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Siegmund Ginzberg

Sindrome 1933

02/04/19
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione in “Varia” maggio 2019

© 2019 by Siegmund Ginzberg


Published by arrangement with Agenzia Santachiara

Stampa Grafica Veneta S.p.A. di Trebaseleghe - PD

ISBN 978-88-07-49257-0

www.feltrinellieditore.it
Libri in uscita, interviste, reading,
commenti e percorsi di lettura.
Aggiornamenti quotidiani razzismobruttastoria.net

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Sindrome 1933

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1.
Cose già viste nel ’33

Un contratto di governo tra due partiti che si erano


insultati sino al giorno prima. Mediato da uno che si
credeva più furbo degli altri. Hitler raggiante al bal-
cone. I socialdemocratici minimizzano: “Hitler non è
Mussolini, la Germania non è l’Italia”, “durerà poco”.
I comunisti aspettano la rivoluzione. Sino a poco prima
la sinistra litigava sulla chiusura o meno dei negozi
alla vigilia di Natale.

L’anno si presentava banale. I partiti litigavano come al


solito. Sulle solite cose. Nessuno aveva la maggioranza. Pro-
seguivano frenetiche le consultazioni. Tra polemiche, veti in-
crociati, incontri segreti e manovre sottobanco. Fino al gior-
no prima, anzi fino a qualche minuto prima, nessuno avrebbe
scommesso che l’anziano presidente della Repubblica stava
per nominare cancelliere Adolf Hitler. Sia pure alla testa
di un governo di compromesso, tra partiti che sino a poco
pri- ma erano ai ferri corti, si insultavano a vicenda.
La convergenza tra il vecchio centro-destra del magnate
dei media Alfred Hugenberg e il nuovo aggressivo populismo
dei nazionalsocialisti di Hitler era nell’aria da tempo. In effet-
ti avevano già provato a mettersi d’accordo. Ma non ci erano
riusciti. Il centro-destra aveva troppi galli nel pollaio, indu-
striali ed élite non si fidavano dei nuovi populisti. Sembrava
che quel matrimonio non s’avesse da fare. E invece…

Contratto di governo con mediatore

Il 30 gennaio 1933 era un lunedì. Freddo ma asciutto.


Al mattino ancora non si sapeva come sarebbe andata a
finire. A

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un certo punto era corsa voce che le trattative per il nuovo
governo si erano rotte, e che Hitler era già ripartito per
Mo- naco. L’ambasciatore britannico aveva già informato il
suo governo che il presidente si apprestava a dare l’incarico
un’al- tra volta a von Papen. In effetti le trattative
proseguivano in modo concitato.
Fra le 9 e le 10 i due massimi esponenti dello Stahlhelm
(gli Elmetti d’acciaio, la potente associazione
ultranazionalista e conservatrice degli ex combattenti),
Theodor Dü sterberg e Franz Seldte, si recarono
nell’appartamento di Papen al mi- nistero degli Interni.
Papen cercò di convincerli a entrare in un governo di
coalizione presieduto da Hitler. Gli disse agi- tato: “Se per
le 11 non sarà insediato il nuovo gabinetto, in- terverrà
l’esercito. C’è la minaccia di una dittatura militare sotto
Schleicher”. Più tardi arrivarono anche Hitler e Gö ring.
Dü sterberg non li salutò nemmeno. Non perdonava il modo
in cui la stampa nazista durante le Presidenziali del 1932 lo
aveva attaccato dandogli dell’“ebreo” (ebreo in ef- fetti era
per parte di uno dei suoi nonni, che poi si era fatto
battezzare, ma questo fino a quel momento Dü sterberg
neanche lo sapeva). Hitler gli si avvicinò e gli giurò di non
aver mai autorizzato, tanto meno ordinato, quegli attacchi
personali. Disarmato dal gesto, Dü sterberg lasciò cadere le
obiezioni alla partecipazione di un rappresentante dello
Stahlhelm al governo. A ministero donato non si guarda in
bocca. Seldte accettò con entusiasmo il ministero del Lavoro.
Continuarono a trattare nervosamente nell’anticamera
del presidente della Repubblica, dove erano stati convocati
per le 11. Hitler faceva promesse, dava rassicurazioni a tutti.
Il conte Schwerin von Krosigk, un tecnico che aveva già ser-
vito nei precedenti governi, era stato chiamato, ma non sape-
va ancora perché. Solo all’ultimo istante gli dissero che lo
volevano ministro delle Finanze. Pose una sola condizione,
che gli consentissero di tenere i bilanci in ordine, non gli fa-
cessero sforare il deficit. Lo rassicurarono, sapendo di men-
tire. Hugenberg, il leader dei nazionalpopulisti, nonché pa-
drone di metà della stampa, aveva fatto man bassa di

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ministeri. Ma minacciò di mandare tutto a monte appena
qualche minuto prima del previsto giuramento: non gli ave-
vano detto che Hitler aveva già deciso di convocare subito
nuove elezioni politiche. Temeva, a ragione, che in tal caso il
suo Partito nazionale del popolo tedesco finisse asfaltato.
Hitler dette la sua parola d’onore che, qualunque fosse stato
il risultato delle elezioni, la composizione del governo sareb-
be rimasta invariata. Hugenberg restava sulle sue: niente ele-
zioni anticipate. “Come puoi dubitare della parola d’onore
di un tedesco?” intervenne Papen. Hitler mentiva. Papen
mediava, blandiva, e mentiva anche lui. Il battibecco cessò
solo quando il capogabinetto della Presidenza della Repub-
blica, Otto Meißner, entrò con l’orologio in mano a dire
che non si poteva più far attendere il Presidente. A prestare
giu- ramento a mezzogiorno fu Hitler. Aveva quarantatré
anni.
È contro ogni regola anticipare prima del dovuto come
va a finire una storia, chi sono i colpevoli, che fine fanno i
personaggi principali. Ma non resisto a dirvelo subito, qui, a
costo di fare lo spoiler, rovinare la suspense. Dei contraenti
originali del “contratto” di governo ne sopravvisse uno solo,
fagocitando l’altro. La partecipazione di Hugenberg al go-
verno sarebbe durata meno di sei mesi, da gennaio a giugno.
Il suo Partito nazionale del popolo tedesco si sarebbe di-
sciolto nel Partito nazionalsocialista. Alla fine gli avrebbero
portato via anche i giornali. Ma conservò il seggio e l’inden-
nità da deputato fino al 1945. “Ho fatto la più grossa
stupi- daggine della mia vita. Mi sono alleato col peggior
demago- go della storia…”, è l’affermazione che gli viene
attribuita. Forse è apocrifa, forse lui non lo disse o non lo
disse con queste parole. Di certo è veritiera.
Il leader dei “nazionalisti con l’elmetto”, Dü sterberg, sa-
rebbe sopravvissuto per un pelo alla resa dei conti della
“Notte dei lunghi coltelli” nel 1934. Poi sarebbe finito in
campo di concentramento per aver criticato il governo. Ave-
va pure la colpa di essere mezzo ebreo. Seldte, passato anima
e corpo ai nazisti, sarebbe rimasto ministro del Lavoro fino
alla fine del Terzo Reich.
Papen, l’apprendista stregone che aveva fatto Hitler can-

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celliere pensando di metterlo nel sacco, scampò anche lui di
misura alla “Notte dei lunghi coltelli”. Si era messo di traver-
so a Hitler con il discorso del giugno 1934 all’Università
di Marburgo in cui condannava “il falso culto della
personali- tà ”, il “fanatismo dei fanatici dottrinari”,
l’intolleranza a qualsiasi critica. I suoi principali
collaboratori, a cominciare da Edgar Jung, che aveva scritto
il discorso di Marburgo, ci avrebbero rimesso la pelle. Lui
invece riuscì a farsi perdona- re e a sopravvivere. Ebbe un
incontro chiarificatore con Hit- ler, di quelli del tipo “una
telefonata ti salva la vita”, e fu perdonato. Forse perché il
cancelliere non voleva provocare il presidente della
Repubblica. Hindenburg era vecchio e malato, ma aveva
autorità sull’esercito. Correva ancora una volta voce che
avrebbe dichiarato la legge marziale se Hitler non avesse
messo freno alle violenze delle SA. Hitler fece ammazzare
il leader delle SA, Rö hm, e l’intero suo stato maggiore,
risparmiò Papen. Papen, dimesso dal governo, continuò a
servirlo in ginocchio da diplomatico. Firmò , as- sieme al
cardinale Pacelli, il Concordato tra la Germania na- zista e il
Vaticano di Pio XI, in pratica l’atto di decesso del Zentrum
cattolico. Fu ambasciatore a Vienna a preparare
l’Anschluss, poi ad Ankara, a cercare di trascinare la Turchia
in guerra a fianco della Germania, senza però riuscirci. Finì
sul banco degli accusati a Norimberga. Ma non aveva perso
l’abitudine di cadere sempre in piedi: fu assolto e liberato in
Appello.

Nel governo che giurò quel giorno i nazisti erano in visto-


sa minoranza. Pur essendo il primo partito, col 33 per cento,
si erano accontentati di soli due ministri: Frick agli Interni e
Gö ring senza portafoglio (in realtà ministro degli Interni bis:
pochi giorni dopo, da commissario del Reich per gli
Interni in Prussia, avrebbe assunto il controllo delle forze di
polizia in tre quinti della Germania). I più prepotenti
fingevano “umiltà ”. A fare la parte del leone era l’altro
principale con- traente del contratto di governo, pardon del
patto di gover- no, il Partito nazionalpopulista di
Hugenberg. Con poco più

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dell’8 per cento, aveva il triplo di ministri dei nazionalsociali-
sti. Cumulava i ministeri dell’Economia, dello Sviluppo e
dell’Agricoltura, sia del Reich che della Prussia. Faceva l’en-
plein dei serbatoi di consensi e clientele, si arrogava il ruolo
di Wirtschaftsdiktator, zar dell’Economia. Gli altri ministri,
compresi Difesa ed Esteri, erano “tecnici” graditi al Presi-
dente. Papen, il cattolico di destra che era stato l’artefice di
tutta l’operazione, aveva tenuto per sé il ruolo di vicecancel-
liere, nonché di commissario per la Prussia.
Hitler e Hugenberg insieme avevano 248 seggi su 584.
Per avere la maggioranza gliene sarebbero occorsi almeno
un’altra quarantina. Questa la ragione per cui la lista dei mi-
nistri era incompleta: avevano lasciato vuoto il ministero
del- la Giustizia nella speranza di imbarcare anche il
Zentrum cattolico moderato di monsignor Ludwig Kaas, 75
deputati. Non ci sarebbero riusciti. I cattolici non
entrarono nel go- verno Hitler, ma gli avrebbero poi votato
la riforma costitu- zionale che gli consentiva di fare a meno
del Parlamento.

