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¡VENGA TU REINO!

«EXITUS-REDITUS-ASCENSUS.
IL TRIPLICE MOTO DELLA MENTE UMANA
(SECONDO S. TOMMASO)»
José A. Izquierdo, lc.

I. L’ANIMA “QUODAMMODO OMNIA”

1. La “imago Dei”

Tommaso, nel De Veritate, q.2, a.2, ci racconta questa bellissima storia, frutto
di una matura “resolutio”. Dice che Dio, non essendo geloso della pienezza
dell’essere in cui sussiste, volle parteciparla a molti [1]. Ma, non potendo donare la
totalità del suo essere metafisico sussistente, perché così riprodurrebbe se stesso,
trovò lo stratagemma dell’immaterialità spirituale aperta [2], che consente di
architettare la totalità dell’essere metafisico nell’interiorità dell’essere psicologico.
Ideò così l’artificio divino dell’essere intenzionale, che prima provò negli angeli e
vide che funzionava molto bene: “E per questa via è possibile che in una sola cosa
esista la perfezione di tutto l’universo” (De Verit., q.2 a.2). Tutto ciò, affinché gli enti
che più amava fossero per intenzionalità, quanto non potevano essere per essenza.

Così, l’Ipsum Esse, fece tante “immagini di se stesso”, capaci di riprodurre per
intenzionalità “la completezza dell’essere”. Dio aveva esaudito l’ideale di grandezza
e di felicità degli antichi filosofi: “descrivere nell’anima la totalità dell’universo e
delle sue Cause”[3]; quell’anima che già il platonico riusciva a rappresentare come il
“pleroma delle idee” o “plenitudo formarum” (“pa=j nou=j, plh/rwma w)/n
ei)dw=n”); e l’aristotelelico come “quodammodo omnia”[4] (“h( yuxh\ ta\ o)/nta pwj
e)/jti pa/nta”: De Anima, III,8 431b 21; “kai\ o( nou=j ei)=doj ei)=dwn kai\ h( ai)/sqhsij
ei)=doj ai)sqhtw=n”: De Anima, III,8 432a 2).

2. La situazione originaria di Dio e dell’anima

Ma, dopo questa bella storia, ritorniamo a terra nella nostra situazione
originaria. Quando Tommaso spiega il modo come Dio conosce, immagina l’Ipsum
Esse, ricurvo sull’interiorità della propria essenza, pelago supersostanziale di essere,
dove si trova la “perfezione di tutte le perfezioni”, inclusa quella dell’intendere.
Così, Dio, intuendo la propria essenza, vede la perfezione totale dell’essere e vede
pure le possibilità di parteciparlo. Quindi: senza uscire dalla propria essenza vede
anche il diverso da sé.
Invece l’intelletto dell’uomo, che è “l’ultima delle intelligenze”, si trova in un
inizio immerso nella più profonda potenzialità; così grande, che Il Filosofo e il
Commentatore l’hanno descritta con quelle forti espressioni: “tanquam tabula rasa”,
“sicut materia prima”. Esso nasce, come dice Isacco nel Libro delle Definizioni,
“nell’ombra dell’intelligenza”[5], come un puro potere d’intendere, a vuoto di idee e
con una forza intellettiva (quantitas virtutis) minima. Esso nasce, all’opposto di Dio:
nell’ignoranza di se stesso, perché la potenza si conosce dall’atto, ed egli si trova
ancora in potenza; e nell’ignoranza delle cose, perché non le porta impresse sulla
propria essenza.

Ma il realista Tommaso, non si scoraggia: “Natura nulli deficit in


necessariis”[6]. Perciò, se da una parte è vero che quest’intelletto originario, non trova
ancora in sé niente d’intelligibile; è anche vero che la sua anima intellettiva “unibilis”
gli sta scavando nella corporeità[7] la via connaturale per metterelo in atto: la via
sensus “quam magis experimur” (I, q.88, a.1). Sotto questo aspetto, i sensi diventano
come la lunga manus del nostro intelletto: “quaedam defficiens participatio
intellectus” (I, q.77, a.7)[8]: una specie di prolungamento naturale dell’intelletto
nell’esteriorità del mondo, con la funzione di rapportare l’intelletto verso la sua
“forma connaturale”: la quiddità delle cose fisiche.

Tommaso espone la dottrina su questo momento originario, con una accuratezza


che non lascia molti spazi al dubbio [9], nel Commento a Boezio De Trinitate, q.1, a.3,
e dice:
“La prima luce, che Dio infonde nella mente, è la luce naturale con cui si
costituisce la potenza intellettiva. Ora, in un inizio, la mente non conosce
questa luce (non est primo cognita):
1º. Né con quella conoscenza che raggiunge l’essenza (il «quid est»),
perché occorre molta indagine affinché l’intelletto conosca il suo
«quid est»;
2º. Né con quella conoscenza che raggiunge l’esistenza (l’«an est»),
perché noi sappiamo solo di avere intelletto quando percepiamo
d’intendere, come dice il Filosofo nel IX dell’Etica. Ma nessuno
sa d’intendere fin quando non intende un oggetto intelligibile.
Da ciò appare che la conoscenza di qualche intelligibile precede la
conoscenza con cui l’uomo conosce d’intendere e, conseguentemente, la
conoscenza con cui l’uomo conosce di avere intelletto” (In Boeth. De
Trin., q.1, a.3)[10].

3. La struttura dinamica della totalità intenzionale

Con un tale inizio, di debolezza e di potenzialità estrema, il cammino verso


l’attuazione totale di questo intelletto, che ancora possiede slancio per la totalità
dell’essere, ma che si vede obbligato a fare ciò poggiando sui sensi, si preannunzia
come una via lunga (longior via), tremendamente ardua e discorsiva. Infatti, quando
quest’intelletto entra all’atto, non lo fa con la gloria “comprensiva” dell’intelligenza
pura, ma con la modalita diminutiva di una “ratio” adeguabile che, nella stessa sua
intellezione precaria, mai comprensiva, genera la necessità di vedere meglio. Perciò
rimane sempre una “ragione zetetica”, ancora da fare; come un intelletto che
costitutivamene procede tra due intelletti: “Ratiocinari est procedere de uno intellecto
ad aliud”(I, q.79, a.8).

a. Dall’ “ens principium” al “ens resolutio”

Proprio perciò, riassumendo sinteticamente l’intero processo di questo intelletto


umano, Tommaso pone come inizio strutturante (principium, a)rxh/) di ogni atto
d’intelletto, una originaria presa di ciò che chiama “ente”. Ma pone anche
come ultima cattura dell’intelletto, una presa risolutiva di “ente”. Tra queste due
prese, una inventiva e altra resolutiva o giudiziale, Tommaso progetta idealmente la
dinamica di tutta la conoscenza umana:
“Illud autem quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quod
conceptiones omnes resolvit, est ens” (De Verit., q.1, a.1)[11].

In questo modo l’intelletto non esce mai dalla conoscenza dell’ente, perché
fuori dell’ente non c’è niente da conoscere, e all’ente non si può aggiungere niente
come una natura estranea che esso non contenga previamente. Perciò ogni suo verbo
interno sarà sempre una dizione di “ente”, un nome di “ente”, trascendentalmente o
categorialmente declinato: “Quot modis praedicatio fit, tot modis ens dicitur” (In V
Met., lc.9).

Ma il modo proprio come questo intelletto, colmo di potenzialità intellettiva e


immerso nella corporeità sensitiva, fa la sua pressa di “ens”, è molto specifico:
1º Da una parte egli entra a conoscere ens con un potere intellettivo
debolissimo, che lo pone sì vedente in atto, ma con una visione
intellettiva così oscura, tanto generica e confusa, che nell’intimo di
quello stesso atto sente il bisogno di conoscerlo meglio e così da
intelletto si trasforma in “ratio”. Perché come inizio, “ente” diventa
troppa idea per un così debole intelletto, appena svegliato dal sonno che
lo costituisce. Perciò, riguardo a “ente” rimane sempre confuso e come
accecato per eccesso di luce[12].
2º D’altro canto, poggiando sui sensi, l’ente con cui egli comincia a conoscere
è l’ente trovato nelle cose materiali. Ora, questo ente si trova pieno di
potenzialità, perché oltre la potenza dell’essenza per l’essere, mantiene
anche la forma calata nella potenza della materia, e avrà bisogno di un
opera astrattiva che metta questa essenza in stato intelligibile [13]. Proprio
per questo ente di quiddità materiale (ma per il cuale si sente con un
potere proporzionato), l’intelletto storico, unito al corpo, inizia la sua
avventura e dispiega l’intenzionalità aperta sulla totalità dell’essere.
Potremmo dire che questo atto iniziale provoca la “ad-mirazione” che implica
la dinamica di una dialettica: un “guardare in atto”, ma così incipiente che “rimanere
sbigottito e insaziato”, con la brama di “voler vedere di più, di vedere meglio, di
vedere fino in fondo”[14]. Si può anche dire che questo incontro originario con l’ente
ha provocato la “ad-aequatio”[15], che condivide la stessa dinamica: la verità iniziale
si è trovatta fatta ed insieme “diminutiva” (“Diminutae sunt veritates a filiis
hominum”: cf. De Verit., q.1, a.4; I, q.16, a.6); la visione dell’ente come
“intelligibile” (“naturato per adeguarsi all’intelletto”: De Verit., q.1, a.1 ad 5) provoca
insieme la visione dell’inteleltto come “capacità di vedere” (“naturato per convenire
con ogni ente”: De Verit., q.1. a.1) e la brama di vederli con “ad-eguazione”
compiuta, portata fino al Principio (Esse) dell’ente.

Tommaso descrive molto bene questa situazione zetetica con quella metafora
d’Ilario del camminare nell’infinito, dove, una volta entrati, non si cessa mai di
andare avanti; o con quella d’Agostino dell’edificare fino a Dio:
“Inizia, progredisci, insisti: sebbene io sappia che non arriverai alla fine,
mi rallegrerò del tuo progresso. Chi infatti si muove con fervore verso
l’infinito, anche se non arriva mai, tuttavia caminando va sempre avanti”
(Gent., I, 8).
“Vuoi essere grande? Incomincia per il minimo. Pensi di edificare una
gran torre? Pensa prima nell’umiltà del fondamento. Quanto più si pensa di
elevare l’edificio, tanto più si pensi di scavare il fondamento. Ma fin dove
arriverà il tetto del nostro edificio? Fino alla visione di Dio” (Cat. Aur. In
Math., 11, lc.10).

b. Ab exterioribus, ad interiora, ad superiora:

Quando Tommaso nella Somma Theologiae scende a studiare più in concreto e


sistematicamente l’attuazione dell’intelletto dell’uomo “viator”, considerando come
conosce l’anima “corpori coniuncta”, propone di seguire questa andatura, che per lui
rappresenta la strada connaturale della mente umana: “Ab exterioribus (exitus)”, “ad
interiora (reditus)”, “ad superiora (ascensus)”. E dice:
“Prima consideriamo come l’anima intenda le cose corporali che sono
sotto di essa (qq.84-86). Secondo, come l’anima intenda se stessa e ciò che in
essa si trova (q.87). Terzo, come intenda le sostanze immateriali (q.88)” (I,
q.84, prol.).

c. “Proportionaliter – Improportionaliter”

Ciascuno di questi tre ambiti conoscitivi (le cose, l’anima e Dio) possiede anche
un suo modo proprio di essere conosciuto, dipendendo dal modo come si rapporta al
conoscente umano. Ciò comporta anche dover distinguere e determinare per
ciascuno la cosa conosciuta e il modo di conoscerla. Per acquisire la proportio o il
“modo dell’intelletto” umano, la cosa fisica deve “elevarsi”; il che significa uno
spogliarsi della potenza della materia, fino a rendersi “intelligibile in atto” [16]. Invece
le cose spirituali, devono “degradarsi” per prendere in essa un modo “iconico”[17]:
“Il nostro intelletto riceve le forme delle cose superiori all’anima in un
modo inferiore a come sono in se stesse. Perché una cosa si riceve
nell’intelletto secondo il modo dell’intelletto, come si dice nel libro De Causis.
Per la stessa ragione, le forme delle cose inferiori all’anima, come sono le cose
materiali, prendono nell’anima un modo più nobile che in se stesse” (De
Verit., q.22, a.11)[18].

1º Le cose fisiche: le loro quiddità costituiscono “il connaturale”, o l’oggetto


proporzionato proprio e primario dell’intelletto umano. L’intelletto riesce a
vederle nelle proprie essenze. Ma ciò non avviene direttamente, ma con l’aiuto
o mediazione dei sensi, che si fermano nel loro manifestarsi, mediante gli
accidenti (quantitas, qualitas, actio), emananti della loro sostanza. Per questo
mezzo l’intelletto penetra fino alle loro essenze, viste come il principio
costante di questa fenomenologia accidentalmente manifesta ai sensi, e conosce
di esse insieme il loro “an est” e il loro “quid est”. E siccome ciò avviene con
un processo di “astrazione”, che tralascia le note individuanti, le essenze delle
cose vengono conosciute da noi con una conoscenza intellettiva “eccedente”,
che Tommaso determina come “con una conoscenza immateriale, universale e
necessaria”(I, q.84 a.1)[19].

2º L’anima umana. Benché essa sia sempre presente a se stessa, e a modo suo
possieda la sua fixio sussistente, essa non vede direttamente la propria essenza
(non si conosce “per essentiam suam”), ma richiede la mediazione del suo
agire, che a sua volta richiede la mediazione originaria del suo oggetto: quella
cosa fisica connaturale, mediante la quale si informa e attualizza la potenza del
suo intelletto. Perciò, essa si conosce, nella concretezza esistenziale del suo “an
est”, con la mediazione di tutti i suoi atti e, nell’essenza astratta del suo “quid
est”, con la mediazione della specie intelligibile astratta dalle cose fisiche, che
la rende intelligibile in atto e conoscibile come quel luogo capace di verità
inviolabile, dove si partecipa la Verità divina. Ma ciò richiede già una
“diligente e sottile indagine psicologica” (I, q.87, a.1), “studiosam
inquisitionem” (I, q.87, a.2)[20].

3º Invece le sostanza immateriali sono conosciute da noi in un modo analogo,


improprio e degradato “divisibiliter, multipliciter et mobiliter” (De
Causis, lc.14, n.299). Esse non sono direttamente raggiunte nelle loro essenze
ma solo indirettamente negli effetti del loro agire. “Delle forme immateriali
conosciamo che esistono e (piuttosto che conoscere la loro essenza) abbiamo
una loro conoscenza per negazione, per causalità e per eccesso” (In Boeth. De
Trin., q.6, a.3 sol 5)[21]; “in omnium ablatione et excessu et in omnium causa”
(In VII De Div. Nom., lc.4, n.729). Perciò noi conosceremo Dio nella periferia
del suo “an sit”, senza illuderci di entrare a vederlo nel suo “quid est”. Più
“sapendo ignorare” che credendo di sapere; avvolti in quella "tenebra
ignorantiae" (In I Sent., d.8 q.1 a.1 ad 4), pronta all'atto religioso: "Adoro te
devote latens Deitas" (Piae Praeces, 11). A conoscere le sostanze spirituali
serve soprattutto quella conoscenza (mediata dalla specie intelligibile) della
nostra stessa anima, che ci ha dato un assaggio umano preliminare del mondo
dello spirito. Perciò: “Anche i filosofi dicono che la scienza dell’anima
costituisce un certo principio per conoscere le sostanze separate. Perché dal
fatto che l’anima nostra conosce se stessa, raggiunge una certa conoscenza
delle sostanze incorporee, come ad essa capita di avere, ma non perché
conoscendo se stessa, conosca quelle sostanze semplicemente e perfettamente”
(I, q.88, a.1 ad 1).

Se volessimo rappresentarci questo modo di conoscere con l’aiuto


immaginativo di un grafico, potremmo pensare l’intelletto umano come un
termometro aperto ad ogni possibile misurazione, ma predestinato a calcolare quella
temperatura propria della proportio umana, attorno ai 36’5 gradi Celsius. Quando
questa proportio sale o scende, incominica la febbre. Perciò sarà molto umano errare
tra le cose:
II. LA TRIDIMENSIONE “EXITUS, REDITUS, ASCENSUS”.

Come tutti sanno, dopo le divulgazioni del P. DOMINIQUE CHENU, Tommaso


impiega speso lo schema neoplatonico dell’exitus e del reditus[22]:
“Nell’exitus delle creature dal primo principio, si osserva una
certa circolarità e ritorno: perché tutte le cose ritornano come a fine, verso ciò
da dove sono uscite come da principio” (In I Sent., d.14, q.2 a.2; cfr. De
Verit., q.20 a.4).

