. 72. LANZONI 1927, p. 277; D’ANGELA 1984, p. 324; DE FELICE 1994,
189
TERZANI 1984, p. 196; TERZANI 1989b, p. 103; CATALA- pp. 33-34; BARKER et al. 2001, p. 277; NIGRO 2003, p. 98.
NO, TERZANI 2001, p. 139; TERZANI 2004, p. 175. 200
NIGRO 2003, p. 99; cfr. supra, p. 257.
190
BROGIOLO, GELICHI 1998, p. 162. 201
La cattedrale, intorno alla quale si è sviluppato l’abi-
191
Per l’assetto dello spazio cristiano tra tarda antichità tato medievale, sorge in un’area cimiteriale di età romana
e medioevo cfr. TESTINI 1986; TESTINI, CANTINO WATAGHIN, (supra, nota 115); qualora, al di sotto dell’edificio, venissero
PANI ERMINI 1989; PANI ERMINI 1989, pp. 837-877; CANTINO effettivamente alla luce i resti di una chiesa paleocristiana,
WATAGHIN 1995; CANTINO WATAGHIN, GURT ESPARRAGUERA, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un culto martiriale. Per
GUYON 1996; PANI ERMINI 1998b; PANI ERMINI 2001; MONFRIN i presunti martiri Primiano e Firmiano, traslati da Larino
2002, pp. 883-893. a Lesina nell’alto medioevo cfr. LUCCHESI 1987; CAMPIONE,
192
Cfr. supra, nota 26. NUZZO 1999, pp. 88-89.
193
DE BENEDITTIS, GAGGIOTTI, MATTEINI CHIARI 1993, p. 202
PANI ERMINI 1989, pp. 869-872.
83. 203
Cfr. supra, nota 26.
194
MARTIN 2004, p. 14. 204
Cfr. supra, p. 255.
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 267

(Figg. 11-12), ma mancano indizi sulla cattedrale paleocristiana, analogamente al caso di Venafro205,
la cui diocesi è attestata dal 496 al 595206. Diversa è la situazione di Trivento che è documentata
come sede vescovile a partire dal 946207: a differenza di quanto è stato sostenuto208, non abbiamo
prove dell’esistenza di una chiesa e di un battistero paleocristiani209, ma soltanto di un edificio di
culto risalente forse al IX secolo210. La situazione di Isernia è meglio nota, anche se ancora per-
mangono dubbi in merito all’epoca di fondazione della chiesa vescovile (Fig. 2 nr. 7) che, stando
alle recenti ricerche, sorse nella zona dell’arce e non del foro211. La diocesi di Isernia peraltro è
documentata dalla metà del IX o del X secolo e non dalla tarda antichità212. Anteriormente alla
fine dell’VIII secolo213, la chiesa venne ruotata di 180° forse in relazione alla creazione dell’attuale
piazza Andrea d’Isernia, intorno alla quale si è sviluppato il centro medievale (Fig. 2).
In relazione al perimetro delle mura e alle fortificazioni urbane i dati a disposizione per l’alto
medioevo sono davvero pochi214, sebbene in alcuni casi il circuito romano sia ancora in parte
conservato (ad esempio, a Saepinum, Aesernia e Venafrum215). Tutta da verificare è l’ipotesi che
nell’alto medioevo ad Isernia un fortilizio sorgesse nell’area della chiesa di S. Maria delle Mona-
che216, presso la quale, negli anni Ottanta, è stata scoperta una struttura fortificata medievale che
reimpiegava «mura preesistenti, forse tardo-romane»217. Anche le trasformazioni dell’impianto
viario delle antiche città restano ancora in gran parte da indagare; d’altronde la sopravvivenza,
più o meno parziale, del reticolo stradale (Figg. 2, 7, 10) non può fornire elementi certi, poiché la
conservazione dei tracciati viari principali anche nelle aree abbandonate non attesta la continuità
degli impianti urbani218, né costituisce automaticamente un indice di immutata persistenza, così
come l’occupazione delle sedi stradali da parte di edifici non rappresenta necessariamente un segno
di rottura219. Al contrario l’ubicazione delle città lungo importanti assi stradali o in prossimità
dei tratturi fu, molto probabilmente, un fattore di stabilità. Le maggiori strade del Samnium,
ossia le tre arterie (interna, litoranea, bretella di raccordo) registrate dalla Tabula Peutingeriana
(Fig. 6), furono risistemate nella seconda metà del IV secolo ed erano ancora praticabili nel VI220.
Discussa è l’identificazione dell’odòs Samnìou percorsa da Zenone nel 537 per raggiungere la via
Latina: alcuni la fanno coincidere con la via Minucia (l’asse stradale, noto nel medioevo come ‘via
degli Abruzzi’, che dalla val Pescara, dopo aver attraversato Sulmona e Alfedena, conduceva ad
Isernia e Venafro221), mentre altri con la direttrice con andamento sud ovest-nord est, trasversale
ai grandi tratturi, che univa la Campania e Roma alla costa adriatica222. Alla metà del X secolo è
testimoniata la via Francisca che collegava Allifae con il territorio di San Vincenzo al Volturno,
incrociando la strada Isernia-Venafro223.
Di recente Arthur ha distinto le ‘città naturali’ da quelle ‘artificiali’: le prime costituiscono il
punto centrale di un’area di risorse che determina l’accentramento di persone e la nascita di un
insediamento spontaneo, mentre le seconde nascono, in maniera programmata, per gestire il ter-
ritorio; quando cambiano le forme politiche le ‘città naturali’ tendono perlopiù a sopravvivere, a
differenze di quelle ‘artificiali’ che scompaiono224. Questo modello interpretativo, che pure sembra
trovare rispondenze nell’area molisana225, non esclude altri fattori di successo e/o insuccesso226.
La persistenza dell’abitato può essere ricollegata, ad esempio, alla posizione, come nel caso di

205
Cfr. supra, pp. 251-253. dell’Abruzzo cfr. STAFFA 2006, p. 453.
206
Cfr. supra, nota 26. Alla fine del IV secolo da Venafro 215
CAPINI 1999, p. 14.
partivano devoti che si recavano a pregare sulla tomba di S. 216
VALENTE 1982, pp. 121, 125, 127, fig. 115.
Felice a Nola (Paulin. Nol., Carm. 14, 77-78: huc et olivifera 217
TERZANI 1989b, p. 103; TERZANI 1995, p. 130.
concurrit turba Venafro; cfr. NIGRO 2003, pp. 96-97, 114); per 218
DELOGU 1994, p. 12; BROGIOLO, GELICHI 1998, pp. 35,
i pellegrinaggi al santuario nolano cfr. EBANISTA 2003, pp. 22, 55; per la trasformazione delle strade fra tarda antichità e alto
124-126, 559; EBANISTA 2004, pp. 20-23; EBANISTA 2006, pp. medioevo cfr. GUIDONI 1991, pp. 5-42.
18-19, 52-53, 60-61, 111. 219
CANTINO WATAGHIN 1992, p. 173.
207
Cfr. supra, nota 26. 220
OCCHIONERO 2005, pp. 223-225; per approfondimenti
208
TROMBETTA 1984, p. 194; FERRARA 1991. si rinvia a RUTA, CARROCCIA 1987-88; CARROCCIA 1989; CAR-
209
CRISTINI 2000, pp. 394, 397, nota 73. ROCCIA 1995; per i miliari tardo antichi cfr. DONATI 1974, pp.
210
Da questo scomparso edificio provengono alcuni capi- 196, 198, nn. 36, 39.
telli reimpiegati nella cripta della cattedrale (ROTILI 1966, pp. 221
DE BENEDITTIS 1991c, p. 327; STAFFA 1995, p. 195; STAFFA
77-79, tavv. XXVIIIa-b, XXIXa-b). 2000, p. 117; STAFFA 2005, p. 141.
211
Cfr. supra, p. 249. 222
OCCHIONERO 2005, p. 224.
212
Cfr. supra, nota 34; contra AQUILANO 1999, p. 435. 223
FRATIANNI 2002.
213
Cfr. supra, p. 249. 224
ARTHUR 2006, p. 29.
214
Per le fortificazioni urbane tra tarda antichità e alto 225
Le ‘città artificiali’ dovrebbero essere Fagifulae e Saepi-
medioevo cfr. PANI ERMINI 1998a, pp. 216-233; BROGIOLO, num, mentre quelle ‘naturali’ Aesernia, Venafrum, Terventum,
GELICHI 1998, pp. 55-76; per le situazioni attestate nei centri Bovianum e Larinum.
268 CARLO EBANISTA

Trivento e Isernia che sorgono in un luogo elevato, delimitato da corsi d’acqua confluenti227. La
crisi o il successo delle città di antica origine sembrano dipendere, altresì, in larga misura dalla
loro funzione politico-militare, oltre che dalla presenza delle autorità laiche ed ecclesiastiche228.
In età longobarda il centro molisano più importante, dal punto di vista politico-amministrativo,
sembra sia stato Boiano che fu prima sede di gastaldato e poi di contea; dall’XI secolo, invece,
anche Venafro, Isernia, Larino e Trivento divennero sede di contee229. Sono tutte città romane
che non erano mai state abbandonate, anche se in qualche caso (Boiano, Larino) era avvenuto
uno spostamento dell’abitato in una nuova sede, ubicata a breve distanza dall’antico sito (Figg. 9,
13). È noto che in età longobarda ebbero particolare successo i centri che assunsero una funzio-
ne politico-amministrativa dominante rispetto ad un’area regionale, come nei casi emblematici
di Cividale, Spoleto e Benevento; la concentrazione delle risorse e delle aristocrazie favorì la
persistenza delle strutture urbane antiche e dei costumi sociali elitari, testimoniati archeologi-
camente da acquedotti, bagni pubblici e sistemi fognari ancora efficienti230. Casi analoghi non
sono, però, attestati nell’area molisana che, nella seconda metà del VII secolo, era scarsamente
abitata231, mentre solo dalla metà del IX o X secolo ebbe proprie sedi vescovili (Isernia e Triven-
to)232. Considerato che in Italia meridionale le città non persero mai veramente la presa sul loro
territorio233, occorre stabilire se ed eventualmente in quale misura la sopravvivenza degli antichi
centri urbani molisani sia riconducibile allo sfruttamento delle campagne, dove, tra l’età repub-
blicana e imperiale, era stata creata una fitta rete di ville rustiche234. Secondo quanto attestato in
altri contesti geografici, alcune furono occupate fino al VII-VIII secolo, mentre altre subirono un
più precoce abbandono legato alla crisi del sistema delle ville e della cultura aristocratica che vi
trovava la propria rappresentazione235. Peraltro sembra che già in età carolingia si stessero for-
mando nuclei abitati che, rompendo con la maglia insediativa di età romana, si svilupparono su
posizioni di sommità o di versante montuoso236. Risulta evidente, dunque, che, per far emergere
«quel complesso tessuto insediativo che i documenti medievali ci suggeriscono»237, nei prossimi
anni le ricerche dovranno concentrarsi sull’archeologia urbana, oltre che sullo studio del popo-
lamento rurale, della viabilità, dei centri monastici e dell’incastellamento.
Referenze delle illustrazioni: fig. 1 (CIL IX), 2 (DE BENEDITTIS, MATTEINI CHIARI, TERZANI 1999, fig. 30), 3-4
(MARASCO, DE ROSE 2000b, figg. 20, 10), 5 (TERZANI 2004, fig. 9), 6 (Tabula Peutingeriana 2006), 7 (CAPINI
1991, fig. 2), 8, 19 (Carlo Ebanista), 9 (Tavola IGM, foglio 162, III N.O. Boiano), 10 (DE BENEDITTIS 1977,
tav. VII), 11 (MUCCILLI, SPINA 2000, fig. a p. 65), 12 (MATTIOCCO 1981, fig. a p. 187), 13 (Tavola IGM,
foglio 154, II N.E. Larino), 14 (DE FELICE 1994, fig. 21), 15 (DE TATA 1995, fig. a p. 65), 16 (Tavola IGM,
foglio 162, III S.E. Morcone, foglio 162, III N.E. Vinchiaturo), 17 (BARKER et al. 2001, fig. 81, a p. 240),
18 (COARELLI, LA REGINA 1984, fig. a p. 220), 20 (DE BENEDITTIS 1988b, fig. 15), 21 (Samnium 1991, tav.
9f, f84), 22 (MATTEINI CHIARI 2004, fig. 2), 23 (POSSENTI 1994, tav. XXXV nn. 1-2), 24 (IGM, foglio 154,
III S.E., Petrella Tifernina, foglio 162, IV N.E. Montagano).

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226
Non è mancato, ad esempio, chi ha ricondotto la crisi di 233
VERA 2005, p. 35.
alcuni centri alla conquista longobarda (STAFFA 1995, pp. 198- 234
Per la valle del Biferno cfr. LLOYD, RATHBONE 1984;
199; STAFFA 1997a, p. 120; STAFFA 2000, p. 118, fig. 2 n. 125: CEGLIA 1984a; CEGLIA 1984b; CEGLIA 1991; CURCI 1991; LLOYD
Saepinum, Bovianum, Larinum) o alle scorrerie saracene (DE 1991; BARKER et al. 2001, pp. 246-248, 252-255, 262; per
BENEDITTIS 1977, p. 36; CAPPELLETTI 1988, p. 89: Saepinum). quella del Volturno cfr. MARAZZI, SENIS 1997, pp. 227-228;
227
MATTEINI CHIARI 1974, p. 151. RADDI 2003, p. 1583; MARAZZI 2006, p. 16; per la valle del
228
BROGIOLO 2003, pp. 599, 616; BROGIOLO 2006a, p. 621; Trigno cfr. COARELLI, LA REGINA 1984, p. 274; DI NIRO 1984;
BROGIOLO 2006b, p. 15. DI NIRO 1991a, pp. 255-256.
229
Cfr. supra, p. 243. 235
BROGIOLO, CHAVARRÍA ARNAU 2005, pp. 64-65.
230
BROGIOLO 2003, pp. 614-616. 236
WICKHAM 1985, p. 22; MARTIN 1990, p. 270; MARAZZI,
231
PAULI DIACONI Historia Langobardorum, V, 29; cfr. SENIS 1997, p. 228.
BARKER et al. 2001, p. 235. 237
PATITUCCI UGGERI 2004, p. 380.
232
Cfr. supra, nota 34.
I CENTRI URBANI DEL MOLISE FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO 269

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VITOLO 2005 = G. VITOLO, Premessa, in Le città campane 2005, pp. 5-10.
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e restauri attraverso i secoli, Venafro.
Strutture difensive e insediamenti nella Contea di Molise

GABRIELLA DI ROCCO

Per la sua stessa conformazione orografica, il Molise fu interessato, sin da epoca sannitica, da un
fitto sistema di fortificazioni poste a dominio di valli e di passi incuneati nel territorio montuoso
della dorsale appenninica. Ancora oggi buona parte della regione appare caratterizzata da ciò che
rimane di una grande quantità di fortificazioni protostoriche, a ridosso delle quali, nel corso del
Medioevo, sorsero una serie di siti fortificati e castelli. Ciononostante, gli studi sugli insediamenti
fortificati medievali della regione, sulla loro genesi, sull’evoluzione e, talvolta, l’abbandono delle
numerose ‘terre incastellate’ diffuse sull’intero territorio regionale, appaiono ancora piuttosto
parziali e la scarsa bibliografia a riguardo, sovente, è ricca di contributi divulgativi più che di
pubblicazioni scientifiche*.

INTRODUZIONE
In seguito al disgregarsi dell’impero carolingio, potenti proprietari terrieri si impadroniro-
no di tutta una serie di diritti pubblici, quali l’amministrazione della giustizia, l’esazione delle
tasse, il potere militare. Il castello venne a costituire il mezzo attraverso il quale i nuovi signori
intervenivano sull’assetto insediativo e produttivo del territorio da loro controllato portando gli
uomini al riparo delle sue mura e ingiungendo di costruire nuovi castelli, col fine di indurli ad
abitare al loro interno, onde poterli controllare, sfruttandone il lavoro per dissodare e mettere
a coltura nuove terre. Il castello, in questo modo, non si presentava più come fortezza pubblica
isolata, eretta al solo scopo difensivo e militare, ma come un centro abitato, difeso naturalmente
dalla sua posizione di sommità e da una cinta muraria, che comprendeva la dimora del signore,
le abitazioni dei contadini e le strutture utili alla vita pubblica. Il fenomeno dell’incastellamento,
che, tra il X e il XII secolo, vide erigere rocche e castelli in tutta la penisola, seppur con modalità
ed esiti differenti da regione a regione, ha interessato profondamente il territorio molisano, inci-
dendo in maniera decisiva sul processo insediativo regionale1. Risale al 967 il diploma col quale
il principe di Capua Pandolfo Capodiferro concedeva ai monaci del monastero di San Vincenzo
al Volturno lo ius munitionis, il diritto di edificare fortificazioni, ufficializzando, in tal modo,
la pratica già in atto di erigere torri e castelli2. La formazione di signorie potenti e compatte
aveva indotto il principe longobardo a legalizzare la costruzione di insediamenti fortificati con
il preciso intento di contenere lo strapotere dei conti. Alla sua morte, tuttavia, l’intero apparato
della Longobardia minore, che per oltre quattro secoli aveva dominato gran parte del Meridione
d’Italia, cominciava il proprio inarrestabile declino e alla metà dell’XI secolo iniziava la conquista
normanna del Molise3.
Nell’ambito di un ampio studio sull’incastellamento molisano e sui suoi sviluppi nei secoli
bassomedievali, si è scelto, in questa sede, di porre l’attenzione su una porzione del territorio del
Molise geograficamente corrispondente all’alta valle del Trigno (Fig. 1). La montagna altomolisana
è costituita quasi interamente da calcari, che coprono un ampio arco cronologico, dal Triassico al
Miocene, disposti in grossi banchi. Alle falde dei rilievi calcarei, ripidi e caratterizzati da lunghi

* Ringrazio vivamente la Prof.ssa Stella Patitucci e il Prof. WICKHAM 1996, pp. 103-149.
Giovanni Uggeri per i preziosi suggerimenti offertimi in que- 2
CV, II, doc. 124, pp. 162-164: ‘Concedimus in eodem
sta sede. I documenti dell’Archivio di Stato di Campobasso sancto et venerabili loco, ubi nunc Deo auxiliante Paulus
sono pubblicati con autorizzazione n.°1189/28.28.00/1 del 5 Venerabils abbas regimen tenere videtur, ut ubicumque tu qui
marzo 2007; i documenti dell’Archivio di Stato di Isernia con supra abbas, vel successores tuos in rebus predicti monasterii
autorizzazione n. 1795/X.2.1 del I agosto 2006. turrem, aut castellum facere volueritis, potestati vestri sint
1
Dal lavoro di Pierre Toubert, Les structures du La- ipsum faciendum in rebus predicti monasterii’.
tium médiéval del 1973, ha preso avvio un acceso dibattito 3
Fondamentali in proposito i lavori di DE FRANCESCO 1909,
scientifico sul fenomeno dell’incastellamento e ricca è oggi 34, pp. 432-460, pp. 640-671; ID. 1910, 35, pp. 70-98, pp.
la bibliografia. Per l’area molisana, in particolare, si vedano 273-307e DEL TREPPO 1954, pp. 37-59.
MARTIN 1984, pp. 89-104; GASPARRI 1988, pp. 134-139;
278 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 1 – L’alta valle del Trigno. Stralcio del quadro d’unione dei fogli IGM 153, Agnone (lev. 1910), IGM 154,
Larino (lev. 1910), IGM 161, Isernia (lev. 1930), IGM 162, Campobasso (lev. 1905) (ridotto 1:133.000).

crestoni, si aprono formazioni marnose ed arenacee. I fitti boschi sono caratterizzati per lo più
da querce e faggi, mentre le colture sono limitate ad aree poco estese.
Il fiume Trigno nasce in agro di Vastogirardi, a m 1100 di quota, e scorre verso sud-est sino a Pe-
scolanciano, volge poi a nord-est percorrendo una valle trasversale al sistema appenninico e prose-
gue sino a sfociare nell’Adriatico, a nord-ovest di Petacciato, con un percorso complessivo di km 84.
Nel primo tratto del suo corso il Trigno lambisce i territori di numerosi insediamenti tuttora
abitati come Vastogirardi, Carovilli, Castiglione di Carovilli, Pescolanciano, Chiauci, Civitano-
va del Sannio, Duronia e Bagnoli del Trigno, ma anche siti abbandonati come Santa Maria dei
Vignali, nel territorio di Pescolanciano, Sprondasino in agro di Civitanova del Sannio. L’alto Molise
costituisce un comprensorio unitario per caratteri storici, insediativi e ambientali. Sin dall’età
del Bronzo l’organizzazione insediativa era basata sull’occupazione delle alture, quindi di luoghi
naturalmente difendibili. La scarsa propensione di questo territorio ad insediamenti a carattere
produttivo ha salvaguardato il paesaggio, che ha conservato, in tal modo, le sue peculiarità.

I CASTELLI DELL’ALTA VALLE DEL TRIGNO


Vastogirardi
Vastogirardi sorge a m 1197 s.l.m., su uno sperone calcareo dell’alta valle del Trigno. Sul versante
settentrionale una barriera rocciosa separa il territorio di Vastogirardi da quello di Capracotta,
con rilievi che oscillano tra i m 1300 e i m 1350 s.l.m. e discendono con profondi scoscendimenti
fino al Piano Sant’Angelo e alla Difesa Grande, la valle lacustre dove nasce il Trigno; a meridione
il territorio comunale è attraversato dal tratturo Celano-Foggia.
La prima menzione di Vastogirardi, definito Guastum, è contenuta nel Catalogus Baronum
risalente alla seconda metà del XII secolo e fonte essenziale per ricostruire le vicende storiche di
STRUTTURE DIFENSIVE E INSEDIAMENTI NELLA CONTEA DI MOLISE 279

questi castelli4. Dalla metà del XIII secolo assume il nome attuale di Vastogirardi: Guastum deriva
dal germanico *Wosti, deserto, Girardi dal personale germanico latino Gerardus5.
Nel Catalogus Baronum Vastogirardi è compreso nel Principatus Capuae: «Filii Actinulfi vide-
licet Berardus de Castelluccio, et Randisius Filius Berardi, et Berardus filius Hugonis, et Matheus
filius Aminadap tenet in demanio Montem Miculum, et Piczum, et Guastum…»6. Si tratta di
insediamenti retti da feudatari del conte di Molise, Ugo II, nel Principatus Capuae, quali Monte
Miglio a nord-ovest di Vastogirardi, Piczum a sud di Vastogirardi, Vastogiradi stesso e altri feudi.
Successivamente, nel 1270, Carlo I d’Angiò concede il feudo a Raimondo di Maleto: «…Con-
cessa sunt Raymundo de Mileto et heredibus suis etc., ad valorem unciarum auri XXIIII, Guastum
Girardi et infrascripta bona…»7. Dopo varie vicende ed essere stata soggetta a varie famiglie
feudali, Vastogirardi passa ai duchi d’Alessandro di Pescolanciano, i quali tengono il castello sino
all’eversione della feudalità8.
Il castello di Vastogirardi (Fig. 2) costituisce uno dei rari esempi molisani di borgo fortificato
caratterizzato da una cinta muraria, che racchiude un’ampia corte, la quale dovette assolvere a
tre funzioni principali: commerciale, pastorale e militare con gli alloggiamenti delle guarnigio-
ni. L’abitato si è sviluppato sul versante meridionale dello sperone sul quale si erge il castello.
Quest’ultimo, ancora abitato, presenta attorno alla corte un impianto compatto con abitazioni
appoggiate al perimetro delle mura. Nel punto più elevato della corte si trova la chiesa dedicata
a San Nicola di Bari, in posizione simmetrica rispetto alle due porte di accesso. L’edificio ci è
giunto nella versione quattrocentesca con un restauro del 1702 ricordato in un’iscrizione murata
nel portale d’ingresso dell’edificio di culto. Il primitivo impianto fortificato doveva trovarsi sul
versante nord-occidentale, dove sorgeva il corpo di guardia a difesa del principale accesso al bor-
go. Le mura di cinta per ottenere un coronamento orizzontale, hanno altezza differente, frutto
dell’adattamento alla configurazione geomorfologia del sito: la cortina muraria risulta più alta
sul fronte nord e più bassa su quello meridionale. La cinta muraria presenta tre torri: una rompi-
tratta a pianta circolare sul lato settentrionale e due angolari, circolare la torre posta nell’angolo
orientale del circuito, a pianta poligonale quella nell’angolo nord-occidentale presso l’accesso
principale; mancano torri sul lato meridionale, quello che si affaccia sull’abitato9.
Le due porte si trovano sui due opposti versanti del colle su cui si erge l’abitato: una nord-
occidentale, l’altra sud-orientale. La porta nord-occidentale, che costituiva anche il principale
accesso al castello, venne fortificata con un torrione, il donjon, residenza del feudatario. La tessitura
del circuito murario, posto direttamente sul banco roccioso sottostante, è realizzata con blocchi
lapidei di dimensioni irregolari a sacco con calce e pozzolana; la cortina esterna è parzialmente
intonacata, mentre gli spigoli sono in pietra da taglio a vista. Il castello di Vastogirardi ha subìto
nel corso dei secoli diversi rimaneggiamenti. Gli edifici appoggiati alle mura settentrionali si
sviluppano su tre livelli, quelli del fronte meridionale su due; le porte e le finestre di tali edifici
sono fasciate da cornici in pietra sbozzata e decorate da mensole sagomate, i tetti sono in pietra
sfaldata mista a coppi laterizi10.

Carovilli
Carovilli si trova km 7 a sud-sud-est di Vastogirardi, su un altopiano tra i rilievi Ingotta (m
1189) a nord e Ferrante (m 1051) a sud, a m 839 s.l.m., lambito dai torrenti Tirino e Gamberale,
affluenti del Trigno, in posizione di valico, un passaggio obbligato per la penetrazione da ovest
nell’alto Molise. A nord di Carovilli corre il tratturo Celano-Foggia, mentre a sud si trova il
tratturo Castel di Sangro-Lucera. Sulla sommità del monte Ferrante, a sud di Carovilli, si conser-
vano i resti di una fortificazione sannitica, sede di un insediamento11. Nell’altopiano di Carovilli
sboccano i percorsi che scendono da Capracotta, Agnone, Pietrabbondante e dagli insediamenti
disposti lungo l’alta valle del Trigno.
L’antico toponimo dell’abitato è Calvello12. Nel 1068 il conte Borrello di Pietrabbondante e sua
moglie Urania donano al monastero di San Pietro del Tasso alcune terre in località Calvellis13. Nel

4
CB, 745, pp. 133-134. 9
MANFREDI SELVAGGI 1991, pp. 218-220.
5
GIAMMARCO 1990, p. 402. 10
COLETTA 1990, pp. 349-355.
6
CB, 745, pp. 133-134. 11
CAPINI 1999, pp. 181-191.
7
LDCP, Reg. Ang. II, X, p. 250, n. 54. 12
GIAMMARCO 1990, p. 76.
8
MASCIOTTA 1952, III, p. 403 ss. 13
CIARLANTI 1644, III, p. 263; PERRELLA 1890, pp. 277-278.
280 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 2 – Vastogirardi. Impianto urbano, in alto il borgo fortificato: 1) la corte; 2) la cinta muraria;
3) la chiesa di San Nicola; 4) e 5) le due porte; 6) il donjon; 7)-8)-9) le tre torri della cinta muraria
(ASI, NCT, lev. 1951).

Catalogus Baronum Berardo è signore di Calvello: «Berardus de Calvello dixit quod demanium
suum de Calvello est feudum V militum… Una inter proprium feudum et augmentum obtulit
Jollem de Castro Pignano…». Berardo eredita i feudi di Giuliano di Castropignano, feudatario di
Ugo II di Molise14. Nel 1270 Carlo I d’Angiò investe Roberto de Cornay del feudo di Carovilli:
«Concessa est Roberto de Cornay et discendentibus etc. terra Calvelli in Comitatu Molisii»15.
Una pergamena, conservata nell’archivio comunale di Carovilli, contiene tre lettere, con data
6 marzo 1340, 23 marzo 1344 e 2 ottobre 1352, nelle quali è fatta menzione del castrum de
Calvellis. Nella prima lettera Agnese di Durazzo, Carlo duca di Durazzo e il conte Graziano,
dopo aver richiamato alla memoria dei propri sudditi le lettere che contenevano le disposizioni
territoriali assunte in favore di Pietro di Cornay, loro luogotenente e vicario presso il castrum de
Calvellis, denunciano a Giovanni di Tauro, capitano e vicario di Venafro e altre terre dell’Abruzzo
e del Molise, che gli homines castri nostri de Piczis si erano lamentati di alcune appropriazioni
indebite di terre da parte degli abitanti di Calvello. Da qui l’incarico al giudice Nicolò Riso di
Tauro e al notaio Santillo Russo di Napoli di procedere ad una requisizione del territorio conte-
stato al fine di dirimere le controversie, che anche in futuro potessero sorgere tra gli abitanti di
Calvello e quelli de Piczis. Il notaio definisce i confini del territorio conteso. Tale confine tocca
varie località, tra le quali una stratam publicam itur a partes Apulie, ossia uno dei due tratturi.
Nelle successive due lettere si ricordano le controversie sorte tra gli abitanti di Calvello e quelli
de Piczis circa i confini, poiché, nonostante le precedenti disposizioni, le liti erano continuate da
entrambe le parti, per cui si rendeva necessario un ulteriore provvedimento16.
Dal 1350 al 1552 Carovilli è feudo dei Carafa17. Quando nel 1453 Alfonso della Leonessa si
ribella al re Ferrante d’Aragona, il monarca decide di vendere per 11.000 ducati al milite Carlo
Carafa di Napoli e ai suoi eredi molte terre molisane, per cui i Carafa di Carovilli danno al monte

14
CB, 735, p. 131; 736, p. 132. 16
BORRI et al. 1991, pp. 17-28.
15
LDCP, Reg. Ang. II, X, p. 243, n. 24. 17
CARANO 1960, p. 16.
STRUTTURE DIFENSIVE E INSEDIAMENTI NELLA CONTEA DI MOLISE 281

Fig. 3 – Carovilli. Impianto urbano


(ASI, NCT, lev. 1950).

Caracio il nome del sovrano18. Del castello di Carovilli non rimane traccia. Resta il toponimo ‘via
la torre’, un quartiere del borgo sulle pendici meridionali dello sperone roccioso dove doveva
ergersi il fortilizio (Fig. 3).

Castiglione di Carovilli
Castiglione di Carovilli si trova km 2 a nord-est di Carovilli. Sorge a 978 metri s.l.m. sulla
cima di una collina calcarea, posta km 2 a sud del tratturo Celano-Foggia.
Il toponimo Castiglione fa la spia di una fase bizantina del sito, almeno per quanto è stato
osservato in Liguria da Giulia Petracco Sicardi ed in Toscana da Stella Patitucci.
In base al Catalogus Baronum, nella seconda metà del XII secolo Castiglione, assieme a Carovilli
e altri feudi, è dominio di Berardo de Calvello: «Berardus de Calvello tenet… et Castelionem»19.
Nel XVI secolo Castiglione diviene feudo dei duchi d’Alessandro di Pescolanciano20. Al vertice
del colle di Castiglione si conservano parti di una cinta muraria e resti delle mura perimetrali
a scarpa di un piccolo fortilizio, sui quali, nella prima metà del XVIII secolo, venne impiantata
una chiesa, come indica la data del 1720 riportata in un’iscrizione murata sul lato occidentale del
campanile (Fig. 4). Il castello venne realizzato con blocchi di pietra calcarea locale, di dimensioni
variabili, messi in opera in filari regolari.
Lungo il pendio orientale del colle, sul quale si ergeva la piccola fortificazione, obliterati dalla
vegetazione, emergono resti di strutture, probabilmente connesse con il fortilizio soprastante.
18
ID. 1960, p. 16.
19
CB, 736, p. 132. 20
GIUSTINIANI 1797-1805, III, p. 372.
282 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 4 – Castiglione di Carovilli. La fortificazione Fig. 5 – Santa Maria dei Vignali. La torre vista da
(ASI, NCT, lev. 1950). nord.

Santa Maria dei Vignali


Il sito abbandonato di Santa Maria dei Vignali si trova km 1,5 ad ovest di Pescolanciano, a m
948 s.l.m. su un piccolo dosso collinare, che si alza ai piedi del massiccio del Monte Totila. In
cima al colle resta una torre a pianta circolare posta a controllo del passaggio del tratturo Castel
di Sangro-Lucera. Il sito era occupato sin da età sannitica, come dimostrano i resti di mura poli-
gonali, che emergono per lunghi tratti sul versante meridionale dalla fitta vegetazione boschiva,
che avvolge oggi quel che rimane dell’insediamento.
Al 977 risalirebbe un documento conservato presso l’Archivio di Montecassino (Caps. CXXIII,
27), in cui è menzionato il sito21. Il toponimo riportato dal Catalogus Baronum è Vinealim, con
riferimento alla presenza di vigneti. Come gli altri castelli della zona, nella seconda metà del XII
secolo, l’insediamento rientrava nei feudi di Berardo di Calvello: «Berardus de Calvello tenet…Vi-
nealim…»22. La prima menzione del sito come castrum risale al 1270, quando Carlo I d’Angiò
dona il castrum Vinealis a Goffredo di San Massimo: «…Concessum est Goffrido de Sancto
Maximo…castrum Vinealis de Comitatu Molisii…»23. Nel 1272 il castrum appartiene a Corrado
di Montagano24 e all’inizio del XV secolo ai Carafa25. Nel 1456 è distrutto da un disastroso ter-
remoto26. Da quel momento Santa Maria dei Vignali non compare più nei documenti del Regno.
Sui resti del precedente insediamento sannitico svettano, nel punto più alto del colle, i ruderi della
torre a pianta circolare con muratura a doppio paramento e sacco interno di spessore variabile
dai 2 metri della base agli 80 centimetri in cima (Fig. 5); i blocchi lapidei della doppia cortina, di

21
DEL MATTO 1988, p. 225. 24
Reg. Ang., 1272, f. 172.
22
CB, 736, p. 132. 25
CIARLANTI 1644, IV, pp. 412-413.
23
LDCP, Reg. Ang. II, X, p. 251, n. 60. 26
MASELLI 1936, p. 70.
STRUTTURE DIFENSIVE E INSEDIAMENTI NELLA CONTEA DI MOLISE 283

dimensioni variabili, sono apparecchiati in filari irregolari; ancora ben visibili le buche di allog-
giamento delle travi dei ponteggi utilizzati durante la realizzazione della torre. Originariamente
questa doveva superare i 15 metri di altezza, ma allo stato attuale non sopravvivono feritoie, né
mensole o altri apparati a sporgere, che possano far supporre l’esistenza di un ballatoio o di un
coronamento. Appare probabile che nella fondazione sia stata ricavata una cisterna di raccolta
dell’acqua piovana del tetto, ma solo lo scavo archeologico potrebbe confermare tale ipotesi.
Adiacenti alla torre restano tracce di altre strutture murarie.

Pescolanciano
Pescolanciano, a m 819 s.l.m., sorge su un picco calcareo del versante occidentale dell’alto
corso del Trigno, a ridosso del tratturo Castel di Sangro-Lucera. Il castello si erge nell’angolo
settentrionale dell’abitato attuale, in posizione dominante, su uno sperone roccioso, che scende
ripido sul lato nord-orientale, con dolce pendio su quello meridionale.
Anche in questo caso la prima menzione del sito, Pesclum Lanzanum, è contenuta nel Catalo-
gus Baronum: «Berardus de Calvello tenet... Pesclum Lanzanum…»27. Lanzanum è un aggettivo
nominale, che ricorda il primo signore dell’insediamento28. Nel 1221 Federico II di Svevia, in
occasione delle rivolte baronali seguite all’incoronazione da parte di Onorio III, nomina come suo
giustiziere Teodino di Pescolanciano e nel 1223 ordina a Ruggero di Pescolanciano di organizzare
una spedizione per abbattere il castello di Carpinone: «…castellum Carpenonis, et alia quamplura
de novo castra firmata in Comitatu Molisii, et per loca alia secundum statuta Imperialia dudum
Capuae edita evertuntur. Pro implendis statutis ipsis, quidam Rogerius de Pesclolanzano executor
ab imperio dirigitur»29.
Nella prima età angioina Pescolanciano è feudo dei d’Evoli, in seguito dei Carafa, mentre nel
1295 appartiene ad Andrea d’Isernia per tornare poi, alla metà del XIV secolo, nuovamente ai
Carafa e ai d’Evoli. Nel 1594 Rita Baldassarre, vedova di Giovanni Girolamo d’Alessandro, cui il
feudo era stato venduto da Andrea d’Evoli nel 1576, dona Pescolanciano al figlio Donato Fabio
d’Alessandro. La famiglia d’Alessandro terrà il castello sino all’eversione della feudalità30. Il castello
attuale, a pianta esagonale, è il frutto di varie fasi costruttive, succedutesi nel tempo, ad opera
delle famiglie feudali che vi dimorarono31 (Fig. 6). Le massicce mura a scarpa, su cui si innesta il
castello, poggiano direttamente sul banco di roccia. Nell’angolo nord-orientale è riconoscibile il
mastio, posto a circa 45° rispetto alle cortine contigue, che vi si addossano. Attualmente l’ingresso
è sul lato sud-occidentale, dove un ponte levatoio, valicando un crepaccio profondo m 15, collega
l’edificio al recinto esterno e alla postierla, che immette nell’abitato. Il ponte risale al 1691, mentre
precedentemente l’ingresso al castello era sul lato nord-orientale, presso il mastio32. Quest’ultimo,
databile tra il XII e il XIII secolo, è a pianta quadrangolare con mura a scarpa ed appare più alto
del resto dell’edificio. A questa prima fase deve riferirsi pure il recinto, che dal mastio corre sul
lato sud-occidentale e che è direttamente innestato sulla roccia. Ai piedi del mastio, sul versante
nord-orientale, si conservano parzialmente le abitazioni del primo nucleo insediativo. Le strutture
murarie, quelle del castello come quelle delle abitazioni più a valle, sono realizzate con blocchi
di pietra calcarea locale di pezzatura irregolare, legati con malta.
Questo impianto normanno subisce profonde modifiche e ampliamenti in età rinascimentale. Il
castello abbandona la sua veste di fortezza militare e si trasforma in residenza signorile (Fig. 7). Tra
il XV e il XVI secolo il mastio viene ampliato verso sud-ovest, vengono aperti locali seminterrati,
coperti con volte a botte e si realizzano tre livelli residenziali. A questa fase risale la costruzione
del loggiato del fronte sud-orientale, costituito da quindici fornici ad arco ribassato poggianti su
beccatelli, costruito sul precedente camminamento di ronda e chiuso nel corso del XIX secolo.
Il loggiato corre, in parte, anche lungo il fronte sud-occidentale. Attraverso il ponte levatoio,
da un lato, si accede alla corte porticata interna, sulla quale si apre lo scalone che conduce ai
piani residenziali, dall’altro, al recinto esterno e alle sue pertinenze. Un ampio portale mette in
comunicazione il castello con il borgo. Al si sopra di questo portale sporge un balcone in pietra,
sostenuto da tre beccatelli33. Nella fase rinascimentale anche il borgo si amplia e si articola: si

27
CB, 736, p. 132. 31
PEROGALLI 1975, p. 87.
28
GIAMMARCO 1990, p. 296. 32
MASELLI 1936, p. 75; COLETTA 1990, p. 260.
29
Chron. Ryccardi S. Germ., p. 109. 33
DEL MATTO 1988, pp. 236-239.
30
MASCIOTTA 1952, III, p. 288; COLETTA 1990, p. 258.
284 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 6 – Pescolanciano. Impianto urbano: 1)


il castello; 2) il ponte levatoio; 3) il ricetto;
4) la postierla (ASI, NCT, lev. 1940).

Fig. 7 – Pescolanciano. Il castello visto da


sud-est.

definisce la prima linea di case a doppia schiera, che si svolge a sud del castello e si impianta quella
che, tra il XVI e il XVII secolo, con i duchi d’Alessandro, diverrà la cinta muraria dell’abitato con
tre porte di accesso. Nel corso del XVIII secolo il borgo si espande e l’intero impianto urbano si
sposta a valle, sulla fascia tratturale.

Chiauci
Chiauci sorge a m 884 s.l.m. in cima ad un picco calcareo isolato a sud e ad est dall’ansa
dell’alto corso del Trigno. Circa km 1 a sud del paese corre il tratturo Castel di Sangro-Lucera
e a poca distanza, sul colle di Sant’Onofrio (m 951), rimangono i resti di un recinto in opera
poligonale di epoca sannitica. Nel Catalogus Baronum il toponimo è Clavicia, dal genitivo lo-
cativo di claucus, nel senso di canalis34. Era allora feudo di Oderisio di Rionero: «Oderisius de
Rigo Nigro dixit quod demanium suum de Clauicia…»35. Nel 1270 Carlo I d’Angiò assegna metà

34
GIAMMARCO 1990, p.108. 35
CB, 731, pp. 130-131.
STRUTTURE DIFENSIVE E INSEDIAMENTI NELLA CONTEA DI MOLISE 285

Fig. 8 – Chiauci. Impianto urbano: 1) il castello; 2) la chiesa di San Giovanni; 3) la porta sud; 4) via Tre
Porte; 5) via Orientale; 6) via Roma (ASI, NCT, lev. 1950).

del castello di Chiauci a Berteraimo Brucca: «…Concessa sunt Berteraymo Brucca… castrum
Longani et medietas castri Clavice…»36; essendo costui morto senza eredi, Carlo d’Angiò, nel
1273, dona la metà del castello a Giovanni del Bosco: «…Concessa sunt Iohanni de Bosco…
castrum Longani et medietas castri de Clavice…»37. Alla metà del XV secolo il castello compare
come feudo dei conti di Montagano sino al 1477. In quest’anno re Ferrante d’Aragona vende i
possedimenti dei conti di Montagano a Gherardo d’Appiano. Sul finire del XV secolo il castello
di Chiauci passa a varie famiglie feudali, tra le quali i de Capua e i Gambadoro, che tengono il
castello sino all’eversione della feudalità38.
Il nucleo primitivo di Chiauci, racchiuso tra via Orientale a nord e ad est e via Roma e via
Livenza a sud, conserva il carattere di centro fortificato con il polo di aggregazione attorno alla
chiesa di San Giovanni (Fig. 8). La strada principale, che attraversa il borgo, descrive un anello
dal toponimo significativo di ‘via Tre Porte’. Questo primitivo nucleo abitativo è in parte scom-
parso, in parte è stato inglobato dagli edifici successivi, ma è in parte conservata la principale
porta di accesso sul versante sud-occidentale dell’abitato; della seconda porta resta il toponimo
in via Orientale; della terza non rimane traccia. Del castello si conserva unicamente l’impianto
volumetrico nel grande edificio intonacato adiacente la chiesa, completamente trasformato nel
corso dei secoli. La torre circolare con base a scarpa, trasformata nel campanile della chiesa di San
Giovanni, è l’unica superstite della cinta muraria di Chiauci. Nel settore sud-orientale dell’antico
nucleo urbano sono visibili alcune unità abitative, che conservano caratteristiche tipologiche
medievali. Esse sono caratterizzate da planimetrie irregolari e da un limitato sviluppo in altezza
(uno o al massimo due livelli) e sono costruite con blocchi di pietra locale a vista, disposti in filari
irregolari; i solai sono lignei e i tetti in pietra sfaldata.

36
LDCP, Reg. Ang. II, X, p. 246, n.35. 38
COLETTA 1990, pp. 191-192.
37
LDCP, Reg. Ang. II, Registro X, p. 246, n. 36.
286 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 9 – Civitanova del Sannio. Impianto urbano: 1) il castello; 2) la chiesa di San Silvestro; 3) via Trieste;
4) corso Umberto (ASI, NCT, lev. 1950).
Civitanova del Sannio
Civitanova del Sannio sorge a m 651 s.l.m. alle pendici di un dosso collinare calcareo posto
a sud dell’alto corso del Trigno e a ridosso del tratturo Castel di Sangro-Lucera. In agro di Civi-
tanova, nel punto in cui il Trigno forma una cascata, in posizione di controllo sul tratturo, resta
parte della fortificazione sannitica di Civita. Nel Catalogus Baronum risulta tra i feudi di Oderi-
sio di Rionero: «Oderisius de Rigo nigro dixit quod demanium suum de Civitate Nova…»39. Nel
1189 Ruggero, figlio di Riccardo di Mandra, stende un atto contro Teodino, Rainaldo e Nicola,
signori di Civitanova, i quali avevano portato i propri armenti sui pascoli del monastero de iu-
mento albo ‘non reddentes quarterium sicut mox est’40. Nel 1270 Carlo I d’Angiò cede metà del
castello di Civitanova a Ysnardo di Almacia: «…Concessum est Ysnardo de Almacia… medietas
Civite Nove in Comitatu Molisii…»41. Nel 1274 la stessa metà del castello di Civitanova viene
donata a Pietro Lodoyco: «…Concessa est Petro de Lodoyco medietas Civite Nove…»42. Nel 1457
Alfonso d’Aragona investe Andrea d’Evoli del feudo di Civitanova; successivamente questo passa
ai Caracciolo ed infine ai d’Alessandro, che tengono il castello sino all’eversione della feudalità43.
Il primo nucleo urbano di Civitanova è limitato da via Trieste a nord e da corso Umberto a sud e
ad est, che perpetuano l’andamento della cinta muraria del borgo, oggi inglobata nelle abitazioni
moderne (Fig. 9). Il perno del primo nucleo insediativo è costituito dalla chiesa di San Silvestro
nel cuore del borgo attuale. A sud-sud-ovest della chiesa si trova l’edificio, che un tempo era il
castello e che poi è stato trasformato in palazzo baronale. Così come appare oggi la struttura,
inglobata nell’ufficio postale e compromessa dai numerosi rifacimenti, risulta di difficile lettura:
a pianta quadrangolare, l’edificio conserva il massiccio muro perimetrale a scarpa poggiante
direttamente sul banco roccioso; i livelli superiori sono stati riadattati e trasformati nei secoli.

39
CB, 731, p. 130. 42
LDCP, Reg. Ang. II, X, p. 245, n. 32.
40
GATTOLA 1733, I, pp. 207-208. 43
GIUSTINIANI 1797-1805, IV, p. 64.
41
LDCP, Reg. Ang. II, X, p. 252, n. 66.
STRUTTURE DIFENSIVE E INSEDIAMENTI NELLA CONTEA DI MOLISE 287

Fig. 10 – Duronia. Impianto urbano: l’asterisco indica l’area del castello (ASC, fondo canapine, lev. 1933).

Nei pressi del castello, restano alcune cellule abitative non stravolte dai rimaneggiamenti recenti,
con planimetria irregolare ed altezza contenuta in due piani; molte di esse conservano il portale
realizzato con conci d’arco sagomati, strutture lignee orizzontali e tetto a doppio spiovente.

Duronia
Duronia è posta a m 918 s.l.m. sulla cima di un colle ad est dell’alto corso del Trigno. Nel
territorio di Duronia, ai piedi del colle Pizzuto (m 640), scorre il Fiumarello. Non distante dalla
confluenza di questo torrente con il Trigno è ubicata la Civita, a m 925 s.l.m., sulla quale resta
parte di una fortificazione sannitica. Ai piedi della Civita, sul versante settentrionale, corre il
tratturo Castel di Sangro-Lucera, in posizione di raccordo con le fortificazioni poco distanti di
Civitanova e di Chiauci.
Sino al 1875 Duronia si chiamava Civitavecchia. Nel Catalogus Baronum Civitavecchia,
come altri castelli della zona, è feudo di Oderisio di Rionero («Oderisius de Rigo nigro dixit quod
demanium suum…et Civitate Veccla…»44), feudatario di Berardus de Balneola, nel Ducatus Apu-
liae45. Nel 1270 Carlo d’Angiò assegna metà del castello a Raimondo Cantelmo: «…Concessa
est Raymundo Cantelmo… medietas Civite Vetule que est de Comitatu Molisii» e, nel 1272, a
Stefano Talo: «…Concessa est medietas Civite Vetule Stephano Talo…»46. Nei secoli successivi
dai Filomarino passa ai conti di Montagano, ai Piscicelli, ai Carafa, ai della Marra sino ai duchi
d’Alessandro di Pescolanciano47.
Il borgo attuale conserva l’impianto del centro fortificato medievale, ma appare pesantemente
manomesso dai numerosi rimaneggiamenti, che si sono succeduti nei secoli.
Al vertice del colle di San Tommaso, su cui sorge il paese, dovette ergersi il mastio (Fig. 10).
Ciò è desumibile dallo spazio esiguo della sommità del colle stesso e dal fatto che lo stemma del

44
CB, 731, pp. 130-131. 46
LDCP, Reg. Ang. II, X, p. 249, n. 51 e n. 52.
45
CB, 750, p. 135. 47
MASCIOTTA 1914, II, p. 177.
288 GABRIELLA DI ROCCO

comune reca una torre posta su un massiccio roccioso. Secondo il Berardi essa sarebbe crollata
nel disastroso terremoto del 145648. Scarse tracce murarie pertinenti ad una struttura fortificata,
direttamente innestate sul banco di roccia, si conservano in cima al colle di San Tommaso; tutta-
via, per la loro esiguità, non consentono di delineare la planimetria e di valutare la consistenza
di tale struttura.

Bagnoli del Trigno


Bagnoli del Trigno sorge a m 680 s.l.m. su uno sperone calcareo posto a cavaliere delle valli
del torrente Vella e del Trigno, in posizione equidistante dai due tratturi di Celano-Foggia a nord
e Castel di Sangro-Lucera a sud.
Al 981 risale un passo del Registro di Pietro Diacono, nel quale è scritto «in oppido baniolo
cella S. Ben. et S. Lucie»49.
In una pergamena conservata presso l’Archivio del monastero di Montecassino, in data febbraio
1002, si legge che il conte di Isernia Berardo e sua moglie Gemma donano all’abate Pietro una
chiesa «infra fines Banioli in loco qui vocatur Molendini vetulus», affinché costruisca un monastero
in onore di San Benedetto50.
La Cronaca di Montecassino (a. 1020) menziona Bagnoli come castrum in occasione dell’offerta
degli abati Pietro e Paolo del monastero di San Benedetto de Iumento Albo al monastero cassinese
della chiesa di Santa Lucia presso il castrum Baniolum nel luogo che chiamano Mulino Vecchio e
della chiesa di Santa Maria della Croce: «Monasterium Sancti Benedicti et Ecclesia Sancte Lucie
apud castrum Baniolum, loco qui dicitur ad Molinum Vetulum, et Ecclesia Santa Maria de Cruce»51.
Anche nel Registro di Pietro Diacono è riportata la donazione delle due chiese: «Offertorium Petri
et Pauli abbatum de Sancto Benedico de castello Baniolo, loco Molino Vetulo et Sancta Lucia et
Sancta Maria de Cruce»52. Dal Catalogus Baronum apprendiamo che, nella seconda metà del XII
secolo, Berardo de Balneola, conte di Isernia, tiene in feudo Bagnoli insieme ai fratelli Roberto e
Tustaiano: «Berardus de Balneola cum fratribus suis Robberto et Tustaiano tenet Bagnolum…»53.
Nel 1185 Robbertus de Baniolo sottoscrive in Boiano, alla presenza del conte di Molise, Ruggero,
il memoratorium di un processo tra Guglielmo, abate del monastero di Santa Sofia di Benevento,
e Ruggiero Bozzardi, signore di Campolieto54. Nel 1269 Carlo d’Angiò offre Bagnoli a Riccardo
di Montefuscolo, i cui eredi tengono il feudo sino all’inizio del XIV secolo55. In seguito vari casati
nobiliari tengono il castello, tra cui i d’Aquino, i d’Avalos, i d’Afflitto e i Sanfelice, che reggono
Bagnoli sino all’eversione della feudalità56.
Il maniero, a pianta quadrangolare, ci è giunto nella versione rinascimentale, in gran parte
diroccato e manomesso (Fig. 11). Presenta massicce mura perimetrali a scarpa, quasi del tutto
prive di aperture, poggianti sulla viva roccia, al cui interno è riconoscibile l’impianto del mastio
normanno. Sul fronte meridionale resta la porta di accesso con arco a tutto sesto, alla quale si
giunge tramite una rampa in acciottolato; varcato l’ingresso si apre una corte, dove rimane la
cisterna scavata nel banco roccioso; sul lato orientale della corte dovevano trovarsi i magazzini, su
quello settentrionale erano le stalle (Fig. 12). Una fenditura naturale della roccia separa il castello
dalla chiesa di San Silvestro (XIII-XIV secolo). Le strutture murarie sono costituite da conci di
dimensioni variabili ben apparecchiati in filari orizzontali.
I molteplici interventi di ammodernamento e restauro avvenuti nei secoli hanno, tuttavia, can-
cellato quasi del tutto le tracce delle strutture originarie. Nel XVI secolo l’edificio, di proprietà
della famiglia Sanfelice, fu oggetto di ampliamenti sui lati settentrionale ed occidentale; a questa
fase risale la piccola loggia tuttora esistente nell’angolo nord-ovest del maniero. Con gli ultimi
interventi conservativi ad opera della Soprintendenza del Molise si è provveduto a consolidare
le mura perimetrali e restaurare la loggetta dei Sanfelice57.

48
BERARDI 1999, p. 87. 52
Reg. Petri Diaconi, CXIX-CXX, n. 260.
49
La maggior parte degli studiosi concordano nel ritenere 53
CB, 749, p. 135.
tale passo interpolato: cfr. BLOCH 1986, I, pp. 282-284, n. 73. 54
JAMISON 1933, pp. 159-161 app. n. 5.
50
Si tratta del monastero di San Benedetto de Iumento 55
CIARLANTI 1644, IV, XX, p. 361.
Albo: cfr. INGUANEZ 1917, p. 142. 56
GIUSTINIANI 1797-1805, II, p. 135.
51
CMC, 1980, p. 227. 57
BUCCI 1989.
STRUTTURE DIFENSIVE E INSEDIAMENTI NELLA CONTEA DI MOLISE 289

Figg. 11-12 – Bagnoli del Trigno. 11. Il castello visto


da nord-ovest; 12. Planimetria del castello Sanfelice
(da BUCCI 1989). Legenda: 1. Entrata; 2. Magazzini;
3. Torretta di avvistamento; 4. Sperone di roccia;
5. Loggetta; 6. Cappella; 7. Cisterna; 8. Corte.

Fig. 13 – Sprondasino. Lacerto murario della


fortificazione visto da sud-ovest.

Sprondasino
Il sito abbandonato di Sprondasino, nel territorio di Civitanova del Sannio, si trova km 3 a nord
di Bagnoli del Trigno, a m 457 s.l.m., sulla cima di un dosso collinare della riva occidentale del
Trigno, ai piedi del quale, sul versante meridionale, corre il tratturo Celano-Foggia, in un punto
di controllo strategico tra Bagnoli del Trigno e Pietrabbondante. In questo sito confluiscono anche
due bracci tratturali minori, il Castel del Giudice-Sprondasino e il Pescolanciano-Sprondasino.
La prima menzione compare nel Catalogus Baronum, dove viene definito Sporonasinam. Matteo,
feudatario del conte di Molise Ugo II, tiene in feudo Sprondasino: «Matheus tenet a domino
Rege Sporonasinam»58. Nel 1270 da parte di Carlo d’Angiò «…Concessa est terra Sparonasini…
Guillelmo Raysoso de Avignono…». Nel 1272 lo stesso sovrano dona Sprondasino a Guillelmo de
58
CB, 802, pp. 146-147.
290 GABRIELLA DI ROCCO

Savors59. Durante il XV secolo il castello è proprietà dei d’Evoli e nel corso del secolo seguente
viene definitivamente abbandonato60.
Del castello di Sprondasino è ben visibile un lacerto murario d’angolo, alto circa m10 e largo
circa m 4, che svetta a mezza costa del colle a ridosso del Trigno (Fig. 13). La struttura muraria è
costituita di blocchi lapidei di varia dimensione, ben squadrati e posti in opera in filari piuttosto
regolari; a metà circa di tale struttura corre un marcapiano a toro di materiale lapideo scuro. Altre
emergenze murarie, di fattura simile, appaiono al vertice del colle, completamente obliterate dal
manto boschivo e pertanto di difficile lettura.

CONCLUSIONI
Dall’analisi dei dati sopra esposti è possibile desumere diverse informazioni sulle dinamiche
insediative, che hanno caratterizzato il territorio dell’alta valle del Trigno durante il Medioevo.
Sotto il profilo storico, quel che emerge con evidenza è la presenza, attestata dal Catalogus
Baronum, di tutti questi castelli in età normanna. Nell’assemblea generale di Silva Marca (1142)
il re Ruggero II aveva definito un severo controllo sugli obblighi feudali ed una nuova struttura
feudo-burocratica, in cui accanto ai milites normanni, venivano inseriti anche i ceti dirigenti lo-
cali. La signoria dei de Molisio fu annessa al regno e i possedimenti del conte Ugo II andarono a
costituire la nuova Contea, che fu detta dal suo cognomen, di Molise e che copriva un vastissimo
territorio pari ai tre quarti dell’attuale regione.
Alcuni degli insediamenti studiati sono attestati già in età longobarda: il toponimo Calvelli
(Carovilli) compare in un atto di donazione del 1068; Santa Maria dei Vignali è menzionata in
un documento datato al 977; Bagnoli del Trigno risulta attestata nella seconda metà del X secolo
in un passo del Registro di Pietro Diacono e nella prima metà del secolo seguente (a. 1020) dalla
Cronaca di Montecassino di Leone Marsicano. Poco conosciamo delle vicende che interessarono
gli altri siti prima dell’età normanna. Sappiamo comunque che tutto il territorio dell’alta valle
del Trigno faceva parte, con la media valle del Sangro, della Terra Burrellensis, ossia di quella
vasta contea che i Borrello, discendenti dei conti di Valva, tennero tra la seconda metà del X e la
prima metà dell’XI secolo sino all’arrivo dei Normanni61. Sul piano più strettamente topografico,
si tratta di insediamenti d’altura, sorti sulle cime dei ripidi rilievi calcarei, che caratterizzano il
sistema orografico di questa porzione dell’alto Molise: Vastogirardi, con i suoi m 1197 s.l.m.,
rappresenta il livello altimetrico massimo e Sprondasino, a m 457 s.l.m., il livello altimetrico mi-
nimo. Tra tutti i siti considerati, la sola Civitanova del Sannio (m 651 s.l.m.) appare in posizione
di pendio collinare piuttosto che di sommità. Alcuni, come Vastogirardi, Castiglione di Carovilli,
Santa Maria dei Vignali e Sprondasino si attestano ad una quota che raggiunge e, talvolta, come
per Chiauci e Bagnoli del Trigno, supera i m 100 rispetto alla valle sottostante, per altri, come
Carovilli, Pescolanciano, Civitanova del Sannio e Duronia il dislivello è minore ed oscilla tra i
m 60 e i m 30.
Tutti questi castelli sorgono a ridosso o nelle immediate vicinanze di due dei principali tratturi,
che solcano la regione: il tratturo Celano-Foggia a nord e il tratturo Castel di Sangro-Lucera a
sud. Vastogirardi si trova circa km 5 a nord del tratturo Celano-Foggia; Carovilli in posizione
di equidistanza tra i due percorsi tratturali e così pure Castiglione di Carovilli; Santa Maria dei
Vignali a ridosso e a controllo del tratturo Castel di Sangro-Lucera; Pescolanciano, poco distante
da Santa Maria (un chilometro e mezzo), proprio sopra lo stesso tratturo; Chiauci meno di km
2 a nord; Civitanova ad una distanza ancor più breve dal tratturo Castel di Sangro-Lucera, dove
il Trigno con una brusca ansa piega a nord-est per dirigersi verso l’Adriatico; Duronia km 3-4
a sud del medesimo tratturo; Bagnoli, come Carovilli, in posizione mediana tra i due percorsi;
Sprondasino, snodo cruciale dell’antica viabilità dell’area, a ridosso del tratturo Celano-Foggia
e punto di confluenza di due percorsi minori, uno a nord, l’altro a sud.
Dall’analisi dell’ubicazione dei castelli della valle scaturisce un’ulteriore considerazione: dei dieci
castelli considerati cinque risultano impostati a brevissima distanza da precedenti fortificazioni
di epoca sannitica o a ridosso, come nel caso di Santa Maria dei Vignali: immediatamente a sud
di Carovilli, sulla cima del monte Ferrante (m 1051), rimangono le poderose mura megalitiche

59
LDCP, Reg. Ang. II, X, p. 243, n. 21 e n. 22. 61
DI IORIO 1989, pp. 25-29.
60
GALANTI 1781, p. 97, n. 30; PIEDIMONTE 1905, p. 95.
STRUTTURE DIFENSIVE E INSEDIAMENTI NELLA CONTEA DI MOLISE 291

di una fortificazione sannitica; km 2 a sud-ovest di Chiauci, sul colle di Sant’Onofrio (m 950), si


conservano cospicui resti di una cinta sannitica; a ovest di Civitanova del Sannio (m 884) sorge
la cosiddetta Civita, così come a sud di Duronia, oltre la confluenza del Fiumarello con il Tri-
gno, si trova il primitivo insediamento sannitico. Appare evidente come, tanto le fortificazioni
sannitiche quanto i successivi insediamenti fortificati medievali, insistano sui tratturi. Da questa
collocazione è possibile evincere come la viabilità medievale nell’alta valle del Trigno non differisse
sostanzialmente da quella sannitica.
Infine, sul piano architettonico, si desume che il donjon ha costituito per alcuni di questi castelli,
come Vastogirardi, Santa Maria dei Vignali, Pescolanciano e Bagnoli del Trigno il nucleo origina-
rio, attorno al quale si è poi sviluppato l’abitato; per altri, invece, i molteplici rimaneggiamenti
succedutisi nei secoli non permettono di riconoscere l’impianto originario.

In conclusione, nell’alta valle del Trigno è chiaramente testimoniata, seppur solo per alcuni
casi, una fase di incastellamento di epoca longobarda, estesasi e rafforzatasi durante l’età nor-
manna. Inoltre, per cinque dei dieci insediamenti presi in esame in questa sede, risulta evidente
il rifugiarsi, per esigenze di difesa, in posizioni arroccate diverse, ma analoghe a quelle contigue
utilizzate in età sannitica.

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Reg. Petri Diaconi = Il Registrum di Pietro Diacono (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, Reg. 3). Com-
mentario codicologico, paleografico, diplomatico, a cura di M. Dell’Omo, Montecassino 2000.
WICKHAM 1996 = C. WICKHAM, Il problema dell’incastellamento nell’Italia centrale. L’esempio di San
Vincenzo al Volturno, «San Vincenzo al Volturno: cultura, istituzioni, economia», a cura di F. Marazzi,
Napoli, pp. 103-149.
Insediamenti fortificati e viabilità nel Molise in età medievale:
il tratturo Pescasseroli-Candela

GABRIELLA DI ROCCO

INTRODUZIONE
Il Molise per la sua conformazione orografica, largamente montuosa, è da sempre regione a
vocazione agro-pastorale*.
La ricognizione archeologica ha dimostrato come sin dalla fine del II millennio a.C. i pascoli
dei monti del Matese fossero frequentati da parte dei pastori della valle del Biferno1. Fin dai
tempi più remoti, infatti, i sentieri aperti dalle greggi rappresentarono vie di comunicazione
relativamente facili attraverso il Sannio2.
È noto come ben prima dell’annessione del Sannio da parte di Roma, esistesse un sistema di
comunicazioni complesso, che gli ingegneri romani sfruttarono ampiamente quando, in seguito,
svilupparono il loro grande sistema stradale.
Le prime notizie documentate sull’attività della transumanza nel sud della penisola si riferi-
scono all’area pugliese3. Strabone scrive che, finita la seconda guerra punica, grandi aree pugliesi,
prima considerate fertili, rimasero spopolate4. Con la fine del tentativo di riforma da parte dei
Gracchi5, il latifondo favorì l’espansione della pastorizia sull’ager publicus6, il quale, secondo
quanto racconta Varrone, era suddiviso in circoscrizioni di 800 iugeri ciascuna attraversate dalle
calles publicae7.
Nel nostro territorio i tratturi rappresentarono la viabilità principale e i loro tracciati furono
regolarizzati. I Romani fecero della transumanza una delle fonti principali delle entrate dell’era-
rio e questo divenne motivo di malcontento per i Sanniti, costretti a versare tributi per poter
pascolare le greggi sull’ager publicus8.
Appare difficile ricostruire il quadro della rete tratturale, che solcava il Molise successiva-
mente alla caduta dell’Impero Romano, dal momento che manca una specifica documentazione
a riguardo. È opinione comune che, in seguito alle devastazioni provocate dalle invasioni barba-
riche a partire dal V secolo d.C. e alla probabile interruzione della pratica della transumanza, la
maggior parte delle piste erbose, private di manutenzione, finissero con l’inselvatichirsi e con il
confondersi con il terreno circostante9.
Dopo il Mille la tutela e l’uso delle terre attraversate dai tratturi vennero ereditati dai Normanni,
i quali sancirono diritti e privilegi in favore dei pastori. L’Assise ‘De animalibus in pascuis affidan-
dis’ di Guglielmo II (a 1172), che riguarda la regolamentazione del pascolo in Puglia, disciplinava
il comportamento dei forestarii nei confronti dei pastori, spesso ricattati ed angariati10. Un passo

*Alla Prof.ssa Stella Patitucci e al Prof. Giovanni Uggeri Bruttius (Varr. De Re Rust., II, 9, 6; Liv. XXIV, 20, 16).
va la mia gratitudine per il supporto offertomi nella stesura 4
Strab. Geogr., VI, III, 11.
del presente contributo. Ringrazio, inoltre, tutto il personale 5
La più antica organizzazione pubblica del sistema della
tecnico e scientifico degli Archivi di Stato di Campobasso e transumanza è quella contenuta nella lex agraria del 111
di Isernia. I documenti dell’Archivio di Stato di Campobasso a.C.
sono pubblicati con autorizzazione n. 0001189/28.28.00/1 6
Nella letteratura antica i riferimenti alla transumanza sono
del 5 marzo 2007, quelli dell’Archivio di Stato di Isernia con molteplici: Cic. Pro Cluentio, 59, 161; Liv. XXII, 14, 8; Sil.
autorizzazione n. 492/28.34.07.05.01 del 5 marzo 2007. Ital. VII, 365; Varr. De Re Rust., I, 10 ; II, 2, 10 ; III, 17, 9.
1
BARKER 1988/1989, pp. 136-137. 7
Varr. De Re Rust., I, 10 ; II, 2, 10.
2
I ritrovamenti archeologici provano che il Sannio già in 8
SALMON 1985, p. 74.
epoca preistorica aveva un’economia basata sulla pastorizia 9
Sul tema della fine o della continuità della transumanza tra
(A. MAIURI, Passeggiate Campane, Firenze 1957; C. ALBORE la caduta di Roma e l’età normanna i pareri non sono concordi.
LIVADIE, Considerazioni sui nuovi scavi a La Starza (Ariano Ir- Non è possibile avere la certezza che il fenomeno sia perdurato
pino) e sulle comunità pastorali appenniniche, «La cultura della o che sia cessato in questo amplissimo lasso di tempo (VI-XII
Transumanza», a c. di E. Narciso, Napoli 1991, pp. 33-39). secolo). In proposito, GABBA 1985, pp. 373-400.
3
La Puglia era la principale, ma non l’unica destinazione: 10
CLEMENTI 1988, pp. 215-226. Secondo Clementi, il
esistevano dei pascoli nella zona di Metaponto e nell’ager fatto che i custodi dei pascoli demaniali vengano nell’Assise
294 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 1 – Gli insediamenti fortificati molisani lungo il tratturo Pescasseroli-Candela. Stralcio del quadro
d’unione dei fogli IGM 153, Agnone (lev. 1910), IGM 154, Larino (lev. 1910), IGM 161, Isernia (lev.
1930), IGM 162, Campobasso (lev. 1905).

molto significativo è quello che stabiliva che, se nel transumare il gregge avesse usufruito per una
sola notte del pascolo di qualcuno, non sarebbe stato lecito al padrone della terra o al baglivo
pretendere alcun pagamento, ma si sarebbe dovuto lasciare liberamente transitare il gregge11.
Il rilancio della transumanza ad opera dei Normanni, tuttavia, non dovette coinvolgere pie-
namente il Molise, se si considera che il comune altomolisano di Capracotta, dove tale pratica
era stata la prima fonte di reddito sin da epoca sannitica12, in età normanna poteva offrire al
Regno un solo milite13 e che la ripresa economica del centro fu notevole solo successivamente,
nel periodo della grande transumanza aragonese.
Successivamente Federico II, istituendo la ‘Mena delle pecore di Puglia’, una magistratura con
compiti fiscali, ma non autonoma, razionalizzò lo sfruttamento delle terre destinate al pascolo e
di quelle coltivate14.
Alla metà del XV secolo, Alfonso d’Aragona creò la ‘Regia Dogana della Mena delle pecore
di Puglia’, disciplinando in modo organico la pratica della transumanza secondo due scelte ben

definiti forestarii starebbe ad indicare che tali pascoli doveva- domino ipsius terre, vel baiulo eius aliquod accipere, sed sine
no, poco tempo prima, essere stati delle foreste, le quali solo impedimento vel datione aliqua animalia ipsa dimittat transire’
allora si stavano disboscando per far posto alla pratica della (CLEMENTI 1988, p. 219).
transumanza recentemente ripristinata. 12
Si ricorda il santuario sannitico di Fonte del Romito in
11
‘Si oves vel alia animalia alicuius de una contrata in agro di Capracotta.
aliam ducta fuerint in transitu, si una die tantum vel una nocte 13
CB, 787, p. 142.
et non ultra in terra alicuius pascua sumpserint, non liceat 14
PAONE 1987, p. 21.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 295

precise: la gestione diretta dello Stato e l’incremento della produzione laniera tramite l’impor-
tazione di merinos dalla Spagna15.
La transumanza divenne, pertanto, obbligatoria; le terre al pascolo furono aumentate; nacque
il cosiddetto ‘Tavoliere doganale’, il quale, oltre a quello pugliese, comprendeva anche le zone
marittime del Saccione, costituite da una vasta distesa di terre situate tra i fiumi Fortore, Trigno
e Sangro, nonché tutta la fascia litoranea adriatica compresa tra i fiumi Pescara e Tronto16.
La stretta corrispondenza esistente in Molise tra fortificazioni medievali e viabilità protostorica
è rappresentata dalla dislocazione costante di molti centri, tuttora abitati, lungo le principali di-
rettrici della transumanza, che attraversano la regione; tra esse il grande asse di collegamento tra
l’Abruzzo e la Puglia, il cui tracciato ospitò in epoca romana la via Minucia e, successivamente,
a partire dall’età aragonese, il tratturo Pescasseroli-Candela.
A ridosso di questo importante asse viario sorsero in età medievale ben tredici insediamenti
fortificati, tutti, fatta eccezione per Castelvecchio, centri attualmente abitati: Rionero Sannitico,
Forlì del Sannio, Isernia, Pettoranello del Molise, Castelpetroso, Cantalupo del Sannio, San Mas-
simo, Boiano, San Polomatese, Campochiaro, Guardiaregia, Castelvecchio e Sepino (Fig. 1).