Scene di giubilo dal balcone

La nomina di Hitler fu annunciata alla radio poco dopo


le 13. Una folla di sostenitori in visibilio e di curiosi
comin- ciò a radunarsi sulla Wilhelmstrasse, di fronte
all’imponente Kaiserhof, il primo e più famoso dei grand
hotel di Berlino. Era lì che Hitler aveva residenza e bottega
nella capitale. Oc- cupava l’intero ultimo piano con il suo
staff e le sue guardie del corpo. Per strada c’erano già i
camion dei cinegiornali. Lui si affacciò al balcone,
sorridente, a salutare l’adunata fe- stante. Non c’erano
microfoni. Non si vede il movimento del- le labbra. Quindi
non possiamo sapere se dicesse “ce l’abbia- mo fatta”.
Era già buio quando – “alle 8 in punto” – come nota un
giornale locale – iniziò a sfilare il corteo ufficiale, con bandie-
re e svastiche, SA e SS inquadrati in uniforme, le torce acce-
se. Hitler si riaffacciò da un altro balcone, anzi una
finestra, quella della Cancelleria di cui aveva preso
possesso.

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Quel giorno di lui abbiamo immagini in doppiopetto e
cravatta. Non siamo abituati alle foto di Hitler in
borghese. Ce ne sono. Ma lui preferiva quelle in cui lo si vede
in unifor- me. La sua era un’uniforme da Fü hrer, concepita
per lui so- lo. Anche al colmo del delirio di onnipotenza non
si sarebbe mai permesso di travestirsi con uniformi che non
gli spetta- vano, mettiamo una divisa da generale della
Wehrmacht o della Polizia di Stato.

“Un fiume di fuoco, un fiume impetuoso, inarrestabile,


che a ondate successive, a passo di marcia e perfetto allinea-
mento, attraversa il centro della città, accompagnandosi coi
loro canti guerreschi e gli slogan scanditi.” Uno spettacolo
impressionante secondo la testimonianza dell’ambasciatore
André François-Poncet, il quale vi assiste dalle finestre della
rappresentanza francese che affacciano su Pariser Platz. Im-
pressionante, ma non esattamente tranquillizzante. Gridava-
no in coro Heil Hitler!, ma anche Deutschland erwache!, Ju-
da verrecke!, Svegliati Germania! Crepa Giudeo!
Cantavano la Horst Wessel Lied, con particolare enfasi
sulla strofa che fa: “Andranno meglio le cose quando dal
coltello gronderà il sangue degli ebrei”. Ma com’è che mi
rimane impressa so- prattutto la scena del balcone? Perché
mi pare di averla rivi- sta poco fa?
C’era ormai assuefazione agli slogan sanguinari, ai cortei,
alle manifestazioni e contromanifestazioni. Il giorno prima,
domenica 29, si era svolta un’enorme adunata socialdemo-
cratica al Lustgarten, sulla spianata su cui si affacciano i mu-
sei. Erano stipate anche le strade di accesso. Gli organizzato-
ri calcolarono che avessero partecipato 800.000 persone.
Scandivano “Berlino resterà rossa”, in risposta allo slogan
dei nazisti “Berlino è nostra”. Il giovedì prima era stata la
volta dei comunisti, che si erano raccolti davanti alla loro
Karl-Liebknecht Haus, su Bü lowplatz. Era la risposta alla
provocazione della domenica prima, quando verso la stessa
piazza si era diretto un corteo nazista. C’erano stati scontri,
con morti e feriti.

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Anche questo era abituale. “Berlino era in uno stato di
guerra civile. L’odio esplodeva improvvisamente, senza al-
cun preavviso, da episodi in apparenza insignificanti. Agli an-
goli delle strade, nei ristoranti, nei cinema, nelle sale da
ballo, nelle piscine; a mezzanotte, a mezzogiorno, nel
pomeriggio. I coltelli balzavano fuori all’improvviso: si
picchiavano coi tira- pugni, coi boccali di birra, con le gambe
delle sedie, coi basto- ni piombati. Le pallottole sfregiavano
gli annunci sulle colon- ne pubblicitarie, rimbalzavano
sulle tettoie di ferro dei vespasiani.” La violenza era
all’ordine del giorno. Anzi è l’idea stessa che ci siamo fatta di
Weimar. Grazie anche a pagine co- me questa di Christopher
Isherwood. Sono abbastanza vec- chio da aver vissuto
momenti che “somigliavano” a questo aspetto del ’33: il ’68,
gli anni di piombo, la strategia della tensione, i colpi di
Stato dei militari per riportare l’ordine: Cile 1973, Turchia
1980. Succede ancora, ma non da noi, non dalle nostre
parti, non in questo momento. O almeno così pensavo
finché ho visto in tv, sabato dopo sabato, le im- magini degli
scontri con i Gilet gialli in Francia.

“Hitler non è Mussolini, la Germania non è l’Italia”

Quasi tutti erano stati presi di sorpresa. Non si aspettava-


no la nomina di Hitler. I giornali del primo gennaio 1933,
cioè di poche settimane prima, trasudavano sicurezza, otti-
mismo da portar jella. “Il possente assalto nazista allo Stato
democratico è stato respinto”, aveva annunciato a Capodan-
no il “Frankfurter Zeitung”. “La Repubblica è salva”, gli fa-
ceva eco il “Vossische Zeitung”, il più autorevole quotidiano
della capitale. Il cattolico “Kö lnische Zeitung” notava che i
più sono ormai convinti che Hitler non ce la farà a prendere
il potere. Ascesa e caduta di Hitler, titolava l’editoriale del
“Vorwä rts”, l’organo del Partito socialdemocratico. “Hitler
chi?”, scherzava un articolo del “Berliner Tageblatt” su quel-
lo che i nonni di domani avrebbero potuto raccontare ai fu-
turi nipotini.
A sinistra ciascuno era ancora sulle sue. I comunisti con-

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tinuavano a prendersela con i socialdemocratici, i socialde-
mocratici coi comunisti. A litigare, gli uni con gli altri e
cia- scuno coi propri compagni di partito. Non c’era verso
che concordassero un’iniziativa comune. Si trovarono
d’accordo su pochissime cose: che un governo Hitler sarebbe
durato poco, come erano durati poco i governi precedenti. E
che tra i firmatari del patto di governo, il “reazionario”
Hugenberg fosse di gran lunga più pericoloso del
populista Hitler.

“La carnevalata durerà poco”

Alla riunione della direzione socialdemocratica, convo-


cata per il 31, il capogruppo al Reichstag, Rudolf Breitscheid,
sostenne che l’obiettivo del nuovo pateracchio tra “reaziona-
ri” e nazisti non era un regime di tipo fascista, ma “una ditta-
tura del capitale”. E comunque prima di riuscirci i firmatari
si sarebbero “azzannati tra di loro come predoni che si spar-
tiscono il bottino”. Ancora a metà marzo, quando non ci po-
tevano più essere dubbi su dove si stava andando a parare, il
vecchio, rispettato Kautsky si diceva convinto che le carne-
valate degli “imbecilli ignoranti che sanno solo travestirsi da
cavalieri nordici” avrebbero fatto il loro tempo, e che Hitler
sarebbe stato abbandonato dai suoi sostenitori non appena
si fossero resi conto che non era in grado, né aveva l’inten-
zione, di mantenere le sue promesse demagogiche.
“La Germania non è l’Italia, Berlino non è Roma, Hitler
non è Mussolini!”, proclamava il “Vorwä rts” (Avanti!), il
giornale del partito. “Sbaglia di grosso chi ritiene che
qual- cuno possa imporre un regime dittatoriale sulla
nazione te- desca… è la stessa diversità del popolo tedesco a
rendere in- dispensabile la democrazia,” gli faceva eco
l’opinionista Theodor Wolff sull’autorevole “Frankfurter
Zeitung”. An- che il teologo dell’Università di Bonn, Karl
Barth, che per protesta contro la destra si era già iscritto al
Partito sociali- sta, si sbaglia clamorosamente: “La Germania
è troppo iner- te, non ha l’élan vital, il dinamismo che le ci
vorrebbe per instaurare un regime come quello di
Mussolini”. Persino

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l’Organizzazione centrale degli ebrei tedeschi fece un comu-
nicato nel quale, pur ovviamente diffidando di Hitler, si
di- ceva convinta che “nessuno oserà toccare i nostri diritti
co- stituzionali”.
N’importe quoi, come dicono i francesi. Un florilegio infi-
nito di stupidate dette da persone serie, sagge, esperte. Avre-
ste scommesso che sapevano il fatto loro. E invece più erano
autorevoli meno la imbroccavano. Ci sarebbe da ridere, a ri-
leggere gli interventi dei massimi dirigenti del Partito social-
democratico, se molti di quelli che erano convinti che Hitler
fosse un fenomeno passeggero non avessero poi pagato tra-
gicamente, di persona, nelle camere di tortura, in prigione,
nei campi di concentramento in cui venivano rinchiusi “per
la loro stessa protezione”, braccati in Germania e nell’esilio,
assassinati dopo essere stati consegnati dal governo di Vichy
alla Gestapo.
In confronto, la reazione del Partito comunista alla nomi-
na di Hitler è assai più trucida: “Spudorata rapina dei salari,
terrore senza limiti da parte della Peste bruna assassina, at-
tacco ai residui diritti delle classi lavoratrici, a passo di corsa
verso la guerra imperialista: ecco quel che ci riserva l’imme-
diato futuro”. Dogmatici ma profetici, verrebbe da dire.

Chi se ne importa delle chiusure domenicali

Per il resto la vita a Berlino continuava come prima. La


gente andava al cinema, affollava le birrerie, i ristoranti con
concerto, i locali gay, i cabaret. Si ballava, si flirtava, ci si di-
vertiva. Il sindacalista americano Abraham Plotkin, inviato
in Germania a capire quel che sta succedendo, di manifesta-
zioni non ne manca una. Va anche a quelle naziste. Vuol sen-
tire l’altra campana. Attacca discorso con una donna.
“Non parlo con gli ebrei”, taglia corto quella, stizzita.
Plotkin non ha tratti somatici che possano far pensare che è
ebreo. Aveva solo otto anni quando la famiglia era emigrata
in America nel 1901. Parla perfettamente il tedesco, ma è
nato in Ucraina, il suo tedesco ha un’inflessione yiddish.