Questo schema si trova inscrito nella struttura ontologica e dinamica di ogni


ente partecipato. Ma ogni ente fa l’exitus e il reditus accompagnandoli anche di
un ascensus. Ogni ente, esce da Dio, si struttura nel suo essere, e si volta verso Dio.
E ciò perché in nessun ente partecipato nasce l’essere dall’interiorità (dai principi)
della propria essenza, altrimenti sarebbe per essenza. Quindi, tale ente, una volta
costituito, ha ancora bisogno di ricevere l’essere dal suo Principio. Perciò,
aggrappandosi al suo essere, ogni ente sperimenta un desiderio del Principio, il
desiderio implicto di Dio: “Perciò, tutte le cose si convertono a Dio per il desiderio”
(In I De Div. Nom., lc.3)[23]. Ogni ente si trova così “exiens, rediens et ascendens”,
strutturato su un essere metafisico essenzialmente “religioso”.

Noi adesso cercheremo di seguire questi tre movimenti nel dinamismo


conoscitivo della creatura razionale, moralmente chiamata a esplicitare il suo
profondo desiderio di essere e di Dio[24].

1º. Exitus “ad exteriora”

C’è prima di tutto una costante ed evidentissima esperienza di uscire da noi


stessi, per mettere in atto la conoscenza. Un andare fuori da noi verso le cose esterne,
percepito come esperienza originaria e come esperienza costitutiva della conoscenza
umana. Tanto originaria, che essa è la prima nella via della generazione e del tempo,
e tanto costitutiva che attorno ad essa si struttura l’oggetto proporzionato
proprio dell’intelletto umano, in tal modo che essa media ogni altra conoscenza
umana, che in confronto ad essa sarà sempre una conoscenza derivata.

Questa sensitività (esteriorizzante) invade in radice la struttura dell’intelletto.


Esso resta sempre fatto in atto al modo di una intelligenza senziente o con
l’espressione di Tommaso, esso resta sempre un “intelligere phantasticum” (De
Spir. Crat., a.3, ad 11)[25]. Ciò si consolida nella dottrina continua di Tommaso che:

1ª Da parte del soggetto conoscente, vede i sensi, descritti anche con l’immagine
della “porta” (“quasi per quaedam ostia”: In III Sent., d.35, q.2, a.2
sol.1)[26], all’origine della conoscenza intellettiva. Quei sensi che,
lavorando in sinergia con l’intelletto, si fermano nell’accidente e
permettono che l’intelletto penetri fino all’essenza, ottenendo così una
conoscenza della cosa sensitivo-intellettiva, insieme singolare e
universale. Tommaso li tratta come “preambula ad intellectum” (I, q.78,
prol); “vires quae sunt quasi praeparatoriae ad cognitionem
intellectivam” 1-2, q.56, a.5). E anche dirà: “nihil est in intellectu quod
non sit prius in sensu” (De Verit., q.2, a.3 ad 19)[27]…

2ª Da parte dell’oggetto conosciuto, vede “i fantasmi” come “l’oggetto attorno al


quale” l’uomo esercita in continuità la sua conoscenza [28]; e vede “la
quiddità delle cose materiali” come “l’oggetto proporzionato o
connaturale” alla capacità dell’intelletto razionale, e come
“l’oggetto proprio” cioè “il conoscibile originario primario”[29],
attraverso il quale l’intelletto umano entra nella conoscenza di tutti gli
altri, sia nella conoscenza di se stesso [30], sia nella conoscenza delle
sostanze spirituali e di Dio[31]. Sotto questo aspetto il realista Tommaso è
molto diverso da Cartesio, che aspira a mediare ogni altra conoscenza
con la conoscenza previa dell’io:
“L’oggetto proporzionato proprio del nostro intelletto è
la natura della cosa sensibile… E tutte le cose che noi intendiamo
durante il presente stato, le conosciamo per comparazione alle
cose sensibili naturali” (I, q.84, a.8). “E siccome questo modo di
conoscere la verità, conviene alla natura umana in quanto che è la
forma di un tale corpo, è ciò che è naturale rimane sempre, l’anima
umana unita a questo corpo solo può conoscere la verità delle
cose nella misura che può elevarsi a partire da ciò che intende
astraendo dai fantasmi. Ma per questa via in nessun modo può
elevarsi a conoscere le essenze delle sostanze immateriali, che
sono sproporzionate a queste sostanze sensibili” (In II Met., lc.1,
n.13).

2º. Reditus: “ad interiora”

La conoscenza intellettiva umana non si esaurisce solo in un “exitus”. Essa


comporta insieme e più radicalmente un “reditus” originario, fondato sull’essenza
dell’anima intellettiva “fixe stans”: un reditus costitutivo, che durante lo svoltimento
dell’atto mantiene l’intelletto presente sulla propria essenza, con capacità di vedere
non solo l’essere di ciò che in essa entra ma anche l’attività che in essa si svolge, e il
principio di tale attività. Per questa via avviene la scoperta dello spirito umano,
proprio in quanto intenzionalità aperta (conoscente e amante) all’essere universale, e
ciò propizia l’approfondimento della domanda metafisica, da risolvere nella via
dell’ascensus.

L’exitus per vedere la cosa fisica ha fatto che questo intelletto, inizialmente
potenziale si metta in atto, lo ha fatto “fare”, e così gli ha dato la possibilità
di divenire intelligibile in atto per se stesso: perché la potenza si conosce dall’atto.
Perciò entrando nell’atto, si attiva il fenomeno dell’autocoscienza. Perché l’intelletto,
in quanto facoltà spirituale-immateriale, costitutivamente ricurvo su se stesso, fatto in
atto diventa luminoso e gli si offre la possibilità di vedere se stesso nel vedere l’altra
cosa. Proprio nel giudizio, che è l’atto perfetto dell’intelleto, egli può intravedere
simultaneamente, sotto una stessa luce, che diversamene illumina i vari ambiti [32],
tutto ciò che sinteticamente accade nella zona dell’atto: la cosa, l’attodi relazione con
essa, il verbo interno che nell’atto dice di essa, e se stesso in quanto principio di tale
atto.
L’intelletto umano non vede se stesso in un modo puro: contemplando
direttamente e nudamente la propria essenza in un “cogito” asettico. La sua
potenzialità strutturale, a vuoto di idee, gli lo impedisce [33]. Esso avviene piuttosto,
come direbbe Gilson, in un “cognosco”[34]: nel mettersi in atto con la mediazione di
un oggetto, che inizialmente è la quiddità di una cosa materiale, e che può prendere
da fuori o da se stesso, una volta che, attivando la sua memoria intelletiva, è diventato
un magazzino di idee: “locus specierum”. Questa conoscenza di se stesso comporta
un modo essenzialmente riflessivo, dove l’intelletto si intravede in azione: mentre
l’atto lo sveglia esistenzialmente, ed egli si riflette essenzialmente (cioè riflette la sua
essenza) nel verbo che produce vedendo un'altra cosa. E tutto ciò, sotto l’attivazione
di quella sua luce costitutiva (nou=j tw=n a)rxw=n), che nell’agire giudiziale è
capace di illuminare insieme: l’oggetto, l’azione e il soggetto.

Nel suo ruolo mediatore, la specie o idea prodotta non serve solo per conoscere
la cosa verso cui intenziona (exitus), ma serve inoltre per conoscere il soggetto che la
produce (reditus): “perché considerando la natura della specie, che si astrae dalle cose
sensibili, si trova la natura dell’anima in cui si riceve la specie” (De Verit., q.10, a.8
ad 9 sc.). In essa, l’intelletto si riflette e si vede come in uno specchio da lui creato, e
solo così raggiunge la visione della propria essenza. Come se la specie, dove questo
Narciso si vede, gli dicesse: “Ecco ciò che tu sei: il capace di rendermi in te una
forma intelligibile in atto; il capace di intenzionarti per me a una conoscenza della
cosa sensibile in un modo immateriale, universale e necessario; il capace di
giudicarmi nell’essere; il capace di vedermi in collegamento con tutte le cose e con
tutte le Cause dell’universo, le prossime e le ultime; il capace di illuminarmi e di
diventare insieme con me illuminante ed illuminato in atto; il capace di risalire per
me fino al Principio del mio e del tuo essere…”[35].
3º Ascensus: “ad superiora”

Una volta che con la mediazione della cosa sensibile esterna, e con la specie
intelligibile da essa generata dentro di noi (exitus) siamo divenuti intelligenti in atto,
e ci siamo trovati riflessivamente conoscenti di noi stessi in atto (reditus), proviamo
anche all’interno della nostra conoscenza la spinta di un “ascensus”. Non ci basta la
percezione fisica del mondo esteriore, né la scoperta della propria spiritualità
interiore, per colmare il vuoto originario di sapere: di sapere per Cause!

Le stesse cose e la nostra interiorità pongono domande, che non spiegano né da


sole, né con la mutua relazione. La cosa fisica non riceve l’essere dalla nostra attività
conoscitiva; anzi, in certo modo la causa e la misura [36]. Quindi: perché questa cosa
esercita l’atto di essere? D’altra parte, lo stesso intelletto, che è apparso con un essere
trascendente il fisico, ma che si riconosce incapace di essere per essenza (metafisice)
quella pienezza dell’essere, che non di meno è capace di toccare per intenzionalità
(psicologice), viene spinto, e dal di fuori e dal di dentro, a un ascensus: a cercare il
Principio dell’essere, verso il quale si attegia con capacità e con desiderio
conoscitivo.
Si può affermare che la dinamica dell’atto intellettivo, nella spiegazione
completa delle cause ultime dell’atto d’essere, apre nell’interiorità del
conoscente due vie d’ascensione:
1ª La spiegazione dell’atto d'essere di quella cosa fisica opposta, che appare
non “principiata” nell’essere, per la messa in atto di questo intelletto, e
quindi non risolvibile nell’essere psicologico dell’intelletto.
2ª E la spiegazione dell’atto di essere di questo intelletto spirituale, che trova
se stesso fatto in atto intellettivo, con la mediazione evidente di questa
cosa fisica indipendente, e quindi con una subordinazione manifesta di
questo essere psicologico all’essere metafisico, di cui questo intelletto
non è più pienezza.

La coordinazione di questa doppia esperienza, che sollecita “spiegazione


dell’essere”, e della cosa fisica indipendente, e del soggetto ultrafisico intelligente,
scatena quella via (o vie) dell’ascensus intellettivo che portano al Principio di ogni
ente sia fisico che ultrafisico, che tutti chiamano “Dio”. Questo terzo moto risolutivo,
proprio dell’intelletto metafisico, lascia l’uomo nella soglia del Dio Pa/gkaloj, che sia
per l’essere di ogni cosa, sia per l’interiorità dell’intelletto, dove ha sparso la sua
“Gloria” (claritas, kale/w) e la sua “luce”, esercita da per tutto un fascino e richiamo
universale verso sé. Già Aristotele era capace di intravedere nella forma, per la quale
ogni ente compie l’atto di essere e ci offre il suo aspetto intelligibile, qualcosa di
“divino”[37].

III. L’IMMAGINE DEI TRE MOTI DELL’ANIMA:

Nel Commento al De Divinis Nominibus, cap. IV, lc. 7 (n.374-376), Tommaso


si trova a parlare di tre moti dell’anima e delle Intelligenze: il moto circolare, il moto
obliquo e il moto retto; dottrina che integra anche nella Somma Theologiae, quando
parlando della vita contemplativa si domanda: “Utrum operatio contemplationis
convenienter distinguatur per tres motus, circularem, rectum et obliquum” (2-2,
q.180, a.6)[38]. Essi, dai suoi sfondi neoplatonici, ci fanno ricordare la dialettica
hegeliana, fatta da tesi, antitesi e sintesi, che anche comporta una “Aufhebung”[39].
Ognuno di questi tre moti, analogabili coi precedenti, provoca una
certa unificazione ascendente.

1. Il moto retto

Alla conoscenza delle cose esteriori, che abbiamo visto sotto l’immagine
dell’exitus, conviene di più l’immagine del moto retto.
Contrariamente al moto circolare, che è un moto totalmente uniforme perché
tutte le parti hanno una equidistanza dal centro del circolo, e il principio del moto
coincide con il fine, il moto retto è un moto essenzialmente difforme: sia perché le
parti della linea variano nella distanza da un punto designato, sia perché in esso sono
diversi il principio e la fine. Invece il moto obliquo è un moto misto, che prende
qualcosa dell’uniformità del circolare e qualcosa della difformità del retto. (Cfr. In I
De Caelo, lc.3; De Verit., q.8, a.15 ad 3…).

Nel moto retto, l’anima avanza con una “difformità essenziale”: “de sui ratione
habet difformitatem”. Essa “inizia e procede con un’apprensione varia e multiforme
di cose diverse, ma finisce in una presa di esse, semplice ed
uniforme”. Inizia dispersa, ma finisce unificando le cose nella semplicità del concetto
universale (che a sua volta apparirà progettato sulla semplicità del trascendente ens,
che a sua volta semina il desiderio del Ipsum Esse). Così, anche esso provoca una
certa unificazione.

Ma in questo caso, l’anima ancora “non entra in se stessa e non adopera


un’intellettualità pura e semplice”. Essa adopera solo un’intellettualità
razionale ancora dispersa, che la trattiene fuori. Le cose circondanti, fungono da
segni vari e molteplici, che la indirizzano a contemplare cose semplici ed unitarie; ma
viste ancora come “specie” di cose.

2. Il moto obliquo

L’iniziale conoscenza che parte dalle cose esterne, provoca anche che lo stesso
intelletto passi dalla potenza all’atto, e che così diventi intelligibile per se stesso. Ciò
permette che nel giudizio, atto perfetto della mente, dove anche si conosce
(formalmente) la verità, l’intelletto nel giudicare una cosa, sia accompagnato “in actu
exercito” da quella autoriflessione che implica la “reditio completa” dell’intelletto su
se stesso (ad essentiam suam). Questo reditus, potremmo in certo modo ridurlo
al moto obliquo dell’anima, che nel suo agire integra la difformità del retto (uscita
verso le cose) e l’unità del circolare (riflessione sull’intelletto). Dice Tommaso:
“La conoscenza naturale dell’anima possiede una difformità, in quanto
che è naturata per conoscere solo discorrendo tra cose diverse, ma possiede
anche in se stessa una uniformità, in quanto che si sottomette a un principio
uniforme, dal quale riceve” (In IV De Div. Nom., lc.7).

L’anima contiene inscritta dentro della sua spiritualità una luce uniforme e
unificante, la luce “illuminativa”, costitutiva dello stesso intelletto e dei primi
principi, partecipata dalla Prima Veritas[40], che gli consente di conoscere tutte le cose
diverse con una “uniformità trascendente” soprarazionale e sapienziale. Questa luce
viene attivata ogni qualvolta qualsiasi cosa dispersa provoca un verbo nella nostra
interiorità. Ma così anche l’interiorità dell’uomo ridiventa illuminata di volta in volta:
non “intellectualiter et singulariter” cioè “semplicemente” come nell’angelo, ma
“rationabiliter et difusse”, in quanto che s’illumina discorsivamente e discorrendo per
cose diverse”[41].

Perciò la nostra anima non possiede una conoscenza immediata e diretta della
propria essenza, ma essa è “obliqua, composta, mista”, mediata sempre per la specie
cambiante di una cosa sensibile, che fa che in ogni atto riflessivo la luce uniforme
dell’intelletto punti su di essa, prima di illuminare se stesso; e quindi veda se stesso
con questa deviazione verso l’altro, cioè “operationibus comixtis… et transitivis” (In
IV De Div. Nom., lc.7).

3. Il moto circolare

In fine, la conoscenza che, dalla visione delle cose e dalla propria interiorità,
sale fino alla contemplazione sapienziale delle Cause, può essere descritta con quel
moto circolare che porta l’anima a concentrarsi, con una visione di stampo intelletivo
(intellectualiter)[42] nella visione del Principio dello stesso essere, dove tutto si vede
uniformemente.

Questo moto circolare, che l’anima umana fa a modo suo, sale come in una
spirale (“circularis convolutio”) e ha come caratteristica la “uniformitas
intellectualis operationis”. Per riuscire, l’anima deve scuotersi “una doppia
difformità”: la difformità oggettiva che proviene dalla diversità molteplice delle cose
esterne, e la difformità soggetiva che proviene del discorso della ragione [43]. Tutto ciò
avviene con una certa progressione[44]:
- Prima, l’anima abbandona le cose esteriori, dove si è dispersa raziocinando,
ed entra e si converte verso se stessa.
- Secondo, l’anima si raccoglie uniformemente (uniformiter convolvitur)
come in un cerchio sotto la forza della luce semplice, che emana dalla
verità dei primi principi delle sue potenze intellettive, dove “risolve”
giudizialmente tutta la precedente dispersione del suo raziocinare tra le
cose.
- Terzo, l’anima intellettivamente unificata, divenuta simile alle
Intelligenze, sale al incontro del Principio dell’essere, del Dio
“Pankalos”[45].