LE FORTIFICAZIONI MEDIEVALI LUNGO IL TRATTURO PESCASSEROLI-CANDELA NEL MOLISE


1. Rionero Sannitico
Si tratta di un sito d’altura, posto a m 1051 s.l.m. sul percorso del grande tratturo Pescasseroli-
Candela, al confine con il territorio abruzzese e alle pendici del monte La Caprara.
La prima menzione di Rionero è contenuta nel Chronicon Vulturnense: intorno alla metà del-
l’XI secolo membri della potente famiglia Borrello invadono i possedimenti di San Vincenzo al
Volturno e assaltano molte terre del monastero, tra le quali anche quella di Rionero17. Giovanni
V, abate del monastero, dietro intervento del pontefice, riesce a riottenere alcuni castelli e pos-
sedimenti, altri, tra cui Rionero, restano agli occupanti con la promessa di tornare al monastero
quando i Borrello avessero trovato terre nei territori della Valeria18. Nel Catalogus Baronum
Rionero è compreso tra i feudi di Oderisio, feudatario del conte di Molise19, mentre tra la fine
del XIV secolo e la prima metà del XV secolo il centro è feudo dei Carafa20.
Il castello di Rionero, in forma di rudere nella parte apicale del paese, a pianta subrettangolare
con grandi contrafforti angolari, è il frutto di un rifacimento del XVII secolo, per cui appare
difficile, allo stato attuale, ricostruirne l’aspetto originario (Figg. 2-3).

2. Forlì del Sannio


Quindici chilometri a sud di Rionero Sannitico, su un’emergenza collinare a m 634 s.l.m., si
trova Forlì del Sannio. Anche questo centro sorge a ridosso del Pescasseroli-Candela, mentre km
3 circa a nord-est dell’abitato, nei pressi del bosco Falascoso, sono i resti di una fortificazione
sannitica.
Il rivum qui dicitur Foruli è incluso tra i confini delle terre che Ludovico II concede al mo-
nastero di San Vincenzo al Volturno (a. 866) nel territorio di Venafro21. Nel commemoratorio
dei beni di San Vincenzo al Volturno del monaco Sabatino (post 881), tra le terre menzionate, è
inclusa anche la terra di Foruli22.
All’aprile del 995 risale l’atto con cui Roffredo, abate del medesimo monastero, concede a
livello ad Aliperto, Leone e ad altri uomini le terre in località ad Ficus al confine con il rigo de

15
MUSTO 1964. et Aquaviva, Riu Neru, Montenero, Malecoclaria, et Alfedenam
16
SPRENGEL 1971, pp. 45-46. sub tali conditione dimissis, exhibitis securitatibus, et ipsos
17
CV, III, p. 84 : ‘…Iam filii Borrelli super filios Anserii sur- obligantes, quoque tempore in Valeriae partibus sibi recep-
rexerant… aliis fide captis, Alfedenam, Montem Nigrum, et alias tum aquirere potuissent, ista omnia integra esse monasterio
terras huius monasterii abstulerunt, et cetera invadere ceperunt, reddituros’.
Buscurri, Mala Cocclaria, Rigu Neru, Cerrum cum Spina…’. 19
CB, 731, pp. 130-131: ‘Oderisius de Rigo Nigro dixit
18
CV, III, pp. 89-91 : ‘Igitur sacrilegos Tyrannos apostolica quod demanium suum.... et de Rigo Nigro...’.
auctoritate suae potestatis subegit Castella, villas et diversa 20
Reg. Ang. 1418, f. 262.
monasterii auferens, ipsius iuri restituit, vidilivet Castrum 21
CV, I, doc. 70, pp. 325-328.
Scappuli, Fossam caecam, servientes, collem S. Angeli, castrum 22
CV, I, p. 373: ‘Foruli vero erat divisum in tres partes:
Vadum Porcinum, et castrum Fornellum. Reliquia sibi, idest prima pars Sancti Monasterii, ubi habuit quinque casas de
Licenosum, collem Stephani, Terzenusum, Cerrum cum Spina, servis; seconda pars episcopii; tercia puplica’.
296 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 2 – Rionero Sanni-


tico: in alto i resti del
castello seicentesco (rie-
laborazione da VALENTE
2003).

Fig. 3 – Pianta topografica


del demanio di Rionero
(Atti demaniali del 1811
– Archivio di Stato di
Campobasso).

Forule23, mentre nella prima metà dell’XI secolo l’abate Ilario concede a livello per ventinove
anni ad alcuni abitanti di Foruli le terre monastiche limitrofe24. Nella seconda metà del XII secolo
Forlì del Sannio è feudo dei fratelli Oderisio e Trasmondo25. La prima menzione del sito come

23
CV, II, doc. 166, pp. 308-310:... Memoratorium factum Sancti Vincencii… Azzo, Corvino, Mayfredo… qui sumus
a me Roffridus... per scriptum libellario ordine, tollere volunt abitatores in Foruli, quomodo abuistis peticiones vestras a me
in ipso loco, ubi dicitur ad Ficus… ad tenendum et excolen- …ego suprascriptus Ylarius... libenti animo et spontanea mea
dum, et Ibidem habitandum…dedimus et tradidimus vobis… bona voluntate… hoc est ipse terre in finibus Foruli, culte et
suprascripte terre… que habet finis a pede flumine Vulturno, inculte, cum omnia infra se… in tali tenore ad usumfruendi,
et de una pars rivo de valle de Cerro, quomodo vadit directe regendi, cultandi, gubernandi et laborandi…’.
in rigo de Forule…’. 25
CB, 1094, pp. 211-212: ‘Oderisius de Forolo et Tra-
24
CV, III, pp. 82-84: ‘Scriptum conveniencie admodo et smundus frater eius sicut dixerunt tenent in Terra Burrelli
usque in completi viginti et novem annis… qualiter stetit adque Forolum…’.
convenit inter me Ylarius vir venerabilis, abbas ex monasterio
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 297

Fig. 4 – Forlì del San-


nio: impianto urbano;
1) l’area del castello (Ar-
chivio di Stato di Isernia,
Nuovo Catasto Terreni).

Figg. 5-6 – (Sotto) Forlì


del Sannio. 5. Visto da
nord; in cima la rocca che
ospitava il castello; 6. Re-
sti della cinta muraria
del versante settentrio-
nale; in primo piano il
piedritto della porta di
accesso all’insediamento
fortificato.

a b

castrum è contenuta nella bolla di papa Lucio III (a. 1182), con cui il pontefice cede al vescovo
di Isernia, Rainaldo, le terre comprese tra il fiume Volturno, il fiume Sesto e la terra di San Vin-
cenzo26. Dalla metà del XIV secolo il feudo appartiene a varie famiglie feudali, quali i Carafa, i
Pandone, i Muscettola27.
Nulla resta del castello del borgo, se non il muraglione di contenimento della rocca (Figg. 4-5).
Il palazzo baronale, costruito sul versante settentrionale della rocca, sorge a lato della porta di
accesso al nucleo originario, di cui rimane solo una parte del piedritto (Fig. 6).

26
UGHELLI 1720, VI, col. 396. 27
MASCIOTTA 1952, III, p. 187.
298 GABRIELLA DI ROCCO

3. Isernia
Isernia sorge nel cuore del Molise occidentale su un promontorio di travertino (m 436 s.l.m.)
ai piedi del quale scorre il torrente Cavaliere, affluente del Vandra, immissario del Volturno. La
città, capitale del Sannio Pentro prima, colonia romana poi, era attraversata dalla via Minucia,
l’asse Sulmona-Benevento, che in età romana metteva in collegamento l’Abruzzo e la Campania,
sfruttando il precedente tracciato di quel tratturo che con gli Aragonesi sarà il Pescasseroli-Can-
dela (Fig. 7).
La prima menzione della città medievale è fornita da Paolo Diacono, il quale riferisce che
nel 667 il duca di Benevento, Romualdo, concede Isernia, Sepino e Boiano ad Alczeco, duca dei
Bulgari28. Due secoli più tardi, nell’860, la città è distrutta dall’imperatore Ludovico II in lotta
contro Adelchi, principe di Benevento29, mentre nell’882 è tra le città devastate dai Saraceni30.
Con un diploma, datato 5 maggio 964, i principi di Capua e di Benevento, Pandolfo I Capo-
diferro e Landolfo III, investono il cugino, Landolfo il Greco, di Isernia e di tutto il territorio
circostante, compreso tra le valli del Trigno, del Sangro e del Volturno31. Pandolfo cede la città
di Isernia ‘ad havendum atque possidendum atque fruendum atque dominandum’, con diritto
ereditario32.
Se nel 1199 la città viene saccheggiata da Marcovaldo, conte di Molise33, nel 1223, su mandato
di Federico II di Svevia, Ruggero di Pescolanciano, legato imperiale, distrugge la fortificazione
di Isernia e altri castelli34.
In seguito Isernia compare nello Statutum de reparatione castrorum, voluto da Federico II ed
aggiornato da Carlo I d’Angiò, tra i castelli obbligati a provvedere alla riparazione del castello di
Boiano35. Nel 1300 Carlo II d’Angiò cede Isernia a Raimondo Berengario, suo figlio quintogenito
e conte di Andria36.
Il castrum di Isernia, probabilmente fondato nella seconda metà del X secolo, al tempo in
cui Landolfo il Greco, cugino di Pandolfo Capodiferro divenne conte di Isernia, doveva trovarsi
nell’area circostante il monastero di Santa Maria delle Monache, ossia nella parte alta della città
vecchia37 (Fig. 8, B). È in questo quartiere, infatti, che si conservano alcuni toponimi significativi
quali Vico Castello, Vicoletto Castello, Vico Storto Castello; quest’ultimo è l’unico vicolo non
ortogonale rispetto all’asse centrale della città, che collegava la chiesa di Santa Maria delle Mo-
nache, posta a sud-est, alla porta Castello, posta a nord-ovest.
Una costruzione a pianta quadrangolare è riconoscibile presso Largo Porta Castello su via Oc-
cidentale: alcuni vedono in questa costruzione, profondamente trasformata nei secoli, il primitivo
28
Paolo Diacono nell’Historia Langobardorum (M.G.H., que finis fuit de jam dicto Comitatu Ysernino, atque deinde
S.R.L., V, 29, pp. 196-197) scrive: ‘Quos Romoaldus dux quomodo pergit ipsa Serra de jam dicto monte capraio atque
gratanter excipiens, eisdem spatiosa ad habitandum loca, pervenit in Monte Rendenato, atque vadit usque in Salectu…
quae usque ad illud tempus deserta erant, contribuit, scilicet atque ab inde quomodo vadit in fluvio Sangro. De tertia parte
Sepinum, Bovianum et Iserniam et alias cum suis territoriis quomodo ascendit ipso fluvio Sangro atque directe per ipsa
civitates, ipsumque Alzeconem, mutato dignitatis nomine, de via scilicet antiqua usque in rivo qui dicitur merdaro, atque
duce gastaldium vocitare praecepit’. quomodo mittit ipse rivo in fluvio Vulturno …’
29
Chron. S. Ben. Cas., MGH, SRL, c. 13, p. 475. 32
UGHELLI 1720, VI, coll. 393-394: ‘Per quos omnino san-
30
Erchemp., p. 245, n. 29 : ‘Quo tempore Maielpotus Te- cimus, atque perpetua litera havendum nostris, atque futuris
lesinus et Guandelepert Bovianensis castaldei multa cum prece temporibus concedimus, atque confirmamus tibi supra nomi-
conduxerunt Lambertum ducem spolitensium et Garardum nato Landolfo Com. direct. fratri nostro atque ad haeredibus
comitem, et obviantes eidem Saugdan cum de Capuae depopu- tuis praedictam Civitatem Yserniae cum omnibus territoriis,
latione reverteretur in Arvium tellure irruerunt super eum…’. atque aquis suis per ipse finis quae superius declaravimus cum
31
UGHELLI 1720, VI, col. 393: ‘In nomine Domini Salvatoris Castellis, atque vicis, atque omnia intro haventi infra praedict.
nostri Jesu Christi Dei aeterni. Paldolfus et Landolfus divina finis ad havendum atque possidendum atque fruendum atque
ordinante providentia Longobardorum gentis Principes. Cum dominandum vos atque heredibus vestris…’.
principalis excellentia petitione dilecti sui petentis clementer 33
CIARLANTI 1644, IV, XII, p. 326; GIUSTINIANI 1797-1805,
fav… Ardericus Vener. Episcopus obsecravit nostram excellen- V, p. 168.
tiam quatenus concederemus atque confirmaremus Landolfo 34
Chron. Ryccardi S. Germ., p. 109: ‘In Gaieta, Neapoly,
Comiti dilecto fratri nostro… integram Civitatem Aeserniensem Aversa et Fogia iussu Cesaris, castella firmantur. Sernie, menia
cum tota pertinentia sua per has fines. De prima parte a vertice diruuntur, cuius civitatis fere medietas igne comburitur,, castel-
de Monte Maseto atque directe per ipse fere in vertice de monte lum Carpenonis et alia quam plura de novo castra firmata in
Zanniprande. Et deinde quomodo venit in Serra de Colle Petroso comitatu Molisii et per loca alia secundum statuta imperialia du-
silve ipse atque per eadem loca descurrent aliae contra predicate dum Capue edita evertuntur. Pro implendis statutis ipsis quidam
Aeserniae, atque aliae contra Boclantia atque ab inde quomodo Roggerius de Pesclolanzano executor ab Imperatore dirigitur’.
incipitur ipse mons qui est super vallem frigidam atque silva 35
STHAMER 1995, p. 98: ‘Item castrum Boyani reparari
vadit per verticem ipsius montis usque in Macele qui dicitur de debet per homines ipsius terre… Ysernie…’.
godini. De seconda parte a Macele qui dicitur de godini, usque 36
Reg. Ang. 1303, D, f. 71. e f. 76.
in fluvio qui dicitur Trinia majore, atque deinde in Serra de 37
La fondazione della chiesa di Santa Maria delle Monache
Monte capraio ubi ficta fuit ex antiquitus columna marmorea, è anteriore all’VIII secolo, cfr.: VITI 1980.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 299

Fig. 7 – Isernia nel Regio Tratturo Pescasse-


roli-Candela di Magnacca-Aratori del 1811
(Archivio di Stato di Campobasso).

Fig. 8 – Isernia: nel riquadro la fortificazione


longobarda, B) Santa Maria delle Monache,
D) la chiesa di Sant’Angelo, E) il Purgatorio.
L’asterisco indica l’ubicazione del mastio
longobardo (rielaborazione da VALENTE 1982).

mastio longobardo38. Essa si affaccia internamente sulla piazzetta Sant’Angelo, su cui si apriva
un piccolo edificio religioso dedicato al Santo (Fig. 8, D). Pertanto il primo nucleo fortificato
longobardo, distrutto probabilmente alla fine del XII secolo, quando la città viene saccheggiata
dalle truppe del conte Marcovaldo, doveva essere un borgo di dimensioni modeste, cinto da
mura e caratterizzato da due poli opposti, il castello nell’angolo nord-occidentale con la porta di
accesso e la chiesa di Santa Maria delle Monache in quello sud-orientale39 (Fig. 9).

38
VALENTE 1982, p. 125. fonti, né dare l’ubicazione di questi due castelli. Il canonico
39
Non tutti gli studiosi concordano con questa ricostru- Giambattista Ricci in un manoscritto inedito del 1766, conser-
zione. Cefalogli (2000, p. 59) sostiene che l’appellativo Porta vato nella Biblioteca Comunale di Isernia, scrive: ‘…(Isernia)
Castello sia in realtà una corruzione dal latino Catellia, nome si vede sorgere solamente sopra una collina lunga un miglio
riportato in una lapide funeraria perduta, trascritta dal Mom- circondata d’intorno intorno da muraglie ben forti, tiene dei
msen (CIL 2710). Lo studioso aggiunge che il toponimo Porta torri per fianco, da capo ha un Castello ben grande, che fa
Castello apparve per la prima volta nel 1871, anno in cui fu fronte verso l’Abruzzi, ed anche da piedi ha un altro Castello
rifatta la toponomastica cittadina: inizialmente, al contrario, di sopra la porta verso Napoli Roma… Ora le torri sono ridotte
era Porta Catiella dal nome italianizzato del dialettale Catieglie, in casamenti, come anche il Castello verso l’Abruzzi; e l’altro
voce popolare usata ad indicare questa zona. E. Turco (1948, Castello verso Napoli parte si è convertito in un monistero dei
p. 27) parla di ‘due turriti castelli che esistevano in quel tempo, P.P. Celestini, e parte in casamenti…’. La questione, allo stato
e con molte altre torri…’, senza, tuttavia, accennare alle sue attuale delle ricerche, rimane aperta.
300 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 9 – Isernia: foto aerea


(R.T.A.) con l’ubicazione
del castrum.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 301

Fig. 10 – Isernia nella stampa del Pacichelli (1703).

Fig. 11 – Isernia: la torre del Purgatorio nella stampa Fig. 12 – Isernia: la torre del Purgatorio.
del Pacichelli.

Della successiva fortificazione, realizzata in età angioina, quando cioè, in seguito alle distru-
zioni operate da Federico II, la città conosce un nuovo impulso urbanistico, restano alcune torri
circolari ed una porta della grande cinta muraria, che per buona parte sfruttava il poderoso
circuito murario di età romana.
Dall’analisi della stampa seicentesca del Pacichelli, pubblicata nel 1703 (Fig. 10), e dei resti
superstiti riconoscibili lungo il perimetro dell’attuale centro storico di Isernia, è possibile rico-
struire, seppure solo parzialmente, lo sviluppo della cinta muraria angioina.
302 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 13 – Isernia: la porta del Cam-


panile e la porta della Fonticella
nella stampa del Pacichelli.

Fig. 14 – Isernia: la porta della


Fonticella.

Nella prospettiva a volo d’uccello del Pacichelli Isernia è vista da sud-est e in primo piano è
riconoscibile il lato orientale del circuito murario (Figg. 11-14); sono visibili, inoltre, le merlature
delle cortine e le torri circolari con coronamento anch’esso merlato, anche se alcuni segmenti del
circuito appaiono in rovina. Sul lato orientale tre sono le porte di accesso, la porta del Campanile
al centro, difesa da due torri circolari, di cui si conserva ancora quella di destra, la porta adiacente
il monastero di Santa Maria delle Monache, oggi scomparsa e la porta detta della Fonticella,
poco distante dalla porta del Campanile, l’unica ancora esistente; sul lato meridionale, quello
rivolto verso Venafro, si vede un’altra porta preceduta da un ponte, anch’essa scomparsa, mentre
sul lato occidentale si trova un’apertura, da riferire verosimilmente alla porta Castello. Tutta la
cinta muraria angioina è oggi completamente inglobata nelle abitazioni che dal XVII secolo in
avanti vi si sono sovrapposte40.
40
In una perizia del 1744, stilata per determinare il valore Monisterij. Vi sono ancora due porte grandi principali, una nella
dei beni feudali e allodiali della città, il Regio Ingegnere e Ta- parte inferiore verso mezzogiorno, che vien chiamata la Porta
volario D. Casimiro Vetromile scrive: ‘Le abitazioni vengono da piedi, e l’altra superiore verso tramontana, denominata la
racchiuse da per tutto da mura antichissime con case in faccia Porta da capo. Nel lato verso oriente vi sono tre altre porte:
le medesime, fra le quali da passo in passo vi sono diverse Torri, una detta di San Giovanni; l’altra corrispondente al vicolo
la maggior parte incorporate nelle abitazioni de’ cittadini e de’ detto del campanile; e l’altra nominata della Fonticella. E nel
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 303

Fig. 15 – Pettoranello del Molise: impianto urbano; Fig. 16 – Pettoranello del Molise: la torre.
1) l’area del castello (Archivio di Stato di Isernia,
Nuovo Catasto Terreni).

4. Pettoranello del Molise


Pettoranello del Molise, km 7 a sud-est di Isernia, sorge su un colle (m 757 s.l.m.) circa km 1
a sud del tratturo Pescasseroli-Candela.
Nella seconda metà del XII secolo Pectoranum è feudo di Raul de Mulisio41. Il castrum Pecto-
rani è menzionato nella bolla di Lucio III (a. 1182), con la quale il pontefice cede al vescovo di
Isernia, Rainaldo, le terre e i possedimenti posti tra il fiume Volturno, il fiume Sesto e la terra di
San Vincenzo42. Nel 1270 Carlo I concede il castrum a Goffredo di Faenza43.
Il castello è stato profondamente modificato dopo il terremoto del 1805: il toponimo di via
Pettorano Vecchio, nella parte meridionale dell’attuale comune, suggerisce l’ubicazione del primo
nucleo abitato (Fig. 15). Dell’antica fortificazione si conserva una grande torre semicircolare (Fig.
16) direttamente impostata sul banco roccioso sottostante e inglobata in un grande edificio ca-
ratterizzato da massicce mura perimetrali a scarpa. Se la torre appare oggi totalmente intonacata,
l’edificio adiacente presenta un rivestimento di elementi lapidei di medie dimensioni poco lavorati
e disposti in filari regolari alternati a blocchetti. Il medesimo tessuto murario caratterizza anche le
piccole abitazioni poste a sud dell’area del castello, oggi allo stato di ruderi. Esse, generalmente
ad un solo livello, conservano in qualche caso il tetto a sottili lastre di pietra e gli architravi lignei
degli ingressi aperti su stretti vicoli.
lato vero occidente vi sono quattro altre simili porte: la prima 41
CB, 733, p. 131: ‘Raul de Mulisio dixit quod demanium
chiamata Catiello, la seconda Porta di Chioppo, la terza del suum… Pectoranum…’.
Mercatello, e la quarta di San Bartolomeo. Ed a tutte le sudete 42
UGHELLI 1720, VI, col. 396.
Porte vi sono le porte di legname antiche ed in parte marcite 43
LDCP, Reg. Ang. vol. II, Registro X, p. 251, n. 58: ‘Con-
colle loro serrature, affine di poterle chiudere ed aprire, secondo cessum est Goffrido de Faencia… castrum Pectorani, quod est
le occorrenze’; cfr.: CEFALOGLI 2000, p. 61. de Comitatu Molisii…’.
304 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 17 – Castelpetroso: im-


pianto urbano; 1) il palazzo
baronale sorto sul castello
(Archivio di Stato di Isernia,
Nuovo Catasto Terreni).

Fig. 18 – Castelpetroso: il
palazzo baronale.

5. Castelpetroso
Castelpetroso, km 10 a sud-est di Isernia, sorge su un dosso collinare (m 872 s.l.m.) a nord
della catena montuosa del Matese, sul versante settentrionale del torrente Rio; circa km 1 a sud
il suo territorio è percorso dal tratturo Pescasseroli-Candela.
Al 964 risale il documento nel quale vengono riportati i confini della contea longobarda di
Isernia e dove, per la prima volta, è menzionato un Colle Petroso44. Esistono due documenti della
prima metà dell’XI secolo, nei quali viene menzionato il ‘castello Petroso’. Nel primo, risalente
all’aprile del 1019, Leone, presbitero e monaco di Boiano, dona all’abate Atenolfo di Montecassino
le chiese di San Salvatore e San Cristoforo di Castelpetroso45. Nel secondo (dicembre 1023) il
presbitero e monaco Leone offre al monastero di Montecassino la chiesa di San Cristoforo di
castello Petroso46.
44
UGHELLI 1720, VI, col. 393: ‘De prima parte a vertice presbiteri et monachi de Sancto Salvatore et Sancto Christoforo
de monte Matesio et directe per ipse serre in vertice de monte in Castello Petroso’; CMC, p. 228: ‘Leo quoque presbiter et
Ianniprandis. Et deinde quomodo venit in serra de Colle petroso monachus de territorio bovianensi simul cum aliis fratribus
silve ipse atque per eadem loca discurrens alie contra predic. suis optulerunt in hoc loco ecclesiam Sancti Salvatoris et S.
Ysernie ed alie contra Boclanum…’. Christofori de Castello Petroso’.
45
Reg. Petri Diaconi, c. CXXI, n. 265: ‘Offertio Leonis 46
Reg. Petri Diaconi, c. CXXIX, n. 284: ‘Offertio Leonis
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 305

Fig. 19 – Cantalupo del Sannio nel


Regio Tratturo Pescasseroli-Candela di
Magnacca-Aratori del 1811 (Archivio
di Stato di Campobasso).

Fig. 20 – Cantalupo del Sannio: im-


pianto urbano; 1) l’area del castello
(Archivio di Stato di Isernia, Nuovo
Catasto Terreni).

Alla metà del XII secolo Rodolfo di Molise, feudatario del conte di Molise, tiene Castelpetroso
ed altri feudi47. Nel 1270 Carlo I d’Angiò concede Castelpetroso a Giovanni d’Alneto; in seguito
passa a Giovanni Scotto48. Nella prima metà del XIV secolo Castelpetroso è feudo di Andrea
d’Isernia, ma tre anni dopo la sua morte, nel 1319, la vedova cede il castello ad Alferio d’Isernia49.
Il castello medievale ha subito molteplici trasformazioni nel corso dei secoli, che ne hanno
completamente stravolto la struttura primitiva. Oggi appare come residenza baronale aperta
su piazza Girasole (Figg. 17-18), mentre il borgo conserva l’aspetto del primo nucleo abitato,
arroccato attorno al castello e caratterizzato da stretti vicoli, collegati da passaggi coperti, sui
quali si aprono modeste cellule edilizie di uno o, al massimo, due livelli.

6. Cantalupo del Sannio


Il centro sorge a m 588 s.l.m. sul versante settentrionale della catena matesina a ridosso del
tratturo Pescasseroli-Candela (Fig. 19).
Nel settembre del 1019 i figli di Marzone e altri abitanti del castello di Cantalupo, nel territorio
di Boiano, donano all’abate Atenolfo di Montecassino la chiesa di Sant’Andrea di Cantalupo50.

presbyteri et monachi de Castello Petroso de ecclesia Sancti 50


Reg. Petri Diaconi, c. CXXI, n. 264: ‘Oblatio de filiis
Cristofori’; CMC, p. 272: ‘Presbiter quidam de territorio Marzonis de Sancto Andrea in Buiano de Cantalupo’; CMC, p.
bovianensi Leo nomine obtulit in hoc loco ecclesiam Sancti 227: ‘Ecclesia S. Andreae de Cantalupo territorio Bovianense’;
Christofori de Castello Petroso’. In proposito cfr. Reg. M.C., BLOCH 1986, II, p. 868: ‘…infra finibus de Bulano in castello
VIII, p. 85, n. 1966 e BLOCH 1986, I, pp. 414-416. qui Cantalupo vocatur’. Della chiesa di Sant’Andrea non
47
CB, 733, p. 131: ‘Raul de Mulisio dixit quod demanium restano che scarse tracce nei pressi di una cascina costruita
suum de Castello Petroso…’. sull’antico edificio. Sia la chiesa che l’attiguo monastero furono
48
CAMERA 1841, a. 1268. distrutti durante il terremoto del 1456 (DI RE 1994, p. 28).
49
VITI 1972, p. 64 e p. 114.
306 GABRIELLA DI ROCCO

Nel luglio del 1121 Riccardo di Guasto riceve il feudo di Cantalupo da Roberto conte di Ci-
vitate51; mentre nel febbraio del 1156 un certo Tancredi di Cantalupo è presente e si sottoscrive
in una donazione della moglie Greca in favore del monastero di Montevergine52. Nella seconda
metà del XII secolo Unfrido di Cantalupo è titolare del feudo53. Successivamente Cantalupo passa a
Guglielmo di Pesclo, feudatario nel Giustizierato svevo di Capitanata, il quale ne possiede la metà54.
Il castello figura poi nello Statutum de reparatione castrorum emanato da Federico II di
Svevia55. Nel 1272 sono signori di Cantalupo Fulco di Roccafolia e Ruggiero di Cantalupo56 e
nel 1277 Francesco di Sant’Agapito rivendica il possesso di alcuni castelli, tra cui metà del feudo
di Cantalupo57. Sotto Carlo II d’Angiò Gentile e Odone de Letto rivaleggiano per il castello di
Cantalupo58 e poi ne diventano proprietari59.
Del castello di Cantalupo non rimane più alcuna traccia, se non un lacerto murario incluso
oggi in un giardino privato nel centro del borgo, dove resta il toponimo ‘via Muro della Porta’
(Fig. 20): la struttura, di difficile datazione, è caratterizzata da blocchi lapidei di medie dimensioni
posti in filari regolari e legati con malta.

7. San Massimo
San Massimo si trova a m 633 s.l.m. su un colle del versante settentrionale dei monti del Matese,
circa due chilometri a sud del tratturo Pescasseroli-Candela e del torrente Callora (Fig. 21).
Sin dal IX secolo il culto di San Massimo di Nola era molto vivo a Benevento e a Salerno,
come dimostra la fondazione di chiese dedicate a questo santo da parte di Grimoaldo a Benevento
e Guaiferio a Salerno nell’86860. Nel 1113 in un atto di conferma di donazione, Ugo de Sancto
Maximo, dominus loci e suffeudatario di Simone di Molise, conte di Boiano, è tra i nobili nor-
manni che sottoscrivono tale atto61.
Secondo la Jamison San Massimo, assieme a Macchiagodena e Cantalupo, era uno dei 26 feudi
tenuti in servitio dal conte di Molise nel Principatus Capuae62.
Nel 1226 un certo Bartholomeus de Sancto Maximo è menzionato in una sentenza relativa
ad un’inchiesta amministrativa tenuta per ordine di Ruggiero di Galliccio, Giustiziere Imperiale,
da Guglielmo di Venafro e altri giudici e cavalieri di Campobasso, tra i quali Bartolomeo di San
Massimo. Tale inchiesta doveva verificare prestazioni personali e finanziarie dovute da baroni e
cavalieri di Toro e di San Giovanni in Galdo63.
Carlo I d’Angiò affida a Ugo di San Massimo, omonimo del precedente Ugo menzionato nell’atto
del 1113, la difesa del castello di Biccari, nel foggiano64. Nel 1270 il sovrano concede a Goffredo
di San Massimo il castrum Vinealis65, mentre il suo successore offre una parte del castello al suo
51
CUOZZO 1984, 298, p. 69. de Rigo de Waldo testis. Ego Ugo de Sancto Maximo testis’.
52
CUOZZO 1984, 423, p. 115. 62
Le lacune del Catalogus Baronum relative ai feudi di Boia-
53
CB, 1087, pp. 209-210: ‘Unfridus de Cantalupo sicut no, Isernia e Venafro non consentono di trovare nessun dato di-
dixit ipse Raynaldus tenet ab eodem in terra Burrellensi Can- retto su San Massimo. Tali lacune spiegano la mancata citazione
talupum I militis et dimidii’. di San Massimo tra i feudi del conte di Molise, del demanio
54
CB, 1389, p. 279: ‘Guillelmus de Pesclo tenet Pesclum et del quale esso faceva parte e quindi di Ugo di San Massimo.
Cantalupum a dominio Guidone de Guasto, quod est feudum 63
JAMISON 1929, pp. 28-30, app. n. 5: ‘…incarnatione
I militis.’ eiusdem Millesimo CCXXVI… Ideoque Nos Rao et Iohannes
55
STHAMER 1995, n. 30, p. 98: ‘Item castrum Boyani Iudices campobassi scrivere curavimus qualiter dominus Gui-
reparari debet per homines ipsius terre… Cantalupi et baronie lielmus de benafro aput campobassum accessit, astantibus in
domini Thomasii de Molisio’. eiusdem presentia Domino Hugone de molisio, domino tedino
56
Reg. Ang. 1272, fasc. 65, f. 106. de rocca, domino teoclesio sancti Iohannis in gulfo nec non
57
Reg. Ang. 1277, n. 137 e n. 239. et al.s militibus bonisque hominibus et predictus Guilielmus
58
Reg. Ang. 1304, D. f. 108, a t. coram his jamdictis litteras ostendit, quas a domino Roggerio
59
Reg. Ang. 1304, D. f. 167. de gialliccio Imperiali Iustitiario receperat (…)tam Castellorum
60
CDC, I, p. 79. quam etiam baronum et militum pro servitisi personarum et
61
Nel giugno del 1113 il conte di Bojano, Simone, confer- aduamentorum (…). Nos vero audientes ea que esaminata
ma la donazione, fatta nel 1094, dal padre e dallo zio Ruggiero, coram his predictis fuerant, de mandato Domini Guilielmi
del Monastero di Santa Maria di Sepino alla chiesa di Santa de benafro Nos inscriptis redigere curavimus. Ego Rao Iudex
Sofia di Benevento alla presenza di molti nobili testimoni, tra i campobassi. Ego Iudex Iohannes me in hoc in strumento sub-
quali Ugo di San Massimo. CSS, pp. 731-734: ‘In nomine Do- scripsi. Ego Hugo de molisio dominus campobassi interfui. Ego
mini. Anno dominicae incarnationis millesimo centesimo tertio tedino de rocca interfui. Ego teoclesius dominus sancti Iohannis
decimo, mense iunio, sexta indictione. Ego Simon Dei gratia interfui. Ego bartholomeus de sancto maximo interfui. Ego
Boianensis Comes filius quodam Ugonis… monasterium Sancte tancredus miles de Campobasso interfui’.
Dei genitricis et virginis Marie quod constructum est in veteri 64
Regest. Chart. I, vol. III, n. 460: ‘Ugoni de Sancto Ma-
civitate Sepini... Et ego Petrus notarius domni nostri Symonis ximo commissio custodie Castri Biccari’.
Comitis rogatus ab eodem scripsi. Feliciter. Ego Robbertus cons- 65
LDCP, Reg. Ang. vol. II, Registro X, p. 251, n. 60: ‘Con-
tabilis testis. Ego Robbertus de Molinis testis. Ego Robbertus de cessum est Goffrido de Sancto Maximo… castrum Vinealis de
Molisio testis. Ego Giroldus filius Guayferii testis. Ego Paganus Comitatu Molisii…’.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 307

Fig. 21 – San Massimo alle


pendici della catena del Ma-
tese; in basso il tratturo Pe-
scasseroli-Candela.

Fig. 22 – Boiano nel Regio


Tratturo Pescasseroli-Cande-
la di Magnacca Aratori del
1811 (Archivio di Stato di
Campobasso).

consigliere Giovanni Scotto66. Nel XIV secolo San Massimo è feudo della famiglia del Tufo67. Nel
1384 Carlo III di Durazzo dona a Giacomo Caetani, conte di Fondi, una parte del castello di San
Massimo68. Nel 1456 il castello di San Massimo viene distrutto dal terremoto69.
Il primitivo nucleo abitato di San Massimo doveva ergersi nei pressi dell’antico castello, ubicato
nella zona centrale dell’attuale comune e del quale non rimangono che esigui resti di difficile
lettura inglobati nelle strutture di edifici recenti.
66
CAMERA 1841, A. 1268. Chronicorum (1581, III, pp. 581-582) e tra i paesi distrutti
67
MASCIOTTA 1952, III, p. 351. Secondo Candida Gonzaga cita anche San Massimo. A. Tallone (RIS, p. 206) scrive: ‘Que
(1876, III, p. 103), invece, nel 1300 Nicola Galeota è barone sic ruta fertur ut nulla eversi sit ibi signa loci…sic Castellionus,
di San Massimo. sic Sanctus Maximus, atque Fornellus sic et Toccus in ima, ruit
68
DE LELLIS 1654, I, p. 198. Guardia; Cerritum; Fresolonum… sic Carpinonum, sic Campus
69
Sant’Antonino, arcivescovo di Firenze, che visse al tem- Bassus comitatus pene que totus Mollissimi…’.
po del sisma del 1456, descrive questo fenomeno nell’Opus
308 GABRIELLA DI ROCCO

8. Boiano
La Civita di Boiano, costituita dal castello e dal borgo fortificato, è posta su un dosso collinare
(m 756 s.l.m.) del versante settentrionale del catena matesina, in posizione strategica a controllo
della valle del Biferno. Il Pescasseroli-Candela attraversa la colonia romana di Bovianum, sulla
quale si è impiantata l’attuale città, ai piedi della Civita (Figg. 22-23).
Gli scavi archeologici effettuati negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo sulla Civita
hanno stabilito la frequentazione remota del sito, tanto da far ipotizzare che qui sorgesse Bovaia-
nom, capitale dei Sanniti Pentri70.
Come Isernia, anche Boiano rientra tra i centri che, nel 667, Romualdo, duca di Benevento,
offre ad Alczeco, capo dei Bulgari71. Tra l’861 e l’865 Gualdeperto bovianensis gastaldeus, stringe
alleanza con Maielpoto, gastaldo di Telese, con Gerardo, conte dei Marsi e con Lamberto, duca
di Spoleto per opporre resistenza alle orde saracene, che invadono l’Italia meridionale72. All’inizio
dell’XI secolo la contea di Boiano è nelle mani del conte Roffrid: nel 1003 Maria, figlia del conte
Roffrid, dona al monastero di San Vincenzo al Volturno la chiesa di Sant’Apollinare, le terre e il
casale a questa soggette in agro di Boiano nel castello di Macchiagodena73.
Il comitatus Bojonensis è menzionato in un documento del 1032 dell’arcivescovo di Capua,
Adenolfo, che ne rivendica la dipendenza al principato capuano74. Nel marzo del 1059 il pontefice
Nicola II conferma a favore del monastero di San Vincenzo al Volturno varie chiese e monasteri,
tra i quali la cella di Sant’Apollinare di Boiano75. Nell’aprile del 1091 Rodolfo de Molisio, conte di
Boiano, dona un mulino per mano di Uberto, vescovo di Boiano, alla chiesa di San Bartolomeo76.
Nel marzo del 1092 Rodolfo de Molisio, conte di Boiano, dona al monastero di Montecassino
la chiesa di Santa Croce presso Isernia77. Alla morte di Rodolfo, avvenuta tra il 1092 e il 1094,
il primogenito, Ugo I, eredita il titolo e la contea78.
Dai Regesti Gallucci sappiamo che nell’agosto del 1105 Ugo de Molisio, conte di Boiano, e
suo figlio Guglielmo concedono alla chiesa di San Bartolomeo Apostolo di detta città, decime,
vettovaglie e vino79.
Nel 1221 Tommaso, conte di Celano e Molise, si fortifica a Boiano in aperta avversione a
Federico II80. In quello stesso anno l’esercito imperiale entra nella contea di Molise occupan-
do la città di Boiano ai piedi della Civita; qui l’Imperatore raduna tutti i baroni a lui fedeli81;
Tommaso reagisce inaspettatamente: rientrato da Roccamandolfi, dove si era trincerato lasciando
a Boiano la contessa sua moglie, mette in fuga i baroni rivoltosi e, trasferendo viveri e munizioni
nella rocca, dà alle fiamme la città e ripara a Roccamandolfi con la contessa Giuditta82. Intanto
Tommaso di Aquino, conte di Acerra, giustiziere di Puglia e Terra di Lavoro, per ordine imperiale,
assedia Boiano, poi punta su Roccamandolfi per sferrare l’attacco finale ai conti di Molise83. Nel
1239 Boiano diviene un castellum exemptum, una fortezza demaniale alle dirette dipendenze
imperiali e come tale figura nello Statuto sulla riparazione dei castelli emanato da Federico II84.
70
MUCCILLI 2004, p. 357. 481 : ‘Rodulfus etiam de Molisio Bovianensis Comes cartam
71
Paul. Diac., Hist. Lang., M.G.H., S.r.l., V, 29, pp. 196- fecit huic loco de monasterio Sancte Crucis in Ysernia nec non
197: ‘Quos Romoaldus dux gratanter excipiens, eisdem spatiosa de castello, qui vocatur Balneus’.
ad habitandum loca, quae usque ad illud tempus deserta erant, 78
CSS, XVIIII, pp. 729-730: ‘…Nos Ugo domini gratia Bo-
contribuit, scilicet Sepinum, Bovianum et Iserniam et alias cum vianensis Comes, et Rogerius filius Domini Rodolphi Comitis…’.
suis territoriis civitates, ipsumque Alzeconem, mutato dignitatis 79
Reg. Gall., doc. 9, p. 26.
nomine, de duce gastaldium vocitare praecepit’. 80
Chron. Ryccardi S. Germ., p. 83.
72
CMC, pp. 94-95: ‘Quo tempore Maielpotus Telesinus et 81
Chron. Ryccardi S. Germ., p. 94: ‘Boianum imperatori
Wandelpertus Bovianensis gastaldei conducto Lamberto duce se reddidit, ubi dum barones comitatus Molisii qui imperatori
Spoletino et Gerardo Marsorum comite’. manum dederant contra comitem Thomasium convenissent’.
73
CV, II, doc. 183, pp. 358-361: ‘Ideoque ego mulier vidua, 82
Chron. Ryccardi S. Germ., p. 94: ‘…comes cum paucis
nomine Maria,… declaro me ex eo viri mei abere res infra finibus veniens roccam Magenulfi, Boianum, conburit et bonis pro-
Boiani, in castello qui vocatur Macla Godani’. priis spoliavit : muniens inde roccam Boiani et uxorem suam
74
UGHELLI 1720, VI, col. 394: ‘In nomine Domini nostri comitissam trahens de rocca ipsa, secum duxit in roccam
Jesu Christi. Trigesimo Secundo anno Principatus Domini Pan- Magenulfi’.
dulfi… nos Adenolfus… consecravimus Praesulem Gerardum... 83
Chron. Ryccardi S. Germ., p. 94: ‘Tunc iussu imperatoris
in Ecclesia Sancti Petri Apostoli… cum omnibus suis Ecclesiis, dictus Acerrarum comes, congregato exercitu, roccam Boiani
sive Monasteriis infra eodem Comitatu Iserniensis, atque Co- obsidet, quam facta compositione cum illis qui erant intus qui
mitatu Venafrano, atque infra Comitatu Bojonensis…’. dum potuerunt satis egregie defenderunt, illam recepit ad opus
75
CV, III, doc. 204, pp. 91-98: ‘cellam Sancti Apollinaris, imperatoris, deinde rocce Magenulfi sic obsidionem parat’.
positam in Boiano’. 84
STHAMER 1995, p. 98: ‘Item castrum Boyani reparari
76
Reg. Gall., doc. 5, p. 25. debet per homines ipsius terre…’. Si tratta del documento del
77
Reg. Petri Diaconi, c. CCXXVI-CCXXVII, n. 535: ‘Of- 1239 col quale Riccardo di Montenegro, giustiziere di Terra di
fertio Raonis de Molisio qui et Rodulfus dictus est de monasterio Lavoro e Comitatus Molisii riceve l’incarico della riparazione
Sancte Crucis Inserne et omnibus pertinentiis eius’; CMC, p. del castrum Boyani.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 309

Fig. 23 – Boiano: planimetria del borgo (in alto) e Fig. 24 – Boiano: planimetria del castrum della
della Civita (in basso) con il castrum a ovest, 1 (da Civita; a) il palatium, b) la corte alta, c) il ricetto
DE BENEDITTIS 1980). (rielaborazione da MUCCILLI 2004).

Fig. 25 – La Civita di Boiano alle pendici del Matese; in basso il tratturo.


310 GABRIELLA DI ROCCO

Fig. 26 – Il palatium del castrum della Civita di Boiano (lato occidentale).

Al 20 agosto del 1241 risale l’instrumento, voluto da Federico II e rogato dal notaio Guglielmo
di Boiano, contenente l’inventario del tesoro e delle cose preziose delle chiese delle Diocesi di
Venafro, Isernia, Boiano, Guardialfiera e Trivento, fatto da Giovanni Capuano di Napoli85. Nel
1254 Corrado IV sollecita un ulteriore intervento di riparazione del castello di Boiano agli abitanti
di Castropignano86. Nel 1270 il castello di Boiano è concesso prima a Oberto di Ripacuria87, poi
a Petrocto di Rivo88. Nel 1271 Boiano passa a Rozzolino di Mandastre89. Nel 1272 Roberto de
Maroberolo è castellano di Boiano90. Nel 1275 il castello passa a Giovanni della Torre91. Nel 1283
il castello passa prima a Buccardo de Mamorancy92, poi a Theobaldus de Bellovidere93.
Alla metà del XV secolo, dopo il disastroso terremoto del 1456, in cui a Boiano periscono 1300
persone, il feudo passa alla famiglia Pandone94. Nel 1531 Boiano è feudo di Alfonso Sanchez95 e
nel 1533 Carlo V dà Boiano ad Isabella di Mombel, principessa di Sulmona, vedova della nobile
famiglia fiamminga de Lannoy96.
La Civita Superiore di Boiano comprende il castello, che si stende in senso nord-ovest/sud-est
al vertice del colle, e il borgo murato alle pendici sud-orientali del castello stesso.
Il primo consta di tre parti ben distinte (Figg. 24-26): un ampio spazio a pianta rettangolare,
il ricetto, circondato da mura, dove, in parte, è ancora visibile il cammino di ronda e l’innesto
delle merlature, destinato a rifugio occasionale per la popolazione in caso di assedio97; la resi-
denza del conte, il palatium, in posizione mediana; infine una corte alta. Un fossato trasversale
scavato nella roccia, sfruttava la conformazione naturale del sito e divideva il ricetto dalla zona
mediana; un ponte levatoio immetteva in un ambiente non coperto e scavato nella roccia, adia-
cente il palatium, dotato di massicce mura perimetrali e tre feritoie a forte strombatura interna,
due aperte sul fossato, una a nord in collegamento visivo con la torre quadrangolare costruita a
valle, a controllo della viabilità. Un passaggio voltato, ortogonale al palatium, permetteva l’in-
85
Reg. Gall., doc. 35, p. 35. cardo de Mamorancy…, cui concessimus castrum et terram
86
GENTILE 1991, p. 387: ‘…iniunxit universitati castri boiani…’.
Pineani, ut iret ad reparandum castrum Boiani sine quolibet 93
Reg. Ang. vol. XXVII, Registro CXX, p. 428: ‘Tibaldus
dilationis obstaculo…’. de Bellovidere castellanus Boiani’.
87
Reg. Ang., vol. V, Registro XV, p. 4. 94
GIUSTINIANI 1797-1805, II, p. 302.
88
Reg. Ang. vol. VI, Registro XXII, p. 130: ‘Mandatum de 95
Ibid.
exibendis gagiis Petrocto de Rivo, castellano castri Boiani’. 96
Ivi, p. 303.
89
LDCP, Reg. Ang. vol. II, Registro X, p. 254, n. 74: ‘Roc- 97
Gli scavi archeologici svolti nella zona del ricetto dalla
zolino de Mandroles… conceditur terra Boyani cum arce…’. Soprintendenza del Molise tra gli anni Settanta e Ottanta dello
90
Reg. Ang. vol. IX, Registro XLIV, p. 71: ‘…Roberto de scorso secolo, hanno permesso di individuare al suo interno
Maroberolo… castrum Boiani, tue commissum costodie…’. un complesso sistema di opere murarie, di cui restano le
91
Reg. Ang. vol. XIII, Registro LXIX, p. 28: ‘Iohanni de fondazioni a raso, che fanno presupporre un’organizzazione
Turri custodiam castri Boiani committit’. dell’area interna del ricetto con strutture chiuse e coperte. Cfr.
92
Reg. Ang. vol. XXVI, Registro CXII, p. 182: ‘…Buc- MUCCILLI 2004, p. 363.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 311

gresso alla corte alta: il passaggio, dell’altezza massima di m 2,60, è posto sul lato settentrionale
dell’edificio residenziale. Quest’ultimo era costituito da due livelli: una scala esterna, posta lungo
il lato occidentale dell’edificio, conduceva al piano superiore; del piano inferiore resta, in parte,
il grande ambiente voltato a botte, i cui muri conservano le buche per l’alloggiamento delle travi
del solaio e tre aperture (parzialmente ricostruite), due finestre laterali aperte sulla corte alta ed
una porta centrale, che nella parte bassa conserva gli stipiti in pietra. Addossato al palatium, sul
lato meridionale, si trova un ulteriore passaggio sotterraneo di collegamento tra l’ingresso e la
corte alta, di dimensioni più ridotte.
Nell’angolo occidentale della corte alta rimane parte della torre a pianta semicircolare del
circuito murario della Civita; non distanti dalla torre sono evidenti resti di una cisterna e altre
strutture murarie, quasi del tutto interrate a causa dei crolli e dell’abbandono, pertinenti alle
cellule abitative delle famiglie dei servientes addetti alla custodia del castello98.
Il circuito murario che, includendo il castello al vertice del colle, cingeva il borgo posto alle
pendici sud-orientali della Civita Superiore, si conserva intatto nel lato meridionale, parzial-
mente in quello orientale, mentre il lato settentrionale e quello occidentale sono quasi del tutto
scomparsi, pur se il loro percorso è chiaramente identificabile dalle strutture superstiti. Questo
circuito difensivo era rinforzato da torri di guardia a pianta semicircolare: tre poste lungo il lato
orientale, due agli estremi ed una al centro, una nell’angolo occidentale del circuito a difesa del
castello; una quinta si riconosce sul lato settentrionale; lungo tale cinta si aprono tre porte, una
su ciascun lato, escluso quello occidentale. Lungo il pendio a ridosso del castello della Civita,
nel corso di scavi effettuati negli anni Ottanta del secolo scorso, sono stati rinvenuti numerosi
frammenti di maiolica arcaica del XIII secolo, relativi, per la maggior parte, a ciotole e coppe
con piede ad anello99.
Sulle pendici settentrionali del colle che ospita la Civita Superiore, a circa 200 metri più a
valle, si trova il borgo medievale di Boiano. Della sua recinzione è individuabile il lato orientale
e, parzialmente, quello occidentale posto lungo via Fiumarello. Il circuito delle mura era dotato
di quattro porte: una occidentale nei pressi della chiesa di Sant’Erasmo, una presso San Biase,
una settentrionale detta della Torre ed una lungo la via Porta Visco.
I due complessi, la Civita Superiore e il borgo a valle, si presentano come due corpi distinti,
collegati tra loro da una rete di vie, oggi sentieri, posti lungo il declivio del colle. Il castello al centro
della fortificazione della Civita ha subito recenti restauri, ma le cortine perimetrali del ricetto e
della corte alta sopravvivono ancora, seppur allo stato di ruderi. In base ai rinvenimenti ceramici,
le strutture oggi visibili non sembrano essere assegnabili ad un periodo anteriore al XIII secolo100.
Tanto le strutture murarie del castello, quanto quelle della cinta del borgo che si sviluppa alle
pendici sud-orientali, risultano apparecchiate con blocchi lapidei di calcare locale, di dimensioni
medie e piccole, appena sbozzate, legati con malta e messi in opera in filari piuttosto irregolari.

9. San Polo Matese


San Polo si trova su un picco calcareo (m 751 s.l.m.) del versante settentrionale dei monti del
Matese, circa km 1,5 a sud-ovest del tratturo Pescasseroli-Candela (Fig. 27).
La prima menzione del sito, contenuta nei Regesti Gallucci, riferisce che nel febbraio del
1018 Giovanni, Pietro, Leone e Benedetto, figli di Saporito, abitanti di Campochiaro, donano
un pezzo di terra, che possiedono non lontano da Santo Paolo, a Giovanni e Adalberto preti101.
Nel 1080 Ugo, conte di Boiano, assegna San Polo alla cattedrale di Boiano. Secondo la Jamison,
come San Massimo, anche San Polo è uno dei 26 feudi tenuti in servitio dal conte di Molise nel
Principatus Capuae102.
Del castello, al vertice del borgo, resta una torre cilindrica intonacata, trasformata nel campanile
della chiesa di San Pietro in Vincoli (Figg. 28-29). Il piccolo centro abitato conserva i caratteri
di nucleo fortificato con le abitazioni arroccate attorno alla chiesa di San Pietro. Sul versante
occidentale della parte apicale del paese si conserva parzialmente una torre circolare del circuito
murario (Fig. 30).

98
GENITO 1985, pp. 137-149. 102
Le lacune del Catalogus Baronum relative ai feudi di
99
DE BENEDITTIS 1980, p. 197. Boiano, Isernia e Venafro non consentono di trovare nessun
100
Ivi, p. 196. dato diretto su San Polo. Tali lacune spiegano la mancata
101
Reg. Gall., doc. 3, p. 24. citazione del sito tra i feudi del conte di Molise.
Fig. 27 – San Polo Matese
negli atti demaniali del XIX
secolo (Archivio di Stato di
Campobasso).

Fig. 28 – San Polo Matese:


impianto urbano; 1) la
chiesa di San Pietro in Vin-
coli, 2) torre del primitivo
circuito murario (Archivio
di Stato di Campobasso,
fondo canapine).

Figg. 29-30 – San Polo Matese. 29. San Pietro in


Vincoli con la torre campanaria; 30. Torre della
cinta muraria.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 313

Fig. 31 – Campochiaro:
impianto urbano; 1) la
torre-mastio (Archivio
di Stato di Campobasso,
fondo canapine).

Fig. 32 – Campochiaro nel


Regio Tratturo Pescassero-
li-Candela di Magnacca-
Aratori del 1811 (Archivio
di Stato di Campobasso).

Fig. 33 – Campochiaro: la
torre-mastio da est.

10. Campochiaro
Anche Campochiaro (m 731 s.l.m.) sorge sul versante settentrionale della catena del Matese, a
metà strada tra Sepino e Boiano, in posizione di controllo sulla valle del Biferno lungo il tratturo
Pescasseroli-Candela, che corre km 2 a nord del borgo. In località Le Tre Torrette, a sud dell’abi-
tato e ad una quota compresa tra i m 1375 e i m 1290 s.l.m., a ridosso della Fonte Francone e
della Civitella, ove si trovano i resti del santuario di Ercole Quirino (IV secolo a.C.), rimangono
i ruderi di una fortificazione sannitica.
314 GABRIELLA DI ROCCO

In località Vicenne, è stata rinvenuta una necropoli longobarda, databile tra il VI ed il VII
secolo d.C.103.
Nel febbraio del 1018 Giovanni, Pietro, Leone e Benedetto, figli di un certo Saporito, abitanti
di Campochiaro, donano un pezzo di terra a Giovanni e Adalberto Preti104. Nella seconda metà
del XII secolo Campochiaro è feudo del conte Riccardo di Fondi105.
Della fortificazione medievale di Campochiaro resta la Rocca (Figg. 31-32), una torre cilindrica
a pianta circolare su base troncoconica a scarpa, posta nel punto più alto del centro abitato. La
struttura, il cui accesso si trova sul lato occidentale, era protetta da una cinta muraria, che seguiva
il pendio naturale del colle e che era rinforzata da nove torri. Le torri del circuito murario di
Campochiaro sono ben evidenti sul fronte meridionale e parzialmente sul fronte orientale, invaso
dalle fabbriche edilizie costruite successivamente; il lato settentrionale, invece, era privo di torri
in quanto protetto da una ripida scarpata. La Rocca (Fig. 33) risulta costruita con conci di pietra
calcarea locale di piccole dimensioni posti in opera in filari piuttosto regolari. Sulla superficie
esterna della torre sono presenti dei travicelli, che, probabilmente, dovevano sostenere delle travi
più grandi. Sul lato orientale si aprono due finestre disposte su due differenti livelli, di cui quella
superiore di forma circolare.
Il nucleo abitato sorto entro il perimetro murario è caratterizzato da abitazioni di modeste
dimensioni, ad uno o due livelli, realizzate con blocchi lapidei di pietra calcarea locale e laterizi
di dimensioni variabili, legati con malta; esse sono disposte lungo gli assi stradali radiali, che si
ricongiungono alla torre in cima all’abitato.

11. Guardiaregia
Anche Guardiaregia, posta ai piedi del monte Mutria a m 732 s.l.m., si trova in posizione di
controllo km 2 a sud del tratturo Pescasseroli-Candela. Tre chilometri a sud-est dell’abitato, sul
colle di Rocco (m 1072 s.l.m.), sono i resti di una fortificazione sannitica.
L’antico toponimo del borgo era Guardia di Campochiaro ad indicare la specifica funzione di
protezione del contiguo insediamento di Campochiaro.
Tuttavia, diversamente dai limitrofi siti di San Polo Matese e Campochiaro, non abbiamo
notizie dell’insediamento prima della seconda metà del XII secolo, quando Guglielmo di Sessa-
no è titolare di Guardiam106. Dalla metà del XV secolo è feudo dei Pandone e nel 1525 Enrico
Pandone, conte di Venafro, vende il feudo a Giambattista di Capua107.
Il castello, crollato durante il terremoto del 1805, sorgeva sulla cima della rupe, la parte più
alta del borgo (Fig. 34). Sui versanti settentrionale e orientale della rupe si conservano tracce
delle mura perimetrali del fortilizio (Fig. 35), dove, secondo alcuni studiosi, dovevano ergersi
tre torrioni angolari, il versante sud-occidentale era invece difeso naturalmente dal precipizio
sottostante108. Il borgo murato era dotato di due porte, la Portalaggiù, al bivio tra la via Cesta e
la via Codacchio, l’altra nei pressi del Capo da fuori, della quale non rimane traccia.

12. Castelvecchio
Castelvecchio si trova km 3 a nord-ovest di Sepino, in contrada Terravecchia, nei pressi delle
sorgenti del torrente Saraceno (m 953 s.l.m.) in posizione strategica sulla valle del fiume Tammaro,
a guardia del tratturo Pescasseroli-Candela, che corre km 2 più a sud e del valico di Vinchiaturo.
L’insediamento controllava il percorso che conduceva ai pascoli del Matese e che, salendo dalla
pianura sottostante, incrociava il tratturo. La fortificazione di Castelvecchio occupa il sito del-
l’antica Saipins, la roccaforte sannitica espugnata dai Romani nel 293 a.C.109.
Nel 1094 Ugo I, conte di Boiano, e suo fratello Ruggero confermano al monastero di Santa
Sofia di Benevento il castrum quod nominatur Betere110 e nel 1113 Simone, figlio di Ugo I, ricon-

103
Cfr.: La necropoli di Vicenne nella piana di Boiano. Guardiam…’.
Il Sannio tra tardo impero e alto medioevo, «Conoscenze», 107
CIARLANTI 1644, V, XXIV, p. 519.
Rivista annuale della Soprintendenza archeologica e per i 108
ALBANESE 1961, p. 7.
Beni ambientali, architettonici, artistici e storici del Molise, 109
Liv. X, 44-46.
4, Campobasso 1988. 110
CSS, XVIIII, pp. 729-730: ‘…Nos Ugo domini gratia Bo-
104
Reg. Gall., doc. 3, p. 24. vianensis Comes, et Rogerius filius Domini Rodolphi Comitis…
105
CB, 754, p. 136: ‘Comes Riccardus de Fundis tenet de concedimus atque firmamus per manum Domini Oberti Episcopi
Campo Claro…’. Bovianensis Domino Madelmo venerabili Abbati de Monasterio
106
CB, 776, p. 140: ‘Guillelmus de Sassana tenet… Sanctae Sophiae… scilicet castrum quod nominatur Betere…’.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 315

Fig. 34 – Guardiaregia: im-


pianto urbano; 1) la Rupe, 2)
la Porta Laggiù (Archivio di
Stato di Campobasso, fondo
canapine).

Fig. 35 – Guardiaregia: resti di


strutture murarie sulla Rupe.

ferma al monastero di Santa Sofia il possesso del castrum quod vocatur Vetus111. Nel 1149 Ugo
II, conte di Molise, conferma al monastero di Santa Sofia di Benevento la donazione fatta dagli
avi del castrum Vetus112. Nel 1153 egli stipula una concordia con Giovanni, abate del monastero
di Santa Sofia di Benevento, con cui conferma le concessioni degli avi fatte circa i diritti del mo-
nastero sul castellum vetus e altri castelli113.
111
CSS, XX, pp. 731-734: ‘…Ego Simon Dom… filius Occorre notare che in questo documento Ugo II si definisce
quodam Ugonis bonae piacque memoriae Comitis… quia per conte di Bojano, mentre avrebbe dovuto chiamarsi conte di
hoc scriptum concedo, atque confirmo in monasterio Sanctae Molise, dal momento che la contea di Bojano, dal 1142, era
Sophiae… scilicet castrum vocatur Vetus…’. divenuta contea di Molise. La Jamison suppone che il conte
112
JAMISON 1933, pp. 155-156, app. n. 2 : ‘Privilegii autem abbia sottoscritto il diploma con l’antico titolo usato dagli avi
continentia talis…Anno millesimo centesimo quadragesimo spinto da sentimenti di riconoscenza e riverenza nei confronti
nono ab ejus incarnatione Mense marcij indictione undecima. della sua famiglia.
Ego Ugo boianensis Comes filius quondam bone memorie 113
JAMISON 1933, pp. 157-158, app. n. 3: ‘[In nomine
S[imonis comitis] [notum] facio omnibus fidelibus presentibus sancte] trinitatis. Anno ad Incarnatione domini nostri ihesu
scilicet et futuris quia per hoc scriptum concedo atque confirmo christi Millesimo Centesimo [quinquagesimo] tercio. Mense
in monasterio Sancte Sophie…, scilicet castrum quod vocatur iulii, Indictione prima. Ego Hugo dei gratia de molisio Comes
vetus… Item concedo atque stabili iure confirmo… castrum filius quondam bone [memorie comitis Symonis coniunxi me
quod dicitur torum et c[astri Sancti Iohannis in gualdo]..’. in] convenientiam cum Iohanne Abbati Coenobii Sancte Sophie
316 GABRIELLA DI ROCCO

Il Castrum Vetus compare nelle pergamene di Santa Cristina di Sepino dal 1225 al 1411114 e
nei Regesti Angioini (1269-1283)115.
Il villaggio fortificato di Castelvecchio si estende sull’arx della Saipins sannitica e sul primo
terrapieno sottostante (Fig. 36). L’abitato consiste di due parti: la zona fortificata sull’arx per una
lunghezza di m 180 ed una larghezza di m 60/80 ed una parte esterna, dove restano tracce di tre
chiese, sempre protette dall’antico recinto sannitico116.
Alcuni saggi di scavo, condotti all’inizio degli anni Ottanta dello scorso secolo, hanno interessato
il lato meridionale dell’arx dove si apre una porta e uno spazio compreso tra questa porta e un
ingresso secondario, la cosiddetta postierla del Matese; un breve saggio ha riguardato anche una
grande struttura circolare posta nell’angolo settentrionale, individuata come il mastio di tutto il
villaggio fortificato117. I saggi condotti presso la porta sud identificarono due grandi ambienti (I
e II) a pianta rettangolare, aventi il muro divisorio in comune, ma non comunicanti tra loro; il
muro occidentale dell’ambiente I si appoggia alla cortina sannitica e conserva, sul lato meridio-
nale, una bassa banchina di blocchi di calcare legati con malta; resta parzialmente il pavimento
in grosse lastre di pietra; qui, sotto il riempimento costituito dai crolli delle strutture murarie
dell’ambiente, in uno strato di cenere e argilla, fu rinvenuto un gigliato d’argento di Roberto II
d’Angiò; anche nell’ambiente II, meglio conservato del I, emerse un cospicuo strato di cenere
mista ad argilla e una banchina, simile a quella dell’ambiente I, lungo il lato settentrionale, nonché
tracce di altre due banchine sul lato meridionale e su quello orientale; in questo ambiente è stato
recuperato un denaro di Carlo III di Durazzo. La posizione dei due ambienti in diretto rapporto
con la porta meridionale del castrum e cospicue tracce di altri vani adiacenti ad essi, ma non
scavati, hanno fatto avanzare l’ipotesi che doveva trattarsi di strutture connesse con il corpo di
guardia della fortificazione118.
I saggi svolti presso la postierla del Matese portarono ad evidenziare ambienti a pianta ret-
tangolare orientati in senso nord-sud. Il pavimento del vano oggetto di scavo ha mostrato una
buca nel settore meridionale, mentre nella parte settentrionale un rivestimento di mattoni al-
lettati obliquamente nell’argilla; qui sono stati rinvenuti molti residui organici, ma scarsissima
ceramica, fatta eccezione per qualche frammento di vernice nera, mentre nell’ambiente contiguo
a questo, oggetto di una ricognizione di superficie, sono emersi molti frammenti di maiolica.
Gli scavi interessarono anche l’area presso la struttura circolare nell’angolo settentrionale del
castrum, il mastio, nel punto più elevato dell’arx, sul limite del costone che sovrasta la valle del
fiume Tammaro; la struttura muraria ad angolo che si addossa al mastio è quanto resta della porta
occidentale del villaggio fortificato119.
Le strutture murarie della torre circolare nell’angolo settentrionale del castrum ed il muro ad
angolo della porta occidentale, dello spessore di circa m 1, sono apparecchiate con grossi blocchi
di calcare ben lavorati, di cui alcuni anche rifiniti a gradina, rinforzati da zeppe, mentre i muri
degli ambienti I e II scavati nel settore meridionale del villaggio sono in pietrame di calcare di
medie e piccole dimensioni e scaglie sottili legati con malte chiare e dure.
13. Sepino
Poco distante da Castelvecchio, nell’alta valle del Tammaro, è Sepino. L’abitato, al confine con
il territorio campano, si trova al vertice di un dosso collinare (m 703 s.l.m.), che sovrasta il sito
di Saepinum/Altilia, il fiorente municipio romano percorso dal grande tratturo.
La prima menzione del castello di Sepino risale al 1038, anno in cui l’imperatore Corrado II
conferma al monastero di Santa Sofia di Benevento metà del castello120. Nel corso del XIV secolo
Sepino passa a varie famiglie feudali: i di Capua, i Cantelmo, i Sanfromondo.
Della torre quadrangolare di Sepino realizzata in epoca normanna (Fig. 37) in posizione do-
minante all’interno del nucleo abitato non resta nulla poiché venne demolita nel corso del XIX
secolo; ne rimane traccia in una stampa dello stesso secolo.
que est sita in beneven[tana civitate, eo quod] balivi nostri ibant 116
Una indagine preliminare fu condotta nel 1961, cfr.:
ad placitandum in castello vetulo, et toro, et in castello Sancti G. COLONNA, Saepinum. Ricerche di Topografia Sannitica e
iohannis in galdo, et…infra nostrum Comitatem…’. Medioevale, «Archeologia Classica», XIV, 1962, pp. 80-107.
114
CUOZZO, MARTIN 1998, n. 26 (1225): via Castri Vetuli; 117
SCERRATO 1981, pp. 109-123.
n. 79 (1373), n. 87 (1397), n. 90 (1411): de Castro Vetulo/i. 118
ID. 1981, p. 114.
115
Reg. Ang., III, p. 80, n. 19; Reg. Ang., XV, p. 72, n. 40; 119
ID. 1981, p. 115.
Reg. Ang., XXII, pp. 111-112, n. 50; Reg. Ang., XXVI, p. 112, 120
CSS, V, pp. 606-609: ‘…et medietatem de istis castellis
n. 139; Reg. Ang., XXVI, p. 151, n. 304. scilicet Sipinum…’.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 317

Fig. 36 – Terravecchia di Sepino:


planimetria della fortificazione
sannitica sulla quale si impiantò
il castrum medievale di Castel-
vecchio (da COLONNA 1962).

