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GUERRA E DIRITTO

La guerra è un fenomeno temporalmente definito e territorialmente localizzato, a partire dal XVI


secolo, in quanto strettamente connesso all’ evoluzione dello stato sovrano. È un rapporto di
MUTUO RICONOSCIMENTO. Lo stato sovrano infatti nasce per offrire rimedio alle guerre
europee
di lunga durata del 400-600. Se è la guerra che fa lo Stato, è poi lo Stato che fa la guerra
assumendo in sé il monopolio di tutti i suoi profili.
1. Fra ius e polemos
Nel palazzo pubblico di Siena, Ambrogio Lorenzetti…. (descrizione quadro da pag.3). Elaborazioni
di
pensiero coincidono con un comune sentire: la pace crea e la guerra distrugge. Infatti, il diritto
nasce avendo come condizione primaria il mantenimento della pace. La guerra, che sia di difesa o
di conquista, giusta o ingiusta, ha lo scopo di imporre ai contendenti nuovi equilibri militari. Non è
un fenomeno assimilabile di per sé alla mera forza ma è un’ arte dotata di sue precise regole e poi,
nella sua forma più moderna, essa ha sempre inseguito una qualche forma di legittimazione.
Inoltre, in passato, la guerra era connessa ad una serie di qualità che hanno contribuito
all'evoluzione civile dell'uomo: coraggio, fedeltà, senso del dovere. Infatti, sino all'età medievale
essa ha avuto una funzione educativa e culturale, che è venuta meno con il passaggio dal conflitto
individuale alla guerra tecnologica e totale del ventesimo secolo. In più vi è nell’ antichità chi vede
nel conflitto armato l’evento decisivo del divenire umano che eleva alcuni al ruolo di dei, altri
costringe alla schiavitù. La guerra ha manifestato per secoli anche una forte ambivalenza: da una
parte distrugge vincoli sociali, dall’altra porta a costruirne dei nuovi.
1. La legittimazione dei conflitti
La guerra interagisce con lo ius: è la legge del più forte, del vincitore, ma rappresenta comunque
l'evento costitutivo di una diversa convivenza sociale e di un differente ordine politico. Se la guerra
diventa strumento per la creazione del diritto, finirà essa stessa per essere subordinata alle
condizioni dello ius. L'ordine civile è un ordine di battaglia, ma in un senso ambivalente perché non
solo la guerra fonda il diritto, ma il diritto a sua volta disciplina il fenomeno guerra. A sua volta,
una certa idea di diritto inteso in senso soggettivo, finisce con l'essere legata tanto alle ragioni
dell'aggredito quanto a quelle dell'aggressore. Se l'aggredito ha il diritto a difendersi, l'aggressore
troverà sempre una legittimazione alla propria azione che giustifichi il desiderio di egemonia e di
conquista. Questa legittimazione è spesso ricollegata alla volontà divina: il Dio della guerra, Ares
(Marte per i romani) che incoraggia i Greci a una contesa eroica. Obiettivo della guerra voluta da
Dio (e quindi giusta per definizione) non può che essere una pace con giustizia. Quindi il fine è
sempre assai nobile (assicurare la pace tra le genti): così come dice Aristotele : “facciamo la guerra
per poter vivere in pace”. Su questo slancio Alessandro il macedone avvia la sua straordinaria
campagna militare, motivandola con l’ esigenza di offrire una pace definitiva all’umanità. Il
problema della legittimazione della guerra si ripropone con la filosofia cristiana del Medioevo:
- Sant’Agostino afferma che sono guerre giuste quelle che vendicano i soprusi proprio
perché comandate da Dio. Inoltre, siccome per Sant'Agostino l'esistenza stessa dello stato trova la
sua legittimazione in un imperativo di giustizia di derivazione divina,
popolo ed esercito diventano obbligati esecutori di questo disegno.
- San Tommaso dice che condizioni per una guerra giusta sono: l’auctoritas principis, cioè
la guerra dichiarata dall’autorità legittima; la iusta causa, cioè la necessità di riparare un
torto; l'intentio recta, cioè il desiderio di accrescere il bene e diminuire il male.
Da queste teorie deduciamo che la guerra santa è quindi necessariamente guerra giusta.
Il probelma della legittimazione della guerra emerge al sorgere dell'età moderna. Gli stati nazionali
europei, pur legati dalla medesima radice cristiana, sono spesso in conflitto tra loro. La guerra
quindi non può essere santa e neanche giusta. Ciò che emerge è che la guerra è un elemento
strutturale della storia. La legittimazione della guerra per lo stato moderno non sta in regole morali
o giuridiche, ma in se stesso, nella ragion di stato e nella necessità di preservare la sua integrità.