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L’appunto per il 28 gennaio 1933, due giorni prima della
nomina di Hitler, è però dedicato a tutt’altro tema. Ci fa
sa- pere che è tempo di carnevale, “la stagione dei balli in
ma- schera è in pieno svolgimento”. Lo portano in un
locale che gli ricorda il Jazz Palace di Broadway, tre
enormi saloni, ognuno con un’orchestra diversa. In sei
bevono tre bottiglie di vino, se ne vanno alle 3 del mattino, le
danze continuano fino alle 5. Il giorno dopo
l’appuntamento è alla manifesta- zione al Lustgarten, dove
sfilano le milizie socialdemocrati- che, dei sindacati e quelle
cattoliche. Inquadrati e in unifor- me al pari di quelle naziste,
con il vessillo rosso-nero-oro del Reichsbanner.
Curiosa, tra le notazioni non politiche, anche quella data-
ta 22 dicembre. Ci fa sapere che Berlino è in fermento per la
stagione degli acquisti di Natale. Sta andando alla grande.
I negozi sul Kurfü rstendamm non erano mai stati così
affolla- ti. Per la prima volta i negozianti avevano chiesto alle
autori- tà il permesso di tenere aperto anche la domenica.
Solo che i comunisti avevano indetto manifestazioni di
protesta anche contro l’apertura dei negozi. “La logica di
questo mi sfugge. Sarò anche stupido, ma non vedo che
vantaggio gliene possa venire.”

“La situazione politica a Berlino è molto noiosa”

Stupisce il diffuso senso di normalità , come se quel che


sta succedendo fosse routine. Klaus Mann, il figlio tormenta-
to di Thomas, aveva iniziato l’anno partecipando al Gran
Gala per l’inaugurazione del cabaret Pfeffermühle (Macina-
pepe) della sorella Erika. La notizia di Hitler cancelliere lo
raggiunge mentre sta tornando da una vacanza sciistica.
“Orrore. Mai pensato possibile”, annota nel diario. Poi, il
giorno dopo: “Il Mago [così chiamavano in famiglia Thomas
Mann] più tranquillo sulla questione Hitler di quanto pen-
sassi [anche se] lo rende nervoso dover trascurare le sue
con- ferenze su Wagner”.
I prodigiosi “Oxford boys”, Wystan H. Auden, Chri-

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stopher Isherwood, Stephen Spender, sono tra gli osservato-
ri più attenti e sensibili di quel che sta succedendo a Berlino
in quei giorni. Addio a Berlino e Il signor Norris se ne va sono
miniere di spunti. “La situazione politica è molto noiosa”,
scriveva Isherwood a metà gennaio da Berlino all’amico
Spender tornato a Londra. “Sì, immagino che stiano
succe- dendo un sacco di cose dietro le quinte, ma non
sempre ci si rende conto. Papen visita Hindenburg, Hitler
visita Papen, Hitler e Papen visitano Schleicher,
Hugenberg visita Hin- denburg e scopre di essere fuori dai
giochi. E così via andan- do. Non c’è più quella
consapevolezza leggermente esilaran- te della crisi nei gesti
dei mendicanti e dei tramvieri.” Quando poco dopo Hitler
va al potere, aggiorna l’amico: “Abbiamo un nuovo
governo con Charlie Chaplin e Babbo Natale”. “Hitler ha
formato un governo con Hugenberg. Nessuno pensa che
possa durare fino a primavera”, l’annota- zione di poco
successiva.

Anche la stampa internazionale tendeva a minimizzare.


Scottati dal non aver previsto, anzi aver escluso la nomina di
Hitler, divennero prudenti sulla piega che avrebbero preso
gli avvenimenti. L’americano “The Nation” aveva definito
Hitler espressione “in forma drammatica” di una protesta
popolare generalizzata: “Non c’è lamentela che non
raccolga, non c’è desiderio che non prometta di realizzare”.
Avevano votato per lui perché comunque “peggio le cose
non potevano andare”. “Time” se la cavò scrivendo che era
difficile prevedere cosa avrebbe fatto il governo Hitler.
Avendo promesso un po’ di tutto a tutti, gli sarebbe stato
difficile mantenere le promesse, anzi aveva una buona scusa
per non realizzare niente di quel che aveva promesso: “Ha
preso tanti impegni che è come se non si fosse preso alcun
impegno”. Il “New York Times” ras- sicurò i lettori sul fatto
che in Germania “tutto continuava co- me prima”. Avrebbero
continuato a minimizzare a lungo. C’è anche chi ha
ipotizzato che i proprietari, Adolph Ochs e suo genero
Arthur Sulzberger, ebrei l’uno e l’altro, temevano di
scatenare reazioni antisemite in America se il loro giornale fos-

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se apparso meno che obiettivo su Hitler. La maggior parte
dei commentatori, sia in Germania che all’estero, erano
convinti che fosse stato Papen a mettere nel sacco Hitler, e
non vicever- sa. Tutti davano per scontato che a tirare le fila
nel governo fosse Hugenberg, non Hitler.

Più sono furbi più casca l’asino

A non rendersi conto di cosa sta succedendo non sono


solo gli osservatori stranieri. Sono gli stessi protagonisti. La
sera del 13 gennaio il cancelliere in carica, il generale Kurt
Schleicher, invita i giornalisti a una cena non ufficiale. Gli
pongono ovviamente domande sui nazisti. Lui risponde sor-
ridendo e con un gesto di noncuranza: “A quelli ci penso
io… Tra poco mangeranno dalla mia mano”. Gli chiedono se
può succedere che Hitler diventi cancelliere. “Mai più ! E
in fondo al suo cuore è lui, Hitler, a non volere affatto
l’incari- co.” Il lettore capirà perché ho fatto un balzo sulla
sedia quando, qualche giorno prima che Di Maio e Salvini
conclu- dessero le trattive per il loro nuovo governo, ho
sentito in televisione Matteo Renzi rassicurare che quel
governo non si sarebbe mai fatto, perché avevano già
cambiato idea, “in cuor loro” non se la sentivano di
assumersi la responsabilità che comporta governare.
Più sono furbi, più casca l’asino. Il più furbo,
ambizioso e brillante di tutti era certamente Papen.
“Metteremo Hit- ler in gabbia”: la rassicurazione da lui
rivolta al recalcitrante Dü sterberg nel tentativo di
convincerlo a unirsi al governo. “Hitler? È sul nostro libro
paga”, si sarebbe vantato con un altro interlocutore. “Ma
cosa vuole? Ho la fiducia del Presi- dente Hindenburg. Nel
giro di due mesi avremo messo Hitler all’angolo, al punto
che inizierà a strillare”, le ultime parole famose di Papen in
risposta alle obiezioni dell’aristocratico e collega di partito
von Kleist-Schmenzin, che poi sarebbe stato accusato di
complicità nel complotto Stauffenberg e decapita- to nel
1945, giusto un mese prima della resa della Germania.

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2.
Analogie e scaramanzia
Breve nota sul perché di questo libro

A questo punto devo una spiegazione al lettore sul per-


ché di questo libro. Da qualche tempo quasi non passa gior-
no senza che le notizie mi diano una sgradevole sensazione
di déjà vu. Leggo la stampa, vedo i telegiornali, faccio talvol-
ta zapping nei talk-show, ascolto quel che dice la gente al bar
o sull’autobus, e ho l’impressione di aver già letto, già visto,
già ascoltato. Ma in tutt’altra epoca e altro luogo.
Non sono sicuro che si tratti di una condizione patologi-
ca. Né di essere il solo a provarla. L’impressione di già vissu-
to in precedenza situazioni del presente è una sindrome ab-
bastanza diffusa. Secondo ricerche recenti due persone su
tre provano qualche forma di déjà vu o déjà vécu. In
alcune circostanze immaginare di esserci già passati può
essere per- sino rassicurante. In altre è ansiogeno. Forse
questa ossessio- ne non è individuale, è qualcosa che
riguarda la nostra spe- cie. Può anche darsi che sia uno
degli strumenti di difesa di cui è dotata la mente umana.
Magari un giorno scopriranno nel nostro Dna il gene che la
produce. In ogni caso si tratta di un fenomeno molto
complicato, ancora non pienamente compreso. Gli specialisti
continuano a discuterne arrivando a conclusioni differenti.
Un neuropsichiatra americano ha passato in rassegna
settantadue differenti spiegazioni “scien-

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tifiche” avanzate nel tempo, di cui ben ventidue negli ultimi
tre decenni.
In realtà la storia, ammesso che si ripeta, non si ripete
mai allo stesso modo. Allora perché occuparsi di come ot-
tant’anni fa la Germania precipitò nel Terzo Reich quasi sen-
za accorgersene, con noncuranza, sbadatamente, per molti
addirittura con entusiasmo, per alcuni persino con una certa
allegria? Perché riaprire un cold case, un dossier chiuso e se-
polto, una storia ormai passata in giudicato?
È una storia molto raccontata. In tutte le maniere. Ma non
per questo conosciuta. Cercando su internet sono incappato
per caso in una puntata di qualche anno fa del gioco tv L’Ere-
dità, allora condotto da Carlo Conti. La domanda è: in
quale anno fu nominato cancelliere Adolf Hitler? C’è da
scegliere tra quattro riposte: 1933, 1948, 1964, 1974. La
prima con- corrente risponde: 1948. Il secondo, con qualche
esitazione: 1964. La terza, a quel punto con grande
sicurezza: 1974. Solo la quarta dice 1933, perché è rimasta
una sola scelta, ed è im- possibile sbagliare, ma con un
sorriso imbarazzato, un’into- nazione di dubbio nella voce,
come se dovesse scusarsi di una risposta assurda. Non va
meglio per la domanda successiva: in quale anno Mussolini
incontrò il poeta Ezra Pound a Pa- lazzo Chigi? La risposta
giusta è sempre 1933. Ancora una volta i concorrenti le
sbagliano tutte. Non è una barzelletta, andare a guardare su
YouTube per credere. I concorrenti non sono “coatti”, sono
ragazzi e ragazze normali, dalla faccia pu- lita. Sono vestiti
in modo sobrio e ricercato. Si capisce che hanno studiato,
sono andati a scuola, magari all’università. Sono giovani in
apparenza preparati, che leggono, vanno al cinema,
guardano la televisione, altrimenti non partecipe- rebbero a
un gioco a quiz. Hanno probabilmente superato la prova di
storia alla maturità, a nessuno passava ancora per la mente
di abolirla.

Avevo cominciato a rivangare in quel passato per scara-


manzia, per scacciare paure che ritenevo irrazionali. E inve-
ce, a rileggere di come fece una brutta fine la più vivace e

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avanzata democrazia dell’Europa di quei tempi, mi sono im-
battuto in indizi insospettati, cose che non conoscevo o ave-
vo trascurato, in rassomiglianze, analogie cui non avevo fatto
caso. Il sostantivo femminile “sindrome” indica in medicina
una serie di sintomi e segnali che costituiscono le concause
di una malattia o processo degenerativo. Il nostro mondo è
molto diverso da quello del 1933. Ma alcuni sintomi, segnali,
processi, atteggiamenti si assomigliano. Non sono identici,
ma si evocano in qualche modo. Più proseguivo nell’indagi-
ne, più la vittima, la Repubblica di Weimar, aveva un volto
vagamente famigliare. E così ce l’avevano i suoi assassini. E
c’era qualcosa di simile nelle modalità del delitto.