Alla fine di questo processo l’anima, superato lo “strepitus et clamor”, e “unita


in se stesa”, entra quodammodo nella stessa “Unione (unitio) del Principio”, dove
“preesistono le terminazioni di tutte le conoscenze” (In I De Div. Nom., lc.2).
Arrivata lì, si inoltra nel “Silenzio” e nella “Pace”[46].

Volendo rappresentarci, in un modo immaginativo (intelligere phantasticum) e


sintetico, la dinamica di questi tre moti intelletivi, potremmo ricorrere al seguente
grafico:
IV.- GLI SFONDI METAFISICI

1. L’unione sostanziale anima-corpo:

Il fondamento ontologico del primo moto conoscitivo dell’exitus, radica nella


stessa struttura ontologica della natura umana, secondo cui “la totalità della natura
umana scaturisce dall’unione dell’anima e del corpo” [47]. Ora, “l’agire consegue
all’essere”, e quindi:
“La conoscenza di ciascun conoscente è secondo il modo della sua
natura… A noi è «connaturale» conoscere le cose che hanno l’essere in una
materia individuale, perché la nostra anima, per la quale conosciamo, è la
forma di una materia” (I, q.12, a.4).

La sinergia dinamica, che nel moto dell’exitus vedeva l’intelletto obbligato a


mettersi in atto per la via dei sensi, con l’aiuto di una idea intellettiva presa da una
cosa fisica, costituisce il miglior testimone dell’unione sostanziale anima-corpo.
Perciò quando S. Tommaso indaga il motivo profondo dell’unione sostanziale, si
appella a questa fenomenologia della conoscenza “sensitivo intellettiva”:
“All’anima, secondo quel modo di essere con cui diventa unita al
corpo, compete un modo d’intendere per conversione ai fantasmi dei corpi, che
si trovano in organi corporali… Questo modo d’intender, per conversione ai
fantasmi, è naturale all’anima, come è naturale unirsi al corpo... L’anima,
dunque, si unisce al corpo con questo scopo: per essere e per agire secondo la
sua natura (Et ideo ad hoc unitur corpori, «ut sit et operetur» secundum
naturam suam)” (I, q.89, a.1).
Quando Tommaso escogita molto realisticamente il suo argomento preferito
contro il dualismo dei platonici e degli averroisti, per diffendere l’unione sostanziale
anima corpo, lo prende da questa coscienza unitaria dell’intendere senziente che
esprime con la formula: “Hic homo singularis intelligit”. L’uomo che dice “io
intendo” è proprio “hic homo singularis”, cioè l’uomo di “quest’anima, queste carni e
queste ossa”, che è anche l’uomo che dice “io sento”. Ora, il sentire è un’azione
palese del corpo. Quindi, la coscienza singolare che attribuisce l’intendere al “io”,
come a principio di azione immateriale, attribuisce l’azione del sentire allo stesso io,
come a principio di azione corporale. L’io, che in questo uomo principia l’intendere
che si fa sopra il corpo, è lo stesso io che in questo uomo principia il sentire che si fa
per il corpo. Tommaso espone tutto ciò con la passione di una sfida:
“Se qualcuno vuole dire che l’anima intellettiva non è la forma del corpo,
bisogna che trovi il modo di spiegare come mai quest’azione che è l’intendere
è un’azione di «questo uomo», perché ciascuno di noi sperimenta che è egli
stesso ad intendere… Infatti, un unico e identico uomo percepisce se stesso e
come intelligente e come senziente (ipse idem homo est qui percipit se et
intelligere et sentire). Ora, il sentire non si fa senza il corpo. Bisogna, dunque,
che il corpo sia una qualche parte dell’uomo. Resta alla fine che l’intelletto con
cui Socrate intende, è una parte di Socrate, così che l’intelletto si unisce in
qualche modo al corpo di Socrate” (I., q.76, a.1)[48].

Riassumendo, si potrebbe dire che, in un inizio, l’atto primo sostanziale


costituisce l’anima in uno stato tale che, non trovando dentro di sé niente
d’intelligibile in atto, perché da sola non riesce a completare l’essenza umana, la
trova comunque “unibile” al corpo. Ciò la spinge a completarsi uscendo fuori da sé,
come obligandola ad unirsi al corpo, affinché, unita, diventi intelligibile in atto. In
questo modo, l’anima apre nel suo corpo la strada connaturale della “via sensus”[49].
Infatti, come abbiamo visto, quando Tommaso spiega la ragione profonda dell’unione
sostanziale dell’anima al corpo, ricorre a questa soluzione: “ut sit e
operetur secundum suam naturam” (I, q.89, a.1)[50].

2. La “fixio” dell’anima:

Il fondamento metafisico del moto del reditus ci rimanda sulla natura spirituale
dell’anima, e più particolarmente su quel carattere della semplicità dello spirito o
della forma pura, che non entra in composizione con la materia, ma essa sola riempie
la sua essenza dove rimane come “assoggetta su se stessa”, generando in noi
quell’immagine della “reditio completa” sostanziale, propria di un “authypostaton”
sussistente, che fonda inoltre la sua “reditio completa” operazionale. Questa
sussistenza fondante, nel libro De Causis, viene chiamata “fixio”.

La reditio quindi, può essere vista sotto l’aspetto operativo, che emana e si
sostiene su quello sostanziale, o sotto l’aspetto sostanziale che fonda l’operativo.
Tommaso analizza nei suoi scritti questi due modi di reditio. Lo studio più
consistente della reditio intellectus sotto l’aspetto operativo la rinveniamo nel famoso
passo del De Veritate, q.I, a.9, dove si domanda “Se la verità si trova nel senso” [51].

In esso Tommaso mostra che l’azione del senso raggiunge la


verità materialmente: solo “come conseguente l’operazione del senso”. Ma non la
raggiunge formalmente: “come conosciuta dal senso”. La casua è che il senso non
può ritornare completamente sulla propria essenza per vedere il suo rapporto di
conformità con la cosa. Così, conosce la cosa ma non il rapporto di verità nel quale si
trova:
“Il senso incomincia a ritornare sulla propria essenza, perché non solo
conosce il sensibile, ma conosce anche il proprio sentire. Tuttavia il suo ritorno
non si completa, perché il senso non conosce la propria essenza. La ragione di
questo fatto, secondo Avicenna, è che il senso solo conosce qualcosa mediante
un organo corporale” (De Verit., q.9, a.1)[52].

L’intelletto invece è capace di fare un ritorno completo, conoscendo la verità


non solo “come conseguente l’operazione dell’intelletto, ma anche come conosciuta
dall’intelletto”. Infatti, nell’atto del giudizio l’intelletto autoconversivo riesce a
conoscere insieme e la cosa e il rapporto di adeguazione che lo lega ad essa:
“La verità, poi, è conosciuta dall'intelletto in quanto l'intelletto riflette
sopra il proprio atto, non soltanto perché conosce il proprio atto, ma
perché conosce la proporzione tra il proprio atto e la cosa. Questa proporzione
non può essere conosciuta, se non si conosce la natura dello stesso atto. E
questo atto non può essere conosciuto, se non si conosce la natura del
principio attivo, che è l'intelletto stesso, alla cui natura appartiene il
conformarsi alle cose. Quindi, [alla fine si deve dire che] l'intelletto conosce la
verità perché riflette su se stesso” (De Verit., q.1 a.9)[53].

A questo punto Tommaso ci rimanda al libro De Causis: “Perciò si dice nel


libro De Causis, che «Chiunque conosce la propria essenza, ritorna alla propria
essenza con un ritorno completo»” (De Verit., q.1, a.9). È in questo passo,
commentato da Tommaso nella lezione 15ª, dove la reditio dell’intelletto,
compiuta sul piano operativo, si fa rientrare sul fondamento della reditio sostanziale.
Su tale fondamento essa trova “fixio” (fixio intelligentiae)[54], espresione che serve per
denotare la stabilità spirituale dell’anima sussistente “authypostaton”, che possiede la
forma “assoggettata su se stessa”, e non più difussa su una materia: “fixa stans non
super aliud delatam” (De Causis lc. 19)[55].
“«Tutto ciò che è capace di convertirsi a se stesso possiede una sostanza
separabile da ogni corpo»… Perché nessun corpo può convertirsi a se stesso…
Ora, ciò che ha l’operazione separabile dal corpo, deve avere la
sostanza separabile… Altrimenti l’operazione sarebbe migliore e più perfetta
della sostanza… Quando il conoscente conosce la propria essenza, questo
«conoscere» indica l’operazione intellettiva… E ciò deve dirsi ritorno o
conversione (reditus vel conversio), perché quando l’anima conosce la propria
essenza, il conoscente e il conosciuto diventano una stessa cosa. Così la
conoscenza con cui essa conosce la propria essenza (ossia, la stessa operazione
intellettiva), proviene da essa in quanto è conoscente, e va ad essa in quanto è
conosciuta. In essa dunque si verifica quella «circolarità» implicata nel termine
«ritornare» o «convertirsi». Da questo ritornare con la sua operazione alla
propria essenza, [l’autore] conclude che essa ritorna anche con la sua sostanza.
Poi, spiega che cosa significa ritornare con la sostanza alla propria essenza. Si
dice che si convertono a se stesse con la propria sostanza, le cose
che sussistono per se stesse e possiedono fissità (fixionem), senza bisogno di
convertirsi ad un'altra realtà che la sostenti, come succede nella conversione
dell’accidente al suo soggetto. Ciò compete all’anima e a qualsiasi realtà
capace di conoscere se stessa, perché ogni realtà di questo tipo è una sostanza
semplice, autosufficiente, non bisognosa di un supporto materiale” (De Causis,
lc.15).

Forse adesso si capisce meglio perché Tommaso rileva in continuità


quell’ordine connaturale, che vede la conoscenza di cose (ente + sensibile) come
primaria e mediatrice della conoscenza “formata” di se stesso: dell’attività
psicologica del soggetto e delle sue potenze e abiti [56]. Il che non sopprime per nulla
l’autopresenza dell’anima a se stessa: la sua “fixio” spirituale, che provoca la sua
conoscenza “abituale”, disposta ad entrare in atto. Ma, nel caso dell’uomo, dovuto
alla sua tremenda potenzialità (ultima delle intelligenze), questa da solanon basta per
donargli una conoscenza “formata”, cioè completa in atto secondo. Essa lo
costituisce sulla piattaforma di una conoscenza aprioristica ancora «potenziale e
informe»: “potens exire in actum” (De Verit., q.10, a.8). Ma essa non provoca da
sola l’atto secondo dell’intendere. Perciò, se la conoscenza dei “praecognita”, si
concepisce come conoscenza già “formata”, e non ancora come conoscenza informe e
potenziale, del proprio io e dei primi principi (nou=j tw=n a)rxw=n), cose tutte
conoscibili dall’atto, allora noi diciamo decisamente con Tommaso che prima
dell’atto (dell’atto secondo; e l’intendere in noi è un atto secondo), non ci sono
formalmente parlando “praecognita”: che la nostra conoscenza di tutto ciò è “in/ab
actu”.

L’originaria conoscenza fisico-metafisica di ente, a cui accompagna, con una


certa dipendenza e mediazione, l’originaria conoscenza psicologico-critica del
proprio atto e di se stesso (provocata da quella fissione spirituale che ha “reditio
completa”), è tutta “ab actu”. Essa, sotto questo aspetto, non è né “a priori”, né “a
posteriori”, ma semplicemente “ab actu”. E più in concreto: “ab actu iudicii” (cf. De
Verit., q.9, a.1). Questo atto costituisce originariamente nel nostro intelletto l’inizio
della scienza metafisica e, come ex consequenti, l’inizio della psicologia e della
critica della conoscenza, che sono scienze posteriori, alla maniera come le scienze di
“specie di cose” sono posteriori alle scienze di “cose”[57]. Tommaso non nega che noi
conosciamo le cose con le idee; nega che noi conosciamo prima le idee e poi le cose.
L’atto originario manifesta esattamente l’ordine contrario. Questa è la prima
fenomenologia, che il “fenomenismo” di Descartes, Hume e Kant ha tergiversato,
errando proprio “in principio”, “ab actu”: nell’atto originario che ci mette nella
condizione di poter vedere tutto il resto, anche l’“ego cogito”, le impressioni e le
idee, gli “a priori” e le condizioni di possibilità. Per quando entriamo a vedere noi
stessi e le nostre idee, abbiamo già visto le cose. E non è “critico” togliere valore a
questa visione originaria delle cose (volento incominciare antinalturalmente da una
critica metodica dei sensi come fa Descartes, o dalla negazione della conoscenza
della res in se come fa Kant) per fondare la visione derivata dell’interiorità dell’io,
avendo colpito in radice o “a priori” il fondamento che ci consente di arrivare a
queste visioni derivate. Non è critico negare “in principio” lo manifesto immediato e
assumere lo velato mediato a fondamento di quella conoscenza originaria mediatrice.
Perciò, imitando la lettera che Unamuno inviava a suo figlio, intitolata “¡Adentro!”,
anche noi potremmo dire:
“Ab actu!. In interiore actus habitat veritas. Lascia quello di “a priori” e
“a posteriori”, sù e giù, a progressisti e retrogradi, ascendenti e discendenti, che
si muovono solo nello spazio esteriore. Tu dici: Ab actu! In interiore actus
habitat veritas”[58]. Bisogna ricuperare, con Tommaso, questo atto o giudizio
originario dell’intelletto senziente, insieme fisico, metafisico, psicologio e
critico!

È dagli atti secondi (con cui iniziamo conoscendo cose esterne), da dove noi
possiamo incominciare lo studio psicologico formale del nostro atto primo. Tale è il
nostro “ordo visionis”. E non di meno ciò accade perché noi abbiamo questo
determinato atto primo: la fixio spirituale sostanziale dell’anima.
È risolutivamente vero che l’agire segue all’essere. Ma, riguardo al nostro modo
umano di conoscere, è anche vero che noi arriviamo inventivamente a conoscere
l’essere dall’agire. Altro problema, molto oscuro, è se noi possiamo avere (e come
possiamo averlo) l’atto primo senza che questo sia anche accompagnato di qualche
attività “intellettiva” seconda[59].

3. L’immaterialità dell’intelletto

Il fondamento dell’ascensus, che mostra l’intelletto aperto sulla totalità


dell’essere fino al suo Principio, e quindi non solo con apertura settoriale, come i
sensi che si estendono sul mondo dei corpi fisici, radica più direttamente sul carattere
totalmente immateriale dell’intelletto umano, che già Aristotele, descriveva come
“separato, impassibile e non-mischiato” (“kai\ ou(=toj o( nou=j xwristo\j kai\ a)paqh\
j kai\ a)migh/j”: De Anima III, 5, 430a 17-18)[60]:
“L’immaterialità di una cosa è la ragione della sua conoscenza, e secondo
il modo dell’immaterialità è anche il modo della conoscenza” (I, q.14, a.1).
“Immunitas a materia est causa intellectualitatis” (Comp. Theol., c.28, n.57)[61].
La potenza della materia ha come proprio “limitare, chiudere, coartare”
l’universalità della forma. Perciò, quanto più una forma si sprofonda in questa
potenza della materia, più diventa chiusa, limitata, amorfa e oscura; e quanto più si
libera da essa, più diventa ampia, infinita, formata e luminosa [62]:
“Secondo l’essere materiale, che è contratto dalla materia, ogni cosa è
soltanto ciò che è, come questa pietra non è altro che questa pietra. Ma
secondo l’essere immateriale, che è ampio e in certo modo infinito, in quanto
che non è terminato dalla materia, la cosa non è soltanto ciò che è, ma anche è
in certo senso altre cose” (In II De An., lc.5).