Dunque i conflitti armati sono ormai privi di quel furore moralistico che aveva segnato le guerre
civili e di religione: l'avversario del campo di battaglia non è più il nemico privato ma il nemico
pubblico. Di conseguenza la guerra diventa un fatto di stati e poi di individui. É un approdo
speculativo diverso dal passato. Dal punto di vista morale, un tempo non aveva alcuna importanza
che un conflitto armato fosse conforme al diritto e che si concludesse o meno con un esito
vittorioso; ma era soltanto un dovere etico che rispondeva ad un imperativo che si originava nella
mente del singolo. Invece gli Stati moderni fondano la legittimità del loro intervento sulla
favorevole conclusione del conflitto. La guerra non è più un fatto personale ma si legittima da sola
per volontà dello stato sovrano. Allora diritto e morale prendono due strade separate: gli Stati nelle
relazioni reciproche si comportano come se non ci fosse più alcuna regola del diritto internazionale
che sanzionasse lo ius ad bellum, cioè non sancisse quale guerra fosse giusta e quale no. In Europa,
ad esempio, trascorrerà molto tempo prima di elimi are ogni legittimazione divina alla guerra. Il
secolo ddi lumi farà questo, dando avvio ad un conflitto fortemente caratterizzato in senso
ideologico: in particolare le guerre napoleoniche sono forse il primo esempio di “guerra
umanitaria”, cioè una guerra spogliata di ogni connotazione religiosa. Il secolo breve, invece, ci
dice
che non esiste guerra giusta a qualunque costo pdoprio perché le armi di distruzione di massa
lasciano dietro di sé annichilimento e sfacelo.
2. La proceduralizzazione dei conflitti (IUS IN BELLO)
Accertata l’esistenza di un’autorità abilitata a fare la guerra, quel che conta sono le modalità con
cui questa viene dichiarata, l’intensità con cui viene condotta, i fini che si pone. Già nell’ Antica
Roma c’era l’idea che la guerra andava formalmente dichiarata, con l’unico obiettivo di conseguire
pace e sicurezza. Infatti, anche nella contesa armata è la ragione e non la forza a distinguere
l'uomo dalle bestie. È ancora diritto alla guerra (ius ad bellum), ma anche diritto nella guerra (ius in
bello). UGO GROZIO non nega a priori la dottrina della guerra giusta sia perchè ci sono leggi
eterne
la cui efficacia non può essere sospesa durante i conflitti armatiu, sia perchè esistono situazioni che
gijstificano la guerra, come la necessità di autodifesa e cause che invecd non la giustificano affatto.
Tuttavia pronunciarsi sulla giustizia della guerra tra due popoli sarebbe pericoloso per tutti gli altri,
che si troverebbero coinvolti in una guerra altrui. La conseguenza è notevole: la guerra deve essere
condotta sdcondo una procedura che contempli i torti e le ragioni di ciascuno Stato. Quindi non
interessa più la causa della guerra ma la sua conduzione; così guerra l'attenzione si sposta dalla
legittimità alla legalità del conflitto.dal punto di vista istituzionale, quindi, gihsta è la guerra
condotta secondo le regole del diritto internazionale. giusta è quella condotta secondo le regole
del diritto internazionale. Si cominciano a creare delle limitazioni alla violenza bellica e difesa delle
vittime di guerra.
3. Guerra totale e guerra nucleare
Nel corso del 900 esplodono i due conflitti mondiali: il diritto internazionale cerca di correre ai
ripari con la messa al bando,nel protocollo di Ginevra del 1925, di gas asfissianti e tossici e di altri
strumenti di guerra batteriologica. Ciò non impedisce a queste due guerre di divenire totali: dei 50
milioni di morti del secondo conflitto mondiale, 30 milioni sono civili. Nello stato Costituzionale,
sorto dalle ceneri di questa rovinosa esperienza, tutti i cittadini hanno eguali diritti di
partecipazione alla vita del paese e in primis a decisioni come la guerra, che mettono in gioco
l’esistenza stessa della comunità. La guerra moderna, prima di Hiroshima, è ancora strumento di
lotta politica, ma l’ era nucleare ha complicato la risoluzione dei conflitti fra le nazioni. Le armi
nucleari vengono fabbricate per non essere usate, ma per paralizzarsi tra di loro. E la minaccia di
un conflitto nucleare rimane così sempre incombente. Siamo cosi arrivati allo ius contra bellum.