Sappiamo, o crediamo di sapere, quasi tutto di come poi


andò a finire. Crediamo di sapere qualcosa anche di come ci
si arrivò : la grande crisi del dopo 1929, la “guerra civile” tra
comunisti e fascisti che dilaniava l’Europa, le violenze, le in-
timidazioni. È inquietante scoprire che, contrariamente all’i-
dea che ce ne facevamo, ci si arrivò in modo banale, non dis-
simile dalla prosaica normalità dei giorni nostri: attraverso
una serie interminabile di elezioni, culminate nel 1933.
Le crisi si consumano sempre al rallentatore. Possono
durare anni. Le catastrofi arrivano sempre all’improvviso,
colgono alla sprovvista. In quel 1933 tutto successe di corsa,
a ritmo mozzafiato. Ci misero meno di trenta giorni per por-
tare Hitler al governo, tra manovre, intrighi, voci altalenanti,
segnali e messaggi in codice tra i protagonisti. Un altro mese
ancora per tenere nuove elezioni e poi, visto che malgrado
tutto non avevano ancora una maggioranza, eliminare l’op-
posizione con una raffica di decreti. Durò poche settimane
ancora la resistenza a votargli in Parlamento, con i due terzi
di voti necessari, i pieni poteri che toglievano ogni decisione
al Parlamento che glieli votava.

Qui quella storia viene narrata in modo un po’ diverso dal


solito. Niente è inventato. Non è fiction. Non ci sarebbe nien-

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te di male se lo fosse. Anche negli anni venti e trenta era stata la
letteratura (da Joseph Roth a Dö blin, da Fallada a Tucholsky)
a raccontarci meglio e più in profondità di quanto facciano
gli storici. Non si intende sopperire all’immensa mole di
ricerche storiche già pubblicate sull’argomento, di cui però si
è tenuto conto, comprese quelle più recenti. Nullum iam
dictum, quod non dictum sit prius, non vi si dice nulla che
non sia stato già detto, o pubblicato, potrei dire con
Terenzio. Questo è un libro che compie una scelta, come dire,
faziosa, parziale: tra i fatti e gli argomenti privilegia quanto
può richiamare al lettore vicen- de, cronache e polemiche
della nostra attualità. Ogni riferi- mento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente inten- zionale, parafrasando
l’avvertenza che compariva in testa ai vecchi film. Personaggi,
detti e fatti del passato evocano voluta- mente fatti, formule,
personaggi orecchiati nella nostra attuali- tà. Ma è inutile che
cerchiate corrispondenze precise, univo- che, speculari, tra
questo o quel personaggio di allora con i loro analoghi di oggi.
Può darsi che qualche personaggio dei nostri giorni si ritrovi
nei detti, nei fatti e nei misfatti di quelli di allo- ra. Gli è
consentito adombrarsi. Ma non illudersi: i cattivi di allora
sono inarrivabili, a provare a rispecchiarsi ci si rende solo
ridicoli.
O almeno lo spero. Quella di allora è un’altra storia, con-
tinuo a ripetermi. È un incubo da cui abbiamo sempre cerca-
to faticosamente di svegliarci. E sembrava persino ci fossimo
riusciti. Provo a cullarmi nel confortevole detto, reso celebre
da Marx, che la storia si ripete sempre due volte, la prima
volta come tragedia, la seconda come farsa. E se invece non
fosse proprio così? Se l’ordine fosse invertito, prima la comi-
ca, poi il disastro? Se si ripetesse due volte, e di seguito,
ed entrambe le volte come tragedia? (Non è inusuale, anzi è
l’e- sito più probabile: così fu la Prima guerra mondiale,
seguita solo vent’anni dopo dalla Seconda.) Gli incubi del
passato scalciano nel futuro. E se inaspettatamente un
incubo da cui ci eravamo risvegliati da tempo, che quasi non
ricordiamo più , si mettesse a scalciare come un mulo, ci
tirasse una gra- gnuola di calci micidiali?
Certo che non siamo nel ’33. E nemmeno nel ’29. Non

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c’è stata, incrociando le dita, una catastrofe economica mon-
diale. Per quanto protezionismi ed egoismi nazionali ce la
stiano mettendo tutta. Non sembrano profilarsi all’orizzonte
guerre mondiali e stermini di massa. A essere onesti,
sembra- vano inconcepibili anche nell’Europa degli anni
trenta. Così come nella Belle É poque non ci si aspettava la
Grande car- neficina del ’14-’18. L’Europa è in crisi. Ma
non si può dire che ci sia fuga dalla libertà e dalla
democrazia. Nemmeno nell’America di Donald Trump.
Ci sono, in molti paesi, leader poco raccomandabili,
arri- vati al potere sull’onda di un voto popolare. È ridicolo
pensa- re di poterli esorcizzare paragonandoli al Duce e al
Fü hrer. Non sono un fautore del metodo che il
conservatore Leo Strauss definiva “reductio ad hitlerum”.
Oltre a essere fallace sul piano logico e storico, è pure
controproducente. Quel che non ammazza ingrassa, dice la
saggezza contadina. Senza con- tare che a gridare troppo di
frequente “al lupo al lupo” si ri- schia che nessuno presti
più attenzione quando il lupo magari arriva per davvero. Non
mi fanno paura i quattro imbecilli che inneggiano al passato
fascista o nazista. Un po’ di più quelli che fanno finta di non
sapere cosa dicono e cosa fanno, quelli del: “Non intendevo
dire…”, “Fascista io?”. Mi preoccupa una specie di coazione
a ripetere involontaria, il riaffacciarsi di dinamiche,
meccanismi che avevano portato al disastro la Germania di
Weimar, e con lei l’intera Europa.
Temo il presente che imita il passato inconsapevolmente,
senza volerlo, magari senza neanche accorgersene. Ecco per-
ché sono andato in cerca di analogie. Non come
strumento di polemica o propaganda, ma come strumento di
compren- sione. Le analogie sono per definizione imperfette.
Possono essere, anzi sono, superficiali. Possono portare fuori
strada. Eppure non possiamo farne a meno. La mente
umana fun- ziona per analogie. La sopravvivenza della
nostra specie non sarebbe possibile se fossimo incapaci di
fare analogie. La lo- gica e la scienza sono sempre andate
avanti per analogie. Le analogie si sono sempre rivelate uno
strumento potentissimo per capire e distinguere, cioè
l’esatto contrario del fare di ogni erba un fascio.

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3.
Europa, dica 33

Simenon reporter in un’Europa sull’orlo di una crisi


di nervi, incarognita, stanca di democrazia e libertà,
atter- rita da un’invasione di profughi. Incontra Hitler
nell’a- scensore del Kaiserhof. Il suo giornale pubblica
la foto di un serial killer coi baffetti, che somiglia al
nuovo can- celliere. La Germania, ossessionata dai
delitti a sfondo sessuale, realizza il “sogno collettivo
dell’umanità”.

Agli inizi del 1933 Georges Simenon, che ha appena pub-


blicato i primi due racconti con protagonista il commissario
Maigret, parte per un lungo viaggio nell’Europa in crisi.
Ne ricaverà una serie di reportage per “Voilà”, il settimanale
il- lustrato fondato da Gaston Gallimard. La serie è
intitolata “Europa 33”. “L’Europa è malata. Il dottore si
china, pone l’orecchio sul cuore del paziente: ‘Dite 33’. E il
paziente ri- pete: 33… 33… 33. Mmm. Il viso del dottore
tradisce l’in- quietudine.”
Il viaggio comincia dal suo Belgio sotto la neve, dove
in Parlamento stanno litigando su “come realizzare in modo
ef- ficace la difesa delle frontiere, in relazione alla Francia
che ha lo stesso problema”. A Bruxelles “la gente era scesa
in piazza l’anno prima. Degli scontenti, degli estremisti, dei
co- munisti…”. Simenon ricorda ai suoi interlocutori che
anche a Parigi la gente manifesta contro gli aumenti delle
tasse. “Voi francesi sempre a perdervi in discussioni inutili”,
gli ri- spondono.
Niente di nuovo sul fronte orientale. Anche Varsavia è
sotto la neve. In Polonia sono tutti esagitati, teste calde. Con
uno dei suoi interlocutori Simenon cerca di portare la di-

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scussione su “gli equilibri dell’Europa, nel 1933…”. E
quel- lo imperterrito, a raccontargli per l’ennesima volta,
“mentre svuota il decimo bicchiere di vodka”, delle miserie
patite sot- to l’occupazione russa. I polacchi non ce l’hanno
solo con i russi e i tedeschi, ce l’hanno anche con il resto
dell’Europa, che non capisce quanto loro hanno sofferto:
“Capireste se aveste subito centocinquanta anni di
schiavitù !”.
Il viaggio lo porterà anche in Germania, nei Paesi
nordi- ci, in Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania…
Un’in- digestione di paesi del Patto di Visegrá d, diremmo
oggi… Poi per nave attraverso il Mar Nero, in Ucraina, in
Russia, a Batum (dove attingerà il materiale per La finestra
di fronte)… E infine in Turchia, a Istanbul e Ankara (che gli
forniranno il materiale per I clienti di Avrenos). A
Costantinopoli (la città da qualche anno ha ripreso il
nome turco: Istanbul, ma Si- menon continua a datare così
nel reportage), prende il vapo- retto sul ponte di Galata e
va a intervistare Trotsky, che si trova in esilio sull’isoletta
di Prinkipo.
Parlano di Hitler, di fascismi, e di dittature e democrazie
in Europa. Trotsky considera inevitabile che le cose vadano
di male in peggio. Per spiegarlo all’intervistatore ricorre a
un’immagine meccanicistica: “Per analogia con l’elettrotec-
nica, si potrebbe definire la democrazia come un sistema di
interruttori ed isolatori per far fronte ai picchi di tensione
nei conflitti nazionali o sociali… Se le tensioni e le
contrad- dizioni di classe sono eccessive, interruttori e fusi
si fondo- no, si sbriciolano… Il corto circuito porta alla
dittatura”.
Alla domanda se ritiene che le cose possano continuare
ad evolversi gradualmente o ritiene più probabile una scossa
violenta, la risposta è molto diversa da quella che la maggior
parte dei commentatori – sia tedeschi che nel mondo – ave-
vano dato all’indomani dell’ascesa di Hitler al governo: “Il
fascismo, in particolare il fascismo tedesco, porta all’Europa
un’incontestabile pericolo di guerra. Mi posso sbagliare, or-
mai io sono in disparte, ma mi sembra che non ci si renda
conto abbastanza dell’estensione di questo pericolo. In una
prospettiva non di mesi ma di anni – in ogni caso non di
de- cine di anni – considero come assolutamente
inevitabile