Fig. 37 – Sepino in una stampa anonima della fine del XIX secolo con la torre normanna (da Poliorama
Pittoresco).
318 GABRIELLA DI ROCCO

CONCLUSIONI
Dai dati sopra esposti emergono diversi elementi fondamentali per la ricostruzione dell’assetto
insediativo di questa parte della regione nel corso dell’età medievale in rapporto alla viabilità.
Sul piano storico risulta evidente l’attestazione di tutti questi insediamenti fortificati in età pre-
normanna con l’unica esclusione di Pettoranello del Molise e Guardiaregia, le cui prime menzioni
sono contenute nel Catalogus Baronum della seconda metà del XII secolo.
Alla seconda metà del IX secolo risale la prima menzione di un rivum qui dicitur Foruli, che
risulta attestato come insediamento (in finibus Foruli) nella prima metà dell’XI secolo; alla seconda
metà del X secolo risale la menzione del Colle Petroso, che diviene castello Petroso al principio
del secolo seguente; Rionero Sannitico (Rigu Neru), Cantalupo del Sannio (castello Cantalupo),
San Polo Matese (Santo Paolo), Campochiaro (Campus Clarum), Sepino (castellum Sipinum)
sono attestati tutti nella prima metà dell’XI secolo; al principio del XII secolo è attestato San
Massimo, mentre appare emblematico il caso del castrum abbandonato di Castelvecchio, il quale
già nel 1094, anno cui si riferisce la prima menzione, è detto castrum quod nominatur Betere,
dimostrando le sue origini remote.
Per alcuni di essi, quali Rionero Sannitico e Forlì del Sannio, la sfera di appartenenza è quella
del monastero volturnense di San Vincenzo nell’ambito del grandioso sistema di ristrutturazione
agricola e insediativa avviato dai monaci già prima delle devastazioni saracene della seconda metà
del IX secolo ed esteso in seguito alla ricostruzione del monastero stesso nel X secolo; per altri
insediamenti, al contrario, la matrice laica appare decisamente preponderante, essendo essi parte
di precisi ambiti territoriali comitali, come la contea di Isernia, nella quale rientra Castelpetroso
e la contea di Boiano, nei cui confini sono inclusi Cantalupo del Sannio, San Massimo, San Polo
Matese, Campochiaro, Guardiaregia. Quanto ai castelli di Sepino e Castelvecchio, essi dovet-
tero essere fondazioni laiche cedute al monastero di Santa Sofia di Benevento nel corso dell’XI
secolo. Discorso a parte meritano, invece, le due città di Isernia e Boiano: si tratta, come è noto,
di due insediamenti di origine sannitica entrati nell’orbita di Roma all’indomani dell’annessione
del Sannio nel III secolo a.C., dopo le travagliate vicende seguite al crollo dell’Impero Romano e
alle invasioni barbariche, sul finire del VII secolo, rientrarono nella sfera d’influenza del grande
ducato beneventano, divenendo sede di gastaldati prima, di contee poi, per ricadere nell’ambito
del ben più vasto regno normanno di Ruggero II intorno alla metà del XII secolo.
A causa delle molteplici trasformazioni patite dalle strutture edilizie a partire dall’età rinasci-
mentale e dei cospicui danni causati dagli innumerevoli eventi sismici che si sono ripetutamente
abbattuti sulla regione, non ultimo il terremoto del 1805, che distrusse gran parte dei centri del
Molise interno, è difficile rintracciare oggi gli originari impianti medievali nella maggior parte
dei centri qui studiati. Certamente, tra tutti, il sito meglio conservato, del quale si dispone dei
dati di scavo archeologico, è quello di Civita di Boiano, con il castello, il ricetto e il borgo for-
tificato; quanto al castrum di Isernia sembra plausibile l’ipotesi di una sua ubicazione nella zona
centrale della città vecchia con i due poli di Santa Maria delle Monache a sud-est e della Porta
Castello a nord-ovest; di alcuni castelli non resta che qualche sporadico lacerto murario, come
nei casi di Cantalupo del Sannio e di San Massimo, mentre di altri rimane la torre-mastio, come
a Campochiaro e San Polo Matese, quest’ultima trasformata in torre campanaria; del poderoso
donjon di Sepino resta il ricordo in una stampa della fine del XIX secolo; i resti del castello di
Rionero Sannitico si riferiscono a ricostruzioni moderne; a Pettoranello del Molise si riconosce
l’impianto del complesso fortificato e di un’annessa torre a pianta circolare, mentre il castello di
Castelpetroso appare oggi come residenza baronale posta in posizione apicale nel centro storico
del borgo. Solo il sito abbandonato di Castelvecchio conserva cospicui avanzi del castrum dell’XI
secolo.
Abbiamo precedentemente sottolineato come risulti difficile ricostruire con esattezza il qua-
dro della rete di tratturi di origine protostorica che solcavano il Molise nel Medioevo; il dato
topografico e l’indagine archeologica, tuttavia, evidenziando come tutti i siti esaminati in questa
sede risultino ubicati a ridosso o nelle immediate vicinanze del tratturo Pescasseroli-Candela,
smentiscono l’ipotesi secondo la quale le piste erbose nell’altomedioevo cadessero in disuso e
finissero con l’inselvatichirsi rafforzando, al contrario, la tesi per cui questo asse viario fosse
pienamente in uso nel corso del Medioevo.
INSEDIAMENTI FORTIFICATI E VIABILITÀ NEL MOLISE IN ETÀ MEDIEVALE 319

Partendo da nord e procedendo verso sud, Rionero Sannitico risulta impostato direttamente sul
percorso del tratturo, Forlì del Sannio si trova solo poche centinaia di metri più a nord, Isernia è
attraversata dal tratturo stesso, Pettoranello del Molise sorge un chilometro a sud, Castelpetroso
un chilometro a nord, Cantalupo del Sannio proprio a ridosso; gli altri insediamenti sono ubicati
tutti a sud del tratturo: San Massimo a due chilometri, il castrum di Boiano sovrasta l’attuale città
percorsa dal tratturo, San Polo Matese ad un chilometro e mezzo, Campochiaro, Guardiaregia e
Castelvecchio a due chilometri e, infine, Sepino ad un chilometro e mezzo.
L’importanza di questa arteria di origine protostorica è confermata, inoltre, dal fatto che il suo
tracciato venne sfruttato e regolarizzato in epoca romana con la via Minucia, che da Sulmona
permetteva di raggiungere Benevento e l’Irpinia, quindi la costa tirrenica e dal fatto che, come
ampiamente attestato dalle fonti di età classica, lungo il suo percorso erano dislocate numerose
stazioni di posta nei pressi delle quali, in posizione arretrata ed arroccata, sorsero durante l’alto-
medioevo gli insediamenti fortificati di Castelpetroso e Cantalupo del Sannio.
L’analisi della disposizione dei castelli lungo il tracciato del tratturo conferma l’importanza di
questo asse viario nel Molise che, anche durante l’età medievale, dovette rappresentare uno dei
principali percorsi di attraversamento della regione, soprattutto in virtù della particolare situa-
zione orografica di questo territorio prevalentemente montuoso, dove i percorsi di fondovalle e
gli stretti valichi rappresentano, oggi come allora, passaggi obbligati.
Un’ultima osservazione emerge dal confronto tra i castelli medievali e le fortificazioni sannitiche,
confronto non inusuale nel nostro territorio data la massiccia presenza nel Molise di roccaforti e
insediamenti di età preromana. Escludendo le due città di Isernia e Boiano, di origine preromana,
tre siti si attestano in vicinanza di precedenti fortificazioni sannitiche: tre chilometri a nord-est di
Forlì del Sannio, nei pressi del bosco Falascoso (m 1129 s.l.m.) sono i resti di una poderosa cinta
in opera poligonale; due chilometri a sud di Campochiaro, in località le Tre Torrette (m 1375- m
1290 s.l.m.), si conservano cospicui avanzi di una fortificazione preromana; tre chilometri ad est
di Guardiaregia, sul colle di Rocco (m 1072 s.l.m.), rimane un insediamento fortificato sannitico;
il sito abbandonato di Castelvecchio, infine, si imposta direttamente sui resti della grande rocca-
forte di Saipins in località Terravecchia (m 953 s.l.m.) nei pressi di Sepino.

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Una città portuale abbandonata:
Siponto, indagini archeologiche 2000-2005

CATERINA LAGANARA FABIANO – AUSTACIO BUSTO – GIULIA FINZI


RAFFAELLA PALOMBELLA – DANIELA ROSSITTI*

Restituire l’immagine della diruta…civitas sipontina, come descritta già in un atto del 11551
e quale inesorabilmente diviene a partire dalla seconda metà del XIII secolo2, e garantire la
valorizzazione del Parco Archeologico in cui il sito ricade, ubicato a Sud dell’odierna Manfredonia
(FG) nei pressi della chiesa romanica di Santa Maria (Fig. 1), sono le motivazioni alla base dell’in-
tervento archeologico, intrapreso a partire dal 2000, che si colloca nell’ambito di un programma
integrato tra la Soprintendenza Archeologica per la Puglia e l’Università degli Studi di Bari, con
il patrocinio nelle prime quattro campagne della Provincia di Foggia3.
Dalle occasionali esperienze archeologiche della seconda metà dell’Ottocento fino alle più re-
centi indagini degli anni Novanta l’interesse per il sito è stato rivolto soprattutto alla conoscenza
della colonia romana dedotta nel II secolo a.C.
La facies postclassica è documentata solo da episodici e poco leggibili resti materiali: da quelli
più monumentali e meglio noti della basilica paleocristiana con relativo sepolcreto, alle strutture
messe in luce, ma attualmente ricoperte, nella trincea di scavo praticata durante gli anni Sessan-
ta, ai grandi ambienti addossati alle mura ed anche esterni ad esse, interpretati come depositi o
magazzini, messi in luce negli anni Novanta, ma oggi anch’essi ricoperti4.
Anche le fonti scritte seppure numerose5, ma rivolte essenzialmente alla storia dell’episcopato
intrecciata con le vicende architettoniche della chiesa-cattedrale di Santa Maria o con l’edificazione
di altri edifici religiosi, restituiscono a tratti e in maniera alquanto ambigua6 l’immagine della città,
che Gregorio Magno ricorda insieme a Canosa come i due unici centri rimasti sotto il dominio
imperiale, sicuro rifugio per il clero e i vescovi delle diocesi limitrofe; luogo di raccolta delle
suppellettili recuperate dalle chiese distrutte dai Longobardi; sede di importanti funzionari 7.
Inalterata permane nel periodo tardoantico e medievale la sua importante funzione portuale:
base operativa per il commercio del grano, praticato ancora nel VI secolo d.C. da quei mercatores
e negotiatores frumentarii che Cassiodoro ricorda8, centro di esportazione anche di prodotti non
locali (acciaio, travi, tessuti di lino e seta, di formaggio, castagne, noci, nocciole e mandorle)
e di importazione di pepe, incenso, mastice, zenzero, indigo e anche lino e lana9. Rappresenta

* Premesso che il presente contributo è frutto del lavoro di di Scienze Storiche e Sociali, Università di Bari; per la parte
tutta l’équipe coordinato da chi scrive, si precisa che le parti numismatica Giuseppe Sarcinelli (Univ. di Lecce); per le inda-
relative alla stratigrafia sono state elaborate da Austacio Busto gini archeometriche Angela Traini, Annarosa Mangone, Luigia
e Raffella Palombella per gli ambienti II-IV e IX, da Giulia Finzi Sabatini e Inez van der Werf (Dipartimento di Chimica, Uni-
per l’ambiente V; quelle sui materiali dalla sottoscritta e Daniela versità di Bari), Rocco Laviano e Filippo Vurro (Dipartimento
Rossitti per la ceramica, da Daniela Rossitti per il vetro e da Geomineralogico, Università di Bari), Ida Catalano, Danilo
Austacio Busto per i metalli. Esse tengono conto dei lavori di Marano, Giuseppe Schiavulli (Dipartimento di Fisica, Universi-
tesi di laurea assegnate nel corso degli anni accademici a partire tà di Bari), Alessandra Genga e Daniela Manno (Dipartimento
dal 2000-2001 (C.L.F.). di Scienze dei Materiali, Università di Lecce).
1
CAMOBRECO 1913, n. 39. 4
MAZZEI 1999.
2
Per le fonti relative cfr, MARTIN 2006, p. 31. 5
In questo contributo non si ha la pretesa di ripercorrere
3
Le campagne di scavo, organizzate sotto forma di campo- puntualmente tutta la documentazione scritta relativa al centro
scuola, sono state dirette da chi scrive con la collaborazione di che in altra sede sarà curata da Pasquale Corsi. Queste note
Austacio Busto, quale responsabile del cantiere, Giulia Finzi, introduttive si propongono solo una messa a fuoco di alcuni
Raffaella Palombella e Daniela Rossitti, come responsabili di temi connessi alla vita della città negli ultimi secoli del Me-
settore. L’impresa esecutrice è stata la Cooperativa CAST. dioevo, per la quale le nuove indagini intraprese cominciano
Le attività di laboratorio sono coordinate da Daniela a fornire qualche utile elemento ricostruttivo.
Rossitti. La restituzione grafica spetta a Gabriele De Caro 6
Il giudizio è ricorrente negli studi di carattere storico
e Raffaella Palombella. Il restauro di alcuni reperti ceramici sul centro sia in età tardoantica e altomedievale, sia nel pieno
è stato affidato a Giuseppe Zaccaro (Dipartimento di Beni Medioevo, come in: LAVERMICOCCA, 1999, p. 174.
Culturali e Scienze del Linguaggio). 7
CORSI 1998, p. 86; MARTIN 1998, p. 77; LAVERMICOC-
Lo studio, tuttora in corso, di cui si presentano in questa CA,1999, p. 166.
sede alcuni risultati preliminari, coordinato da chi scrive, vede 8
CASSIODORO, Variae, MGH, AA XII, II, 38.
coinvolti per l’indagine storica Pasquale Corsi (Dipartimento 9
LAVERMICOCCA 1999, p. 174; MARTIN 2006, p. 29.
322 C. LAGANARA FABIANO – A. BUSTO – G. FINZI – R. PALOMBELLA – D. ROSSITTI

una tappa obbligata della via francigena, la strata Peregrinorum inter Sipontum et Candelarium
nella menzione di un documento del 113210 e quindi luogo di imbarco verso l’opposta sponda
adriatica ed il vicino Oriente11.
Momenti di floridezza si alternano a periodi di difficoltà e crisi.
Città satis opulenta12, sede di gastaldato con il suo palazzo, dimora del duca beneventano,
viene descritta sotto il diretto dominio longobardo13.
Sede di una vitale comunità ebraica che annoverava poeti e commentatori, nonché insigni
giuristi14.
Agli inizi dell’XI secolo, nel quadro delle azioni promosse dai Bizantini per riaffermare l’au-
torità nella zona delle colline subappenniniche e nel Gargano appare con Troia e Lucera la sola
città degna di questo nome, cinta da mura, con i confini segnati da termini in pietra e confer-
mati dall’autorità imperiale, come più tardi nel 1105 riferirà un diploma del duca Ruggero15. È
interessata in questo periodo da una fervida attività edilizia, che promuove la costruzione della
nuova chiesa di Santa Maria sotto l’arcivescovato di Leone. Il suo porto, elencato dal religioso
Saewfulf nel 1102 tra i porti pugliesi utilizzati dai palmieri16, è teatro dei coevi eventi politici in
favore o contro la dinastia normanna.
Alacre e vivace centro si mostra per tutta l’età sveva. Il Quaternus de excadenciis17 ne menzio-
na la torre al di sopra della Porta Maius, le sue numerose domus, un forno, fondaci (magazzini
pubblici) e le relative pertinenze suburbane. Protagonista è sempre il suo scalo, dove sbarcano
personaggi illustri, transitano i Veneziani e che diventa nel periodo svevo porto militare18.
L’identità del suo territorio che ospita l’importante abbazia teutonica di San Leonardo19 è rav-
visabile dai numerosi toponimi in possesso dell’Episcopio citati nella documentazione scritta20.
Una felice realtà cui si avvicendano periodi di crisi, ripercorribili attraverso il vescovato che
vive tra fasi di autonomia e di annessione alla sede beneventana.
La stessa posizione topografica indubbiamente alla base del suo successo nel primo ventennio
del XII secolo è ritenuta causa di certa decadenza, condizione che interessa anche il centro di
Lucera per l’emergente sviluppo della città di Troia, anello di congiunzione fra il Beneventano,
il Principato a Nord-Est e la Puglia a Sud-Est21.
Molteplici e di varia natura, ambientali e antropici, i motivi della sopraggiunta crisi: i terre-
moti che hanno periodicamente investito la zona22, il progressivo impaludamento connesso con
le variazioni della linea di costa23, gli episodi bellici dalla invasione slava guidata da Michele
Vusevic’ che occupò Siponto nel 92624 a quelli riferibili alla guerra tra il re Guglielmo I e l’im-
peratore bizantino nel tentativo da parte di quest’ultimo di riconquistare la Puglia appoggiando
la ribellione dei baroni 25.
Una distruzione sicuramente interessò la città nella seconda metà del XII secolo come indi-
cano, oltre alla menzione del 1155, la citazione quale casale del 118026. Anche altri riferimenti
documentari alla fine del secolo descrivono spazi vuoti e case abbandonate, come pure una chiesa
di S. Andrea nella civitas vetus Siponti27.
L’organismo urbano permane però per tutta la seconda metà del XII secolo sostanzialmente
ancora efficiente, se per lungo tempo vi soggiorna papa Alessandro III e se nel dodarium promulgato

10
CAMOBRECO 1913, n. 6. 21
CARABELLESE 1905, p. 351.
11
Su Siponto ed il pellegrinaggio LAVERMICOCCA 1999, p. 22
Recenti studi geomorfologici e geologici (ANZIDEI, ESPOSI-
168; MARTIN 2006, p. 30. TO, MORINI 1999, in particolare pp. 20-21) hanno illustrato la
12
PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, p. 85. sismicità storica e recente, segnalando che gli eventi più forti
13
Per il riferimento al Chronicon Sanctae Sophiae I, 5 e I, hanno colpito la zona presso Manfredonia nel 991 (VII grado
15; III, 9 si rinvia a MARTIN 2006, pp. 15-32. È stata ipotizzata Mercalli), nel 1223 (IX grado Mercalli) presso Siponto.
l’esistenza di una laubia, paragonata al loggiato antistante la 23
Ibid. anche per i riferimenti bibliografici agli studi
basilica di San Nicola a Bari LAVERMICOCCA 1999, p. 167. fondamentali di Catherine Delano Smith. Prova indiretta del
14
COLAFEMMINA 1975, p. 83; ID. 1989 ripreso da IORIO fenomeno è stata individuata nella mancata menzione alla città
1993, p. 397 e LAVERMICOCCA 1999, p. 169. sia nel resoconto del viaggio di ritorno del re di Francia Filippo
15
CARABELLESE 1905, p. 347 e doc. Appendice XXI, p. 523, II Augusto dalla III crociata nel 1191 o più tardi nel 1253 nel-
in particolare p. 524. l’itinerario di Matteo Paris (LAVERMICOCCA 1999, p. 169).
16
CORSI 2002, p. 54. 24
CORSI 1994, p. 19, ripreso da LAVERMICOCCA 1999, p. 171.
17
Quaternus 1903, pp. 48-50. 25
IORIO 1993, p. 393; poi MARTIN 2006, p. 31.
18
IORIO, 1993, pp. 394-395; LAVERMICOCCA 1999, p. 174; 26
CAMOBRECO 1913, n. 41 e 89. Autorevolmente respinta
MARTIN 2006, p. 29. (CORSI 1983, pp. 126-127) la tradizionale congettura della
19
CALÒ MARIANI 1991, pp. 56-72. distruzione di Siponto da parte di Costante II; cfr anche LA-
20
Una preliminare ricognizione è data in: LAVERMICOCCA VERMICOCCA 1999, p. 167.
1999, p. 171. 27
MARTIN 2006, p. 31.
UNA CITTÀ PORTUALE ABBANDONATA: SIPONTO, INDAGINI ARCHEOLOGICHE 2000-2005 323

per le nozze tra Guglielmo II e Giovanna di Inghilterra nel 1177, successivamente confermato
da Innocenzo III nel 1211, Siponto è annoverata tra i centri più importanti del demanium28. Il
porto continua a svolgere il suo ruolo preminente, citato nel percorso di chi, come l’irlandese
Nikulas, da Benevento, sostando al santuario dell’arcangelo Michele, si dirige a Brindisi, passando
per Monopoli29.
Il declino senza ritorno inizia a partire dalla seconda metà del XIII secolo. Più fonti lo attestano.
Una città semideserta e abbandonata, senza porto per l’impaludamento delle acque appare allo
svevo Manfredi, il quale decide di levare la terra da chillo mal’aere, et di ponerla, dove sta mo,
provvedendo successivamente a scasare Siponto et Civitate e ordinando agli abitanti di andare
ad habitare Manfredonia30.
La Siponto vetus da questo momento diventa una cava a cielo aperto, di cui permarranno
ad emblematica memoria solo le emergenze di Santa Maria e più discoste quelle della abbazia
teutonica.

1. L’AREA DI INTERVENTO, LE EVIDENZE STRUTTURALI, L’ABBANDONO


Lo scavo ha interessato la zona ad Ovest della ferrovia Foggia-Manfredonia, in prossimità del
tratto delle antiche mura urbiche, messe in luce negli anni Sessanta a Nord-Est della città. All’in-
terno della quadrettatura di 10 m di lato, orientata secondo l’asse Nord-Sud, si è intervenuti in
undici quadrati per una superficie complessiva di 1.100 m2 (Fig. 2).
Subito al di sotto dello strato di humus, a circa 0,30 m di profondità dal piano attuale di
calpestio, alla quota media di 7,40 m, sono state intercettate una serie di strutture murarie a
delimitare alcuni spazi chiusi di diverso orientamento ed è stata messa in luce un’ampia area di
circolazione esterna (US 12 e 13), costituita da un conglomerato artificiale, con una superficie
abbastanza regolare, interessata da stretti tagli che corrono parallelamente ad alcune strutture
(US 22, US 24) e da altri di forma pseudocircolare, di cui quello meglio conservato occupa la
parte centrale della zona (US 213).
Vari indizi nella fase più recente della stratificazione consentono di cogliere alcuni aspetti del-
l’abbandono della città che alla metà del Cinquecento era descritta come rouinata, ma con tali
vestigi di edifici, che facilmente ci si può dare sententia, che fosse nobile, e magnifica31. Lo scarso
volume dello strato umifero, il livellamento degli strati di crollo, determinato dal recupero del
materiale edilizio, comprese le tegole con cui dovevano essere realizzate le coperture ritrovate
solo in stato frammentario; la spoliazione dei blocchi di tufo impiegati nei cantonali; la presenza,
anche se in scarsa quantità, di frammenti di ceramica postmedievale; l’assenza di diffuse tracce
di incendio confermano il precetto manfrediano, documentando non un abbandono traumatico,
ma programmato, lento e graduale.
Gli evidenti segni lasciati dall’aratro su alcuni conci indicano inoltre l’utilizzo per lungo tempo
dell’area per scopi agricoli.

La stratigrafia
Negli ambienti indagati più in profondità (II e IV, V e IX) la sequenza stratigrafica, che com-
prende diverse fasi, appare molto articolata per il susseguirsi dalla fine dell’Alto Medioevo, il
periodo più antico finora documentato, all’abbandono definitivo di una serie di attività che ne
hanno modificato in questo lasso temporale l’assetto e la funzione.
È il caso degli ambienti II e IV, che appaiono distinti nella pianta di fine scavo, ma che in origine
dovevano far parte di un unico edificio.
GLI AMBIENTI II E IV
Le preesistenze (Fase I e II)
Sulla distruzione di strutture più antiche (Fig. 3) intercettate allo stadio attuale della ricerca
solo in cresta (fase I), che constano di una porzione di muratura (USM 177) costituita da blocchi
28
IORIO 1993, pp. 395-396. all’opera demolitoria del patrimonio culturale e dinastico
29
CORSI 2002, p. 54. svevo intrapresa in Puglia da Carlo I d’Angiò (LAVERMICOCCA,
30
Cfr nota 2 e IORIO 1993, pp. 399-402. Da registrare 1999, p. 176).
anche l’ipotesi di ascrivere l’annientamento di Siponto 31
MAZZEI 1999, p. 339 e passim.
324 C. LAGANARA FABIANO – A. BUSTO – G. FINZI – R. PALOMBELLA – D. ROSSITTI

Fig. 1 – Chiesa di Santa Maria di Siponto.

Fig. 2 – Localizzazione dell’area di scavo e planimetria generale delle strutture emerse.


UNA CITTÀ PORTUALE ABBANDONATA: SIPONTO, INDAGINI ARCHEOLOGICHE 2000-2005 325

di pietra calcarea, di medie dimensioni, rozzamente sbozzati e legati da terra marrone chiaro
molto compatta, perpendicolare ad altri tre blocchi (USM 179), la realizzazione di un focolare
(US 180), in connessione con il muro disposto in direzione Nord-Sud al limite meridionale
dell’ambiente II (USM 171), documenta la prima frequentazione la cui natura non può essere
altrimenti definita (fase II).
Un probabile centro produttivo (Fase III)
Su di essa si impianta un unico edificio rettangolare (ambienti II e IV) che occupa una superficie
di circa 45 m2 (Fig. 3).
Lo delimita a NE l’USM 25, lunga 11 m ca e larga tra 0,50 e 0,60 m, conservata per un’altezza
di circa 2 m comprensiva anche della parte fondale. È costituita da due paramenti di cui quello
interno caratterizzato soprattutto nella metà rivolta a Nord da blocchi tufacei, squadrati, di di-
mensioni comprese tra 0,35 e 0,40 m, sicuramente elementi di reimpiego. Ad essi si alternano
blocchi calcarei, meno lavorati, concentrati soprattutto nella parte rivolta ad Est, di dimensioni
comprese tra 0,30 e 0,40 m nelle assise inferiori e di dimensioni minori comprese tra 0,10 e
0,15 m nelle assise superiori. Un filare di lastrine in pietra calcarea poste di piatto segna la cesura
tra l’elevato e quella che sembrerebbe la parte fondale della struttura muraria, come suggerisce
l’assenza di allineamento dei blocchi. Ad Est si conservano nei filari superiori tracce di malta. Il
nucleo, invece, è costituito da terra, malta e pietre di piccole e medie dimensioni.
Con la stessa tecnica è costruito il muro perimetrale di Nord-Ovest, l’USM 2, lungo 4,43 m
e largo 0,60 m, conservato per un’altezza di 1 m. Nel paramento interno prevalgono i blocchi
calcarei, di dimensioni inferiori rispetto all’altra struttura, variabili da 0,20 a 0,40 m, rispetto a
quelli tufacei, ridotti solo a due esemplari anch’essi di reimpiego. Pietre di piccole dimensioni
sono utilizzate come zeppe per regolarizzare i filari.
Il limite dell’edificio a Sud-Ovest segnato dall’USM 101, conservata per un’altezza di 1,05 m e
installata nella parte ad Ovest sulla precedente struttura USM 171 e nella parte ad Est sull’USM
174, per ora interpretata come fondazione del muro. Il suo paramento interno mostra una mag-
giore quantità di blocchi tufacei, collocati nei punti più sollecitati della struttura (i cantonali, le
aperture, l’innesto con gli altri muri). Pertanto l’orizzontalità è ottenuta con la sistemazione di
due filari di pietre di dimensioni minori per garantire.
Una posa in opera meno curata rispetto agli altri muri dell’edificio appare quella dell’USM 115,
disposta a Sud-Est, lunga 4,20 m circa e larga da 0,20 a 0,60 m, conservata per un’altezza di circa
1,20 m. Il materiale è costituito solo da blocchi calcarei di medie e piccole dimensioni, fatta ecce-
zione del cantonale Sud, in cui è utilizzato un grande blocco lungo 0,64 m. Nel cantonale a Nord
la struttura non è conservata molto probabilmente per le manomissioni dovute alla realizzazione
della linea ferroviaria. Essa si lega alla fondazione (USM 174) del muro perimetrale Sud.
L’edificio doveva essere intonacato: lo attestano le tracce rilevate sui filari superiori delle USM
25, 2 e 101.
In questa fase era dotato di due aperture rispettivamente a Sud-Est, l’US 106, e a Nord-Est,
l’US 119. Non è chiaro se esse garantissero la comunicazione con spazi chiusi, quali gli ambienti
I e V, o con preesistenti spazi esterni.
Dell’originario piano di calpestio, costituito da terra molto dura e compatta, di colore marrone-
grigiastro, mista a calcarenite, con ciottoli, grumi di calcina e resti carboniosi, si conservano tracce
(US 143 e 153) ad una quota compresa tra 5,89 e 6,25 m su quasi tutta la superficie dell’ambiente
II, che si presenta piuttosto irregolare, con avvallamenti e lesioni soprattutto in corrispondenza
dell’ampio taglio subcircolare (US 156), forse l’alloggiamento di una struttura dotata di perno
di rotazione, ad esempio una macina. Parte dello stesso battuto (US 138) è conservata alla stessa
quota nell’ambiente IV, dove è ubicata una fossa pseudocircolare (US140), profonda 1,50 m, con
fondo abbastanza orizzontale, destinata probabilmente alla conservazione di derrate.
Indicatori cronologici sono la scarsa presenza di ceramica con rivestimento vetroso recuperata
in stato molto frammentario e la maggiore quantità di ceramica dipinta in rosso nell’ordine; il
rinvenimento in uno degli strati di accumulo al di sotto del battuto (US 160) di un follis di Teofilo,
monetazione che circola a lungo nell’Italia meridionale.
Gli elementi morfologici evidenziati lasciano supporre tra XI secolo e XII secolo una destinazio-
ne funzionale di tipo produttivo (Fig. 4), che potrebbe aver determinato l’esigenza di garantire la
comunicazione con altri vani adiacenti o con spazi aperti. A sostegno di questa ipotesi funzionale
appare significativo il rinvenimento di una macina negli strati di obliterazione di questa fase.
326 C. LAGANARA FABIANO – A. BUSTO – G. FINZI – R. PALOMBELLA – D. ROSSITTI

Fig. 3 – Planimetria degli ambienti II e IV.

L’edificio si trasforma (Fase IV)


Un sostanziale cambiamento planimetrico caratterizza la fase IV: viene costruita a metà circa
dell’ambiente in appoggio ai muri perimetrali a Nord e a Sud una struttura muraria, larga circa
0,60/0,70 m, lunga 4,45 m, conservata per un’altezza di circa 0,60 m (Fig 3). La parte fondale
(USM 135) è realizzata con blocchi calcarei, di piccole e medie dimensioni, lavorati e disposti
irregolarmente, utilizzando nella parte bassa quelli più grandi per garantire la stabilità della strut-
tura, e 5 blocchi di tufo nel parte più a Sud del paramento; una malta grigia è adoperata come
legante. Anche l’elevato (USM 104) è costituito dagli stessi componenti e presenta su entrambe
le facce tracce di intonaco, più estese sul lato a Nord.
In questa fase è tompagnata l’apertura a Nord.
Due battuti documentano una frequentazione più occasionale: nell’ambiente II ad una quota
compresa tra 6,15 e 6,33 m l’US 114, costituito da calcarenite biancastra mista a pietre di piccolo
e medio modulo e poca terra, e nell’ambiente IV ad una quota compresa tra 6,18 e 6,20 m l’US
131 e l’US 139, analogamente costituita.
Crolli e rifacimenti (Fase V)
Il crollo parziale nella parte meridionale dell’USM 2 determina il suo rifacimento (USM 38) e
ad esso si relaziona su tutto l’ambiente II il battuto (US 111) in tufina di colore marrone chiaro,
abbastanza compatto, perturbato solo in prossimità degli angoli Sud-Est e Sud-Ovest, nel quale
è realizzato un taglio di forma circolare a Nord-Ovest. Interessanti i reperti metallici rinvenuti in
questo strato, tra cui molti elementi di abbigliamento, in particolare fibbie, databili al XIII, una
quadrangula con i Santi Pietro e Paolo tipologicamente affine agli esempi più antichi, databili tra
l’XI e il XII secolo32 (Fig. 5).
L’ambiente IV in questa fase V non è più frequentato, la sua superficie è coperta da strati di
crollo, in particolare quello dell’USM 101 (US 134), e di accumulo (US 130), unità stratigrafica
non affidabile per il rinvenimento di una busta di plastica.
È possibile che le fasi IV e V molto ravvicinate si riferiscano al periodo di distruzione della
città che le fonti documentano alla metà del XII secolo.
32
LAGANARA FABIANO 2002.
UNA CITTÀ PORTUALE ABBANDONATA: SIPONTO, INDAGINI ARCHEOLOGICHE 2000-2005 327

Fig. 4 – Ambiente II, resti della fase con destinazione produttiva. Fig. 5 – Ambiente II, battuto US
111, quadrangula.

L’ultima fase insediativa (Fase VI) e l’abbandono (Fase VII)


Un battuto in tufina di colore giallo chiaro (US 110), rinvenuto alla quota compresa tra 6,32 e
6,39 m su quasi tutta la superficie dell’Ambiente II attesta un’occupazione più stabile dello spazio
(fase VI), databile grazie al recupero di due denari di Corrado I della zecca di Brindisi (1250-1254)
e di un’abbondante quantità di ceramica coperta da rivestimento vetroso.
Del tutto sporadica sembra la frequentazione dell’ambiente IV, documentata solo da un lacerto
di battuto (US 129) preservatosi a ridosso dell’USM 104 a quota 6,40 m. Fa seguito un lungo
periodo di abbandono indicato dal susseguirsi di alcuni strati di accumulo con evidenti tracce di
combustione che interessano anche i reperti ceramici e osteologici (UUSS 125, 126, 127).
Gli strati di crollo (UUSS 27/103, 102, 107, 108) suggellano la fine della vita dell’edificio
(fase VII).
AMBIENTE V
La costruzione dell’ambiente (Fase I)
Anche questo ambiente, definito dalle USM 204, 105 e 219 costruite in appoggio al muro pe-
rimetrale Sud dell’ambiente II, viene realizzato su strutture più antiche (USM 274 e 275) (Fig. 6).
Di forma quadrangolare esso si estende per una superficie di 30 m2 e comunica a Nord con
l’ambiente II mediante l’apertura (US 106). Materiali e tecnica costruttiva si connotano per un
impiego prevalente di pietre calcaree, irregolarmente sbozzate e semilavorate sulla faccia vista,
rispetto ai blocchi tufacei presenti, seppur raramente, solo nelle USM 105 e 219; scarso l’impiego
del legante unito a terra o costituito solo da terra compatta di colore marrone chiaro. I muri, a
doppio paramento con nucleo a sacco, hanno uno spessore medio compreso tra 0,60 e 0,70 m.
L’ambiente presenta a Sud, ad una quota media di 6,10 m un piano di calpestio in calcarenite
mista a terra compatta e ciottoli (US 270), coperto da uno strato di terra marrone (US 255),
molto compatta, mista a calcarenite con numerose tracce di bruciato evidenti soprattutto lungo
l’USM 105.
Nella zona rivolta a Sud-Ovest alloggia una struttura semicircolare, costituita da una muratura
(US 247) in duplice paramento di pietre calcaree e nucleo formato da pietrame e malta e da un
piano in ciottoli e pietre di piccolo modulo, allettate con terra compattata e calcina (US 273).
La superficie del piano ha i limiti rialzati a Sud-Est ed una accentuata pendenza al centro; a
Nord-Ovest, laddove l’acciottolato non è ben conservato, appare sul fondo una terra rossastra,
compatta.
Questi elementi morfologici inducono ad identificarla come un impianto manifatturiero.
L’assenza di rapporti fisici diretti con i muri d’ambito e con i piani di calpestio non consente di
definire i rapporti stratigrafici.
328 C. LAGANARA FABIANO – A. BUSTO – G. FINZI – R. PALOMBELLA – D. ROSSITTI

Fig. 6 – Planimetria dell’ambiente V.

La defunzionalizzazione della struttura semicircolare (Fase II)


Nella fase II la struttura semicircolare comincia ad essere defunzionalizzata: al suo interno
appare uno strato (US 239) di terra argillosa marrone chiaro, molto compatta con evidenti tracce
di rubefazione e frammenti di mattoni, di ceramica, di metallo e ossei, anch’essi combusti; tracce
di combustione sono presenti anche nella US 238 che lo copre.
Diversi tagli danneggiano il precedente piano di frequentazione (US 255): l’US 258, l’US 253;
l’US 269; l’US 250 riempiti rispettivamente dalle UUSS 259, 254, 268, 262, nonché il battuto
US 270, tagliato dall’US 272.
L’unico intervento costruttivo è l’addossamento al muro perimetrale Sud di un altro muro
(USM 222) costruito con la faccia vista di pietre calcaree e il nucleo di pietrame calcareo e tufaceo
misto a terra e malta. Esso poggia su uno strato di terra compatta, di colore marrone con lenti
rossastre e inclusi (US 267).
Questa pratica costruttiva, riscontrata anche nell’ambiente VII, trova una probabile spiegazione
nelle instabili condizioni tettoniche della zona.
Una nuova frequentazione prima del definitivo abbandono (Fase III e IV)
Una serie di piani di calpestio variamente realizzati, le US 230 e 231 in terra marrone e gialla-
stra mista a calcina, con lastrine calcaree poste di piatto in prossimità dell’USM 222 e l’US 225 e
229 in calcarenite mista ad abbondanti ciottoli di fiume, che coprono definitivamente la struttura
semicircolare a quota 6,40 m, attestano l’ultima frequentazione dell’ambiente (fase III) prima che
i crolli e lo strato umifero ne segnino il definitivo abbandono.
UNA CITTÀ PORTUALE ABBANDONATA: SIPONTO, INDAGINI ARCHEOLOGICHE 2000-2005 329

AMBIENTE IX
Una destinazione abitativa
È questo l’edificio strutturalmente e funzionalmente più definito soprattutto nella sua fase II,
databile dai reperti monetali (due denari di Federico II della zecca di Messina e di Brindisi) alla
piena età sveva (Fig. 2).
In questo periodo una superficie di circa 100 m2 coperta in gran parte da un battuto di terra
colore marrone chiaro, compatta, mista a frammenti di varia natura (ceramica, vetri, ossa animali)
posti di piatto (US 319 e 360), messo in luce a quota 6,70 m) appare delimitata dai muri che
la sequenza stratigrafica non rivela tutti coevi. In particolare è evidente il diverso orientamento
dell’angolo a Nord rispetto a quello a Sud, il primo composto dalle USM 303 e 302 e il secondo
dalle USM 304 e 305. Analoghe, invece, le loro caratteristiche costruttive. Delle USM 303 e
302 lo scavo ha messo parzialmente in luce anche la parte fondale, rispettivamente l’USM 375 e
l’USM 339, realizzata con tecnica a sacco e bozze di pietra calcarea, disposte in corsi irregolari,
senza legante.
Indicatore della destinazione abitativa dell’edificio è un focolare (US 337 e US 340) addossato al
muro (US 304) vicino alla soglia di accesso, sottoposta al piano di calpestio esterno a Nord-Ovest
(US 328 e 345) munita di un gradino interno USM 348 (Fig. 7). Esso è realizzato con tre blocchi
di pietra e 4 blocchi tufacei, parzialmente sbozzati, di medio modulo, disposti a semicerchio e
allettati con terra, visibilmente rubefatti.
Le strutture preesistenti e la fossa silos
L’edificio si imposta su alcune preesistenze.
Nel piccolo saggio di approfondimento (sondaggio A) per verificare l’esistenza di un even-
tuale muro di tramezzo, effettuato vicino ad una lacuna (US 346) creata dall’uso indiscriminato
di mezzi agricoli, è stato intercettato a quota 6,51 m un piccolo lembo (US 370) di battuto in
calcarenite e terra marrone, compatta, mista a pietre di piccole dimensioni, frammenti ceramici
e ossei, coperto dal muro perimetrale Sud (USM 304).
Il muro perimetrale ad Est, costituito attualmente da due porzioni (USM 323 e 306) generate
sempre dalla predetta lacuna (US 347), fa parte di una precedente struttura, che oltrepassa il
limite ad Est dell’edificio. Se i componenti di questa muratura a sacco sono bozze calcaree di
varie dimensioni, poco lavorate e spianate solo sulla faccia vista insieme ad alcuni grandi blocchi
sempre calcarei disposti soprattutto all’estremità Nord dell’USM 306, diverso appare il legante
forse per successivi interventi di risarcimento: malta grigia, molto compatta e grumi di calcina
nell’USM 306; malta bianco grigia, abbastanza friabile nell’USM 323. Minore è la regolarità nella
lavorazione e nella posa in opera rispetto alle altre unità stratigrafiche murarie dell’ambiente. La
forte inclinazione della cresta verso Est e la distruzione della muratura a Sud indicano la dinamica
del crollo verso l’esterno.
A questa struttura più antica si appoggia l’USM 305, cui si lega l’USM 304: entrambi i muri
sono realizzati con tecnica a sacco, costituita da due paramenti di bozze calcaree e blocchi tufacei
squadrati, presenti in corrispondenza dell’apertura, legati con terra.
Nella fase I oltre a questi elementi in quasi tutta la metà Nord è conservata alla quota di 6,80
m un’ampia porzione di battuto (US 364) in terra argillosa, di colore marrone-rossastro, com-
patta in cui è scavata una fossa (USM 352) (Fig. 8) larga al fondo 1,30 m e profonda circa 2 m,
dall’imboccatura originariamente quadrangolare, larga 0,50 m, costituita da quattro blocchi di
tufo, regolarizzati con pietrame informe, di cui solo due sono superstiti (USM 378). Le pareti
di rivestimento sono realizzate in corsi abbastanza regolari, suborizzontali, talvolta sdoppiati in
corrispondenza degli elementi di maggiori dimensioni costituiti nella parte superiore da blocchetti
calcarei, spianati sulla faccia vista, e nella parte inferiore da blocchi di calcarenite, ben squadrati
e probabilmente di reimpiego. Sporadici frammenti di laterizi sono usati come zeppe. Il legante è
ottenuto con la stessa terra argillosa del battuto, impiegata anche per il fondo della fossa (US 357).
La funzione originaria della struttura doveva essere per la conservazione delle derrate alimen-
tari, mentre si trasforma in butto nella fase II, quando si formano i suoi strati di riempimento
abbastanza omogenei per composizione – terra marrone mista ad abbondanti reperti organici ed
inorganici – e consistenza più o meno compatta (US 356, 355, 354) eccetto l’ultimo strato (US
353), caratterizzato da una maggiore quantità di pietre, molte tegole e un’ingente quantità di
reperti malacologici. Il favorevole microclima creatosi all’interno della struttura ha consentito la
330 C. LAGANARA FABIANO – A. BUSTO – G. FINZI – R. PALOMBELLA – D. ROSSITTI

Fig. 7 – Ambiente IX, focolare US 337, US 340 e Fig. 8 – Ambiente IX, imboccatura (USM 378) della
soglia US 328-US 345 con gradino (USM 348). fossa USM 352.

Fig. 9 – Ambiente IX, fossa, frammento di tessuto in lino.

conservazione di un consistente frammento di tessuto (Fig. 9), oggetto di un pronto intervento di


restauro e di analisi archeometriche volte a caratterizzare la fibra ed identificare eventuali sostan-
ze organiche presenti nella trama. Si è al momento potuta accertare la natura vegetale sia delle
fibre che del filo di cucitura, entrambi di lino, e la prevalente natura inorganica (carbonatica) con
piccole quantità di materiale proteico e tracce di acidi grassi del materiale grigiastro penetrato
nel tessuto33.
L’abbandono
Lo strato di crollo, il cui spessore varia da 0,50 a 0,40 m, che ha restituito soprattutto nella parte
meridionale la maggiore quantità di reperti con una forte concentrazione di reperti malacologici,
segna la fine della vita dell’edificio, sottoposto a successive spoliazioni e pesanti manomissioni.

2. LA CULTURA MATERIALE
Lo scavo ha restituito una consistente quantità di reperti in ceramica, vetro e metallo che
attestano per l’incidenza numerica e le caratteristiche tecnologico-produttive un elevato livello
socio-economico ed un vivace clima di scambi.
Alle forme più comuni della ceramica da dispensa, anforacei di grandi e medie dimensioni
e catini, destinati alla conservazione e alla preparazione delle derrate alimentari, si affiancano
33
Lo studio del tessuto è in corso da parte di Antonella state eseguite da Inez van der Werf (Dipartimento di Chimica,
di Marzo (Soprintendenza per il PSAE) che ne ha affidato il Università di Bari).
restauro a Gabriella Bozzi. Le indagini archeometriche sono
UNA CITTÀ PORTUALE ABBANDONATA: SIPONTO, INDAGINI ARCHEOLOGICHE 2000-2005 331

Fig. 10 – Brocchetta trilobata. Fig. 11 – Secchiello.

Fig. 12 – Ciotola con rivestimento vetroso dipinta in Fig. 13 – Salsiera con rivestimento vetroso dipinta
bruno, verde e rosso. bruno e azzurro.

insolite brocchette con ampio collo trilobato, stretto corpo cilindrico e fondo apodo (Fig. 10)
che si accompagnano a piccoli contenitori chiusi di foggia differente, indizio di una differenziata
specializzazione funzionale.
Nella ceramica da fuoco va segnalato per la sua unicità in Puglia un secchiello (Fig. 11), de-
stinato ad essere sospeso sul focolare tramite un manico in metallo. Il contenitore più comune
nei contesti settentrionali della penisola, e particolarmente in ambito veneto, conferma i diffusi
contatti commerciali con le terre dell’alto Adriatico. Esso accompagna il più consueto corredo
domestico costituito da pentole di varia misura che attestano per la reiterata terminazione del
bordo con accentuata angolatura una probabile produzione locale. La presenza su diversi fram-
menti da cucina del rivestimento vetroso confermerebbe l’utilizzo precoce di questo espediente
nei contesti urbani34.
L’importante ruolo del porto sipontino e l’elevato tenore socio-economico è ancor più do-
cumentato dalla ceramica fine da mensa. Alle classi più diffuse nel panorama della produzione
fittile medievale pugliese, e più in generale dell’Italia meridionale, caratterizzate dal rivestimento
vetroso traslucido e opaco, monocrome e dipinte nei colori tipici del bruno, in varie tonalità
che vira dal nero al giallo-ferraccia, del verde e del rosso (Fig. 12) si affiancano manufatti che
rivelano un elevato standard produttivo. Le indagini archeometriche hanno, infatti, accertato
su un’ampia campionatura che responsabile del colore blu è il lapis lazuli (Fig. 13), il prezioso

34
Sulla ceramica da fuoco si rinvia al recente contributo di CASSANO, LAGANARA 2006.
332 C. LAGANARA FABIANO – A. BUSTO – G. FINZI – R. PALOMBELLA – D. ROSSITTI

minerale commercializzato dalle lontane terre dell’Afganistan e dell’Iran. Il recupero di diversi


frammenti, anche se di piccole dimensioni di ceramica “ad impasto siliceo”, the most important
event in the history of ceramic-making in the Muslim world e di ceramica graffita riconducibile
dal confronto tipologico all’area medioasiatica provano la circolazione di manufatti tra la peni-
sola italiana e il Mediterraneo orientale, fenomeno considerato caratterizzante dell’attività dei
principali porti dell’Italia tardomedievale, quali Genova, Savona e forse Venezia e in Puglia finora
Brindisi e Otranto35.

I vetri
Sono stati rinvenuti circa ottocento reperti di vetro, pertinenti essenzialmente a vasellame da
mensa, in stato estremamente frammentario condizione tipica di questa categoria di reperti (Fig. 14).
Bicchieri e bottiglie sono le forme più documentate, parte integrante del corredo da tavola. Più
frequenti i bicchieri del tipo bugnato e troncoconico, più rari i frammenti di stelo e di piede dei
bicchieri cilindrici, a pareti lisce o talvolta con l’orlo di pasta vitrea blu, e a calice, questi ultimi
destinati alle tavole dei ceti sociali più elevati.
Numerosi frammenti di lunghi colli cilindrici, a volte decorati da filamenti applicati dello stesso
colore del fondo o di vetro blu, di corpi espansi, talora decorati da un caratteristico anello cavo,
di fondi apodi o ad anello si riferiscono a bottiglie.
Nonostante la zona scavata rappresenti un settore periferico del tessuto urbano, non mancano
alcuni esemplari di piccole coppe, in vetro giallo chiaro o incolore di diversa fattura, decorate da
costolature verticali o da filamenti applicati dello stesso colore del fondo che disegnano motivi
curvilinei non identificabili; qualche frammento di beccuccio riferibile ad ampolline, destinate a
servire sulla tavola l’olio e l’aceto; piccole forme chiuse non identificabili, documentate da colli
cilindrici di ridotte dimensioni.
Ad usi specifici erano destinati i pochi frammenti rinvenuti di fondi e colli di fiale che conte-
nevano in genere unguenti, prodotti per le spezierie venduti insieme al loro contenuto.
All’illuminazione e all’arredo si riferiscono diversi frammenti di lampade della tipologia con lun-
go stelo pieno a goccia per l’alloggiamento negli appositi supporti circolari, con anse sormontanti
applicate sulla coppa dove era contenuto il combustibile, funzionali al passaggio delle catenelle,
documentate tra i reperti metallici. Cinque frammenti di lastre da finestra di vetro incolore o di
diverse tonalità di azzurro, trasparente e di buona fattura e il rinvenimento di ganci da finestra
in piombo indicano che alcuni edifici dovevano essere riccamente adornati.
L’indagine archeometrica36, oltre che l’analisi archeologica, rilevano una buona padronanza
tecnica. Gli artigiani erano in grado di ottenere anche colori complessi per le tecnologie dell’epoca,
come ad esempio il colore blu o il colore rosso opaco, e grazie all’ accurata scelta delle materie
prime riuscivano a realizzare vetri incolori che richiedevano l’aggiunta dell’ossido di manganese
per l’eliminazione delle sfumature verdi e delle seppur minime impurità ferrose sempre presenti
nelle sabbie.

I metalli e i “piccoli oggetti”


Ammontano a circa mille unità gli oggetti in metallo, pietra, osso e argilla, trovati nelle più
recenti fasi di frequentazione del sito.
Gli oggetti in metallo rappresentano la classe quantitativamente più documentata, in parti-
colare si registra una prevalenza di oggetti in ferro, caratterizzati da uno stato di conservazione
piuttosto compromesso, dovuto alle condizioni di giacitura, alle attività postdeposizionali e alle
specifiche caratteristiche chimico-fisiche dei suoi minerali37. Nonostante queste difficoltà è stato
possibile riconoscere la funzione di più del 70% degli oggetti rinvenuti e ricondurli a cinque
gruppi di attività: Attività Produttive, Relazioni e Scambi, Attività di Consumo, Attività Ludiche
e Residui di Lavorazione (Fig. 15).
Delle attività di sussistenza, l’agricoltura è documentate da una lama di falce in ferro, mentre
la pesca, cui fanno riferimento i documenti scritti38, è attestata dal rinvenimento di diversi pesi

35
Sulla ceramica fine da mensa si rinvia al recente contri- 37
GIARDINO 1998.
buto di LAGANARA FABIANO et al. 2005. 38
MARTIN 2006, p. 25.
36
SERRA et al. c.s.
UNA CITTÀ PORTUALE ABBANDONATA: SIPONTO, INDAGINI ARCHEOLOGICHE 2000-2005 333

Fig. 14 – Vasellame da mensa in vetro.


2

4 3
Fig. 15 – Da 1 a 4: piccoli oggetti legati ad attività di consumo, ludiche e produttive.

per reti in argilla e alcuni ami in lega di rame. Il ritrovamento di numerosi altri oggetti – fusaiole
in argilla, pesi da telaio e aghi da cucito, una spoletta e un probabile battitore da trama e sepa-
ratore di fili – testimonia come anche l’attività tessile fosse ben radicata, oggetto di scambi con
l’opposta sponda adriatica.
334 C. LAGANARA FABIANO – A. BUSTO – G. FINZI – R. PALOMBELLA – D. ROSSITTI

Il diffuso impiego degli equidi come comune mezzo di trasporto è evidente dall’abbondante
rinvenimento di elementi riconducibili all’equipaggiamento e alla loro bardatura. Un impiego
versatile per la cacciagione, per la preparazione dei cibi e per la difesa personale potevano avere
le punte di freccia e i coltelli.
Il copioso ritrovamento di elementi relativi agli edifici e all’arredo – cerniere e cardini, chiavi e
sistemi di serratura – ha contribuito al riconoscimento dell’uso abitativo di alcuni ambienti. Alta
la percentuale di chiodi, più della metà degli oggetti analizzati, in particolare numerosi i chiodi
“da carpenteria”, variamente utilizzati nella mobilia e nelle strutture. Un elemento architettonico,
qualche tessera di mosaico (quest’ultima dal crollo dell’Ambiente IX), i sopporti per le lastre da
finestra suggeriscono un aspetto elegante degli edifici. Nell’ambito domestico risulta inoltre ben
attestato l’uso di alcuni utensili per la preparazione dei cibi, come coltellini e mortai.
Gli oggetti destinati all’abbigliamento e all’ornamentazione personale sono principalmente in
lega di rame, più pregiata e leggera rispetto al ferro, e rappresentano la categoria quantitativamente
più attestata attraverso alcune fibbie, puntali di cintura, sonagli, e un castone di anello recante
all’interno una pietra dura ancora di incerta identificazione. L’unico esemplare probabilmente in
argento povero, come lascia finora ipotizzare l’esame autoptico delle patine di ossidazione e la
valutazione del peso specifico, è un orecchino. In altro materiale, osso e argilla, sono costituiti
bottoni, aghi crinali, spilloni.
L’ambito delle attività ludiche è documentato da una pedina da gioco in osso lavorato, di
pregevole fattura, decorata con quattro cerchi concentrici incisi, circondati da motivi ad occhio
di dado, e due frammenti di flauti in osso.
Seppure in via preliminare i dati materiali cominciano a sostanziare la storia della città abban-
donata di Siponto in aderenza al quadro che si profila dalle fonti scritte. Le evidenze strutturali e
la complessa stratificazione indicano una profonda trasformazione funzionale di questo comparto
periferico della città tra XI e XIII secolo – la destinazione muta da produttiva a residenziale- e
rilevano un elevato livello socio-economico. Ne danno conferma la spazialità degli edifici abitativi
e la qualità del corredo domestico che denuncia una differenziata specializzazione dei manufatti,
un buon grado tecnologico e una varietà dei prodotti, frutto probabilmente di una fervida attività
artigianale locale e di quella importante risorsa fornita dal commercio marittimo, la principale
vocazione di Siponto.
La fonte archeologica forse aiuta a comprendere le cause della distruzione del centro attestata
nel fatidico luglio del 1155 sia con qualche elemento in positivo, come l’addossamento ad alcuni
muri perimetrali di un altro muro di sostegno, dettato verosimilmente dagli effetti disastrosi di
un evento tellurico, sia con un argomento ex silentio, quale l’assenza di rilevanti e diffuse tracce
di bruciato che si potrebbero rapportare ad una distruzione militare o punitiva, recentemente
sostenuta39.
Nonostante le alterne vicende della Siponto vetus e i profondi segni prodotti dal suo abbandono
che ne hanno generato la completa spoliazione, un ridotto strato di terra copre una realtà che è
quella di un centro la cui storia «non è quella di un fallimento», ma «quella di un successo»40.

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39
MARTIN 2006, pp. 30-31. 40
ID., p. 32.
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Un sistema per l’analisi del paesaggio medievale

GIUSEPPE GRAVILI

1. ARCHEOLOGIA E PAESAGGIO
Il Laboratorio di Archeologia Medievale dell’Università di Lecce, fin dalla sua istituzione agli
inizi degli anni Novanta, è stato impegnato nel censimento del dato archeologico di età medievale
in Terra d’Otranto1. Da allora la verifica sul campo delle notizie raccolte dalle fonti, gli scavi ed
i progetti di ricognizione del territorio hanno portato all’identificazione nella sola provincia di
Lecce di almeno 372 villaggi o casali2. Secondo le fonti, principalmente i Registri del Catasto
Angioino, per 212 di questi casali è attestata una fase di vita tra XIII e XIV secolo. Tale numero
calerà sensibilmente nel periodo immediatamente successivo, scendendo nel XVI secolo a soli
136 insediamenti, la quasi totalità degli attuali centri del Salento3.
Il numero considerevole di informazioni raccolte nel corso degli anni ha reso necessaria la
pianificazione di un sistema informativo per l’archiviazione, gestione ed interrogazione dei dati
sulle evidenze medievali. L’implementazione di tale sistema è proceduta per fasi, dapprima at-
traverso la creazione di un database relazionale per la gestione dei dati alfanumerici provenienti
dalle ricognizioni e dagli interventi di scavo4 e successivamente dall’implementazione di una
piattaforma GIS del paesaggio medievale per le Province di Lecce, Taranto e Brindisi5.
In questa sede vogliamo pertanto presentare alcuni risultati delle nostre ricerche finalizzate
alla ricostruzione e comprensione del paesaggio di età medievale realizzate, con l’ausilio della
tecnologia GIS, attraverso l’elaborazione e l’analisi di complessi modelli spaziali. Il sistema infor-
mativo geografico è stato qui utilizzato per esplorare le reciproche relazioni spaziali fra i siti, nel
tentativo di individuare le dinamiche e le scelte insediative che hanno interagito con il territorio
in età medievale.
In particolare, le nostre ricerche hanno mirato e mirano all’analisi della distribuzione spaziale
degli insediamenti di età medievale nel Salento, all’identificazione delle variabili ambientali che
possono aver influenzato la scelta di un luogo per lo sviluppo di un insediamento ed infine lo
studio delle relazioni tra i siti ed i loro limiti territoriali6.

2. LA DISTRIBUZIONE SPAZIALE DEI SITI


Per cercare di comprendere quali fattori abbiano potuto influenzare la scelta di un luogo per
l’insediamento piuttosto che un altro è stata, in prima istanza, osservata la distribuzione degli
insediamenti nello spazio analizzandone la densità di concentrazione per km². Lo scopo è stato
tentare di capire se vi fossero nella regione delle aree a maggior concentrazione di siti da mettere
in relazione con le componenti ambientali, economiche e politiche, ed ottenere quindi un modello
o più modelli di scelta insediativa.
Analizzando la mappa della densità elaborata prendendo in considerazione tutti i villaggi,
abbandonati e non, attestati tra XIII e XIV secolo (Fig. 1) si può notare come la maggior concen-
trazione di insediamenti sia da localizzare nell’entroterra di Otranto (LE). A determinare questo
tipo di distribuzione vi sono certamente motivi di carattere politico-economico: Otranto era, nel

1
Si ringraziano il Prof. Paul Arthur e la Dott.ssa Brunella Medioevo salentino.
Bruno dell’Università degli Studi di Lecce, da sempre impe- 2
ARTHUR c.s.
gnati nel Progetto di Censimento delle evidenze medievali nel 3
ARTHUR, GRAVILI 2006, p. 34
Salento, i cui consigli, segnalazioni e, soprattutto, disponibilità 4
Cfr. GRAVILI 2001.
hanno permesso di portare avanti le seguenti ricerche sulle 5
GRAVILI 2005, pp. 176-177.
applicazioni di analisi spaziali per lo studio del paesaggio 6
In particolare l’attuale contributo esaminerà alcuni aspetti
medievale nel Salento; il Dott. Marco Leo Imperiale per i relativi ai villaggi di età Basso Medievale che, al momento,
suggerimenti su come migliorare il lavoro. Si ringraziano risultano meglio conosciuti, rispetto all’insediamento anterio-
infine tutti coloro che negli anni hanno collaborato con il re all’età angioina, tramite le fonti scritte e le testimonianze
Laboratorio di Archeologia Medievale alla raccolta dati sul archeologiche.
338 GIUSEPPE GRAVILI

Grafico 1 – Curva di distribuzione dei valori altimetrici dei siti rispetto alle quote max e medie locali (buffer
1 Km intorno ad ogni sito).

Medioevo, tra i centri più importanti di Terra d’Otranto e la sua rilevanza politico-economica
ha sicuramente funzionato da polo di attrazione favorendo la tendenza ad insediarsi nell’area
circostante. È assai probabile che molti dei casali intorno ad Otranto fossero specializzati nella
produzione del vino fin dall’età bizantina. È noto infatti che ai margini della città fossero prodotte
anfore da trasporto commerciale, quasi certamente vinarie, a partire dalla fine del VII/VIII secolo.
Tali produzioni probabilmente continueranno, dopo una sostanziale trasformazione tipologica
intorno al X secolo, almeno fino al XII secolo7.
In genere, tutta la zona del Basso Salento, ed in particolare il versante orientale, è risultata più
densamente insediata rispetto all’area a settentrione. Un’eccezione è rappresentata dal territorio
nelle vicinanze di Supersano (LE), area storicamente interessata dalla presenza di un bosco, noto
dalle fonti di età moderna come “Bosco di Belvedere”8.
Anche le aree costiere lungo quasi tutta la fascia ionica ed in buona parte di quella nord-adria-
tica fino ad Otranto mostrano una bassissima densità di siti. Entrambi i litorali sono caratterizzati
da coste basse e sabbiose ed è perciò possibile pensare che tali zone venissero opportunamente
evitate poiché più vulnerabili ad attacchi dal mare, come nel caso delle incursioni saracene che
sembrerebbero essere state frequenti tra il IX e X secolo9. Una conseguenza di questa situazione di
semiabbandono è stato il progressivo impaludamento di queste regioni, risolto in maniera definitiva
solo nel secolo scorso con le ultime bonifiche10. Ciò spiega il persistere di una fascia litoranea a
scarsissima densità di popolazione anche dopo la scomparsa del pericolo di aggressioni11.
Come già ricordato, alla fine del Medioevo molti casali furono abbandonati a favore di altri
villaggi o terre fortificate spesso, come nel caso del borgo di nuova fondazione di Muro Leccese
(LE), ripianificate e potenziate, con l’aggiunta di una dimora signorile, di difese e di impianti pro-
duttivi quali i frantoi per la spremitura delle olive12. Molti degli insediamenti abbandonati furono

7
ARTHUR 1998; LEO IMPERIALE 2004. e corsari, identificati, a tutto tondo, con i Saraceni, lungo le
8
ARTHUR, MELISSANO 2004. coste pugliesi. Il fenomeno non doveva essere marginale, tanto
9
ARTHUR 2003. che dopo il tentativo, risultato vano, di rafforzare il controllo
10
NOVEMBRE 1995, p. 203. degli approdi, Carlo II d’Angiò dispone, nel 1272, che i pirati
11
Allo stato attuale della ricerca non è possibile definire catturati dovessero essere impiccati sul posto. (LICINIO 1994,
quando questi attacchi terminarono. Nel XIII secolo, infatti, pp. 199-200). Sull’argomento vedi inoltre: BRUNO 2005.
sono ricordate dalle fonti documentarie incursioni di pirati 12
ARTHUR c.s.; ARTHUR, BRUNO c.s.
UN SISTEMA PER L’ANALISI DEL PAESAGGIO MEDIEVALE 339

Fig. 1 – Mappa della densità di


distribuzione degli insediamenti
elaborata prendendo in considera-
zione tutti i villaggi, abbandonati e
non, attestati tra XIII e XIV secolo,
attraverso il metodo Kernel. (elab.
G. Gravili, Laboratorio di Archeo-
logia Medievale Lecce).

Fig. 2 – Le caratteristiche della


distribuzione dei villaggi sopravvis-
suti di XV e XVI secolo. (elab. G.
Gravili, Laboratorio di Archeologia
Medievale Lecce).
340 GIUSEPPE GRAVILI

sostituiti da masserie, il che sembrerebbe indicare che non ci fu un abbandono dei terreni agricoli,
ma solo una trasformazione nei modi di gestione del terreno, con il passaggio da una forma di
conduzione agraria intensiva, ad una forma estensiva, «risparmiando sulla forza lavoro che era
presente costantemente sul territorio, sostituendola con un popolamento delle campagne attenta-
mente scandito dalle stagioni e dai ritmi della semina e del raccolta, secondo le necessità»13.
Tale diminuzione nel numero di insediamenti ha dei riflessi anche nelle caratteristiche della
distribuzione dei villaggi sopravvissuti di XV e XVI secolo (Fig. 2). In questa fase la densità media
cala in tutta la regione, tuttavia la fascia orientale della Penisola Salentina sembra ancora possedere
condizioni favorevoli alla sussistenza di un numero cospicuo di insediamenti. Al contrario, altre
zone mostrano una forte tendenza allo spopolamento dei centri rurali. Scompare un discreto
numero di casali immediatamente a Nord–Ovest di Otranto, probabilmente assorbiti dai centri
limitrofi, e lo stesso porto idruntino iniziò a perdere di importanza rispetto a quello di Brindisi
a partire almeno dal XII-XIII secolo14.
Tutta la fascia occidentale sembra risentire del fenomeno dell’abbandono dei villaggi, ma è
soprattutto il territorio di Nardò (LE) a mostrare un indice di spopolamento elevato. Tra le cause
che possono aver contribuito alle modifiche delle dinamiche insediative, oltre al cambiamento nel
tipo di economia agricola, rimangono ancora da valutare le eventuali conseguenze che possono
aver avuto in questa area le varie epidemie e carestie che colpirono l’Europa nel corso del XIV
secolo15.