4. E se la guerra fosse destino?
L ‘individuo contemporaneo ha mantenuto nei confronti della violenza un sentimento ambiguo: se
ne riconoscono gli orrori, ma il mito della “ bella guerra” continua a suggestionare in tanti. È un
fascino oscuro. C’ è oggi l’ uomo occidentale che ripugna la guerra, istruito da secoli di inutili
carneficine. Poi ci sono i paesi del secondo e del terzo mondo che hanno ripreso a combattere
guerre etniche e tribali, sul modello delle guerre occidentali. La guerra fa parte dell’ esperienza
umana che ha tentato di addomesticarla incoraggiando un uso razionale della forza militare.
Capitolo secondo
1. Conflitti interni e internazionali
Solitamente la scienza giuridica distingue tra la dimensione interna e quella internazionalistica dei
conflitti armati:
conflitti armati internazionali sorgono tra Stati sovrani e indipendenti con conseguente
legittimazione all’ uso della violenza di fronte all’ altrui minaccia;
conflitti armati interni si originano dentro i confini di una medesima comunità politica e sono
regolate dal principio del monopolio della forza intorno all’ autorità sovrana.
I due tipi di conflitti hanno innanzitutto una stessa radice, cioè il conflitto interpersonale. Ma è dall’
ambito dei conflitti politici risolti con la forza armata che scaturiscono sia le guerre classiche sia
quelle civili. tuttavia va riconosciuta una differenza funzionale tra i due fenomeni
- I conflitti interni possono essere riassunti come tentativi di conquista del potere politico
attraverso le forme più varie;
- Le guerre classiche sono atti di violenza di gruppi politicamente organizzati che
esercitano la guerra sul territorio, le persone e i beni degli Stati nemici.
-
2. Guerra, forme di Stato, stato di guerra
Nei fatti, gli ordinamenti costituzionali si preoccupano anzitutto dei presupposti politici ch
giustificano le ostilità, e poi della disciplina dello stato di guerra. Da un punto di vista
internazionale, la guerra è quell’ atto che produce fra le parti interessate la sospensione di tutte le
norme tese a regolare le relazioni interstatuali. Ma dal punto di vista interno, è solo con la
deliberazione dello stato di guerra che la guerra fatto diventa guerra-diritto. La conclusione
paradossale è che oggi, affianco a qualche caso di guerre dichiarate cui non sono mai conseguiti
atti bellici, abbondano scontri armati privi di alcuna dichiarazione di ostilità.
3. Guerra e stato sovrano. La guerra fa lo Stato
È la guerra che fa lo Stato. Il medioevo aveva sancito la vittoria dei meccanismi di imposizione di
forza individuale. L’ Età moderna recupera invece il concetto di forza legittima, attribuendone il
monopolio allo Stato. I trattati di Westfalia sancirono formalmente la fine del Sacro Romano
impero, legittimando una pluralità di stati monarchici europei( come Francia e Inghilterra).
Tradizionalmente il punto d’ arrivo è il 1648, anno di conclusione della guerra dei Trent’ anni, uno
degli eventi più rovinosi sino ad allora combattuti sul continente. Ma è da considerarsi anche
evento politico, in quanto produsse il primo grande scontro europeo dopo la divisione religiosa
avvenuta con la Riforma di Lutero. Nasce infatti la necessità di individuare una fonte di
legittimazione alternativa all’ autorità imperiale. L’ avvento dell’ assolutismo, come primaria forma
di Stato che caratterizza il XVI e XVII secolo, legherà la supremazia della politica alla
centralizzazione del potere economico e in alcuni casi alla concentrazione del potere religioso
(Enrico VIII in Inghilterra).
4. …e lo stato va alla guerra
Se è la guerra che ha fatto lo Stato, è poi lo Stato che fa concretamente la guerra. Lo stato moderno
rivendica il pieno esercizio dello ius belli come massima espressione della sovranità: dal diritto di
provocare le ostilità con gli altri stati, senza più i vincolo derivati dalla causa giusta del conflitto
(ius
ad bellum), alla conduzione della lotta armata nelle modalità ritenute più opportune(ius in bello),
sino alla scelta della conclusione della guerra. Jean Bodin, primo pensatore della teoria moderna
della sovranità, ha individuato il binomio pace interna/ guerra esterna: il modo migliore per evitare
la disintegrazione di uno Stato, è individuare un nemico esterno e comune su cui indirizzare la
conflittualità interna. Questa teoria non è più accettabile oggi, quando la tecnologia militare
raggiunge livelli di devastazione insopportabili. La guerra perciò cambia con la società: la guerra
nel
‘700 (guerre en forme) non è più affare dinastico, ma diviene lotta per la libertà e per la
democrazia, essendo strumento tecnico della Nazione. Anche l’ esercito cambia volto; nasce l’
esercito del popolo nel 1793 la Repubblica francese impone a tutti i cittadini di sesso maschile di
mettersi a disposizione dello stato. Su questo esempio, quasi tutti gli Stati occidentali imporranno
la coscrizione obbligatoria, disegnando eserciti di massa che prepareranno alle guerre totali del XX
secolo.