Perciò, oltrepassata una certa soglia d’immaterialità, appare il fenomeno della


conoscenza, che ha questa proprietà, descrivibile con tante immagini, di assimilare le
altre forme alla propria, o di accogliere intenzionalmente sulla propria forma la forma
altrui, o di effondersi e dilatarsi sulle altre forme… Questo fenomeno, che incomincia
ad apparire già nei sensi, percorre i diversi gradi dell’intelligenza fino ad arrivare
all’intelletto divino:
“La limitazione della forma viene dalla materia. Quindi, quanto
più immateriali sono le forme, tanto più si accostano ad una certa infinità. È
dunque evidente che l’immaterialità di una cosa è la ragione della sua
conoscenza, e che secondo il modo dell’immaterialità è il modo della
conoscenza. Per questo dice Aristotele nel II De Anima che le piante, per la
loro materialità, non hanno conoscenza. Il senso invece è conoscitivo perché
riceve le specie senza la materia; l’intelletto poi è più conoscitivo, perchè è
ancora più staccato dalla materia e meno immischiato, come si dice nel III De
Anima. Quindi, poiché Dio è nel sommo dell’immaterialità, ne segue che è
nell’apice della conoscenza” (I; q.14, a.1)

Proprio questa struttura d’infinità, che nell’intelletto diventa apertura alla


totalità dell’essere, portava Tommaso a scoprire l’immagine di Dio in ogni
intelligenza, capace di raggiungere per intenzionalità quella pienezza d’essere che
non può avere per essenza. Non è quindi da meravigliarsi se anche Aristotele
intravedeva nella partecipazione dell’intelletto questa somiglianza divina e
annunziava come fine ultimo dell’uomo la felicità della contemplazione [63]:
“L’uomo che vive così, cioè dedicato alla contemplazione, non vive come
uomo, composto di diversi elementi, ma come avendo in sé qualcosa di divino,
in quanto che partecipa nell’intelletto la somiglianza divina… Appare dunque
che se l’uomo è l’intelletto, come la cosa più principale in esso, la vita
intellettiva è la gradevolissima all’uomo e la più propria dell’uomo… Ciò nelle
sostanze superiori si dà in modo perfettissimo, nell’uomo invece in modo
imperfetto e come partecipativo. Non di meno, questa piccolezza è più grande
di tutto quanto c’è nell’uomo. Quindi, chi si dedica alla speculazione della
verità è massimamente felice, quanto un uomo può essere felice in questa vita”
(In X Ethic., lc.11, nn.2105-2110).
V.- CONSEGUENZE ANTROPOLOGICHE

Sotto un punto di vista antropologico e morale si potrebbe anche dire che


ciascuno di questi moti corrisponde ad un modello diverso di uomo: l’uomo esteriore,
l’uomo interiore e l’uomo di Dio.

1. L’uomo esteriore

L’uomo esteriore “effigiato secondo la corporeità”[64], vive nella dispersione


dei sensi e sembra che lì voglia esaurire la sua esistenza. Tommaso con Agostino
parla di questo come di un uomo guidato solo dalla “ragione inferiore”, che
sottomette la mente a servizio della sensibilità[65].
“Agostino chiama la ragione inferiore, quella che regola le cose
temporali” (I, q.79, a.9). “Di fronte all’elezione prende il consiglio partendo
dalle ragioni delle cose temporali” (In II Sent., d.24, q.2, a.2).

La vita sensitiva (conoscitiva e appetitiva) non si apre sulla totalità dell’essere,


ma resta essenzialmente contratta nei limiti dell’essere fisico. In questo caso, l’anima
si rapporta, non solo alla propria corporeità, come succede nella vita vegetativa, ma
più universalmente si apre a “tutti i corpi”, al mondo fisico; senza perciò raggiungere
l’apertura totale dell’anima intellettiva, che si affaccia sull’essere universale [66].
Quindi, questo uomo sensuale, non farà metafisica, ma solo “fisica”; scienze di cause
prossime, scienze delle cause costitutive dell’essenza d’ogni corpo: materia e forma.
E il suo agire morale, risponderà solo alle sollecitazioni di una ragione pratica
utilitaria; di quella ragione cogitativa che si muove nell’habitat, tirando dalle cose il
massimo piacere, che adesso si concentra sui massimi piaceri della sensibilità. Alla
giustificazione della vita scelta da questo uomo, serve che non ci siano Cause Ultime
né possibilità di raggiungerle, e che filosofi come Kant (d’altronde bene intenzionati),
incidano profondamente nella sua cultura, dando una mano per ritagliare ancora di
più la debolezza costitutiva dell’intelletto umano[67].

Il pericolo di questo uomo sta nell’immanenza di taglia materiale che dà alla


sua esistenza. L’apertura dell’anima “quodammodo omnia”, slanciata sulla totalità
dell’essere e che, in unione al corpo, si muove naturalmente insieme “in horizonte
aeternitatis et temporis, existens infra aeternitatem et supra tempus” (De
Causis, lc.2)[68], si ritaglia adesso volutamente con una specie di “descensus” o di
moto circolare all’inversa (“abyssus abyssum invocat: Ps.41) sull’ecosistema del
mondo materiale, dove l’uomo continua a muoversi e a gestirsi come un super
animale, perché ha ancora la ragione inferiore che guida la sensibilità[69]. Ma, privo
della ragione superiore, la sua scienza, senza guida e senza freno (cioè, senza
sapienza architettonica e nell’abbandono delle Cause Ultime), lo blocca fatalmente
nell’orizzonte chiuso della sensibilità, dove perfino si accontenta con la fine della
bestia: la fine del giumento[70].

Tommaso con Aristotele parla spesso di questa “cultura” dell’“uomo animale e


bestiale”, che fa tutto “propter cibum et coitum”[71]. Con la differenza che l’uomo è
un animale camaleonte[72] o una bestia sintetica molto singolare: monumento di
quella ragione cogitativa, che gli permette di soddisfare “in mille modi” tutti gli
istinti della sensibilità, che negli altri animali rimane ancora predeterminata e
dispersa[73]. Egli infatti può scegliere i tratti dell’animale a cui vuole configurarsi, in
continuità o di passaggio, secondo quei modelli che i medievali usavano tipificare in
qualsiasi “Bestiario”:
“L'uomo è il miglior animale (optimum animalium) se si perfeziona con la
virtù, a cui lo spinge la natura, ma se rimane senza legge e senza giustizia,
diventa il peggiore di tutti (pessimum animalium)” (In I Polit., lc.1 n.41). “Un
uomo cattivo, con la ragione, che gli permette di escogitare infiniti mali, può
fare diecimila volte più danno di una bestia” (In VI Ethic., lc.6 n.1403; cfr. 1-2
q.95 a.1; 2-2 q.64 a.2 ad 3…).
“Ciascuno deve prendere il nome da ciò che lo domina. Bisogna quindi
vedere ciò che maggiormente muove un uomo: se la ragione, allora è uomo; se
l'ira, allora è un orso o un leone; se la concupiscenza, allora non è un uomo, ma
un porco o un cane. Questi, quindi, benché sono uomini per natura,
sono lupi per passione; come dice il Salmo 48,13: «l'uomo, essendo immerso
nell'onore, non lo ha compreso, ed è diventato un somaro ignorante»; o l’altro
Salmo 31,9: «non diventate come il cavallo e il mulo, che non hanno intelletto»”
(In Math., 10, lc.2).

2. L’uomo interiore:

L’uomo interiore, “effigiato secondo la mente”, è l’uomo della “ragione


superiore”, che eleva la sua sensibilità verso il bene dell’intelletto è così si regge con
una ragione che attinge il giudizio nei principi dell’essere, risalendo fino alla Causa
Altissima. Perciò il sapiens ama la contemplazione delle Cause Ultime.
“La ragione superiore cerca di contemplare e consultare le verità
eterne…, per desumere da esse le regole dell’agire. Invece la ragione
inferiore si ferma sulle cose temporali… Perciò alla ragione superiore si
attribuisce la sapienza, e all’inferiore la scienza” (I, q.79 a.9).

Questo uomo non chiude lo slancio della sua ragione al solo mondo fisico, ma
trova che l’intelletto lo spinge con slancio metafisico aldilà dell’orizzonte dei corpi
sull’universalità dell’essere:
“Esiste ancora un altro genere di potenze dell’anima, che si rapporta
all’oggetto con un’universalità ancora maggiore, cioè non solo al corpo
sensibile, ma universalmente ad ogni ente” (I, q.78, a.1).
Questo uomo intellettivo, oltre la fisica potenziata dalla matematica, con cui
spiega le cause delle essenze materiali, cercherà di spiegare le cause dello stesso
essere. Salirà quindi al principio d’ogni essere. E nella sua morale, cercherà di
dirigere la vita, da questa sapienza architettonica emanante dalla luce dei principi. La
vita salirà dalla cultura dell’animale, fondata sul tatto, fino alla cultura dell’intelletto
razionale, fondato su quella sapienza, che sorregge l’uso di una ragione perfezionata
dall’arte, raggiungendo il “perfectum hominis regimen” (In I Met., lc.1).
“Il regime perfetto della vita animale si raggiunge con una memoria a cui
si associa l’assuefazione dell’addestramento o d’altri processi. Il regime
perfetto dell’uomo si raggiunge mediante una ragione perfezionata dall’arte. Ci
sono alcuni che si reggono da una ragione senza arte, ma questo non è un
regime perfetto” (In I Met., lc.1).
“Chi conosce la causa altissima in un genere ed è capace di giudicare e
ordinare per essa tutto ciò che appartiene a quel genere, si dice saggio in quel
genere, come nella medicina o nell’architettura… Ma chi conosce la
Causa semplicemente Altissima, cioè Dio, si dice semplicemente saggio,
perché capace di giudicare e ordinare tutto con le regole di Dio” (2-2, q.45, a.2)
[74]
.

Se questo uomo non arriva a tanto ideale, perché non trova nella sua volontà la
forza sufficiente per imporre alla sensibilità il bene della ragione, non ha bisogno di
annebbiarsi ancora di più corrompendo tutti i principi dell’essere (speculativi e
pratici), per giustificare la sua debolezza. Anche l’essere, la verità e il bene possono
fare una vittoria nella vita dell’uomo che, senza tanta protervia, confessa e chiede
aiuto per la sua debolezza. Già il pagano era capace di dire: “Video meliora
proboque: deteriora sequor” (OVIDIO, Metamorfosi, 7,20) e il cristiano: “Quod nolo
malum hoc ago” (S. PAOLO, Rom., 7,19).

3. L’uomo di Dio (Hierotheus)

Tommaso teologo, considera ancora la possibilità dell’uomo mistico, l’uomo di


Dio o “deiforme” che trasformandosi in ciò che contempla, rimane nell’ammirazione
e nell’amore del Pulcherrimus et Superpulcher: “Amator factus sum formae illius!”
(Sap. 8,2; cfr. 2-2, q.180, a.2 ad 3).

Esso ha una specie di modello nel Ierotheo, quel maestro della vita spirituale
“doctus divinis”, che giudica le cose divine “non solum discens, sed et patiens
divina”. Mentre l’intelletto umano ha come connaturale la quiddità delle cose
materiali, il Ierotheo, da tanto dimorare nel divino, sviluppa una seconda
connaturalità per le cose divine, e il suo giudizio sulle cose lo regola da questa nuova
connaturalità[75].

Questo uomo di Dio, non solo è un uomo che sa di Dio e parla di Dio, ma è
soprattutto un uomo che “parla con Dio”. Perciò il più profondo ascensus della
mente verso Dio si dà nella contemplazione fatta di preghiera, che
Tommaso[76] definisce in continuità, col Damasceno, come “ascensus (elevatio,
erectio) intellectus in Deum”[77].

L’uomo dovrebbe prendere con più serietà questa possibilità del suo rapportarsi
con Dio, sia intellettuale che volitivo. Tommaso è molto esplicito: “l’uomo non può
essere perfetto se non diventa uomo di Dio (nisi sit homo Dei)” (In II Thim., 3, lc.3);
“La nostra mente si sottomette a Dio e in ciò consiste la sua perfezione” (2-2, q.81
a.7). Non si può dire che “la visione di Dio” è il fine ultimo(!) di tutto il dinamismo
della natura umana, e poi mantenere volutamente fermo per tutta la vita questo
dinamismo. Forse perciò, mentre la verità e uniforme, “sed multipliciter errare a
veritate contingit” (In IV De Div. Nom., lc.4), la stupidità ne ha infiniti modi:
“stultorum infinitus est numerus!”[78].

In questa linea si potrebbero anche analogare, al processo dell’intelletto umano,


quelle tre fasi, che Tommaso descrive col Dionigi quando parla dell’acquisizione
della scienza da parte delle Inteleligenze: la purgatio, la illuminatio e la
perfectio (cfr. In I De Div. Nom., lc.2, n.46-51)[79]:
- La purgatio segnala la fase dell’uomo esteriore che lotta coi sensi[80].
- La illuminatio, la fase dell’uomo interiore che cerca la luce pura[81].
- La perfectio, la fase dell’uomo deiforme che dimora nella contemplazione
dell’Ipsum Esse”. Come direbbe S. Ignazio di Antiochia:
“Lasciate che io raggiunga la luce pura; giunto là, sarò
veramente un uomo”[82]; testo che, nell’edizione del Migne, si
legge più esplicitamente: “sarò un uomo di Dio”: “a)/nqrwpoj
Qeou= e)/somai” (PG 5, col. 692-693).