3. IL RAPPORTO INSEDIAMENTO-AMBIENTE
Per cercare di comprendere meglio la distribuzione del popolamento rispetto al territorio,
abbiamo pertanto analizzato il rapporto tra i siti e quelle variabili ambientali che potrebbero aver
maggiormente influenzato le scelte insediative: il rilievo altimetrico, le formazioni geologiche,
l’idrografia e le caratteristiche dei suoli.
Il Salento è una area pianeggiante non caratterizzata da particolari rilievi, ad eccezione del-
l’area delle Serre, una serie di dorsali convergenti nella cuspide di Santa Maria di Leuca, dove
comunque il punto più elevato si aggira intorno ai 200m.
Nonostante non esistano nella regione particolari variazioni nel rilievo, è comunque possi-
bile fare alcune osservazioni sul rapporto tra gli insediamenti e la geomorfologia del territorio.
A questo scopo è stato creato un modello digitale del terreno delle variazioni altimetriche del
Salento, ottenuto interpolando gli oltre 50000 punti quotati del SIT della Provincia di Lecce ed
utilizzando il metodo della triangural irregular network (TIN) successivamente trasformato in
formato raster. Questo procedimento è stato scelto perché permette una migliore gestione delle
variazioni improvvise di quota16.
Successivamente sono stati estrapolati i valori altimetrici dei siti in esame e confrontati fra di
loro per cercare di individuare eventuali zone di preferenza.
Su scala regionale l’analisi della distribuzione dei siti rispetto all’altimetria non mostra parti-
colari trend, se non che oltre il 90% degli insediamenti tende a localizzarsi tra i 40 ed i 140m,
mentre è praticamente nulla la presenza di villaggi a quote superiori, cioè sulle sommità delle
Serre (Fig. 3). Più significativo è il confronto tra le quote dei siti e la situazione geo-morfologica
in prossimità di essi. In pratica, data l’omogeneità del rilievo del terreno si è ritenuto più utile
analizzare il rapporto tra i siti e la situazione altimetrica delle aree in prossimità di questi, per
cercare di capire se vi fosse una tendenza ad insediarsi su il punto più elevato su scala locale, ad
esempio su un poggio, oppure no.
Per fare questo si è creato intorno ad ogni sito un buffer (un’area di analisi equidistante dal
punto preso in esame) del raggio di un km, isolando così i punti quotati all’interno (Fig. 3 riquadro
a). Quindi abbiamo confrontato la quota dei singoli siti con la quota massima della porzione di
territorio circostante ad esso, con la quota minima e la quota media.
Come si può notare dal grafico (graf. 1) la curva rappresentante le quote dei siti sembra
distribuirsi intorno a valori altimetrici medi. Ne consegue che anche su scala locale la scelta
dell’insediamento non era necessariamente legata al rilievo del territorio circostante, per motivi

13
ARTHUR, GRAVILI 2006, p. 31. 15
Cfr. MASSARO 2000.
14
ARTHUR c.s. 16
Cfr. FORTE 2002.
UN SISTEMA PER L’ANALISI DEL PAESAGGIO MEDIEVALE 341

di difesa o di controllo del territorio. In pratica, posizionarsi sul punto più elevato non era una
priorità. Questo in linea generale, poichè vi sono esempi, ma sono rari, di villaggi insediatisi sul
punto più elevato, come nel caso di Quattro Macine (Giuggianello, LE)17.
Maggiori informazioni sulla conformazione del paesaggio di età medievale si possono ricavare
dall’analisi della distribuzione dei siti rispetto al substrato geologico, che rappresenta un fattore
fondamentale per comprendere anche l’idrografia e la pedologia di un territorio.
Il Salento è costituito principalmente da rocce calcarenitiche e da calcari. Ne consegue la pres-
soché totale assenza di corsi d’acqua di superficie a causa del fenomeno di iperdrenaggio in seguito
alla carsificazione della roccia. Vi è, al contrario, notevole abbondanza di acque sotterranee.
Già diversi autori si sono occupati dello studio della distribuzione degli insediamenti attuali
(paesi) ed il substrato geologico della regione notando lo stretto legame esistente tra queste due
variabili. In particolare, Mørsh18 ha evidenziato come gli attuali paesi della provincia di Lecce si
collochino in buona parte lungo le linee di formazione tra le unità geologiche, suggerendo che
tale scelta sia da attribuire alla maggiore facilità di accesso alle risorse idriche sotterranee.
Questa stessa tendenza è stata riscontrata nell’attuale analisi, confrontando la distribuzione dei
villaggi basso medievali rispetto alla geologia del territorio (Fig. 4). Ripetendo lo stesso tipo di
analisi del Mørsh abbiamo notato come circa il 70% degli insediamenti si collochi ad una distanza
massima di 500 m dalle aree di sovrapposizione degli strati geologici.
Certamente, in una regione così povera di corsi d’acqua superficiali, la possibilità di approv-
vigionamento idrico da risorse del sottosuolo è di fondamentale importanza, ma la prossimità ai
limiti di formazione non è necessariamente indice di maggior disponibilità di acqua19. In realtà,
la falda più accessibile si trova in corrispondenza di unità geologiche quali le Calcareniti, la Pietra
Leccese, le Sabbie di Uggiano e soprattutto la Formazione di Gallipoli, unità che giacciono sopra
livelli sedimentari caratterizzati da forte presenza di argilla. Qui le acque meteoriche, una volta
attraversati gli strati sabbiosi o tufacei superficiali, sono costrette ad arrestarsi dando luogo alla
formazione di piccole falde freatiche, che seppure non abbondanti, costituiscono in un paese a
generale deficienza di acque alla superficie, un elemento prezioso e sempre utilizzato dall’uomo
per le sue esigenze di vita e per l’agricoltura più intensiva. È proprio in queste aree che si con-
centra la maggior parte di siti (83%, graf. 2) 20.
Si è notato, inoltre, la presenza di formazioni geologiche che sembrano essere state apposita-
mente evitate dagli insediamenti come, ad esempio, la zone delle Dolomie di Galatina e dei Calcari
di Melissano. In questo caso trattandosi di calcari veri e propri che rappresentano la formazione
di base su cui poggiano le altre unità, le acque meteoriche vengono assorbite nel sottosuolo attra-
verso gli inghiottitoi o vore. Qui, non incontrando, per l’uniformità della roccia, alcun ostacolo
nella loro discesa verso il basso, finiscono con lo stabilire una falda, la cosiddetta “falda carsica”,
che ha come livello di base il livello del mare, verso il quale defluisce21. Di conseguenza questo
tipo di formazioni costituisce un ambiente sfavorevole all’insediamento stabile.
La tendenza degli insediamenti a concentrarsi più su determinati tipi di formazione (Calcare-
niti, Pietra Leccese etc.), ed in particolare ai limiti di formazione, è probabilmente da mettere in
relazione con le caratteristiche fisico-chimiche dei suoli prodotti da queste.
Ad esempio, il suolo prodotto dalle Calcareniti del Salento risulta più profondo fertile e di
più semplice lavorazione, adatto alla coltivazione della vite e dell’olivo, mentre quello prodotto
dalle dolomie è sottile, di più difficile lavorazione, con poche risorse idriche, in generale più
adatto alla pastorizia..
Saverio Russo fa notare come l’articolazione del paesaggio agrario alla fine del medioevo nel
Salento, veda la contrapposizione, anche se non netta, tra due sistemi agrari: il primo prevalente
nella parte settentrionale della subregione e nella Murgia tarantina, dove «predominano la grande
proprietà e la grande azienda e “centrale è l’integrazione tra cerealicoltura, allevamento ed eco-

17
ARTHUR et al. 1996, p. 184. Successivamente per ogni ‘bacino di cattura’ è stata calcolata la
18
MØRSH 1987, p. 47. superficie di territorio occupata da ciascuna formazione geolo-
19
Si ringrazia la Dott.ssa Silvia Ciurlia, geologa del ‘Labo- gica. I risultati ottenuti hanno messo per l’appunto in evidenza
ratorio di Analisi sul Territorio attraverso Tecnologie Satellitari’ come la grande maggioranza del territorio intorno al luogo
Spacedat di Lecce, per i chiarimenti sulle caratteristiche dei dove sorgevano i siti fosse costituito da depositi di Calcareniti,
depositi geologici del Salento. Pietra Leccese, Sabbie di Uggiano e Formazione di Gallipoli. In
20
Tale dato è stato ottenuto considerando intorno ad ogni particolare le Calcareniti rappresentano il 40% di tali territori.
sito un’area di approvvigionamento di 1 Km (buffer analysis). 21
Cfr. MARGIOTTA, NEGRI 2004.
342 GIUSEPPE GRAVILI

10

32

30

/2

/0

�2

�0 Grafico 2 – Rapporto percentuale delle


2 formazioni geologiche presenti in un
raggio di 1 Km intorno ad ogni sito.
0
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nomia dei boschi” (Visceglia); il secondo, diffuso nella parte centro-meridionale della penisola,
dove l’azienda produttiva è di dimensioni minori, la proprietà più frammentata e le coltivazioni
più variate, con una sensibile presenza della vite e soprattutto dell’olivo, spesso consociato al se-
minativo, mentre compaiono il lino» e «in alcuni casi, lo zafferano. Non infrequenti sono, inoltre
i giardini di agrumi, nelle aree suburbane, nonché i ficheti e l’albero del gelso»22.
L’archeologia sembra confermare queste linee di tendenza. Ad esempio il villaggio di Apigliano
(Martano, LE) sorgeva su un limite di formazione tra Dolomie di Galatina e Calcareniti del Sa-
lento, appena al di fuori di quell’area di terreni profondi e fertili che caratterizzano il territorio a
Sud del casale. La sua posizione, le caratteristiche del paesaggio23 e non ultimo i reperti faunistici
rinvenuti in anni di scavi, fanno pensare che nell’economia del villaggio una parte rilevante fosse
costituita da allevamento e pastorizia24. Al contrario il casale di Quattro Macine probabilmente
rientrava in quel circuito di villaggi specializzati nella coltivazione della vite prima e dell’olivo
poi, che caratterizzarono, come già detto, l’entroterra di Otranto dall’età bizantina fino alla fine
del Medioevo ed oltre.
Per la ricostruzione dell’ambiente fisico salentino e dei suoi mutamenti in epoca medievale è
indispensabile tenere conto anche di altre variabili, quali le variazioni climatiche e dei loro effetti
sui caratteri geomorfologici, idrografici e vegetazionali nell’ambito del rapporto uomo ambiente.
I territori più meridionali del Salento, situati lungo il versante adriatico tra Otranto e Leuca,
dove come abbiamo visto tende a concentrarsi il maggior numero di insediamenti, risentono
in maniera marcata di un clima di tipo egeico, anche per la presenza dei rilievi delle Serre, che
ostacolano le correnti d’aria di provenienza occidentale e ricevono le correnti caldo umide di
Sud-Est, che producono un netto incremento delle precipitazioni nel periodo autunno-invernale
(massimo 850 mm/anno).
Al momento sono oggetto di studio (tesi) le variazioni nel microclima dell’area salentina ed gli
eventuali effetti di queste sull’ambiente e le coltivazioni, nel tentativo di ricostruire, per quanto
possibile, la copertura della vegetazione spontanea (boschi, foreste e macchie) e delle aree umide
(paludi).
Lo studio del paesaggio medievale salentino non si limita all’analisi della distribuzione degli
�����($&)*+,,$#-.)&*insediamenti
��/001 rispetto alle componenti ambientali, ma include, come è stato dimostrato in altre

22
RUSSO 2005, pp. 205-206. sussistenza della popolazione, ma forse non sufficientemente
23
È da notare come la fonte d’acqua più vicina ad Api- vicina nel caso di un tipo di economia legata alla coltivazione
gliano sia localizzata a circa 1 km ad ovest del villaggio presso intensiva dei campi.
località Pozzelle, distanza accettabile per le esigenze legate alla 24
Cfr. DE VENUTO 2005.
UN SISTEMA PER L’ANALISI DEL PAESAGGIO MEDIEVALE 343

Fig. 3 – Digital Elevation Model e


l’analisi della distribuzione dei siti
rispetto rilievo. Riquadro a): Detta-
glio della buffer analysis per l’analisi
del rapporto tra le quote dei siti e le
quote del paesaggio limitrofo. (elab.
G. Gravili, Laboratorio di Archeolo-
gia Medievale Lecce).

Fig. 4 – Distribuzione dei villaggi


medievali basso medievali rispetto
alla geologia del territorio. (elab. G.
Gravili, Laboratorio di Archeologia
Medievale Lecce).
344 GIUSEPPE GRAVILI

Fig. 5 – Dettaglio del rapporto tra poligoni di Thiessen e limiti comunali nel
territorio di Nardò (LE). (elab. G. Gravili, Laboratorio di Archeologia Medie-
vale Lecce).

Fig. 6 – Grosso muro a secco (larghezza 2m ca) individuato lungo in confine


tra i comuni di Corigliano D’Otranto e Soleto in Provincia di Lecce (foto G.
Lamura, tesina d’esame per il Laboratorio di Archeologia Medievale Lecce).
UN SISTEMA PER L’ANALISI DEL PAESAGGIO MEDIEVALE 345

sedi, anche il tentativo di ricostruzione della viabilità di età medievale nonché l’analisi dei rapporti
gerarchici tra gli insediamenti25.
A tal proposito recentemente sono stati esposti i risultati di una ricerca mirata alla comprensione
delle possibili estensioni dei territori di pertinenza dei casali in esistenza nel Basso Medioevo, ap-
plicando le metodologie tipiche della spatial allocation analysis e della cost-surface analysis26.
Dal confronto tra confini comunali e poligoni di Thiessen degli insediamenti è emerso come il
territorio attuale di alcuni centri sia di gran lunga più esteso rispetto a quello ideale dei poligoni.
Ciò ha fatto supporre che questi centri avessero avuto nel passato un maggior peso politico-eco-
nomico in parte riflesso dalle estensioni attuali dei territori comunali27.
A partire dal XVI secolo il numero di insediamenti ed il tipo di distribuzione sono rimasti
pressoché immutati. Si è pertanto ipotizzato che a seguito della fase di transizione tra XIII-XIV
e XV-XVI secolo, i territori degli insediamenti abbandonati siano stati, in alcuni casi, assorbiti
dai centri sopravvissuti, e che i confini comunali possano rappresentare una sorte di traccia di
questo fenomeno di sinecismo tardo-medievale.
La successiva elaborazione di un modello digitale dei territori ipotetici dei casali basso-medievali
abbandonati e non, ha avvalorato, almeno per alcune aree, la validità di tale ipotesi, seppur con
le dovute cautele che indagini di questo tipo richiedono (Fig. 5).
Per questo motivo è stata avviata insieme agli studenti del corso di Topografia Medievale della
Laurea Specialistica in Archeologia dell’Università di Lecce un’attività di censimento delle eviden-
ze archeologiche situate lungo i confini comunali ed i confini ideali, allo scopo di documentare
l’esistenza di tracce riferibili a suddivisioni del territorio di età storica. Al momento il progetto è
ancora nella sua fase iniziale e sperimentale; ad ogni modo sono stati individuati, nell’area cam-
pione di Corigliano d’Otranto, alcuni elementi nel paesaggio, quali muretti a secco di dimensioni
notevoli (Fig. 6), forse tracce di un’antica suddivisione del paesaggio, la cui cronologia verrà
accertata da future indagini stratigrafiche28.

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Università degli Studi di Lecce.

25
Cfr. GRAVILI 2005 per un esempio di studio sulla viabilità tecniche analitiche citate vedi fra gli altri WHEATLEY, GILLINGS 2002.
medievale attraverso l’integrazione di fonti e tecniche di analisi 27
CAMBI, TERRENATO 1994.
spaziale quali la nearest neighbour analysis. 28
Si ringraziano i sigg. M. Fracasso, G. Lamura e A. Pecora-
26
Cfr. ARTHUR, GRAVILI 2006 per studio sui territori di perti- ro, studenti di Topografia Medievale della Laurea Specialistica
nenza dei casali medievali nel Salento. Per una descrizione delle in Archeologia dell’Università degli Studi di Lecce.
346 GIUSEPPE GRAVILI

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L’archeologia medievale in Sicilia

ALDO MESSINA

Tracciare un bilancio della ricerca archeologica medievistica in Sicilia negli ultimi trent’anni,
cioè da quando questa, al pari delle altre regioni italiane, ha cominciato a muovere i primi passi
negli anni ’70 anni del secolo appena trascorso, non è una impresa facile.
Esistono, come è noto, diverse Sicilie, almeno due, quella orientale che guarda alla penisola
italiana e aldilà all’Egeo e al Medio Oriente e quella occidentale, che guarda verso l’Africa. I campi
d’indagine sono dunque differenziati con inclinazioni diverse: verso una archeologia bizantina in
quella orientale, per la quale aveva già messo le basi Paolo Orsi a cavallo tra ’800 e ’900; verso
una archeologia arabo-normanna in quella occidentale, germogliata dalle insuperate ricerche di
Michele Amari e dalla vecchia tradizione degli studi sulla grande edilizia palermitana.
Inoltre la risposta degli organi preposti alla tutela del patrimonio archeologico non è stata
univoca, cosicché la geografia degli scavi programmati in abitati medievali riguarda soprattutto
l’area occidentale della Sicilia, dove le Soprintendenze di Palermo, Trapani e Agrigento hanno
mostrato una sensibilità più precoce rispetto al resto dell’isola, favorendo l’attività di importanti
missioni archeologiche italiane e straniere.
Una semplice cronaca dell’archeologia medievale siciliana inevitabilmente rischia di configu-
rarsi come una arida rassegna di episodi disarticolati. Pertanto ho escluso gli interventi di scavo
non programmati, rintracciando nell’attività delle missioni archeologiche che hanno operato
nell’isola e nella organizzazione da parte delle Soprintendenze di mostre e convegni, le linee
fondamentali della ricerca archeologica medievistica in Sicilia nello scorso trentennio. Si possono
così meglio individuare i campi d’indagine, l’ambito territoriale e le prospettive della ricerca.
Lo stato della indagine archeologica per la Sicilia medievale agli inizi degli anni ’70 è mostrato
dalla bibliografia regionale compilata da Tiziano Mannoni e Hugo Blake, nel contributo su “L’ar-
cheologia medievale in Italia” accolto nei «Quaderni Storici», 24, 1973 sul tema dell’Archeologia
e geografia del popolamento. Per la Sicilia è censito soltanto il vecchio volume di Paolo Orsi
Sicilia Bizantina del 1942, peraltro florilegio di lavori del grande archeologo roveretano datati
tra il 1896 e il 1934.
Come nel resto d’Italia, l’archeologia medievale siciliana non nasce dal ramo tradizionale
dell’archeologia classica, ma presso cultori di storia medievale, che intendono affiancare al
documento scritto anche le testimonianze materiali conservate in quel grande archivio naturale
che è il terreno. In questa maturazione un ruolo determinante per la Sicilia è stato svolto dal-
l’École française di Roma e dall’École Pratique des Hautes Études di Parigi, presso la quale negli
anni ’60 si era formato un gruppo di archeologi medievisti, guidato da Jean-Marie Pesez, con il
fine di studiare la morfologia e la cultura materiale del villaggio medievale francese. Il gruppo
operava mediante lo scavo stratigrafico di villaggi abbandonati, avvalendosi anche della colla-
borazione di archeologi polacchi, teorizzatori dello scavo stratigrafico e animatori del dibattito
sulla cultura materiale.
Il collegamento con i ricercatori francesi è dovuto ad uno studioso di storia economica sici-
liana, Carmelo Trasselli, direttore dell’Archivio di Stato di Palermo e docente di Storia econo-
mica medievale presso l’Università di Messina. Invitato a Parigi a tenere alcune lezioni all’École
des Hautes Études, suggerì agli studiosi francesi di esportare l’esperienza della loro ricerca sui
villaggi abbandonati in Sicilia.
A lui si deve l’iniziativa delle prime indagini di archeologia medievale nella Sicilia occidentale
e la pubblicazione di un ciclostilato, il “Bollettino” del G.R.A.M, cioè Gruppo Ricerche Archeo-
logia Medievale, a partire dal 1971, in cui confluivano le ricerche condotte sul terreno da alcuni
giovani appassionati, soprattutto di formazione storico-medievista, destinate alla individuazione
dei siti più idonei allo scavo.
Queste tendenze innovative nell’ambito della storia medievale – l’archeologia stratigrafica come
metodo di indagine sul terreno e lo studio dei manufatti come espressione della cultura materiale
– hanno subito fatto breccia nelle Istituzioni Accademiche e Amministrative palermitane per il
348 ALDO MESSINA

dinamismo di due studiosi, Francesco Giunta, direttore dell’Istituto di Storia Medievale dell’Uni-
versità di Palermo e Vincenzo Tusa, direttore della Soprintendenza Archeologica di Palermo.
A Francesco Giunta si deve l’organizzazione nel 1974 di un Colloquio Internazionale di
Archeologia Medievale, a Palermo ed Erice, che porta alla ribalta le iniziative archeologiche
nell’ambito del Mediterraneo occidentale (Catalogna, Provenza, Sardegna, Liguria, Venezia,
Malta, Sicilia, Campania) e identifica l’apporto dell’archeologia e dello studio della cultu-
ra materiale per la storia dell’abitato medievale, sia urbano che rurale, cogliendone i pro-
cessi di continuità o discontinuità. Il Colloquio, che vanta a suggello della collaborazione
italo-francese una introduzione di Georges Duby, ha offerto la prima opportunità ufficiale
alla nascente archeologia medievale italiana di riconoscersi e di confrontarsi ad esso, subi-
to dopo nell’ottobre del 1974, ha fatto da cassa di risonanza il promettente editoriale del
primo numero della rivista «Archeologia Medievale» di Riccardo Francovich, che nel sot-
totitolo “Cultura materiale, insediamenti, territorio” ha codificato le nuove tendenze nella
ricerca sul terreno, nelle dinamiche del popolamento e dell’archeologia della produzione.
Risultato immediato del Colloquio è stata l’istituzione a partire dal 1975 di una Scuola
Superiore di Archeologia e Civiltà Medievale presso il Centro di Cultura Scientifica “Ettore
Majorana” di Erice, destinata alla formazione di giovani medievisti.
Vincenzo Tusa, da parte sua, ha caldeggiato la richiesta di concessioni di scavo in siti medievali
e personalmente ha dato avvio all’archeologia urbana di Palermo nel 1973 con gli scavi medievali
del castello della Zisa e del palazzo dello Steri. Inoltre in qualità di direttore della benemerita
rivista «Sicilia Archeologica», pubblicata dall’Ente Provinciale per il turismo di Trapani, ha dato
ampio spazio alla pubblicazione di ricerche di archeologia medievale siciliana.

1. GLI ANNI ’70: L’ARCHEOLOGIA DEL VILLAGGIO ABBANDONATO


La collaborazione italo-francese si è realizzata con l’individuazione di due siti della Sicilia
centrosettentrionale, promettenti per la storia dell’insediamento medievale. Il sito di Gangi Vec-
chio fu esplorato da una équipe mista nel 1974 limitatamente all’indagine sul terreno, mentre
l’attività di scavo fu concentrata nel sito di Brucato con 4 campagne tra 1972 e 1975 sotto la
direzione di J.-M. Pesez, che misero in luce un abitato d’altura nella facies precedente l’abban-
dono del secolo XIV, con modeste case contadine e l’edificio signorile.
Nonostante che la missione fosse stata funestata dalla tragica scomparsa di due giovani stu-
diosi francesi e dalle intimidazioni di alcune persone del posto, l’indagine si è conclusa nel 1984
con la pubblicazione degli scavi, che, insieme con l’edizione nel 1981 dello scavo provenzale
di Rougiers – due siti apparentemente lontani, ma speculari ed uniti dallo stesso mare – e la
poderosa monografia di Henri Bresc, membro della missione francese in Sicilia, sulla economia
e la società siciliana tardomedievale apparsa nel 1986, costituisce il migliore contributo della
scuola francese alla ricerca sull’abitato tardomedievale nel bacino del Mediterraneo.
Dall’inizio degli anni ’70 ha operato nella Sicilia occidentale anche una missione svizzera del-
l’Istituto Archeologico di Zurigo, diretto da Hans Peter Isler, attiva a Monte Iato, un sito di età
classica abitato ininterrottamente fino alla distruzione operata da Federico II nel XIII secolo. Nelle
relazioni preliminari delle campagne di scavo, apparse regolarmente su «Sicilia Archeologica» e
nella serie monografica sui materiali rinvenuti non sono ignorate le vestigia dell’insediamento
medievale e l’analisi della cultura materiale, specie dei materiali ceramici.
Una occasione mancata per uno scavo medievale nella Sicilia Orientale è stata la disponibilità
dell’Accademia polacca delle Scienze, che aveva già operato in Francia ed in Italia settentrionale e
si avviava a concludere il cantiere di Capaccio Vecchia, ad assumersi la responsabilità dello scavo
di un sito archeologicamente appetibile come Noto Antica. Ma la cosa non ebbe seguito.

2. GLI ANNI ’80: LA RESIDENZA SIGNORILE


Lo scavo di Brucato aveva fatto conoscere l’aspetto di un abitato rurale tardomedievale nel
momento del suo abbandono, ma non aveva documentato la facies precedente, quella arabo-
normanna. Questo ha convinto la missione francese a spostare il cantiere su un sito che offrisse
i requisiti di un edificio signorile fortificato, perché maggiori sono le possibilità di continuità di
insediamento e maggiore è la visibilità del castello nell’organizzazione dell’abitato e del territorio
circostante. Inoltre il riconoscimento e la pubblicazione nel 1977 da parte di Wolfgang Krönig del
L’ARCHEOLOGIA MEDIEVALE IN SICILIA 349

castello normanno di Caronia, conservatosi quasi integro sotto le stuccature moderne, avevano
rinfocolato l’interesse verso un tema sempre studiato in Sicilia, quello della residenza signorile
arabo-normanna. Dal 1978 al 1989 la missione francese aprì il cantiere a Calathamet, Terme
Segestane nell’entroterra trapanese, dove su uno sperone roccioso sono venuti in luce i resti di
un fortilizio musulmano del X secolo, munito di cinta muraria e fossato, su cui sorsero nel XII
secolo il massiccio dongione quadrangolare normanno e la cappella castrale.
Allo scavo francese si sono aggiunti, negli anni ’80 e ’90, in questo estremo lembo occidentale
della Sicilia, divenuto un osservatorio privilegiato per lo studio dell’insediamento fortificato
siciliano, altri due siti incastellati, che avevano suscitato l’interesse della missione di archeologia
classica della Scuola Normale di Pisa diretta da Giuseppe Nenci, nell’ambito di una esplorazione
a tutto campo dell’antico territorio elimo.
Il palazzo fortificato di Entella (Contessa Entellina) è stato scavato da Alessandro Corretti tra il
1983 e il 1991. Riproduce un compatto spazio residenziale di tipo islamico, organizzato con due
cortili successivi. Il castello di Segesta è stato scavato da Alessandra Molinari tra il 1989 e il 1995.
Un mastio pressocché quadrato a cortile centrale, entro un recinto murario, dominava i vari
complessi abitativi del sito: un abitato islamico con moschea e necropoli, poi un abitato svevo
con la chiesa e il cimitero.
Il tema del castello arabo-normanno di Sicilia, interpretato dal punto di vista architettonico
come dialettica fra edilizia islamica e dongione normanno, ha toccato il problema più generale
del popolamento dell’isola tra tardoantico e medioevo secondo processi di continuità o discon-
tinuità e quello della collocazione storica dell’incastellamento, che ha generato un assetto nuovo
delle campagne, organizzate attorno a borghi arroccati e fortificati.
Questi temi sono stati affrontati in un Seminario organizzato dall’École française a Roma
nel 1996, che, a cantieri conclusi, ha permesso un fertile ripensamento dei risultati degli scavi
da parte di chi li ha condotti. Pieno di suggestioni è ancora l’intervento di J.-M. Pesez, che
ha indicato nella islamizzazione della Sicilia il momento di rottura con la tradizione antica e
la nascita del nuovo assetto dell’isola, quello medievale, segnalando così l’opportunità di una
archeologia islamica siciliana. Si è trattato di una sorta di testamento dello studioso francese.
Infatti gli atti del Seminario, apparsi due anni dopo nel 1998, hanno accolto il necrologio del
pioniere dell’archeologia medievale siciliana.

3. L’ARCHEOLOGIA ISLAMICA
Nel Colloquio Internazionale di Archeologia Medievale del 1974 Vincenzo Tusa aveva auspi-
cato la realizzazione a Palermo di un «Museo della Civiltà araba, che accolga le testimonianze
di tre secoli di storia della nostra Regione, tra i più importanti e direi anche tra i più vivi ed
attuali».
In verità la storia della Sicilia musulmana si è fatta esclusivamente attraverso le fonti scritte
ed è significativo che nella Giornata di Studio tenuta a Roma nel maggio del 1993 a cura del-
l’Accademia Nazionale dei Lincei e intitolata segnatamente “Del nuovo sulla Sicilia musulmana”,
non appare alcun contributo sull’insediamento e sulla cultura materiale della Sicilia araba. La
ricristianizzazione della Sicilia ha cancellato accuratamente ogni aspetto della cultura islamica
nell’isola e ha reso difficile riconoscere le tracce materiali della lunga appartenenza dell’isola
al mondo islamico, specialmente nella parte orientale soggetta alle “pulizie etniche” dei coloni
lombardi già alla metà del XII secolo.
Ma in effetti “del nuovo” negli studi della Sicilia musulmana si era già visto nel 1990, per
merito dell’archeologia militante, nel Convegno organizzato dalla Soprintendenza di Agrigento
a Montevago nella Valle del Belice e curato da Giuseppe Castellana: non è la prima volta che
uno studioso di preistoria si occupa di medioevo.
Lo scavo di contrada Caliata (1988) ha fatto conoscere un abitato aperto berbero di età
normanno-sveva (XI-primi decenni XIII sec.) con unità abitative costituite da semplici vani
isolati di forma rettangolare, stretti ed allungati, con accesso a metà di uno dei lati lunghi ed
orientati diversamente attorno ad un cortile centrale. Questo abitato medievale si sovrappone
ad un precedente abitato tardoantico e bizantino, suggerendo una sostanziale continuità di vita
e di struttura fondiaria.
La tipologia abitativa, estremamente elementare, affine a quella magrebina, appare anche
negli altri siti di cultura islamica della Sicilia occidentale, oggetto di scavo in quegli anni, come
350 ALDO MESSINA

ad Entella e nei quartieri musulmani sorti sopra l’agorà e il teatro della cittadina ellenistico-
romana di Monte Iato.
Ma il contributo più importante del Convegno è stato la individuazione di una tipologia
sepolcrale islamica, che segnala inequivocabilmente la presenza di insediamenti musulmani. Si
tratta di anguste fosse per decubito laterale sul fianco destro con viso rivolto verso la Mecca,
prive di corredo. Aree sepolcrali con questi caratteri antropoidi, già note da vecchi scavi a Ca-
stelvetrano (1872) e nel castello di Lombardia ad Enna (1915) ma non riconosciute, sono state
rinvenute a Caliata, ad Entella, a Monte Iato, sul Monte Maranfusa (scavi di Francesca Spatafora
1986-1989) e nel quartiere Castello S. Pietro a Palermo (scavi Lucia Arcifa 1985-1987). Succes-
sivamente tombe simili sono state individuate anche nella Sicilia orientale a Lentini e a Monte
Catalfaro di Mineo. L’archeologia cemeteriale per la Sicilia medievale può offrire agli studiosi
un grosso potenziale documentario con valore di fossile-guida per la storia del popolamento
delle campagne, ma è mancato finora un censimento delle emergenze superficiali come è stato
fatto nella Spagna settentrionale dagli archeologi catalani.
Il risultato più brillante della archeologia islamica siciliana è stato il rinvenimento della mo-
schea di Segesta, edita da Alessandra Molinari nel 1997, una semplice sala di preghiera di forma
rettangolare a due navate con ingresso e mihrab in asse sui lati lunghi, che riproduce in scala
maggiore il modulo della casa d’abitazione magrebina.
Va infine segnalato il mio tentativo, forse anche velleitario, di riconoscere esempi di edilizia
musulmana in edifici già noti della Sicilia orientale, modificati dal riuso cristiano e classificabili
come mausolei islamici (la cuba a padiglione tetrapilo di Mineo, la cuba esagonale di Comiso,
“La Favorita” presso Noto) o come moschee rupestri (Rometta, Sperlinga).

4. L’ARCHEOLOGIA BIZANTINA
L’archeologia bizantina ha una tradizione ben più radicata in Sicilia, soprattutto nella parte
orientale, corrispondente alla vecchia Soprintendenza di Siracusa, in cui ha operato per oltre
40 anni Paolo Orsi, archeologo a tutto campo che vedeva nella bizantinizzazione dell’isola il
naturale sbocco del suo passato ellenico, interrotto solo dalla conquista araba del IX secolo.
Una infaticabile attività di sopralluoghi nel massiccio ibleo ha permesso al grande archeologo
roveretano di rintracciare la trama degli insediamenti rurali della tarda Antichità, di scavarne i
cimiteri e di studiarne la cultura materiale. Si tratta di agglomerati rurali aperti, caratterizzati
da possenti murature a secco di tipo megalitico o a doppio paramento – adatte ad un clima
caldo – e copertura di tegole “striate”, costituiti da edifici rettangolari monocellulari, aperti su
di un cortile recintato e sparsi in aree di parecchi ettari senza alcuna forma di organizzazione
urbanistica e di strutture di servizio. Carattere pubblico hanno solo le grandi cisterne, segno
di penuria d’acqua, l’edificio di culto che sembra polarizzare la dislocazione delle abitazioni e
l’area cemeteriale.
La stretta affinità di questi agglomerati rurali dell’altopiano ibleo con quelli coevi del mas-
siccio calcareo della Siria settentrionale è stata osservata da André Guillou, brillante studioso
della civiltà bizantina, e può spiegarsi con una comune vocazione di questi altopiani aridi alla
monocoltura dell’ulivo o della vite.
Gli scavi di Paola Pelagatti, tra il 1965 e il 1972, hanno rimesso in luce, sotto la coltre protet-
tiva di una grande duna costiera, i ruderi del porto bizantino di Kaukana, che serviva i villaggi
agricoli dell’altopiano ibleo e ne riproduceva l’urbanistica disarticolata e rada e le tecniche
edilizie. Una nuova campagna di scavo è stata realizzata negli anni ’90 (Giovanni Di Stefano
1995-1996), cui ha fatto seguito la creazione di un parco archeologico.
Lo studio dei villaggi bizantini dell’altopiano ibleo, nonostate la consistenza delle testimo-
nianze monumentali e la rilevanza per la storia del popolamento altomedievale dell’isola, non
ha dato luogo ad una ricerca programmata di vasto respiro. Alla cultura materiale di questi
abitati rurali ha dedicato importanti lavori Anna Maria Fallico. Il villaggio di contrada Giarra-
nauti presso Sortino nel versante ionico degli Iblei è stato l’unico ad essere interessato da uno
scavo stratigrafico (Beatrice Basile 1996) ed è stato segnalato il villaggio ragusano delle contrade
Pianicella e Buttarella (Aldo Messina e Giovanni Di Stefano 1995). Si tratta di insediamenti
aperti, privi di difesa, sostanzialmente agglomerati di fattorie, con luogo di culto, cimitero e
cisternoni collettivi. Una di queste fattorie è stata rilevata nella contrada Costa nel Ragusano, la
cui evoluzione edilizia è esemplare per la storia del popolamento bizantino dell’isola. Si tratta
L’ARCHEOLOGIA MEDIEVALE IN SICILIA 351

di una fattoria “a cortile”, sorta inizialmente senza preoccupazioni di difesa. Successivamente


nello spazio del cortile è stato aggiunto un edificio turrito dando luogo ad una fattoria fortificata
asserragliata attorno ad una torre quadrata adibita alla difesa. La trasformazione è il risultato
della militarizzazione delle campagne siciliane e della istituzione del thema bizantino di Sicilia
nel secolo VIII per la minaccia sempre più pressante dell’Islam. Peraltro la fortificazione delle
fattorie non determina un cambiamento nell’assetto insediativo delle campagne con l’abbando-
no nell’insediamento sparso e l’arroccamento dell’abitato in siti d’altura difesi naturalmente. Il
territorio, invece, viene organizzato attorno ad insediamenti urbani su sperone, difesi da mura,
che provvedono alla amministrazione sia civile che militare. Questi kastra bizantini erano an-
tichi insediamenti come la colonia greca di Lentini e gli abitati indigeni di Mineo e di Modica,
o erano centri di nuova fondazione come Ragusa e Scicli. Erano disposti lungo il margine degli
Iblei a protezione della metropoli bizantina di Siracusa, capitale del thema, e la cui caduta in
mano araba prelude all’assedio e alla distruzione di Siracusa nell’878. Il quadro del popolamento
nell’area iblea sembra segnalare una brusca cesura con la conquista islamica. Nella Sicilia oc-
cidentale i dati delle recognizioni di superficie condotte su vasti comprensori (valle del Belice,
valle del Platani, “Monreale Survey”), indicherebbero, invece, una sostanziale continuità del
popolamento contadino a partire dal tardoantico con una lacuna solo documentaria tra l’VIII e
l’XI secolo, collocando la crisi dell’abitato aperto e l’abbandono dei casali in conseguenza della
deportazione dei contadini musulmani in età sveva.
Il concetto di “incastellamento”, uno dei cavalli di battaglia della storiografia medievale di
questi ultimi decenni, che interpreta la storia di un territorio nella dialettica tra abitato aperto
di pianura e abitato fortificato d’altura, forse non qualifica in modo adeguato la condizione
storica della Sicilia medievale. È stato richiamato a proposito della militarizzazione bizantina
dell’VIII secolo, ma anche del riordinamento territoriale fatimita del X secolo, che prevedeva
per la Sicilia l’abbandono delle campagne e la concentrazione della popolazione contadina in
città fortificate in siti eminenti, il sistema insediativo della Sicilia tardomedievale, quello delle
“città contadine”.
Il concetto di incastellamento è la chiave di lettura che accomuna – insieme ad un più cosciente
interesse nei riguardi della cultura materiale – le relazioni del Primo Congresso Internazionale di
Archeologia della Sicilia Bizantina, tenutosi a Corleone tra il 28 luglio e il 2 agosto 1998. Per la
prima volta l’analisi delle evidenze archeologiche ha investito tutta l’isola secondo comprensori
geografici unitari, superando la barriera storiografica tra Sicilia orientale e Sicilia occidentale.
Gli atti, usciti nel 2002, si aprono con una prolusione di Santi Luigi Agnello, indimenticato
maestro di Archeologia cristiana e bizantina, che suona come un sommesso congedo dalla scienza
e dalla vita.

5. LA CIVILTÀ RUPESTRE
Nel 1981 è approdato dalla Puglia in Sicilia, a Catania, il Sesto Convegno Internazionale di
Studio sulla Civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia, dedicato alla “Sicilia rupestre
nel contesto delle Civiltà mediterranee”, all’insegna di un altro cavallo di battaglia della storio-
grafia medievale di questi ultimi decenni, con caratterizzazioni eminentemente meridionalistiche,
quello della “civiltà rupestre”, come alternativa alla archeologia urbana.
Gli abitati trogloditici iblei testimoniano un sistema insediativo ben distinto da quelli tradi-
zionali di superficie. Di essi non è agevole la collocazione cronologica per l’assoluta scomparsa
di resti di cultura materiale. Paolo Orsi per primo comprese trattarsi di un fenomeno medievale
e lo attribuì al popolazione contadina della Sicilia bizantina prearaba. Sul trogloditismo siciliano
ha già richiamato l’attenzione Giovanni Uggeri sul primo numero della Rivista «Archeologia
Medievale» del 1974, e il censimento degli insediamenti rupestri è stato da me eseguito margi-
nalmente al Catalogo delle chiese rupestri della Sicilia, pubblicato dall’Istituto Siciliano di Studi
Bizantini e Neoellenici “Bruno Lavagnini” di Palermo. Al trogloditismo ibleo si è aggiunto, non
meno importante, quello del comprensorio interno di Sperlinga e Nicosia. Nel 2000 è stato
eseguito il rilevamento integrale dell’abitato rupestre della Cava Grande sul versante ionico degli
Iblei, presentato nel Convegno tenuto ad Avola nel giugno 2001.
Oggi il trogloditismo siciliano sembra sempre più coprire quella lacuna documentaria tra IX
e XI secolo, che lamentano gli archeologi medievisti di Sicilia.
352 ALDO MESSINA

6. L’ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE


Non si può concludere questo succinto bilancio della ricerca archeologica medievistica in
Sicilia senza accennare ad un settore altrettanto importante di quello della storia dell’insedia-
mento e che avrebbe potuto essere, a detta di J.M. Pesez, l’elemento motore dell’archeologia
medievale in Sicilia: la maiolica siciliana. A partire dai lavori pioneristici negli anni ’50 e ’60
di Antonino Ragona, condotti con un approccio archeologico e mirati alla individuazione di
fornaci e di centri di produzione, si è formata una generazione di studiosi, ottimi conoscitori
della produzione ceramica medievale siciliana ed insieme sensibili alla topografia e alla storia
dell’insediamento (F. D’Angelo, C. Guastella, S. Fiorilla, L. Arcifa, F. Ardizzone).

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Dinamiche insediative in Sicilia
tra tarda antichità ed età bizantina.
La provincia di Ragusa

STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

PREMESSA
Ci piace dedicare alla memoria di Riccardo Francovich questo saggio, che riprende in parte
problemi affrontati in un articolo che fu pubblicato nel 1974 nel primo numero della rivista “Ar-
cheologia Medievale”, da Lui diretta, ed era relativo all’insediamento rupestre con particolare
riguardo alla Sicilia sud-orientale. Riprenderemo ora l’indagine su questo territorio, allargandolo
a tutto il periodo che va dalla tarda antichità alla fine dell’età bizantina, ossia dal IV al IX secolo.
A partire da Paolo Orsi, il primo studioso che con atteggiamento scientifico ha indagato questo
periodo1, e dalla sintesi di Biagio Pace, che dilatava la ricostruzione della storia della Sicilia antica
all’archeologia dell’età bizantina, molti altri contributi più recentemente hanno ampliato le nostre
conoscenze sull’argomento apportando ulteriori chiarimenti a problemi specifici. Ma dobbiamo
purtroppo riconoscere che, nonostante tutto, manca ancora un’indagine archeologica, basata su
scavi stratigrafici mirati e sicuri, che ci permetta di avere conoscenze certe, in particolare sulla
cronologia dei materiali archeologici più comuni diffusi tra il VII e il IX secolo. Dobbiamo tut-
tora ricorrere alla presa d’atto di situazioni archeologicamente evidenti in quanto conservate nel
paesaggio, come i sepolcreti sub divo, gli arcosoli, gli ipogei e le catacombe, mentre ci manca la
conoscenza dei relativi insediamenti, salvo che per quelli cosiddetti ‘megalitici’, che proprio per
la loro consistenza monumentale si sono conservati fino alla metà del secolo scorso, ma che solo
in minima parte sono stati indagati, soprattutto dall’Orsi. Ma nonostante questa constatazione
riduttiva, ci pare importante tentare una ricerca intesa a cogliere il divenire dell’insediamento in
un’area che ci è particolarmente nota per autopsia, quale è quella del settore sud-orientale della
Sicilia, che ricade attualmente nella provincia di Ragusa e che sul piano geografico si estende a
ventaglio dal massiccio del monte Lauro al Mediterraneo tra le vallate dei fiumi Dirillo e Tellaro
(Fig. 1).
La vicenda insediativa della Sicilia risulta significativamente diversa, soprattutto per periodiz-
zazione, da quella delle regioni della penisola italiana. La Sicilia aveva conosciuto in età classica
un ruolo molto accentuato delle città, specialmente delle fiorenti colonie greche; ruolo che si era
bruscamente ridotto con le tante distruzioni subite nel corso delle guerre puniche e delle guerre
servili e con i pesanti oneri imposti dai Romani alle numerose comunità decumane2. Soltanto
alcune città si ripresero moderatamente, come quelle scelte per dedurvi le colonie augustee, del
resto tutte antiche città costiere. Non si ebbe in Sicilia alcuna nuova fondazione, in stridente
contrasto con il resto del mondo romano.
Nel corso del periodo romano imperiale, i privilegi concessi ai senatori in Sicilia vi facilitarono
la costruzione di sontuose ville, all’interno di estesi e redditizi latifondi, essenzialmente granari,
ma spesso con associate produzioni oleo-vinicole3 e talora con attività conserviere (garum) ed
estrattive (sale, zolfo, allume). Anche sulla costa meridionale della Sicilia, al posto delle città
decadute o scomparse, troviamo attive le campagne, che avevano continuato ad essere sfruttate
per il mantenersi intatto del loro ruolo economico. Lo ha dimostrato l’archeologia documentan-
do numerose fattorie e alcuni piccoli nuclei rurali (villae e vici) sparsi nel territorio agricolo. Di
questi, come poi degli insediamenti più tardi, tracceremo una rapida rassegna, particolarmente
utile oggi, dopo che la bonifica agraria effettuata negli ultimi decenni con potenti mezzi meccanici
ne ha cancellato molti, lasciando più agio alle speculazioni selvagge.
1
MESSINA 1972-73, p. 229-36. vedremo – invocheranno protezione sul vigneto, l’oliveto e il
2
Cr. SORACI 2003, pp. 289-40. campo di grano, come nel caso di Margi nel Modicano.
3
Anche le tarde iscrizioni agricole profilattiche – come
356 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 1 – Provincia di Ragusa. Oltre ai comuni, sono indicati i principali siti tardoantichi e bizantini ricordati
nel testo.

In particolare, nell’area considerata possiamo ricordare per l’età romana imperiale gli insediamenti che si
susseguono lungo la fertile vallata del fiume Dirillo dalla foce, dove fiorirono ville e fattorie a Dirillo (Pez-
zalistingo e Monello) e a Cozzo-Cicirello4 (anche se le strutture costruite in opus reticulatum con ricorsi
di laterizi vanno riferite ad un edificio pubblico, probabile stazione di sosta lungo la Via Selinuntina presso
il bivio con la Via Elorina)5, agli insediamenti rurali di Acate (Piano Pirrera, Casale, Codda, Pezza Gran-
de, Bidini), Mazzarrone, Ragoleto, Dicchiara e Chiaramonte, dove Gulfi ha un notevole concentramento
demico che dobbiamo mettere in relazione con la stazione di sosta di Hybla, documentata in questa zona
dagli Itinerari sulla già ricordata Via Selinuntina6. Lungo la vallata dell’Ippari, insediamenti si dispongono
sulle collinette che la fiancheggiano, come Camarina, decaduta dal ruolo di città a villaggio rurale, Cymbe
– Piombo7, Nipitella, Torrevecchia, Targena, Merlino-Deserto, San Lio e più all’interno Cifali. Sul Vallone
della Fontana una villa della prima età imperiale con mosaico è indiziata a Vigna di Mare; poco a monte,
tracce di età romana sono state riconosciute presso le case di Passolato8. Lungo la vallata dell’Irminio abbiamo
gli insediamenti di Maulli, Case Celso e Maestro presso la foce e in collina ville di un certo impegno del III

4
UGGERI 1962, p. 80 ss. (si segnalano i bolli laterizi Albii e 6
UGGERI 2004.
Piae); ID. 1963; ID. 172-73; DI STEFANO 1984-85, p. 795. 7
DI STEFANO 1984-85, pp. 782-84.
5
UGGERI 2004. 8
SCROFANI 1987, p. 104 s.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 357

secolo d.C. al Cozzo delle Anticaglie, in mezzo alla depressione dei Margi (quota 457)9, e a Orto Mosaico
presso Giarratana10; sul vallone Modicano insistono Scicli, il grosso centro di Mutica, città stipendiaria,
Treppiedi e Villa Cassaro. Più a est infine si susseguono la villa marittima di Sampieri11, Ispica (Tyrakinai?),
Focallo e il Castellazzo della Marza (l’Apollinis promontorium) (Fig. 1). In sostanza, l’insediamento romano
si distribuisce di preferenza lungo le vallate fluviali e presso la costa.

1. IL PERIODO TARDOANTICO (330-535)


Una notevole ripresa economica in Sicilia si ebbe a partire dal IV secolo, quando cambiarono
gli interessi dell’impero romano nel Mediterraneo, come riflesso immediato della fondazione di
Costantinopoli, scelta come nuova capitale, sulla quale venne dirottato tutto il grano egiziano. Di
conseguenza, all’incirca dal 330 d.C. la Sicilia fu chiamata a rifornire i fiscalia horrea di Roma e
al tempo stesso divenne una preziosa tappa intermedia per i più consistenti e vitali rifornimenti
di derrate che dall’Africa giungevano a Roma12. Ma poiché oramai la tradizionale struttura poleo-
grafica era venuta meno in estese aree della Sicilia, si constata che i centri produttivi dei latifondi
– riconoscibili in genere dalla denominazione prediale, tipo Calvisiana – diventano nel IV secolo
i nuovi poli vitali di aggregazione demica e di riferimento itinerario13. L’importanza della Sicilia
come granaio di Roma e di Ravenna si accrescerà ulteriormente a partire dal 430, in seguito al-
l’occupazione vandalica di Cartagine, che priverà l’Italia dei rifornimenti africani, e tale resterà
almeno fino al 535, quando l’Africa verrà nuovamente ricongiunta all’impero da Giustiniano.
Nella nostra area l’insediamento di quest’epoca ci è noto direttamente solo da Caucana, un
abitato costiero di primaria importanza e che è stato scavato estensivamente; ora gli si viene
affiancando con funzione profondamente diversa il coevo villaggio di Giarranauti dislocato sulla
montagna iblea. Indirettamente, invece, l’insediamento è attestato da una cospicua serie di aree
funerarie, articolate in catacombe, ipogei, arcosoli e fosse sub divo, fatta oggetto di ricerche sin
dall’Ottocento e riferita genericamente al periodo dal IV al VI secolo. In quest’ambito si posso-
no considerare vere e proprie catacombe le più vaste ed organiche escavazioni che presentano
impianto planimetrico regolare ed andamento prolungabile, articolandosi talora su più corridoi;
queste possono aver risposto alle esigenze delle piccole comunità dei villaggi rurali. Gli altri ipogei
di sviluppo più limitato sono da ritenere sepolcri di famiglia, utilizzati dai parenti e forse anche
dai villici del dominus fondatore ed in questo caso vanno messi in relazione con una sovrastante
fattoria del kleros, del latifundium e poi della massa; di solito hanno un impianto concluso, a vano
quadrangolare assimilabile ad un triclinium con arcosoli sprofondati sulle tre pareti; possiamo
supporre che questo ambiente centrale fosse destinato ai banchetti funebri, anche se non vi è
stata riconosciuta una mensa. In questi ipogei una tipica soluzione dell’area iblea, come vedremo,
è quella del baldacchino centrale, che enfatizza le tombe dei fondatori o domini; si tratta di un
tegurium a forma di pilastro rettangolare, risparmiato in corso d’escavazione al centro dell’am-
biente che si vuole ottenere; viene reso accessibile dai lati con archi tra colonnine o pilastri e vi
vengono scavate all’interno di norma due tombe.
Questi sepolcreti documentano numerose presenze cristiane, ma non ci permettono di circoscri-
vere cronologicamente l’inizio della penetrazione del cristianesimo, dal momento che le iscrizioni
datate sono rare e comunque non sono anteriori al 396; cosa che non può destar meraviglia, se si
consideri che persino a Siracusa la più antica iscrizione che rechi una data consolare sicura è del
34914. A maggior ragione l’indicazione della data sulle iscrizioni non può illuminarci sul periodo
paleocristiano dell’area iblea, dal momento che qui si trattò – per quel che sappiamo oggi – di
una moda colta dell’area tra Ragusa e Ispica, che a Modica gravita attorno all’anno 400 e che in
Cava d’Ispica è circoscritta nel limitato lasso di tempo di sette decenni, che va dal 398 al 468,
che è anche la data epigrafica estrema – per ora – di un sicuro utilizzo degli ipogei rurali15. Va
notato che taluni sepolcri e ipogei isolati rivelano sicure deposizioni ebraiche (Camarina-Piombo,
Comiso, Gesira, Cava Lazzaro), anche queste senza precisi riferimenti cronologici16, come del

9
PACE 1919, p. 86 ss. (terme, sculture e epitaffio in greco); 13
UGGERI 1982-83, pp. 424-60; ID., 1997, pp. 35-52; ID.,
DI STEFANO 1993-94, pp. 1402-3. 1997-98, pp. 299-364; ID., 2004.
10
DI STEFANO 1993-94, pp. 1403-6 (con mosaici); ID., 1997, 14
FERRUA 1946-7, n. 5; ID. 1982.83, p. 8, n. 18.
p. 201; ID., 2001; ID., Nuovi mosaici 2005, pp. 281-86. 15
RIZZONE 2004, p. 91.
11
PACETTO 1872, p. 45; CAPUTO 1935-36, p. 420. 16
DI STEFANO 1998; 2002; RIZZONE – SAMMITO 2001, pp.
12
Cfr. POLLINA 2001-02, pp. 235-39. 12, 14.
358 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

resto i materiali ebraici di Caucana e di Cifali17.


Purtroppo non conosciamo ancora la maggior parte degli insediamenti corrispondenti a que-
sti sepolcreti della tarda età romana imperiale, ma certo doveva trattarsi di villaggi rurali situati
accanto ai rispettivi cimiteri, in aree pianeggianti, perpetuando i modi insediativi caratteristici
dell’età romana. Infatti, a differenza dell’Italia settentrionale e centrale, la Sicilia restò tranquilla
e al riparo dalle invasioni barbariche, ad eccezione di qualche incursione dei Vandali dopo la
metà del V secolo.
Una constatazione globale su questi villaggi rurali riguarda la lunga persistenza dell’uso della
lingua greca, mentre solo una limitata élite ufficiale, ecclesiastica, burocratica o militare, ricorreva
al latino. Lo provano le iscrizioni rinvenute in questo territorio, dove sono scritte in greco le
moltissime più povere, in latino quelle rarissime più ufficiali, che segnaleremo.
1.1 COMISO
Del tutto eccezionale risulta in quest’area la villa signorile di ampie proporzioni scoperta nel 1934 e che
gravitava attorno alla ricca sorgente che sgorga al centro di Comiso, dove gli scavi hanno messo in luce
porzione di un edificio termale con ambienti ottagonali absidati, pavimentati con mosaici figurati in bianco
e nero. L’edificio termale di Comiso rivela un tardo rifacimento dei pavimenti in opus sectile attribuito alla
prima metà del V secolo 18, indizio di un prolungato benessere. Nell’area è stata scoperta una laminetta
aurea datata al V secolo, un amuleto esorcistico di matrice giudaica con un fitto testo in greco a protezione
di Schybos, figlio di Marylleina19.
Il vasto sepolcreto disseminato ad arco nell’abitato di Comiso, dal Saliceto a San Leonardo e all’Annunziata,
caratterizzato da fosse sub divo coperte da lastroni calcarei, è datato dal IV al VI secolo d.C.20 Ne proven-
gono l’iscrizione greca di Vittoria (Bictoria), una lastrina marmorea incastonata con il piombo in un cippo
calcareo di mezzo metro d’altezza con un’altra iscrizione in greco, forse aggiunta e poco comprensibile, con
uno scongiuro di incerta attribuzione cristiana21, e altre testimonianze come le iscrizioni gnostiche (abraxa)
ed ebraiche attribuite al IV-V secolo, in primis il famoso amuleto costituito da una laminetta aurea arrotolata
entro un piccolo contenitore, rinvenuta nel 1876 nel sepolcreto di San Leonardo, scritta in caratteri ebraici
con scongiuri in un misto di ebraico e aramaico22 (Fig. 2 a). Un gruppo di quattro catacombe si concentra
poco sopra l’abitato moderno nella Cava Porcara e una di queste si segnala per la presenza di un sepolcro
a baldacchino23 (Fig. 2 c).
Poco dopo il 450 le zone vicine alla costa subiscono un trauma per effetto delle scorrerie dei Vandali pro-
venienti da Cartagine. Sembra fornirne un’evidenza archeologica proprio la scoperta, avvenuta nel 1936 a
Comiso in via Carmagnola, di un tesoro di oltre un migliaio di monete d’oro24; infatti, in base alle monete
più recenti, esso risulta chiuso intorno al 450 e non più recuperato dai proprietari, che furono evidente-
mente travolti da una razzia vandalica.
1.2 CAUCANA
Del momento successivo al 330, quando la Sicilia ha riacquistato un ruolo centrale nel Mediterraneo,
abbiamo nella nostra zona un importante riflesso positivo nella fondazione dell’insediamento portuale di
Capo Scaramia, che sarà servito da ‘caricatore per l’estrazione dei grani siciliani’ e da preziosa tappa del
grano, dell’olio, delle carni e delle altre merci africane che tramite il porto di Cartagine andavano a rifor-
nire l’annona di Roma. L’epoca della fondazione è ora confermata dall’analisi delle monete rinvenute negli
scavi, in quanto esse cominciano con emissioni della metà del IV secolo25.
Questo vasto comprensorio archeologico è stato identificato con l’antica Caucana a partire da Tommaso
Fazello alla metà del Cinquecento26. L’identificazione – benché talora rimessa in discussione27 – è da ritenere
sicura, perché fondata sul dato tolemaico del II secolo d.C., che ricorda un porto di Caucana localizzato
sulla costa meridionale della Sicilia tra Camarina e il Pachino e più precisamente quasi a metà strada tra il
promontorio Bruca o Bucra (a sud di Camarina) e la foce del fiume Motykanos, ossia la fiumara di Modica

17
Per le scarse tracce epigrafiche giudaiche della Sicilia 25
GUZZETTA 2005.
meridionale v. NOY 1993, nn. 155-60. 26
PACE 1908, p. 267 ss.; ID., 1927, p. 130 ss.; ID., 1949,
18
ARIAS 1937, p. 459 ss.; PACE 1945, p. 165 ss.; ID., 1949, IV, p. 101; ORSI 1942, p. 4 ss.; PELAGATTI 1968-69, pp. 344-57;
IV, p. 169. EAD., 1972, pp. 89-100; PELAGATTI, DI STEFANO 1999.
19
DI STEFANO – DE ROMANIS – BEVILACQUA 2003, p. 373 ss.; 27
Si è opposta la distanza di solo 200 stadi da Siracusa,
BEVILACQUA – DE ROMANIS 2005, pp. 247-52. data da Procopio, che porterebbe a restare sulla costa ionica e a
20
PACE 1949, IV, p. 135. pensare ai ruderi della Cittadella di Vendicari, forse Ina di Cic.
21
P. E. ARIAS, in Not. Sc. 1937, p. 467; FERRUA 1941, p. 49 II Verr. III, 43, 103, e Ptol. III, 4, 7, con porto detto Phoinikous
s., n. 72; DI STEFANO 1999, p. 44, fig. 36. limèn da Ptol. III, 4, 7 (per quest’area v. UGGERI 2004, p. 230).
22
CALDERONE 1955, pp. 489-502; Noy 1995, p. 156; LA- Ma sembra più verisimile una trasmissione erronea della cifra
CERENZA 1998, pp. 300-305; BEVILACQUA 1999, p. 70, fig. 64; in Procopio, che in Tolemeo, dove è vincolata dalla successione
SIMONSOHN 1999, p. 510, fig. 282. delle località lungo la costa meridionale dell’isola. Improbabile
23
PACE 1949, IV, p. 169; GARANA 1961, pp. 114-116. anche pensare a due località omonime.
24
PANVINI ROSATI 1952, pp. 422-40.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 359

b c
Fig. 2 – Comiso: a, laminetta aurea ebraica; b, iscrizione magica da Crocilla (Museo di Ragusa); c, catacomba
di Cava Porcara, planimetria (da B. Pace).

e Scicli 28. Il lacus Cocanicus ricordato nel I secolo d.C. da Plinio potrebbe essere messo in relazione con
questo porto di Caucana e venire localizzato di conseguenza nel Pantano del Cannatello, che limita verso
ovest il complesso archeologico e che fu adoperato ancora dai Normanni29. Un porto naturale su questa
costa era frequentato pertanto da secoli prima della fondazione tardoantica.
Il fenomeno della nascita di questo grosso abitato appare eccezionale per quel che sappiamo in età romana
della costa meridionale della Sicilia, dove fioriva oramai solo Agrigento. È evidentemente un effetto della
mutata situazione tardo antica e per ora possiamo accostarle soltanto lo sviluppo delle antiche Thermae
Selinuntiae (Sciacca), dove un’epigrafe (databile negli anni tra il 340 e il 350) ci informa della costruzione
ex novo di quell’importante stazione del cursus publicus (Aquae Labodes) che vediamo evidenziata sulla
Tabula Peutingeriana30. La funzione di questa nuova fondazione, che dominava il porto dell’attuale Sciacca,
non può essere stata che di testa di ponte per l’Africa e la sua importanza durerà perciò finché saranno vivi i
commerci con Cartagine; nel VII secolo difatti è proprio nell’area di Sciacca che risulta documentata la sola
diocesi della costa sud della Sicilia, a parte l’antica Agrigento, anche se la sede non sarà posta direttamente
a Sciacca sul mare, ma – a quanto pare – prima sulla retrostante altura di Triocala e poi sul colle Cronio
sovrastante le terme di Sciacca31. Evidentemente tutt’e due i porti, Caucana e Sciacca, sono motivati dalla
nuova situazione venutasi a creare come conseguenza della già ricordata politica di Costantino.
Ritornando a Caucana, è interessante notare che vi possediamo forse una testimonianza epigrafica analoga
in due frammenti di una lastra marmorea monumentale, rinvenuti da un marinaio sotto il quartiere tar-
doantico di punta San Nicola32; ora ricomposti nel Museo di Ragusa, ma fortemente lacunosi, documentano
l’importanza annonaria del porto, dato che vi è ricordato un praefectus annonae, attivo sotto un imperatore
che subì la damnatio memoriae, non sappiamo quale tra il III e la metà del IV secolo.
La funzione principale di Caucana era certo quella portuale, sia per la distanza minima che la separa da
Malta, sia per l’abbandono ormai secolare del porto interno di Camarina. Lungo l’importuosa costa ca-
marinese un punto opportuno di approdo può essere stato individuato infatti in questa zona per il riparo

28
Ptol. III, 4, 3. ROMANIS 2004, pp. 303-312; MANGANARO 2005, p. 40. Non
29
Plin. N.H. XXXI, 7, 73. Il toponimo deriva dal qana-t c’è motivo di negare la pertinenza dell’iscrizione al porto di
(emissario) scavato per bonificare la laguna. Caucana, dal momento che nel mare davanti al promontorio
30
UGGERI 2004. si estende lo sfasciume dei ruderi dell’abitato, che viene eroso
31
DARROUZÈS 1981, pp. 222, 242, 315. annualmente dalle mareggiate.
32
PACE 1927, p. 165, 34; MANGANARO 1989b, p. 185; DE
360 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 3 – Caucana: a, planimetria


generale dell’insediamento in
contrada Anticaglia; b, plani-
metria di un isolato (N. 17).
b

offerto a ovest dall’insenatura del Cannatello e a est dalla lunga scogliera paralitoranea semisommersa,
che diede il nome alla Punta della Secca e sulla quale si infrangono i marosi lasciando un bacino tranquillo
lungo la bassa costa rocciosa.
L’abitato di Caucana era articolato infatti in diversi nuclei dislocati sulla fascia costiera che va da Cala San
Nicola a Puntasecca e alla Forgia delle Casuzze. Dai ruderi sempre a vista di San Nicola, mai fatti oggetto
di scavi sistematici, provengono tra l’altro anfore africane e orientali, pentolame di Pantelleria e monete che
vanno almeno dalla metà del VI alla metà del VII secolo33. I ruderi più orientali di Caucana erano noti da
tempo e venivano definiti con i toponimi eloquenti Anticaglia e Casazze. Questo settore è stato parzialmente
scavato e ne è quindi possibile una valutazione34. Esso risulta disorganico, sparso e aperto (Figg. 3, 4 a). Le
monete ne documentano la fioritura tra la metà del IV e il IX secolo d.C. 35. È stata riportata in luce una
chiesa, che presenta una fase di IV secolo e rifacimenti di VI; essa si articola in tre navate separate da pila-
stri, con abside semicircolare centrale; fu poi aggiunto davanti il nartece; nel VI secolo venne pavimentata
a mosaico almeno la navata centrale, che presenta una decorazione con animali entro ottagoni alternati a
quadrati minori, incorniciati da trecce36 (Fig. 5).
I singoli edifici – ora sopraffatti dalla speculazione edilizia – erano costituiti da diversi ambienti e talora
avevano un recinto ellittico. Un isolato (N. 17) più regolare con sette ambienti allineati, forse magazzini,
resta a sud della chiesa; ma analizzandolo appare chiaro che esso è il risultato del progressivo addossarsi
l’uno all’altro di vari ambienti, cominciando da quello più a ovest (dal XII al V; Fig. 3 b). Si è creduto rico-
noscere un monastero; si è pensato anche ad un edificio termale e ad uno di carattere commerciale (Fig. 3
a). Alcuni edifici hanno almeno un piano superiore, come quello isolato sulla spiaggia presso Puntasecca (il
cosiddetto ‘palazzo’, N. 22); si riconoscono scale e fori per le travi dei solai. Porte e stipiti sono di conci; le
finestre sono minuscole e spesso a stipiti monolitici. Le murature utilizzano pietrame locale e molti conci
di calcarenite, chiaramente reimpiegati e che provengono da Camarina 37; la malta è terrosa e gli intonaci
interni ed esterni sono grossolani.

33
Per le monete di Giustiniano e di Costante II v. GUZZETTA ricordiamo i vetri, le anfore, le lucerne africane e le brocchette
2005, p. 187 s. acrome cordonate; del tutto eccezionale il materiale arabo e
34
DI STEFANO 1997-98. medievale: FALLICO 2005.
35
GUZZETTA 2005: dalla seconda metà del IV secolo all’878, 36
DI STEFANO 1997.
ossia alla caduta di Siracusa in mano araba. Degli altri materiali 37
UGGERI 1962.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 361

a b
Fig. 4 – Caucana: a, veduta di un edificio in contrada Anticaglia; b, chiesetta. Tomba con iscrizione mu-
siva.