5. Crisi della sovranità e guerra per i diritti umani
Nel corso del XX sec esplode prima la Grande Guerra e poi il totalitarismo, dove le ragioni dello
scontro sono l’ ideologia politica, l’ identità etnica, il nazionalismo. Tuttavia, in Europa, con la
seconda guerra mondiale si ha inevitabilmente il declino del potere sovrano. E tale crisi conosce il
suo apice con la conclusione della guerra Fredda, quando fiorisce una nuova sensibilità nei
confronti delle violazioni dei diritti umani ed emerge una diversa configurazione della nozione di
interesse nazionale correlata ai valori della democrazia e del pluralismo.

Capitolo terzo
1. Costituzionalismo liberale, potere militare e responsabilità della guerra
Il costituzionalismo liberale è cosciente della pericolosità di attribuire un ruolo politicamente attivo
al potere militare che ha storicamente rappresentato il maggiore sostegno al sovrano nelle
monarchie assolute. È quindi il potere politico che sceglie i principi regolatori dell’ organizzazione
militare, così come si pronunciò la Costituzione francese del 1791, per attribuire al Governo il
potere di disporre in toto delle forze armate. Il Capo dello Stato, nella Repubblica, è solo chiamato
a dichiarare guerra, spettando al corpo legislativo l’ esclusivo potere di decisione in merito. Al
contrario, anche dopo l’ avvento delle monarchie costituzionali del XIX secolo, le case regnanti
cercarono di mantenere il controllo di settori cruciali come appunto la difesa militare. Il re
assumeva un ruolo risolutivo per la decisione della guerra: si pensi all’ art.5 dello Statuto Albertino,
che affidava al re il comando delle forze armate, la dichiarazione di guerra, la stipula dei trattati di
pace. Per ciò che concerne poi la decisione dell’ ingresso in guerra, basti pensare alla scelta dell’
intervento dell’ Italia nella prima guerra mondiale, assunta dal presidente del Consiglio Salandra,
dal ministro degli esteri Sonnino, e dal re Vittorio Emanuele III, in contrapposizione alla
maggioranza dell’ opinione pubblica e delle forze parlamentari contrarie alla guerra. la conduzione
della politica estera e della difesa vennero considerati un’ area di riserva dinastica.
2. Le garanzie dei conflitti armati nella democrazia costituzionale
In un ordinamento giuridico improntato al principio di democraticità, come quello derivato dalla
Costituzione italiana del 1948, sono gli organi politicamente rappresentativi del popolo sovrano a
dover assumere le decisioni più importanti in materia di difesa, conflitti armati e sicurezza
nazionale. Innanzitutto è il Governo a prendere tutte le decisioni che concernono i conflitti armati;
il Parlamento approva l’ indirizzo politico del Governo e verifica gli sviluppi della politica di
difesa; il
Capo dello Stato vigila sull’ osservanza della Costituzione. Il parlamento ha un ruolo centrale:
garantisce il rispetto del principio pacifista e impedisce che decisioni che possono mettere in
discussione l’ integrità dell’ ordinamento vengano assunte unilateralmente dal potere esecutivo o
dagli stessi e vertici militari. Residuo delle monarchie pure e costituzionali, il comando delle forze
armate conferito dall’ art.87 comma 9 della costituzione al Pres. Della Repubblica va inteso come
funzione di controllo e garanzia della democraticità degli apparati militari. Quindi la concreta
direzione della guerra nel nostro Paese è data agli organi di indirizzo politico. Il capo dello Stato
dichiara infine la guerra (art.87), in seguito alla deliberazione dello stato di guerra approvato dalle
due Camere.