[1]
Sulla imago Dei, cfr. G.M. CARBONE, L’uomo immagine e somiglianza di Dio, ESD, Bologna, 2003. Per il
collegamento tra la imago e l’exitus-reditus (p. 58-71). Sulla comunicatio in Dio, e particolarmente sulla communicatio
divinae sapientiae, cfr. A. DI MAIO, Il concetto di comunicazione. Saggio di lessicografia filosofica e teologica sul
tema di «communicare» in Tommaso d’Aquino, Ed. Pug, Roma 1998.
[2]
“Perché ci fosse qualche rimedio (aliquod remedium) a questa imperfezione” (De Verit., q.2, a.2). “Il fatto che il
potere dell’intelletto si estende in certo modo all’infinito, proviene da ciò: che l’intelletto non è una forma immersa
nella materia, ma che è, o totalmente separata, come succede nelle sostanze angeliche, o al meno è un potere intellettivo
che radica nell’anima intellettiva unita al corpo, ma che non diventa atto di nessun organo” (I, q.7, a.2 ad 2). Si veda il
Commento di Tommaso alla proposizione di Proclo: “Omnis intelligentiae fixio et essentia est per bonitatem puram
quae est per causam primam” (De Causis, lc.9).
[3]
“Secondo i filosofi, l’ultima perfezione a cui può arrivare l’anima è questa: descrivere in essa tutto l’ordine
dell’universo e delle sue Cause. .In ciò mettevano anche quel fine ultimo che, secondo noi, consisterà nella visione di
Dio. Perché, come dice Gregorio: «Cosa non vedranno coloro che vedono Colui che vede tutto?»” (De Verit., q.2, a.2).
[4]
“Omnis Intelligentia est plena formis… Omnis intellectus plenitudo ens specierum... Intelligentia est plena
formis vel, sicut Proclus expressius dicit, est plenitudo formarum” (De Causis, lc.10). “Propter hoc dicit Philosophus in
III De Anima, quod anima est quodammodo omnia” (I, q.14, a.1…).
[5]
“Ma poiché l’anima occupa l’ultimo grado tra le sostanze intelletuali, partecipa la natura intelletiva del modo più
difettivo, come oscurata (quasi obumbrata); perciò si dice razionale: perché la ragione, come dice Isacco, sorge
nell’ombra dell’intelligenza” (In II Sent., d.3, q.1, a.6).
[6]
“Se dunque l’anima umana ha bisogno dei sensi per intendere, la natura non priva nessuno del necessario per
compiere la propria operazione (natura autem nulli deficit in necessariis)… Ora i sensi non operano senza organi
corporali, quindi l’anima non fu sprovvista di organi corporali” (Gent., II, 83)..
[7]
Su questa causalità dell’anima spirituale, divenuta forma del suo corpo, e che suppone l’atto creativo di Dio, che resta
l’originaria Causa Efficiente, dice Tommaso: “Ciascuna delle anime che si trovano qui, esercita una causalità sul
proprio corpo, ma non lo causa, né per il senso né per l’intelletto, perciò non prevede le ragioni intelligibili ed esemplari
del proprio corpo; ma lo causa mediante una efficienza naturale. Perciò si dice nel II De Anima che l’anima è causa
efficiente del corpo. Ma questo agente non agisce mediante una ragione esemplare propriamente detta. Caso che non
vogliamo affermare che la stessa natura, mediante la quale agisce, sia la causa esemplare dell’effetto, prodotto in
qualche modo a sua somiglianza; e che per questo modo preesistono, nel potere efficace (virtute) della natura
dell’anima, tutte le parti sensibili del suo corpo: perché queste si adattano (coaptantur) alle potenze dell’anima, che
procedono dalla sua natura. Quindi, benché le cose sensibili esistano nell’anima, che è la loro causa, non esistono in
essa secondo lo stesso modo con cui esistono in se stesse. Infatti, il potere efficace (virtus) dell’anima è immateriale,
benché sia causa di [effetti] corporei; e si trova senza dimensione corporale, benché sia causa di cose che hanno
dimensione. E poiché gli effetti si trovano nella causa, secondo il potere efficace della causa (secundum virtutem
cause), bisogna che i corpi sensibili si trovino in essa in un modo indivisibile, immateriale e incorporeo. E così come le
cose inferiori all’anima si trovano in essa in un modo superiore, a come sono in se stesse; così anche le cose superiori,
cioè le intelligenze, si trovano nell’anima in un modo inferiore a come sono in se stesse, cioè in un modo iconico o a
guisa d'immagine, come dice Proclo” (De Causis, lc.14). “Poi esemplifica con l’anima, che è causa del corpo, a modo di
efficiente e di forma e di fine, come si dice nel II De Anima. Così, nell’anima, come in causa comune, preesistono tutti i
poteri per fare le parti dell’animale (praeexistunt omnes virtutes partium animalis), con cui si equipaggia tutto il corpo.
Difatti, tutte le potenze radicano nell’anima come in una radice comune” (In V De Div. Nom., lc.1, n.646).
[8]
Dovremo meditare di più su questa penetrazione naturale (riflesso dell’unione sostanziale) dell’intelletto nella
sensibilità, manifesta a noi nel/dal loro “agire unitario sinergico”, attorno allo stesso oggetto sensibile-intelligibile (che
più in concreto è il fantasma), dove entrambe le parti si compenetrano psicologicamente così profondamente che
avviene perfino uno scambio di nomi: la cogitativa si chiamerà “ratio particularis”, e si parlerà anche di un “intellectus
pasivus qui est corruptibilis” (In VI Ethic., lc.9 n.1249. “Circa singularia vis cogitativa vocatur intellectus secundum
quod habet absolutum giudicium de singularibus... Dicitur autem ratio particularis secundum quod discurrit ab uno in
aliud” (In VI Ethic., lc.9 n.1255). Si veda De Verit., q.10, a.5, dove Tommaso analizza come la mente si intromette nei
singolari “in qauanto che si continua (continuatur) con le potenze sensitive, che versano sulle cose particolari”. E ció
nel doppio indirizzo dei due moti, conoscitivo e appetitivo: “quello che procede dalle cose verso l’anima”, e “quello che
procede dall’anima verso le cose”...
[9]
Questo inizio veniva anche ricordato da F. Olgiati quando scriveva: “Nella Summa Theologiae (Pars I, q.87, art.1),
San Tommaso prova che il nostro intelletto, abbandonato alle sue risorse, sarebbe assolutamente incapace di passare ad
una conoscenza attuale di sé. Essendo un “ens in potentia tantum”, per conoscer se stesso, ha bisogno di essere scosso
da qualcosa d’altro, che non sia il nostro io. Se non vi fosse l’altro da noi, non vi sarebbe neppure la conoscenza
dell’io”: F. OLGIATI – F. ORESTANO, Il Realismo, Vita e Pensiero, Milano 1936, p.147.
[10]
Ritorniamo così all’ordine connaturale della conoscenza umana, riassunto da Tommaso in quella sintesi del Filosofo:
“Et ideo Philosophus dicit quod obiecta praecognoscuntur actibus, et actus potentiis” (I, q.87, a.3). Oggetto e atto: ecco
le “reali praecognita” della nostra facoltà intelletiva. Perché “prima dell’atto” non ci sono “praecognita”! E così come
in metafisica si è recuperato il primato tomista dell’esse ut actus, così anche in epistemologia bisognerebbe ricuperare il
primato dell’intellectus ut actus. La Critica non inizia né a priori né a posteriori; inizia con un intelletto “fatto in atto”
che vede se stesso “in atto”. Inizia “ab/in actu”!. E ciò, nel caso dell’intelletto umano, succede nell’atto del giudizio.
L’intelletto, in forza della sua “reditio completa”, costitutiva e operativa, vede la cosa, vede il suo rapporto attivo di
verità o adeguazione con la cosa, e vede se stesso vedendo tutto ciò. E non di meno, vede tutto ciò “con quell’ordine di
visione connaturale” all’intendere umano. Perciò, per arrivare a vedere gli “apriori kantiani”, bisogna prima vedere
tutto ciò. Ma forse allora, la visione artificiale degli apriori kantiani, che suppone questa visione originaria, non
corrisponde più alla realtà di questo atto connaturale, che media ogni altra visione “critica”. Parvus error in principio…
[11]
Su questo tema, cfr. J.A. IZQUIERDO, Progresso e coronamento del conoscere, in «La vita intellettiva. Lectio
Sancti Thomae Aquinatis», Ed. Vaticana, Roma 1994, pp.420-472.
[12]
Quando Tommaso compara la potenzialità dell’intelletto umano con l’attualità dell’intelletto divino, usa la metafora
del sonno. E dice che chi dorme, vive solo a meta (“dimidium vitae”): cfr. In XII Met., lc.11; In IX Ethic., lc.11. E sulla
confusione che le idee sublimi causano in questo intelletto, pensa che, sebbene l’intendere per conversione “ad
superiora” sia semplicemente più perfetto, “se le sostanze inferiori ricevessero le forme con quella universalità con cui
si trovano nelle superiori, poiché non hanno tanta efficacia nell’intendere, non raggiungerebbero per esse una
conoscenza perfetta delle cose, ma essa rimarrebbe in una certa genericità e confusione (in quadam communitate et
confusione)” (I, q.89, a.1). Per la dinamica di questo progressivo chiarimento, cf. I, q.85, a.3: “Utrum magis universalia
sint priora in nostra cognitione intellectuali”.
[13]
“Tra le conoscenze intellettuali, quella dell’intelletto umano è infima. Le specie intelligibili sono ricevute in esso con
una forma d’intellettualità debolissima. Con la loro efficacia (earum virtute), l’intelletto umano riesce solo a conoscere
le cose, sotto l’aspetto universale del genere o della specie. Tali specie, per il fatto di essere astratte dai fantasmi di cose
singolari, sono predeterminate e in certo modo costrette (contractae) a rappresentare la natura solo nella sua
universalità. Perciò l’uomo conosce le cose singolari per i sensi e le universali per l’intelletto” (De Subst. Sep., c.16).
[14]
“Propter admirationem eorum quae videbantur, quorum causae latebant, homines primo philosophari coeperunt”
(Gent., III, 25). “Inest enim homini naturale desiderium cognoscendi causam, cum intuetur effectum; et ex hoc
admiratio in hominibus consurgit” (I, q.12, a.1). “Est autem admiratio desiderium quoddam sciendi, quod in homine
contingit ex hoc quod videt effectum et ignorat causam, vel ex hoc quod causa talis effectus excedit cognitionem aut
facultatem ipsius. Et ideo admiratio est causa delectationis inquantum habet adiunctam spem consequendi cognitionem
eius quod scire desiderat” (1-2, q.32, a.8)… cf. In I Met., lc.3, n.53-56.
[15]
L’intelletto umano non è un intelletto “comprensivo” (“Si comprende ciò che si conosce perfettamente”: I, q.12,
a.1 ), ma un intelletto “razionale”: viatore, zetetico, “ad-aequativo”. E bisognerebbe dare a questo “ad” tutta la sua
valenza dinamica e dialettica. Aspetto poco capito, quando si critica la “tradizionale” definizione di verità. Su questo
tema, cf. J.A. IZQUIERDO, “Nove definizioni di verità. La «aletheia» nel confronto tra Heidegger e Tommaso”, in «Il
Cannocchiale» (3/ 1993) 3-52.
[16]
Così, perfino il nulla, la materia, le negazioni e le privazioni (le cose informate) acquistano nell’anima “ un modo” di
essere “per modum entis”, “per modum formae”, “per modum formae immaterialis” (e quindi “immateriale, universale
e necessario), più nobile di quello che hanno nella loro situazione reale. Su questo tema, cfr.
J.A. IZQUIERDO, “Connatural y analogía según S. Tomás”, in «Actas del IV Congreso Internacional de la Sita», Cajasur,
Córdoba 1999, vol III, pp.1379-1395.
[17]
Sarà proprio il potere riflessivo critico (reditio completa) del nostro intelletto, chi supera la “modalità” di questo
necessario “relativismo”. Necessario, perché la conoscenza umana si realizza in una relazione necessaria, che si dà
“nella mente”. Ma il potere della “reditio completa”, attuato nell’atto del giudizio, ci fa vedere con tutta chiarezza la
distinzione tra “il modo di conoscere” (relativo), e la cosa conosciuta, che lungo l’atto del rapporto appare mantenendo
la sua indipendenza metafisica (ab-soluta), dalla quale misura l’atto giudiziale. La visione o conoscenza di questa
cosa nel suo essere metafisico, precede la visione del modo della mente, e quindi “è condizione di «realtà», più ancora
che di «possibilità», per vedere l’essere psicologico. Perciò, in una relazione e con specie ideali, possiamo conoscere
cose reali e assolute, trascendendo così il modo relativo di conoscere. Nella coordinazione tra le due conoscenze, che si
provoca nell’atto della “reditio completa” giudiziale, la conoscenza metafisica delle cose reali precede sempre la
conoscenza psicologica dei modi e delle specie. Kant errò su questo punto cruciale “in principio”: perché iniziò ad
analizzare la conoscenza dal “cogito” di Descartes, e dalla psicologia non può nascere mai la metafisica.
[18]
“Le cose inferiori all’Anima sono in essa in un modo più alto a come sono in se stese. Le cose superiori, cioè le
intelligenze, sono nell’Anima in un modo inferiore a come sono in se stesse, cioè «iconicamente» (iconice) o per modo
d’immagine, come dice Proclo. O, come qui si dice: in un modo accidentale, cioè in un modo di partecipazione
inferiore. Così che le cose intelligibili, che in se stesse sono indivise e unite e immobili, nell’Anima sono
divisibilmente, moltiplicatamente e mobilmente, per comparazione con l’Intelligenza” (De Causis, lc.14, n.299; cfr. De
Causis, lc.8, nn.202-208). “Per huiusmodi autem species impossibile est pervenire ad intuendam essentiam substantiae
separatae, cum sint improportionabiles, et quasi alterius generis cum ipsis essentiis spiritualibus” (De Verit., q.18, a.5).
“Quasi improportionabiliter transcendentes” (Comp. Theol., I, c.104).
[19]
“Absoluta” (I, q.75, a.6); “indivisibiliter, immaterilaiter et incorporaliter” (In De Causis, lc.14, n.299). Ciò comporta
una specie di elevazione psicologica modale, perché nel nostro intelletto la cosa fisica si trova in un modo più nobile da
come si trova nella propria materia. Proprio ciò permette la liberazione della sua forma che così diventa universale…;
benché ciò anche supponga una generalizzazione, che diluisce tutte le note individuanti che quella forma prende in
ciascun soggetto. E il nostro intelletto, a differenza di quello angelico, non ha tanta forza intellettiva per vedere le
determinazioni contenute sotto la sua specie intelligibile.
[20]
L’anima così non si conosce “per essentiam suam”, ma con l’aiuto della specie, che da una parte proviene da una
cosa esterna e d’altra riflette l’effetto spirituale provocato in essa dall’azione dell’intelletto agente (species intellibilis) e
possibile (species intellecta): “quando diventa fatta in atto per le specie astratte dai sensi, mediante la luce dell’intelletto
agente, che è l’atto degli stessi intelligibili, e mediante questi dell’intelletto possibile” (I, q..87, a.1). Tommaso parla di
due conoscenze che l’anima può avere di se stessa: quella esistenziale, a cui basta la “presenza” dell’anima a se stessa,
come dice Agostino, e quella essenziale, difficilissima che richiede la “subtilis inquisitio”. Non di meno la mediazione
dell’atto secondo, che in noi nasce “uscendo” a conoscere una cosa sensibile, risulta in entrambi i casi indispensabile:
“Non ergo per essentiam suam sed per actum suum se cognoscit intellectus noster” (I, q87, a.1). In genere si potrebbe
dire che Tommaso smorza l’idealismo platonico di Agostino, più marcato nel De Veritate q.10 a.8 (“Utrum mens
seipsam per essentiam cognoscat, aut per aliquam speciem”), dove divide la conoscenza esistenziale in attuale e
abituale, col realismo aristotelico, più marcato nella Summa Theologiae Ï, q.87, a.1 (“Utrum anima intellectiva seipsam
cognoscat per essentiam suam”), dove trascura questa divisione e rileva di più il ruolo mediatore dell’atto secondo, e
quindi il ruolo della cosa sensibile e della sua specie come oggetto originario, nella via generationis et temporis, per
entrare nella conoscenza attuale dell’anima; senza che ciò contraddica il De Veritate, dove anche splicitamente dice:
“L’anima è presente a se stessa come intelligibile, cioè come potendo intendersi. Non come intendendosi per sé stessa,
ma per il suo oggetto” (De Verit., q.10, a.8 ad 4 sc).
[21]
“Loco autem accidentium habemus in substantiis praedictis habitudines earum ad substantias sensibiles vel
secundum comparationem causae ad effectum vel secundum comparationem excessus. Ita ergo de formis
immaterialibus cognoscimus an est et habemus de eis loco cognitionis quid est cognitionem per negationem, per
causalitatem et per excessum, quos etiam modos Dionysius ponit in libro De Divinis Nominibus. Et hoc modo Boethius
intelligit esse inspiciendam ipsam divinam formam per remotionem omnium phantasmatum, non ut sciatur de ea quid
est” (In Boet. De Trin., q.6, a.3 sol 5).
[22]
Si veda il Prologo In III Sent., che inicia citando Eccl., 1,7: «Ad locum unde exeunt, flumina revertuntur, ut iterum