Figg. 5-6 – Caucana. 5. Planimetria generale


della chiesetta; 6. Sepolcreto dietro la chiesetta.
Tomba a baule con croce musiva.
362 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Come Sciacca, anche Caucana poteva assolvere alla funzione di testa di ponte della Sicilia verso l’Africa,
anche tramite lo scalo tecnico di Malta. Caucana mostra infatti molti legami culturali con l’Africa, palesi
nelle case a recinto ellittico e soprattutto nella chiesa (Fig. 5). Questa presenta tombe privilegiate disposte
all’interno della chiesa nella navata sinistra e nel nartece e all’esterno dentro un recinto ellittico dietro
l’abside; queste ultime presentano la copertura a cupa (o baule), che era tipica nel VI-VII secolo del bacino
occidentale del Mediterraneo e che ritroviamo nella vicina Pozzallo e a Tropea in Calabria38. Le cupe sono
sempre intonacate, ma talora sono decorate a rozzo mosaico con croci (Fig. 6) e altri motivi, secondo l’uso
africano. Anche il pavimento del nartece, che è più basso e collegato con gradini, ospitava delle sepolture,
che qui erano coperte ovviamente in piano e talora decorate a mosaico. La prima da nord, quindi in posizio-
ne di rilievo, al di sotto di un intonaco tardivo lascia intravedere l’originaria epigrafe funeraria a mosaico,
redatta eccezionalmente in latino (Fig. 4 b), confermando come questo centro fosse particolarmente legato
all’Africa; in questo caso si potrebbe pensare ad un ecclesiastico di cultura latina, forse di quelli fuggiti
dall’Africa dopo l’occupazione vandalica del 429. Dall’Africa Caucana ha ricevuto inoltre moltissimo va-
sellame ceramico da mensa e da trasporto e pietrame giunto come zavorra (marmo serpentino africano,
graniti). La floridezza commerciale del porto spiega anche la presenza giudaica, attestata da una lucerna
con la menorah 39.
È proprio a Caucana che nel 533 Belisario concentra un’armata bizantina di 18000 uomini per salpare
alla volta di Malta nella spedizione contro il regno dei Vandali40. Belisario sconfisse i Vandali e conquistò
rapidamente Cartagine, ricongiungendo così l’Africa all’Impero di Bisanzio. Dal 535 Caucana sarà diventata
perciò una base logistica per la guerra gotica, anche se il fronte delle operazioni si sarebbe presto spostato
sulla penisola italiana. Un piattello d’argento bizantino con iscrizione greca, conservato nell’Antiquarium
di Camarina, viene riferito al VI secolo; potrebbe riferirsi a questo periodo anche un timbro rettangolare
in bronzo con scritta in greco, raccolto nel 1933 sulla spiaggia di Punta Secca41.
Dalla fine del VII secolo, in seguito alla caduta di Cartagine in mano agli Arabi, i commerci si ridussero
rapidamente e di conseguenza la funzione di Caucana venne ad esaurirsi sul piano commerciale, mentre sul
piano strategico questo caposaldo fu mantenuto dai Bizantini fino alla caduta di Siracusa nell’878, come
attestano i rinvenimenti monetali di Caucana42, segno che la flotta bizantina riusciva ancora a controllare
tutta la costa della cuspide sud-orientale dell’isola.
1.3 INSEDIAMENTI MINORI PRESSO CAUCANA
Nei dintorni di Caucana sorsero diversi insediamenti sparsi, indiziati dai sepolcreti, intagliati nei costoni
rocciosi e che presentano pochi arcosolii e tutto attorno semplici fosse sub divo, ma talora anche ipogei e
vere catacombe. Negli ipogei più elaborati si notano spesso tombe privilegiate, le quali vengono collocate in
posizione centrale, isolate e contraddistinte da un baldacchino (tegurium), che spesso è il fulcro generatore
attorno al quale ruota la restante escavazione. Potrebbe pensarsi alle sepolture dei fondatori dell’ipogeo,
forse domini di soprastanti latifondi, attorno ai quali si seppelliscono i membri della famiglia e i villici43.
Gli ipogei a tegurium cominciano certo entro il IV secolo, dato che la catacomba A di Treppiedi – come
vedremo – ospitava una deposizione datata nel 39644. Questa peculiare soluzione architettonica sottolinea
lo stretto legame anche del territorio retrostante a Caucana anzitutto con Malta e con le sue escavazioni
funerarie45, ma forse anche con l’Oriente46; soprattutto se si considera che questa peculiare caratteristica
architettonica si ferma alle porte di Siracusa, senza interessare la capitale47.
Poco a est di Caucana, presso Marina di Ragusa, una catacomba con arcosoli fu riconosciuta da Luigi Ber-
nabò Brea nella cosiddetta Grotta della Taddarita48.
Poco a nord della Cala di San Nicola un villaggio si estendeva su un dosso roccioso sopra la depressione
del Cannitello, presso il vallone della Fontana, ed aveva un sepolcreto con tombe sub divo49; come indica
la ceramica, esso perdurò dall’età augustea fino al VII secolo. La sottostante depressione, una laguna boni-
ficata dal barone Guglielmo Vitale all’inizio dell’Ottocento, potrebbe corrispondere al lacus Cocanicus di
Plinio50 e al Kaukana limèn di Tolemeo, scalo sostitutivo del porto – pure endolagunare – della decaduta
Camarina e antefatto della fondazione tardoantica di Caucana.
Contiguo era il villaggio del Mulino Vecchio (o Mulinazzu) e della soprastante Casa Scattarelle, sempre
sul Vallone della Fontana; il relativo sepolcreto di fosse sub divo presentava anche piccoli ipogei, dai quali
provengono due iscrizioni in greco, che furono donate da Giovanni Oliveri a Francesco Saverio Cavallari
per il Museo di Siracusa (ora nel Museo di Ragusa): quella lapidea di Trygete non è esplicitamente cristiana,

38
DI GANGI, LEBOLE 2003, p. 747, fig. 1. 44
FERRUA 1982-83, p. 8, n. 18.
39
Cfr. BUCARIA 1998, pp. 259-69; HACIILILI 2001. Da 45
STUHLFAUTH 1898; BECKER 1913; ZAMMIT 1926; FERRUA
ricordare l’analoga lucerna dalla vicina Cittadella (Siracusa, 1949; G. AGNELLO 1957; MESSINA 1971, p. 14; TESTINI 1980, p.
Museo). 277; BUHAGIAR 1986; E. MILITELLO 2001, p. 517; CAVALLARO 2005.
40
Procop. Bell. Vand. I, 14. 46
Ad esempio in Siria nel sepolcreto rupestre di Beşikli
41
Ora al Museo di Siracusa, su due righe: “Ilario, vivi in a Seleucia Pieria, presso la foce dell’Oronte: UGGERI 2007,
Dio”: P.E. ARIAS, in Not. Sc. 1937, p. 472; GENTILI 1969, p. p. 161.
22; SEG 51, 2001, n. 1196. 47
TESTINI 1980, p. 275.
42
GUZZETTA 2005, pp. 194, 196. 48
L. BERNABÒ BREA, in Not. Sc. 1947, p. 255.
43
Per l’ambiente agrario siciliano dell’epoca v. RIZZO, 49
ORSI 1942, p. 4.
Tensioni 1988. 50
Plin. N.H. XXXI, 7, 73.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 363

mentre è certamente cristiana l’altra, incisa su un comune mattone quadrato, che contrassegnava la tomba
del presbitero Trifone51 (Fig. 7 a-b).
Nel contiguo sito della Pirrera, che prende nome da una vasta e profonda latomia – forse sfruttata già in
età classica per Camarina – ora circondata da un alto muro, si aprono piccole catacombe con arcosoli alle
pareti e fosse nel pavimento52 (Fig. 8, 12 a). Nelle rocce affioranti dei terreni circostanti sono scavati singoli
arcosoli e tombe a fossa.
Qualche centinaio di metri a est della Pirrera dovette sorgere il vasto insediamento relativo, che la ceramica
di superficie assegna almeno al IV-VI secolo. In esso si inserisce la chiesa scavata nel 1962 da Gino Vinicio
Gentili (Fig. 9). La chiesa è preceduta da nartece, ha tre navate e abside centrale orientata, inquadrata
all’esterno in un recinto rettangolare, cui si collegano altri ambienti. È larga m 12,5 e lunga 18; i muri di
grosso pietrame sono conservati per 40/50 cm d’altezza; il presbiterio era soprelevato. Nelle tre navate
conserva resti dei ricchi mosaici (Figg. 10-11), databili verso la metà del VI secolo d.C.; grosse trecce
racchiudono pannelli con animali; quello centrale davanti al presbiterio rappresenta un bacile su colonna
tortile53 (Fig. 10). Di grande interesse è constatare la presenza nella cornice di questo mosaico di un’iscri-
zione, della quale purtroppo rimangono poche lettere (in latino, scelta giustificabile in questo caso perché
si tratta di una dedica ufficiale in ambiente ecclesiastico, come osserviamo anche in altri casi). Tamponature
trasformarono più tardi le navate in tre ambienti distinti. Pochi sepolcri scavati all’interno e intorno alla
chiesa contenevano corredi con fiasche di vetro, spatheia e piccoli vasi acromi, come anforette (alt. cm 18)
e brocchette (alt. cm 15), che possono attribuirsi al VI secolo54 (Fig. 12 b).
A Santa Croce Camerina (Fig. 13), circa 200 metri a nord-ovest della Fontana, in contrada Mirio, dove
una latomia – forse di età classica – aveva asportato delle tombe a tholos dell’età del Bronzo (Fig. 14 a),
conosciamo un esteso sepolcreto sub divo, del quale sono visibili un centinaio di tombe, disposte su nu-
merose file (Fig. 14 b). Le fosse sono adattate all’andamento della roccia e agli spazi disponibili; sono di
dimensioni assai differenziate, hanno spesso profilo scampanato e sono scorniciate per consentire la posa
della copertura costituita da lastroni calcarei; esse contenevano inumazioni con corredi di monete, ciotole
e altro vasellame acromo, lucerne fittili africane e bicchieri troncoconici di vetro soffiato in forma, che
hanno consentito di datarle almeno nel IV avanzato e nel V secolo d.C. 55.
Nella contrada Piombo un abitato di età romana imperiale sorse in destra del torrente Rifriscolaro, a dominio
dell’antico laghetto poi prosciugato dal quale prese nome (Cymbe, ora contrada Lago), presso la sorgente
Piliria, sfruttata da un edificio termale (se ne riconoscono le suspensurae); nel 1982 è stato scavato il conti-
guo sepolcreto, utilizzato nel II secolo d.C. e con una ripresa nel IV secolo56; esso comprende anche tombe
giudaiche contrassegnate con la menorah57. Il complesso sembra perdurare almeno dal II fino al V secolo58.
Poco più a nord, il villaggio sorto attorno alla ricca sorgente di Passolatello sfruttava come sepolcreto le
soprastanti antiche latomie, ossia le cave di calcarenite che erano state usate secoli prima dai Camarinesi.
Sulle pareti furono scavati vari arcosoli, mentre tombe sub divo sono riconoscibili sulle rocce affioranti;
all’estremità settentrionale si addentra sotto il crostone calcareo superficiale un ipogeo costituito da una
camera rettangolare con due arcosoli sui tre lati59.
Camarina era ridotta ormai a poco più di un villaggio, indiziato dai ritrovamenti ceramici di età bizantina
e dalla persistenza del toponimo. Il suo fulcro era costituito dalla chiesa impiantatasi nella cella del tempio
classico. Alcune abitazioni erano situate sul lato ovest del tempio e alcune tombe erano ricavate nella gradinata
sud; contenevano lucerne cristiane di tipo africano per cui sono state riferite al IV-V secolo. All’estremità
est della città antica, al di sotto delle mura classiche, è noto un piccolo ipogeo (Grotta del Recucco) con
attorno poche fosse sub divo a sezione trapezoidale 60.
1.4 VALLE DEL DIRILLO
All’estremità occidentale della pianura di Vittoria, in prossimità del mare e della foce del fiume Dirillo, un
insediamento tardo antico è indiziato dal sepolcreto sullo sperone di Pezzalistingo con coppi, spatheia e
ceramiche acrome, in genere brocchette 61. Poco all’interno un grosso villaggio è persistito fino al VII secolo
sugli edifici romani di Cozzo Cicirello. Se ne conosce il vasto sepolcreto disposto su tre colline attorno alla
valle di Santa Maria, toponimo che sembra ricordare una chiesetta. I corredi contenevano molti materiali
ceramici acromi, soprattutto brocchette cordonate (Fig. 15 a), lucerne africane e spatheia (Fig. 15 b). Da
una di queste tombe proviene la famosa stele di Zoe62 (Fig. 16), con un testo elaborato attorno ad un grande

51
IG XIV 255 A e B; ORSI 1893, p. 309, 126; PACE 1927, 59
MERCURELLI 1944, p. 61 ss.; GARANA 1961, p. 117 ss.
p. 165, 30-31; FERRUA 1941, p. 49, n. 71. 60
PACE 1927, p. 142, fig. 41; ID. 1949, IV, p. 171; GARANA
52
FUEHRER, SCHULTZE 1907, p. 195 s. 1961, p. 117 s.
53
VITALE 1997. 61
UGGERI, Carta 1974, n. 6.
54
GENTILI 1965, pp. 65-71; ID., 1969. 62
NICOSIA 1959-60, p. 125 ss.; UGGERI 1960; ID., 1961;
55
AUGELLO 1970; SCROFANI 1972, p. 109; DI STEFANO ID., 1963; DI VITA 1961, pp. 199-215; GALLAVOTTI 1962;
1993-94, p. 1411. FERRI 1963; FERRUA 1989, p. 157 s., n. 510. Ora al Museo
56
DI STEFANO, L’area iblea 2005, p. 105. di Ragusa. Per una datazione tarda della stele depongono
57
DI STEFANO 1998. CFR. HACIILILI 2001. la lingua, che tende al volgare, e la paleografia anomala, ma
58
PACE 1927, p. 142; SCROFANI 1972, p. 105 s.; DI STEFANO tendente alla scrittura corsiva, particolarmente evidente nelle
1984-85, p. 784; ID., 1985, pp. 28, 125. lettere f, g, l, r, z.
364 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

b
Fig. 7 – Pirrera (S. Croce Camerina). Iscri- Fig. 8 – Pirrera (S. Croce Camerina): planimetria di un ipogeo
zioni greche tardoantiche di Trygete (a) e ricavato nella latomia.
di Tryphon (b).

Fig. 9 – Pirrera (S. Croce Camerina). Planimetria generale della chiesetta.


DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 365

b
Fig. 10 – Pirrera (S. Croce Camerina). Chiesetta pa- Fig. 11 – Pirrera (S. Croce Camerina). Chiesetta
leocristiana. Mosaici dell’aula. paleocristiana. Mosaici della navata sinistra (a) e
della navata destra (b).

a b

Fig. 12 – Pirrera (S. Croce Camerina): a, veduta di ipogeo e arcosolio ricavati nella latomia; b, ceramica
acroma e zappa in ferro.
b

a c
Fig. 13 – S. Croce Camerina: a, planimetria della pendice occidentale con le emergenze archeologiche: 1,
tholos dell’età del Bronzo; 2, sepolcreto di Mirio; 3, sepolcreto di Santa Lena; 4, abitato bizantino di Santa
Lena; 5, Bagno di Mezzagnone; 6, Fontana Paradiso o Favara; 7, Volta dell’Idria; b, Mirio, tomba a tholos
dell’età del Bronzo intaccata da latomia e sepolcreto; c, sepolcreto di formae sub divo.

Fig. 14 – Provincia di Ragusa. Carta di distribuzione dei cimiteri paleocristiani. I triangoli indicano i teguria
o baldacchini; i quadrati la presenza di iscrizioni.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 367

chrismon e redatto eccezionalmente in latino, malgrado il nome greco, forse perché riguarda una virgo
consacrata, ossia una religiosa, mentre tutte le altre più umili iscrizioni funerarie di questo sepolcreto, su
lastrine di arenaria o su laterizi, sono redatte in greco e portano nomi greci63 (Fig. 17 a-b). Anche un bollo
laterizio su coppi recita in greco Proti 64.
Nell’alta valle del Dirillo ruderi di villaggi e sepolcreti di quest’epoca sono noti a Madredidonna (sopra il
Biviere), Cicimia, Fagotto e Dicchiara65. Nella gola di Ragoleto, a Fossa Quadrara, è stato riportato in luce
un sepolcreto sub divo, che va dalla fine del IV secolo al periodo bizantino66. A nord di Monterosso Almo
sul dosso del Monte Alia resta un sepolcreto con alcuni ipogei.
1.5 VALLE DELL’IPPARI
Nella valle dell’Ippari ipogei sepolcrali sono noti sotto l’abitato di Vittoria nell’Orto del Crocefisso e di
fianco al Canale della Lavina. Sulla sponda opposta, a sud di Comiso, sul piccolo rialzo di casa Carnazza
abbiamo un sepolcreto che ha restituito lucerne africane cristiane e brocchette in ceramica acroma a pareti
ondulate. Sullo sperone gessoso di Torrevecchia, presso San Lorenzo, da un sepolcreto proviene l’iscrizione
in greco di Prigomenia (forse per Primigenia), attribuita alla fine del IV secolo67.
Dalla contrada Crocilla (Crucidda) sulla Cava Corallo sembra che provengano ben tre iscrizioni profilat-
tiche cristiane incise intorno al V secolo su piccole stele di calcare tenero, forse a protezione di un’unica
proprietà terriera 68; delle due conservate nel Museo di Ragusa, una è opistografa; la terza è conservata nel
Museo di Castello Ursino a Catania; si tratta di iscrizioni propiziatorie agricole intese a ottenere un buon
raccolto dalla vigna di un certo Paolo 69 (Fig. 2 b), invocando Gesù e gli angeli, secondo la tendenza eretica
degli Angeliani di Sicilia, probabilmente giudeo-cristiani.
Dalle case Spadaro di Serracarcara presso Pedalino proviene l’iscrizione funeraria greca di Taurope70. Verso
Chiaramonte sulla collina di Galla (Iadda) conosciamo una catacomba con pochi arcosoli e un altro piccolo
ipogeo71; sarebbe suggestivo poter mettere in rapporto questo toponimo con quella matrona Galla, che
verso la fine del VI secolo aveva possedimenti in Sicilia72. Un villaggio sorgeva alle sorgenti dell’Ippari,
nella contrada Cifali, che esprime in greco la fonte (kephalè, testa dell’acqua), che verrà denominata anche
Favarotta, indicando sempre la fonte, ma con voce di origine araba; qui vasti ruderi di costruzioni attribuite
al periodo bizantino esistevano sulle spianate di Costa di Spina e Chiuse San Giovanni, chiaro ricordo di
una chiesa; i relativi sepolcreti si estendevano a Gelinarda73, Cornacchio e Cifali ed hanno rivelato presenze
cristiane ed ebraiche 74.
1.6 GULFI
Un notevole addensamento demico si ha ai piedi di Chiaramonte Gulfi, attorno al santuario della Madonna
di Gulfi, sulla grande strada interna che sin dall’età greca collegava Siracusa ad Agrigento (la cosiddetta Via
Selinuntina75). Qui, lungo il vallone Donna Pirruna, affluente di sinistra del fiume Dirillo, conosciamo estesi
nuclei di edifici ridotti a ruderi, detti Casazze e Chiuse di Gulfi, spesso con ricordo di chiese nella deno-
minazione delle località, ossia da nord a sud Sant’Elena, San Lorenzo, San Nicola di Giglia, Sant’Ippolito,
Cava della Madonna (Fig. 18). A San Nicola di Giglia, situato un mezzo chilometro a ovest dell’attuale
santuario di Gulfi, attorno al rudere della chiesa si estendeva un vasto sepolcreto di fosse sub divo disposte
su molte file e che ha restituito cinque iscrizioni cristiane in greco, tra le quali quella del medico Eudemon,
datate tra fine IV e fine V secolo76, ma aveva anche sepolture ebraiche, come indizia l’iscrizione del piccolo
Giasone, in greco e con un nome greco, ma accompagnato dalla menorah 77 (Fig. 19 a). Questa presenza
ebraica ben si spiega in questo cimitero con la prossimità ad un mercato frequentato, come nel caso ana-
logo riscontrato nella statio di Philosophiana sulla strada interna dell’isola78; in questo caso siamo in una
statio della Via Selinuntina tra Siracusa e Agrigento, che dobbiamo identificare con la Hybla ricordata in
questa punto dagli Itinerari romani79. Nuovi scavi effettuati nel 1991 hanno confermato una datazione del
sepolcreto tra il V e il VI secolo80.

63
UGGERI 1972-73; FERRUA 1989, p. 138, nn. 511-12. 73
Gelonardo è un toponimo di origine araba (giardino
64
UGGERI 1962, pp. 81-83. delle rose), CARACAUSI 1994, I, p. 697 B.
65
MELFI 1913, p. 19. 74
PACE 1927, p. 116; per un disco di piombo con scritte
66
FALLICO 1972, p. 217-35. ebraiche (diam. cm 6), un phylakterion: CORDANO 1997-98,
67
Ossia Primigenia con metatesi consonantica. PACE 1927, p. 297, fig. 2.
pp. 124, 163, 16; FERRUA 1941, p. 50 s., 73. 75
UGGERI 2004.
68
M. BURZACHECHI, in Rend.Lincei, XIV, 1959, pp. 403- 76
PACE 1927, p. 164, 19-22; DI VITA 1998, pp. 95-100.
410: JORDAN 1984, pp. 297-307; WILSON 1990, p. 310. Al Museo di Siracusa; due sono ora esposte nel Museo di
69
Essa trova riscontro in quella modicana da Monte Margi, Ragusa.
che invoca protezione per il vigneto e l’uliveto di Petros, MAN- 77
ARIAS 1937, p. 472; FERRUA 1941, p. 45; DI VITA 1950,
GANARO 1989a, p. 14 ss.; ID. 1994 (A), pp. 455-64; (B), pp. p. 101 s.; COLAFEMMINA 1995; SIMONSOHN 1999. Cfr. HACIILILI
491-500; SEG XLIV, 1994, p. 238, n. 781; BEVILACQUA 1999, 2001.
p. 75; BEVILACQUA, GIANNOBILE 2000, pp. 135-46. V. infra. 78
Cfr. RUTGERS 1999.
70
PACE 1927, p. 163, 15; FERRUA 1941, p. 48, 69; MER- 79
UGGERI 2004. Non rimanda alla greca Acrillae il nome del
CURELLI 1944, p. 89. Piano Grillo, sic. Ariddu, biz. Agrilli(on), che indica l’oleastro
71
MERCURELLI 1944-45, p. 87; BEJOR 1986, p. 500. ed è perciò diffuso in Sicilia, v. CARACAUSI 1990, p. 10B.
72
Gregor. Dial. IV, 36, p. 283 ed. Moricca. 80
DI STEFANO 1993-94, p. 1413.
368 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Figg. 15-17 – Cicirello (Acate). Necropoli paleocristiana. 15. Brocchetta acroma e anfora; 16. Stele di Zoe;
17. Iscrizioni funerarie in greco.

Fig. 18 – Chiaramonte Gulfi. Carta archeologica (A. Di Vita).


DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 369

a b

Fig. 19 – Chiaramonte Gulfi. Iscrizione ebraica del piccolo Iason (a) e vetro con scena di caccia (b, dis. R.
Carta).

Circa 800 metri più a nord, da un sepolcreto che si estendeva in contrada Scifazzo – Piano del Conte e che
le diede il nome (da ‘scifo’), provengono tre iscrizioni cristiane; le due in greco dei defunti Zanoubios e
Germanos, benché ormai perdute, sembrano databili intorno al V secolo81; l’iscrizione in latino, una lastrina
calcarea conservata, ma quasi del tutto illeggibile, reca un chrismon e l’indicazione degli anni; nella prima
riga C. Melfi credette di ravvisare il nome del defunto Imero82. Poco più a nord, da una ricca sepoltura
di Cozzo Carbonaro, tra i valloni Santa Margherita e Morana, proviene la famosa fiasca in vetro dorato,
già posseduta dal barone Corrado Melfi (e ora al Museo di Siracusa), raffigurante una caccia al cinghiale
e al cervo, sormontata dalla scritta Φουρτουνατιων πιε ζησαις (Fig. 19 b); proviene da una vetreria di
Colonia ed è databile nel secondo quarto del IV secolo83. Poco a nord-ovest, su un altro ramo del Dirillo,
va segnalata la località Tramustera, perché sembra conservare nel toponimo il ricordo di tre chiese (tria
monasteria, come le più note Tremestieri di Messina e di Catania)84.
1.7 RAGUSA
Sull’altopiano di Ragusa vari villaggi rurali sono indiziati soprattutto dai sepolcreti, che però non sono stati
studiati in maniera analitica. In genere siamo in presenza di ipogei, ma talora di vere catacombe, come a
Donnafugata e a Grassullo sul torrente di Billiemi, dove due catacombe si aprono nella Cava delle Case,
presso la fattoria del barone Ciarcià (Fig. 20 a-b); la più lunga, di circa 23 metri, poi adibita a cisterna, reca
sulla parete destra entro un riquadro rettangolare l’iscrizione greca di Kallitychos il cristiano, importante,
perché conteneva la data consolare, anche se questa non è più leggibile 85. Altri ipogei si conoscono a San
Silvestro e Serramezzana86, a Cava Giumente, a Bocampello e a Costapollara. La contrada Cento Pozzi
prese nome dai numerosi pozzi ricavati nella convalle a servizio di un villaggio, del quale si conosce anche
il sepolcreto87. Poco a sud, a Cisternazzi si aprono due catacombe a pianta quadrangolare con arcosoli; una
delle due presenta un tegurium centrale 88 (Fig. 21 a-b). Nella valletta di Bùttino si concentrano numerosi
pozzi (simili a quelli di Cento Pozzi) in funzione di un villaggio, affiancato da fosse sub divo e ipogei (Fig.
21 c-d), tra cui la Grotta delle Trabacche, famosa dai tempi dell’Hoüel e descritta da F. Pennavaria (Fig. 22
a-b); essa prende nome dal termine medievale ‘trabacca’89, che significa padiglione, a causa di due baldac-
chini (teguria) risparmiati nella roccia al centro di due ambienti quadrangolari (Fig. 23) e ha rivelato anche
presenze ebraiche 90. A nord-ovest di Ragusa, sulla testata della vallata San Leonardo, sono noti alcuni ipogei
alla Nunziata Vecchia91 e in contrada Celone, dove si apre anche una catacomba molto vasta, con tre corridoi
e arcosoli92 (Fig. 24 a); allo sbocco del torrente San Leonardo ipogei si aprono sulle pareti meridionali del
cosiddetto Monte93. Lungo il solco del fiume Irminio, poco a sud, abbiamo gli ipogei di Petrulli e Petranna-

81
E. BELLABARBA, Iscrizioni Gulfiane, Chiaramonte 1891- 1982-83, p. 27, n. 92.
92; DI VITA 1998, pp. 97-99. 86
BERNABÒ BREA 1947, p. 257 s.
82
PACE 1927, p. 164, 23; DI VITA 1998, pp. 95-100. 87
PENNAVARIA 1891.
83
C. MELFI, in ASS, 23, 1893, p. 338; FUEHRER, SCHULTZE 88
G. AGNELLO 1953, p. 71 ss.
1907, p. 198; PACE 1927, p. 164, 24; ORSI 1932-33, p. 67; DI 89
SELLA 1944, p. 588.
VITA, Vetro, 1951, pp. 71-74, ora in ID. 1998, pp. 101-108. 90
PACE 1949, IV, p. 167 s.; GARANA 1961, p. 112; cfr.
84
CARACAUSI 1994, p. 1647. Cfr. anche la località Mo- COLAFEMMINA 1995.
nasteri, a sud di Floridia, con insediamento tardo romano e 91
Sono dominati dal rudere della medievale chiesetta di
bizantino, BEJOR 1986, p. 506. San Lio.
85
ORSI 1904, p. 250; ID., in Not.Sc. 1904, p. 371; FUEH- 92
G. AGNELLO 1953, p. 82 ss.
RER, SCHULTZE 1907, p. 196; PACE 1927, p. 165, 32; FERRUA 93
P. ORSI, in Not. Sc. 1898, p. 416.
Fig. 20 – Grassullo (S. Croce Cameri-
na). Planimetria di due ipogei (da G.
Di Stefano); in a, la freccia localizza
l’iscrizione.
a b

a c

b d
Fig. 21 – Cisternazzi e Buttino (Ragusa). Planimetria di ipogei: a sin. Cisternazzi, a ds. Buttino (da G.
Agnello e G. Di Stefano).
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 371

Fig. 22 – Buttino (Ragusa).


Grotta delle Trabacche.
Vedute dell’ipogeo con
tegurium (a, J. Hoüel; b,
F. Pennavaria).
b

Balatella94. Alla Tabuna, arcosoli e ipogei di IV-V secolo si aprono nelle pareti di una suggestiva latomia a
pianta tondeggiante, presso Casa Battaglia95 (Fig. 24 b). Altre catacombe esistono presso Ragusa nei valloni
Anisarca, Cava Velardo, Gonfalone e San Cataldo 96, nonché alle Serre, Addiera, Costa Uccelli, Corulla.
Presso Giarratana è noto l’ipogeo di Cozzo Gallo presso il già ricordato insediamento dei Margi.
1.8 MODICA
Analoga è la situazione nelle campagne e nelle alture di Modica, per le quali ora disponiamo di una accurata
revisione delle emergenze tardoantiche97; anche qui si va dai vasti sepolcreti sub divo di formae ricavate
su ampi affioramenti rocciosi, alle catacombe o almeno agli ipogei, ai quali si accede con lunghi dromoi
oppure con pozzetti, quando non soccorrano i fianchi scoscesi delle ‘cave’ con pareti rocciose dove già i
Siculi avevano scavato le loro tipiche tombe a forno, che vengono talora riutilizzate dai cristiani.
Nel territorio al confine tra Ragusa e Modica, nella contrada Margi, gravitante sul torrente Pisciotto, sono
noti degli ipogei; ne proviene anche un interessante phylakterion, ora acquisito al Museo di Ragusa98;
questo invoca in greco protezione per la fattoria e la campagna e un buon raccolto per il seminativo, la
vigna e l’uliveto di Pietro rivolgendosi, oltre che a Gesù Cristo ad angeli noti e ignoti, cari agli eretici

94
FALLICO 1967, pp. 408-13. (B), pp. 491-496; SEG XLIV, 1994, p. 238, n. 781; D. FEISSEL,
95
FALLICO 1967, p. 407 ss. in Bull. Epigr. 1995, 750; BEVILACQUA 1999, p. 75; BEVILACQUA,
96
PACE 1949, IV, p. 166. GIANNOBILE 2000, pp. 135-46; RIZZONE, SAMMITO 2001, pp.
97
RIZZONE, SAMMITO 2001; 2004. 29-31 n. 22; DI STEFANO 2005a, p. 105.
98
MANGANARO 1989a, p. 14 ss.; ID. 1994 (A), pp. 455-64;
372 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 23 – Buttino (Ragusa). Grotta delle Tra-


bacche. Sezioni e planimetria dell’ipogeo con
tegurium (F. Pennavaria).

a b
Fig. 24 – a, Celone (Ragusa). Planimetria della catacomba (da G. Agnello); b, Tabuna (Ragusa). Planimetria
della latomia con gli ipogei (da A.M. Fallico).
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 373

Fig. 25 – Treppiedi (Modica). Planimetria della ca-


tacomba A e veduta del tegurium (dis. R. Carta).

Angeliani, presenti ancora in Sicilia, almeno nella diocesi di Tindari, ai tempi di papa Gregorio Magno99.
Altri insediamenti e sepolcreti sono noti un poco a nord-est a Rossabia/Rassabia e a Scrofani; qui le tombe
scavate verso contrada Cipolluzze erano coperte con sfaldature calcaree cementate e contenevano bicchieri
di vetro100. Nel cimitero urbano di Modica si distingue l’ipogeo con tegurium della zona del Balzo.
Poco a sud vasti sepolcreti si stendono anche in contrada Caitina sulla Cava Ddieri che sfocia nella fiumara
di Modica; ne provengono alcuni materiali datati nel IV secolo e due o forse tre iscrizioni pagane in greco101;
delle due note è interessante la presumibile presenza di gentilizi come Clo[dia] e Mar[cia] Varia (?). Più a
est sono note quattro catacombe a Michelica, dove esiste anche un esteso sepolcreto sub divo con presenze
cristiane a partire dal IV secolo102. Altre quattro catacombe si conoscono a Treppiedi, dotate di teguria ed
arcosoli (Figg. 25-27). Questa località era detta Tripileri (tre pilastri) e prima Trimisiri (tri-mysteria, tre
edicole, forse dalle quattro colonne avanzo delle chiesa di Santa Maria viste nel Seicento dal Carrafa)103.
Dalla distrutta catacomba A di Treppiedi provenivano sei iscrizioni cristiane in greco, databili a cavallo tra
il IV e il V secolo (Fig. 26 a-c). L’iscrizione più antica ed eccezionale è quella di Aithales, che fu sepolto nel
396104; questi aveva fatto costruire una chiesa e un cimitero nel villaggio situato en Ortesianois, quindi in
un latifondo che ci rimanda alla gens Hortensia, che è documentata anche a Siracusa e a Priolo Gargallo105,
analogamente al latifondo Longariana di un’iscrizione del territorio di Palazzolo Acreide106. Un altro epitaf-
fio, quello di Zosimo, porta la data consolare del 402107. I nuovi scavi del 1985-89 hanno rivelato un altro
piccolo ipogeo e tombe, dalle quali provengono ceramica sigillata africana e fiaschette vitree del IV secolo,
ma anche l’epitaffio cristiano in greco di Dionysa108. Più a est conosciamo una catacomba a Penninello109 e
poco a sud altri ipogei esistono a San Filippo, con teguria e tracce di iscrizioni in greco110 (Fig. 28).
Più a est nel bacino del Tellaro a Cava Lazzaro e a Gesira-Scalarangio sulla cava Palombieri sono visibili
alcuni ipogei, dove la presenza ebraica è indiziata dalla menorah incisa sulle pareti rocciose111.
1.9 SCICLI
A Scicli (Fig. 29) sono noti numerosi ipogei e arcosoli in contrada Chiafura e nei dintorni vari sepolcreti
rupestri e una chiesetta paleocristiana. Catacuba, località ora inglobata nell’abitato, conserva nel toponimo
il ricordo di una catacomba menzionata nel secolo XVI e dalla quale deriva anche il toponimo più popo-
lare Scifazzu, che indica la fossa sepolcrale, come abbiamo visto a Gulfi112. Nel territorio piccoli ipogei e

99
Greg. M. Ep. III, 59. 106
UGGERI 1997, p. 41.
100
ORSI 1915, p. 212 s. 107
Reca il V consolato di Arcadio e Onorio: FERRUA 1982-
101
ORSI 1907, p. 485 s. 83, p. 11, n.. 27.
102
ORSI 1906, p. 172 ss.; ID. 1907, p. 486 ss.; ID. 1915, p. 108
DI STEFANO 1993-94, pp. 1406-10; RIZZONE, SAMMITO
212. ID. 1942, p. 226. 2001, p. 44 s.
103
CARRAFA 1653, p. 83; cfr. RIZZONE, SAMMITO 2001, p. 40. 109
ORSI 1934, p. 154.
104
ORSI 1942, pp. 220-22; PACE 1949, p. 163; AGNELLO 110
RIZZONE, SAMMITO 2005, pp. 56-62.
1953, n. 93; FERRUA 1982-83, p. 8, n. 18; DI STEFANO 1993- 111
Cfr. COLAFEMMINA 1995; HACIILILI 2001.
94. 112
Contrada Catacuba seu Xifazzu, in atto del 1577, MI-
105
UGGERI 1997, p. 40. LITELLO 2001, p. 514.
374 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

a c

Fig. 26 – Treppiedi (Modica). Catacom-


ba A, iscrizioni in greco: a, di Aithales
del 396; b, di Zosimos del 402; c, di
b Agata.

Fig. 27 – Treppiedi (Modica). Planimetria di due


ipogei funerari (da P. Orsi e G. Di Stefano). b
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 375

Fig. 28 – San Filippo (Modica), planime- Fig 29 – Scicli. Insediamento rupestre di Chiafura nella pendice del Colle di San
tria dell’ipogeo A (da Rizzone, Sammito). Matteo (A), sovrastato dal Castellaccio (B) e dal Castelluccio (C).

Fig. 30 – a, Donnafridda (Scicli), sezione e pla-


nimetria di ipogeo (E. Militello). b, Ciarciolo,
ceramiche dal sepolcreto.
a
376 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 31 – San Marco (Ispica). Planimetria della catacomba


(da G. Di Stefano).

piccole aree cimiteriali sub divo sono segnalati verso nord a San Biagio, Donnafridda (con ipogei, Fig. 30
a) e Biddiemi; verso est a Catteto e Gisana113.
Presso la costa sono state rinvenute tombe di età paleocristiana sopra la foce dell’Irminio sull’altura di Mae-
stro; alle spalle di Sampieri a Picciona – Scalonazzo (con due epitaffi frammentari in greco) e a Samuele114;
poco più a est a Ciarciolo – Marina di Modica (con corredi di IV-VI secolo, Fig. 30 b)115.
Altre tombe di questo periodo sono state rinvenute a Pozzallo ed è interessante constatare come in questo
scalo marittimo si ritrovi la peculiare sepoltura a ‘cupa’, che abbiamo visto documentata a Caucana116.
Circa due chilometri all’interno, nel soprastante casale di Carpintera si aprivano alcuni ipogei, poi adattati
parzialmente a cisterne117.
1.10 ISPICA
Ai piedi della collina di Ispica, forse l’antica Tyrakinai118, catacombe si aprono in contrada San Marco, la
maggiore delle quali è molto allungata (m 45,70) e con tegurium nel settore più interno (Fig. 31); nelle
vicinanze un’altra catacomba è detta localmente Grotta della Naga (m 17 × 12,50)119.
Famoso il retrostante complesso della Cava d’Ispica, sia per le bellezze naturali del vallone che serpeggia
per 13 km incontaminato e in corso di sistemazione, sia per essere stato nel 363-64 probabile rifugio del
celebre eremita palestinese Sant’Ilarione, che vi si mantenne procurando legna a una proxima villa, di ignota
ubicazione, ma forse da paragonare a quella non lontana del Tellaro120. Nella parte più alta della Cava verso
Modica si estende il sepolcreto di Baravitalla (già usato nell’età del Bronzo). Sulla destra del torrente un
ipogeo sembra corrisponde alla celebre Grotta della Signora, appartenuta forse alla gens Antonia e dalla quale
provengono alcune iscrizioni funerarie greche in calcare locale, forse sette, due delle quali sono ora esposte
nel Museo di Ragusa. Una commemora un diacono, che per il nome Sosios Bychchylos potrebbe rivelare
un’origine africana 121. Solo un epitaffio è datato, quello di Euskios del 398122 (Fig. 32). Interessante in queste
iscrizioni l’indicazione dei giorni della settimana: Σελη′νης, ‘ Ερµου̃, ∆ιóς (lunedì, mercoledì, giovedì)123.

113
MILITELLO 2001, p. 502, fig. 11; RIZZONE, SAMMITO Bastiaensen, C. Moreschini, Milano 1975, pp. 126-30). SCIONTI
2001, pp. 80-83. 1947, p. 25; PACE 1949, p. 270; RIZZO 1988, p. 79 ss.; DI
114
FERRUA 1941, p. 64 s., nn. 93-94; ID. 1989, p. 133, n. STEFANO 1995, pp. 1219-21; DE SALVO 1997-98; RIZZO 2006,
501; MILITELLO 2001, pp. 495-512. II, 2, p. 273.
115
RIZZONE, SAMMITO 2001, pp. 100-02. 121
IG XIV, n. 250.
116
PELAGATTI 1972a, p. 185; FALLICO 1974, p. 487. 122
IG XIV, n. 246; FERRUA 1982-83, p. 9, n. 20 (consoli
117
BRUNO 1991, p. 42. Onorio per la IV volta e Flavio Eutychiano). Cfr. il nuovo Eu-
118
MESSINA 1991, p. 166. skios di contrada Finocchiara, RIZZONE, SAMMITO 2005, p. 46.
119
FUEHRER, SCHULTZE 1907, p. 190 s.; G. AGNELLO 1954, 123
IG XIV, p. 40 s., nn. 243-53; FUEHRER, SCHULTZE 1907,
p. 254 s. pp. 193-95; GRIESHEIMER 1989; WESSEL 1989; PACI 2005.
120
Hieron. Vita Hilar. 25-28 (PL 23, cc. 47-49; ed. A.A.R.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 377

Figg. 32-34 – Cava d’Ispica (Modica). 32. Grotta della


Signora, iscrizione di Euschios (398 d.C.); 33. Planimetria
della catacomba della Larderia (da G. Di Stefano); 34. a:
Grotta della Spezieria, planimetria; b: Cozzo Finocchiara,
planimetria di ipogeo (da Rizzone – Sammito).

a b

Presso il Molino Cavallo e il ponte della strada moderna va ricordata la catacomba detta Larderia, che
si addentra nella fiancata calcarea a sinistra della Cava per una larghezza di m 22, con tre gallerie e due
sepolture privilegiate entro un baldacchino nel vano quadrato al centro del corridoio centrale, che ha una
lunghezza di m 35,60; si tratta di uno dei complessi più vasti fuori di Siracusa, anche se ora risulta parzial-
mente distrutto nella parte anteriore; vi sono state rinvenute lucerne cristiane e anfore commerciali124 (Fig.
33). Nei pressi si apre l’ipogeo di Santa Maria, che sembra connesso ad un cenobio. Tra i numerosi sepolcreti
sovrastanti vanno ricordati i due ipogei della vicina località Camposanto e l’ipogeo del Palazzello, forse la
grotta detta un tempo ‘delli Palazzelli’, dalla quale provenivano due iscrizioni in greco125.
In destra si notano la Grotta della Spezieria, nella quale sembra di possa riconoscere una chiesa rupestre126 (Fig.
34 a), e gli ipogei di Poggio Salnitro. La confluente cava Lavinaro e Ianuari conserva una decina di ipogei,

124
MINARDO 1905; ORSI 1905, p. 431 ss.; FUEHRER, SCHULTZE 125
IG XIV, nn. 249, 251.
1907, pp. 193-95; CAVALLARO 2005. 126
MESSINA 1994, pp. 60-64.
378 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

dove P. Orsi recuperò scarsi corredi bizantini127; altri ipogei si aprono nel versante meridionale, a Calicantoni.
Dirimpetto, sul versante sinistro della Cava, in contrada Finocchiara, sono stati ora esplorati degli ipogei
(Fig. 34 b), che hanno restituito tre iscrizioni sepolcrali in greco, che – oltre a ribadire la presenza della gens
Antonia – ci offrono la più tarda data consolare del nostro territorio, quella dell’imperatore Antemio per la
seconda volta, da solo, relativa al 468128. Anche la cava Albarcara e più a ovest la contrada Scorrione, come
verso il mare la contrada Porrello e Santa Maria del Focallo presentano piccoli ipogei rurali129.

2. PERIODO PROTOBIZANTINO (535-673)


Il ritorno della Sicilia all’Impero non ebbe alcun effetto traumatico, perché anzi, dopo la pa-
rentesi vandalica e gotica, durante la quale per circa un secolo l’isola era stata zona di confine,
l’aver riacquistato la posizione di centralità tra l’Africa e Roma ne rivalutava l’attività portuale
e mercantile, come ci documenta l’intensa circolazione delle ceramiche africane. Solo episodio
negativo quello occorso nel VI secolo durante la guerra greco-gotica, quando sappiamo che molti
choría subirono il saccheggio gotico130.
Alla fine del VI secolo molte massae, eredi degli antichi latifondi, risultano già proprietà
della Chiesa, che si assicura così i rifornimenti alimentari dalle campagne siciliane131. Ma tra la
romanitas della Chiesa e il potere bizantino cominciano a delinearsi i primi elementi di tensio-
ne132. Nei nostri territori, di lingua greca e oramai ruralizzati, nessun centro emerge tra Siracusa
e Agrigento al punto da dare origine ad una diocesi anche minore alla stregua, ad esempio, di
Carini o di Triocala. Continua un po’ dappertutto l’insediamento rurale sparso, almeno fin verso
la fine del VII secolo133.
Ma la tranquillità sui mari dura poco più di un secolo; infatti, in seguito alla rapida espan-
sione dell’Islam, alla fine del VII secolo Cartagine cade in mano agli Arabi e nel 709 i Bizantini
sono costretti ad abbandonare definitivamente l’Africa134. Di conseguenza, i ricchi commerci con
l’Africa si interrompono bruscamente, il canale di Sicilia si chiude ai traffici e si profilano, anzi,
le prime minacce di razzie arabe sulle coste isolane.
Nel 568 Bisanzio era stata sorpresa impreparata in Italia dall’invasione improvvisa dei
Longobardi e nel giro di pochi anni aveva dovuto rassegnarsi a perdere la maggior parte della
Cisalpina e dell’interno della penisola italiana, nonché quei territori meridionali dove aveva
mantenuto guarnigioni mercenarie longobarde. Solo lungo le coste l’impero riuscì ad approntare
dei sistemi difensivi basati su capisaldi strategici, come vediamo teorizzato nei tattici bizantini135,
ma senza impegnarsi in una controffensiva. Questa soluzione di arroccamento fu sperimentata
dapprima lungo la costa adriatica e in Tuscia, dove si concluse miseramente entro il 603136; ma
poi con più efficacia in Liguria, dove – malgrado l’isolamento e la maggior distanza della regione
da Bisanzio – resistette fino al 643137; dal 604 si provvide anche a creare dei capisaldi fortificati
a protezione dell’Esarcato attorno a Ravenna138.
Dopo queste esperienze, con più consapevolezza ed energia dovette essere affrontata intorno
alla metà del VII secolo la difesa della Sicilia dinanzi al profilarsi della minaccia islamica. Le
testimonianze in proposito sono lacunose e incerte, ma possiamo tentare di delineare le linee
essenziali del processo storico e di individuarne man mano le evidenze topografiche.
Intanto, va premesso che sin dal 647 era cominciato il rifluire di popolazioni cristiane dall’Africa
verso la Sicilia, con l’esodo dei profughi dalla Mauretania davanti alla rapida espansione islamica.
Cinque anni dopo, intorno al 652, si sarebbe avuta addirittura la prima incursione araba nell’isola
ed in quell’occasione avrebbe trovato la morte persino l’esarca bizantino Olimpio, accorso da
Roma dopo avere usurpato il titolo imperiale139.

127
ORSI 1905, p. 434. cati isolati di controllo si erano imposti in Italia sin dall’età
128
PACI 2005; RIZZONE, SAMMITO 2005. gota, come dimostra Monte Barro; mentre nelle province
129
RIZZONE, SAMMITO 2001, pp. 86-100. esistevano dal I secolo: LEROUX 1994, p. 157; FERNANDES e
130
Procop. B. Goth. IV, 40 (La guerra gotica di Procopio A. 2006, p. 177.
di Cesarea, ed. e trad. ital. a cura di D. Comparetti, Fonti per 136
PATITUCCI 2001, pp. 191-222.
la storia d’Italia, 23-25, Roma, 1895-1898). 137
CHRISTIE 1990, pp. 229-71.
131
PACE 1949, IV, p. 225; RIZZO 1988. 138
PATITUCCIa 1989, III, 2, p. 410 s.
132
RIZZO 1999, pp. 53-72. 139
AMARI, 2 ed., 1933, I, pp. 189-94; cf. BURY 1910, II,
133
D’ALESSANDRO 1978-79, p. 13. p. 26; ne dubita STRATOS 1976. Per un possibile rapporto tra
134
DIEHL 1896. Olimpio e il castrum sull’isoletta di Licata, che ne avrebbe
135
Ad esempio Ps.-Maurikios, Strategikon, in PERTUSI 1968, tratto il nome Olimpiade, documentato nella forma Limpiada,
pp. 677-88. Ovviamente castella come insediamenti fortifi- v. UGGERI 2006.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 379

Nel 663 l’imperatore monotelita Costante II, per meglio contrastare l’occupazione araba
dell’Africa140, cercò di portarsi più vicino al fronte delle operazioni e si trasferì perciò in Sicilia,
stabilendo la propria corte a Siracusa, dove però venne assassinato nel 668 nelle Terme di Daphne
prima di poter concludere il suo piano141.
Intorno al 669/70 l’espansione islamica era venuta ad abbracciare ormai a grandi linee tutta
l’Africa settentrionale (il Maghreb) e perciò, cogliendo questo momento di debolezza dell’impero,
con più tracotanza gli Arabi potevano ora piombare sulla Sicilia142. Questa seconda incursione
araba prese di mira addirittura la capitale, Siracusa. Benché questa dovesse essere ancora circon-
data dalle mura antiche, che erano state parzialmente restaurate sotto Atalarico143, purtroppo
Bisanzio improvvisamente l’aveva lasciata sguarnita di truppe dopo l’eliminazione dell’usurpatore
Mezezio. Nel 673 ‘Abd Allah ibn Qays vi sbarca dall’Egitto con 200 navi e si ferma un mese a
depredare la città, portandosi poi ad Alessandria anche il bottino che Costante II aveva fatto a
Roma, comprese le tegole in bronzo dorato del Pantheon144.
In particolare, nella nostra area possiamo attribuire al primo periodo bizantino e all’influsso
esercitato da Giustiniano, dall’Oriente e dall’Africa latina soprattutto diversi edifici di culto, perché
sono ancora situati in zone aperte e prevalentemente pianeggianti e sembrano perciò anteriori
alle minacce arabe, anche se non possiamo escludere che possano spettare in parte alle successive
fasi della presenza bizantina. Procediamo da nord a sud.
2.1 GIARRATANA
Tra le colline a sud di Giarratana, nella conca dei Margi, vanno ricordati i ruderi di una chiesetta. Nel 1912
Biagio Pace vi effettuò un saggio, che restituì tra l’altro elementi architettonici, marmi, un cippo e un rozzo
capitello145; l’architrave, lungo in origine circa m 1,80, recava una breve acclamazione in latino con lettere
alte cm 14 tra due croci e con croce centrale146. La chiesa era circondata da un sepolcreto.
2.2 GULFI
Qui l’insediamento persiste dall’età romana a tutto il periodo bizantino, con monete databili fino all’829 circa;
anzi, nella parte centrale del pianoro continua ben oltre, fino alla distruzione di Gulfi e del suo santuario
di Santa Maria la Vetere alla fine del Duecento147. In località Sant’Elena nel 1887 fu scoperta dal barone
C. Melfi una chiesa eccezionale, lunga m 19 e larga m 6,20. Egli vi raccolse diversi elementi decorativi del
presbiterio, come una lastra con motivi floreali e croce, pilastrini, una colonnina tortile e rozzi rilievi con
animali, materiali riferibili al secolo VIII 148 (Figg. 35 a-d). I muri erano spessi m 0,80 e formati di blocchi
collegati con grappe di piombo, che farebbero pensare ad un edificio del periodo classico riadoperato oppure
alla presenza di qualificate maestranze bizantine, come quelle che eccezionalmente usarono analoghe grappe
nella chiesa Nord di Antiochia di Pisidia. Il sepolcreto circostante ha restituito tra l’altro monete bizantine
che vanno dal VII al IX secolo149. La chiesa di San Nicola di Giglia, scoperta nel 1930, misurava solo m 7
× 4,30; qui soltanto una lastra era scolpita con motivi geometrici150; il vasto sepolcreto circostante si data
dalla fine del IV secolo all’inizio del IX151.
2.3 SANTA CROCE CAMERINA
Un altro villaggio sorse a Santa Croce (Fig. 36), circa 300 metri a monte della ricca Fontana, detta un tempo
Paradiso o Favara, rispettivamente in greco bizantino (con il significato di ‘giardino’) e in arabo (‘fontana’).
Su una modesta altura, detta il Castello, esisteva fino alla metà del secolo scorso il cosiddetto ‘Papallosso di
Santa Lena’, ossia un alto brandello di muro. Esso doveva appartenere a strutture del Castello di Sant’Elena
oppure dell’annessa chiesa, che avrebbe contenuto l’affresco raffigurante la scoperta da parte di Sant’Elena
e Costantino della santa croce, dalla quale presero nome il Casale, documentato dal XII secolo, e quindi
il paese moderno. In questo punto tracce di un abitato sono state riportate in luce nel 1989152. Il contiguo
sepolcreto, subito a ovest, ha rivelato 15 fosse antropomorfe, che sono state datate al VI-VII secolo153,

140
DIEHL 1896, p. 569. 146
FERRUA 1989, p. 138, n. 514, dove suggerisce la lettura:
141
Theophanis Chronographia, ed. C. De Boor, I, Lipsiae, magnus dominus in o+[peribus suis].
1883, p. 351; Paul. Diac. Hist. Lang. V, 7-11. BROOKS 1908, 147
PACE 1949, IV, p. 171 con bibl.; DI VITA, Archeologia e
p. 455 s.; PACE 1949, IV, p. 117; STRATOS 1975; CORSI 1983, identificazione 1951, 1; GARANA 1961, p. 92. Anche la fase ara-
p. 21 s.; MESSINA 1993, p. 201 s. ba è ben attestata a Sant’Elena da monete e da una lucerna.
142
STRATOS 1976, pp. 63-73. 148
ORSI 1942, p. 103; PACE 1949, IV, pp. 171, 427; GARANA
143
Cassiod. Variae, IX, 14 (ed. MGH, AA, XII). 1961, p. 92; DI VITA 1998, p. 68.
144
Paul. Diac. Hist. Lang. V, 13 (ed. MGH, Scriptores rerum 149
MELFI 1932, p. 12 ss.; DI VITA 1998, p. 67 s.
Langobardicarum); Liber pontificalis, V. Adeodati II (ed. L. 150
MELFI 1932, p. 6 ss.
Duchesne, I, Paris 1955, p. 346). AMARI 1933, I, p. 98; PACE 151
DI VITA 1953, pp. 5-19, ora ID. 1998, p. 84.
1949, IV, p. 118. 152
DI STEFANO, FIORILLA 2000.
145
PACE 1919, p. 86 ss. 153
DI STEFANO 1993-94, p. 1412.
380 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

d
Fig. 35 – Gulfi (Chiaramonte Gulfi). Chiesetta
di Sant’Elena: a-c, sculture in calcare (dis. R.
b c Carta); d, rilievo su lastra calcarea.

come hanno confermato i ritrovamenti monetali, che vanno da Anastasio a Costante II154. Circa 300 metri
separano queste tombe dal già ricordato sepolcreto del Mirio, che sembra più antico e con il quale non
sappiamo se ci fosse continuità. Sulla soprastante Costa degli Archi restavano fino all’Ottocento dei ruderi,
che diedero nome alla località e che furono visti dallo storico locale Angelo Linares, che li attribuì ad una
chiesa; ora non se ne riconosce alcuna traccia155.
Poco a valle della Fontana (circa 250 metri a ovest), nella contrada Mezzagnone, sorge l’edificio denominato
da secoli Vagnu156, per cui la strada che vi scendeva dalla piazza di Santa Croce era chiamata un tempo via
Bagni. Questo e gli altri monumenti che si affacciavano sul vallone dei Bagni furono descritti come bagni
già dal principe di Biscari Ignazio Paternò Castello, da Jean Hoüel (Fig. 37), dallo Schubring, dal Freshfield
e da altri viaggiatori157. Paolo Orsi lo interpretò invece come chiesa, sulla base della pianta cruciforme (Fig.
38 a); ma la croce è solo apparente, perché risultante dall’accostamento di più vani. L’edificio è stato da
noi minuziosamente analizzato nei resti architettonici superstiti ed abbiamo potuto dimostrare che si tratta
inequivocabilmente di terme158.
L’edificio consta di una sala centrale quasi quadrata (m 3,52 × 3,67), coperta a cupola con tre finestre. La
sala si dilata in tre vani rettangolari coperti da volte a botte. Sul quarto lato una porta a piattabanda consente
il passaggio ad un vano quadrangolare coperto da una volta a botte trasversale, che contrasta da cupola. Da
questo vano attraverso una porta più stretta architravata si passa in un secondo vano pure coperto da una
volta a botte parallela e appoggiata alla precedente (Figg. 39 a-b, 40 a-c). Si conservano attualmente la sala
centrale coperta a cupola (A) e la contigua camera (B) con la copertura a volta, caratterizzata dalla presenza
di quattro porte, delle quali le due laterali consentivano l’accesso all’edificio. Si tratta di un edificio termale,
come dimostrano le suspensurae su colonnine formate da laterizi circolari che costituivano il pavimento
della camera B e le tubature fittili a sezione rettangolare per consentire il passaggio dell’aria calda; queste
avevano andamento verticale; di esse, otto attraversano la cupola centrale (Figg. 41-42), mentre quattro
attraversano la volta a botte della camera contigua (B). Il bagno doveva essere alimentato da un acquedot-
to proveniente dalla soprastante Fontana. Si tratta di un’opera pubblica rilevante, data l’imponenza della
muratura legata con malta tenace e formata da grandi blocchi, usati anche nelle volte a botte e nella cupola.
Una diversa muratura di pietrame minuto legato da malta tenace è presente alla sommità dei muri laterali
dei due vani minori, al di sopra delle porte, e potrebbe rappresentare un intervento successivo per chiudere
le lunette, forse originariamente aperte e dotate di vetrate (Figg. 40 c, 41 c).
Non conosciamo la cronologia di queste terme a causa della mancanza di scavi archeologici. Basandoci sulla
tipologia dell’apparecchio murario, esse potrebbero essere attribuite anche alla fase estrema del periodo
bizantino, quando in quest’area della Sicilia sud-orientale sembra diffondersi quel tipo di architettura che
è stato definito ‘megalitico’ e quando quest’area assume un interesse particolare, come vedremo nel para-
grafo successivo.
154
GUZZETTA 2005, p. 194. dammūs, CARACAUSI 1983, 100, p. 203 s. Per la denominazione
155
LINARES 1864, p. 6: “al nord la costa degli archi, antico vagnu del monumento si confronti ad es. la trichora di Mal-
tempio di religiosi, ove al presente veggonsi pochi avanzi di vagna (mala balnea) nel Messinese.
quel vetusto monumento”. Si noti che a Ragusa il toponimo 157
FAZELLO 1558; PATERNÒ CASTELLO 1781; HOÜEL 1782-87;
Piazza degli Archi ricorda invece l’acquedotto medievale, SCHUBRING 1873; FRESHFIELD 1918.
Flaccavento 1982, p. 32. 158
UGGERI 1958; ID., 1961, pp. 24-29; PATITUCCI 1978.
156
Oppure Dammusu, che in sic. significa ‘volta’, dall’arabo
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 381

Fig. 36 – Santa Croce Camerina. I triangoli indicano gli edifici termali, i tondi gli insediamenti tardoantichi,
i quadrati le torri costiere. Siti archeologici: 1, bagno di Mezzagnone; 2, sepolcreto di Mirio; 3, abitato e
sepolcreto di Santa Lena; 4, Volta dell’Idria; 5, Fontana Paradiso; 6, Mulino Vecchio; 7, Pirrera; 8, Vigna
di Mare; 10, San Nicola; 12, Anticaglia di Caucana.

Circa tre chilometri a sud-ovest (Fig. 36, 8), sulla parte inferiore della Cava della Fontana, che qui si allar-
ga nella depressione del Cannatello, si affacciava un altro edificio termale, distrutto negli anni Cinquanta
del secolo scorso. Era detto Vigna di Mare, banalizzazione della vecchia denominazione Vagnu (Bagno)
di Mare. Tommaso Fazello ricorda che nel delizioso Vallone dei Bagni nel Cinquecento si ammiravano tre
bagni, due in rovina, ma il terzo integro e splendido. Julius Schubring e Paolo Orsi ne fecero un’accurata
descrizione, che ci consente di conoscerne la struttura. La planimetria era identica a quella delle terme di
Mezzagnone, ma meglio conservata nella camera di fondo e nel braccio occidentale (Fig. 38 b); uguali erano
anche la tecnica muraria e le soluzioni architettoniche, ad eccezione della cupola, che era diversa, essendo
girata con andamento elicoidale, invece che a cerchi concentrici di cunei159. Lo Schubring notò nella sala
centrale coperta a cupola due fori, nelle pareti orientale e meridionale, e suppose che fossero destinati a
far passare l’aria calda, particolare che trova riscontro nei fori ancora presenti nella cupola delle terme del
Mezzagnone. La tradizione locale, che segnalava condotti sotterranei presso l’edificio di Vigna di Mare,
aveva fatto pensare allo stesso Schubring alle condutture che adducevano l’acqua alle terme160.
Queste si affacciavano su un lago, che fu fatto prosciugare all’inizio dell’Ottocento dal barone Guglielmo
Vitale161, che vi possedeva 10 salme di terre in località Pantano, che ne conserva il ricordo alla stregua del

159
PATITUCCI 1978, p. 11 s. 161
SOLARINO 1884, I, p. 17; MICCICHÈ 1968, p. 43.
160
SCHUBRING 1873, p. 528.
382 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 37 – Mezzagnone (Santa Croce Camerina). Vedute del Bagno (J. Hoüel).
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 383

b
Fig. 38 – Bagni di Mezzagnone (a) e Vigna di Mare (b) (Santa Croce Camerina). Planimetrie di R. Carta.

contiguo toponimo Margio (ar. marğ, pantano). Per la sua prossimità a Caucana, si è supposto che possa
corrispondere alla laguna costiera detta Lacus Cocanicus da Plinio. Il toponimo Cannatello, che abbraccia
tutta quest’area, è probabilmente un diminutivo dell’arabo qanāt, che indica un condotto sotterraneo di
drenaggio162, e potrebbe perciò conservare il ricordo di una precedente bonifica altomedievale del lago.
L’emissario sotterraneo, che permette il passaggio comodo di un uomo, è coperto con blocchi di pietra
contrapposti a cappuccina e sbocca ancora in mare poco ad ovest.
Una terza costruzione, di struttura apparentemente analoga, a giudicare dalla sola volta a botte visibile,
costituita da filari di grandi conci, si trova all’interno dell’abitato di Santa Croce, in un edificio di proprietà
Panebianco in via Idria163, denominazione che conserva il ricordo del culto bizantino della Madonna Odi-
gitria164, per cui potrebbe supporsi che il rudere sia relativo ad un edificio di culto.
Sulla strada per Camarina, sopra il Passo di Scicli sul torrente Rifriscolaro, in contrada Carnala, nell’ambito
del vasto feudo del Piombo, dove si erano estesi la ricca necropoli di Camarina e poi un sepolcreto di età
romana imperiale, è stata rinvenuta nel 1970 una eccezionale camera ipogea di m 2,50 per 3,30, alta m
2,10. La camera è profondamente incassata nella roccia, che fu rivestita di blocchi di spoglio legati con
malta; è coperta con una monumentale volta a botte a tutto sesto, formata da sei file di grandi conci legati

162
Cfr. per Palermo PIPITONE 1997. 164
Che ritroviamo, ad esempio, nella bizantina Castronovo,
163
PATITUCCI 1978, p. 12, nt. 11. UGGERI 2001, p. 330.
384 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 39 – Mezzagnone (Santa Croce Camerina), terme: a, prospetto laterale nord-ovest: b, spaccato asso-
nometrico longitudinale (ril. G. Uggeri).

con malta. La volta è impostata sui muri lunghi (alti cm 58, ossia 2 piedi), ma lasciando due riseghe di cm
10, servite per armare la centina, mentre buche del ponteggio sembrano gli incassi che rimangono lungo
le due riseghe; nella parte superiore presenta un rivestimento di spessa malta cementizia; il pavimento era
un battuto di cocciopesto in pendenza verso uno dei lati corti, dove una ripida scala di blocchi sovrapposti
permetteva l’accesso tramite un pozzetto di circa 40 × 80 cm; all’interno sono stati rinvenuti pochi resti
ossei sconvolti e alcuni frammenti di anfore bizantine di tipologie diverse, anche con scritte greche rubricate,
che suggeriscono una utilizzazione della costruzione nel VI-VII secolo165. Sul piano della tecnica costruttiva
sono evidenti le affinità con le terme di Mezzagnone166. La forma della struttura richiama invece immedia-
tamente le piccole edicole funerarie di Cittadella Maccari, realizzate con pietrame e malta tenacissima e
coperte con volta a botte di blocchetti e contenenti due o tre sepolture; queste furono esplorate dall’Orsi
e datate nel VI secolo167. Fuori della Sicilia un confronto s’impone con le numerose edicole della necropoli
bizantina di Anemurium sulla costa della Cilicia168.
2.4 ISPICA – MODICA
Nel pianoro a monte della Cava d’Ispica erano visibili fino ad un secolo addietro i ruderi di un abitato
bizantino, del quale resta in piedi solo la chiesetta di Sambramati o San Pancrati (ossia Pancrazio169, Fig.
44 a), rilevata dall’Orsi e saggiata recentemente insieme agli ambienti retrostanti. Essa si sviluppa da una

165
DI STEFANO 1984-85, pp. 784-90. 167
ORSI 1899 = Sicilia bizantina, I, p. 34 s.; PACE 1949,
166
Resta problematica la funzione di questa struttura ipogea IV, p. 370 s.
a causa del forte strato di cocciopesto del pavimento, che po- 168
ROSENBAUM e A. 1967.
trebbe suggerirne la destinazione a cisterna; mentre per un ipo- 169
Su San Pancrazio v. ora ESBROECK, ZANETTI 1988.
geo sepolcrale un simile rivestimento risulterebbe eccezionale.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 385

cella trichora170 – sul tipo della più nota Trigona di Cittadella – con l’abside centrale semicircolare e quelle
laterali invece semicircolari all’interno e poligonali all’esterno; appare riferibile al tardo VI secolo. Alla
cella fu giustapposta una navata, poi affiancata da altre due (come con certezza si rileva dai giunti nelle
murature), in modo da ricavarne una normale chiesa a tre navate di una grossolana tecnica megalitica 171 (Fig.
43 a). La particolarità delle absidi poligonali trova ora riscontro sugli Iblei nella piccola chiesa di contrada
Pirrone presso Licodia Eubea172 e oltre queste montagne nella chiesa di Zitone presso Lentini173; più in
generale, si rifà chiaramente a modelli costantinopolitani, che – a partire già da San Giovanni di Studio a
Costantinopoli (circa 460) – si diffondono nelle architetture ecclesiali di VI secolo della penisola balcanica,
di Creta (San Tito di Gortina) e dell’Asia Minore, come la Panagia di Tomarza o le chiese di Antiochia di
Pisidia, Castabala in Cilicia o Istlada in Licia174.
A sei chilometri di distanza, in località Sant’Angelo Massacroce, è stata intravista una chiesa a tecnica
megalitica di m 20 × 11,50. Essa presenta una planimetria singolare, in quanto l’abside centrale molto
aggettante è raccordata con due curve alle pareti laterali. Potrebbe trattarsi del risultato finale di un am-
pliamento rispetto ad un’originaria cella trichora, della quale le curve visibili sono porzione delle absidi
laterali, come nel caso di San Pancrati, che ha dimensioni analoghe; come in questa, sembra che siano state
aggiunte successivamente le navate, i cui muri esterni sono tuttora conservati e si raccordano tangenti alle
due absidiole laterali della cella originaria175 (Fig. 43 b). Anche la tecnica muraria megalitica assimila le due
chiese, che risultano vicine a soluzioni planimetriche diffuse in Oriente ed Egitto176.

3. FORTIFICAZIONI BIZANTINE: PRIMA FASE (674-740)


Dopo il disastroso sacco del 673 ad opera degli Arabi, a Siracusa vennero rafforzate le mura, ma
oramai limitatamente all’isola di Ortigia177, abbandonando i vasti quartieri di terraferma. Di conse-
guenza, a quest’epoca, tra il 674 e il 697, quando Leonzio potrà farne la sua base nel tentativo di
recuperare l’Africa, bisognerà riferire la costruzione delle mura di Ortigia con la grande torre, della
quale si vedono ancora le fondamenta addossate al tempio di Apollo, usato come caposaldo178. Il
vescovo Zosimo dovette allora provvedere a trasferire la cattedrale entro le mura, adattando all’uopo
l’Athenaion, che sorgeva al centro dell’isola; nella vecchia basilica di San Marciano o San Giovanni,
rimasta isolata, accamperà difatti l’esercito di Ibn Muhammad nell’assedio dell’876/77 179.
Negli anni 692/6 gli Arabi si impadroniscono definitivamente di Cartagine. L’impero è perciò co-
stretto ad attestarsi militarmente in Sicilia e questa anzi comincia ad essere minacciata direttamente.
Perciò l’imperatore Giustiniano II (685-695) costituisce il Tema di Sicilia, includente anche le penisole
di Calabria e Puglia, e ne unifica il potere civile e quello militare sotto uno stratega180. Si tratta di un
cambiamento epocale: l’esercito diventa stanziale e si innescano una serie di profonde trasformazioni
in ogni campo: si vanno abbandonando le coste divenute pericolose; si registra una crisi demografica
e un’ulteriore decadenza delle città, per la fine dei curiales e l’aggravio delle imposte; si esaurisce
anche il commercio con l’Africa, privandoci così di preziosi parametri archeologici e cronologici.
Nel 697 dalla base siciliana l’imperatore Leonzio tentava invano la riconquista dell’Africa;
mentre gli Arabi riuscivano a conquistare nel 700 l’isola di Pantelleria e potevano così razziare
più facilmente la Sicilia.
In tutta l’isola l’angoscia suscitata dal crescente pericolo, dopo le iterate incursioni islamiche,
diede impulso ad una vera e propria rivoluzione dell’habitat, che è descritta in maniera lapidaria
da Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, quando ricorda che pochi Siracusani sfuggirono alla
strage del 673 fuggendo per munitissima castra et iuga montium181. Duplice fu pertanto la via di
fuga: da una parte i centri murati (castra) e dall’altra le montagne, per cui è probabilmente da
questo momento che cominciarono ad essere abbandonati gli abitati aperti di pianura, specialmente
quelli costieri, che si erano venuti moltiplicando in età romana e tardoantica.

170
Come in molti altri casi, cfr. ad es. la chiesa cimiteriale 177
Come aveva fatto già Giustiniano per Taranto, Procop.
sviluppatasi da un martyrium a trichora a Concordia, TESTINI VII, 23, 12-17.
1980, p. 266, fig. 84. 178
PACE 1949, IV, fìg. 38; CULTRERA 1951, c. 757 s.;
171
AGNELLO 1952, pp. 144-153; S. L. AGNELLO 1978-79, AGNELLO 1990, p. 73, fig. 18; MESSINA 1995, pp. 92-94.
pp. 115-136; DI STEFANO 1983, pp. 91-103; MESSINA 1991, pp. Questa fortificazione è comunque anteriore all’assedio arabo
166-68; VITALE 2005; RIZZONE 2007, pp. 27-39. del 740, v. infra.
172
GIGLIO 2003, pp. 95-97. 179
ZURETTI 1910, I, pp. 165-173.
173
ORSI 1941, p. 65, fig. 29. 180
BORSARI 1954; OIKONOMIDÈS 1964, p. 127-30; GUILLOU
174
MARKSTEINER, NIEWOEHNER 2004, p. 24; altri esempi 1977.
a p. 41. 181
Paul. Diac. Hist. Lang. V, 13; Iohan. Diac. (MGH,
175
RIZZONE, SAMMITO 2001, p. 20 e tav. III. Scriptores Rerum Langobardicarum), p. 419; Liber pontificalis,
176
Ad es. la basilica di Chirbet-abu-Adusen, GIOVANNONI V. Adeodati II, I, p. 346 (in castris seu montanis confugerant).
1925, tav. XIII. AMARI 1933, I, p. 217; UGGERI 1974, p. 211.
a a

b b
b

c c
Fig. 40 – Mezzagnone (Santa Croce Camerina): a-b, Fig. 41 – Mezzagnone (Santa Croce Camerina):
vedute delle terme da NE e da NO; c, veduta del se- a-b, vedute della cupola delle terme e di due fori
condo vano delle terme da SE. verticali; c, veduta del secondo vano delle terme
da NO.

a b
Fig. 42 – Mezzagnone (Santa Croce Camerina). Interno delle terme: a, cupola; b, pennacchio fiancheggiato
da fori verticali pervii nel primo anello della cupola.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 387

a b

Fig. 43 – Chiese del Modicano: a, San Pancrati (Cava d’Ispica), planimetria (R. Carta); b, Sant’Angelo
Massacroce, planimetria (da Rizzone, Sammito).