3. Il ripudio costituzionale della guerra offensiva
Nelle democrazie costituzionali sorte nel secondo dopoguerra, la pace assume il significato di un
fine costituzionale primario; infatti l’uso della forza per la risoluzione delle controversie
internazionali è affidato alle nazioni unite e al suo consiglio di sicurezza nei soli casi tassativamente
previsti. In Italia, infatti, l’art. 11 della Costituzione dispone che l’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come risoluzione delle controversie
internazionali. Per spiegare tale disposizione, bisogna dire che il ripudio della guerra da parte della
costituzione italiana non è un dato a priori, perché uno Stato sovrano non può rinunciare
all’eventualità di tutelare, attraverso un conflitto armato, la propria integrità e indipendenza. Infatti
molti articoli testimoniano ciò: la difesa della patria come sacro dovere del cittadino art 52; la
deliberazione dello stato di guerra è affidato alle camere art 78; la dichiarazione dello stato di
guerra spetta al presidente della Repubblica… infine la nostra costituzione non ripudia la guerra in
sé ma come strumento di offesa alle libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali. Ne deriva che la nostra Costituzione è pacifista. Tuttavia l’ art.11 segna
un confine tra due fasi storiche italiane, il totalitarismo e la democrazia. Il totalitarismo aveva
innalzato la guerra a principale fattore di sviluppo individuale e collettivo. E in questo solco si pose
il partito fascista, che fu il capolista di tutte le trasformazioni ideologiche in senso autoritario che
caratterizzarono la prima metà del XX sec. È proprio alla fine di un rovinoso conflitto e di una
guerra perduta, che il costituente ha voluto marcare in maniera secca il distacco con quella
tradizione politica di egemonia. Infatti gli esponenti dei tre grandi orientamenti politici ( cattolico,
social-comunista e liberale) furono d’accordo a dar vita ad una Carta Costituzionale dove fossero
ricostruiti ex novo i fini politici fondamentali del Paese. Infatti si parla di compromesso costituente.
Dal bellicismo fascista ecco il passaggio all’antibellicismo della democrazia italiana. Sempre
nell’articolo 11, vediamo che nello stesso tempo in cui l’Italia ripudia la guerra, “ consente in
condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni” e pertanto favorisce e promuove le organizzazioni
rivolte a tale scopo. La costituzione giapponese va anche oltre dichiarando la rinuncia per sempre
alla guerra come diritto sovrano della nazione. La costituzione italiana invece non rinuncia in
maniera radicale alla possibilità di instaurazione di un conflitto armato, ma la ripudia come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli. Il termine “ripudia” fu scelto perché secondo
Meuccio Ruini, “la cost. si rivolge al popolo e deve essere capita”. Il termine “rinuncia” fu scartato
perché presuppone la rinuncia ad un diritto, mentre il termine “condanna” non fu scelto perché
pareva esprimere un valore morale più che politico-giuridico. In definitiva va detto che l’idea
dell’assemblea costituente fosse quella di approvare una formula normativa a forte contenuto
ideologico-politico, ma non certo priva di rilievo giuridico. L’art. 11 per la sua importanza è stato
inserito nella parte dei principi fondamentali della costituzione proprio perché è un principio
inderogabile rispetto a qualunque altra fonte del diritto. Quindi non si tratta di una norma di ordine
morale, ma di una norma che configura un criterio e un limite a qualunque uso futuro della forza
nelle relazioni internazionali.
4. I confini del divieto della guerra di aggressione
Ora resta da verificare la legittimità della guerra di autodifesa. A ben vedere, la nostra Costituzione
non prescrive affatto il disarmo totale; sicché al ripudio della guerra si collega strettamente il sacro
dovere di difendere la patria (art.52) sia come espressione dei doveri di solidarietà politica di cui
all’art. 2 costituzione; sia come specificazione del più generico dovere di fedeltà alla repubblica e di
obbedienza alla costituzione e alle leggi (art 54). Inoltre, l’adempimento del dovere di difesa della
Patria si manifesta anche attraverso la prestazione di adeguati comportamenti di impegno sociale
non armato. Nell’ ordinamento internazionale, la Carta Onu prevede che nessuna disposizione
dello Statuto pregiudichi il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia
luogo un attacco armato contro un membro nelle Nazioni Unite almeno finché il Consiglio di
sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.
Ma l’affermazione che le norme costituzionali impediscono guerre offensive, ammettendo invece
quelle difensive e legittimando il diritto di autotutela e la legittima difesa nell’ambito di un pericolo
attuale di un’offesa ingiusta, non spiegano nulla sulla vasta gamma di profili che può assumere la
partecipazione a un conflitto armato. Infatti oggi più che mai vengono condotti conflitti armati mai
qualificati come tali dalle parti in conflitto ma che nella realtà sono delle vere e proprie guerre.