fluant». Sul tema dell’exitus-reditus, come struttura portante della Somma, in dipendenza dal neoplatonismo dionisiano,
cfr. M.D. CHENU:"Storia sacra e «ordo disciplinae»" (pp.260-267), e "La costruzione della Somma" (pp.268-275), nel
suo libro: "Introduzione allo studio di San Tommaso", Ed. Fiorentina, Firenze 1953. Si vedano anche le precisazioni di G.
LAFONT, Estructuras y método de la Suma Teológica de S.Tomás de Aquino, Rialp, Madrid 1664, pp.7-11; 17-24.
[23]
“Ogni effetto si converte alla causa da cui procede, come dicono i Platonici. Ecco la ragione: perché ogni cosa si
converte al suo bene, appetendolo. Ora il bene dell’effetto proviene dalla sua causa; quindi ogni effetto si converte alla
sua causa, appetendola…Perciò tutte le cose si convertono a Dio per il desiderio” (In I De Div. Nom., lc.3).
[24]
Sull’obbligo dell’uomo (“capax Dei cognoscendo et amando”: In Psal., 8) di esplicitare il dinamismo del desiderio
naturale, che in ogni ente si dà “implicite”, dice Tommaso: “Tutte le cose desiderano naturalmente Dio implicitamente,
ma non esplicitamente (implicite, non autem explicite)... Solo la natura razionale può, per una certa via risolutiva,
riportare i fini secondi fino a Dio, così che desideri Dio esplicitamente (explcite). Come nelle dimostrazioni scientifiche,
non si conosce rettamente la conclusione se non si risolve nei primi principi, così il desiderio della creatura razionale
non è retto se non diventa un desiderio esplicito di Dio, sia in atto sia in abito” (De Verit., q.22, a.2).
[25]
Cf. I, q.84, a.7: “Se l’intelletto può intendere mediante le specie intelligibili che ha in sé, non convertendosi ai
fantasmi”.
[26]
Tommaso adopera la metafora della porta in riferimento ai sensi, sopratutto nei Commenti alla Scrittura: “quasi per
quaedam ostia” (In III Sent., d.25, q.2, a.2a); “Possumus etiam intelligere per ostium domus, os corporis, … Ostium est
carnalis sensus; foris sunt omnia temporalia, quae per sensum cogitationes nostras penetrant, et turba vanorum
phantasmatum orantibus obstrepunt… Claudendum est ergo ostium, idest carnali sensui resistendum…” (Cat. Aur. In
Matth., 6, lc.1). “Ea enim quae continue sensibus nostris occurrunt, vel tactu, sicut ea quae in manu habemus; vel visu,
sicut ea quae ante oculos mentis sunt continue; vel ad quae oportet nos saepe recurrere, sicut ad ostium domus; a
memoria nostra excidere non possunt” (2-2, q.16, a.2). “Deus aperiat ostium, id est, os, per quod sermo a corde exit…”
(In Coloss., 4, lc.1)…
[27]
La frase appare in un’obiezione, che Tommaso corrobora dicendo: “Quelle parole devono capirsi del nostro
intelletto, che prende la scienza dalle cose, perché la cosa sale gradatamente dalla sua materialità fino all’immaterialità
dell’intelletto, mediante l’immaterialità del senso. Perciò bisogna che ciò che è nel nostro intelletto si trovi prima nel
senso” (De Verit., q.2, a.3 ob 19 et ad 19). Ciò non significa che l’intelletto finisce sempre nel senso…
[28]
Ciò inoltre comporta la dottrina costante dell’intendere immaginativo (“intelligere phantasticum”), col continuo
ricorso alle immagini o “conversio ad phantasmata”, come struttura conoscitiva dell’intelletto umano, che traduce
nell’azione intellettiva la struttura essenziale antropologica dell’unione sostanziale anima-corpo, per cui: “E impossibile
che il nostro intelletto umano, durante il presente stato della vita in cui si unisce ad un corpo passibile, intenda qualcosa
in atto senza convertirsi ai fantasmi” (I, q.84, a.7). Cfr. J.A. IZQUIERDO, “Connatural y analogía según S. Tomás”, in
«Actas del IV Congreso Internacional de la Sita», Cajasur, Córdoba 1999, vol III, pp.1379-1395.
[29]
Tommaso parla delle specie astratte dalle cose sensibili come di “obiecta prima et principalia”: cioè, come
di oggetti primari originari e fondanti (principium) di ogni altro conoscere “derivato”: “Benché l’intelletto sia superiore
al senso, non di meno prende qualcosa dal senso, e i suoi oggetti primi e principali (eius obiecta prima et principalia) si
fondano sulle cose sensibili” (I, q.84, a.8 ad 1).
[30]
In noi, la conoscenza dell’anima è mediata dalla conoscenza dell’atto, e la conoscenza dell’atto è mediata della
conoscenza dell’oggetto, e il primo oggetto della nostra conoscenza intellettiva è la quidità di cose materiali: “Perciò
dice il Filosofo, che gli oggetti si conoscono prima degli atti, e gli atti, prima delle potenze” (I, q.87, a.3). Perciò la
conoscenza del “quid est” dell’anima avviene principalmente per la conoscenza della specie intelligibile che noi
astraiamo dai seni: “Se la consideriamo rispetto all’apprensione, dico che noi conosciamo la natura dell’anima mediante
le specie che astraiamo dai fantasmi… l’intelletto possibile diventa solo intelligibile per la specie sopragiunta (per
speciem superinductam)” (De Verit., q.10, a.8). “L’intelletto umano, che diventa in atto mediante la specie della cosa
intelletta, si conosce mediante la stessa specie, come per la sua stessa forma” (I, q.87, a.1 ad 3).
[31]
É dottrina constante di Tommaso che noi arriviamo alla conoscenza delle sostanze spirituali e di Dio a partire delle
cose sensibili: “La mente dell’uomo può elevarsi a Dio per le cose sensibili e temporali, se usa di esse nel modo debito e
reverente.Invece il loro uso indebito può distogliere la mene totalmente da Dio, mettendo il fine della volontà nelle cose
inferiori, o ritardando la considerazione mentale di Dio, nell’affezionarci ad esse più del necessario” (Gent., III, 121).
[32]
“Esiste un altro intelletto come l’umano, che non è il suo intendere, né ha la sua essenza come oggetto primario del
suo intendere, ma qualcosa di estrinseco, cioè, la natura di una cosa materiale. Perció la cosa
che primariamente conosce l’intelletto umano è il suo oggetto, e secondariamente conosce lo stesso atto, mediante il
quale conosce l’oggetto, e mediante l’atto conosce lo stesso intelletto, di cui l’intendere è la perfezione. Perciò dice il
Filosofo, che gli oggetti si conoscono prima degli atti, e gli atti, prima delle potenze” (I, q.87, a.3). Da completare col
tema della “reditio completa”, fondata sulla “fixio” o sussistenza spirituale della mente: cfr. De Verit., q.1, a.9; De
Causis, lc.15…
[33]
Egli deve prima uscire dalla potenzialità, ma per fare ciò ha bisogno di passare all’atto con l’aiuto di una cosa
sensibile. Solo allora si mette in situazione di conoscere se stesso: perché la potenza si conosce dall’atto. Ora, il nostro
intelletto è così potenziale che: né conosce le cose corporali per la sua essenza (cfr. I, q.2: “Utrum anima per essentiam
suam corporalia intelligat”), né conosce se stesso per la propria essenza (cfr. I, q.87, a.1: “Utrum anima intellectiva se
ipsam cognoscat per essentiam suam”). “In tutte le potenze che possono convertirsi sui propri atti, prima bisogna che
l’atto di quella potenza si porti sul suo oggetto, e poi si porti sul suo atto. Se quindi l’intelletto intende d’intendere
(intelligit se intendere), prima, bisogna supporre che intenda qualcosa e poi conseguentemente che intenda d’intendere
(quod intelligat se intelligere): perché lo stesso intendere, intesso dall’intelletto, si porta su qualche oggetto perché lo
stesso intendere, intesso dall’intelletto, si porta su qualche oggetto. Quindi, o bisogna procedere all’infinito o, se si
arriva a un primo oggetto intesso (intellectum), questo non è lo stesso intendere, ma qualche cosa intelligibile”
(Gent., III,26).
[34]
Sulla metodologia tomista, che è contraria a quella di Cartesio, cfr. E. GILSON, Le Réalisme méthodique, Encuentro,
Madrid 1997: “Rien donc n’interdit au réaliste de procéder, par voie d’analyse réflexive, de l’objet donné dans la
connaissance à l’intellect et au sujet qui conaît. Bien au contraire, il n’a pas d’autre méthode à sa disposition pour
s’assurer de l’existence et de la nature du sujet connaissant. Res sunt ergo cognosco, ergo sum res cognoscens” (p.178).
[35]
“Come si dice nel III De Anima, l’intelletto conosce se stesso come le altre cose. Perché conosce la natura del suo
atto, non mediante la propria specie, ma mediante la specie dell’oggetto che diventa la sua forma. E, mediante la natura
dell’atto, conosce la natura della potenza conoscente. E, mediante la natura della potenza, conosce la natura
dell’essenza, e conseguentemente delle altre potenze. E tutto ciò, non formando diverse specie (diversas similitudines)
di ognuna di queste, ma perché nel suo oggetto non solo conosce la ragione del vero, secondo la quale è il suo oggetto,
ma ogni ragione che in esso si trova, e quindi anche la ragione del bene. Conseguentemente, per quella stessa
specie conosce l’atto della volontà e la natura della volontà, e anche similmente le altre potenze dell’anima e i loro atti”
(In III Sent., d.23, q.1, a.2 ad 3). “L’intelletto possibile solo si conosce per la specie sopragiunta (per speciem
superinductam). La nostra mente non intende se stessa apprendendosi immediatamente, ma solo diventa conoscente di
sé, dal fatto che apprende altre cose…. Ciò appare anche considerando come i filosofi investigarono la natura
dell’anima. Dal fatto che l’anima umana conosce le nature universali delle cose, coglie che la specie con cui intende
è immateriale, altrimenti sarebbe individuata e non porterebbe alla conoscenza dell’universale. Dal fatto poi che la
specie intelligibile è immateriale, capirono che l’intelletto è una cosa indipendente dalla materia. E di qua arrivarono a
conoscere le altre proprietà della potenza intellettiva. Questo lo afferma il Filosofo nel III De Anima, quando dice che
l’intelletto è intelligibile come gli altri intelligibili. Ciò lo espone il Commentatore dicendo che l’intelletto s’intende per
l’intenzione che si trova in esso, come gli altri intelligibili. E quest’intenzione non è altro che la specie intelligibile. Ma
quest’intenzione solo nell’intelletto si trova come intelligibile in atto, non così nelle altre cose, dove solo si trova come
intelligibile in potenza”. (De Verit., 10, a.8). “Il nostro intelletto intende se stesso in quanto che diventa in atto mediante
le specie astratte dalle cose sensibili. E ciò lo fa mediante il lume dell’intelletto agente, che è l’atto degli stessi
intelligibili e, mediante questi, dell’intelletto possibile” (I, q.87, a.1). “Mediante le specie intelligibili che diventano in
certo modo forme in quanto che per esse si fa in atto” (De Causis, lc.15, n.313).
[36]
Tommaso ripete in continuità questa verità: “L’intelletto speculativo, poiché prende dalle cose, è in certo modo
mosso da esse, e così le cose lo misurano” (De Verit., q.1, a.2)
[37]
Questa forma che Tommaso col Dionigi vede come una “irradiazione che proviene dalla Prima Claritas” (“forma
autem est quaedam irradiatio proveniens ex prima claritate”: In IV De Div. Nom., lc.6), già anche Aristotele la chiamava
“qualcosa di divino, buono e appetibile”: “tinoj qei/ou kai\ a)gaqou= kai\ e)fetou=” (ARISTOTELE, Physic., I, 9 192a
16-17). Cfr. “Forma est quoddam divinum et optimum et appetibile”: In I Phys., lc.15, n.135; “Quaelibet res naturalis
per suam formam arti divinae conformatur. Unde Philosophus in I Physicae, formam nominat quoddam divinum”: In I
Periherm., lc.3, n.30; “Forma autem est quoddam divinum in rebus, inquantum est quaedam participatio primi actus: In
III De Caelo, lc.2)...
[38]
Per i luoghi parallelli, cf. In I Sent., d.37, q.4 a.1; De Verit., q.8, a.15 ad 3; In IV De Div. Nom., lc.7; In Psal., 26. Per
gli sfondi neoplatonici del tema, cf. PERA, C., “Quoad triplicem motum, circularem, rectum, spiraliformem”, in «In
Librum Beati Dionysii De Divinis Nominibus Expositio», Marietti, Taurini-Romae 1950. pp.123-127.
[39]
Per una comparazione tra i processi della dialettica hegeliana e quella di S. Tommaso, fondata sull’originaria
apprensione di “ens”, cf. C. FABRO, La prima riforma della dialettica hegeliana, Ed. Verbo Incarnato, Roma 2004.
[40]
“Il moto obliquo, composto di uniformità e difformità, si considera nell’anima in quanto che questa riceve le
illuminazioni uniformi di Dio non uniformemente, ma di forma differente secondo il suo modo” (In IV De Div.
Nom., lc.7). Nel De VeritateTommaso esprime lo stesso sotto la prospettiva della moltiplicazione della verità una di Dio
nella mente umana: “Quindi la verità dell’intelletto divino è una sola. Da essa derivano molte verità nell’intelletto
umano, come da una faccia derivano molte somiglianze nello specchio, come dice la Glossa su quel passo: «Le verità
sono diminuite tra i figli degli uomini»” (De Verit., q.1, a.4).
[41]
“Dice [Dionigi] che l’anima si muove obliquamente, in quanto che viene illuminata da conoscenze divine secondo la
sua proprietà. Non certo intellettualmente e singolarmente, cioè semplicemente come gli angeli, ma razionalmente e
diffusamente, cioè discorsivamente e diffondendosi per cose diverse. E ciò lo espone aggiungendo «come con
operazioni commiste», perché in certo modo si mischia con le cose nel diffondersi per conoscere cose diverse; «e
transitive», in riferimento a ciò che aveva detto «razionalmente»: perché è proprio della ragione transitare o discorrere
da una cosa ad altra” (In IV De Div. Nom., lc.7).
[42]
Nel Commento In Boethium De Trinitate, Tommaso descrive i diversi metodi delle tre scienze speculative (Fisica,
Matematica e Metafisica). Essi potrebbero anche analogarsi a questi tre moti, in quanto che la Fisica esce a contemplare
le cose sensibili “rationabiliter”: “perché nel suo processo segue il modo dell’anima razionale nel conoscere, così che il
processo razionale diventa proprio della scienza fisica… In esso, dalla conoscenza di una cosa si arriva alla conoscenza
di un'altra” (In Boeth. De Trin., q.6, a.1, c.1). La Matematica entra a contemplare specie immaginarie e procede
“diciplinabiliter”: “procedere con disciplina si attribuisce alla scienza matematica… così la matematica è media tra la
fisica e la metafisica (inter naturalem et divinam)…” (In Boeth. De Trin., q.6, a.1, c.2). La Metafisica sale a
contemplare le sostanze immateriali e il Principio di esse, e procede “intellectualiter”: “procedere intellettualmente si
attribuisce alla metafisica (divinae scientiae), perché in essa si osserva in grado sommo il modo dell’intelletto. La
ragione differisce dall’intelletto, come la moltitudine dall’unità” (In Boeth. De Trin., q.6, a.1, c.3). E un po’ più avanti
Tommaso stesso fa l’applicazione: “Perciò dice Dionigi nel cap. VII De Divinis Nominibus, che le anime hanno
razionalità, dal fatto che girano attorno alla verità delle cose esistenti in modo diffusivo, e in ciò difettano riguardo agli
angeli. Ma quando riconducono molte cose all’unità, uguagliano in certo modo gli angeli. L’intelletto invece fa
l’opposto: prima considera una verità semplice ed in essa coglie la conoscenza di tutta la moltitudine, come Dio, che
conosce tutto, quando intende la sua essenza. Perciò dice Dionigi, nello stesso luogo, che le menti angeliche hanno
intellettualità, quando intendono uniformemente le cose intelligibili divine” (In Boeth. De Trin., q.6, a.1, c.3).
[43]
“Per arrivare all’uniformità si richiede che l’anima rimuova previamente la sua doppia difformità. Prima, quella che
proviene dalla diversità delle cose esteriori, con l’abbandono delle cose esteriori. [Dionigi] pone questa prima
condizione nel moto circolare dell’anima: l’ingresso dell’anima dall’esterirità verso se stessa. Dopo, bisogna che
rimuova quella seconda difformità, che nasce dal discorso della ragione. Ciò avviene allo stesso modo, riducendo tutte
le operazioni dell’anima verso la semplice contemplazione della verità intelligibile. Questo lo pone come seconda
condizione, dicendo che è necessaria una coinvoluzione uniforme di tutte le potenze intellettive, affinché cessando il
discorso, il suo intuito si fissi nella contemplazione dell’unica e semplice verità” (2-2, q.180, a.6 ad 2).
[44]
Tommaso ricorda anche la dottrina di RICCARDO DI SAN VITTORE (cfr. De Grat. Contempl. I, 6: PL 196, 70) su
i tre atti atti della vita contemplativa: cogitatio, meditatio et contemplatio: “La cogitatio, secondo Riccardo de S.
Vittore, sembra appartenere all’ispezione di molti per ricogliere una verità semplice. Perciò, sotto la cogitazione si
pongono le percezioni dei sensi per conoscere alcuni effetti, le immaginazioni e i discorsi della ragione sui diversi