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un’esplosione guerriera da parte della Germania fascista”.
Questo nel ’33. Quasi una profezia. L’invasione della Polo-
nia e la guerra contro Francia e Inghilterra sarebbero scop-
piate nel settembre 1939, l’operazione Barbarossa contro
l’Unione Sovietica sarebbe stata lanciata nel giugno 1941.
L’Europa venuta fuori dalla Grande Guerra era compo-
sta di ventotto Stati indipendenti. Uno più uno meno, sup-
pergiù lo stesso numero di paesi che attualmente fanno
parte dell’Unione Europea. Con problemi, recriminazioni,
spac- cature politiche ed etniche all’interno, divisione per
blocchi contrapposti che somigliano a quelli attuali.
Soprattutto a Est. Molti erano Stati nuovi, nati dal crollo
degli odiati im- peri autocratici e multinazionali (i quali
reprimevano brutal- mente i nazionalismi, però
consentivano, anzi imponevano, la convivenza di nazioni,
etnie e religioni diverse). Ancora nel 1920, ventisei di
questi ventotto Stati avevano Parla- menti
democraticamente eletti, una molteplicità di partiti, governi
costituzionali. Poi già nel 1920 l’ammiraglio Horthy si era
sostituito al tentativo di “dittatura del proletariato” della
rivoluzione di Béla Kun, pur rispettando Parlamento e
Costituzione. L’Unione Sovietica nata dalla Rivoluzione di
Lenin non era certo una democrazia parlamentare. Nel 1922
c’era stata in Italia la Marcia su Roma di Benito Mussoli-
ni. Il maresciallo Piłsudski si era impadronito della Polonia.
Nel 1932 l’Austria era caduta in mano all’estrema destra di
Dollfuss. A sistemi autoritari sarebbero passati, uno dopo
l’altro, i piccoli Paesi Baltici: la Lituania nel 1926 con
Sme- tona, la Lettonia e l’Estonia nel 1934, rispettivamente
con Ulmanis e Pä ts. Nei Balcani, Ahmet Zogu si era
proclamato re Zog I di Albania nel 1928, re Alessandro
aveva assunto il controllo della Jugoslavia nel 1929, in
Bulgaria re Boris avrebbe assunto i pieni poteri nel 1934, in
Romania re Carol avrebbe fatto a meno del Parlamento dal
1938 in poi. Dal 1936 la Grecia di Metaxas si sarebbe
organizzata su imita- zione del regime nazista in Germania.
In Spagna Primo de Rivera avrebbe esercitato la sua
dittatura personale dal 1923 al 1930 (seguita dalla dittatura
di Francisco Franco, dopo la breve e tragica esperienza
della Repubblica). In Portogallo

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la dittatura iniziata dal dottor Antó nio Salazar sarebbe dura-
ta dal 1932 alla Rivoluzione dei garofani del 1974. Nel 1938
di democrazie in Europa ne restavano appena una dozzina,
tutte minacciate da esplosioni di populismo, fomentate an-
che da una specie di “internazionale sovranista”. La Francia
e la stessa Inghilterra furono lì lì per cascarci, furono scosse
da movimenti antisistema, antisemiti e anti-immigrati, an-
ticapitalismo e anticorruzione, o anche apertamente filofa-
sciste, che attraevano simpatie, militanza, consensi elettorali
sia da destra che da sinistra. La Francia se la sarebbe cavata
grazie al sussulto delle elezioni del 1936 che portarono inve-
ce al governo il Front Populaire. L’Inghilterra grazie al fatto
che il matrimonio malvisto con l’americana divorziata Wallis
Simpson costrinse all’abdicazione Edoardo VIII, cui piace-
va Hitler. Negli Stati Uniti avevano evitato per il rotto
della cuffia di avere un presidente tipo Trump. Nel 1932 era
stato eletto il democratico Franklin Delano Roosevelt.

Con Hitler in ascensore

A Berlino, Simenon incontra Hitler in un ascensore del


Kaiserhof. “L’ho visto, il Messia, giusto una decina di giorni
prima delle elezioni, mentre stava salendo al suo
appartamen- to. Abitavamo nello stesso hotel… Nevicava.
Era grigio…” Non riesce a intervistarlo, le sue guardie del
corpo tengono a distanza i curiosi. O forse non l’ha
neanche incontrato. Non gli faremo le pulci: è un grande
scrittore, e agli scrittori è lecito inventare. Ma è anche un
giornalista. Raccoglie le voci che corrono: “Una sera [i
nazisti] si sono riuniti in gran consiglio, e hanno deciso che
prima delle elezioni ci voleva una scusa per mettere la
museruola ai comunisti. Hitler proponeva di orga- nizzare un
finto attentato contro di sé, al fine di galvanizzare le proprie
truppe. Goebbels lo dissuase, dicendo che un fal- so
attentato rischiava di dare a qualcuno l’idea di organizzar-
ne uno vero. Allora hanno ripiegato sul Reichstag”. Un po’
romanzato, ma forse non così lontano dal vero. Segue lo sfo-
go classico del giornalista contro i propri giornali: “Era una

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settimana prima delle elezioni, che si sarebbero tenute il sa-
bato. Ho telegrafato la notizia a Parigi al giornale della sera.
Non hanno osato pubblicarla…”.
Simenon se la prende con i titoli gridati dei giornali
eu- ropei (La Miseria in Germania, Il terrore in Germania).
For- se ce l’ha con Marc Orlan, l’autore del Porto delle
nebbie, il romanzo da cui Marcel Carné trasse l’omonimo
film. Orlan aveva pubblicato su “Paris-Soir” dei reportage
sulla mise- ria a Berlino, che poi erano usciti in volume
con disegni di Grosz. Certamente non prevede il terrore
totale che le squa- dracce naziste, arruolate in massa nella
polizia del Reich, avrebbero di lì a poco esercitato contro
comunisti, ebrei e tutti gli altri avversari, compresi i loro
soci nel governo. È in buona compagnia: anche una
militante operaista come Si- mone Weil scriveva in quei
giorni ai genitori dalla capitale tedesca che Berlino è la città
più calma del mondo, vive in una situazione di attesa.
Simenon irride agli editoriali sul perché “è impossibile
che prevalga il partito della violenza”, alle valutazioni con-
traddittorie del fenomeno Hitler: “È l’uomo di Papen! È
l’uomo del Principe della Corona! È l’uomo di Hugenberg!
È un fantoccio! È il nuovo Siegfried!”. Soprattutto vede
un’incongruenza tra tutte queste valutazioni e il consenso
crescente che percepisce attorno a Hitler.
Azzarda un tentativo di spiegazione: “Il governo? Il so-
cialismo? Il bolscevismo? La politica internazionale?”. Mac-
ché. Il mito di Hitler si alimenta di débauche sessuale. “Si
fermano per strada ragazzini e ragazzine di sedici,
diciassette anni per organizzare orge. Un ragazzo è stato
ucciso dal fra- tello in una crisi di gelosia. Il macellaio
Haarmann faceva a pezzi nella sua macelleria le piccole
vittime che violentava. E poi il maniaco sessuale di
Dü sseldorf…”
Il riferimento è a Fritz Haarmann, detto anche “il Lupo
mannaro di Hannover”, notissimo personaggio della crona-
ca nera. Adescava ragazzi di strada nei dintorni delle stazioni
ferroviarie. Li uccideva mordendoli alla gola, nella frenesia
dell’atto sessuale. Poi li faceva a pezzi. Durante il processo,
seguito dall’opinione pubblica con attenzione morbosa ai

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dettagli, si era sparsa la voce che avesse venduto la carne
del- le sue vittime al mercato nero, spacciandola per carne
di maiale. Questo non fu provato, così come non fu mai
accer- tato se le vittime erano state ventiquattro, o
ventisette, o un numero ancora maggiore. Era stato
giustiziato nel 1925, ma se ne parlava ancora. Più fresco
era il processo a Peter Kü rten, che preferiva violentare e
uccidere bambine preado- lescenti. Le stuprava, tagliava
loro la gola con un coltello o con delle forbici, e poi ne
beveva il sangue. Gli furono attri- buiti oltre una trentina di
omicidi commessi tra 1929 e 1930. Pare che fosse stato lui
stesso a condurre la polizia sulle pro- prie tracce, come
avviene spesso nella serie tv americana Cri- minal Minds.
Arrestato nel maggio 1930, fu decapitato nel luglio del
1931, dopo un processo seguito in modo morboso. Tra
arresto ed esecuzione di Kü rten c’erano state le elezioni per
il Reichstag del 1930, quelle in cui per la prima volta ave- va
sfondato il partito di Hitler.
Torniamo al reportage di Simenon. “Che cosa vi dice-
vo un attimo fa? Ah sì. Le partouzes, il nudismo, il tasso di
usura, il freudismo, i ragazzini e le ragazzine, lo squilibrio e
la febbre, lo sport, l’eroina, la cocaina, e chissà cos’altro…
Ebbene, ci sono alcune decine di milioni di tedeschi che
hanno l’impressione che tutto questo è finito, che hanno ri-
trovato un equilibrio… Hitler li ha messi in riga…”. Sime-
non trascura una cosa sola: che per i nazisti il debosciato,
il maniaco sessuale, il serial killer, il perverso, il corruttore
di ragazzini e ragazzine innocenti è per definizione l’ebreo.
“Pensate a Berlino, affacciatevi sulla Friedrichstrasse. E lì
vedrete passare un ragazzo ebreo dopo l’altro avvinghiato a
una ragazza tedesca. E ricordatevi che ogni notte migliaia e
migliaia di sorelle del nostro sangue vengono contaminate,
vanno perse in un istante, e con loro perdiamo anche i nostri
figli e i nostri nipotini…” Chi l’ha detto? Chi è mai questo
maniaco? Avete indovinato: nient’altri che Hitler in perso-
na, nel discorso pronunciato in occasione della ricostituzio-
ne del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, il 25
febbraio 1925, otto anni prima che lo facessero cancelliere.