Quindi ci si chiede se le nozioni degli art. 11 e 52 della Costituzione, valgono a coprire i soli
conflitti
armati interstatuali intesi in senso classico e cioè quel tipo di guerra condotta contro il territorio, le
persone e i beni dei Paesi nemici secondo le norme del diritto internazionale; oppure se l’area del
divieto possa estendersi anche ai nuovi conflitti armati. Sul punto la scienza giuridica ha affermato
che la regolazione in via costituzionale della tradizionale guerra di aggressione non può condurre
all’ esclusione dal divieto di tutti quei conflitti che, pur privi del nomen iuris tradizionale,
rappresentano la maggior parte degli scontri armati del panorama mondiale odierno e che per
mere motivazioni politiche non sono qualificati come guerre. È molto più tranquillizzante
dissimulare operazioni belliche come misure di peace making magari rivolte a fini umanitari. Ma
tutto ciò è più comodo anche per motivazioni giuridiche poiché una guerra combattuta ma non
dichiarata come tale:
- svincola da qualunque procedimentalizzazione interna e internazionale nella scelta
dell’ uso della forza;
- Libera dall’ accusa di aver violato i trattati che limitano il ricorso alla violenza bellica
-Evita la dichiarazione di neutralità degli Stati terzi;
-Dispensa dall’ obbligo di rispettare le norme internazionali sui prigionieri di guerra.
Sarebbe pericoloso e paradossale che bastasse il mutamento della veste formale data
all’istaurazione e alla conduzione della guerra, per privare la comunità interna e internazionale di
tutte le garanzie previste a tutela della violenza bellica. Infatti l’art. 11 non vieta soltanto le guerre
di aggressione in senso tecnico, ma qualunque forma di esercizio della violenza, che non sia
ovviamente adoperata a scopi difensivi. Quindi essendo vietata la guerra offensiva, resta il
problema di rilevare quando e perché una guerra si potrà parlare di guerra autenticamente
difensiva; e, prima ancora, se qualunque azione militare compiuta dalle forze armate italiane sia da
ricomprendere nel divieto presente in Costituzione. In passato l’attenzione era puntata sul
concetto di “rappresaglia”, intesa come azione militare in risposta a un illecito di un altro Paese e
assunta senza una previa deliberazione parlamentare della guerra. Tale questione è da ritenersi
superata con l’affermazione di una norma internazionale consuetudinaria che vieta l’utilizzo e la
minaccia della forza nelle relazioni internazionali, riconoscendo la sola autotutela individuale e
collettiva in caso di attacco armato altrui.
5. Il problema della guerra preventiva e la morale di Esopo
A ciò si aggiunge il problema della cosiddetta difesa preventiva e cioè quel controverso tipo di
intervento militare che è scatenato non da un’aggressione militare in atto, ma dalla mera minaccia
esterna di un intervento armato. Chi nella scienza giuridica ammette la difesa preventiva, lo fa
essenzialmente sul presupposto che la moderna strategia militare, fondata sul nucleare, rende
decisiva la tempestività dell’attacco, ai fini del mantenimento dell’indipendenza politica della
comunità ( teoria del primo attacco).o più genericamente con l’argomentazione che per violare le
libertà dei popoli, le modalità delle operazioni belliche, non possono essere prefigurate a priori
mediante una precisa teorizzazione della nozione di aggressione. L’ intervento della coalizione
anglo-americana in Iraq nel 2003 è un esempio di diritto di autodifesa a mezzo di azione preventiva
derivata dal pericolo che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa. Nella sostanza
si è assistito a un intervento deciso nell’ impossibilità di trovare una maggioranza all’ interno del
Consiglio di sicurezza dell’Onu, sicchè si è deciso di operare unilateralmente attraverso un
intervento di difesa preventiva, contro un Paese semplicemente sospettato di detenere armi di
distruzione di massa. Detto questo, l’intervento di difesa preventiva sarebbe stato legittimo se armi
chimiche, batteriologiche o nucleari fossero state successivamente scoperte, cosa che non è mai
avvenuta: la presenza di armi di distruzione di massa nell’Iraq è stata smentita nel 2005 persino da
Cia e Pentagono. La sensazione complessiva è stata quella di una guerra vecchio stampo,
legittimata più che dalle regole del diritto internazionale, da interessi interni ali USA, aventi natura
politica, economica e di sicurezza. Insomma, ci possono essere situazioni limite, quale quella di un
attacco certo e imminente all’integrità territoriale, alla propria indipendenza e ai valori
costituzionali; ma al di fuori di queste situazioni estreme, è difficile trovare legittimazione per la
guerra preventiva. La stessa morale del lupo di Esopo che prima accusa l’agnello di avergli
intorbidato l’acqua del fiume; poi dinanzi all’ impossibilità della cosa ( l’agnello era situato più in
basso), l’accusa di aver insultato suo padre quando non era ancora nato; e infine a corto di
argomenti se lo mangia.