segni, e tutto ciò che porta alla conoscenza della verità desiderata… La meditatio sembra appartenere al processo della
ragione, che da alcuni principi arriva alla contemplazione di qualche verità… La contemplatio appartiene allo stesso
semplice intuito della verità. Lo stesso Ricardo dice che la contemplazione è l’intuito dell’animo libero e perspicace su
le cose da contemplare; la meditazione è l’intuito dell’animo occupato nell’inquisizione della verità; la cogitazione è lo
sguardo dell’animo propenso alla divagazione” (2-2, q.180, a.3 ad 1). Ricorda anche la dottrina di Riccardo su i sei
gradi della contemplazione, fondati su questo stesso percorso dell’exitus, reditus et ascensus: “Quelle sei cose
designano i gradi per salire (ascenditur) dalle creature alla contemplazione di Dio. Nel primo grado si pone la
percezione degli stessi sensibili; nel secondo, il progresso dal sensibile all’intelligibile; nel terzo, il giudizio del
sensibile mediante l’intelligibile; nel quarto, la considerazione assoluta dell’intelligibile, a cui si arriva mediante il
sensibile; nel quinto, la contemplazione dell’intelligibile, a cui non si può arrivare mediante il sensibile, ma che la
ragione può capire; nel sesto, la considerazione dell’intelligibile, a cui la ragione non può né arrivare né capire, che
appartiene alla contemplazione della sublime verità divina, dove finalmente si completa la contemplazione” (2-2, q.180,
a.4 ad 3).
[45]
“Dice Dionigi che il moto circolare dell’anima si realizza, quando dalle cose esteriori entra in se stessa, e lì dentro si
raggira uniformemente (uniformiter convolvitur), come in un cerchio, con le sue potenze intellettive. Questo volgimento
(convolutio) dirige la potenza dell’anima per non errare. Perché è chiaro che l’anima, quando discorre di uno ad altro
come dall’effetto alla causa, dal simile al simile, o dal contrario al contrario, ragiona in molti modi (multipliciter). Ma
tutto questo ragionare finisce in un giudizio risolutivo nei primi principi (diiudicatur per resolutionem in prima
principia), nei quali non si può errare. L’anima si difende con essi contro l’errore, perché gli stessi primi principi si
conoscono senza discorso, con un intelletto semplice (simplici intellectu). Perciò, questa considerazione dei principi,
dovuto all’uniformità che prende, si dice un volgimento circolare (convolutio circularis)” (In IV De Div. Nom., lc.7).
Questo volo, che richiama verso la Bellezza di Dio, l’anima lo può fare a partire d’ogni cosa. Perché Dio esercita la sua
“pankalia” su ogni cosa («w(j pa/nta pro\j e)auto\ kalou=n, o(/qen kai\ ka/lloj le/getai» [sicut omnia ad seipsum vocans,
unde et cállos dicitur]: DIONYSIUS, De Div. Nom., c.4, § 7; MG 3, 701C), e particolarmente sul nostro intelletto e
volontà, sia mediatamente, dalla sua presenza nell’intimo essere d'ogni cosa, sia immediatamente dalla sua presenza
speciale (ad imaginem) nell’intimo d’ogni anima, che così diventa come dice Tommaso “capax Dei cognoscendo et
amando” (“Sola natura rationalis est capax Dei, cognoscendo et amando”: In Psal., 8, n.4). “Dio è la causa della
consonanza, come chiamando tutto verso se stesso, in quanto che tutto lo converte a se stesso come a fine, ( vocans
omnia ad seipsum, inquantum convertit omnia ad seipsum sicut ad finem). Perció, «bellezza» si dice in greco «callos»,
nome derivato da «chiamare»” (In IV De Div. Nom., lc.5, n.). Su questo richiamo di Dio “Pa/gkaloj”, cf. J.A.
IZQUIERDO, La vita che si apre all’agire. Il potenziale operativo dell’uomo (II), in «Alpha Omega», 8 (2005) pp.381-
387.
[46]
Su questo “divinum silentium”, che in Dio avviene unito alla Pace, cfr. In XI De Div. Nom., lc.2 nn.894-896.
[47]
“Ex anima et corpore unitis constituitur totalitas humanae naturae” (I, q.52, a.3 ad 2). “Hoc nomen homo significat
animam et corpus prout ex eis constituitur humana natura” (III, q.60, a.3 ad 1).
[48]
Tommaso rilancia ancora questa sfida più diretta nel De Unitate Intellectus, c.3 n.63: “Si autem dicas quod
principium huius actus, qui est intelligere, quod nominamus intellectum, non sit forma, oportet te invenire modum quo
actio illius principii sit actio huius hominis”. Lì troviamo anche l’espressione “Hic homo singularis intelligit” (c.3,
n.62). Per la differenza tra “homo” e “hic homo - Socrates”, tra tanti passi, cfr. I, 75, a.4.
[49]
Tommaso stabilisce la principale differenza tra le sostanze separate e l’anima nel carattere di “unibilis et non
unibilis”: “L’anima ha l’essere unibile al corpo per la natura della sua essenza; perciò non è l’anima ad essere messa
nella specie, ma il composto. E il fatto stesso che l’anima ha bisogno del corpo per la sua operazione, dimostra che
l’anima possiede un grado d’intellettualità inferiore all’angelo, che non si unisce al corpo. I, q.75, a.7 ad 3)..”De ratione
animae humanae est quod corpori humano sit unibilis, cum non habeat in se speciem completam; sed speciei
complementum sit in ipso composito” (De Anima, a.3). “Si ergo propter hoc anima humana unibilis est corpori, quia
indiget accipere species intelligibiles a rebus mediante sensu…” (De Anima, a.8).
[50]
“All’anima si deve un modo d’intendere per conversione ai fantasmi dei corpi, che si trovano in organi corporali, in
funzione dello stesso essere con cui si unisce al corpo. Invece, quando sarà separata dal corpo, avrà un modo
d’intendere per conversione alle cose semplicemente intelligibili, come le altre sostanze separate. Quindi il modo
d’intendere per conversione ai fantasmi è naturale all’anima, come l’unirsi al corpo. Ma essere separata dal corpo è oltre
(praeter) la ragione della sua natura, così come intendere senza convertirsi ai fantasmi è oltre (praeter) la sua natura.
Perciò, l’anima si unisce al corpo per essere e per agire (ut sit et operetur) secondo la sua natura” (I, q.89, a.1).
[51]
Sul tema, cf. C. BOYER, Le sens d'un texte de St. Thomas: De Veritate q. I, a. 9, in «Gregorianum» 5 (1924) 424-443.
Ristampato in «Doctor Communis» 31 (1978) 3-19. Nell’articolo possono anche trovarsi altri passi rilevanti e completivi
dove Tommaso sviluppa questo tema.
[52]
Un senso può ritornare su un altro. E così il senso comune ritorna su tutte le azioni dei sensi esterni, percependo il
loro agire (“Percipit ipsas immutationes sensuum... Sensu enim communi percipimus nos vivere…”: In II De Anima,
lc.13, n.390; “Actus sensus proprii percipitur per sensum communem”: I, q.87, a.3 ad 3…). Ma il senso comune,
lavorando anche con organi materiali, non può ritornare perfettamente su se stesso. Il potere conoscitivo del senso
rimane sempre strutturalmente diffuso sulla materia estesa del suo organo, che pone in atto “parti fuori delle parti”.
Perciò, l’operazione fatta con un tale strumento, non diventa mai totalmente identica o concentrata su se stessa, ma
comporta sempre una certa diffusione strutturale, che ritiene sempre un qualcosa del moto fisico, che percorre
un’estensione e si misura con un tempo, in cui l’inizio non coincide più col finale. Tommaso direbbe che il senso lavora
sempre “in condizioni di materialità”. Perciò il senso non sviluppa né conoscenza universale, né
conoscenza autoriflessiva. “Sensus indiget organo ad hoc ut agat; organum autem non redit supra se, unde non est
reflexio in sensu” (De Natura Verbi, c.2).
[53]
L’intelletto, che possiede “reditio completa” è capace nell’azione giudiziale di vedere non solo la cosa ma di vedere
anche se stesso combaciante nel suo dire mentale con la cosa. O più in universale: è capace di conoscere la verità
dell’ente in tutta la sua estensione, perché durante la sua azione giudiziale, è capace di vedere simultaneamente: l’ente
intelligibile, la sua propria essenza, e l’adeguazione in atto nella quale si trova nel suo rapportarsi all’ente. Un ritorno
insomma che consente insieme di conoscere in atto: qualcosa sulla natura della cosa (aliquid quod natum est adaequari
intellectui), qualcosa sulla natura dell’intelletto (aliquid quod natum est convenire cum omni ente, e qualcosa sulla
natura dell’attività (relazione veritativa di “adaequatio”: cfr. De Verit., q.1, a.1).
[54]
“Intelligentiae fixio et essentia est per bonitatem puram, quia scilicet intelligentia ex prima bonitate habet esse fixum,
id est immobiliter permanens” (De Causis, lc.9). La parola fixio è difficile di tradurre. In questo caso essa significa il
carattere di “stabilità, inalterabilità, saldezza” che la sostanza spirituale possiede nella propria essenza, che non essendo
composta ma semplice, ha la forma pura senza mischia di materia, e apre la sua essenza (conoscitiva e volitiva)
direttamene all’essere (“forma et esse”): “Esse autem secundum se competit formae, unumquodque enim est ens actu
secundum quod habet formam” (I, q.50, a.5). Così la forma diventa autoconversiva, soggetto di se stessa, raccolta su se
stessa (autypostaton, sussistente). In questo raccoglimento sostanziale, essendo forma pura, essa vede se stessa
(possiede sempre la conoscenza della propria essenza) e dispone di se stessa per il proprio agire. Inoltre, non avendo in
sé la potenza della materia per altre forme, si sottrae totalmente al mondo della generazione e della corruzione. Essa è:
“fixa stans non super aliud delatam” (De Causis lc. 19). Sul tema, cfr. J.R. MÉNDEZ, El aporte del Liber de Causis en
la noción tomista de alma, in «L’anima nell’antropologia di S. Tommaso d’Aquino», Massimo, Milano 1987, pp.95-113.
[55]
L’anima umana non è alla pari delle altre forme fisiche, completamene immersa nella potenza della materia. Al
contrario, essa emerge su tutta la potenza della materia col suo essere e col suo agire: “Anima rationalis non habet esse
suum dependens a materia corporali, sed habet esse subsistens, et excedit capacitatem materiae” (I, q.90, a.2 ad 2). Con
quella formula breve di Tommaso: “Anima rationalis et anima est et spiritus” (I, q.97, a.3). Ciò consente a Tommaso di
adoperare quelle formule antropologiche paradossali, che descrivono l’anima insieme come immersa nella materia e
come separata: “Come dice il Filosofo nel II della Fisica, l’ultima delle forme naturali, in cui culmina la considerazione
del filosofo fisico, cioè l’anima umana, è certamente separata, e non di meno nella materia… Separata, secondo la
potenza intellettiva, perché la potenza intellettiva non è potenza di nessun organo… Ma è nella materia, in quanto che
la stessa anima, che possiede questa potenza, è la forma del corpo e il termine della generazione umana. Anche il
Filosofo dice nel III dell’Anima che l’intelletto è separato, perché non è potenza di nessun organo” (I, q.76, a.1 ad 1).
[56]
Se si mettono i “praecognita”, come già conosciuti prima dell’atto (o degli atti secondi), bisognerà anche spiegare
perché anche si dice che l’intelletto possibile, che è la facoltà con cui l’uomo formalmente intende (“Intellectus ergo
possibilis est, quo hic homo, formaliter loquendo, intelligit”: In III De Anima, lc.7), si trovi in un inizio a vuoto d’idee o
in potenza per tutte le forme: “tamquam tabula rasa” (“Est in potentia respectu intelligibilium, et in principio est sicut
tabula rasa in qua nihil est scriptum, ut Philosophus dicit in III De Anima”: I, q.79, a.2), e “ sicut materia prima” (“Il
nostro intelletto possibile, si trova nell’ordine degli intelligibili, come la materia prima nell’ordine delle cose naturali,
giacché si trova in potenza per gli intelligibili come la materia prima per le cose naturali. Perciò il nostro intelletto
possibile non può avere l’operazione intelligibile se non viene perfezionato per la specie intelligibile di qualcosa. E così
intende se stesso per la specie intelligibile, come le altre cose. Perché è manifesto che dal fatto che conosce un
intelligibile, intende il suo intendere, e per l’atto conosce la potenza intellettiva”: I, q.14, a.2 ad 3). E se si dice che
l’intelletto agente, essendo una potenza attiva, basta da solo per metterci nello stato di quella preconoscenza previa
all’atto secondo, allora non si capisce bene chi dei due intelletti intenda e perché la conoscenza dell’anima non avvenga
già “per essentiam et potentiam suam”, trovandosi già in essa qualcosa di “intelligente e di intelligibile in atto” previa
all’atto secondo…
[57]
Ciò lo riflette anche Tomaso nell’ordine con cui, “ab actu”, contempla la fenomenologia o l’appresentarsi degli stessi
trascendentali davanti al nostro intelletto: “Qualcosa viene prima, secondo la ragione, se cade per prima nell’intelletto.
Ora, l’intelletto per prima apprende lo stesso ente; in secondo luogo apprende che egli intende l’ente, e in terzo
luogo apprende che egli appetisce l’ente. Quindi, prima è la ragione di ente, seconda la ragione di vero, e terza la
ragione di bene” (I, q.16, a.4 ad 2). E per ciò che riguarda la precedenza della conoscenza di cose sulla conoscenza delle
specie delle cose, dice Tommaso: “Poiché l’intelletto riflette su se stesso, con la stessa riflessione intende se stesso e la
specie con cui intende. Così la specie intellettiva diventa secondariamente ciò che s’intende. Ma ciò che s’intende per
prima è la cosa, di cui la specie intelligibile è una somiglianza” (I, q.85, a.2). Sul tema dei “praecognita” cf. F.
CANALS VIDAL, Sobre la esencia del conocimiento, PPU, Barcelona 1987, pp.41-82. Forse l’autore inclina un po’
Tommaso verso Agostino, quando in questo punto Tommaso sembra di equilibrarsi di più su Aristotele.
[58]
Cf. M. DE UNAMUNO, ¡Adentro!, in «Obras completas», Plenitud, Madrid 1965, p.189.
[59]
La difficoltà sorge anche dal fatto che, come dice Tommaso, nella via genertionis et temporis, gli atti secondi della
vita vegetativa e sensitiva sembrano precedere quelli della vita intellettiva: “imperfectiores potentiae sunt priores in via
generationis” (I, q.77, a.7).
[60]
Ciò originò quell’interpretazione di Averroè che separava l’intelletto totalmente della corporeità con cui solo già si
continuava per un “contactum virtutis”, dove una specie di “Io Trascendentale” (Intelletto Separato) agganciava e
attivava le sue idee intelligibili nelle sinapsi immaginative (nei fantasmi) delle varie psicologie umane, ridotte
all’animalità. Ciò distruggeva l’uomo, colpendolo nella struttura stessa dell’unione “sostanziale” tra lo spirito e il corpo,
declinandola verso un’unione “accidentale” di tipo platonizzante, dove un’anima sepata adopera tanti corpi (“anima
utens corpore”). Cfr. I, q, 76, a.1, De Unitate Intellectus…
[61]
“La materia limita la forma a un individuo. È evidente perciò che la conoscenza ha un carattere opposto a quello della
materialità. Gli enti che ricevono le forme solo materialnente sono privi di conoscenza, quali le piante… Invece quanto più
immaterialmente un essere possiede la forma della cosa conosciuta, tanto più perfetta è la sua cognizione. Quindi
l'intelletto, che astrae le specie non soltanto dalla materia, ma anche dalle condizioni mate riali individuanti, conosce in
modo più perfetto del senso, il quale riceve la forma della cosa conosciuta senza la materia, ma non senza le condizioni
materiali. Tra i sensi stessi la vista è dotata di maggiore conoscenza, perchè meno materiale. Parimenti, tra le diverse
intelligenze tanto più una è perfetta, quanto più è immateriale” (I, q.84, a.2).
[62]
Nascono così due scale: quella che sale secondo la nobiltà dei soggetti conoscenti (sensi, ragione, intelligenze, Dio),
e quella che sale secondo la nobiltà degli intelligibili, che va dall’ente semplicemente in potenza (materia prima), fino
all’ente totalmente Atto (Dio). Secondo queste scale un ente sarà conoscente nella misura che supera quel grado di
materialità che consente di accogliere le forme altrui e di avere la propria forma autoconoscitiva della propria essenza. E
un ente sarà intelligibile nella misura che possiede atto di essere (Eadem est dispositio rerum in esse et veritate”: I, q.16,
a.3 sc.). Oltre queste scale oggettive, bisognerà anche considerare quell’altra scala dell’intelligibile “riguardo a noi”
(nobis, quoad nos). In questa scala non tutto si presenta uniformemente intelligibile davanti al nostro debole intelletto
razionale-ratio: alcune cose per eccesso di potenzialità che le rende oscure; altre per eccesso d’attualità che le rende
troppo luminose. Su questo tema, cfr. In II Met., lc.1.
[63]