Se guardiamo alla geomorfologia della zona, ossia alle sommità piatte delle montagne dell’acrocoro
ibleo sopra Siracusa, risulta chiaro come qui soltanto le grotte nascoste nei valloni, le ‘cave’ incise
profondamente nel tavolato calcareo degli Iblei, potessero dare un efficace rifugio, permettendo
a chi era esperto dei luoghi di nascondersi in anfratti rupestri in prossimità sia dei propri campi e
dei propri pascoli, che dell’acqua reperibile nel fondovalle. A riprova della sicurezza che si cercava
di ottenere rifugiandosi nell’ambiente rupestre, possiamo addurre i molti accorgimenti che furono
escogitati per rafforzarne la difesa, a partire dalla posizione nascosta, dagli ingressi mimetizzati, dalla
viabilità negata o risolta in senso verticale con arditi passaggi e botole tra i vari piani, dei quali i su-
periori diventavano inaccessibili se non si disponeva di scale mobili di corda o di legno a pioli182.
Non appare quindi un’ipotesi costosa riferire a questo preciso periodo l’insorgere del fenomeno
dell’insediamento rupestre nella Sicilia sud-orientale183. Né si capisce come possa essere attribuito
ad una fase post-bizantina, cioè agli Arabi, giacché non si comprende da chi i conquistatori doves-
sero difendersi nell’isola che avevano conquistato, né appare verosimile che imponessero questi
modi insediativi alle popolazioni vinte, né troviamo in rapporto a questi insediamenti rupestri
dei cimiteri di tipo islamico. Questi – com’è noto – hanno caratteristiche specifiche, riscontrate
ripetutamente nella Sicilia centro-occidentale e che nella nostra area compaiono forse presso il
castello di Comiso. In relazione con gli insediamenti rupestri troviamo bensì delle chiese, sia subdiali
che ipogee. Quanto al toponimo Ddieri, che indica in diverse zone una parete scoscesa con molti
aggrottamenti e che è stato addotto a sostegno della loro origine araba, va notato che esso è sì di
origine araba (diyār= case)184, ma prova che quella realtà preesisteva e caratterizzava il paesaggio,
dando spunto agli Arabi per denominare una località; analogamente Tabuto è un toponimo che
deriva dal termine arabo tābūt che designa la tomba185, ma in Sicilia fu usato persino per indicare

182
UGGERI 1974. caratteristica Timpa Ddieri a Mulinello presso Augusta (PACE
183
UGGERI 1974. 1949, p. 265, fig. 83).
184
CARACAUSI 1983, 101, p. 204 s. Si ricorda tra tanti la 185
CARACAUSI 1983, p. 358 s.
388 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 44 – a, San Pancrati


(Cava d’Ispica), veduta
d’insieme prima della
recinsione; b, Scrofani,
iscrizione di fondazione
da parte di Cresconius;
c,Buscello,edificio megali-
tico (Foto Belgiorno).
c

quegli alveari di grotticelle sepolcrali a forno dell’età del Bronzo che caratterizzano alcune pendici
rocciose. Altre località caratterizzate da grotte presero la denominazione araba ghār (o al plurale
ghirān)186, come ha messo in evidenza H. Bresc187. Così il toponimo di origine araba Cinisi o Ginisi
si formò perché quelle località erano caratterizzate da una chiesa (kinīsya, kanīsah), certo preisla-
mica. C’è da aggiungere che alcuni complessi rupestri conservano tuttora una denominazione di
origine bizantina, che ne ribadisce l’origine prearaba, come nel caso della famosa rocca di Sperlinga
e della contrada Sperlinga di Chiaramonte Gulfi188, oppure della Chiafura di Scicli. Quest’ultimo
toponimo indica i ddieri della pendice del colle di San Matteo sul quale sorsero i phrouria di Scicli
(Castellaccio e Castelluccio); è certo antecedente al periodo arabo, in quanto definisce la ‘pendice
dei castelli’ (phroùria), o tutt’al più del villaggio (chora), ma sempre in greco189.
186
CARACAUSI 1994, p. 679. 188
CARACAUSI 1990, p. 540, s.v. Spìlinga; ID., 1994, p.
187
Il primo casale attestato è Garsiliato, intorno al 1091, 1562.
BRESC 1983, p. 141. 189
V. infra Scicli per l’insediamento di Chiafura.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 389

Una diretta conseguenza di questa nuova situazione insediativa possiamo coglierla sul piano
agricolo nella valorizzazione delle colture di fondovalle, che sfruttarono intensivamente le aree
irrigue, come suggeriscono diversi termini bizantini superstiti. Paradiso fu detto allora il ‘giardino’190
e ne abbiamo diverse sopravvivenze in Sicilia, come nella nostra zona la Fontana Paradiso di Santa
Croce, che alimentò un lussureggiante frutteto celebrato dai viaggiatori a partire dal Fazello e dal
Paternò Castello. Nel fondovalle, nelle fasce di golena irrigue, come ad esempio nella Cava d’Ispica,
si diffuse la coltivazione del lino (dial. linusa, di origine bizantina) in rotazione con la canapa (dial.
cannavusa, di origine bizantina), che diede a quei terreni la denominazione ‘cannavata’, adattamento
dialettale del bizantino kannabās, meglio perpetuato dalla forma Cannavà in Calabria191.
Dell’economia agricola del periodo bizantino in Sicilia sappiamo ben poco, ma abbiamo tanti
indizi della perdurante importanza dei seminativi, che persistettero all’interno dell’isola, perché
la produzione granaria non fu mai abbandonata; sappiamo anzi che era il seminativo era regola-
to dal contratto agrario di mezzadria detto in bizantino paràsporos 192, sic. ‘paraspuolu’, che ha
lasciato traccia toponomastica fino ai nostri giorni nel nome di una contrada sotto Chiaramonte
(loc. Paraspola).

3.1. Insediamenti rupestri


In questo periodo riteniamo pertanto che cominci in Sicilia quel fenomeno insediativo rupestre,
che si perpetuerà per oltre un millennio. Il vivere in grotta viene ora a sostituire il precedente insedia-
mento sparso di pianura, che aveva caratterizzato l’età romana e il primo periodo bizantino. In Sicilia
questo fenomeno caratterizza soprattutto l’area iblea, dove se ne conservano numerosi documenti,
illustrati in un saggio del primo numero della rivista “Archeologia Medievale”193. Furono poste allora
le basi per lo studio di questo fenomeno in Sicilia, dove il trogloditismo era stato descritto come una
curiosità a livello antropologico dai viaggiatori stranieri del Sette e dell’Ottocento e poi come effetto
del movimento monastico basiliano, senza un adeguato inquadramento cronologico e storico.
Dove erano presenti nuclei consistenti di popolazione si formarono progressivamente vere
e proprie città rupestri, fenomeno così caratteristico della Sicilia sud-orientale, ma che trova
riscontro nell’area apulo-materana194, come in altre regioni del Mediterraneo. Nell’area iblea
le principali città rupestri furono Pantalica, Ispica, Modica e Scicli; ma non vanno dimenticati
altri centri siciliani, come Nicosia e per la trasparenza del toponimo la vicina Sperlinga, la già
menzionata città rupestre in provincia di Enna.
Esaminiamo in questa sede gli insediamenti rupestri del territorio ragusano.
3.1.1 INSEDIAMENTI RUPESTRI MINORI
Tra i monti Iblei, oltre agli abitati rupestri più noti di Vizzini e di Licodia, va ricordato che subito a nord di
Monterosso Almo sul dosso del Monte Alia restano tracce di alcuni ipogei, che furono riadattati e dove fu
ricavata una chiesetta rupestre di m 6,30 × 5, che conserva resti di pitture medievali195. Nella già ricordata
contrada Sperlinga di Chiaramonte Gulfi, nel versante settentrionale del torrente Mazzarronello, si aprono
una quindicina di camere ipogee196. A Ragusa quartieri rupestri si aprono sul ripido fianco meridionale
della città, poi denominato dagli Arabi Mokarda e Raffo197, e a nord-ovest sulla Cava di San Leonardo. Nei
dintorni possiamo ricordare, a partire da nord, i villaggi rupestri di Donna Fiurella, Cava le Serre, Dirupo
Rosso, Ddieria e Corulla 198, nonché il complesso dei Ddieri della Cava Anisarca, che aveva forte impatto
paesistico con il Palazzo dei Ladri, a tre piani, inopinatamente distrutto negli anni Ottanta199. Lungo la
Cava Renna, già Renda, i grottini di Scifazzo, Mendolilli, Cavalusi, Carcara, Cozzo Rao. Presso Santa Croce
Camerina un insediamento rupestre fu ricavato nella ricordata latomia di Passolatello.
Anche nella valle dell’Ippari, sotto Vittoria (Fig. 45), l’insediamento rupestre è presente, da ovest a est,
a Santa Rosalia (Fig. 46), alle Grotte Alte, all’Orto del Crocefisso (Fig. 47), al Trappetazzo, alla Lavina e
alla Martorina200 (Fig. 48). Al di sopra dell’insediamento rupestre sono visibili i resti di una fortificazione

190
CARACAUSI 1990, p. 437. 196
DI STEFANO 1986, p. 267; MESSINA 1994, p. 101.
191
Cfr. CARACAUSI 1994, I, p. 276. 197
Raffu è il ciglione di roccia che permette l’accesso alle
192
CARACAUSI 1994, p. 1169; CARACAUSI 1990, p. 440. grotte, dall’arabo raff, risega, cornicione, CARACAUSI 1983,
193
UGGERI 1974. 209, p. 310.
194
Basterà ricordare l’infaticabile attività di C. D. FONSECA, 198
SOLARINO 1884, I, p. 55 s.; PACE 1949, IV, p. 169.
il suo Civiltà rupestre in terra Ionica, 1970, e soprattutto i 199
SOLARINO 1884, I, p. 54; PACE 1949, p. 269; FLACCAVENTO
suoi Convegni internazionali di studio sulla civiltà rupestre 1982, p. 24; MESSINA 1994, p. 99 s.
medioevale nel Mezzogiorno d’Italia, a partire dal primo del 200
Per una descrizione v. PACE 1926, p. 43; ID. 1949, p. 269,
1971, Genova 1975. fig. 89; UGGERI 1974, p. 204 e fig. 5; MESSINA 1994, p. 100.
195
AGNELLO 1952, p. 258; MESSINA 1994, pp. 104-07.
390 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 45 – Valle dell’Ippari sotto Vittoria. Planimetria. Il triangolo indica il sepolcreto bizantino della Lavina;
il mezzo cerchio gli aggrottamenti.

sul ciglio roccioso dell’abitato moderno di Vittoria, che si affaccia sulla valle dell’Ippari in località Orto
del Crocefisso; qui sui versanti sud ed est si conservano tratti di muri costruiti con conci di calcare locale,
appena sbozzati e di dimensioni diverse, ma che tendono a formare assise regolari (sei visibili) con rare
ammorsature (Fig. 49 a-c). Probabilmente abbracciavano uno sperone di limitate dimensioni tra il canale
Lavina e quello ripercorso da via Ipperia. Non sappiamo se siano da riferire a questo periodo o alla fase
più tarda dell’insediamento bizantino. Nella parte inferiore della ripida pendice erano state ricavate diverse
tombe, ipogei e arcosoli; uno di questi conteneva, oltre a monili personali (due orecchini a filo di bronzo e
una collana di paste vitree policrome), anche una brocca, due brocchette e una scodella in ceramica acroma
depurata (Fig. 50). Nel sottostante Canale era finito un capitello di anta a rozze volute ioniche che abbrac-
ciano un monogramma interpretabile come Maria, per cui sembra da ascrivere ad una chiesa soprastante
dedicata alla Madonna201.
Al di là del canale Lavina, sulla parte inferiore dello sperone che si affaccia sulla vallata dell’Ippari ed è
esposto a sud, rimangono tracce di un sepolcreto sub divo con fosse scavate profondamente nella pendice
rocciosa (Fig. 51). Le tombe sono a forma rettangolare o stondata agli angoli; presentano spesso sezione
trapezoidale e sull’orlo un ampio incasso piano per l’alloggiamento del coperchio; formae più piccole
erano destinate ai bambini; in piccole cavità rettangolari potevano essere incastrate delle stele (Fig. 52).
Una strada rupestre, contrassegnata da numerose croci incise sulla parete rocciosa a monte, attraversa il
sepolcreto dirigendosi verso il palmento e il mulino della Martorina; nel corso dei secoli la tenera roccia
friabile si è sfaldata sullo sperone e per la ripidità del pendio la strada si è arretrata e incavata, venendo ad
intaccare tombe.
Di grande importanza sono tre corredi, nei quali troviamo delle monete associate alle ceramiche acrome:
una sepoltura (tomba 13) comprende una brocchetta e un follis di Michele I e Teofilatto (811-813); un’al-
tra (tomba 16) comprende due brocchette associate a un follis di Leone V e Costantino VII (813-820); la
terza sepoltura (tomba 28) presenta un bicchiere su basso piede a disco associato con un follis di Leone V e
Costantino VII (813-820) (Fig. 53 a-b); in queste tombe sono presenti anche frammenti di ceramiche acrome
di forme aperte e frammenti di bicchieri in vetro. La qualità della ceramica è ottima: i vasi sono di impasto
molto depurato, a pareti sottili e a superficie più chiara; le forme delle brocchette sono di due tipi: uno con
bocca ad orlo espanso e ingrossato e piede a disco; l’altro con bocca ad alto labbro distinto e fondo piano,
ma entrambe con collo sottile, corpo piriforme ed ansa a nastro attaccata sotto la bocca e sul corpo; in due
casi una coppia di solcature circolari corre sulla spalla (Fig. 53 c). In sostanza, non differiscono dalle molte

201
UGGERI 1962.
Fig. 46 – Valle dell’Ippari sotto Vittoria. Planimetria dei complessi rupestri superiore e inferiore di Santa
Rosalia; il rettangolo in basso a sinistra rappresenta l’area della chiesa (ril. G. Uggeri).

Fig. 47 – Valle dell’Ippari sotto Vittoria. Planimetria del complesso rupestre dell’Orto del Crocefisso; da
sinistra: ‘cunzaria’, vano d’abitazione, grotticella sepolcrale dell’età del Bronzo (G. Uggeri).

A B

Fig. 48 – Martorina (Comiso), abitazione rupestre. A, Sezione dei servizi: stalla e cucina (G. Uggeri); B,
planimetria (B. Pace).
392 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

a b
Fig. 49 – Vittoria. Mura soprastanti l’Orto del Crocefisso.

Fig. 50 – Valle dell’Ippari sotto Vittoria. Tomba ad arcosolio sotto l’Orto del
Crocefisso. Corredo fittile acromo.

brocchette comuni nelle sepolture di età bizantina, che vengono datate genericamente nel VI-VII secolo202.
Ma in questo caso sappiamo che esse scendono nella prima metà del IX secolo, quando evidentemente
nella Sicilia bizantina si continuava ad avere un artigianato locale che perpetuava la tradizione figulina di
ascendenza tardoantica, che continua pertanto fino all’invasione islamica203.
3.1.2 MODICA
Modica è uno dei più vasti agglomerati rupestri della Sicilia, articolato nelle pareti dei valloni che vi conflui-
scono, a ovest nei quartieri Costa, Santa Lucia, Cartellone (il quartiere ebraico)204, Itria e a est nei quartieri
Pozzo Pruni, Catena, Sbalzo e Castello, che domina la confluenza dopo la quale si situano sopra la fiumara
gli aggrottamenti di San Nicolò e Giacanda (Fig. 54). A Modica Alta saggi eseguiti nel 1979 misero in luce
un sepolcreto bizantino205. Diverse chiese furono ricavate nelle pareti rocciose accanto alle abitazioni, ma la
loro decorazione superstite è tardiva. Tracce della fase bizantina traspaiono dalla toponomastica. Dedicata
significativamente a San Giorgio è la chiesa madre situata alle spalle del castello. Ad ovest del vallone Janni
Mauro abbiamo il culto bizantino della Madonna dell’Itria206. Certo Modica era un importante kastron
bizantino quando fu conquistata dagli Arabi nell’844/45, come sappiamo dalla Cronaca di Cambridge207.
Tre chilometri a sud di Modica s’impone all’attenzione lo spettacolare complesso dei Ddieri di Caitina, un
centinaio di grotte che si aprono sulla scoscesa fiancata sud-ovest dello sperone di Villa De Leva a ridosso
della cava Ddieri (dall’arabo diyār = ‘case’208), che qui sbocca da sinistra nella fiumara di Modica. Le abita-

202
Si arrestano ancora rigorosamente al VII secolo DAN- 206
Potrebbe essere traduzione di Paraskevì la dedica san-
NHEIMER 1989, p. 20; PUGLISI, SARDELLA 1998. torale a Santa Venera relativa ad una chiesetta rupestre, sulla
203
PATITUCCI 1975; EAD., 1976. quale v. SAMMITO 1996, pp. 185-90.
204
MESSINA 1994, p. 79. 207
COZZA, LUZZI 1890, pp. 26, 54; AMARI 1933, I, p. 449.
205
DI STEFANO 1985, p. 34; ID., 1996, pp. 18-84. 208
CARACAUSI 1994, p. 509 A.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 393

Fig. 51 – Valle dell’Ippari sotto Vittoria. Sepolcreto della Lavina. Planimetria.

zioni rupestri si sovrappongono su quattro o cinque livelli e alcune sfruttarono tombe a forno dell’età del
Bronzo. Una grotta di circa m 5 × 8 conserva tracce di pitture, perché fu adattata a chiesa nel medioevo209,
per essere poi sostituita all’esterno dalla chiesa trecentesca di San Giacomo 210.
3.1.3 SCICLI
A Scicli l’abitato rupestre si estende soprattutto nella ripida contrada Chiafura211, ossia nelle pendici del colle
di San Matteo, sovrastato dalle fortificazioni. Per ricavare le abitazioni, che si articolano su numerosi livelli,
furono anche riadattati arcosolii e ipogei preesistenti. Ci pare che una riprova dell’epoca nella quale si è
formato l’insediamento in grotta ci possa venire proprio dal suo toponimo, che non è stato finora indagato,
ma che possiamo ricondurre ai termini greci plá(gion) e phroùria, pendice e castello, che così bene ritraggono
la natura del luogo e che vengono ad inserirsi nella nota serie Pentifurri, Condofuri e Calafuria212.

209
ORSI 1905, p. 430 s.; PACE 1949, p. 165; RIZZONE 1996, 211
BELLIA 1998.
pp. 191-94. 212
PATITUCCI 2001, p. 213; UGGERI 2006, p. 330.
210
MESSINA 1994, pp. 50-53.
394 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 52 – Valle dell’Ippari sotto Vittoria. Sepolcreto della Lavina. Tipologia delle fosse.

Fig. 53 – Valle dell’Ippari sotto Vitto-


ria. Sepolcreto della Lavina. Monete
bizantine (a, diritto; b, rovescio); c,
ceramiche acrome di corredo.
c
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 395

Fig. 54 – Modica. Plani-


metria con evidenziati i
quartieri rupestri (dis.
G. Giacchi).

3.1.4 ISPICA
Per tutta la lunghezza della Cava d’Ispica si susseguono abitati rupestri a Cozzo, Grotte Cadute, Palazzieddu,
Grotte Giardina, Poggio Salnitro, Pernamazzoni, Gisirella, Calicantoni, Castello (con cinque piani sovrap-
posti, descritti già dal Saint-Non e dall’Hoüel, Fig. 55), Grotticelli e Craparìa, Scalepiane, il Convento,
Lintana e Barrera213. Talora le grotte sono disposte su numerosi livelli. Non mancano ambienti adibiti al
culto, come la chiesa rupestre detta Grotta dei Santi, che si apre nella parte più interna della Cava e si
articola in nartece, navata e presbiterio214; seguono le grotte di San Nicola e Santa Maria.

3.2 Kastra
Non possiamo sottovalutare l’indicazione delle fonti per quanto riguarda l’esistenza o la
fondazione di munitissima castra, tanto più che successivamente ne abbiamo la riprova nella re-
sistenza che i singoli kastellia215 della Sicilia furono in grado di opporre all’invasione araba. Non
disponiamo di alcuna indicazione concreta sui castra per un’epoca così alta, ma non possiamo

213
DI STEFANO 1983, pp. 91-103. 215
V. ad es. la Cronaca di Cambridge, AMARI 1933, I, p.
214
AGNELLO 1952, p. 244. 450.
396 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 55 – Cava d’Ispica (Modica). Veduta del Settecento dell’insediamento rupestre denominato Il Castello
(Cl.-L. Châtelet).

dubitare, comunque, che sia stata trasferita in Sicilia quell’esperienza castrense che i Bizantini
avevano acquisito sui due fronti smobilitati, quello tirrenico-ligure e quello adriatico216.
La civiltà bizantina, eminentemente urbana, organizzò la difesa potenziando anzitutto le vecchie
città, che era essenziale mantenere efficienti per garantire l’amministrazione statale217. Dov’era
ancora possibile, i kastra dovettero coincidere pertanto con le decine di città antiche superstiti e
che in qualche modo avranno visto restaurate le proprie mura, come sappiamo per Siracusa, ma
anche per Palermo, Cefalù, che sale sulla rupe, Tindari, Messina, Catania, Centuripe, Mineo218,
Agrigento219; nel mondo bizantino infatti veniva detta kastron anche la città fortificata220. Ma il
potenziamento delle vecchie città non ci interessa in questa sede.
Dobbiamo soffermarci invece su quella rivoluzione castrense che si espletò nelle zone agricole,
che erano state caratterizzate fino a quel momento da forme di insediamento disperso ed aperto,
per cui diventava urgente concentrare la popolazione per difenderla. Dobbiamo riconoscere questi
nuovi kastra in quegli abitati posti su formidabili posizioni d’altura, che erano state magari già
occupate dalle fortezze protostoriche e che vengono ora riscoperte e rioccupate. Su queste alture
dovettero realizzarsi le nuove fondazioni di kastra, promosse dal potere centrale per creare dei
capisaldi strategici nel territorio e per racchiudervi in caso di necessità la popolazione rurale.

216
ZANINI 1998. Dovremo aggiungere l’ancora ignota Demenna, che è in grado
217
FASOLI 1959, pp. 379-96; GIUNTA 1987. di dare asilo ai profughi Lacedemoni nel 588 (CRACCO RUGGINI
218
Definita kome in un’iscrizione di VI secolo, MANGANARO 1997-98, p. 256), ravvivando il greco in quest’area, e che
2005, p. 36. Per il castrum di Monte Catalfaro, ARCIFA 2001, – dopo lunga resistenza all’arrivo degli Arabi – darà nome ad
pp. 269-311. uno dei loro tre Valli dell’isola. AMARI 1933, II, pp. 105-07.
219
FASOLI 1956, pp. 61-81; GIUNTA 1987, pp. 209-16. 220
Cfr. per l’Italia meridionale MARTIN 1984, p. 94.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 397

Purtroppo, per ora quasi mai è stato possibile documentare con sicurezza in queste fortificazioni
d’altura una fase archeologica di fine VII - inizi IX secolo, per mancanza di scavi archeologici
e per i limiti stessi dell’indagine topografica e della raccolta dei materiali di superficie, che in
questa fase diventano scarsi, poveri e difficilmente databili. Solo alcuni di questi kastra possono
essere rintracciati in base ad indizi convergenti e soprattutto in base alla toponomastica, che ci
fornisce indicazioni sicure quando enuclea serie omogenee, mentre non sempre è affidabile nei
casi isolati221.
Così, ad esempio, al centro della Sicilia va riferita a questo momento la fondazione di Ca-
stronuovo, un tipico insediamento fortificato d’altura, piazzato sul massiccio montuoso centrale
dell’isola, che raggiunge quota 1031 sul monte Cassar222. Si sfruttò in questo caso un sito di antica
occupazione, che ha dato anche un’iscrizione paleocristiana, datata al 570/71223. Si noti che la
nuova fortificazione assunse nome latino, castrum novum, che fu trascritto dagli Arabi come qasr
nūbū (1019)224. Proprio in base al nome latino della fondazione possiamo attribuirla alla prima fase
dell’organizzazione difensiva bizantina, all’incirca tra lo scorcio del VII e gli inizi dell’VIII secolo,
quando ancora la burocrazia della parte occidentale dell’impero usava il latino. Se la fondazione
fosse avvenuta dopo il 732 circa225, si sarebbe avuta la forma greca Νεόκαστρον, come avverrà
infatti per Nicastro in Calabria226. Si è pensato che gli Arabi, all’epoca della conquista227, ne ab-
biano tradotto il nome in arabo, qasr al-jadīd (ossia ‘castello nuovo’) e che solo successivamente
si sia imposto l’uso dei parlanti locali (qasr nūbū).
A questo stesso periodo sembra da riferire anche il Castrum Hennae (Enna), forse da ubicare
nel sito del futuro Castello di Lombardia. Qui si rifugerà al momento dell’invasione araba (827)
il patrizio Palata228 e il kastron sarà in grado di contrastare efficacemente gli invasori prima arabi
e poi normanni229. Dagli Arabi il toponimo fu tradotto come Qasr Yān(n)ah230, il cui secondo
termine più tardi, non capito più come Enna, fu reinterpretato come nome personale bizantino
Yan(n)i (dal greco ’Ιοάννης), da cui qasr Yān(n)i e Καστροιοάννης, registrati dalla cancelleria nor-
manna e poi tradotti in Castrogiovanni perdurato fino al 1927 231.
In questo periodo a Pantalica, una scoscesa collina che si affaccia sul profondo solco dell’Ana-
po, in seguito al sacco di Siracusa del 673 venne rioccupata l’acropoli232, difesa da un fossato.
Presso il cosiddetto anaktoron siculo233 sono stati rinvenuti un tesoro di oreficerie bizantine e
un gruzzolo di solidi aurei, che si chiude con le emissioni di Costante II; potrebbe trattarsi quin-
di di beni messi in salvo da fuggiaschi dal sacco di Siracusa, a riprova di quella fuga in altura
attestata da Paolo Diacono e da altre fonti234. Si è pensato che anche il vicino villaggio aperto di
Giarranauti, individuato nel 1988, possa essere stato abbandonato in questo momento a favore
di Pantalica235. Nel corso del periodo bizantino sembra essersi formato il toponimo, attestato nei
primi documenti nella forma Pentarga236, che sembra derivare da un penta(kont)arka. Nelle ripide
pendici circostanti si sviluppò un vasto abitato rupestre, sfruttando in parte le fitte escavazioni
dell’età del Bronzo.
Vanno riferiti inoltre a questo periodo i vari toponimi Castiglione, perché anche nel resto d’Italia
questo toponimo (da castellio, -onis) è stato riconosciuto peculiare dei nuclei fortificati bizantini
di VI-VII secolo, come è stato dimostrato sia in Liguria237, che in Tuscia238. Compare anche nella

221
Cfr. per il metodo UGGERI 1991, pp. 21-36; ID., 1997, 231
Documentato nel 1154, Edrisi, p. 49; CUSA 1860, I, p.
pp. 35-52. 319; CARACAUSI 1994, I, p. 338.
222
VILLA 1997, pp. 1385-97; MAURICI 2000, pp. 755-76. 232
Pesez 1994.
223
CIL, X, 7196; FERRUA 1982-83, p. 26, n. 83. 233
BERNABÒ BREA 1990; MESSINA 1993, p. 61 s.
224
UGGERI 1978, pp. 115-136: p. 103; BRESC 1984, pp. 73- 234
ORSI 1899, c. 109 s.; ID., 1905, p. 367 s.; ID., 1942, p.
87: p. 74; UGGERI 1986, p. 103. Per le attestazioni Castronovo 19 s.; PACE 1949, IV, p. 154; FALLICO 1975, p. 328; BERNABÒ
a. 1094, καστρονóβου a. 1096, qasr nuˉbuˉ (1154, Edrisi, p. BREA 1994, pp. 343-62.
43), v. CARACAUSI 1994, I, p. 338 s. 235
BASILE 1994, pp. 1333-42; EAD. 1996, pp. 141-59;
225
Per l’aggregazione alla chiesa orientale e il ritorno al FALLICO, GUZZETTA 2002, p. 728.
greco, v. infra. 236
CARACAUSI 1994, II, p. 1150. Per un penta(kont)arka,
226
Cfr. CARACAUSI 1990, I, p. 401, anche per il Neokastron cfr. analoghi toponimi da cariche bizantine: Stoppedarca (da
di Messina (doc. a. 1137). In Calabria anche Gynaikoka- stratopedarka) ad Arezzo, Straticò (strategòs) in Calabria,
stron, Genecocastro 1243, ora Belcastro, v. Dizionario di Manglavite (Magklabìtes) a Licodia, crypta Logothete presso
Toponomastica 1990, p. 69. San Leone (Messina, a. 1133, MÉNAGER 1963, p. 76 s.), etc.
227
Nell’857-58, AMARI 1933, I, p. 462. 237
PETRACCO SICARDI e CAPRINI 1981. Castiglione Chiava-
228
AMARI 1933, I, p. 398; CARACAUSI 1994, I, p. 560. rese è documentato dal 774 (Codice diplomatico 1918), G.
229
Fino all’859, AMARI 1933, I, p. 439 s. PETRACCO SICARDI, s.v., in Dizionario di toponomastica 1990,
230
Documentato nel 1109, CUSA 1860, I, p. 403; CARACAUSI p. 177.
1990, p. 276. 238
PATITUCCI 2001, p. 205.
398 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Calabria bizantina239. In Sicilia un Castiglione, il kastellion tes Tourakinaias, fu occupato dagli


Arabi nell’844/5, ma la sua identificazione, da cercare nel territorio di un’antica polis Tyrake o
più probabilmente Tyrakinai, rimane incerta fra Troina e la Cava d’Ispica240.
Rientra certo in questa serie il più famoso Castiglione di Sicilia241, posto a dominio della strada
interna tra Taormina e Randazzo, dove è ancora superstite la Cubola o chiesa di Santa Dome-
nica (Κυριακή)242, che può essere datata tra il secolo VIII e la fine del IX243. Un altro esempio è
costituito dalla Rocca di Castiglione, posta davanti alla confluenza del fiume di Cerami nel Salso,
presso Gagliano Castelferrato (Enna)244.
Anche nel nostro territorio abbiamo un Castiglione, denominazione della sommità del Cozzo
Apollo che sovrasta Comiso di fianco alla strada per Ragusa. Su questa altura era già sorto un
centro siculo murato, che evidentemente viene riutilizzato come fortilizio dai Bizantini, ai quali
potrebbero spettare alcune strutture megalitiche affioranti; anche la chiesa perduratavi fino in
età moderna, come attesta un’epigrafe, poteva avere origine bizantina.

3.3 Villaggi megalitici


Un terzo fenomeno caratterizzante questo periodo sembra essere stato quello del passaggio
dalla villa al villaggio, che implica un relativo accentramento della popolazione rurale fino allora
sparsa nella campagna. D’altronde, il lavoro e la fatica necessari per realizzare le nuove strutture
implicano uno sforzo collettivo, che ricorda quello dei villaggi romani d’Africa che si fortificano
nel VI-VII secolo245 e che può essere stato realizzato anche qui con la compartecipazione della
manodopera locale sotto il controllo della guarnigione stanziale bizantina, interessata a tutelare
la produzione granaria dell’altopiano. Alla fase bizantina di VII-VIII secolo sembrano spettare
una ventina di villaggi rurali dell’altopiano ragusano e modicano, esplorati già dall’Orsi246 e che
risultano caratterizzati da una tecnica costruttiva megalitica e talora da recinti e da torri. Essi sono
stati individuati sulla base degli imponenti mucchi di pietrame derivanti dal crollo degli edifici
(in dialetto ‘muragghi’), che erano realizzati con grandi blocchi calcarei appena sbozzati, ricavati
con lo spietramento e la messa a coltura dei terreni, spezzando gli strati orizzontali affioranti
a gradoni sui tavolati miocenici iblei. Di solito non si tratta infatti di materiale di reimpiego. I
conci più grandi, che possono raggiungere anche due metri di lunghezza, furono impiegati per
fare cantonali, soglie, stipiti e architravi. I muri sono appoggiati direttamente sulla roccia semiaf-
fiorante e spesso sono conservati per un solo filare; i vani appaiono in genere isolati o accostati,
ma non comunicanti. I blocchi sono sovrapposti con cura e inzeppati lateralmente con materiale
più piccolo, in modo da poter richiamare la tecnica a telaio dell’opus africanum. La muratura
presenta filari di blocchi di altezza diversa e appare di tre tipi: un solo grosso blocco può formare
lo spessore del muro (fino a m 0,80-1,00), oppure questo può risultare da due blocchi affiancati,
oppure possono aversi due cortine con un riempimento interno. Non si nota l’uso di malta o di
mattoni. Tegole piccole e sottili, spesso striate, sono usate per le coperture; ma talora si ricorre
alla volta a botte, soprattutto per le cisterne, che sono diffuse in questo periodo. Alcune strutture
rurali a ‘dammuso’ o trullo superstiti sull’altopiano ragusano non sappiamo se possano rappre-
sentare una sopravvivenza o una persistenza di modi costruttivi risalenti al periodo bizantino247.
Non di rado in vicinanza delle strutture megalitiche sono stati individuati ipogei e sepolture,
che dobbiamo ritenere ad esse collegate. I pochi materiali archeologici recuperati nelle tombe
sub divo degli affioramenti rocciosi e in qualche ipogeo che li fiancheggia consistono in vetri
e ceramiche acrome, datate al solito al VI-VII secolo, e raramente in monete e monili; ma due
brocchette con decorazione a pettine provenienti da Camardemi-Bellamagna potrebbero essere
alquanto più tarde ed anche le più frequenti brocchette acrome potrebbero scendere all’VIII e

239
ALESSIO 1939, p. 76, 816. Pontieri, Bologna, 1927 (RIS2, V, 2), p. 45.
240
COZZA, LUZZI 1890, p. 26; AMARI 1933 I, p. 450 in nt.; 243
PACE 1949, IV, p. 360-63.
SCHREINER 1975, p. 331; MESSINA 1991, p. 166; STALLMANN, 244
Tavoletta IGM, F° 261 III SO, 53/72, q. 647. Come
PACITTI 1994. «rocca» fu rideterminata evidentemente in età normanna.
241
Nei documenti Castillo 1082, Castellionem 1151, 245
Cfr. ad es. l’iscrizione di Aïn Kasr: hic kastrum consen-
qastallùn 1154, CARACAUSI 1994, I, p. 337. tientes sibi cives istius loci provide de suis propriis laboribus
242
A Santa Ciriaca era dedicata anche la chiesa bizantina fecerunt, DURLIAT 1981, p. 72.
di Palermo, tollerata sotto gli Arabi: De rebus gestis Rogerii 246
ORSI 1896, pp. 243-53. V. ora MESSINA 2002, pp. 167-
Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi fratris eius 72; ID. 2007, p. 370.
auctore Gaufredo Malaterra monacho benedictino, ed. E. 247
ROHLFS 1963 e rec. UGGERI 1964.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 399

al IX secolo, come si è potuto dimostrare nel sepolcreto della Lavina sotto Vittoria sulla base
delle associazioni monetali. Anche in questi villaggi le monete più tardive sono comunque di IX
secolo. Quanto alle lucerne, le poche africane scendono al VI secolo e quelle siciliane al VII-VIII
secolo, e pertanto risultano l’indicatore cronologico più importante per collocare in questo pe-
riodo i villaggi megalitici. Non è d’altra parte da escludere a priori un attardamento fino al IX
secolo dell’insediamento rurale bizantino, apparentemente aperto, ma che davanti alle minacce
esterne provvede a dotarsi di strutture più forti, come le torri, in modo da poter opporre una
qualche resistenza ad eventuali attacchi improvvisi. Si tratta di tipici villages désertés e dobbiamo
chiederci quali vicende ne determinarono l’abbandono, se la smobilitazione dell’esercito stanziale
bizantino oppure, dopo un secolo di dominio arabo, l’accentramento forzoso degli abitanti dei
villaggi nelle città fortificate, come nel nostro caso Ragusa e Modica, voluto dal califfo fatimida
Mu’izz nel 966/7, che determinò una nuova fortuna dei siti di sommità248. Solo dallo scavo ar-
cheologico possiamo attenderci un più puntuale inquadramento dell’inizio e della fine di questo
tipo peculiare di insediamento.
Ricordiamo i principali villaggi rurali megalitici di quest’area.
3.3.1 RAGUSANO
Poco a monte di Santa Croce Camerina, in destra del vallone di Billiemi, restano tracce di due villaggi me-
galitici sui costoni rocciosi delle contrade Muraglia e Costa. La contrada Muraglia prende nome dai ruderi
di questi edifici; da tombe sub divo delle vicinanze provengono una lucerna siciliana e una moneta aurea di
Maurizio Tiberio (582-605), che ci rimandano almeno al VII secolo249. In contrada Costa è stata esplorata
e in parte saggiata una grossa fattoria (Fig. 56 a), che appare costituita da tre corpi di fabbrica separati
ed ortogonali, che definiscono un’area rettangolare, la quale non appare recintata; l’edificio principale, a
pianta rettangolare allungata, comprende quattro vani disposti a schiera e si conclude a est con un’ampia
abside semicircolare, che non sappiamo se definisse un vano o fosse un semplice recinto come a Caucana;
l’edificio minore a ovest è formato da due vani accostati; queste strutture potevano avere due piani. A est
sembra individuabile un terzo edificio rettangolare allungato disposto ortogonalmente e che sembra quindi
coevo agli altri due. Nello spazio intermedio resta uno spigolo di una struttura quadrangolare di grossa
muratura a doppia cortina (spessore m 1,15), forse una torre, che però è orientata diversamente e potreb-
be riflettere perciò una diversa fase cronologica. A sud-ovest una piccola struttura circolare è definita per
metà da grossi blocchi disposti a cuneo e per il resto da un muro a doppia cortina; ne è stata ipotizzata la
destinazione a torre, ma potrebbe essere posteriore 250. I materiali ceramici rinvenuti nell’area sono stati
riferiti al VII-VIII secolo 251.
A est del vallone di Belliemi, un altro villaggio rurale è stato esplorato in contrada Pianicella-Buttarella (Fig.
56 b); si estende per circa 300 metri (quattro ettari) ed è articolato su tre terrazze; in posizione centrale ed
elevata sorge una chiesetta a tre navate con abside rivolta a est; si notano inoltre tre cisterne rettangolari
coperte con volte a botte, una cinquantina di case, sparse senz’ordine tra le quote 270 e 310, e un sepolcreto
sub divo con qualche ipogeo252.
Altri villaggi del Ragusano (Fig. 57) si estendevano tre chilometri più a monte in contrada Giubiliana253
e dopo altri tre chilometri in contrada Magazzinazzi, toponimo allusivo a vecchi edifici; qui l’Orsi notò
blocchi di arenaria compatta con croci incise e rozzi capitelli trapezoidali, che ritenne bizantini e riferibili ad
una chiesa254 (Fig. 58 a-b). Nelle vicinanze il toponimo arabo Ginisi (kinīsya, kanīsah, ‘chiesa’) documenta
l’esistenza di una chiesa bizantina255. Avvicinandosi a Ragusa, altri nuclei rurali megalitici con sepolcreti
sub divo sono noti a Fortugno (da dove provengono anche alcune oreficerie)256 e a Fallira; più a nord-ovest
nella già ricordata contrada Bùttino, che ha restituito anche monete bizantine di VII-IX secolo257.
3.3.2 MODICANO
Altri insediamenti rurali megalitici sono noti a est di Ragusa, concentrandosi sull’altopiano a nord-est di
Modica (Fig. 59), dove abbiamo: San Bartolomeo, con cisterne e ipogei, Cavetti – Bosco (con cisterna e chiesa
di Santa Maria del Bosco segnalata dall’Orsi, che ricorda anche una costruzione dove “vennero impiegati
dei massi parallelepipedi colossali, specialmente negli angoli per incatenare …; …faceva parte di un vasto

248
AMARI, BAS, II, p. 134; ID. 1933, II, p. 314; UGGERI 253
Toponimo relativo all’esteso carrubeto, di qualità sca-
2006, p. 203. dente, cfr. CARACAUSI 1994, p. 735 A.
249
SCROFANI 1972, p. 108 s.; DI STEFANO 1985, p. 28; 254
Inoltre un cippo funerario calcareo con dentelli, forse
CARRA 1992, p. 34. di IV secolo d.C., ricorda in greco un Hermes. ORSI 1912b, p.
250
MESSINA, DI STEFANO 1997, pp. 116-9; PELAGATTI, DI 363 ss.; PACE 1927, p. 164, 25.
STEFANO 1999, p. 41, fig. 22; MESSINA 2000, pp. 213-15; 255
Cfr. CARACAUSI 1983, 86, pp. 185-87, s.v. chinisia.
MESSINA 2002. 256
ORSI, in Byz. Zeitschrift, 19, 1910, p. 45; MERCURELLI
251
DI STEFANO, in MESSINA, DI STEFANO 1997, p. 119. 1944, p. 80.
252
MESSINA, DI STEFANO 1997; PELAGATTI, DI STEFANO 1999, 257
PENNAVARIA 1891; GUZZETTA, in FALLICO, GUZZETTA
p. 40, fig. 21. 2002, p. 737.
400 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 56 – Villaggi rurali


del Ragusano. Planime-
trie: a, Costa (A. Messi-
na); b, Pianicella (A. La
Cognata).
b

abitato … sopra una estensione di parecchi ettari”), Butrano, Sant’Angelo, con tracce di una chiesa megali-
tica258, e Cassaro (un abitato megalitico bizantino dove ai tempi di P. Orsi restavano “i ruderi più grandiosi
ed imponenti … una quantità di piccoli edifici rettangolari … un fabbricato a cinque assise di massi, alcuni
veramente colossali”)259. In proposito va ricordato che nel Siracusano abbiamo un altro Cassaro, l’altura
denominata Cugni di Cassaro, che conserva i resti archeologici di un altro abitato megalitico bizantino260.
In tutti e due i casi dal toponimo bisogna arguire che vi fosse già un kastron, una fortificazione dell’abitato
bizantino, se gli Arabi sopravvenuti hanno potuto definirlo come qasr.261.
Gli altri abitati megalitici del Modicano sono: Muglifulo-Ganzaria (secondo l’Orsi “sopra mezzo chilometro
quadrato di estensione … un vasto abitato … parecchi vani rettangolari addossati l’uno all’altro, e formanti
un unico fabbricato; … i muri … con uno spessore di m 0,80-1,00; … lunghi filari di grandi massi”)262,
Rassabia. Nella contigua contrada Scrofani abbiamo nella toponomastica il ricordo del culto di San Michele
e in località Cipolluzze, presso le case La Corte, Paolo Orsi segnalò, a fianco di quella settecentesca, i resti
di un’altra chiesetta, forse bizantina263; le si potrebbe riferire il grosso concio (cm 88 × 39) con una tarda

258
Qui ipogei e tombe hanno rivelato corredi databili 261
Si confronti la fortezza della bizantina Castronovo, che
almeno al VI-VII secolo. RIZZONE, SAMMITO 2001, pp. 20-22. viene chiamata successivamente ‘Cassar’.
259
ORSI 1896, p. 248 s. 262
ORSI 1896, p. 144 s.
260
G. AGNELLO 1940, p. 4 s.; PACE 1949, IV, p. 160. 263
ORSI 1915, p. 212 s.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 401

Fig. 57 – Insediamenti megalitici bizantini del Ragusano; 1 Piombo, 2 Muraglia, 3 Pianicella-Buttarella, 4


Costa, 5 Giubiliana, 6 Magazzinazzi, 7 Fortugno, 8 Fallira, 9 Buttino.

Fig. 58 – Magazzinazzi: a, piastrino; b, capitello d’anta; Ragusa: c, mura


bizantine presso la chiesa del Signore Trovato (R. Carta).
a
402 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 59 – Abitati megalitici bizantini del Modicano: 1 Buscello, 2 Rassabia, 3 Scrofani-Cipolluzze-Palazzelle,


4 Favarotta-Margione, 5 Sant’Angelo, 6 Cassaro, 7 San Bartolomeo, 8 Cavetti-Bosco, 9 Butrano, 10 Mugli-
fulo-Ganzaria, 11 Sambramati (S. Pancrati), 12 Commaldo, 13 Cava Labbisi, 14 Camardemi-Bellamagna.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 403

iscrizione in latino, reimpiegato nel muro della fattoria (Fig. 44 b); esso attesta la fondazione di un edificio
di culto da parte di un privato, interessante manifestazione di evergetismo cristiano264; il dedicante, Cresco-
nius, era con tutta probabilità un personaggio di provenienza africana, a giudicare dal nome colà diffuso265;
un Cresconius aveva preso parte alla costruzione del kastrum di Aïn Ksar in Numidia266. La paleografia
dell’iscrizione, che rimanda almeno all’VIII secolo267, induce a metterla in rapporto con la fuga dei cristiani
dall’Africa dopo la caduta di Cartagine in mano agli arabi. Poco a sud-est un villaggio megalitico si stendeva
presso la torre Palazzella, toponimo che deve essere allusivo ai vasti ruderi di abitazioni268.
In contrada Buscello269, in prossimità di alcuni ipogei, rimanevano i filari di base di diversi edifici, che impie-
gavano, soprattutto come pietre angolari, megaliti di dimensioni impressionanti accuratamente sovrapposti
e inzeppati lateralmente con pezzate minuto, come documentano le foto dell’Orsi e quelle della metà del
secolo scorso di F. L. e D. Belgiorno (Fig. 44 c); qui era sorta la chiesa di Sancta Maria de Buxello ed è stato
proposto di identificarvi uno dei sei monasteri fondati in Sicilia da Gregorio Magno270. Altri due villaggi
megalitici sono noti più a est sui valloni che scendono al fiume Tellaro. Il primo, sorgeva a Favarotta-Mar-
gione sulla cava del Prainito presso Casa Frasca. Qui sul Cozzo Tondo è stata segnalata una chiesetta di m
5,65 × 9,45 di lunghezza, oltre all’abside aggettante a levante; le potrebbe spettare un concio con una breve
invocazione bizantina, ora inglobato nel muro a secco che circonda l’edificio271. L’altro villaggio sorgeva
a Commaldo sulla cava Palombieri, dove rimaneva fino a qualche decennio addietro anche una chiesetta
bizantina272. Forse va inserito in questo orizzonte anche il villaggio sviluppatosi attorno alla già ricordata
chiesetta di San Pancrati, purtroppo oramai completamente cancellato.
3.3.3 FASCIA COSTIERA
Poco a sud-est di Scicli, alla sinistra della Cava San Bartolomeo, diversi indizi fanno pensare ad un abitato
rurale sparso nei Piani di Sant’Agata e Casazzi, il cui sepolcreto potrebbe riconoscersi in contrada Catteto
nelle formae a est di casa Pacetto e negli arcosoli sottostanti273.
Circa 4 chilometri a sud-est di Scicli, nella contrada Baracche, precisamente nel podere Pettinicchio a confine
con il Palmento della Grazia, nel 1873 furono rinvenuti i ruderi di un edificio, nel quale vennero messi in
luce due differenti tipi di mosaici; si notarono inoltre molti cippi in marmo e uno in granito egiziano e si
raccolsero due frammenti di un’iscrizione funeraria in latino su una lastra di tufo calcareo, parzialmente
ricomponibile274. Essi si conservano ora nel Museo di Ragusa e si presentano molto erosi, ma ci sembra di
poter proporne una ricostruzione del testo, combinando anche le testimonianze del Pacetto e del Ferrua:
+ [in n(omine) d(omi)n]i salv(atoris) n(ostri) IHY XPI hic req[uiesc-]
it Eutych[ia]nae quae vixi[t annos]
[qui]nquaginta sept(em), erept[a sep-]
timodecimo die mensis mai [indicti-]
one sexta. Qui legis ora [pro me]
sic Deum [h]abeas adiuto[rem].
Quanto alla cronologia dell’epitaffio, va osservato che non solo vi compare l’indicazione isolata dell’indi-
zione275, ma la formula iniziale si ritrova nella sopra ricordata iscrizione di Cresconius da Scrofani-Cipol-
luzze e a Siracusa nell’iscrizione del banchiere Anastasio276; nella penisola in iscrizioni datate nell’VIII e
IX secolo277, secoli ai quali rimanda anche la paleografia. In particolare, l’aggiunta dell’epiteto Salvatore
compare in Africa forse verso l’inizio del VII secolo278 e con sicurezza a Roma in un’epigrafe che si data
durante il papato di Gregorio III (731- 741)279. L’invocazione finale ha riscontro nello stesso periodo280.
Va sottolineata la presenza nella zona costiera sciclitana di questo documento eccezionale, perché latino e
tardo, in quanto questa Eutychiana va inquadrata nell’VIII-IX secolo, alla vigilia cioè dell’invasione araba,
e attesta ancora uno stretto legame con la chiesa di Roma.
Ormai a soli quattro chilometri dalla costa si trovano infine il villaggio, con cisterne scavate nella roccia,
della contrada Picciona-Scalonazzo, sulla Cava Labbisi alle spalle di Sampieri, e l’altro di contrada Bella-
magna-Camardemi sopra Pozzallo, del quale abbiamo ricordato le brocchette con incisioni a pettine e che
potrebbe perpetuare il ricordo di una ‘camarda’, ossia una postazione bizantina281. Si è pensato anche ad
una postazione marittima bizantina sullo scoglio dei Porri, a controllo dell’antistante Marina della Marza,
a giudicare da poche tombe antropomorfe con lucerne acrome siciliane di VIII secolo282.
264
Cfr. PIETRI 2002, p. 260. 272
S.L. AGNELLO 1949, p. 522.
265
RIZZONE, SAMMITO 2004b, p. 104, fig. 2. 273
MILITELLO2001, pp. 496-99.
266
DURLIAT 1981, p. 72 s. 274
FERRUA 1982-83, p. 29, 102; ID. 1989, p. 133, 501;
267
GRAY 1948, nn. 18, 27, 30 (inizi VIII), 51, 54, 92, 94, MILITELLO 2001, p. 512.
105, 117 (inizi IX). 275
L’indizione isolata ricorre dal VI e VII secolo nelle
268
Palazzedda è un plurale collettivo di palazzieddu; il iscrizioni cristiane di Sicilia, FERRUA 1982-83, p. 29.
contiguo sepolcreto era detto ‘centu mangiaturi’, da un cen- 276
AGNELLO 1953, n. 85; MILITELLO 2001, p. 515.
tinaio di formae situate poco a nord: SOLARINO 1885, p. 56; 277
GRAY 1948, nn. 5, 30, 52, 101; CIMARRA et al. 2002,
RIZZONE, SAMMITO 2001, p. 20. p. 60, n. 11.
269
Med. Buxella, Buxellum, da buxus (bosso), CARACAUSI 278
DURLIAT 1981, p. 81.
1994, pp. 219-21. 279
GRAY 1948, p. 50, n. 5.
270
SOLARINO 1884, p. 209; REVELLI 1904, p. 50 ss.; PACE 280
CIMARRA ET AL. 2002, pp. 124, 133.
1949, p. 246. 281
Cfr. CARACAUSI 1990, p. 260.
271
RIZZONE, SAMMITO 2004b, pp. 99-101. 282
DI STEFANO 1993-94, p. 1420.
404 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

4. FORTIFICAZIONI BIZANTINE: SECONDA FASE (741- 878)


Nella storia della Sicilia una svolta radicale fu quella impressa dall’imperatore Leone III Isaurico,
il quale non solo scatenò la lotta iconoclasta (726), ma prese anche la decisione di sottomettere
l’isola alle dirette dipendenze del patriarca di Costantinopoli (732), sottomissione attuata poi di
fatto da Costantino V283. Il cambiamento del rito religioso comportò lo stretto legame dell’isola
con il clero orientale e di conseguenza il sostituirsi della lingua greca al latino anche nella sfera
liturgica284; un elemento importante, da tenere presente accanto alla costituzione del tema per
individuare la terminologia dei kastra di questo secondo periodo, che da latina diventa greca.
Un triste episodio scatenante per l’assetto dell’insediamento avvenne nel 740, quando Habīb ibn
Abī ‘Ubaydah corse l’isola saccheggiandola e suo figlio pose l’assedio alla stessa capitale, Siracusa,
abbandonandola solo dopo avere ottenuto il pagamento di un tributo285.
Per rafforzare le difese dell’isola, quindi, una seconda serie di kastra dovette essere realizzata
soprattutto durante il lungo regno dell’imperatore Costantino V (741-75). Abbiamo la fortuna
di possederne due testimonianze esplicite. Infatti il fenomeno è precisamente registrato da Ibn al-
Athīr (che scrive intorno al 1200), quando dice che «i Bizantini ristorarono ogni luogo dell’isola,
munirono i castelli e i fortilizi»286. All’incirca con le stesse parole si esprimerà anche al-Nuwayrī
(che scrive intorno al 1300): «il paese fu restaurato in ogni parte dai Bizantini, i quali vi edifica-
rono fortilizi e castelli, né lasciarono monte che non v’ergessero una rocca»287.
In questo periodo, pertanto, si realizza un preciso ed organico programma di incastellamento,
sempre sotto il rigoroso controllo del potere centrale, nell’ambito della politica militare promossa
dall’imperatore Costantino V. Pur tenendo nel debito conto che c’è dell’esagerazione retorica
nell’espressione aggiunta da al-Nuwayrī, perché certo non tutte le vette dell’isola ebbero allora
una fortezza, tuttavia le fonti non ammettono dubbio sull’entità dell’intervento e vi distinguono
chiaramente centri fortificati di differente entità: castra e phrouria, destinati a sostituire i prece-
denti choría aperti.
L’unica testimonianza epigrafica certa pervenutaci riguarda quella che è stata forse l’ultima
di queste fortificazioni, tentata dal patrizio Costantino Caramalo ad estrema difesa di Taormina
erigendo alle sue spalle l’eccelso Castel di Mola, definito kastron, in un periodo certo di non
molto anteriore alla caduta di Taormina avvenuta nel 903288.
Anche la viabilità cambia in questo periodo per adeguarsi alla nuova realtà insediativa e vediamo
formarsi così un’importante arteria longitudinale di arroccamento, la cosiddetta ‘Palermo-Messina
Montagne’289, che congiunge i centri d’altura fortificati interni (Castiglione, Randazzo, Maniace,
Cesarò, Troina, Cerami, Nicosia, Sperlinga, Gangi, Petralia, Polizzi, Caltavuturo e Cerda), a scapito
di quelli portuali della costa tirrenica, che erano stati congiunti in età romana dalla via Valeria,
ma erano ormai decaduti290. Allo stesso modo nel VII secolo la strada di arroccamento montano
attraverso il Montefeltro aveva sostituito tra Pentapoli ed Esarcato la romana via Flaminia291.
Quello che sembra contraddistinguere questa fase bizantina più tarda (all’incirca tra la metà
dell’VIII e la metà del IX secolo), e che ce la rende perciò riconoscibile, è che la terminologia
adottata per definire le nuove fortezze ora è diversa e in greco. Esempi famosi sono Rometta e
Filaci/Filaga.
Rometta, in dialetto Rametta, deriva il nome da τὰ ε’ ρύµατα, che indicavano «le difese, le for-
tezze»292. Sorse arroccata su una collina rocciosa (a quota 560) alle spalle di Messina e fu l’ultima
roccaforte bizantina a cadere in mano agli Arabi. Venne conquistata una prima volta nel 902
insieme a Demenna, ma definitivamente solo nel 965293.
Dinnamare, castello su una rupe presso Rometta, deriva il suo nome da δυναµάρι(ον), ‘rocca’,
oggi banalizzato in Antennamare, malgrado la sua posizione montana294. Meglio conservato è
l’analogo toponimo Dinamari, che indicava una fortezza d’altura alla periferia meridionale del-

283
Sul conseguente conflitto con il papato v. MARAZZI 1992. 289
UGGERI 1986, p. 107; PATITUCCI 2002, p. 28, fig. 14.
284
Le quattro iscrizioni rinvenute in chiese del Ragusano 290
UGGERI 2004.
e databili tra VI e VIII secolo sono redatte in latino, di contro 291
UGGERI 2001, pp. 89-116.
alla massa delle iscrizioni funerarie paleocristiane in greco. 292
Da cui la forma araba rimtah (Edrisi, p. 61; BAS, I, 117),
285
AMARI 1933, I, p. 299 s. CARACAUSI 1990, p. 498; ID., 1994, II, p. 1379.
286
AMARI, BAS, I, p. 363. 293
SYBOLD 1910, II, p. 212; SCIBONA, Per la chiesa 1975-76,
287
AMARI, BAS, II, p. 113. pp. 279-86; ID., Una moneta fatimita 1975-76, p. 287-94.
288
CIG, IV, 8689; PACE 1949, IV, p. 133, fig. 36. 294
CARACAUSI 1994, p. 173.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 405

l’odierna Piazza Armerina. Questa città ha sostituito il castrum bizantino che era sorto poco a
ovest sul Piano Marino, banalizzazione – come abbiamo dimostrato altrove295 – di quel qal’at al
Armanin ricordato nella conquista araba dell’862; esso era stato fondato da un corpo di soldati
Armeni poco dopo il 792 e venne distrutto nel 1161296.
To phylakion, ossia ‘il posto di guardia’, è sopravvissuto in due località dell’interno della Sici-
lia: Cozzo Filaci297, subito fuori Prizzi, e Serra Filaga, sei chilometri a sud-est di Prizzi, sulla via
romana da Palermo a Agrigento298, all’incrocio con l’importante via trasversale Termini-Sciacca,
per cui vi sorgerà un ospedale, detto appunto hospitium Flace299. Anche qui sono noti resti archeo-
logici di età bizantina300.
Nello stesso periodo dovette essere fortificata Butera, anche se il suo nome non esprime una
fortificazione, bensì l’ampia pianura costiera sottostante «che fornisce pastura estiva», sempre nel
greco bizantino (boutheres)301. Questo centro infatti sorge su uno sperone isolato, che dominava e
proteggeva lo sbocco a mare delle greggi transumanti provenienti dall’interno dell’isola. In questo
caso fu fortificato un insediamento d’altura già esistente. Qui infatti un tesoretto di monete d’oro,
datato dal Griffo intorno al 457, è un prezioso documento che attesta la fuga in altura davanti alle
incursioni vandaliche (è la stessa cronologia del già ricordato tesoro di Comiso). Inoltre a Butera è
noto un sepolcreto di età bizantina302, che ha dato ceramica africana di VI-VII secolo303. Già Paolo
Orsi ricordava il ritrovamento di un anello d’oro con iscrizione greca e di un orecchino aureo
costantinopolitano. Dinu Adamesteanu condusse degli scavi in piccole tombe a camera dietro il
Municipio e sotto il fianco orientale del Castello; da qui proviene anche un vaso con iscrizione
cristiana in greco304. Butera rimase l’unico centro di rilievo lungo tutta la fascia costiera tra Licata
e Ragusa fino al XIII secolo ed ebbe uno scalo portuale sottostante, a Manfria, che presenta pure
resti bizantini305. La roccaforte di Butera fu conquistata dagli Arabi nell’854306.
Nel nostro territorio un caso emblematico è rappresentato da Ragusa, le cui origini ci sembrano
da mettere in relazione con la necessità di disporre di granai per l’annona militare bizantina. A
questa stessa esigenza risposero del resto i granai costruiti dai Bizantini nella penisola italiana e
dei quali fanno testimonianza i toponimi del tipo Ansidonia, documentati in due punti strategici
della Tuscia e in Abruzzo a Peltuinum. Essi derivano dalla denominazione comunemente usata in
età bizantina per designare i granai, sitonia307. Questi servizi risultano indispensabili sullo scorcio
del VI secolo per l’approvvigionamento dell’esercito bizantino, come vediamo ad esempio dai
granai costruiti in cima all’acropoli abbandonata di Cosa, che diventa perciò Ansedonia per la
sua nuova funzione308. Possiamo ricordare che nell’età di Giustiniano σιτϖνα erano stati costruiti
anche nell’isola di Tenedo, in un punto strategico della rotta Alessandria – Costantinopoli, ma in
questo caso per garantire il rifornimento della capitale309. D’altra parte sotto Gregorio Magno il
curator sitonici della Sicilia inviava grano a Roma con navi imperiali310. Non è il caso di richiamare
l’importanza che i granai pubblici giocarono in ogni epoca, ma certo anche in età medievale da
analoga funzione trasse origine e nome la città di Foggia (fovea)311.
4.1 RAGUSA
Non si è riflettuto finora sulle origini della città di Ragusa. Ma il suo nome, che compare come r.gùs nei
documenti arabi312, perpetua il termine bizantino ρογοί, ossia ‘i granai’313, fissatosi nel volgare, come di
norma, all’accusativo, τοὺς ρογούς. Questo termine rhogoì era stato usato in età classica dal commediografo
siracusano Epicarmo e ricorre successivamente sulle Tavole di Eraclea in Lucania; il tardo lessicografo Esichio
di Alessandria (secolo V d.C.) lo considerava dialettale, più precisamente siceliota. Si tratta pertanto di un
termine tecnico locale, che restò vivo fino in età bizantina in Sicilia, rimpiazzandovi la denominazione più
diffusa sitonia o sitona usata generalmente per designare i granai. Altrove prevalse invece il termine tecnico
tardivo designante la stazione annonaria fortificata dislocata lungo la strada militare, in lt. metatum, in

295
UGGERI 2006, p. 333. 306
AMARI 1933, I, p. 458.
296
AMARI, I, p. 481; AMICO, II, s.v. Piazza Armerina. 307
PATITUCCI 2001, p. 199.
297
A q. 992, carta IGM, F° 258 II SE (Prizzi). 308
PATITUCCI 2001.
298
A q. 1016, carta IGM, F° 259 III SO (Filaga). UGGERI 309
Procop. de aedif. V, 1, 14.
2001, pp. 321-36; ID., 2004, p. 102. 310
PACE 1949, IV, p. 232; PATITUCCI 2001, p. 199.
299
CARACAUSI 1994, I, p. 611. 311
COLELLA 1941, p. 381 s.; ALESSIO 1942, p. 178. Per
300
OLIVERI 1989, p. 378. restare in zona, si possono ricordare a est della foce di Scicli i
301
PELLEGRINI 1986, p. 140. Granari Vecchi, così denominati ai tempi del Fazello, e i Gra-
302
PACE 1949, IV, p. 173. nieri, sia nella valle del Tellaro che presso Mazzarrone.
303
WILSON 1990, p. 392 n. 169. 312
In arabo r.gùs, a. 999 ss.; in lat. Ragusa, a. 1093 ss.,
304
PANVINI 2003, p. 143-4, fig. 1. Ragusia, a. 1120 ss., CARACAUSI 1994, II, p. 1319.
305
Cfr. Edrisi; TABBÌ 1993. 313
Epicarm. 22; Tab. Heracl. I, 102; Esych. s.v. rhogoì.
406 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

gr. metaton314, come leggiamo nel codice giustinianeo ed è documentato in Puglia sulla via Appia 315 e in
Sardegna dal metatum Sancti Longini centurionis, poi castello di Santa Igia316, che portava il nome scritto
sull’ingresso alla stregua dei fortini bizantini della fronteggiante Africa bizantina317.
Dopo la costituzione del Tema di Sicilia, la presenza dell’esercito stanziale rese indispensabile anche qui
la costruzione di stazioni di ammasso granario ed è in questo contesto che va inserita la nascita di Ragusa.
Una conferma archeologica alla datazione delle sue origini possiamo rintracciarla ora a Ragusa nella docu-
mentazione numismatica, che comincia con emissioni di Costantino V (741-775) e di Leone V (813-820),
ma registra un massiccio incremento ai tempi di Teofilo (829-842), come documenta il tesoretto rinvenuto
presso la stazione ferroviaria, forse non più recuperato a causa delle vicende connesse con la caduta della
città in mano agli Arabi nell’866318.
La bizantina Ragusa sorse nel sito oggi chiamato Iusu (Ragusa Inferiore) o con termine dotto Ibla (Fig. 60
a), un erto sperone di roccia calcarea che si affaccia precipite sulla valle dell’Irminio ed è stretto sui fianchi
scoscesi da due affluenti, i profondi burroni (detti in dialetto «cave») dei torrenti San Leonardo a nord e
Santa Domenica a sud. Solo uno strettissimo e basso istmo la collega ad ovest all’altopiano, del quale giace
a quota notevolmente inferiore; poteva così garantire la massima sicurezza ai granai, rimanendo nascosta
a chi percorreva l’altopiano, poiché sorge dal fondo dello spacco dell’altopiano ibleo. Ragusa fu rafforzata
ulteriormente con imponenti mura, che corrono a mezza costa e che furono attribuite ad età bizantina già
da Paolo Orsi. Ne sono ancora conservati alcuni tratti a filari di grossi blocchi calcarei sul lato sud-orientale
della collina, presso la chiesa del Signore Trovato, dove ai tempi dell’Orsi ne erano visibili dieci assise (Fig.
58 c), e all’estremità ovest presso la Salita dell’Orologio, dove fanno da fondazione al campanile della chiesa
delle Anime Purganti o del Purgatorio319. È probabile che i granai, come nel caso di Cosa, fossero collocati
proprio sulla cima del colle, dove fino all’inizio del Novecento restavano i ruderi del castello normanno e
chiaramontano nella vasta area che fu poi utilizzata per costruirvi l’invadente Distretto Militare320. Appare
significativa la presenza a Ragusa di alcuni culti di origine bizantina: sul fianco roccioso della collina si
apre una piccola chiesa rupestre che conserva la dedicazione alla Santa Sofia; sull’istmo sorge la chiesa di
Santa Maria dell’Idria; sul ciglio nord presso la Porta dei Mulini sorse la chiesa di San Basilio; sullo sperone
orientale la chiesa di San Teodoro e nei pressi quella del santo patrono della città, San Giorgio, un culto
militare tipicamente bizantino e che ritroviamo a Modica. Il kastron di Ragusa fu assediato da Hafāģah,
subito dopo la seconda conquista di Noto, e cadde in mano agli Arabi nell’866321; un riscontro archeologico
è dato dal fatto che le ultime monete rinvenutevi spettano alla zecca di Siracusa e all’imperatore Michele
III (842-867)322. Su questo colle continuò la vita della città in età medievale e moderna fino al terremoto
del 1693, dopo il quale la città si estese anche sull’altopiano soprastante.
4.2 SANTA CROCE CAMERINA
Un altro analogo granaio bizantino, anch’esso finora passato inosservato, è indiziato a Santa Croce Camerina
da un documento dell’anno 1151 del monastero di San Filippo di Argirò, del quale purtroppo sono andate
distrutte per incendio le carte più antiche323. A questo monastero apparteneva il tenimentum Rogon in capite
Cambri. Il toponimo Rogon è il genitivo plurale di rhogoi, ossia ‘dei granai’, per cui si rimanda a quanto si
è detto per Ragusa. Il tenimentum Rogon era situato presso caput Cambri, ossia l’odierno capo Scalambri,
su cui sorge il Faro di Puntasecca a sud di Santa Croce. Rogon può rappresentare pertanto la sopravvivenza
del nome di una struttura annonaria essenziale per Caucana, ma impiantata più all’interno per ragioni di
sicurezza nella tarda età bizantina. Infatti il documento è relativo al casale, che in base ad altre testimonian-
ze324 si deve ubicare nel sito dei già ricordati ruderi del ‘Castello o Papallosso di Santa Lena’325, alla periferia
dell’abitato di Santa Croce (Fig. 13, 4). Evidentemente il termine Rogon si era già fissato come toponimo
in età bizantina se poté passare indenne attraverso due secoli di dominio arabo326. Non possiamo escludere
che sia stata l’importanza assunta dal sito di Santa Croce in questo periodo a motivare la costruzione o il
riattamento delle terme già illustrate, come anche della già ricordata chiesa dell’Itria.
4.3 MODICA
Anche l’antica Modica dovette vedere rinforzate le sue difese in questo periodo con un castello sull’ec-
celso sperone calcareo (Fig. 60 b), che domina la confluenza dei due torrenti che in questo punto danno
314
GUILLOU 1975, p. 39. Avari di Epidauro (Cavtat) nel 615. Ragusium ricorre già allo
315
UGGERI 1983, p. 333 s. scorcio del VII secolo in Rav. IV, 16 (p. 208, 10: Epitaurum id
316
SPANU 1998, p. 31, fig. 10. est Ragusium, riflesso da Guid. 114, p. 541, 25: Epitauron ubi
317
Cfr. DURLIAT 1981. nunc est Ra[gu]sium). V. ora I. RADIĆ ROSSI, I resti riemersi del
318
GUZZETTA, in FALLICO, GUZZETTA 2002, pp. 732, 737. porto medievale di Dubrovnik, in L. DE MARIA e R. TURCHETTI
319
P. ORSI, in Not. Scavi, 1899; PACE 1949, IV, p. 166, fìg. (eds.), Rotte e porti del Mediterraneo dopo la caduta dell’Impe-
52; GUILLOU 1975-76, p. 45 s.; FLACCAVENTO 1982, p. 24. ro Romano d’Occidente, IV seminario, Genova 2004, Soveria
320
FLACCAVENTO 1982, pp. 29-33. M., Rubbettino, 2004, pp. 171-88, con bibl. prec.
321
Concordano Ibn al-Atīr, Ibn Haldūn e la Cronaca di 322
GUZZETTA, in FALLICO, GUZZETTA 2002, p. 732.
Cambridge, cfr. AMARI 1933, I, p. 485. Ma l’Amari (ibid., I, 323
WHITE 1984.
p. 321, nota 8) attribuiva, senza prove, l’origine della nostra 324
V. ad es. PIRRI 1733, p. 1131 A: apud Ragusam casale San-
città a gente venuta da Ragusa di Dalmazia (Dubrovnik), la ctae Crucis de Rasacambra (a. 1195); cfr. p. 1250 A (a. 1199).
quale secondo la tradizione sarebbe stata fondata sulla rupe che 325
LINARES 1864, p. 5.
dominava il vicino porto dopo la distruzione ad opera degli 326
WHITE 1984, p. 351 s.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 407

Fig. 60 – a, Ragusa. Veduta dalla città


superiore; b, Modica. Veduta dell’acro-
poli con resti del castello.
b
inizio alla fiumara di Modica, il Motykanos potamòs327, che congiungeva la città al suo scalo marittimo.
Nulla sappiamo del castello in questa prima fase, poiché venne obliterato da quello medievale dei Conti
di Modica, distrutto a sua volta dal terremoto del 1693 e non fatto oggetto di scavi328. Si trattò comunque
di un caposaldo in grado di resistere agli Arabi, che se ne impadronirono solo nell’844/5329, se questo è il
kastellion detto ho hagios Ananìas tes Moutikas nella Cronaca di Cambridge, che lo ricorda insieme con
quello di Tourakinaia, forse Ispica330. La dedica del castello a Sant’Anania è una riprova della sua origine
bizantina, poiché si tratta di un culto orientale diffuso in quell’epoca331.
327
Ptol. III, 4, 3. SCHREINER 1975, I, p. 331.
328
MAURICI 2001, p. 374 s. 330
MESSINA 1991, pp. 166-68.
329
AMARI 1880-81, p. 278; ZURETTI 1915, p. 186, COZZA- 331
CARACAUSI 1990, p. 37B. Cfr. Santalanìa, chiesa rupestre
LUZI 1890, pp. 24, 54; AMARI 1933, 2. ed., I, p. 449 nt 3; di S. Anania presso Lentini, MESSINA 1979, p. 70, e Santalanea,
408 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

Fig. 61 – Scicli. Castellaccio e Castelluccio, schizzo planimetrico ( 1989). Cfr. Fig. 29.