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La foto del mostro in pagina

L’articolo di Simenon sulla Germania era uscito correda-


to da foto. Una di queste mostrava un uomo coi baffetti
alla Hitler. “Non è Hitler, anche se gli somiglia. È Kü rten, il
Vampiro di Dü sseldorf”, cioè un “serial killer psicopatico
che aveva ucciso molte donne e bevuto il loro sangue”, dice-
va la didascalia. Analisi politica? Una sorta di profezia degli
orrori a venire? O semplice constatazione della strana fasci-
nazione che la Germania di quegli anni aveva per i delitti
truculenti, in particolar modo quelli commessi contro le
donne?
Jack lo Squartatore l’aveva creato l’Inghilterra vittoriana.
A Parigi ce la stavano mettendo tutta per andare oltre Sade e
Lautréamont. Ma furono i tedeschi ad applicarsi con più im-
pegno al Lustmord, il delitto a sfondo sessuale. Assassino,
speranza delle donne, è il titolo dell’atto unico teatrale che
Oskar Kokoschka aveva scritto ancora nella Belle É poque.
Può fungere da didascalia a molti suoi dipinti. Le eleganti
Passeggiatrici di Kirchner nella Berlino di prima della Gran-
de Guerra, e i suoi nudi nel bordello ritraggono giovani don-
ne libere e disinibite, sicure di sé. Sanno benissimo quel che
fanno, sembrano condurre loro il gioco. Eppure è
scontato che finiranno per essere vittime, verranno
sacrificate alla “modernità ”.
Grondano sangue, straripano di donne martoriate, sven-
trate, fatte a pezzi le opere degli espressionisti tedeschi. Ab-
bondano di figure femminili trafitte, martoriate, seviziate dai
loro sogni con la testa d’uccello i surreali romanzi-collage,
per immagini, di Max Ernst. Otto Dix ritrae a più riprese
corpi femminili martoriati e sviscerati. In Assassino sessuale:
autoritratto, del 1920, il pittore ritrae se stesso nelle vesti di
un clown che fa a pezzi una donna spargendone le membra
in tutte le direzioni. Non è l’unico a identificarsi con l’assas-
sino piuttosto che con la vittima. L’Autoritratto con Eva
Pe- ter nello studio dell’artista di George Grosz è del 1918.
La modella si specchia, mentre l’autore si autoritrae in
procinto di aggredirla da dietro lo specchio con un pugnale
acumina-

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to. Anche questo è solo uno dei moltissimi dipinti che Grosz
dedica al Frauenmörder, il femminicidio. Lui e la bellissima
Eva si sarebbero poco dopo sposati. Si salvarono salpando
per l’America a metà gennaio 1933. Il dipinto sarebbe finito
nel mucchio di quelli bollati dai nazisti come “arte degenera-
ta”. È andato perso, ne è rimasta solo una foto in bianco e
nero.
Il tema ricorre ossessivo anche nella letteratura, nel cine-
ma. Finisce fatta a pezzi da un maniaco cui sta per prostituir-
si la Lulu già concepita da Wedekind a fine Ottocento, poi
interpretata da Louise Brooks nel film di Pabst del 1929. Del
1931 è il film M di Fritz Lang, impareggiabilmente interpre-
tato da Peter Lorre nei panni dell’assassino di bambine. A
dargli la caccia sono, in gara gli uni con gli altri, la polizia e le
bande criminali del quartiere, perché il Mostro disturba i lo-
ro traffici. Arriveranno primi a catturarlo i criminali, verrà
processato da un tribunale di ladri, prostitute e assassini.
Negli stessi anni in cui la detective story americana creava i
suoi investigatori privati puri e duri, irriducibilmente indivi-
dualisti, la fantasia del tedesco Lang anticipava l’isteria col-
lettiva, la delazione di massa, la caccia agli ebrei e agli altri
che sarebbero stati additati come mostri dal regime. “Visto il
film M di Lang. Fantastico! Contro la spazzatura umanitaria.
A favore della pena di morte! Un giorno o l’altro Lang sarà
dei nostri” annotò Goebbels in data 21 maggio 1931, dopo
aver visto il film al cinema.
Lang poi raccontò che, divenuto ministro della Propa-
ganda nel 1933, Goebbels l’avrebbe chiamato e gli avrebbe
offerto di dirigere l’industria cinematografica tedesca. Lui
avrebbe obiettato: “Ma sono ebreo!”. Al che Goebbels
avrebbe replicato: “Non faccia lo stupido, Herr Lang! Qui
decidiamo noi chi è ebreo e chi no!”. Lang a questo punto
si sarebbe precipitato alla stazione e sarebbe scappato in
esilio. Questa parte probabilmente è un’invenzione a
posteriori del grande regista, che di fantasia ne aveva da
vendere.
Uno dei personaggi chiave nell’Uomo senza qualità di
Musil è l’assassino Moosbrugger.

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Aveva ammazzato una donna, una prostituta di infimo grado, in mo-
do raccapricciante. I cronisti avevano descritto minutamente una fe-
rita al collo che andava dalla gola alla nuca, due coltellate al petto
che attraversavano il cuore, due al lato sinistro del dorso, e la
recisio- ne delle mammelle che erano quasi staccate; essi
esprimevano, sì, tutta la loro esecrazione, ma non rinunziavano a
elencare anche le trentacinque trafitture nel ventre, e il taglio che si
estendeva dall’om- belico fino quasi alla colonna vertebrale e si
prolungava in una quan- tità di tagli più piccoli su per la schiena,
mentre il collo recava segni di strangolamento.

“Se l’umanità fosse capace di un sogno collettivo, sogne-


rebbe Moosbrugger”, la riflessione di Ulrich, il protagonista,
nella prima parte del romanzo. Che, guarda caso, uscì ap-
punto nel 1933. Non potevano ancora saperlo, ma il sogno si
stava realizzando.

Cento, mille casi Pamela Mastropietro

Non passava giorno senza che sulla stampa – non solo


i rotocalchi, anche i giornali “seri” – si parlasse di fatti di san-
gue orripilanti, di donne squartate e fatte a pezzi. Con sadica
insistenza sui dettagli. Era martellante, quasi come una pun-
tata di Chi l’ha visto? Un bombardamento mediatico non
stop come quello della ragazzina fatta a pezzi dal pusher ni-
geriano. Ha qualcosa a che fare con l’ascesa al potere di Hit-
ler? È anche questo un sintomo della paura, dell’insicurezza
collettiva, diffusa, che pervadeva la Germania e portava a
invocare l’Uomo forte? Forse l’orrore con tutti i particolari
in cronaca era quello che i lettori volevano sentirsi racconta-
re. Rispondeva in quel momento ai gusti, alla domanda del
pubblico. Se no, non si spiegherebbe perché, dagli anni venti
alla fine della Repubblica di Weimar, il genere di reportage
favorito da tutti i giornali di Berlino, anche, anzi soprattutto
dai giornali di area liberal-democratica, fosse non la cronaca
politica, ma quella giudiziaria.
L’attenzione era proporzionale alla durata e alla copertu-
ra mediatica dei processi. Poco dopo la condanna di Haar-

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mann, nel 1924 era stato arrestato e si era suicidato in carce-
re a Mü nsterberg, nella Prussia orientale, un altro serial
killer, Karl Denke. Ammazzava e poi faceva a pezzi con l’a-
scia i vagabondi che bussavano alla sua porta. Solo dopo il
suicidio gli inquirenti si erano dati la pena di perquisire la
sua casa. Lì avevano scoperto centinaia di frammenti di ossa
umane, carne umana in salamoia e giare di grasso umano. Un
taccuino dell’assassino cannibale registrava scrupolosamen-
te i nomi di trentuno delle sue vittime. Non c’era stato
pro- cesso, e quindi se n’era parlato molto meno che dei casi
Ha- armann e Kü rten. Un grande e rispettato giornale liberal,
il “Frankfurter Zeitung”, aveva tirato in ballo addirittura
la crisi economica, ipotizzando che l’assassino si fosse dato
al cannibalismo per sopravvivere dopo che era stato
rovinato dall’inflazione.
L’atteggiamento della stampa variava secondo l’orienta-
mento politico. L’organo comunista “Rote Fahne” (Bandiera
rossa) si era pronunciato contro la condanna a morte del “lu-
po mannaro” Haarmann con l’argomento che il serial killer
in definitiva aveva fatto in piccolo nient’altro che quello che
“lo Stato capitalista” fa in grande: un massacro di innocenti.
Non era un atteggiamento isolato né estremo. Era comune
tra gli intellettuali dell’epoca di Weimar considerare i crimi-
nali come “vittime della società ”, “capri espiatori di una
so- cietà ipocrita”. Anche per gli assassini, persino per i
serial killer, le cronache giudiziarie cercavano spiegazioni
sociali, attribuivano le esplosioni di furia omicida a “fatali
concate- nazioni di eventi”, oppure alla Guerra,
all’Inflazione, all’In- giustizia. Prestavano attenzione ai
traumi e alle umiliazioni subite dagli accusati nella loro
infanzia e nel corso della loro vita travagliata. Li
psicoanalizzavano.
Non solo sui giornali di sinistra o liberal, anche su quelli
di destra. Daniel Siemens, uno studioso tedesco che ha pas-
sato in rassegna tutte le cronache giudiziarie apparse sui
giornali berlinesi dal 1919 al 1933, nota che Alfred Karrasch,
cronista giudiziario del “Berliner Lokal-Anzeiger”, uno dei
giornali dell’impero mediatico Hugenberg, esprimeva co-
stantemente simpatia per gli accusati, con la sola eccezione

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dei “comunisti”. Li definiva non delinquenti ma
“disperati”, “disgraziati”, “tragici buffoni”, “vittime del
destino”. Non era per niente di sinistra, e nemmeno
moderato: nel 1932 si sarebbe iscritto al partito nazista. Ma
alla pari dei suoi colle- ghi dei giornali liberal esprimeva
sentimenti di pietà, invoca- va clemenza per i malfattori. Così
facendo davano quasi l’im- pressione di volerli giustificare,
in qualche modo difendere. Si prestavano all’accusa di
stare più dalla parte dei delin- quenti che delle loro vittime,
delle quali in effetti sui giornali si parlava assai meno o per
niente.
La reazione fu violenta. Ci fu chi, come Ernst Jü nger, tac-
ciò l’eccesso di “umanità” dei cronisti giudiziari nei confron-
ti degli accusati come qualcosa “al limite della perversità”. I
giornali di destra martellavano contro la “confusione mora-
le”, il lassismo, la colpevole condiscendenza verso i delin-
quenti. Invocavano tolleranza zero, pugno di ferro. Non c’e-
ra neanche bisogno che qualcuno evocasse la castrazione per
i crimini sessuali. C’era già. Nel romanzo autobiografico po-
stumo di Hans Fallada, Il bevitore, il protagonista si
ritrova in cella con uno stupratore seriale al quale era stata
fatta ba- lenare la possibilità di essere liberato se si fosse
sottoposto a una castrazione volontaria. Lui accetta, ma i
giudici ci ripen- sano e lui resta in carcere. L’obiettivo
dichiarato dei nazisti era invece “lo sterminio dei criminali di
professione”. Parola del futuro capo della Polizia Kurt
Daluege. Il passo dallo sterminio dei criminali allo
sterminio per motivi di razza sa- rebbe stato breve. Anche
perché le due categorie venivano a sovrapporsi, finirono per
combaciare. Che tutte le grandi fir- me “buoniste”,
“umanitarie”, della cronaca giudiziaria aves- sero cognomi
ebraici divenne un’aggravante.