Nello stesso passo, Aristotele raccomanda “di fare tutto e di vivere secondo ciò che è ottimo nell’uomo. Perché
quanto più piccola e la mole dell’intelletto, più supereccede tutte le cose in potenza e in preziosità”
(ARISTOTELE, Ethic. Nic., X, 7, 1178a 1-3). Si veda anche la lunga teoria di argomenti che Tommaso accumula
nel Contra Gentes III,50, per mostrare che “la conoscenza di Dio è il fine ultimo di tutte le sotanze intelletive”.
[64]
“Secondo l’apparenza, il principale nell’uomo è ciò che è esterno, cioè il corpo così figurato, chiamato uomo
esteriore (homo exterior). Ma in verità, il principale è ciò che è intrinseco, cioè la mente e la ragione, che qui si dice
uomo interiore (homo interior)” (In Rom., 7, lc.4).
[65]
Essa è una specie di sottomissione antinaturale del padrone al servo. Perché sebbene la sensibilità conservi un suo
moto autonomo, che consente dire che la sensibilità si sottomette all’intelletto e alla volontà con un dominio politico o
regale e non semplicemente dispotico, l’intelletto, in ogni caso, rimane il signore e la sensibilità, il servo (cf. I, q.81, a.3
ad 2). Infatti, la conoscenza umana nasce dal senso, che, introducendo una forma sensibile, fa scattare un appetito
sensitivo (concupiscibile o irascibile) verso essa. Nel composto umano quest’inizio sensitivo è naturalmente ordinato ad
aiutare l’attività intellettiva. Ma può anche fermarsi nel conoscere e nel desiderare la sola realtà sensibile, slegandosi dal
suo orientamento razionale. Quando questo succede, la funzione ausiliare del senso, sganciato dalla ragione, rimane una
forza irrazionale autonoma, che trascina l’uomo verso il bene del senso. L’attrazione del senso, che presenta beni
concreti, facili, immediati e di piacere inteso, s’innalza allora minacciosa sul bene della ragione, incapace di trascinare,
e che non di meno continua ad essere il bene dell’uomo in quanto uomo. Abbiamo così la vittoria della passione sulla
ragione e sulla volontà (cf. 1-2, q.9 a.2; 1-2, q.10, a.3; 1-2, q.24…).
[66]
Nella I, q.78, a.1, Tommaso osserva questa differenza principale in quei tre modi specifici di esercitare la vita e le
operazioni vitali: la vita vegetativa concentra il suo agire attorno al proprio corpo; la vita sensitiva apre il suo agire ad
un rapporto con tutti i corpi, la vita intellettiva si spalanca, aldilà del mondo dei corpi, su tutto l’essere. Ciò comporta
quella dottrina risolutiva, vissuta in un modo zetetico, che, nell’autoconversività dell’agire intellettivo, ha trovato un
assaggio della differenza tra l’essere fisico e l’essere spirituale, ed è salito o sta salendo, da questa conoscenza
dell’anima alla ricerca delle Cause dell’essere delle cose e dell’ essere dell’anima. Ciò conferma “quel dire dei filosofi:
che la scienza dell’anima diventa un certo principio per conoscere le sostanze separate” (I, q.88, a.1 ad1).
[67]
Non c'è bisogno di aspettare Kant per capire la debolezza metafisica dell’intelletto umano. Già Aristotele e Tommaso
nel suo Commento alla Metafisica, osservano che la metafisica è una scienza propria di Dio, che all’uomo “non
competit ut possesio”, ma al modo di una minima “participatio”: “Talem scientiam, aut solus Deus habet, aut si non
solus, ipse tamen maxime habet” (In I Met., lc.3.cf.). Ma non di meno essi difendono contro Kant questa “conoscenza
diminutiva”, capace di provocare in noi una qualche “sapienza”, che è scienza delle cause dell’essere e quindi del
“propter quid”. Una scienza diversa della fisica, che, presupponendo e astraendo dall’essere, si concentra sulle cause
dell’essenza corporea, e quindi diventa una scienza solo del “quia”: del “così è fatto”, ma non del “perché”. Perciò:
“quel poco che di queste Cause Prime riusciamo a sapere, è più amabile e nobile, di tutto ciò che possiamo conoscere
sulle cose inferiori” (De Causis, prol.; cfc. Gent., I, 5). Così come non c’era bisogno di aspettare Sesto Empirico per
capire la debolezza e deficienza della ragione umana “zetetica”. E non di meno bisogna difendere contro Sesto la
capacità diminutiva di quest’intelletto per fare la verità nel modo umano della “ad-aequatio”, senza che perciò
raggiunga la gloria divina della “comprensio”.
[68]
“In confinio corporum et incorporearum substantiarum, quasi in horizonte existens aeternitatis et temporis, recedens
ab infimo, appropinquat ad summum” (Gent., II,80). L’anima quindi, benché immersa nella corporeità, nel mondo, nella
cultura, ecc., mantiene sempre la sua trascendenza, con cui emergere sopramondana, soprastorica,
transculturale, metaermeneutica…“L’anima ha un essere superiore, cioè sopra il moto e il tempo… L’anima, secondo
la sua sostanza, supera il tempo e il moto, e tocca l’eternità; benché, secondo la sua operazione, tocca il moto… Perciò
dice Proclo nella proposizione 191: «Ogni anima partecipabile, possiede una sostanza eternale, ma una operazione
temporale»” (De Causis, lc.2).
[69]
“Ratio inferior regit vires sensibiles”: In II Sent., d.24, q.3, a.4 ad 1). Forse già dalla stessa etimologia di
“a)/nqrwpoj” si può dire con Platone che l’uomo, a differenza dell’animale che solo vede senza considerare, è colui che
ciò che vede lo considera verso l’alto: “a)naqrw=n a(/ o)/pwph” (PLATONE, Cratilo 399C). Anche Tommaso
considera la stessa “statura eretta” dell’uomo, in contrapposizione alla posizione prona dell’animale, come un simbolo
della sua elevazione naturale verso la bellezza: “mentre gli altri animali solo trovano piacere nei sensibili per ordine al
cibo e al venereo, solo l’uomo trova un piacere nella stessa bellezza delle cose sensibili per se stessa … Perché l’uomo
tiene la sua parte superiore, cioè la testa, volta verso la parte superiore del mondo” (I, q.91, a.3 ad 1).
[70]
Essi arrivano a ragionare così : “Coloro che hanno un simile principio e un simile processo, sembrano avere anche
un simile fine. Ora, è simile il principio della generazione dell’uomo e del giumento, perché sono fatti dalla terra; ed è
simile il loro processo vitale, perché tutto spira similmente e l’uomo non possiede più di un bestia da soma, come si dice
nel Ecclesiaste. Quindi, come anche conclude l’Ecclesiate: «è la stessa la fine dell’uomo e del giumento, ed uguale la
loro condizione». Ora, l’anima degli animali brutti è corruttibile. Quindi anche l’anima dell’uomo è corruttibile” (I,
q.75, a.6, ob 1 et ad 1; cfr. Gent., II,79).
[71]
Il cibo e il coito sintetizzano per Aristotele e Tommaso quei piaceri del tatto (anche il gusto è una specie di tatto),
che resta sempre il senso più materiale e grossolano. Nell’animale si osserva una specie di descensus naturale verso il
piacere del tatto, a cui sottomette il piacere estetico procurato dai sensi conoscitivi superiori come l’udito e la vista.
Tommaso, che in ciò non ha niente di cataro, vede perfino una specie di strategia divina, e dice che Dio ha voluto legare
a questi due sensi il massimo piacere, affinché l’animale non dimentichi di mangiare, per continuare la vita, e di
accoppiarsi, per continuare la specie (cfr. 2-2, q.141). Ora, l’uomo non è solo un animale. Anzi, solo nell’uomo si
osserva uno speciale diletto nel piacere di ciascun senso e un ascensus naturale verso i piaceri estetici, ricercati per se
stessi (cfr. 2-2, q.141, a.4 ad 3…). Ciò pone l’uomo, che, “per natura desidera sapere” (“Pa/ntej a)/nqrwpoi tou=
ei)de/nai o)re/gontai fu/sei”: ARISTOTELE, Metafisica A, 980a 20), sulla strada di una tal elevazione che partendo dal
“tatto” può arrivare fino alla “sapienza”. Su questo importante tema, che tocca nel cuore la possibilità stessa
dell’ascensus dell’uomo, si veda la profonda meditazione di Tommaso, nel suo Commento alla Metafisica di Aristotele,
lezione 1ª.
[72]
Tommaso prende da Aristotele l'espressione "camaleonte" per descrivere la situazione dell'uomo viatore, che tende
ancora alla felicità in modo instabile: "felicem ad modum camaleontis" (In I Ethic., lc.15 n.10; cf. Sermo 12 p.2). PICO
DELLA MIRANDOLA, considerando la variabilità plastica della natura umana sotto la libertà, l’applica alla stessa
animalità.
[73]
Tommaso dirà anche con Aristotele che la ragione universale e le mani “quae sunt organa organorum”, aprono
l’animalità umana, che negli altri animali rimane ridotta e determinata, ad un’infinità di azioni, corroborate dalle arti
pratiche. Sotto quest’aspetto si può dire che l’uomo è “ragione e mani” (cfr. I, q.76, a.5 ad 4; q.91, a.3 ad 2…)..
[74]
Sull’eminenza e l’ordine architettonico e vitale della sapienza e sui vari offici del sapiens, cf. In I Met., lc.1; In VI
Ethic., lc.5., Sul dono speciale della sapienza, opposta alla stultizia, cf. 2-2, qq.45-46.
[75]
“Avere un giudizio retto sulle cose divine, a partire di una ricerca razionale, appartiene alla sapienza, in quanto è una
virtù intellettiva. Ma avere un giudizio retto su di esse, secondo una certa connaturalità, appartiene alla sapienza, in
quanto è un dono dello Spirito Santo, come dice Dionigi nel cap. II De Div. Nom, che Ieroteo è perfetto nelle cose
divine, non solo imparandole ma anche patendole” (2-2, q.45, a.2). “Succede che qualcuno giudica in un modo per una
certa inclinazione, come chi possiede l’abito della virtù giudica rettamente su ciò che si deve fare secondo la virtù,
perché viene inclinato a questo, come si dice nel X dell’Etica, che il virtuoso e la misura e la regola degli atti umani…
Questo primo modo di giudicare sulle cose divine appartiene alla sapienza, che si pone tra i doni dello Spirito Santo,
come si dice nella Prima ai Corinzi, c.2: «L’uomo spirituale giudica tutto, etc.»; e Dionigi dice nel cap. II De Divinis
Nominibus, che Ieroteo è dotto non solo imparando ma anche patendo il divino” (I, q.1 a.6 ad 3; cfr. In II De Div. Nom.,
lc.4).
[76]
Questo modo mistico di fare filosofia sapienziale, lo troviamo molto sviluppato nel Medioevo: è il modo proprio di
Agostino, di Anselmo, di Bonaventura e dello stesso Tommaso. Le cui opere sono intrecciate di preghiera o fatte in un
clima di continua preghiera. La biografia di Tommaso traspira quest’aria di preghiera in cui nascono e crescono le sue
opere. Di ciò danno fede non solo le “Piae Preces” (“Adoro te devote”) e le composizioni liturgiche, dove perfino
s’improvvisa poeta ( “Pange lingua”, “Lauda Sion”…), ma tanti episodi della sua vita, come quando da piccolo si
domanda “Chi è Dio?”, quando trova nella preghiera il tema della Inceptio; quando si scusa col suo segretario:
“Reginaldo non posso”; quando cerca un luogo religioso per morire…
[77]
“L’ascesa (ascensus) dell’intelletto a Dio è duplice. Una, che sale a Dio per conoscerlo, e quest’ascesa appartiene al
dono dell’intelletto, ma da questa non parla il Damasceno. L’altra è l'ascesa a Dio per chiedere il suo ausilio, come dice
il Salmo 122,1: «Ad te levavi oculos meos qui habitas in caelis», e questa ascesa è la preghiera” (In IV Sent, d.15 q.4,
a.1b ad 2). Lo stesso Tommaso, molto umanamente, commenta così la distrazione della mente orante: “La mente
umana, per la debolezza della natura, non può dimorare molto tempo nell’alto, perché il peso dell’infermità umana
deprime l’anima verso il basso. Perciò succede che quando la mente dell’orante sale a Dio per contemplarlo, subito
divaga per una specie di fiacchezza” (2-2, q.83, a.13 ad 2) “Il fine di questa Scrittura è la preghiera, che è l’elevazione
della mente a Dio, come dice Damasceno: «oratio est ascensus intellectus in Deum», e il Salmo 148: «Elevatio manuum
mearum sacrificium vespertinum». Ora, l’anima si eleva a Dio di quattro modi. Prima per ammirare l’altezza della sua
pietà, come dice Iasia 40: «Levate in excelsum oculos vestros, et videte quis creavit haec», e il Salmo 103: «Quam
mirabilia sunt opera tua Domine». E questa è l’elevazione della fede. Secondo, la mente si eleva per tendere
nell’eccellenza della felicità eterna, come dice Giobbe 2: «: levare poteris faciem tuam absque macula, eris stabilis et
non timebis: miseriae quoque oblivisceris, et quasi fulgor meridianus consurget tibi». E questa è l’elevazione della
speranza. Terzo, la mente si eleva per inserirsi nella bontà e santità divina, come dice Iasia 51: «Elevare, consurge
Hierusalem etc.». E questa è l’elevazione della carità. Quarto, la mente si eleva per imitare la giustizia divina nelle
opere, come dicono le Lamentazioni: «Levemus corda nostra cum manibus ad Deum in caelos». E questa è
l’elevazione della giustizia” (In Psal. Prooem.).
[78]
Infatti, l’effetto del peccato originale è visto da Tommaso come questo colpo terribile sulla stessa natura umana, che
colpisce tutti gli uomini, per sganciarla dalla sua naturale adesione a Dio: “Solo il peccato originale introdusse un
difetto attinente alla natura, rimuovendo l’adesione dell’uomo a Dio. Poiché l’uomo aderiva continuamente a Dio,
possedeva il potere di contenere costantemente le potenze inferiori sotto l’obbedienza della ragione, e il corpo sotto
l’obbedienza dell’anima, perché la ragione restava continuamente sottomessa al suo superiore. Ma, una volta interrotta
la prima obbedienza, quando la ragione del primo uomo si staccò da Dio per il peccato, seguì il disturbo dell’ordine
nelle facoltà inferiori alla ragione, e quello del corpo riguardo all’anima” (In II Sent., d.33, q.1, a.1).
Percio: “Come dice il Filosofo, il male accade nel maggiore dei casi, il bene nel minore… Il Filosofo parla riferendosi
agli uomini, nei quali il male accade perché si seguono beni sensibili, che sono conosciuti da più individui, una volta
abbandonato il bene della ragione, che è conosciuto da meno individui” ( I, q.63, a.9, ob 1 et ad 1; cfr. De Malo, q.1, a.3
ad 17). “Gli stolti sono una moltitudine; come dice l’Ecclesiate I, 15: «Stultorum infinitus est numerus». E quelli erano
veramente stolti, perché contraddicevano alla sapienza” (In Matth., 26, lc.6).
[79]
“Quanto alla rimozione della privazione si dà la purificazione (purgatio); quanto all’influenza del lume si dà
l’illuminazione (illuminatio), e quanto alla conoscenza derivante, a cui tende il lume come a fine ultimo, si dà la
perfezione (perfectio)” (In II Sent., d.9, a.2).
[80]
“Un segno di ciò appare anche nei giovani. Quando s’impedisce all’anima di occuparsi sul proprio corpo, diventa più
abile per intendere qualcosa di più alto. Perciò la virtù della temperanza, che distoglie l’anima dai piaceri corporali,
rende gli uomini specialmente abili per intendere” (Gent., II, 80). Sulla veemenza di questa lotta e sul modo concreto
come la gola e la lussuria distolgono l’uomo della contemplazione, dice Tommaso: “I vizi carnali, cioè la gola e la
lussuria, consistono nei piaceri del tatto, cioè dei cibi e del venereo, che tra tutti i piaceri corporali sono i più violenti.
Quindi questi vizi concentrano tutta l’attenzione dell’uomo sulle cose corporali, e conseguentemente debilitano
l’operazione umana per le cose intelligibili; e più la lussuria che la gola, perché i piaceri venerei sono più intensi di
quelli del cibo. Perciò dalla lussuria nasce la cecità della mente, che esclude quasi completamente la conoscenza dei
beni spirituali; dalla gola l’ottusità (hebetudo) dei sensi, che rende l’uomo debole per le cose intelligibili. E
contrariamente, le virtù opposte dell’astinenza e della castità, dispongono l’uomo massimamente per una perfetta
operazione intellettuale” (2-2, q.15, a.3).
[81]
A questo riguardo si potrebbe anche leggere quella distinzione linguistica che Tommaso stabilisce tra la semplice
“locutio”, che indica un modo superficiale di parlare, con fondamento ultimo nella psicologia di chi parla, e la
“illuminatio”, che indica un modo più profondo di comunicazione, fondato sulla stessa verità delle cose, regolate a sua
volta dalla Prima Veritas: “Poiché la verità e la luce dell’intelletto, e Dio è la regola di ogni verità, la manifestazione di
ciò che la mente concepisce, in quanto dipendente dalla Prima Verità, è insieme una locuzione (locutio) e una
illuminazione (illuminatio)… Invece, la manifestazione di ciò che dipende dalla volontà dell’intelligente, non può dirsi
un’illuminazione (illuminatio) ma solo una locuzione (locutio)… Perché non appartiene alla perfezione del mio
intelletto sapere ciò che tu vuoi o tu intendi, ma solo sapere quale è la verità delle cose” (I, q.107, a.2).
[82]
IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Epistula ad Romanos, 6,2.

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