Capitolo quarto
1. La guerra rimossa. Gli interventi umanitari e di polizia internazionale nella crisi
post 1989
Nei primi sessanta anni di storia repubblicana italiana si contano circa un centinaio di missioni
internazionali con la partecipazione delle forze armate; si è trattato sino alla fine degli anni ’80, d
una partecipazione a operazioni in cui si è intervenuto con il consenso dello Stato interessato e
nell’ambito di iniziative multinazionali Onu e Nato. Soprattutto si è avuto a che fare con operazioni
caratterizzate dalla stretta neutralità della forza d’intervento. Le cose cambiano nell’ultimo
decennio del secolo scorso, in prossimità della caduta del muro di Berlino, determinando un salto
di qualità nelle regole di ingaggio ( cioè come, quando e dove le forze armate in campo devono
essere utilizzate, nei mezzi utilizzati. Non vengono meno le operazioni di pace ma, le operazioni di
polizia internazionale, guerra “umanitaria” e peace forcing degli ultimi quindici anni sembrano
celare la natura di guerra vera e propria. Ne sono un esempio l’intervento in Kuwait del 1991 come
operazione di polizia internazionale, quello in Kosovo del 1999 come intervento umanitario a
difesa integrata del territorio nazionale, la partecipazione all’ operazione Enduring Freedom del
2001 come lotta al terrorismo internazionale, la missione in Iraq del 2003, come intervento per il
ripristino della stabilità irachena. Va detto che la circostanza che non si parli di guerra, ma di
“operazioni di polizia internazionale”, di interventi umanitari, peace enforcig …. Spesso avviene
con
argomentazioni al limite dell’esilarante, del tipo che tali missioni non hanno come obiettivo la
distruzione dell’avversario, ma il cessate il fuoco, il ristabilimento della pace, come se la finalità del
ripristino della tregua non possa esattamente comportare l’annientamento di chi vi si oppone. Ma
in realtà tutte le guerre, anche quelle più antiche avevano come fine il raggiungimento della pace.
In conclusione, le norme costituzionali sono essenzialmente disattese non solo dal punto di vista
dei principi, ma anche per quanto riguarda i passaggi procedurali richiesti. Quindi, la guerra oggi si
fa, ma sottovoce: la nozione dura e pura di “guerra” è censurata innanzitutto per evitare il surplus
di ricchezza evocativa in negativo che il termine mostrerebbe in Occidente, poi per eludere tutte le
norme del diritto internazionale che ne hanno circoscritto l’utilizzo. Naturalmente, una guerra
rimossa non deve essere né deliberata, né dichiarata, evitando così l’obbligo di una preventiva
dichiarazione.
2. La guerra globale
Mutata la guerra, sono mutati anche i soldati: oggi la patria è difesa da professionisti, donne e
anche dal servizio civile. L’obbligatorietà del servizio di leva è stato sospeso, salvo una
deliberazione di stato di guerra ai sensi dell’art. 78 della Costituzione o nel caso di una grave crisi
internazionale in cui l’Italia sia coinvolta. Nell’ordinamento italiano, le forze armate non difendono
soltanto l’integrità territoriale o l’indipendenza dello Stato, ma concorrono anche alla salvaguardia
delle libere istituzioni e svolgono compiti di ausilio in casi di urgenza. La salvaguardia delle libere
istituzioni da parte delle forze armate giustifica il concorso con le forze dell’ordine in operazioni
contro il terrorismo e organizzazioni criminali di stampo mafioso o gli interventi a tutela dei diritti
inviolabili della persona umana in caso di gravi emergenze interne o internazionali. La
trasformazione del ruolo tradizionale delle forze armate ha riscontri anche a livello europeo:
l’unione e gli stati membri, devono congiuntamente prestare assistenza in caso di calamità o
attacco, prevenire la minaccia e proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile. La
Nato si è trasformata da alleanza difensiva in un organismo di cooperazione internazionale, con
funzioni di sicurezza ben più estese dei limiti di statuto, assumendo come oggetto di tutela anche il
rispetto dei diritti umani. Inoltre ha ruoli assai incisivi anche sulla garanzia della sicurezza interna o
esterna dei Paesi membri. Il Parlamento italiano è stato coinvolto solo incidentalmente su decisioni
fondamentali della politica estera. Nel 1984 ha accettato l’installazione di basi americane in
territorio nazionale che furono usate durante il conflitto iracheno per supporto alle azioni di guerra
americane e addirittura per operazioni di extraordinary renditions (arresto di individui con
procedure extragiudiziali). Dunque un’alleanza a fini di autodifesa si è trasformata in organismo di
difesa collettiva.