4.4 SCICLI
L’esplorazione archeologica ci ha rivelato altri phrouria e kastra di questo periodo. Nella nostra zona uno
sembra essere proprio l’erta fortezza che sorge sul colle di San Matteo a dominio dell’abitato di Scicli, sullo
sperone di confluenza dei due valloni della cava di Santa Maria la Nova (già Santa Venera) a nord e di San
Bartolomeo a sud. La stretta dorsale di circa m 240 × 50 al massimo si articola nel piccolo Castellaccio sullo
sperone (quota 212), isolato da un fossato, e nel Castelluccio o Castello dei Tre Cantoni alle spalle (quota
229), oltre il quale il collegamento con il resto della collina venne sbarrato con un fossato molto largo e
profondo 332 (Figg. 29, 61). Tutte le strutture a vista sono naturalmente tardo medievali333; non possiamo
perciò definire in che misura la fortificazione bizantina interessasse l’area dello sperone, che conserva in
superficie frammenti di ceramica acroma bizantina. Il phrourion sostenne un lungo assedio dopo la caduta
di Noto e fu conquistato dagli Arabi solo nell’864 334. Va ricordato che numerosissime abitazioni rupestri
(e precedenti ipogei sepolcrali) si aprono nelle sue pendici nel quartiere Chiafura, che prese nome proprio
dai soprastanti phrouria (v. supra).
4.5 ISPICA
Un castello formidabile è certo quello di Ispica, una rupe isolata a superficie piana (circa tre ettari) e a
pareti scoscese, posta in mezzo all’imbocco della vallata, che si addentra alle sue spalle per 13 chilometri.
Fu abitato sin dall’età del Bronzo e forse va identificato con la Tyrakinai di età classica, il cui nome sem-
bra sopravvivere fino alla conquista araba del kastellion nell’845335. Venne abitato ancora nel medioevo,
anche se un fortilizio (la Forza) vi è ricordato solo dal Trecento336. All’epoca bizantina potrebbe risalire
la sua denominazione, Ispica337, se va spiegata come ει’ς πηγήν, ‘alla fonte’, con riferimento forse non già
alla ricca sorgente detta poi Favara, distante 600 metri, quanto piuttosto al Centoscale, un tunnel che dal
pianoro sommitale perfora la roccia e scende con 280 gradini fino a raggiungere l’acqua, preziosa riserva
in caso d’assedio.

CARACAUSI 1994, p. 1438A. 335


ZURETTI 1915, p. 186; COZZA-LUZI 1890, pp. 24, 54;
332
Questo è già stato attribuito giustamente ai Bizantini AMARI 1933, 2° ed., p. 449 nt. 3.
da MILITELLO 1989, pp. 5-47; MESSINA 1994, p. 88; MILITELLO 336
MAURICI 2001, p. 373.
2007, pp. 17-22. 337
Isbacha nel 1093 e tenimentum Spaccafurni dal 1169,
333
MAURICI 2001, pp. 379-81. PIRRI 1733, I, pp. 618, 623, 683. AMICI, Lexicon, 1757, I, p.
334
AMARI 1933, I, p. 483; II, p. 183 (S.klah; cfr. Sycla, 316 s.
anno 1093).
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 409

5. CONCLUSIONI
5.1 La cuspide sud-orientale della Sicilia soffre oggi di una condizione di marginalità nei
nuovi equilibri della compagine europea, ma dalla nostra disamina appare invece evidente il
suo ruolo vitale nella circolazione di beni e di idee del Mediterraneo tardoantico tra Oriente,
Africa e Roma. La persistenza della lingua greca nella nostra area serviva d’altronde a man-
tenere un legame privilegiato con la parte orientale dell’impero. A queste relazioni si collega
la documentata presenza in Sicilia di mercanti orientali, di Antiochia e di Apamea, di Licia e
di Lidia, tra i quali naturalmente diversi ebrei, dei quali l’archeologia ha rivelato la presenza
fino a tardi nei nodi viari, a Siracusa e a Catania anzitutto, ma anche nelle stazioni itinerarie
di Philosophiana e di Hybla. Al XIV-XV secolo ci sembrano spettare invece le due iscrizioni
ebraiche del castello di Comiso; mentre a Ragusa, Modica e Ispica rimane il ricordo topono-
mastico del quartiere giudaico (‘cartidduni’, dall’arabo ḥārat al-yahūd, italianizzato Cartellone).
Anche se le testimonianze sono numericamente limitate, la compresenza di nuclei ebraici nei
centri siciliani appare dunque continuativa fino all’esodo forzato del 1492. Nella campagna
ellenofona la presenza di giudeo-cristiani sembra dar vita alla superstizione magica degli An-
geliani, almeno fino alla fine del VI secolo; anche le numerose dedicazioni all’Angelo possono
essere nate perciò da questo fervore eretico, mentre nella penisola nascevano dalla particolare
devozione dei Longobardi per San Michele.
Il potere bizantino, però, se aveva ridato per almeno un secolo e mezzo un ruolo di centralità
nell’ambito dei traffici del Mediterraneo alla Sicilia, ne aveva fatto successivamente un Tema
lontano dalla capitale, e quindi una terra di sfruttamento; ne derivò perciò un forte malcon-
tento, che venne talora utilizzato dai generali, che ne approfittarono per cercare di rendersi
autonomi dal potere centrale, come fece nel 781/82 lo stratega Elpidio, che si rivoltò contro
l’imperatrice Irene. Così, qualche decennio dopo il generale (turmarca) bizantino Eufemio
usurpò il titolo imperiale e – a quanto pare – fondò delle fortezze che ne conservano il nome
(Calatafìmi e Isola delle Femmine)338, ma fu costretto a chiedere il sostegno degli Arabi, che
così sbarcarono nell’827 in Sicilia non più da predatori, ma formalmente da alleati di Eufemio
e in realtà da conquistatori. Da Mazara essi si spinsero immediatamente fino a Siracusa, certo
percorrendo l’antica via Selinuntina, dimostrando così il pericolo costituito dalle vecchie stra-
de romane superstiti davanti ad un’invasione affidata a rapidi movimenti di cavalleria339. Co-
mincia la lenta, ma inesorabile conquista araba della Sicilia, che si consolida progressivamente
tra il IX e il X secolo. Nell’844 gli Arabi si impadroniscono di Modica e nell’852 compiono
scorrerie nel territorio di Camarina e forse a Caucana340; conquistano Noto e Scicli nell’864
ed infine anche Ragusa nell’866. Così la presenza bizantina scompare definitivamente nella
parte meridionale interna dell’isola. Nell’878 cade anche la capitale Siracusa e i Bizantini in
fuga mettono al sicuro il corpo di San Marciano, trasportandolo a Patrasso, nella basilica di
San Teodoro341; mentre molti fuggono in Calabria e i monaci in particolare al Mercurion.
Verso l’882 i Bizantini sgomberano l’isola, tranne la cuspide nord-orientale, mantenuta grazie
ai facili collegamenti con le retrovie della turma calabrese. Nell’886 viene conclusa la pace tra
cristiani e musulmani; i cristiani e gli ebrei di Sicilia che non accettano di convertirsi vengono
assoggettati al pagamento di due tasse, quella personale detta gezia (djizya) e quella sulle terre
detta caragio (kharàdj).
Solo nel 902 cade Demenna e nel 903 cade anche Taormina difesa dal patrizio Costantino
Caramalo; finalmente nel 963/5 l’emiro kalbita Ahmad completa la conquista dell’isola impa-
dronendosi dell’ultima piazzaforte bizantina superstite, ossia Rometta.
Negli anni 1038-40 Bisanzio scatenò un’ultima controffensiva e si assistette ancora ad una
effimera riconquista bizantina dell’isola sotto la dinastia macedone, con Michele di Paflagonia,
grazie alle doti militari del generale Giorgio Maniace, che riuscì ad occupare tredici città della
Sicilia Orientale, da Messina a Siracusa, utilizzando anche truppe mercenarie composte da Italiani,
Scandinavi e Normanni342. Ma questa vittoria effimera, invece di ridare forza all’impero lontano,
ne avrebbe rivelato la debolezza e aperto la strada all’avventura normanna.

338
UGGERI 2006, p. 333. 340
PACE 1927, p. 146.
339
Sul conseguente rifiuto della strada e della sua manu- 341
Anal. Boll. 1912, p. 213; LANZONI 1927, II, p. 637.
tenzione nell’alto medioevo, UGGERI 1978. 342
AMARI 1933, II, p. 438 ss.
410 STELLA PATITUCCI – GIOVANNI UGGERI

5.2 La topografia e l’archeologia della Sicilia bizantina sono rimaste ancorate finora conven-
zionalmente al VI e al VII secolo, trascurando che in realtà la Sicilia era ancora più strettamente
legata a Costantinopoli nell’VIII e nel IX secolo, non solo militarmente ed economicamente, ma
anche culturalmente e perfino per il culto. La Sicilia, cioè, continuava a vivere nella temperie
‘tardo-antica’ dell’Impero Romano d’Oriente, quando invece la penisola italiana era già entrata
nel medioevo.
La Sicilia degli ultimi due secoli della fase bizantina balza ora evidente nella sua consistenza,
ove si considerino le novità che emergono dall’analisi anche di un territorio così ristretto, come
quello trattato in questa sede. Sul piano insediativo, due sono le novità da sottolineare, cioè i due
fenomeni che insorgono come reazione alla minaccia araba: l’insediamento rupestre, che oltre
trent’anni or sono avevamo individuato come caratterizzante questo periodo, e la fortificazione
d’altura, che negli ultimi decenni si è venuta enucleando come espressione del periodo bizan-
tino, se non già del periodo goto, in quelle parti d’Italia dove era insorta la necessità strategica
di queste fortificazioni, prima nel corso della guerra goto-bizantina e poi davanti all’improvvisa
invasione longobarda. In Sicilia i Bizantini reagiranno secondo gli stessi criteri, ma molto più tardi,
quando anche l’isola sarà minacciata in seguito all’invasione islamica dell’Africa ed in particolare
come reazione al disastroso sacco di Siracusa del 673. L’esigenza di difese efficaci sarà destinata
ad acuirsi dopo la perdita dell’Africa, quando si costituisce il Tema di Sicilia, e soprattutto dopo
il nuovo assedio arabo di Siracusa del 740. In sostanza, la periodizzazione sopra proposta, in
quattro momenti, può essere sintetizzata in due fasi, delle quali la prima continua sotto ogni
profilo il periodo tardo-antico, fino al 673; mentre la seconda vede la necessità di una reazione
sempre più efficace al pericolo arabo da parte bizantina e automaticamente trasforma l’isola in
una frontiera militare in continua belligeranza.
La fortificazione in altura ebbe in Sicilia diverse ripercussioni sulla distribuzione dell’insedia-
mento, come anche sulla viabilità, perché allora si formarono i tortuosi e difficili percorsi mon-
tuosi per collegare le fortezze bizantine, come nel caso meglio noto della via Palermo-Messina
Montagne; si determinò inoltre l’abbandono delle coste meridionali dell’isola che perdurerà poi
per secoli, fino a Federico II di Svevia. Nel nostro territorio, ad esempio, l’insediamento portuale
di Caucana, sorto nel IV secolo, forse di concerto con quello più occidentale di Sciacca, declinò
con la fine del VII secolo per scomparire definitivamente nella seconda metà del IX secolo in
corrispondenza con la caduta di Siracusa, come attestano le monete rinvenutevi. Questo implica
che anche dopo la conquista araba del massiccio ibleo la costa continuò ad essere controllata per
oltre un decennio dai Bizantini, analogamente a quanto avvenne sulla costa tirrenica della Tuscia
e sulla costa adriatica tra la Pentapoli e il Gargano.
Tutta la ricostruzione dell’incastellamento bizantino, in mancanza di scavi archeologici mirati,
poggia soprattutto su due pilastri, da una parte le sopravvivenze di carattere toponomastico,
dall’altra le situazioni geomorfologiche peculiari dell’ambiente isolano. Così, da un lato abbiamo
termini come Castiglione, già riconosciuto come caratteristico del primo periodo bizantino, e
dall’altro Rometta, ta erhymata, cioè ‘le fortezze’, famoso baluardo peloritano del secondo periodo
bizantino. Una novità assoluta è la scoperta di presenze di granai fiscali, in funzione delle nuove
esigenze dell’esercito stanziale del Tema siciliano, che nel nostro territorio hanno un riflesso nei
Rhogoi di Ragusa e di Santa Croce Camerina, come nella penisola lo avevano avuto nei sitonia,
che hanno lasciato come esito Ansedonia, almeno nei tre casi esemplari individuati nella Tuscia e
nell’Abruzzo343. Il particolare ambiente geomorfologico ibleo porta a scegliere come punti privi-
legiati per l’impianto delle nuove fortezze gli speroni rocciosi sui cunei di confluenza di profondi
valloni, che – perché siano completamente isolati – basta sbarrare alle spalle, come a Scicli con un
profondo fossato o a Modica con un muraglione. A riprova, diverse dediche santorali di queste
fortificazioni sono tipicamente bizantine e orientali (San Giorgio, Sant’Anania, San Basilio, San
Teodoro, Santa Sofia, Madonna dell’Idria), come all’Oriente rimandano le poche architetture
religiose ancora valutabili.
Parallelamente alla fortificazione delle alture, sembrano da riferire a questo periodo numerosi
abitati rurali dell’altopiano ibleo, i quali sono caratterizzati da una tipologia muraria definita
– forse impropriamente, ma icasticamente – ‘megalitica’. Appare tuttavia opportuno sottolineare
che mancano tuttora precisi riscontri stratigrafici per definirne con esattezza la cronologia.
343
PATITUCCI 2001.
DINAMICHE INSEDIATIVE IN SICILIA 411

Di questa seconda fase riusciamo infatti a cogliere le profonde trasformazioni occorse sul
piano insediativo e talora anche economico, mentre sul piano archeologico è assai più difficile
coglierne lo sviluppo. Malgrado la cessazione delle importazioni di manufatti dall’Africa e poi
dall’Oriente, intuiamo però che i modi dell’artigianato, soprattutto ceramico, dovettero restare
analoghi a quelli della fase precedente. Le nostre conoscenze su questo periodo rimangono an-
cora lacunose per la mancanza di scavi illuminanti, ancorati a contesti sicuri, dove le ceramiche
d’uso comune e di produzione locale si trovino associate con anfore commerciali e con altri
materiali di cronologia certa. Su questa base, una revisione sistematica e minuziosa dei materiali
e in particolare della morfologia vascolare, potrebbe costituire il filo conduttore per arrivare a
circostanziare la seriazione cronologica delle ceramiche della Sicilia nell’VIII e nel IX secolo. Ma
questo modello è ancora tutto da costruire.
Più che da inesistenti scavi stratigrafici d’abitati, qualcosa per ora si può ricavare dai contesti
sepolcrali, visto che in Sicilia fino all’arrivo degli Arabi continuano ad essere deposti nelle tombe
sia ceramica che vetri, oltre agli ovvii elementi di abbigliamento, quali orecchini, collane di paste
vitree, anelli e fibbie. Sotto questo profilo è dal nostro territorio, dal sepolcreto sotto Vittoria,
che proviene un dato molto importante, perché ci offre tre contesti tombali sicuri, con presenza
di ceramiche acrome da mensa associate a monete del secondo decennio del IX secolo344. Questi
dati sono per noi soprattutto un monito per renderci cauti davanti alle datazioni generiche al
VI-VII secolo attribuite finora al vasellame acromo bizantino noto dalla Sicilia. È infatti evidente
che qui si produssero fino al IX secolo ceramiche di buona qualità, che continuavano la tradizio-
ne vascolare del VI-VII secolo345. Non vi si riscontra tuttavia una standardizzazione delle forme,
segno che le produzioni erano locali e di limitata circolazione, per cui le tipologie e gli impasti
tradiscono una grande quantità di officine.

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344
Per l’utilità delle monete nei contesti funerari cfr. già 345
Si fermano ancora rigorosamente al VII secolo DAN-
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Il Castello di Poggio Diana nella valle del Verdura
(Ribera, Agrigento)

MARIA CONCETTA PARELLO – MARIA SERENA RIZZO

Il Castello di Poggio Diana occupa la sommità stretta e allungata di un’altura che si eleva a
pochi chilometri dal mare, culminante a m 132, dalle pendici ripide e scoscese nei versanti nord
ed ovest, più dolci sui lati sud ed est. La collina si protende da NE verso il fiume Verdura, che la
circonda con un’ampia ansa (Fig. 1). Il fiume, uno dei principali corsi d’acqua dell’area compresa
tra il Platani ed il Belice, nasce, con il nome di Sosio, dalle sorgenti di Montescuro, in territorio
di Prizzi, nel cuore del complesso montuoso dei monti Sicani, che attraversa nel suo tratto ini-
ziale. Dal lago Favara di Burgio esce con il nome di Verdura e, dopo avere intagliato le estreme
propaggini della catena montuosa con una stretta valle, superata la collina di Poggio Diana, entra
in un’ampia pianura alluvionale, fertilissima e attualmente destinata soprattutto alla coltivazione
intensiva degli agrumi; sfocia quindi nel mar Mediterraneo, nei pressi della cinquecentesca torre
Verdura, segnando il confine tra i territori comunali di Ribera e Sciacca.
La valle fluviale ha certamente svolto, nel corso dei millenni, un ruolo importante nel collega-
mento tra la costa e l’entroterra collinare e montuoso dell’isola. Essa rappresenta infatti un’im-
portante via naturale di penetrazione1 e, come tale, ha condizionato la storia del popolamento
di una vasta area2. Proprio in relazione a questa sua funzione si spiega la nascita, alla fine del
‘300, del complesso fortificato sulla collina di Poggio Diana, che domina la valle fluviale nel suo
corso inferiore, nel punto in cui il fiume, lasciatesi alle spalle le alture dell’entroterra, entra nella
pianura costiera (Fig. 2). Nell’area del castello, nei mesi di luglio e agosto 2005 e gennaio 2006,
in occasione del restauro effettuato dalla Soprintendenza BBCCAA di Agrigento3, si è svolta una
breve campagna di scavi. I risultati della ricerca sono ancora in corso di studio; tuttavia ci sem-
bra utile presentare alcuni dei dati finora disponibili, poiché riteniamo che possano arricchire il
quadro delle conoscenze sui fenomeni insediativi di un periodo, quello tardo medievale, che, in
questa parte della Sicilia, è ancora estremamente frammentario4.
Le fonti citano il Verdura in quanto esso era attraversato dalla via costiera, che, in età romana,
perpetuava il percorso dell’antica via selinuntina5. Il fiume, infatti, è stato identificato con l’Alba
di cui parla Diodoro a proposito della seconda guerra servile, e con l’Albo Magarensium di Vi-
bio Sequestre6. Sulle sue rive doveva trovarsi la mansio di Allava7 menzionata dall’Itinerarium
Antonini lungo la strada da Lilybaeum ad Agrigentum. Nel libro del Re Ruggero il geografo arabo
di età normanna Idrīsī8, nel descrivere le tappe del percorso costiero che tocca porti e approdi
dell’isola a partire da Palermo, parla di un Wadi Allabu, ponendolo ad otto miglia da Sciacca e
a nove da Capo Bianco.
Non vi è dubbio, tuttavia, che, come già si accennava, la valle fluviale ha avuto un ruolo si-
gnificativo anche come via di penetrazione dalla costa verso le colline dell’entroterra, che, come
gran parte delle zone interne dell’agrigentino, rappresentavano, almeno a partire dall’età romana9,

1
GULLETTA 2003, p. 783, secondo la quale il Verdura, 1976, pp. 64-68; UGGERI 2004, pp. 163-198, con bibliografia
insieme alle valli fluviali del Belice, del Mazaro e dell’Imera, ga- precedente.
rantiva il collegamento tra le due principali coste dell’isola. 6
Sui problemi inerenti l’identificazione vd. BEJOR 1975,
2
BTCGI, s.v. Ribera. pp. 1278-1279; UGGERI 2004, p. 171.
3
Intervento realizzato con i fondi del POR Sicilia 2000- 7
BEJOR 1975, pp. 1278-1279; UGGERI 2004, p. 171.
2006-Asse II-Misura 2.01-Azione B-Circuito Aree Archeolo- 8
AMARI 1933-39, p. 122.
giche; lo scavo è stato condotto dalla dott.ssa Maria Concetta 9
Per questo periodo, infatti, sono segnalati, lungo il corso
Parello, del Servizio Archeologico della stessa Soprintendenza medio e basso del Verdura, numerosi insediamenti, alcuni
su incarico della dott.ssa Armida De Miro, responsabile del dei quali probabilmente piccoli abitati rurali, altri invece
servizio, che ringraziamo. molto estesi e con una lunga continuità di vita: tra questi
4
Pochi gli studi di carattere generale sull’insediamento l’insediamento di piano del Fusillo e quello di contrada Ter-
siciliano nel ’300; essenziali le riflessioni proposte in BRESC rito, sul Piano del Magone, nel quale si è ipotizzato di poter
1986; LESNES 1998a; LESNES 2000. identificare la mansio di Allava, BEJOR 1975, pp. 1280-1281;
5
Sul percorso della via costiera si veda VERBRUGGHE 1292-1294.
420 MARIA CONCETTA PARELLO – MARIA SERENA RIZZO

Fig. 1 – La valle del Verdura. L’ubicazione del castello di Poggio


Diana è segnalata dal cerchio rosso.

Fig. 2 – Il castello di Poggio Diana visto da Sud-Ovest. Sulla sinistra in basso si nota il corso del Verdura
(Foto A. Pitrone-Gabinetto fotografico Soprintendenza BB.CC.AA. Agrigento).
IL CASTELLO DI POGGIO DIANA NELLA VALLE DEL VERDURA (RIBERA, AG) 421

una delle aree privilegiate della produzione granaria10. Proprio in relazione con il ruolo svolto
dalla valle fluviale nella viabilità tra costa ed entroterra si spiega probabilmente la presenza, alla
foce del fiume, di un insediamento di età tardo romana nella contrada Verdura11. Posto sulla sua
riva destra, l’abitato si estende per ca. 1 ha, ed è organizzato in almeno quattro blocchi abitativi
inseriti in una maglia regolare, dei quali uno è stato interamente messo in luce12. I dati di scavo
indicano una utilizzazione delle strutture tra il IV e la prima metà del V secolo, quando sembra sia
avvenuto un abbandono repentino in seguito ad una distruzione violenta13. L’abitato di Verdura è
parte di una fitta rete di insediamenti costieri, tutti con caratteristiche simili, che le ricerche più
recenti, svolte dalla Soprintendenza di Agrigento, stanno rivelando e che si dispongono alla foce
dei numerosi fiumi e torrenti che scorrono verso il mar Mediterraneo nell’area compresa tra il
fiume Platani ed il Belice14. L’esistenza di questa rete di abitati è un’acquisizione recente della ricerca
e dunque ancora di non facile interpretazione; si può però ipotizzare che in essi venisse convo-
gliata, lungo percorsi che dovevano seguire essenzialmente le vie fluviali, la produzione agricola
dell’entroterra, come tappa intermedia verso un porto più importante15, raggiunto attraverso la
via costiera o, forse più probabilmente, per mare, attraverso una navigazione di cabotaggio che
toccava tutti questi approdi minori16. In questa chiave appare ovvio mettere in relazione il sito
costiero di Verdura con l’insediamento tardo romano di S. Anna di Caltabellotta17, posto nella
media valle del fiume, e raggiunto, secondo Uggeri, da una strada che dalla via costiera si stacca-
va verso nord all’altezza della piana del Verdura, risalendo la valle di Martusa18. La persistenza
ancora in età normanna di questo sistema di approdi, legato ad una navigazione di cabotaggio,
è adombrata forse nell’itinerario costiero descritto da Idrīsī, le cui tappe sono segnate, oltre che
dai porti principali, da indicazioni che riguardano o promontori o foci di fiumi tra i quali, nella
nostra zona, proprio il Wadi Allabu.
Distrutto alla metà del V secolo, l’abitato di Verdura non venne ricostruito: da questo mo-
mento in poi vi è un vuoto nella documentazione archeologica, dovuto però probabilmente solo
allo stato delle ricerche e alla difficoltà di riconoscere sul terreno le tracce relative al periodo
bizantino e alla prima età araba. Le fonti documentarie riportano invece la notizia dell’esistenza
di una sede episcopale a Triocala nel VI secolo19.

1. IL CASALE DI MISILCASSIM ED IL CASTELLO DI POGGIO DIANA


Nel 1293 fa la sua comparsa nelle fonti il casale di Misilcassim20; in realtà il toponimo, costrui-
to con il termine arabo manzil, risale con ogni probabilità ad un’epoca nella quale l’arabo era
ancora diffusamente parlato nelle campagne, e dunque almeno al periodo normanno. Insieme al
termine rahal, infatti, la voce manzil, concorre spesso a formare toponimi che si riferiscono ad
abitati aperti, privi di difese, finalizzati allo sfruttamento agricolo del territorio, che nel latino di
età normanna prenderanno il nome di casale.
Non possiamo affermare con certezza che, nel momento in cui l’insediamento comincia ad
essere menzionato dalle fonti, fosse ancora popolato: infatti, nei documenti, a partire dalla seconda
metà del XIII secolo, il termine casale si riferisce anche ai feudi disabitati21. Tuttavia un diploma

10
Indicazioni di carattere generale sulla produzione grana- alla foce del torrente Carboj in territorio di Menfi.
ria in Sicilia in età romana in WILSON 1990, pp. 189-191, per 15
Dalla metà del IV secolo sembra che Sciacca costituisca un
il periodo medievale BRESC 1986, pp. 103-108 approdo lungo la rotta per Cartagine, oltre ad essere un’impor-
11
Il sito è stato scavato nell’ambito dell’azione di tutela tante statio dotata di un edificio termale, cfr. UGGERI 1997/98, p.
svolta dal Servizio Archeologico dalla Soprintendenza BBCCAA 339. Il porto di Sciacca era comunque importante nel medioevo.
di Agrigento durante la realizzazione di un progetto di sviluppo 16
Una organizzazione di questo tipo del trasporto dei ce-
turistico dell’area nei mesi di febbraio-giugno 2005. reali verso il porto di Siracusa in età repubblicana è ipotizzata
12
VERBRUGGHE 1976, p. 66, ipotizza che proprio nei pressi da UGGERI 2004, p. 25; per il periodo protobizantino ibid.,
di Torre Verdura si trovasse la statio di Allava. pp. 288 e 291.
13
Quest’ultimo dato avvicina la storia dell’insediamento a 17
PANVINI 1992; PANVINI 1993/94, pp. 762-763.
quella di numerosi altri siti della Sicilia meridionale, anch’essi 18
UGGERI 2004, pp. 170-171.
distrutti nello stesso lasso di tempo. Il fenomeno è stato messo 19
La Triocala delle fonti non è stata ancora identificata
in relazione con le incursioni vandaliche che, tra il 440 ed il con certezza; una proposta è quella di riconoscerla nel sito di
476, flagellarono le coste dell’isola che fronteggiano l’Africa, S. Anna di Caltabellotta, ipotesi sulla quale vd. BEJOR 1975,
WILSON 1990, pp. 330-331; VERA 1997/98, pp. 58-59. pp. 1283-1289.
14
È attualmente in corso di scavo un ampio abitato alla 20
Si tratta di una lettera di Giacomo II all’infante Federico
foce del torrente Carabollace, in territorio di Sciacca, mentre per accertare l’usurpazione di alcuni beni della Curia siti in
si conoscono da ricognizioni di superficie simili insediamenti territorio di Sciacca, Acta Siculo-Aragonensia I, 1, p. 128.
nelle Contrade Bertolino di Mare, Bonera, Mandrarossa ed 21
BRESC, D’ANGELO 1972, p. 376.
422 MARIA CONCETTA PARELLO – MARIA SERENA RIZZO

del 133222 testimonia a quella data l’esistenza di un centro abitato. Il territorio era comunque
fiorente nel 1296, come si deduce da un documento in cui viene riportata la cifra di 250 onze
che Matteo Maletta pagava alla Curia per il casale di Misilcassim23.
A partire dal 1356 comincia ad essere citata la torre di Misilcassim24, forse costruita dalla potente
famiglia dei Chiaramonte, che controlla il feudo dal 134825. Da quella data dunque Misilcassim
non è più soltanto un casale, ma un insediamento fortificato, che vive fino alla fine del XVII
secolo. Nella seconda metà del Cinquecento al toponimo di origine araba si sovrappone il nome
di Poggio Diana, attribuito al castello in onore di Diana Moncada26, che finirà poi per sostituirsi
del tutto all’antica denominazione, rimanendo nella toponomastica attuale27.
L’avvicendarsi dei due toponimi ci dà la possibilità di una localizzazione di massima del casale
di Misilcassim, che doveva sorgere in un sito vicino a quello del castello, anche se, riteniamo,
certamente non coincidente.
Il Castello, infatti, che nella conformazione attuale si presenta come il risultato di diversi e
importanti interventi edilizi, occupa, come già si diceva, la sommità stretta e allungata di un’altura
che, nei versanti nord ed ovest, presenta pareti scoscese e inaccessibili. Lontano da fonti per l’ap-
provvigionamento idrico, il sito certamente non si presta all’impianto di un casale, abitato aperto
ed in stretto rapporto con i terreni coltivabili. Un’ipotesi ragionevole invece ci sembra quella di
collocare il casale sulle pendici sud del colle che, anche se ampiamente stravolte da numerosi
terrazzamenti realizzati per l’impianto di agrumeti, conservano le tracce di un declivio che scende
fino al letto del fiume in maniera graduale. Tale ipotesi potrebbe essere confermata dal ritrova-
mento, insieme a pochi altri reperti attribuibili al periodo medievale, di un frammento di bacino
ad orlo bifido, di un tipo diffuso tra la seconda metà del X e l’XI secolo, nel corso di una breve
ricognizione nell’area immediatamente circostante il Castello che, peraltro, ha restituito indizi con-
sistenti28 di una lunga frequentazione29. Per quanto riguarda il castello, dati interessanti sono emersi
durante la breve campagna di scavo effettuata dalla Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento.

2. LO SCAVO
La scelta dell’ubicazione dei saggi è stata vincolata dalle condizioni di estrema precarietà della
fabbrica del castello, ridotto ad un rudere, e quindi dalla necessità di agire assecondando le priorità
di messa in sicurezza e restauro delle strutture murarie.
Si è deciso quindi di indagare un’area esterna al complesso castrale, in corrispondenza della
fronte sud-est ed in prossimità del bastione di Sud-Ovest e le strutture interne ad un vano di
servizio connesso con l’ambiente cucina (Fig. 3).
I dati raccolti, certamente parziali, permettono di tracciare un bilancio provvisorio che arric-
chisce notevolmente le informazioni contenute nella documentazione d’archivio circa le varie
fasi di vita dell’edificio, anche se, per le motivazioni addotte, non ci è stato possibile ricavare
dati che permettano di leggere le strutture murarie e le loro diverse fasi in correlazione con gli
strati di accumulo archeologico. Un discorso a parte va fatto per l’area della corte interna, in
cui la rimozione del crollo delle parti alte della muratura, fatto con modalità archeologiche, ha
permesso di recuperare dati importanti per ricostruire, sia in pianta che in elevato, un portico
ad U con colonne in calcare che, nel lato di Sud-Ovest, si lega alla facciata monumentale di un
ampio vano di rappresentanza.
Nell’area esterna al castello, denominata area “A”, rimosso il crollo delle murature che si
addossava al muro meridionale, al di sotto di un sottile interro è stato individuato uno strato di
sistemazione, contemporaneo verosimilmente all’ultimo, importante restauro dell’edificio (1569-

22
LENTINI, SCATURRO 1996, p. 35. 284; SCATURRO 1924, p. 176, riteneva di poter localizzare Misil-
23
GREGORIO 1792, p. 468. cassim nella contrada Cassaru, toponimo che tuttavia, derivando
24
LENTINI, SCATURRO 1996, p. 39. dall’arabo Qasr, sembra riferirsi piuttosto ad un sito fortificato.
25
LENTINI, SCATURRO 1996, p. 38. 28
Oltre ai frammenti ceramici è stata individuata l’imboc-
26
RUSSO 2003, p. 285. catura di una cisterna con tappo di chiusura in pietra, la cui
27
La pubblicazione di alcuni documenti cinquecenteschi in forma sembra vicina a quella delle cisterne indagate nell’area
LENTINI, SCATURRO 1996, pp. 54-60, che presentano le dizioni del castello.
Misilcassim et modo vocate turris Pojo dianae, Misilcassim ad 29
Una frequentazione del sito a partire dall’età del Rame
presente vocato Pogio Dianae, Misilcassim seu Poggiodiana, era già stata rilevata dallo scavo di un’ampia area di necropoli
potrebbe risolvere il problema dell’identificazione dell’insedia- sul versante sud-est della collina, MCCONNELL, MONTELEONE
mento, ancora aperto in MAURICI 1993, p. 54; RUSSO 2003, p. 1988; BTCGI, sv. Ribera, p.104.
IL CASTELLO DI POGGIO DIANA NELLA VALLE DEL VERDURA (RIBERA, AG) 423

1571)30, che ricopriva un insieme di tagli praticati nel banco tufaceo. Si tratta di un sistema di
canalette e di una larga trincea a sezione rettangolare che corre parallela al muro esterno del
castello, la cui funzione al momento non è chiara. Due delle canalette confluiscono all’interno
di una escavazione, a sezione ovoidale, pesantemente danneggiata da fenomeni erosivi, la cui
funzione originaria potrebbe essere stata quella di cisterna o fossa granaria (US 2). Il riempimento
della cisterna, costituito da un unico strato archeologico, poco compatto, formato dal disfaci-
mento della roccia tufacea, da numerosi calcinacci, reperti organici e frammenti ceramici, molti
dei quali appartenenti alla stessa forma, sembra essersi costituito in un unico momento, quando
la fossa era ormai in disuso, con il materiale derivante da una pulizia e sistemazione dell’area,
forse in occasione del restauro cinquecentesco. A confermare la provenienza dall’area esterna al
castello del materiale di riempimento è anche la circostanza che, in qualche caso, parti di uno
stesso contenitore siano state rinvenute dentro la cisterna e all’esterno di essa.
Il momento in cui il riempimento si è formato è indicato da un piccolo gruppo di reperti cera-
mici attribuibili al XVI secolo: si tratta del fondo di un piatto in maiolica policroma, di parte di
una brocchetta in maiolica dipinta in azzurro e del frammento di una scodella a smalto berrettino.
Essi provengono tanto dai tagli più profondi del riempimento che da quelli più superficiali.
Documenta invece una utilizzazione dell’area già nell’XI secolo il fondo di un catino invetria-
to, decorato a bande verdi marginate in manganese ed archetti sovrapposti in bruno negli spazi
rimanenti, di un tipo ben noto in Sicilia31.
Tuttavia, la parte quantitativamente più consistente del materiale ceramico recuperato costituisce
un nucleo unitario e compatto dal punto di vista cronologico e sembra nel complesso poter essere
assegnato ad un periodo compreso tra la seconda metà del XIV secolo ed i primi decenni del XV.
Alla stessa epoca pare si possa datare l’US 30, che costituisce parte del riempimento della seconda
cisterna (US 29). Essa è ubicata all’interno del castello, nei pressi delle cucine, che sembra, tra l’altro,
rappresentino uno dei nuclei più antichi del complesso castrale. Proprio dalle cucine proviene pro-
babilmente il materiale che la riempie, costituito, oltre che da vasellame, da moltissimi resti di cibo,
in particolare ossi di animali e gusci di uova, dal cui studio, che ancora deve essere intrapreso, ci
aspettiamo informazioni di grande interesse sulle abitudini alimentari degli abitanti del castello. Nel
riempimento sono state distinte due UUSS, di cui la 30 è quella che si trovava a contatto con il fondo
della cisterna. Il materiale che ne proviene è alquanto unitario, sia dal punto di vista cronologico che
da quello tipologico, e ci consente di datare, come si diceva, tra la seconda metà del ’300 e gli inizi
del secolo successivo il momento in cui la cisterna ha cominciato ad essere utilizzata come scarico
delle cucine. L’US 28 è riferibile invece alle fasi finali della sua utilizzazione. Il complesso dei materiali
recuperati nello scavo del castello di Poggio Diana è ancora in corso di restauro e di studio32; tuttavia
i primi dati, relativi essenzialmente alle ceramiche rivestite, appaiono di un certo interesse, in primo
luogo perché restituiscono informazioni preziose su quella che, allo stato attuale, appare come la
più antica fase di costruzione ed utilizzazione dell’edificio che, concordemente con quanto si può
dedurre dalle fonti documentarie, sembra risalire alla fine del XIV secolo. Le ceramiche rinvenute,
inoltre, contribuiscono ad arricchire il quadro delle conoscenze su un periodo la cui cultura materiale,
relativamente soprattutto alla Sicilia occidentale, è ancora assai poco nota e definita; la possibilità
di attribuire, in alcuni casi con certezza, in altri ancora in modo ipotetico, una parte significativa
del materiale rivestito a produzioni delle officine di Sciacca, da una parte arricchisce la conoscenza
dei prodotti saccensi, noti ancora in modo solo parziale33, dall’altro evidenzia lo stretto legame del
nostro castello con la città di Sciacca, che proprio negli anni ai quali si può attribuire il primo nucleo
dell’edificio di Poggio Diana, vedeva l’edificazione, ad opera dei Peralta, del Castello Nuovo34.
Appartengono infatti ad una produzione delle officine saccensi già nota un gruppo, rappresen-
tato a Poggio Diana da numerosi esemplari, di ciotole (Tav. II,5-6) rivestite da una vetrina piom-
bifera, tendente leggermente al giallo o al verde, sulla superficie schiarita35, decorate in bruno nel
cavo, in genere circondato da una linea orizzontale anch’essa tracciata in bruno, con dei semplici

30
LENTINI, SCATURRO 1996, p. 54. 33
RAGONA 1975; FIORILLA 1992, pp. 47-52.
31
Si veda ad esempio FIORILLA 1990, p. 40, n. 80 o p. 34
RUSSO 2003, pp. 282-284.
109, n. 133. 35
Sono documentati anche, tra i materiali dell’US 30,
32
Il restauro è in corso presso il Laboratorio di Restauro due esemplari rivestiti con una vetrina stannifera verde, poco
della Soprintendenza di Agrigento. Ringraziamo la dott. coprente e stesa al di sopra della decorazione in bruno, rap-
ssa Salvina Fiorilla e il dott. Franco D’Angelo per la grande presentata in un caso dal motivo del cespuglio, nell’altro da
disponibilità e i preziosi suggerimenti sull’inquadramento dei uno scudo araldico.
materiali ceramici.
424 MARIA CONCETTA PARELLO – MARIA SERENA RIZZO

Fig. 3 – Pianta dell’ala sud-ovest


del castello con indicazione
delle cisterne scavate.

motivi alquanto ripetitivi e stilizzati: il motivo del “cespuglio” (Tav. I, 1), un elemento che sembra
la stilizzazione della figura di un granchio (Tav. I, 2), motivi di derivazione araldica36; una sola
ciotola è decorata con un fiore a otto petali (Tav. I, 3); in alcuni casi sull’orlo si trova una linea
ondulata compresa tra due linee concentriche37. Diversi esemplari di questo tipo sono esposti al
Museo della Ceramica di Caltagirone e provengono da un rinvenimento occasionale nell’area di
Porta Bagni, dove, a quanto sembra, si trovavano alcune delle fornaci trecentesche di Sciacca38.
Accanto a queste ciotole sono documentati in quantità significativa alcuni altri tipi ceramici
che presentano con esse diverse analogie, negli impasti, nell’uso di una vetrina piombifera, spesso
tendente al giallino o al verdino, sopra la superficie schiarita dell’argilla39, nella ripetitività di pochi
motivi e schemi decorativi: ricordiamo, ad esempio, un gruppo di ciotole, apode o con piede ad
anello, a vasca profonda leggermente carenata ed orlo a tesa più o meno sviluppata40 (Tav. II, 7).
Delle ciotole, alcune sono prive di decorazione, altre sono decorate in bruno, in genere con tratti
radiali o con semplici linee circolari sulla tesa e motivi di derivazione araldica nel cavo41 (Tav. I, 4).
36
Croce ricrociata rafforzata da croce diagonale; scudi Lipari, LESNES 1998b, fig. 4, a.
di diversi tipi. 39
La vetrina ricopre in genere sia l’interno che l’esterno
37
Tra i nostri materiali questa decorazione è documentata dei vasi.
soltanto sulle ciotole apode. Le ciotole hanno vasca emisfe- 40
Il diametro è compreso tra 15,5 e 16 cm
rica ed orlo verticale assottigliato, diametro compreso tra i 41
MACCARI POISSON 1984, pl. 43, b. Per la forma ed il tipo
12 e i 13 centimetri, e sono in alcuni casi apode, in altri con di decorazione queste ciotole, ed in particolare quelle con tesa
base a ventosa, mentre un altro gruppo ha piede ad anello. più sviluppata, si possono avvicinare al tipo 2 delle scodelle di
Gli impasti, ad un esame macroscopico, presentano alcune Brucato, che sono però smaltate; esse risultano simili inoltre a
differenze nel colore, anche se appare prevalente un tipo di tipi documentati nel XIV-XV secolo nella Sicilia centro-meri-
corpo ceramico di colore chiaro, beige o giallino, nel nucleo dionale, cfr. FIORILLA 1991, fig. 31, n. 72; alla seconda metà del
e rosato verso l’esterno. XIV secolo sono datate le scodelle rinvenute in Piazza Umberto
38
RAGONA 1975; FIORILLA 1992, p. 47; un esemplare, I a Gela, FIORILLA 1999, forma A3; sull’interpretazione delle
decorato con il motivo del “granchio”, è stato rinvenuto a decorazioni di tipo araldico si veda FIORILLA 1988.
IL CASTELLO DI POGGIO DIANA NELLA VALLE DEL VERDURA (RIBERA, AG) 425

Un altro gruppo di ciotole è invece decorato in bruno e verde: esse hanno fondo piano, privo di
piede, vasca emisferica ribassata, alto orlo verticale, in genere ispessito, a sezione triangolare (Tav.II,
8); la decorazione è anche in questo caso stesa sulla superficie schiarita e sotto vetrina piombifera
che ricopre soltanto l’interno e l’orlo, in qualche caso con colature all’esterno. Queste ciotole
hanno una linea ondulata sull’orlo tra due linee concentriche in bruno, banda verde marginata in
bruno alla connessione tra orlo e vasca e una decorazione nel cavo che, nella maggior parte dei
casi, è costituita da quattro foglie lanceolate tracciate in bruno e campite in verde (Tav. I, 5).
Frequenti, in particolare nell’US 30, sono anche i piatti con orlo a larga tesa leggermente obli-
qua e rilevata presso il margine esterno, bassa vasca, carenata presso la congiunzione con l’orlo,
che è nettamente separato42; un esemplare, simile agli altri per le caratteristiche generali della
forma, ma con pareti più sottili (Tav. III,1) è decorato in bruno e verde su superficie schiarita e
sotto vetrina. La decorazione è costituita da doppia linea ondulata tracciata in bruno e campita
in verde, tra doppio profilo in bruno e punti negli spazi residui sull’orlo; motivo analogo sulla
vasca, motivo curvilineo tracciato in bruno e campito in verde, non distinguibile, nel cavo (Tav.
I, 6). Il corpo ceramico è giallino nel nucleo e rosato verso l’esterno, molto simile a quello che
caratterizza alcune delle ciotole ad orlo indistinto, attribuibili alle fornaci di Sciacca.
Di grande interesse, infine, ci sembra un gruppo di piatti da parata (Tav. III, 2-4), tutti prove-
nienti dalla US 4, caratterizzati da una larga base a disco, scanalata sulla faccia inferiore, e rivestiti
da vetrina piombifera spessa e brillante all’interno, sottile e iridescente sulla parete esterna e sul
fondo; tre di essi hanno nel cavo cerchietti solcati concentrici.
Dei quattro grandi piatti43, due sono invetriati monocromi, due hanno decorazione policroma
sotto vetrina incolore. I motivi rappresentati nel cavo dei due esemplari policromi, dipinti in
bruno, verde e giallo, sembrano vicini a raffigurazioni diffuse nella protomaiolica e nella maiolica
arcaica: appare infatti rappresentato in modo simile ad un esemplare rinvenuto a Gela il pesce
che decora uno dei due44 (Tav. I, 8), mentre il motivo delle quattro foglie lanceolate, tracciate in
bruno e campite in verde, con nervatura centrale bruna, perpendicolari a quattro fiori trilobati
tracciati in bruno e campiti in giallo (Tav. I, 7) è attestato nella protomaiolica e nella maiolica
arcaica dell’Italia meridionale45. Per quanto riguarda i due esemplari monocromi46, uno, invetriato
in verde, ha cerchi concentrici solcati nel cavo, l’altro, con vetrina gialla, ha orlo a tesa obliqua e
vasca ondulata alla congiunzione con l’orlo47 (Tav. I, 9). I quattro bacini non trovano, ci sembra,
molti confronti tra i materiali finora editi. I confronti più stringenti sono con due piatti rinvenuti
a S. Maria della Rotonda a Catania48, che appartengono probabilmente ad una stessa produzione,
che è però difficile individuare, anche se tendiamo a ritenere verosimile una provenienza da offi-
cine della Sicilia occidentale. Un indizio per localizzare a Sciacca le officine produttrici potrebbe
essere rappresentato dalla presenza di frammenti di bacini con un fondo simile e con invetriatura
monocroma gialla tra i reperti raccolti da Ragona nell’area delle fornaci trecentesche di questo
centro, conservati nei magazzini del Museo della Ceramica di Caltagirone. Le caratteristiche del
corpo ceramico dei nostri piatti, come di quelli rinvenuti a Catania, inoltre, li avvicina ad alcune
delle ciotole la cui produzione saccense appare certa.
Anche se per il momento non è possibile affermare con certezza la provenienza di tutti i tipi
rapidamente descritti da un unico centro produttore, fatto che, anzi, non ci sembra neanche
probabile, è possibile però ipotizzarne la produzione prevalentemente in fabbriche della Sicilia
occidentale, finora poco note, i cui prodotti dovettero avere forse una circolazione relativamente
limitata49.

42
La forma è simile a quella di alcuni piatti rinvenuti in gli esemplari di Poggio Diana hanno in comune la base a disco
Piazza Umberto I a Gela, FIORILLA 1999, forma A2. scanalato, l’invetriatura piombifera, in un caso monocroma e
43
Il diametro è compreso tra 25,5 cm e 27 ca. nell’altro incolore su decorazione in verde, bruno e giallo, il
44
FIORILLA 1990, p. 203, n. 146. corpo ceramico, simile, secondo la descrizione, ai nostri bacini;
45
Si veda ad esempio VENTRONE VASSALLO 1984, pp. 304- la forma del bacino n. 30 di Catania, inoltre, è assai simile a
306, tav. CXX. quella del nostro piatto invetriato in giallo.
46
Si noti tuttavia che tra il materiale dell’US 4 sono 49
Va però ricordato che i contesti dell’avanzato XIV secolo
rappresentati altri frammenti di fondi simili con invetriatura e del XV secolo finora editi non sono molti in Sicilia e che,
monocroma. comunque, i prodotti saccensi raggiunsero Lipari, Trapani e
47
Tutti, tranne uno, hanno corpo ceramico giallino nel Messina, mentre piatti da parata assai simili ai nostri sono
nucleo e rosato verso l’esterno e schiarimento della superficie stati rinvenuti a Catania. Sulla circolazione delle ceramiche
al di sotto della vetrina. di Sciacca si veda FIORILLA 1992, pp. 50-52.
48
GUASTELLA 1976, tav. I, n. 29 e n. 30. Con i piatti catanesi
426 MARIA CONCETTA PARELLO – MARIA SERENA RIZZO

1 2 3

4 5 6

7 8 9

10 11 12

Tav. I – Ceramiche rivestite dalle due cisterne del castello (Foto A. Pitrone- Gabinetto Fotografico Soprin-
tendenza BB.CC.AA di Agrigento).
IL CASTELLO DI POGGIO DIANA NELLA VALLE DEL VERDURA (RIBERA, AG) 427

Notevole la presenza di borracce, delle quali un esemplare ha invetriatura piombifera su su-


perficie schiarita e su decorazione in bruno con tocchi di verde e, forse, resti di una decorazione
incisa sulla fronte (Tav. I, 11), le altre sono smaltate50 (Tav. I, 12; Tav. II, 4).
Si segnalano poi all’attenzione alcuni oggetti in terracotta, invetriati solo all’esterno, di cui
sono stati rinvenuti sul sito diversi esemplari (Tav. II, 1-2). Essi hanno un bordo a fascia conves-
sa, e forma troncoconica, con forte restringimento, concluso da un foro. Molti hanno tracce di
bruciatura all’interno dello stretto foro terminale. Non siamo stati in grado di trovare confronti
davvero significativi per questi oggetti, che sono, ripetiamo, piuttosto numerosi sul nostro sito;
sembrerebbe ovvio metterli in relazione con una qualche attività che doveva praticarvisi e ci
piacerebbe ricevere dei suggerimenti in merito.
Per quanto riguarda la cronologia dei materiali, la datazione alla seconda metà del XIV secolo-
inizi del XV potrebbe essere confermata, oltre che dai materiali di Sciacca51, dalla presenza di un
gruppo di boccali smaltati decorati ad aree partite campite in verde e giallo (Tav. I, 10; Tav. III,
5), simili ad esemplari rinvenuti a Delia e ad Agrigento52, e alcuni frammenti di ciotole decorate
a lustro metallico di produzione spagnola. Proprio i frammenti di lustri sembrano rappresentare
una delle poche importazioni presenti sul sito, nel quale invece prevalgono nettamente i prodotti
di fabbriche locali o comunque della Sicilia occidentale, il che disegna un quadro in parte diverso
da quello finora prospettato dai risultati delle indagini in aree urbane dell’isola, ed in particolare
a Palermo, dove sembra che invece le importazioni siano assolutamente prevalenti53.
Tra i materiali metallici, infine, vogliamo segnalare un pendaglio in bronzo dorato con lavo-
razione a niello (Tav. II, 3), con decorazione geometrica e di derivazione floreale.

3. CONCLUSIONI
Dai dati ricavati dall’indagine archeologica, che pure è ancora nelle sue fasi preliminari,
emergono importanti indicazioni sulla vita del castello e sui suoi legami con il centro di Sciacca,
che nel medioevo costituiva certamente il più importante polo politico e commerciale dell’area.
L’esame di una prima parte dei materiali ceramici conduce a sottolineare l’importanza del sito tra
la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, quando il castello deve avere conosciuto una presenza
stabile, che si contraddistingue per un tenore di vita relativamente elevato, come dimostrano il
ricco scarico di cibo e l’abbondanza di ceramiche fini da mensa.
Secondo le fonti è questo il periodo nel quale si succedono rapidamente nel possesso del feudo,
dopo i Chiaromonte, Guglielmo e poi Nicola Peralta, Bernardo Berengario de Perapertusa, e poi
di nuovo i Peralta Luna54.
È probabile che i primi a fortificare il sito siano stati i Chiaromonte, che lo possedettero, a
quanto sembra, tra il 1348 e il 139255: i documenti, infatti, menzionano la turris Misilcassimi
soltanto dal 1356. D’altra parte i Chiaromonte, una delle più potenti famiglie baronali dell’isola
nel XIV secolo, anche in altre zone dell’isola dimostrano il loro interesse per il controllo delle
principali vie di comunicazione tra costa ed entroterra attraverso le valli fluviali: ciò è partico-
larmente evidente, ad esempio, nella valle del Platani56. Nel corso del ’300, inoltre, essi mettono
in atto una politica di fortificazione dei loro feudi, che porta alla realizzazione di una fitta rete di
piccoli fortilizi, molti dei quali, estremamente poveri dal punto di vista edilizio, sembrano non
avere altro compito che quello di manifestare, anche solo simbolicamente, la presenza signorile
nel feudo57. Anche la torre di Misilcassim sembra destinata essenzialmente a materializzare, anche
attraverso la presenza di un piccolo presidio militare, la presa di possesso del feudo; essa, inol-
tre, poteva proteggere il raccolto, temporaneamente ammassato nel sito: a Poggio Diana sono
numerosissime le fosse scavate nella roccia, di cui alcune potrebbero aver contenuto cereali. La
ricchezza del feudo, d’altronde, è evidente dalla cifra di 250 onze pagata da Matteo Maletta al
fisco nel 129658; la molteplicità di attività economiche che vi si svolgevano è evidenziata da un

50
Le borracce, rare fino al ’300, si diffondono in particolare 55
Sui problemi legati al passaggio dai Chiaromonte ai
nel XV secolo, FIORILLA 1991, pp. 144-145. Peralta vd. RUSSO 2003, pp. 221-222.
51
RAGONA 1975; FIORILLA 1992, p. 47. 56
RIZZO 2004, pp. 175-178.
52
Boccali ad aree partite in bruno, verde e giallo sono 57
Sulla politica di costruzione di fortilizi di natura spiccata-
attestati ad Agrigento, cfr. FIORILLA 1992, p. 45, fig. 31 e al mente feudale, messa in atto dalle principali famiglie baronali
castello di Delia, FIORILLA 1990, p. 272, fig. 5. siciliane nel corso del ’300, vd. LESNES 2000.
53
PEZZINI 2000. 58
GREGORIO 1792, p. 468; SCATURRO 1924, p. 388; RUSSO
54
RUSSO 2003, pp. 222-224. 2003, p. 222.
428 MARIA CONCETTA PARELLO – MARIA SERENA RIZZO

1 2 3

4 4a

5 6

7 8

Tav. II – Reperti dalle due cisterne (rilievi Arch. M. Cotroneo, Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di
Agrigento).
IL CASTELLO DI POGGIO DIANA NELLA VALLE DEL VERDURA (RIBERA, AG) 429

Tav. III – Ceramiche rivestite dalle due cisterne (rilievi Arch. M. Cotroneo, Archivio Soprintendenza
BB.CC AA. di Agrigento).
430 MARIA CONCETTA PARELLO – MARIA SERENA RIZZO

documento del 139859, che ne descrive i confini, menzionando anche la presenza di un mulino,
di una salina, di un fondaco, oltre che di un viridarium, che doveva trovarsi immediatamente a
nord del castello stesso.
Decapitato nel 1392 Andrea Chiaromonte e confiscati i beni della potente famiglia ribelle alla
Corona, il feudo e la torre di Misilcassim vennero infeudati ai Peralta, che li tennero fino al 1398,
quando essi furono venduti ai Perapertusa. È in questi anni che probabilmente si pone la costruzione
dei vani più antichi del Castello: Guglielmo riceve infatti nel 1392 turrim Misilcassimi et feudum;
vende nel 1398 ad Adelicia, vedova di Nicolò Buondelmonte e moglie di Bernardo Berengario de
Perapertusa, la baronia Misilcassimi cum castro60. Tra la fine del secolo e gli inizi del successivo
sembra si abbia anche la prima presenza stabile nel luogo: con quale funzione è difficile dirlo,
al momento, ma certo il tipo di materiali che sono stati rinvenuti nelle due cisterne non sembra
compatibile con la semplice presenza di una guarnigione di presidio al feudo61: l’abbondanza di
ceramica invetriata da mensa, l’attestazione, sia pure in piccola quantità, di importazioni di pregio,
come le ceramiche a lustro, il gruppo di piatti da parata dell’US 4, con funzioni probabilmente
decorative più che di uso, sembrano indicatori di un discreto livello sociale.
Gli anni dei quali parliamo, peraltro, sono anni cruciali, che vedono l’estrema ribellione alla
Corona di Aragona degli esponenti delle principali famiglie signorili, tra i quali gioca un ruolo di
rilievo Guglielmo Peralta. È possibile che proprio in relazione con le esigenze belliche si ponesse la
necessità di un rafforzamento del controllo sul territorio, attraverso sia la costruzione dell’edificio
castrale, sia la presenza, al suo interno, di un nucleo stabile e numericamente consistente62. La
posizione dell’edificio, infatti, sull’altura che controlla lo sbocco del fiume, dopo le strette anse
del vallone del Lupo, dalla zona interna collinare nell’ampia piana alluvionale del Verdura è cer-
tamente strategica per il controllo dei traffici da e verso l’entroterra. Il documento del 1398 che
descrive i confini del feudo, d’altra parte, menziona una strada che, provenendo da NE, passava
a nord del castello, raggiungendo probabilmente la valle del fiume proprio all’altezza di Poggio
Diana, per cui non si può escludere che in effetti nei pressi dell’altura, all’ingresso della piana
costiera, convergessero una molteplicità di vie provenienti dall’area interna63. Il Castello, inoltre,
domina anche il valico del fiume nel punto in cui fu costruito, nella seconda metà del Cinquecen-
to, un ponte64, in relazione con un percorso Est-Ovest che, in questa parte, doveva allontanarsi
dalla costa, forse per attraversare il fiume in un punto in cui il valico fosse più agevole65. Non
si può escludere che questo tracciato fosse già quello della via romana descritta dall’Itinerarium
Antonini66. La posizione del castello era dunque strategica, poiché consentiva il controllo del
territorio e della viabilità, controllo essenziale in quegli anni per quanto riguardava i movimenti
degli eserciti, e, fatto ancora più importante, il trasporto degli approvvigionamenti e quindi la
possibilità che essi raggiungessero i principali centri urbani: nel nostro caso la città di Sciacca, sede
del potere dei Peralta67. Lo stretto legame con Sciacca, d’altra parte, è evidente dalle ceramiche
rinvenute sul sito, che, come si è già detto, potrebbero in gran parte provenire proprio da questo
centro: le vie attraverso le quali i prodotti agricoli raggiungevano la città erano evidentemente
le stesse per le quali le produzioni ceramiche giungevano al nostro castello e, probabilmente, in
altri centri e castelli del territorio, ai quali ci auguriamo che possa presto allargarsi la ricerca.
Riteniamo infatti che ulteriori esiti della ricerca archeologica in questo ambito cronologico e
territoriale possano offrire indicazioni materiali utili a supportare le problematiche storiche di
recente affrontate che riguardano il sistema di potere e le strategie di controllo territoriale di una
delle più importanti famiglie baronali della Sicilia occidentale, nel quadro delle intricate vicende
siciliane del Trecento68.

59
LENTINI, SCATURRO 1996, p. 44. si veda da ultimo UGGERI 2004, pp. 291-295.
60
RUSSO 2003, pp. 284-285; già Scaturro attribuiva a 64
Il primo riferimento alla costruzione del ponte si ha in un
Guglielmo Peralta la costruzione del Castello, volto a difen- documento del 1561, LENTINI, SCATURRO 1996, pp. 56-58.
dere una delle principali vie di accesso alla città, SCATURRO 65
Nel racconto dei contadini del luogo fino a trent’anni fa
1924, II, p. 555. il fiume, oggi irreggimentato con argini artificiali, giungeva in
61
Si potrebbe però collegare con una presenza di militari il mare con una foce a delta, che, nei periodi di piena, inondava
numero rilevante di borracce rinvenute nelle due cisterne. frequentemente la pianura.
62
Secondo Scaturro le truppe aragonesi, sbarcate a Trapani, 66
BEJOR 1975, pp. 1279-1280; UGGERI 2004, pp. 170-171.
non osando attaccare Sciacca, attuarono una serie di scorrerie 67
Sulla difficoltà del rifornimento delle città in relazione
nel territorio, SCATURRO 1924, I, p. 509. ai disordini trecenteschi si veda D’ALESSANDRO 1963, pp.
63
Il sistema polistellare, che caratterizza la viabilità me- 188-191.
dievale siciliana, è stato ripetutamente discusso da G. Uggeri; 68
RUSSO 2003.
IL CASTELLO DI POGGIO DIANA NELLA VALLE DEL VERDURA (RIBERA, AG) 431

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Indagini topografiche sulla fortificazione
dell’isola di Molara (Olbia).
Proposta di datazione ed ipotesi di inserimento nel quadro
della strategia antiaraba successiva al “sacco di Roma” dell’846*

MARCO AGOSTINO AMUCANO

L’isola di Molara è geograficamente ubicata di fronte alla costa nord-orientale sarda, a sud del
Golfo di Olbia, a cui appartiene amministrativamente (Fig. 1)1.
Insieme all’altra isola “sorella” di Tavolara ed agli isolotti di Proratora, Isola Ruja e Molarotto,
Molara (appellata localmente Salzài2) va a costituire il piccolo arcipelago definito “aggruppamento
di Tavolara”3.
L’origine del corrente nesonimo, attestato nella cartografia e nei portolani medievali come
Morala, Morara, Murara, Moraira (forma metatetica di Moraria)4, viene in genere ascritto alla
forma dell’isola riconducibile alla meta di una mola di tipo pompeiano5.
Il cosiddetto “castello di Molara” sorge sulla cima di Monte Castello (m 147 slm), terza vetta
dell’isola con uno scosceso versante settentrionale rivolto verso l’isola di Tavolata (Figg. 2, 3).
Una profonda sella intercollinare, “La Vallata”, separa il colle da Punta La Guardia (155 m slm),
congiungendosi alla seconda valletta di S’Oltu (l’Orto), che parte da Cala Chiesa (Fig. 3). Que-
st’approdo trae nome dai resti della chiesina romanica di XIII secolo, tradizionalmente intitolata
a San Ponziano papa, affiancata dai ruderi del monasterio de monache citato unicamente come
tale dal Portolan Rizo, opera veneziana del 14906. Come riferito dall’umanista sardo G. F. Fara
nella Chorographia Sardiniae, monastero e relativa chiesa, sorti a 150 metri dalla battigia, saranno

* Il presente contributo preliminare è sintesi e conseguenza Molara insula prope Tegulariam, forma quasi rotunda, sita est
dell’elaborato di tesi di specializzazione in Archeologia Medie- illa minor sed amoenior, septem habens valleculas, sacella et
vale dello scrivente, dal titolo “Il castello di Molara (Olbia-SS). arbores malorum aureorum aliasque antiquate habitationis
Indagini preliminari di superficie”, discussa nell’a.a. 2004-5 per reliquias; sunt deinde multi circumstantes scopuli quos enu-
la Scuola di Specializzazione dell’Università degli Studi “La merare, brevitatis causa, supersedeo)». Il Panedda interpreta
Sapienza” di Roma (Relatrice: Prof.ssa Letizia Ermini Pani; il nesonimo indigeno come un toponimo ibrido costituito,
Correlatore: Prof. Piergiorgio Spanu). forse, da s’alz(a) (un tipo di vespa) + ai (?), esito comune
1
Presenta forma grosso modo subcircolare con un’esten- nella toponimia di totale o parziale ascendenza protosarda
sione di oltre 3,4 km² ed un perimetro di circa 10 km. L’isola (PANEDDA 1991, p. 547s.).
non ha ancora subito degrado ambientale, fatto che la mag- 3
PAPURELLO 1998, p. 35s.
gior parte delle zone costiere si trova ad affrontare in virtù 4
Sec. XIII: “isola una ditta Morala (…) fora de Morala
dell’industria turistica e dei fenomeni speculativi direttamente (…) una isola che à nome Morara (vd. MOTZO 1947, p. 92s.);
connessi. L’essersi mantenuta pressoché intatta dal punto di vista sec. XIV: Murara (DE FELICE 1964, p. 31); sec. XV: “l’isola di
naturalistico-ambientale ha portato al recente inserimento di Morana (…) l’isola de Moraira (…) alla boccha de Moraira”
Molara nel Parco Marino istituito con Decreto del 22/09/1997 (redazione uzzaniana del Compasso: vedi MOTZO 1936, p. 156
del Ministero dell’Ambiente. Eccetto alcune isolate emergenze s.); “ixola (…) molara (Portolan Rizo in KRETSCHMER 1909, p.
di arenaria di origine eolica, Molara è costituita da rocce gra- 562, n.101). Tutte le voci riportate sono elencate in PANEDDA
nitiche, che trovano naturale prosecuzione sottomarina sino al 1991, p. 354s., s.v. Molara.
Capo di Coda Cavallo. L’isola presenta un’orografia articolata in 5
DE FELICE 1964, p. 31. Recentemente ha preferito propende-
diverse alture, fra cui la quota massima è raggiunta a occidente re per questa interpretazione anche ZUCCA 2003, p. 185. Secondo
da Punta La Guardia, con m 155, caratterizzata da un paesaggio Panedda (PANEDDA 1991, p. 354s.) invece l’autentica radice del
di caratteristici graniti tafonati, seguita da Punta Leoneddu (m conio deriverebbe dall’italiano mora, voce con la quale si indica
157) nel settore centrale e Punta Castello (m 147), ubicata sia il frutto del rovo, che il frutto del gelso; dunque il significato
nell’estremo angolo nord-orientale, che interessa direttamente del nesonimo sarebbe da intendersi come “l’isola delle more”,
il presente studio per la presenza della nostra struttura fortifi- secondo l’ uso frequente di riferire il nome di un’isola alla sfera
cata. Le coste sono alte e rocciose nella parte orientale (Punta botanica. Sempre secondo il Panedda, la paternità del nesonimo
di Levante e Punta di Scirocco) e più praticabili dove ci sono derivato da mora sarebbe da attribuire alla marineria italiana (pur
alcune insenature trasformate in piccole spiaggette, legate a di- non dando come impossibile la sua risalenza all’antichità classica).
scontinuità litologiche, che si trovano sul lato nord-occidentale L’autore (Ibid., p. 354), riporta diversi esempi a sostegno della sua
(Cala Spagnola e Cala Chiesa) (ANFOSSI 1916, p. 504 ; PECORINI interpretazione, figuranti sia nel tessuto toponimico olbiese che
1983, p. 133; ZUCCA 2003, p. 185). extraolbiese: Isul’’e Sos Porros (isola dei porri); Isul’’e Sos Porrit-
2
Nesonimo rilevato per la prima volta dal Fara ed usato tos; S’Iscogliu ‘e S’Azos (lo scoglio dell’aglio); L’Isula di li Nìbani
fino alla metà del secolo scorso (FARA 1992), In Sardiniae (Arzachena), nìbanu è il ginepro; S’Isul’’e Su Cardulinu (Domus
Chorographiam, p. 72: vale la pena di riportare integralmente demaria) (il cardulinu è un tipo di fungo edule) ecc.
il passo tratto dell’edizione critica di Enzo Cadoni: «Salzai seu 6
KRETSCHMER 1909, p. 462.
434 MARCO AGOSTINO AMUCANO

ruderi abbandonati quasi un secolo dopo, a causa – immaginiamo – dei pirati barbareschi7. Come
si preciserà più avanti, lo studio della fortezza di Molara rivela la non pertinenza cronologica col
cenobio femminile di Cala Chiesa.
La storia degli studi sul piccolo presidio, pressoché inedito, occupa poche righe. Nel 1677
padre Jorge Aleu, nell’opera manoscritta Successos generales de la isla y Reyno de Serdeña cita
l’isola di Mulluro, indicandone «en una eminencia ruinas y vestigios de un castillo…»8.
L’errore macroscopico del Taramelli, che nella Carta Archeologica del 1939 inserisce il fortilizio
nella categoria protostorica dei nuraghi9, può spiegarsi solo con l’impossibilità di un riscontro
autoptico. Dionigi Panedda, nei pochi cenni fatti in un appendice della Forma Italiae di oltre
mezzo secolo fa, riferiva la struttura difensiva al basso medioevo giudicale10.
Al 1988 risale l’unica, quanto preziosa planimetria, eseguita nell’ambito del Progetto SITAG
(acronimo del titolo Sistema Informativo Territoriale Archeologico della Gallura), uno dei grossi
progetti finanziati dalla Legge 41/1987, meglio noti come Progetti sui Giacimenti Culturali11.
Il nostro lavoro di rilievo ed interpretazione – ancora provvisorio12 – si sovrappone al rilievo
SITAG, con alcune correzioni o reinterpretazioni (Fig. 4).
In merito al metodo della ricognizione topografica, si ritiene superfluo sottolineare l’inutilità
di ogni programmazione manualistica al cospetto del sito, che costringe alla scelta di limitate aree
non occupate dalla macchia mediterranea o dalla roccia13 (Figg. 5, 6).