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4.
Ebrei, cioè immigrati

Venivano dall’Est. Fuggivano guerre, stragi e povertà.


Nelle fantasie alimentate dalla stampa erano ladri, as-
sassini e stupratori. Uno dei primi provvedimenti del
nuovo governo fu un “Decreto immigrazione” che bloc-
cava ogni ulteriore arrivo di ebrei. I nazisti non ave-
vano remore a passare per “cattivi”. Anzi ci tenevano.
Tanto più che l’odio verso gli immigrati andava a brac-
cetto con l’odio per le élite.

Chi erano gli Ost-Juden, gli ebrei orientali? Stando a quel


che ne dice Joseph Roth, nel suo Ebrei erranti, pubblicato
nel 1927 dalla casa editrice Die Schmiede di Berlino, sono
gente che vuole “abbandonare quel Paese dove ogni anno
potrebbe scoppiare una guerra e ogni settimana un po-
grom”, gente che “emigra a piedi, col treno o per mare verso
i paesi occidentali dove li attende un nuovo ghetto, magari
un po’ migliore ma non meno inumano, pronto ad accogliere
nelle sue tenebre i nuovi ospiti scampati semivivi alle vessa-
zioni dei campi di concentramento”. L’ebreo che viene
dall’Oriente è l’eterno emigrante, il rifugiato di ogni tempo,
compreso il nostro. È l’eterno illuso, che “non sa nulla
dell’ingiustizia sociale dell’Occidente, nulla del dominio che
il pregiudizio esercita sui modi, le azioni, i costumi e le con-
cezioni dell’europeo medio occidentale; nulla dell’angustia
dell’orizzonte occidentale, tutto orlato di centrali elettriche e
dentellato di ciminiere… [che non sa] nulla dell’odio, già
così forte che lo si custodisce gelosamente come strumento
di sopravvivenza (mentre esso toglie la vita), quasi fosse un
fuoco eterno al quale si riscalda l’egoismo di ogni individuo
e di ogni paese”. “Per l’ebreo orientale l’Occidente è libertà,

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possibilità di lavorare e di estrinsecare il proprio talento, è
giustizia…” Ma non sa cosa lo aspetta.

L’ebreo orientale “vive con la paura addosso”, “ha solo


doveri e nessun diritto, fuorché quelli scritti sopra un pezzo
di carta che, com’è noto, non garantisce nulla”, “dai giornali,
dai libri e dagli emigranti ottimisti ha sentito dire che l’Occi-
dente sarebbe un paradiso…”. Non sempre ha un
mestiere. Per lo più “girano il mondo come accattoni e
venditori am- bulanti”. Fanno il vu’ cumprà . Sono
disprezzati da tutti. Specie dagli altri ebrei che si sono già
sistemati, “sono diven- tati ebrei occidentali, anzi europei
occidentali”.
Non è neanche detto che si vogliano fermare in
Germa- nia. Berlino ha un quartiere ebraico, ma è solo una
“stazione di transito”. Vi giungono “emigranti che vogliono
andare in America via Amburgo e Amsterdam”. O a Parigi,
dove non mancano gli antisemiti “dell’Action Française”,
della destra xenofoba, ma almeno “possono vivere come
vogliono”, e i loro figli, se “nati a Parigi, possono diventare
cittadini fran- cesi”. “Tra gli ebrei orientali che risiedono a
Berlino ci sono anche dei delinquenti. Borsaioli, specialisti in
truffe matri- moniali, impostori, falsificatori di banconote,
speculatori sull’inflazione…” L’ossessione di ogni ebreo
orientale, in qualunque paese sia emigrato, sono i
documenti. “Dalla lot- ta ‘documenti sì, documenti no’ un
ebreo orientale può af- francarsi solo se combatte la società
con mezzi delittuosi. Il delinquente ebreo-orientale, nella
maggior parte dei casi, era già un delinquente nella sua terra.
Arriva in Germania senza documenti oppure con
documenti falsi. Non si presenta all’ufficio di polizia.”
Non provate anche voi un senso di déjà écouté nel leggere
Roth? L’ebreo è uno straniero, è un immigrato. I migranti
sono delinquenti. Quindi gli ebrei sono criminali. Tutti gli
ebrei sono criminali. Questo il sillogismo che avrebbe porta-
to allo sterminio. Nella versione attuale basta sostituire ad
“ebrei” l’espressione “migranti clandestini”, o anche solo
“migranti”, per antonomasia indesiderati. Se sono stranieri,

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allora ci vogliono male. Gli ebrei (o gli islamici, o i messicani,
o quelli che ce l’hanno con noi in Europa o nel resto del
mondo), sono stranieri. Quindi ce l’hanno con noi. Se sono
ebrei (o sono immigrati), allora sono anche criminali, ladri,
ricettatori, sfruttatori di prostitute, seduttori di fanciulle in-
nocenti, portatori di malattie, spacciatori di stupefacenti, sa-
botatori dell’economia nazionale, maniaci sessuali e assassi-
ni, e ovviamente terroristi.

Il “Decreto immigrazione”

Uno dei primissimi provvedimenti del ministro degli In-


terni del governo Hitler, Wilhelm Frick, fu chiudere le porte
agli immigrati. Per “immigrati” si intendevano soprattutto
gli ebrei. Erano arrivati a milioni in Germania dall’Est, dalla
Russia e dalla Polonia. Fuggendo a ondate, prima i
pogrom zaristi, poi la Grande Guerra, poi la guerra civile in
Russia, e, in continuazione, la povertà dello shtetl, dei
villaggi-ghetto. Erano arrivati via terra. Molti non volevano
neppure fermar- si, sognavano solo di ripartire per mare,
verso l’America o li- di ancora più lontani. L’ordinanza del
ministero degli Interni imponeva a tutti i Länder tedeschi –
anche, anzi soprattutto a quelli che continuavano ad
accogliere gli immigrati – di: 1. Vietare ogni ulteriore
immigrazione di ebrei orientali; 2. Espellere gli ebrei
orientali privi di permesso di soggiorno; 3. Mettere fine alla
naturalizzazione degli ebrei orientali. Poco dopo fu deciso di
revocare la cittadinanza tedesca anche a quelli che già ce
l’avevano, a tutti quelli che l’avevano otte- nuta tra la fine
della Grande Guerra e il 30 gennaio 1933.
Quella dell’invasione da parte di profughi e immigrati
era un’ossessione che andava di pari passo con la psicosi
dell’assassino, dello stupratore, del rapinatore a ogni angolo
di strada. La propaganda nazista l’avrebbe indirizzata verso
un obiettivo preciso: gli ebrei provenienti dall’Oriente, i pro-
fughi, gli “estranei” al corpo di una nazione altrimenti felice
e compatta che vi introducono corruzione, dissolutezza, cri-
minalità, terrorismo, contagio, malattie. Un esempio egregio

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di propaganda in questo senso è il documentario Der Ewige
Jude, l’eterno ebreo, prodotto nel 1940. Ricorreva a dati, ta-
belle, animazioni, sovrapposizioni di immagini di migranti
laceri e topi immondi che scendono dai barconi, per illustra-
re “scientificamente” quanto fosse perniciosa l’invasione
dell’Europa da parte di una razza estranea proveniente dal
Medio Oriente. Lo si trova facilmente in internet. A me dà
una sferzata di déjà vu. Provare per credere. Comunque
sfondavano una porta aperta: bisogna che ci sia già una forte
predisposizione, un pregiudizio già radicato per suscitare
adesione così ampia ed entusiastica all’odio contro i diversi.
Era evidente che non si sarebbero limitati a chiudere
frontiere e porti agli indesiderati. Bisognava sbarazzarsi an-
che di quelli che erano già entrati, magari si annidavano da
generazioni. Oltre l’80 per cento degli ebrei residenti in Ger-
mania fino al 1933 aveva la cittadinanza. Si sentivano tede-
schi, a pieno titolo. Ne andavano fieri. Si erano integrati.
Molti erano convinti di non avere niente a che fare con quei
poveracci che continuavano ad arrivare dall’Est. La loro pa-
tria era la Germania. Alcuni avevano combattuto con onore,
si erano distinti nella Grande Guerra, avevano non solo me-
daglie ma cicatrici a riprova della lealtà alla nazione di cui si
sentivano parte. Molti avevano avuto successo, esercitavano
professioni prestigiose, erano professori, medici, avvocati,
giudici, scienziati. Alcuni erano diventati celebri anche a li-
vello mondiale. Non erano affatto emarginati. Anzi, faceva-
no parte a pieno titolo delle élite.

Ciò non li avrebbe esentati dal disprezzo, dall’espulsio-


ne, più tardi dallo sterminio. Certo qualcuno poteva obietta-
re che “ci sono anche ebrei perbene”. Così come, bontà loro,
c’è chi, di questi tempi, non contesta che ci siano “immigrati
perbene”, “islamici perbene” e così via. Quante volte l’ab-
biamo sentito dire anche da chi gli immigrati non li ama? Un
opuscolo redatto nel 1930 da un alto funzionario statale sim-
patizzante con i nazionalsocialisti tagliava corto con un argo-
mento che non ammette repliche: “Sì, forse. Ma se uno
dor-

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me in un letto d’albergo pieno di cimici, non chiede a ogni
singola cimice: sei una cimice perbene o disonesta? la schiac-
cia e basta”.

“La pacchia è finita”

Al Decreto immigrazione seguì quella che, ricorrendo a


un’immagine militare, definirono “guerra al crimine”. Si sus-
seguivano arresti e retate per “mettere i delinquenti in galera”.
Arriva il pugno duro, titolarono in prima pagina i giornali. La
caccia ai criminali – non solo agli avversari politici bollati co-
me criminali – era scattata subito, anche prima che ci fosse
l’incendio del Reichstag ed entrassero in vigore le leggi
specia- li “per la sicurezza del Reich”. La polizia aveva
ottenuto im- mediatamente poteri di “arresto preventivo”
per combattere i comunisti. Si fondava sulla pratica della
“custodia preventi- va”, già prevista nei casi particolari in cui
bisognava sottrarre un sospetto al linciaggio da parte della
folla. Divenne la moti- vazione standard con cui si poteva
arrestare e mandare chiun- que in qualsiasi destinazione
decisa dalle autorità, senza che ci fosse bisogno
dell’autorizzazione di un magistrato, e trattener- lo
indefinitamente, senza che ci fosse bisogno di un processo.
È nel 1933 che vengono allestiti i primi campi di concen-
tramento, affidati alle SS di Himmler. Inizialmente erano ri-
servati ai comunisti e agli avversari politici. Poi la pratica fu
estesa ai ladruncoli, ai profittatori, ai truffatori. Poi agli im-
migrati clandestini, agli accattoni, ai vagabondi, ai senza fissa
dimora per qualunque motivo. Poi ancora ai “lavativi”, ai
“pesi morti”, agli “scrocconi”, ai “piantagrane”. Infine agli
omosessuali, e agli zingari, ai rom, ai sinti, che venivano ini-
zialmente recintati nei loro stessi campi nomadi. Se badate
bene, il catalogo degli indesiderabili è rimasto più o meno
quello. I cittadini venivano incoraggiati a denunciarli e se-
gnalarli alla polizia, a non farsi impietosire, e, se proprio sen-
tivano il bisogno irresistibile di generosità, a fare donazioni
solo alle associazioni propriamente registrate. Furono messi
in guardia dal buttar via il loro denaro per finanziare “traffi-

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canti di carne umana”, associazioni criminali che reclutava-
no e sfruttavano immigrati, questuanti molesti e prostitute.
Nel settembre 1933 fu lanciata una gigantesca retata per “ri-
pulire Berlino da vagabondi e accattoni”. Ne arrestarono ed
espulsero 100.000 in un giorno solo. Fu la più grande opera-
zione di polizia e di arresti di massa che si fosse vista fino ad
allora in Germania.