3. Il diritto alla sicurezza dietro la Cortina di ferro
Il tema della sicurezza ha ad oggetto tre diverse variabili fra loro interdipendenti: il cittadino, lo
Stato e il sistema internazionale. Quindi la sicurezza è un concetto di tipo relazionale, che
potremmo definire come assenza di minacce provenienti dall’esterno e che possono ledere gli
interessi degli individui ma anche gli interessi primari dello Stato. In un quadro di sicurezza a più
entità statuali integrate fra loro è il sistema internazionale che dovrà tutelare gli interessi
minacciati di ciascuna di esse.La sicurezza negli Stati e degli Stati è il prodotto della sicurezza fra
gli
Stati: è in questo solco che si pone la costituzione democratica italiana, con il ripudio della guerra
d’aggressione sancito all’art. 11. In verità il costituente non ha espressamente previsto garanzie al
valore della sicurezza, ma esse sono state ricavate in via di interpretazione sistematica dalla corte
costituzionale. Essa ha parlato di un ordinato vivere civile che è meta di uno stato di diritto, libero e
democratico, ponendo così una tutela costituzionale alla sicurezza pubblica. Nel secondo
dopoguerra i Paesi europei hanno rinunciato alla sovranità statale e la difesa del territorio è stata
affidata a nuovi sistemi di comando integrati del Patto di Varsavia e della Nato.
4. …e la sicurezza dei diritti nelle nuove guerre del terrore
Dopo la caduta del muro di Berlino, la guerra ritorna nelle più circoscritte dimensioni territoriali del
conflitto sociale, ma sotto aspetti diversi. Dal punto di vista della politica internazionale, non si
tratta più di conflitto fra blocchi, ma di uno scontro tra grandi coalizioni e un solo stato ( come
quella in Iraq nel 1991, capeggiata da USA con il sostegno del Cremlino: l’inconcepibile guerra
fredda). Si tratta di un mondo malsicuro, ma è un’insicurezza diversa dal passato. La questione non
è più solo quella della sicurezza nazionale, ma quella individuale. La scena sociale comincia ad
essere occupata da una massa di individui che è impegnata in una dura lotta alla sopravvivenza.
Quindi lo scenario nazionale vede la casse politica impegnata nella formazione di nuovi modelli di
coesione politica. Questo quadro così difficile conosce un’accelerazione con le vicende dell’11
settembre 2001, con le quali si afferma uno stato d’eccezione permanente poiché il terrorismo ha
dissolto i confini tra fronti militari e frontiere politiche, soldati e civili. Si tratta di uno scontro privo
delle caratteristiche proprie di tutti i conflitti armati tradizionali. È una guerra che diviene sempre
più asimmetrica, combattuta tra potentissime macchine da guerra spinte da un’idea di civiltà
superiore e un numero limitato di individui per un’apocalittica visione della fede e supportati da
una robusta rete internazionale di appoggi pure provenienti da stati sovrani. La guerra ha sempre
comportato limitazioni dei diritti e quella al terrorismo è una vera e propria guerra. Ma poiché si
tratta di una guerra priva dei caratteri propri del conflitto tradizionale, il quadro delle garanzie
liberaldemocratiche rischia di avere lesioni qualitativamente e temporalmente indeterminate. Si
pensi all’ ampiezza dei poteri di investigazione attribuiti alla polizia dalla normativa antiterrorismo:
il patriot act dà la possibilità di intercettare e registrare le comunicazioni telefoniche anche senza
autorizzazione preventiva del giudice; consente alle forze dell’ordine di tenere in stato di fermo
cittadini stranieri senza la convalida del fermo da parte dell’autorità giudiziaria…. Sia il Patrot act
che la normativa antiterrorismo approvata negli altri Paesi occidentali pone problemi di
compatibilità con i diritti e le libertà civili di un ordinamento democratico. Quindi si ha un
allargamento della fattispecie di reato, dilatazione degli ambiti investigativi e restrizione dei diritti
individuali.
5. Contro un nuovo stato di natura
Con l’attentato alle twin towers, il diritto alla sicurezza ha ricominciato a prevalere sulla tutela dei
diritti. Questa guerra è diversa dalle altre: è una guerra globale che non conosce confini, né di
spazio né di tempo, e ciò significa emergenza continua e rischio di recessione permanente dei
diritti. È un nemico occulto che ha prodotto una sorveglianza globalizzata e pervasiva di tutti noi,
realizzando un immenso panopticon benthamiano, dove i pochi spiano i molti. Il fatto è che si
possono bloccare le frontiere, ma non si può negare a milioni di disperati di continuare a bussare
alla porta del ricco occidente.

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