7
La volta della chiesa è crollata, non si individua con silenzio successivo al suo riguardo era per Panedda “benissimo
sicurezza un probabile collegamento tra l’ingresso del muro spiegato dal fatto che questo castello, cessato ormai lo scopo per
meridionale ed un vano esterno interrato e parte delle strutture cui era sorto, fu forse lasciato cadere in rovina dai Pisani subito
sono sepolte dal crollo. Ad ogni modo la tipologia romanica è dopo la fine ufficiale del Giudicato di Gallura, coincisa con la
ben riconoscibile, con abside orientato ed ingresso laterale nel morte di Nino Visconti – ultimo giudice – e relativa confisca da
muro sud, con spostamento netto verso il lato breve absidato. parte del Comune sull’Arno del più piccolo dei quattro regno
Graziosi bacini smaltati ornavano le pareti interne, con una giudicali sardi”. Al Panedda va almeno il merito di avere riferito
ricercatezza decorativa che tradisce ulteriormente il gusto al periodo medioevale il sito, per quanto l’idea di estenderne
dello stile romanico-pisano. Gli alzati residui evidenziano l’uso al pieno giudicato non è più accettabile, come avremo
diverse tecniche costruttive a suggerire due fasi, la seconda modo di riferire nel corso dell’esposizione.
delle quali ingrandì e portò un precedente edificio alla forma 11
Vedi Archeologia del Territorio. Territorio dell’Archeolo-
attualmente visibile (l’unico rilievo grafico delle strutture è in gia, pp. 548-550, Fig. 36.4. In generale il lavoro di schedatura
Archeologia del Territorio.Territorio dell’Archeologia, pp. 546-8 (cui partecipò anche lo scrivente per altri siti e monumenti)
con le schede curate da D. Lissia e M. Loy. Cenni anche in aveva una finalità essenzialmente cognitiva, pertanto anche la
PANEDDA 1978, p. 95, nota 26. La testimonianza cinquecente- Scheda del Tipo A (= Monumento Architettonico), Codice
sca del Fara (FARA (1992), p. 72s.), che descrive questi ruderi 047013010000, Definizione: “Fortezza di P.ta Castello”,
già abbandonati, va inserita nel contesto delle drammatiche compilata da D. Lissia e M. Loy appare, come le altre del
vicende delle incursioni barbaresche, che dai primi decenni volume, nella sua arida e poco entusiasmante elencazione
del XVI secolo interessarono questo settore del Mediterraneo di campi obbligatori e risposte quasi sempre vincolate ad
e particolarmente la costiera gallurese (al riguardo ARGIOLAS, un rigido vocabolario. Il rilievo del rudere, eseguito con un
MATTONE 1996, pp. 227 ss.). teodolite-distanziometro elettronico, costituisce il vero con-
8
Riportato in ZUCCA 2003, pp. 120-2. tributo di quel lavoro, imprescindibile base di partenza anche
9
TARAMELLI 1939, F. 182, I SO, p. 44. Vedi quanto riferisce per il nostro. Non condividiamo adesso quanto a suo tempo
al riguardo PANEDDA 1954, p. 165, nota 18. indicato dalle amiche e colleghe nel campo “Cronologia”, dove
10
PANEDDA 1954, p. 150, accenna solo ai resti del castello il castello viene ascritto al XVIII secolo, quindi in funzione
secondo lui “ridotti ormai ai minimi termini” e tali che “riesce antibarbaresca.
quasi impossibile farsi un’idea esatta dell’antica pianta dell’edi- 12
Il rilievo qui proposto, anch’esso schematico e del tutto
ficio”, ma si limiterà a segnalare una maggiore analogia della preliminare, si attiene ancora ai canoni del precedente rilievo
tecnica costruttiva con il castello giudicale di Pedres che non Sitag, allo scopo di apprezzarne le variazioni apportate. Per
con il castello di Sa Paulazza o Mont’a Telti (che ora sappiamo la primavera-estate 2007 è prevista una nuova serie di sopral-
proto-bizantino: AMUCANO 1996). Lo stesso Panedda tornava luoghi per il rilievo dei dettagli e caratterizzazione e l’esatto
sull’argomento un lustro dopo, in un volumetto divulgativo inquadramento cartografico tramite GPS.
quasi sconosciuto (PANEDDA 1959, pp. 87-9). Senza ulteriori 13
La collocazione topografica di vetta del castello, con due
novità quanto scrive lo stesso A. molti anni dopo in PANEDDA versanti costituiti da scoscesi costoni rocciosi, spiega da sé il
1989, p. 193s., nel quale si apprezzano i primi segni dell’in- motivo per cui le indagini di superficie non possono essere
teresse integrale che l’autore rivolgerà negli anni a venire al “sistematiche” nel senso codificato del termine (ossia rivolta
territorio nord-orientale della Sardegna, nella prospettiva della tradizionalmente ai campi coltivati con le conseguenti possi-
topografia e della toponomastica medievali da lui inaugurate bilità di copertura uniforme. Per un prospetto “manualistico”
nell’area. Veniva qui particolarmente evidenziato come il delle categorie e dei tipi della ricognizione si veda ad es. CAMBI,
castello “non fosse una semplice vedetta” per i “vasti ruderi TERRENATO 1994, p. 122ss., BELVEDERE 1994, con bibliografia;
accennanti a molti e spaziosi vani”. Inoltre, poiché il forte CAMBI 2000; si aderisce pienamente alle osservazioni critiche
vigila sul mare (da questa parte temendosi evidentemente degli di DALL’AGLIO 2000, particolare p. 235ss. In siti siffatti è
attacchi) ed insiste su una posizione elevata, opposta al punto di pretenzioso partire con una metodologia “ideologicamente”
più facile approdo dall’isola-madre (Cala Spagnola), il Panedda predeterminata. Più saggio semmai attenersi all’unico, sem-
escludeva la possibilità di riferire agli Arabi la costruzione del plice criterio-base: partire dalla vetta insediata ed allargare
castello, vedendolo semmai inserito nel “poderoso quadrila- progressivamente la prospezione ”a raggiera”, scendendo di
tero ideato dai Giudici”, costituito insieme al castello urbano quota fin dove natura e visibilità permettono, reiterando le
di Civita, al castello di Pedres ed a quello di Sa Paulazza. Il ricognizioni laddove affiorano strutture o aree interessate dalla
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 435

Fig. 1 – Il Golfo di Olbia con le isole di Tavolara e Molara.

Stanti gli indispensabili limiti di spazio imposti per gli atti, ridurremo all’essenziale la descrizione
architettonica del complesso. Questo è costituito da due recinti intercomunicanti, che racchiudono
lo spazio verso la vetta rocciosa inglobata nel perimetro della cortina, e definiti convenzionalmente
ambiente A ed ambiente B (Figg. 4, 7). Un terzo ambiente più ristretto, definito “C”, è ricavato
all’interno del recinto “B”, sopraelevato di circa un metro rispetto alla quota visibile della soglia
d’ingresso14. L’area complessivamente somma una superficie di 540 metri quadrati, mentre l’al-

presenza di reperti superficiali. L’approccio “empirico” allo piani scalari interni di utilizzo. Il primo e più alto, sottostante
studio del sito, nondimeno puntuale, è ovviamente forzato alla alla roccia inglobata, appare definito da un alzato di conte-
scelta di aree circoscritte da fattori di praticabilità e visibilità nimento che parte attaccandosi alla cortina muraria ovest,
concessi dall’orografia, dalla geologia e dalla vegetazione di con andamento perfettamente parallelo al lato occidentale
macchia. La seconda fase segue al riscontro delle tracce di dell’ambiente B. L’alzato di contenimento può seguirsi per
antropizzazione (nuove o già note) con documentazione e poco meno di tre metri, perdendosi poi la sua leggibilità fra
relativo posizionamento su carta, quindi susseguente accura- vegetazione e crolli, nondimeno recuperabile all’estremità
tezza della raccolta di superficie nelle immediate prossimità, opposta per ulteriori cinque metri fino alla congiunzione ad
anche per l’individuazione di eventuali “aree-frammenti” angolo retto con il lato meridionale della cortina. Un secondo
fittili o di altro genere, che nella fattispecie coadiuveranno livello sottostante, intuibilmente collegato al primo da gradi-
nel circoscrivere meno indicativamente la datazione del sito ni, corrisponde al settore geometricamente inquadrabile nel
fortificato. Oltre al noto rudere del castello, i resti di nuove quadrante sud-occidentale interno, maggiormente ingombro
strutture affioranti oppure di attività riscontrate consistono di vegetazione ed humus. Da qui provengono alcuni dei
in una struttura muraria (definita convenzionalmente “A”) pochi reperti fittili di superficie (frammento vitreo ed orlo di
ubicata strategicamente nel ripido pendio settentrionale; in olletta, vedi infra). La differenza di quota stimabile con l’area
tracce di affioramenti terrazzati nel versante sud-orientale soprastante è di m 1 – 1,20, calcolata sempre tenendosi nelle
ed infine nella cava a cielo aperto. Due aree di frammenti adiacenze della linea di terrazzamento. Si può credere che
ceramici relativamente ricche sono state individuate l’una nel questo settore basso ed interno fosse ripartito in altri vani,
pendio ripido verso i mare (ad una quota subito sottostante come lascia arguire un brevissimo lacerto murario individuato
alla struttura A), e l’altra in corrispondenza di ancora labili con andamento ortogonale al suddetto margine terrazzato. Da
tracce di terrazzamento a sud-ovest del fortilizio. questo secondo livello si scende al terzo spazio organizzato,
14
Nonostante l’adulta vegetazione di macchia ed i crolli inquadrabile nel settore nord-occidentale della cortina muraria.
trattenuti da abbondante strato umifero, si sono letti quattro È arduo stabilire con esattezza la differenza di quota tra il
436 MARCO AGOSTINO AMUCANO

Fig. 2 – Stralcio IGMI riguardante Molara con evidenziazione dei toponimi presenti sull’isola.

Fig. 3 – Stralcio dell’aerofotogrammetrico del Comune di Olbia (1:4000) riguardante il sito in esame.
Ridotto a 1:8000 ca.
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 437

tezza massima residua osservabile di m 2,20 si apprezza nel lato sud della cortina perimetrale,
meglio conservatasi15 (Fig. 8).
Ovunque omogenea, la tecnica costruttiva può definirsi come opera subquadrata, mostrando
doppio paramento di blocchi granitici medi e piccoli sommariamente squadrati16 (Figg. 8, 9). Il
nucleo interno di riempimento è ottenuto con le scaglie avanzate dalla squadratura finale dei
blocchi, prima della messa in posa definitiva. La scelta di non usare leganti è causa del notevole
spessore della cortina esterna, variabile dai metri 1,80 ai 2,20.
Il pietrame da costruzione proviene da una cava il cui ritrovamento – prossimo alla fabbrica
– costituisce uno dei risultati più interessanti della ricognizione, aiutandoci alla comprensione
completa delle diverse fasi del cantiere (Fig. 10). Distante dalla vetta circa un centinaio di metri in
direzione nord-ovest, e ad una quota più bassa di circa quaranta metri, il punto in cui l’estrazione
venne attivata è ben riconoscibile già ad una certa distanza per gli abbondanti scarti di attività
adiacenti al luogo di estrazione vero e proprio. Dentro l’esteso mucchio di pietrame restano molti
blocchi sbozzati e/o squadrati, portati a dimensione per la messa in opera e lasciati sul posto
perché evidentemente in esubero.
È nella norma che all’impianto del cantiere le maestranze abbiano raccolto anche il pietrame
sparso reperito naturalmente in superficie, abbondantissimo quanto utilizzabile previa spedita
squadratura con pochi colpi di mazzetta: tecnica peraltro ancor oggi comunemente praticata
in Gallura come generalmente in Sardegna nelle aree dove abbondano le rocce “dure e fredde”
– come il basalto ed il nostro granito17 – eseguita da mastros de muros sempre meno numerosi
quanto richiesti18. Anche la presenza di blocchi notevolmente più voluminosi della media standard,
inseriti qua e là nei paramenti della cortina, si può ascrivere alla procedura di reperimento negli
immediati pressi della vetta, che dovette però rispondere in minima parte al fabbisogno, offrendo
infatti la pietra di estrazione migliori qualità estetiche e meccaniche per la struttura a secco.
Per il suo stato di non riutilizzo successivo allo scopo per cui nacque, questa di Monte Ca-
stello costituisce un esempio raro di antica cava a giorno o a cielo aperto, coltivata e sfruttata
nel circoscritto arco di tempo di costruzione del complesso. Chiaramente leggibile il processo
di distacco a trincea usato dai cavatori, con assise parallele, scalari, variabili per dimensioni, ed
orientate longitudinalmente rispetto alla pendenza naturale del colle. Grosse fette parallele furono
staccate lungo le linee di frattura naturali che nel granito in genere, e in questo di Molara soprat-
tutto, agevolano l’estrazione, secondo un procedimento rimasto fedele dall’antichità attraverso

secondo ed il terzo livello in esame; la valutiamo da m 1,20 a all’uniformità dell’altezza, che oscilla da quindici a trenta
m 1,50, considerata la solita, tenacissima vegetazione di mac- centimetri. Difficile ricavare misure medie per le facciaviste,
chia, oltre ai crolli. È immaginabile vedere questo terzo piano che superano solo occasionalmente i cm 50 nel lato lungo, ed
di utilizzo coincidente con la soglia dell’ accesso al recinto anche il rapporto proporzionale medio tra i lati di facciata è
fortificato principale, esternamente preceduto dall’ambiente variabile. Tra i blocchi disposti orizzontalmente in assise ne
A. Per l’ambiente A non esiste un piano di utilizzo nel senso appaiono alcuni diatoni sempre di piccole dimensioni. Insie-
del termine: la differenza di quota tra i piani di fondazione dei me a formazioni rocciose del luogo, occasionalmente furono
lati orientale ed occidentale è infatti di circa m 3,5, tenendo inglobati blocchi di cospicue dimensioni, e quasi mai nella
conto anche del probabile spessore dei crolli. Infatti se la quota parte inferiore dell’alzato, che si adatta al terreno acciden-
assoluta di m 140.37 slm, battuta presso l’ingresso meridionale tato usando in fondazione blocchi di medie dimensioni, per
dell’ambiente A è affidabile in quanto presa direttamente sulla maggiore duttilità nella messa in opera. Alcuni di questi grossi
soglia di roccia, l’altra (m 144,41), battuta presso la soglia conci sono inseriti nella facciata della cortina sud lato, il più
dell’ingresso già considerato, è viziata da uno strato di crollo grande con dimensioni notevoli (cm 90×60), o nel lato sud
stimabile in mezzo metro circa. dell’ ambiente B (cm 70×35), l’unico punto del castello dove
15
Il tratto meridionale della cortina è il più lungo (m 22,4) si è riscontrato il taglio preliminare della roccia per accogliere
e regolare, e col migliore stato di conservazione relativo. La l’attacco del muro. Dimensioni e regolarità dei blocchi aumen-
complessiva leggibilità è inficiata in parte presso l’estremità tano ovviamente nei punti critici come gli angoli, come visto
orientale a causa di un grosso lentisco. A circa metà della talvolta secati verticalmente per maggiore tenuta statica e forse
lunghezza (dove è indicata la quota zero relativa del rilievo per evitare la preparazione più laboriosa di appositi conci di
strumentale) l’altezza residua sul suolo esterno è di m 1,45, testata, necessari invece per i curatissimi stipiti degli ingressi,
crescendo gradatamente fino a m 2,20 presso l’estremo occi- particolarmente dell’ingresso esterno all’ambiente A.
dentale, ovvero in maniera inversa all’aumentata pendenza 17
Per la classificazione della pietra da taglio e costruzione
naturale della roccia. L’alzato ingloba pragmaticamente diversi utilizziamo qui la terminologia classificatoria riportata in
spuntoni di roccia ad incremento della tenuta statica, ed il ADAM 2001, p. 23s.
relativo spessore si mantiene costante oscillando entro i valori 18
Questi abili muratori sono gli eredi di una plurisecolare
di m 1,90 e m 2,00. tradizione, sempre più ridotta a remunerativo “artigianato
16
Per quanto variabili in regolarità e dimensioni, i blocchi di nicchia”, e la costruzione di murature a secco a doppio
tendono ad avere la facciavista quanto più rettangolare, come paramento, per bassi muri di contenimento in villaggi turistici
si nota particolarmente nel lato esterno della cortina sud, per o per recinzioni “pregiate” di ville della costa ne motivano
la quale l’attributo di una certa eleganza non ci pare impro- principalmente la richiesta. Fino a pochi decenni orsono questo
prio. Generalmente i blocchi tendono a disporsi in lunghe tipo di recinzione andava di pari passo con lo spietramento e
assise orizzontali, secondo un criterio che non si accompagna la bonifica dei terreni.
438 MARCO AGOSTINO AMUCANO

Fig. 4 – Correzioni ed integrazioni al rilievo SITAG effettuate nel settembre 2004.

Fig. 5 – Veduta del sito di Monte Castello da Nord.

il Medioevo, fino almeno agli anni Venti-Trenta dello scorso secolo19. L’elevato, sovrabbondante
numero di linee litoclastiche consentiva ai cavatori un’agevole libertà di scelta per isolare la
larghezza dell’assisa da scalzare, estratto dalla massa inserendo cunei metallici all’interno delle
linee di fenditura naturale e facendo leva. In virtù delle marcate fessure naturali, il lavoro di
estrazione dovette procedere così speditamente da non richiedere la preparazione preliminare
degli alloggiamenti per l’inserimento dei cunei20.
Entrando in maggiore merito alla valutazione qualitativa della pietra, le caratteristiche lito-
clastiche del granito molarese non lo rendono nemmeno accostabile a quello estratto nelle cave
romane di Capo Testa o Porto Rotondo, dalle quali si ricavavano intere colonne da esportare,
19
In mancanza di segnalazioni di altre cave esclusiva- 20
Era questo il procedimento più frequente ed efficace
mente medievali nell’area nord-orientale dell’Isola, dove la per la divisione dei blocchi estrattivi in forma la più regolare
roccia granitica prevale in maniera quasi esclusiva, gli unici possibile, secondo quanto si riscontra in alcune delle cave
confronti di cava antica che possiamo segnalare al momento romane di Capo Testa-S.Teresa Gallura (vedi MASSIMETTI
sono quelli pertinenti ad epoca romano-imperiale, riportati 1991, p. 791s.).
in MASSIMETTI 1991.
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 439

Fig. 6 – Veduta del castello di Molara da sud-ovest.

Fig. 7 – Castello di Molara: ambiente “A” da sopra.

alcune abbandonate in loco a dismissione avvenuta delle coltivazioni21. Le attività di estrazione e


finitura dei blocchi procedevano parallelamente, distanziate fisicamente di pochi metri. Dopo la
prima frammentazione sommaria, cavati i blocchi in elementi trasportabili da due o più uomini,
i tagliapietre passavano al lavoro di sbozzatura e regolarizzazione con successivo trasporto di
questi al luogo della messa in opera.
Analizzando i paramenti murari, siamo in condizione di dedurre gli standards del taglio e gli
strumenti utilizzati, quindi anche i tempi relativamente brevi del procedimento estrattivo. La
tecnica a secco canonica richiederebbe per la massima stabilità dell’alzato la massima regolarità
440 MARCO AGOSTINO AMUCANO

Fig. 8 – Castello di Molara: lato sud della cortina muraria esterna.

della facciavista e dello spessore del concio, assicurando la distribuzione uniforme delle pressio-
ni. Questo non avvenne nella circostanza, in primis per la detta frammentabilità e durezza della
materia prima, ma anche perché tempi e costi di cantiere sarebbero lievitati enormemente. È
infatti evidente che i blocchi vennero regolarizzati con l’uso esclusivo di mazzette e martelline
dall’inizio alla fine.
Ad ogni modo, per quanto forzata da materiale e circostanze, la tecnica muraria rivela sapienza
non comune, e la tenuta statica degli alzati è agevolata dal cospicuo spessore, dalla variabilità di
forma e dimensioni dei conci e dal frequente utilizzo di elementi diatoni. Questi ultimi conferi-
scono migliore elasticità e tenuta statica all’insieme, e comunque qualche piccolo aggiustamento
del blocco con la mazzetta, particolarmente dei piani di posa o di attesa, ne è quasi sempre ne-
cessario un momento prima della positura o incastro nel paramento, ed anche in questa rifilatura
più minuta il compito viene agevolato dalle linee naturali di stratificazione del granito.
Infine due brevi osservazioni deducibili da quanto osservato a proposito della cava.
La prima è l’immaginabile celerità nel coordinamento concatenato delle attività di cava e
cantiere22, per prossimità logistica e per facilità estrema nel ridurre in blocchi medi e piccoli il
granito del luogo, impiegando attrezzi primari per il taglio dei blocchi, quali la mazzetta, l’ascia-
martello e la scalpellina, e solo in minima parte i vari tipi di punte e scalpelli di rifinitura in uso
dall’età romana ad oggi23.
La seconda osservazione è piuttosto una nota a margine della prima e nasce in ordine all’as-
soluta assenza di legante nelle murature, malta di calce o anche semplice fango, conseguendone
il quesito se un cantiere organizzato per includere entro poche migliaia di metri quadrati tutte le
fasi esecutive, dalla fornitura della materia prima al prodotto finito, non sia forse dovuta a cause
di forza maggiore connesse al particolare periodo storico al quale si riferirà il castello. Appro-
fondimento questo che brevità siamo costretti a rimandare ad altra sede.
Veniamo ora brevemente agli elementi di cultura materiale reperiti in superficie, la cui quantità
e qualità (nel senso anche di leggibilità) è desolante al cospetto della frequenza dei sopralluoghi
negli anni a partire dal 1990, come dell’impegno dedicato in questo tipo di acquisizione-dati. La

21
Ibid. tagliapietre, c) trasporto fino al luogo di messa in opera; d)
22
In sintesi: a) Estrazione a trincea di lunghi blocchi e rifilatura eventuale del blocco e definitiva messa in posa da
loro prima frammentazione; b) seconda frammentazione, parte delle maestranze.
dimensionamento e sbozzatura/regolarizzazione da parte dei 23
Per questi si rimanda ad ADAM 2001, p. 31ss.
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 441

Fig. 9 – Castello di Molara: particolare della tecnica costruttiva presso l’angolo sud-
ovest della cortina muraria esterna.

Fig. 10 – Castello di Molara: particolare dei resti della cava. Sullo sfondo dell’immagine il castello.
442 MARCO AGOSTINO AMUCANO

penuria riscontrata spinge ancor più il fortino molarese nella categoria dei “contesti particolari”,
dove la ricognizione archeologica, a prescindere dal grado di sistematicità ed intensità applicato,
più che altrove dovrà essere affiancata da analisi specialistiche d’altro genere, per quanto la mi-
serrima quantità di reperti di superficie sarebbe già in sé quasi un argumentum ex silentio 24.
I materiali raccolti consistono finora in ventitré reperti ceramici, caratterizzati da estrema
frammentarietà, notevolmente flottati, di cui tre soli consentono sicura attribuzione a forme e
produzioni determinate25; ne riportiamo qui di seguito la scheda descrittiva preliminare, consa-
pevoli della necessità di un necessario approfondimento archeometrico:
1) Frammento di olletta con colletto distinto, bene everso, con gola marcata ed orlo lievemente
sbiecato all’esterno con margini appena accennati. Impasto compatto, mediamente depurato, di
colore omogeneo arancio-mattone vivo, contenente molti inclusi minuti e medi quarzosi. Su-
perficie dilavata nella parte interna, meglio conservata esternamente, opaca, scabra, con inclusi
distinguibili al tatto (Fig. 11, a).
Dimensioni: diametro ric. 18,8; h res. 3,5
Provenienza: raccolto in superficie all’interno del castello.
2) Frammento di piccolo testo a parete bassa eversa, lievemente concava all’esterno presso l’orlo,
ed all’interno in corrispondenza del raccordo col fondo. Orlo indistinto arrotondato con leggero
restringimento. Impasto grezzo compatto, di colore nocciola-beige all’interno e nello spessore e
rosa-mattone all’esterno, contenente degrassante a granulometria piccola e media, consistente in
inclusi quarzosi e micacei. Superficie alquanto dilavata, regolare, ma ruvida per via degli inclusi
che si percepiscono al tatto (Fig. 11, b).
Dimensioni: Diametro ric. 16,1; h. 2,3; spessore fondo 1,5
Provenienza: Probabile immondezzaio nel pendio settentrionale.
3) Frammento di piccolo testo a parete bassa eversa, con profilo lievemente concavo-convesso ed
orlo arrotondato indistinto. Fondo e parete notevolmente spessi. Impasto compatto con abbon-
danti inclusi quarzosi e micacei a granulometria minuta e media, di colore beige-rosato anche in
frattura, e piccole tracce annerite internamente. Superfici dilavate, opache, scabre, con inclusi a
vista (Fig. 11, c).
Dimensioni: Diametro ric. 18.0; h. 2,3; spessore fondo 2,4
Provenienza: Probabile immondezzaio nel pendio settentrionale.
Entrando in merito all’approfondimento morfologico, significativa ci pare la presenza dei testelli
da fuoco con bassa parete eversa, inseribili in una tipologia documentata a partire dall’Alto Me-
dioevo sardo e peninsulare. Testi da fuoco che esibiscono evidenti affinità coi nostri provengono
da contesti altomedievali dei nuraghi Losa26; Santa Barbara di Villanovatruschedu27; Sa Jacca di
Busachi28, che a loro volta rinviano all’esemplare Villedieu 196 contestuale a stratigrafie di V-VI
secolo di Porto Torres-Sassari29.

24
È assodato che il metodo della ricognizione archeologica, presso la probabile discarica, mentre un terzo frammento di
per quanto intensivo e sistematico, può non essere utile per orlo, troppo piccolo e quindi dubbio, sembrerebbe anch’esso
l’identificazione di determinati periodi, quali la preistoria fino rientrare nello stesso repertorio morfologico.
al Neolitico e l’Alto Medioevo (vedi supra, nota 13 e da ultimo Altri due frammenti rientrano sempre nel lotto della cera-
in particolare CAMBI 2000, p. 255). mica comune grezza, pur distinguendosene per maggiore rego-
25
Per quanto provvisori, dobbiamo comunque riportare i larità e cura nell’impostazione strutturale, nella realizzazione
rapporti quantitativi riscontrati all’interno del lotto dei reperti (cui contribuisce l’impiego sicuro del tornio), nell’impasto
erratici raccolti in quattordici ricognizioni. Ben oltre la metà (parzialmente depurato con minori inclusi macroscopici ed ar-
dei frammenti è di ceramica comune grezza (13 in tutto), a ricchito di degrassante a granulometria minuta), nella superficie
sua volta suddivisa in due gruppi di impasto ovvero in due (maggiore uniformità ottenuta verosimilmente con l’uso di un
distinte produzioni: una di fattura più grossolana ed un’altra pennello di fibre vegetali o di un panno umido) e nella cottura
dalla resa meno sommaria. Ad un’osservazione macroscopica, il ottenuta in ambiente ossidante. Il primo frammento (reperto
primo gruppo interno vede impasti grossolani frequentemente n. 1), rinvenuto nello spazio interno del recinto fortificato,
vacuolati e dalla scarsa coesione, dovuta alla notevole densità è sicuramente riconducibile ad un’olla, mentre il secondo,
di inclusi di varia granulometria, sia sotto forma di residui di più difficile lettura presentando solo il punto di attacco
minerali come di degrassanti intenzionali. Le superfici connesse dell’orlo alla parete, parrebbe comunque analogo al primo per
con tali impasti sono in genere ruvide, mentre all’osservazione caratteristiche tecniche, e per quanto non appartenente allo
in frattura si evidenzia maggiormente una tonalità grigio-ne- stesso oggetto, parrebbe esserne consimile per la morfologia.
rastra o grigio-rossastra per i frammenti di ceramica da fuoco, 26
BACCO 1997, p. 11, n. 7 (= Tav. V, 1); p. 45 e s.
e nocciola-rosato per due frammenti pertinenti a non meglio 27
BACCO 1997, p. 33, n. 133 (= Tav. LI, 2); p. 45 e s.
identificabili manufatti da dispensa o da mensa. Appartengono 28
BACCO 1997, p. 24, n. 76 (= Tav. XXXI, 1); p. 45 e s.
a questo primo gruppo di ceramica comune grezza sicuramente 29
VILLEDIEU 1984, p. 164, Fig. 196/couche 5; inoltre anche
i due frammenti di testi (reperti n. 2 e n. 3), rinvenuti entrambi p. 319 n. 96.
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 443

Fig. 11 – Castello di Molara: Reperti di superficie leggibili.

Alcuni frammenti consimili riferibili a testi da fuoco provengono altresì dallo scavo dell’area
3000 nell’insediamento altomedievale di Santa Filitica in territorio di Sorso-SS), a poca distanza
da Turris-Porto Torres, che come questa sembra avere avuto una certa vitalità commerciale dal V
fino al VII secolo, con direttrici privilegiate dall’Africa settentrionale e dall’Oriente, come dimostra
essenzialmente la (scarsa) presenza in associazione di strato di sigillate africane D30.
Passando ad ambito peninsulare, è nota la diffusione geografica di testelli soprattutto nelle
regioni centro-settentrionali italiane, per un ampio excursus cronologico d’impiego che perviene
al pieno Medioevo superandolo anche31, e la cui tecnica di fabbricazione “primitiva” resta inva-
riata nel tempo, rendendo tali reperti importanti più che altro per lo studio dell’alimentazione e
l’economia32, ma di relativo significato come indicatori cronologici, anche se – a titolo di esempio
– sempre per l’area ligure non si può parlare di substrato locale in quanto non sono mai stati
trovati fra i reperti di età romana33, e le attestazioni lunensi ne confermano appunto l’avvio tra la
tarda antichità e l’alto medioevo34, così come sopra rilevato per la sarda Turris Libisonis.
Per quanto riguarda invece il frammento di olla, la sua esiguità ne rende impossibile una
restituzione tipologica sufficiente per l’infallibile stabilimento di raffronti. Sappiamo che questa
sorta di contenitori in ceramica grezza chiusi, o tendenti a chiudere, per ogni epoca rappresenta-
no una costante nutrita e qualificante dei repertori domestici ma, insieme alle pentole da fuoco,
particolarmente per l’altomedioevo35.
La semplice osservazione macroscopica dei reperti molaresi e l’esperienza danno la quasi
certezza dell’uso di argilla locale per i tipi di questa ceramica grezza, una classe che – in generale
30
ROVINA et al. 1999, pp. 193-195. I testi da fuoco di 35
BACCO 1997, pp. 50-52. Nondimeno, quanto ricostruibile
confronto sono illustrati nella Tav. II, 1; 2. graficamente dall’esiguo frammento molarese porterebbe a
31
Le frequenti attività di scavo in siti incastellati della trovare analogie in quelle olle dalla pezzatura medio-piccola
Liguria di Levante hanno evidenziato l’alta presenza di testelli provenienti dagli strati tardoantichi-altomedievali del nuraghe
nelle stratigrafie: MILANESE 1978; CABONA, MANNONI, PIZZOLO Losa, dotati di “colletto distinto, non mai verticale, ma sempre
1982; AA.VV. 1985, AA.VV. 1990; AA.VV. 2001, p. 140. evergente, più o meno rigido su gola morbida” (BACCO 1997,
32
Le misure alquanto ridotte indicano un uso individuale di p. 51, nota 118, in particolare l’esempio riportato in Tav. X,
questi manufatti, nell’area ligure essenzialmente destinati alla n. 2 (molto simile per forma e diametro dell’orlo). A queste
cottura di focaccette di farinacei (per le caratteristiche e l’uso caratteristiche sembra portarci anche il secondo frammento
vedi MANNONI 1965, pp. 49-64; MANNONI 1994, pp. 72-87). (probabilmente di olla) ritrovato nel sito della fortificazione
33
MANNONI 1987, p. 117. molarese, visto che profilo e diametro all’altezza del colletto
34
Luni II, p. 617; BACCO 1997, p. 69 e s. sembrano essere pressoché identici al primo.
444 MARCO AGOSTINO AMUCANO

– solo molto recentemente ha principiato a trovare appropriata considerazione anche in Sardegna,


dove per molti anni gli impasti grezzi postclassici sono stati prevalentemente inclusi nella cultura
materiale di epoca nuragica36.
Pur nella prudenza imposta dalle anzidette caratteristiche del sito e della ricerca preliminare,
segnaliamo la totale assenza di ceramica rivestita bassomedievale, anche se l’elemento in negativo
in sé non escluderebbe automaticamente l’utilizzo del sito fortificato nel basso medioevo, stando
a quanto si è avuto modo di imparare dalle varie indagini di superficie o di scavo sistematico in
alcuni siti pur relativamente prossimi allo scalo olbiese37.
Escludendo al momento la datazione del presidio al basso medioevo anche per ulteriori e
più convincenti valutazioni di contesto, pure il riscontro assolutamente negativo di prodotti di
importazione meglio noti, e quindi utili ai fini di una datazione meno indicativa perlomeno fino
alla piena età bizantina (ci riferiamo particolarmente alla sigillata africana D, la cui importazione
con continuità in Sardegna si prova fino agli inizi del VII secolo38), ci condurrebbe – pur nella
prudenza di dovere – verso un arco cronologico racchiuso fra l’VIII ed il X secolo, le cui cono-
scenze sugli elementi di cultura materiale restano relative.
Tornando al dato offertoci dalla tecnica costruttiva a secco, la confrontabilità presso altri siti
fortificati sardi medievali presenta i suoi calcolati rischi. Vista la preliminarietà del contributo, si
conterrà il raffronto a due interessanti esempi nel nord della Sardegna.
Ottimo confronto proviene dai resti di fortificazione in località Le Querce, presso Monte
Bianchinu, area residenziale che domina il sito urbano di Sassari da sud-est. Trattasi di un seg-
mento angolare residuo, che allineandosi e/o sovrapponendosi gradualmente al banco di roccia
calcarea appositamente tagliato nell’estremità nord-ovest (Fig. 12), ne prosegue la funzione di
contenimento del pendio, contenendo un terrazzamento oggi occupato da una casa residenzia-
le39. La tecnica costruttiva del paramento mostra l’impiego di blocchi calcarei di varie pezzature,
grezzamente squadrati, che tendono a disporsi in filari di posa regolari (Fig. 13), secondo un
principio costruttivo che richiama direttamente la fabbrica molarese. Va nondimeno precisato
che il paramento murario osservato a Monte Bianchinu nasconde un’esigua presenza di malta in
rari punti di commessura, quando invece a Molara – come detto – quella è bandita senza riserve.
Inoltre il materiale lapideo, un calcare organogeno piuttosto friabile, consente l’estrazione di
blocchi di dimensioni più cospicue e linee più regolari rispetto al più duro granito gallurese, pur
nell’evidente similitudine dei principi costruttivi.
Pur con tutta la prudenza consigliabile ed in attesa di più estesi approfondimenti, l’attribuzione
genericamente riferita all’Età di Mezzo dei resti di fortificazione presso Sassari40 potrebbe stringersi
senza apparenti ostacoli alla fase alto-medioevale. Ciò anche in considerazione della prossimità
(circa 50 metri) di una chiesa rupestre attribuibile allo stesso periodo41, posta a lato della nota
Fontana Gutierrez, sul cui lato sinistro d’ingresso si osserva un alto muro di contenimento dalla
tecnica muraria simile a quella della fortificazione; da ultimo, anche il silenzio delle fonti tardo-
medievali potrebbe costituire utile indizio una cronologia meno vaga entro l’Età di Mezzo.
Se il secondo esempio del castrum di San Giorgio di Aneleto, presso Anela (SS) (Fig. 14), nella
regione storica del Goceano, è quello che maggiormente esibisce similitudine in questa tecnica
costruttiva a secco, è anche vero che lo stesso viene da A. Sanciu datato su basi stratigrafiche
ad epoca protobizantina, forse giustinianéa42, quando in Sardegna la pianificazione di castra li-

36
Al riguardo BACCO 1997, p. 4 e ss. superiore è mancante), mentre la funzione di contenimento
37
Citiamo unicamente, al momento, il caso dell’area inse- è confermata dal profilo “a scarpa” dell’elevato. Sul versante
diativa e cimiteriale di Santu Miali in territorio di Padru (SS), settentrionale si apre un ingresso largo m 0,90 ed alto m 2,10,
sottoposto a due campagne di scavo negli anni 2002 e 2003, che introduce in un corridoio ad angolo contrapposto rispetto
che hanno evidenziato la presenza di due chiese romaniche all’angolo esterno della cortina, terminante con una finestrella
allo stato di rudere, una vasta necropoli e tracce di un esteso che si apre trasversalmente nel versante nord-ovest. Ingresso,
insediamento, che dall’età romana attraversa l’altomedioevo. finestrella e corridoio sono ricoperti da volta ogivale costrui-
Pur essendo il sito ubicato a soli 15 chilometri da Olbia, dallo ta a secco, che per certi versi sembra richiamare la tecnica
stesso non proviene nemmeno un frammento di ceramica ri- costruttiva nuragica. Primi cenni descrittivi della struttura in
vestita bassomedievale (una prima notizia in forma divulgativa ROVINA 1989, p. 129.
dei risultati dello scavo 2004 è in AMUCANO 2004). 40
ROVINA 1989, Ibid.
38
ROVINA et al. 1999, p. 215; SPANU 1998, pp. 129-143. 41
CAPRARA 1985, p. 88.; CAPRARA 1986, p. 259.
39
La lunghezza totale dei due tratti murari, raccordati 42
La descrizione delle strutture e la notizia degli scavi
ad angolo leggermente ottuso, è di oltre 22 metri, l’altezza sono in SANCIU 1990, pp. 137-139, e SATTA 1995, p. 27 e s.
massima si aggira intorno ai due metri e mezzo (la parte Da ultimo si veda anche SANCIU 2003.
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 445

Fig. 12 – Sassari, loc. Monte Bianchinu – Le Querce. Resti di fortificazione medievale.

mitanei ha come obiettivo primario le incursioni dei Barbaricini e di altre popolazioni indigene
dell’entroterra verso le piane43.
Inversamente, l’insolita collocazione del presidio molarese soggiace ad istanze topografico-
strategiche che appaiono oggettivamente dipendere da un’insidia circoscritta al tratto di mare,
e con funzione non tanto di difesa diretta, quanto preventiva di controllo, dacché è impensabile
che il bene da proteggere fosse il porto di Olbia44 (Phausiana il nome della sede vescovile alto-
medioevale ripristinata alla fine del VI secolo per volontà di papa San Gregorio Magno45), per-
fettamente celato alla vista – insieme a tutto il golfo – dall’enorme sipario naturale di Tavolara.
Anche la necessità di proteggere l’insediamento monastico bassomedievale di Cala Chiesa, sorto
vicinissimo al mare, non trova giustificazione né strategica, né storica, né archeologica, l’ubicazione
pacificamente litoranea del cenobio corroborando indirettamente la datazione altomedievale del
fortilizio. Infatti, dalla seconda metà del VII secolo fino al 1016, – anno della sconfitta definitiva
di Museto da parte delle marinerie di Pisa e Genova – è noto come per la Sardegna il pericolo
dal mare equivalga essenzialmente alle incursioni arabe, iniziate con anticipo proprio verso il
nostro settore costiero, come ricava il Kaegi dall’Apocalisse dello Pseudo-Metodio (691/2 circa),
opera in siriaco che contiene la menzione di un attacco rivolto proprio allo scalo olbiese nella
seconda metà del VII secolo46, dunque prima del 697, cruciale anno della caduta di Cartagine
43
SPANU 1998, p. 173 e ss. porto per tutto l’Alto Medioevo. In particolare dallo scavo
44
Utile sintesi delle vicende del porto olbiese, i cui dati del porto antico (in cui si registrano reperti databili fino al
archeologici avvalorano la presenza di un centro emporico XVII secolo), oltre al ritrovamento di tre relitti altomedievali
sin dallo scorcio dell’VIII secolo a.C., è offerto (fino all’Alto (nn. 5, 8, 9, il secondo datato al X secolo col C14) si sono
Medioevo) da Raimondo Zucca in Mare Sardum 2005, pp. riscontrate le presenze di forme tardive della sigillata chiara D,
198-202 con bibliografia precedente relativa. La topografia del di lucerne africane, di quattro forme della classe Forum Ware,
porto di Olbia ha avuto il suo definitivo momento conoscitivo di cui l’esemplare più integro trova confronto con analoghi
in seguito all’enorme scavo archeologico del lungomare in contenitori di X secolo di area laziale, in particolare da Roma
Via Principe Umberto e l’inizio di Via Genova (anni 1999- (Crypta Balbi), da S. Cornelia, e da Lucus Feroniae (D. Rovina
2001, condotto da Rubens D’Oriano della Soprintendenza in MILANESE, BICCONE, ROVINA, MAMELI 2005, p. 204 e s.). Per
Archeologica per le Province di Sassi e Nuoro), registrando un l’età bizantina sottolinea il declino dello scalo olbiese P. G.
evento distruttivo eccezionale fissato ai primi decenni del V sec. Spanu in Mare Sardum 2005, p. 121 e s.
d.C., presumibilmente per mano vandala, con affondamento 45
S. GREGORII MAGNI, Ep. IV, 29; Ep. XI, 7, riportate in
di almeno dieci navi onerarie ormeggiate in porto (in partico- PINNA 1989, rispettivamente alle pp. 120 e s. e 132.
lare si rimanda a D’ORIANO 2002; D’ORIANO 2003; D’ORIANO 46
KAEGI 2000, pp. 161-7, basato su una rilettura di Die
2004). Sia lo scavo del porto, come gli scavi urbani condotti Apokalypse des Pseudo-Methodius. Die altesten griechischen
da decenni da parte della Soprintendenza Archeologicia per und lateinischen Ubersetzungen, hrsg. von W. J. AERTS und
le Province di Sassari e Nuoro e le ricerche in genere condotte G. A. A. KORTEKAAS, CSCO 569 (subsidia 97), Lovanii 1998,
nell’area olbiese documentano la continuità di utilizzo del pp. 94-5, 98-9.
446 MARCO AGOSTINO AMUCANO

Fig. 13 – Sassari, loc.


Monte Bianchinu – Le
Querce. Resti di fortifi-
cazione medievale: par-
ticolare del paramento
murario (il riferimento
metrico è di due metri).

Fig. 14 – Anela (SS).


Castrum protobizan-
tino di San Giorgio di
Aneleto. Particolare
della tecnica muraria.
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 447

e dell’esarcato africano in cui la Sardegna rientrava, ed atto ufficiale d’inizio dei regolari assalti
arabi verso l’isola, com’è noto concentrati nella prima metà dell’ottavo secolo47.
Proprio per il secolo successivo ci giunge una notizia forse risolutiva ai fini dell’interpretazione
meno generica della topografia, strategia e cronologia dell’insediamento castrale molarese. Un
passo del Liber Pontificalis riferisce infatti di un locus qui Torarum dicitur presso la costa sarda
dove nell’849 – tre anni dopo il sacco delle basiliche romane di San Pietro e San Paolo del 25
agosto 846 – gli Arabi concentrarono una gran flotta destinata al nuovo attacco alla Città Eterna48.
Con una grande flotta nell’849 gli Arabi, partiti dalla base sarda di Torarum, si ripresentarono
dunque sul litorale romano per ripetere l’impresa, finendo tuttavia sanguinosamente sconfitti
nel mare di Ostia grazie alla determinante collaborazione di Napoletani, Gaetani e Amalfitani e,
soprattutto, di una provvidenziale tempesta di libeccio49.
La notizia che sulle coste della Sardegna pirati saraceni stessero riorganizzando una grande
flotta per compiere nuove scorrerie sulle coste italiane e laziali accelerò – com’è noto – la costru-
zione del recinto murario intorno al Vaticano voluto da Leone IV, eletto papa pochi mesi dopo
l’evento “apocalittico” che riverberò per tutta l’Europa cristiana50.
47
Nel complesso non sono numerosissime le successive emiri aghlabiti dell’Ifrìqiyah decidono di impegnare le loro mire
spedizioni registrate dai cronisti arabi, cui evidentemente sfuggì espansionistiche verso la Sicilia, occupata parzialmente nell’827
questa prima scorreria segnalata per la Sardegna. I vari autori e definitivamente conquistata nell’830, con la presa di Palermo
ne registrano sicuramente sei, ma forse anche di più, sette o (STASOLLA 2002, p. 82; MELONI 2002, p. 8). Nondimeno la Sar-
otto, svolte tutte nella prima metà dell’VIII secolo. La prima degna risulta tutt’altro che estromessa dal generale fenomeno
dell’elenco pare essere quella datata al 703-4 (se dobbiamo ac- delle incursioni le quali, per quanto sostanzialmente mirate alla
cettare l’interpretazione dell’Amari che nella Salsalah o Silsilah Penisola, finiscono per coinvolgere non poco l’area in esame,
depredata preferisce identificare la Sardegna e non la Sicilia posta dirimpetto alle coste laziali (fondamentale per le vicende
(AMARI 1880, c. XXVI, p. 274); questa prima fase corrisponde degli Arabi in Italia GABRIELI, SCERRATO 1979. Vedi anche STASOLLA
alla fase espansionistica dell’impero omayyade verso ovest (vedi 2002, p. 84). Per il X secolo, l’assalto arabo alla Sardegna (ed
STASOLLA 2002, p. 80, 83, anche per quanto riguarda la possibilità alla Corsica) dell’anno 934 deve piuttosto ritenersi un’azione
di insediamenti arabi in Sardegna e per la gizyah). L’ultima è an- marginale nell’ambito dell’imponente spedizione organizzata
che la più importante di questa prima fase di spedizioni: ben tre dal governo fatimida d’Africa contro i Franchi e Genova. L’isola
storiografi arabi descrivono concordemente come in quell’anno venne infatti attaccata come gesto di reazione dopo che una
i mussulmani fecero strage di sardi, costringendoli al pagamento flotta bizantino-genovese aveva attaccato la base mussulmana di
del testatico (gizyah), il quale venne effettivamente riscosso Frassineto. Nella circostanza, dopo avere assalito Genova, ven-
(per quanto tempo non si sa) in cambio della loro “protezione” nero anche bruciate delle navi in un porto sardo non specificato,
(dhimma) (STASOLLA 2002, p. 81). Dopo oltre mezzo secolo in cui non essendo chiaro se le navi bizantine utilizzassero ancora delle
non solo la Sardegna, ma anche la Sicilia furono trascurate dai basi navali in Sardegna come nei secoli precedenti. Per quanto
saraceni, una violenta ondata di attacchi investì l’isola a partire di fatto politicamente autonomi da circa due secoli, i Sardi
dall’IX secolo. Due spedizioni sono citate sempre dai cronisti mantengono ancora a capo della loro società ed ordinamenti
arabi, quelle fallite nell’816/17 e nell’821/22, precedute da delle figure istituzionali di origine bizantina nondimeno svuotate
altre riportate stavolta da cronisti occidentali per gli anni 807, delle originali prerogative, con una dipendenza nominale che
809 ed 813, l’ultima delle quali trova traccia nei documenti metteva l’arconte di Sardegna alla stregua degli altri “vassalli
pontifici. L’11 novembre di quest’anno papa Leone III scriveva italici” quale il Doge veneziano, gli arconti di Amalfi e di Gaeta
all’imperatore Carlo Magno che nello stesso mese una flotta di ecc. (STASOLLA 2002, p. 82; MELONI 2002, p. 10 e ss.). La citata
cento navi saracene, partita dall’Africa, era stata distrutta da una spedizione di Mugiahid (autunno 1115), rompe un periodo di
tempesta mentre era diretta in Sardegna (MGH, Epistularium relativa tranquillità durato circa mezzo secolo. Governatore
Karolini Aevi III, pp. 77-99 e STASOLLA 2002, p. 82). Per gli anni del distretto di Denia, il Museto o Mugetto protagonista di
807 ed 809 due spedizioni provenienti dalla penisola iberica alla numerose leggende riportate nelle fonti occidentali, mosse con
volta della Sardegna e della Corsica, e che ebbero esito negativo, ben centoventi navi dalle Baleari e riuscì a conquistare buona
sono registrate rispettivamente dai contemporanei Einhardus parte della Sardegna meridionale, ma si trattò di una conquista
negli Annales Regni Francorum, e Saxo negli Annales (entrambi effimera perché l’anno successivo la sua flotta fu distrutta in
in MGH, Scriptores Rerum Germanicarum, ed. Pertz, ed inoltre battaglia da quella cristiana pisano-genovese (STASOLLA 2002,
TOLA 1861, p. 447, nota 1 e STASOLLA, Ibid.). La nuova serie di pp. 83-5). Il fallimento dell’ultima grande spedizione araba
aggressioni porta la Sardegna a trovarsi sempre più isolata in un nel Mediterraneo centrale ed in Sardegna, corrisponde anche
mare nemico, e pur restando nominalmente possedimento di all’inizio della libertà di espansione politica e commerciale delle
Bisanzio le autorità locali, costrette oramai ad agire autonoma- due potenze marinare di Pisa e Genova, che segnerà un giro di
mente, si appellarono ad aiuti esterni. Nell’815 una richiesta di boa epocale per la Sardegna.
aiuti fu inviata dal giudice della provincia, residente a Cagliari, 48
Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, vol. II, Paris 1955,
alla corte del re franco Ludovico il Pio, restando purtroppo pp. 117 e 521 (Leo IV, XLVII): multisque etiam diebus in
inascoltata (dell’ambasceria solenne partita da Cagliari ci parla loco qui Torarum dicitur iuxta insulam Sardiniam (Sarraceni)
sempre Einhardus nei citati Annales Regni Francorum; vedi demorati sunt. A qua digressi ad Romanum portum, Deo illos
anche TOLA 1861, p. 447, nota 4; STASOLLA 2002, Ibid.). È palese non adiuvante, venire conati sunt.
che ai Sardi toccava di rintuzzare gli attacchi arabi con le loro 49
LLEWELLYN 1975, p. 215 e s. È noto che dei prigionieri,
uniche forze, come in pratica sempre avevano fatto. Logico quelli che non furono impiccati, vennero tradotti a Roma ed
dedurre anche che nella grave situazione di allerta le capacità di utilizzati proprio per la costruzione delle “mura leonine” (in
resistenza ed organizzazione militare dovettero condurre verso particolare, oltre al citato Llewellyn, vedi MARAZZI 1994, p.
una gestione di fatto autonoma del potere politico, spingendo in 257 e s.).
maniera sempre più pressante verso la maturazione istituzionale 50
Liber Pontificalis (supra, nota precedente). La costruzione
dei giudicati (sterminata la bibliografia e le ipotesi sulla vexata della cd. “Città Leonina” fu inaugurata il 27 giugno 852. Per
quaestio: da ultimo MELONI 2002, pp. 9-35; ORTU 2005, pp. la raccolta delle testimonianze contemporanee e sulla vasta
43ss). Dopo l’822 le cronache non registrano attacchi arabi con- eco che ebbe l’avvenimento nell’occidente cristiano vedi
tro l’isola per oltre un secolo, principalmente per il fatto che gli PIGANIOL 1964.
448 MARCO AGOSTINO AMUCANO

Fig. 15 – L’isola di Tavolara vista dal castello di Molara.

L’identificazione di Torarum51 con Tavolara (Figg. 1, 15) viene brillantemente confermata da


Raimondo Zucca grazie ad un passo della Vita Sanctorum Sentii et Mamiliani, redatta intorno
all’VIII secolo52, che riferisce dell’isola montuosa di Turarium, localizzata nella costa orientale
sarda, a due giorni di navigazione lungo la rotta da Cagliari verso il Mons Iovis (attuale isola
Montecristo) dove Sentius ed il suo seguito vennero scaricati e abbandonati dai nautae cagliaritani,
restandovi per dies plurimos prima di tornare in Toscana53.
Maestosa isola calcarea, inconfondibile per la singolarissima conformazione stretta, alta ed allun-
gata, Tavolara (Taulara in lingua sarda) ha gli unici approdi ubicati alle estremità distali, ma l’acqua
vi scarseggia; di contro la granitica Molara annovera più di una fonte (fra cui una, ricchissima ed
ottima, presso S’Oltu, che dovette servire il monastero di Cala Chiesa secoli dopo), ed ai tempi i
suoi boschi dovevano offrire legname e selvaggina certamente più che non ai nostri giorni. Poiché
si può immaginare che le dimensioni della flotta araba messa su con quelle ambizioni fossero tali
da rendere presto insufficiente lo spazio di ancoraggio delle due modeste cale tavolaresi, la sola
adiacenza geografica di Molara, ed i prospettati vantaggi di approvvigionamento che essa offriva
rendono ovvio immaginare – per analogia – che la semplificata denominazione di locus Torarum

51
Secondo l’Abbé L. Duchesne (cit. p. 137 nota 36) Tora- toponomastica tra Turarium/Torasus/Torarum e l’isola di
rum sarebbe una località ignota, da vedersi forse in una delle Toraira/Toraio, ma anche forse per un processo pareti-
isole della costa orientale. Fu per primo il Gazano (GAZANO mologico, Tolarium/Tolara (Tavolara) dei documenti, dei
1777, p. 339) a proporre l’identificazione con l’isola di Ta- portolani e delle carte nautiche medievali e postmedievali,
volara, mentre il Manno (MANNO (1996), vol. I, p. 221, nota ne assicura l’identificazione con l’odierna isola di Tavolara”.
619) la dava ancora incerta. TOLA 1861, p. 118, nota 5, la vede Il nesonimo altomedievale Turarius/Torarius/Torasus, da cui
presso l’Isola del Toro; BESTA 1908/9, p. 42 rimane incerto tra deriverebbe quello attuale per dissimulazione progressiva,
Tavolara e La Maddalena. non sembra sembra avere etimologia latina, ma “rientrare
52
Acta Sanctorum Maii VI, 1688, p. 71: Vita S. Senzii, 2-3. in una serie onomastica di probabile origine preromana”
Vedi CURTI 1981, pp. 23-42; ZUCCA 2003, p. 97e s. (ZUCCA 2003, p. 99, note 145-147). Il nesonimo originario
53
L’identificazione riceve ulteriore conferma dal locum dovrebbe essere precedente a quello di Hermaia nèsos
vocatur Torasus indicato nella Legenda Sancti Saturni (XII utilizzato dal geografo antico Tolomeo per indicare l’isola
secolo), dove la nave del preside Barbarus (...) proficiscens (sull’antico nesonimo tolemaico si rimanda al nostro stu-
ad Corsicam affonda dopo il martirio di Simplicius, nella dio AMUCANO 1992). Per un utile elenco esemplificativo
civitas Fausina, della regio Sardiniae quae dicitur Galuris delle attestazioni del nesonimo dal Basso Medioevo fino
(MOTZO 1926; ZUCCA 2003, p. 98s.). Dunque secondo il ad oggi si veda PANEDDA 1991, p. 614, scheda 2126, voce:
fondamentale studio di Raimondo Zucca “la continuità Taulàra,Tavolara.
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 449

Fig. 16 – Isole di Tavolara e Molara viste da Punta Lu Casteddacciu (Comune di San Teodoro-OT).

dicitur pervenuta al cronista del Liber intendesse l’intero arcipelago oggi similmente inquadrato
con la denominazione di “aggruppamento di Tavolara”, presentandosi il piccolo arcipelago col
nesonimo dell’isola maggiore e più nota ai naviganti.
Insieme allo stretto braccio di mare che le separa (il “canale di Tavolara”) (Figg. 15, 16), protetto
dai venti tesi e dominanti dei quadranti settentrionale e meridionale, celato alla vista diretta del
centro più importante, la Phausiana altomedievale, le cale delle due isole dovettero offrire ideale
punto di raduno per navi provenienti da più direzioni, grazie anche all’inconfondibile skyline
di Tavolara, straordinario punto di riferimento per oltre un terzo della costa orientale sarda.
Vantando altresì la maggiore prossimità alla costa laziale (125 miglia marine), la base saracena
assicurava estremi vantaggi nell’effetto sorpresa54.
Per concludere, la visione sinottica degli elementi di valutazione esposti, con rimarcatura della
singolare collocazione e funzione deducibilmente specialistica della fortezza molarese, potrebbe
svelare un’estensione sarda del piano di tutela strategica successiva alla sconfitta araba di Ostia
dell’849. Infatti, oltre alla costruzione delle Mura Leonine a difesa del Colle, l’azione preventi-
vo/difensiva indiretta, più estesamente tirrenica, dovette concretizzarsi non solo rinforzando ed
erigendo difese in Roma e nel Lazio, o coinvolgendo Napoli, Amalfi, Gaeta e le sue flotte, ma
anche provvedendo urgentemente per scongiurare il riuso della costa sarda e dell’ideale covo
di Torarum come trampolino di lancio per ripetibili attacchi alla Città Eterna. L’ipotesi appare
suggestiva quanto la logicità di una strategia difensiva mirata ad evitare il riuso di una base ideale
ed indisturbata come quella; fra e da tutti gli elementi di valutazione spiccherebbe ora anche
quello della più ovvia, diretta ed attendibile contromisura cautelativa: creare ex novo una piccola
fortezza a controllo diretto delle nascoste rade tavolaresi e molaresi, segnalando eventuali navi
sospette. Pur consapevoli del buio in cui ci muoviamo, al cospetto di tutto ciò riferire il castello
di Molara al periodo immediatamente posteriore alla sconfitta araba dell’849 ci pare quantomeno
non contraddetta da nessuno degli elementi disaminati.
54
Appare remota a chi scrive anche l’ipotesi di potenziali flotta saracena in rada dovrebbero avere scoraggiato ogni
azioni di disturbo inoltrate da navi sarde, giacché per quanto iniziativa del genere dei locali, per non azzardarsi ad imma-
resti confermato dall’archeologia l’attività dello scalo olbiese ginare addirittura un provvisorio “patto di non aggressione”
nel periodo considerato, le immaginabili proporzioni della conveniente ad entrambe le parti.
450 MARCO AGOSTINO AMUCANO

Fig. 17 – Isola di Tavolara vista dal sito dell’antico porto di Olbia.

In tale prospettiva di ipotesi, considerati l’enorme choc causato in tutto l’Occidente cristiano
dal sacco saraceno di San Pietro, ed il massimo stato di all’erta conseguitone, andrebbero suppo-
ste pronte azioni diplomatiche per un più ampio e condiviso insieme di accorgimenti difensivi,
promosse in prima istanza dal papato verso quelle autorità della Sardegna ancora formalmente, o
piuttosto ideologicamente riferite all’Impero bizantino. Nel delicato momento storico derivante
dall’espansionismo arabo, l’inesorabile incomunicabilità tra Sardegna ed istituzioni centrali di
Bisanzio indusse per forza di cose il ceto dirigente sardo ad iniziative autonome a largo spettro55,
ed in tale dissolversi dei legami diretti tra Isola ed Oriente bizantino l’autorità papale può intro-
dursi più agevolmente con progressivi “giri di vite”, non mancando nemmeno precedenti illustri
del genere, come quando nel 598 San Gregorio Magno esortava il vescovo cagliaritano a munire
le difese urbane in vista del temuto assalto longobardo56.
Ora, se può obiettarsi la mancanza di documentazione che certifichi nero su bianco la richie-
sta di Leone IV (o degli immediati successori) alle autorità sarde, per far costruire un presidio
su Molara a scopo preventivo (e che a noi parrebbe il più urgente e logico provvedimento da
attuarsi dopo quanto avvenuto), si prova tuttavia che proprio nel quarantennio tra l’847 e l’886
55
«È vero che a capo della società e delle istituzioni locali probabilmente si riferisce il sigillo plumbeo scoperto a Santa
sopravvivono ancora, alla fine del X secolo, figure istituzionali di Filitica-Sorso (ROVINA 1984); le due epistole, inviate tramite una
origine bizantina, ma le loro prerogative originarie sono ormai delegazione pontificia composta dal vescovo di Populonia Paolo
svuotate e si caratterizzano, invece, in base a nuove forme di e dall’abate Saxus, venivano inviate per fare desistere dall’usanza
un potere che è sicuramente autonomo da Bisanzio, sovrano dei giudici di contrarre nozze tra consanguinei, determinando
all’interno del territorio e nei suoi rapporti con l’esterno»: così “incestas et illicitas nuptias”) e di Giovanni VIII dell’873
MELONI 2002, p. 11s.; al riguardo vedi anche COSENTINO 2002, (IP X, p. 379, n. 26).Queste epistole costituiscono l’argomento
p. 10s. Secondo accreditati studi, proprio intorno alla metà del più importante per i sostenitori della precoce quadripartizione
IX secolo risalirebbe la nascita delle istituzioni autonome legate in giudicati della Sardegna già nella seconda metà del IX secolo
alle nuove titolature, quali appunto iudex o àrchon, che indicano (in particolare MELONI 2002, pp. 14 e ss.), per quanto la cer-
un depositario ancora unico del governo militare e politico tezza assoluta si abbia solo nella documentazione di due secoli
dell’Isola, forse ufficialmente residente a Cagliari, luogo dove successiva (completa rassegna delle fonti in TURTAS 2000, pp.
forse coi primi attacchi arabi si trasferirono i duces Sardiniae da 260-4, che propende nettamente a favore della cronologia bassa
Forum Traiani-Krysopolis nell’ultima parte del VII secolo (SPANU, per la divisione in quattro giudicati, come peraltro prima di lui
ZUCCA 2004, pp. 33-37. MELONI 2002, pp. 14-17). È noto che le BESTA 1908-9, pp. 11-4; 283-4). Esula dai fini di questa ricerca
attestazioni, di poco successive, del plurale iudices et principes preliminare approfondire oltremodo i termini della vexata
della Sardinia sono nelle due lettere di Nicola I dell’864 (IP, p. quaestio sulle origini dei giudicati sardi.
379, nr. *25. Le Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, II, Paris 56
S. GREGORII MAGNI, Ep. IX, 11 (in PINNA 1989, pp.
1957, p. 162. Tale papa inviò in Sardegna delle epistulae cui 125s.; 150s.).
INDAGINI TOPOGRAFICHE SULLA FORTIFICAZIONE DELL’ISOLA DI MOLARA (OLBIA) 451

appaiono come d’incanto una decina di documenti riguardanti i pontificati del citato Leone IV
e dei successori Nicola I, Giovanni VIII e Stefano V, fra i quali la più fitta concentrazione corri-
sponde – guarda caso – proprio a Leone IV, più volte rivoltosi ad uno iudex Sardiniae, di cui la
storia tace ancora nome ed azioni a livello locale57.
Relazione – questa con papa Leone – non limitata all’ottenimento di pareri in materia religiosa,
ma individuabile in un caso anche come collaborazione militare. Proprio nell’851 – è sempre il
Liber Pontificalis ad informarci – per fare fronte al pericolo arabo Leone IV chiese l’invio a Roma
di un reparto di Sardi addestrati alle armi (sive pueros, sive adultos ac iuvenes cum armis suis), e
la richiesta del papa fu prontamente esaudita, risultando poco dopo uno stanziamento di soldati
isolani posti alla difesa di Porto, verosimilmente residenti in quel vicus Sardorum citato per ben
quattro volte nel Liber58.
Nel quadro storico testé sinteticamente prospettato il piccolo fortino di Molara, per disloca-
zione e singolari caratteristiche, troverebbe al momento il migliore inserimento, promettendo,
nel caso della definitiva conferma cronologica, un esempio interessantissimo e quanto mai raro
nel quadro delle strutture fortificate sarde altomedievali.

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57
I testi completi di queste lettere sono riportati in Mo- nel Liber Pontificalis nella vita di Leone IV. Risulta anche che
numenta Germaniae Historica, Berlin, dal 1823, Epistolae nel borgo dei Sardi sorgeva una basilica dedicata alla Sancta
Karolini Aevi, V e VII. Precedentemente a questo periodo, il Dei Genitrix, alla quale Leone IV fece ripetute donazioni, e
primo documento pontificio che dimostra un interesse della forse nei pressi della stessa basilica anche un monasterium
Santa Sede per la Sardegna è la lettera di papa Leone III a Carlo quod vocatur Corsarum. Sia il testo del documento pontificio
Magno, dell’11 novembre 813, che informava l’imperatore del inviato allo iudex sia le notizie riguardanti il Vicus Sardorum
fallito tentativo di invasione dell’Isola da parte di una flotta contenute Liber Pontificalis sono riportate con completezza
saracena di 100 navi partita dal Nord-Africa vedi IP, X, p. 377, in TOLA 1861, t. I, p. 449. Va inoltre aggiunto che la notizia
20; Vedi anche BESTA 1908-9, p. 42ss; TURTAS 1999, p. 161 ss. di una colonia di sardi e corsi presso la “città leonina” (“ubi
Vedi anche supra, nota 55. apostolice Sedis praesul fecit inhabitare Sardos et Corsos exules
58
Erroneamente BOSCOLO 1978, p. 70s., collocava in ad insulis eorumdem”) circolava a Roma fino ai secoli XIII e
Roma il vicus, precisamente indicato a trenta miglia da Roma XIV (vedi TURTAS 1999, p. 166, nota 101 con rimandi).
452 MARCO AGOSTINO AMUCANO

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Quaderni di Archeologia Medievale

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II. La Protomaiolica: bilancio e aggiornamenti. Atti del convegno di Roma, C.N.R. 1995, a
cura di S. Patitucci Uggeri, All’Insegna del Giglio, Firenze 1997, pp. 224.
III. La ceramica invetriata tardomedievale dell’Italia centro-meridionale. Atti del convegno di
Roma, C.N.R. 1999, a cura di S. Patitucci Uggeri, All’Insegna del Giglio, Firenze 2000, pp.
224.
IV. La viabilità medievale in Italia. Atti del V Seminario di Archeologia Medievale, Cassino
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V. Stella Patitucci Uggeri, Carta Archeologica Medievale del Territorio Ferrarese.
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2. Le vie d’acqua in rapporto al nodo idroviario di Ferrara, All’Insegna del Giglio, Firenze
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VII. La via Francigena e altre strade della Toscana medievale, a cura di S. Patitucci Uggeri,
All’Insegna del Giglio, Firenze 2004, pp. 304.
VIII. La ceramica altomedievale in Italia. Atti del V Congresso di Archeologia Medievale, Roma,
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Patitucci Uggeri, All’Insegna del Giglio, Firenze 2007, pp. 456.

Supplementi

1. Scavi medievali in Italia, 1994-1995. Atti della Prima Conferenza Italiana di Archeologia
Medievale, Cassino 1995, a c. di S. Patitucci Uggeri, Herder, Roma 1998, pp. 434.
2. Scavi medievali in Italia, 1996-1999. Atti della Seconda Conferenza Italiana di Archeologia
Medievale, Cassino 1999, a c. di S. Patitucci Uggeri, Herder, Roma 2001, pp. 536.

Per ordini rivolgersi a:


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Firenze
Nuova Prohomos
ottobre 2007
€ 48,00
ISBN 978-88-7814-372-2

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