L’opinione pubblica applaudiva. I nazisti appena arrivati


al governo si erano arrogati il controllo di quello che si pote-
va o non poteva pubblicare. Fecero in modo che la stampa
desse il massimo rilievo all’istituzione dei campi di concen-
tramento dove gli oppositori, gli indesiderabili, potevano es-
sere rinchiusi senza processo. Non facevano nulla per na-
scondere, anzi vantavano l’efficacia del loro nuovo sistema di
“giustizia di polizia”. Per sapere dei campi, della Gestapo,
delle persecuzioni e della discriminazione “bastava leggere i
giornali,” ha scritto Christa Wolf. Non si limitavano a sapere
quel che succedeva. La maggioranza approvava. Qualcuno
approvava con entusiasmo. Erano soddisfatti che i nazisti
mantenessero la promessa di “ordine, disciplina, regole”. La
mano pesante, e persino le brutalità, lungi dal danneggiare la
reputazione di Hitler, raccoglievano ampio consenso. Il pub-
blico avrebbe continuato ad applaudire quando assieme agli
altri “asociali” furono portati via zingari ed ebrei.
C’era consenso per la pena di morte. Specie per i
delitti sessuali. E poi più tardi per gli attentati alla
“purezza della razza”, la miscegenazione, la mescolanza di
sangue (altret- tanto, se non addirittura più grave se tra
partner consenzien- ti). Non si versarono lacrime per la
durissima persecuzione della “gioventù bruciata”, sbandati,
piccoli delinquenti, ma anche semplicemente ragazzi e
ragazze che rifiutavano l’ir- reggimentazione (obbligatoria
dal 1939 in poi) nella Gioven- tù hitleriana, preferivano
ascoltare jazz, ballare. Che si riu- nissero in bande giovanili
(famosi i “Pirati”) divenne un’aggravante punibile con la
pena di morte. Non si registra particolare orrore
nell’opinione pubblica tedesca quando si

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cominciò a impiccarli in piazza. Perché avrebbero dovuto
commuoversi quando infine si passò allo sterminio
sistemati- co e di massa?
Era svanita da un giorno all’altro la grande tradizione
“romantica” di simpatia verso i ribelli e i non integrati, dal
Schiller dei Masnadieri, al Michael Kohlhaas di Kleist, al
Brecht dell’Opera da tre soldi. Protagonista del romanzo La
ribellione di Joseph Roth è il mutilato di guerra Andreas
Pum, che realizza il suo sogno quando gli concedono la li-
cenza di mendicare. Il mondo gli crolla addosso quando,
in seguito a un banale litigio col bigliettaio del tram, gliela
tol- gono, lui reagisce e viene internato. Scomparvero da un
gior- no all’altro dalle strade i suonatori ambulanti, i
mendicanti, e anche le grida dei raccoglitori di “Stracci,
ferro, vestiti vec- chi, carta”. Alla gente non dispiaceva. I
nazisti gli avevano tolto un fastidio. Molto dopo la fine
ignominiosa del Terzo Reich, c’era gente che ricordava con
nostalgia l’epoca in cui le leggi erano severe, non si
vedevano più accattoni e prosti- tute per strada, i ladri
venivano giustiziati e “nessuno si per- metteva di portare via
qualcosa che apparteneva a qualcun altro”.

Sulla severità i nazisti avrebbero costruito un mito. “I no-


stri amici criminali hanno preso nota che dal 1933 in Germa-
nia soffia un vento diverso, più fresco e più sano. Non ci
so- no più sentimentalismi nei nostri penitenziari e nelle
nostre prigioni,” proclamò trionfalmente il “Der Angriff”
(L’Attac- co) di Goebbels. Come dire: “La pacchia è finita”.
I nazisti non avevano complessi a passare per cattivi. E su
questo fon- davano una parte importante del loro sostegno
popolare. Gli rendeva consenso sonante. Il buonismo fu
bandito a furor di popolo. Ma anche con il plauso degli
addetti ai lavori, non solo delle forze dell’ordine ma anche
dei criminologi e dei giudici. I Principi della punizione
criminale adottati nel 1923, agli albori della Repubblica di
Weimar, prescrivevano che i carcerati, dovessero essere
trattati “in modo giusto e uma- no”, “rispettando la loro
dignità e rafforzando il loro senso

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dell’onore”. Un decennio dopo i giuristi prendevano sempre
più le distanze da questo approccio da “cuore tenero”. Già
nel 1932 alla conferenza annuale della sezione tedesca
dell’Unione internazionale dei criminologi c’era stato chi
aveva attaccato l’eccesso di umanità nei confronti dei carce-
rati con l’argomento che “andando avanti di questo passo,
tra trenta o quarant’anni, non ci saranno più punizioni per
nulla”. Ci fu chi teorizzò che “l’idea di punizione è troppo
profondamente radicata nell’opinione popolare sulla finalità
della giustizia perché sia soppiantata”.

Tutto sempre colpa degli ebrei

“È proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei!” faceva il


ri- tornello sull’aria della habanera della Carmen musicata da
Felix Hollaender, già celebre come autore delle canzoni di
Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro.

Se piove e se fa freddo,
Se il telefono è occupato,
Se la vasca da bagno perde,
Se ti sbagliano la dichiarazione dei redditi,
fi proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei!
Se quel che mangi sa di sapone,
Se la domenica piange il piatto,
Se il Principe di Galles è un finocchio…
È tutta colpa degli ebrei!
fi proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei!

Andò in scena nel 1931 al cabaret Tingel-Tangel. Prende-


va in giro le ossessioni degli antisemiti con la tecnica dell’e-
lenco, infilando uno dopo l’altro, tra una ripetizione del ri-
tornello e l’altra, i fatti più disparati, dall’attualità politica ai
motivi del malumore diffuso, alle cronache di costume. L’as-
surdo comico rifletteva l’assurdo del reale. Paradossalmente

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la canzoncina faceva parte di uno spettacolo di satira politica
che prendeva principalmente di mira non i nazisti ma la Re-
pubblica di Weimar. “Bugiardo, bugiardo, bugiardo, ma
co- me vorrei che le bugie fossero vere…”, faceva il ritornello
di Münchasen, la canzone dei delusi dalle bugie della politica
e dalla democrazia. C’era però anche un cameo su Hitler,
nei panni di uno spiritello di seconda categoria, che si
limitava a fare lo spauracchio: “Ah, ah! Sono il piccolo
Hitler, e ora mi metto a mordere. Vi metto tutti nel sacco,
uh, uh, uahuhh”. Era profetico, ma ancora in sordina, quasi
inconsapevolmen- te. Lo spiritello ancora in fasce in realtà
stava già azzannando con ferocia inaudita.
Il cabaret si presta bene alla compenetrazione intima tra
assurdo e tragico. Willy Rosen aveva inaugurato nel 1924 il
Kabarett der Komiker musicando Quo vadis, una parodia
dei nazisti quando ancora erano lontani dal potere e pochi si
curavano di loro. Si dice che sul vagone piombato che da
Theresienstadt lo portava ad Auschwitz continuasse a canta-
re: “Qualcuno di cui si ride c’è sempre in ogni luogo / In
ogni luogo c’è qualcuno che scherza / Qualcuno destinato a
recitare la parte del buffone…”. Nessuna risata sa essere tra-
gica quanto quella forzata del clown. È il buffone a
cogliere sfumature che altrimenti si perderebbero. Nel suo
bel libro Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti
(Quodlibet, 2016), Antonella Ottai riporta, tra molti altri,
uno sketch del “conferenziere” Franz Engel, ucciso poi ad
Auschwitz come moltissimi altri comici ebrei:
Vado verso mezzogiorno dal mio barbiere, come ogni giorno.
Vedo un uomo catapultato fuori dalla porta. Non me lo spiego.
Chiedo al mio barbiere: Che succede? Perché ha buttato fuori questo
signore? Mi dice: Stia attento. Il tipo viene nel mio locale e fa: ‘Mi
rada!’. Non potrebbe dire come tutti: ‘Sia così gentile da radermi?’…
A un tratto fa: ‘Qui puzza!’. ‘Scusi,’ gli faccio io, ‘credo che lei si
sbagli, ma di cosa dovrebbe esserci puzza?’. Tiro fuori il rasoio e
comincio a ra- derlo. E lui: ‘Continua a esserci puzza’. Comincio a
essere un po’ seccato. Dico: ‘Le faccio notare, signore, che il mio
locale viene di- sinfettato ogni giorno, non vedo proprio di cosa
dovrebbe puzzare’. Continuo a radere, e lui: ‘Eppure puzza’. Allora
mi arrabbio e dico: ‘Di cosa dovrebbe puzzare? Non è che è lei che
puzza?’. Mi dice: ‘Lo

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so io di che cosa puzza. Probabilmente puzza degli ebrei che sono
passati di qui’. Ah no, esplodo. Stia a sentire che cosa gli ho risposto:
‘Faccia attenzione a quel che dice, signore, tra la mia clientela ho
ebrei di prim’ordine, gente di riguardo, uomini d’affari onesti…
chi offende un ebreo offende anche me’. E allora lui: ‘Mi sa che sei
ebreo anche tu’. Capito cosa ha avuto la faccia tosta di dirmi?
Schiaffeg- giarlo e buttarlo fuori è stata questione di un attimo.
Non mi faccio mica offendere così io!

Non erano stati i nazisti a inventare l’antisemitismo. Si


sarebbero limitati a portarlo alle estreme conseguenze. L’a-
vevano trovato già bell’e diffuso, con radici in profondità
nell’anima nazionale, nella cultura popolare, e persino in
molti settori della cultura d’élite. Sin dal Medioevo non era-
no mai cessate le accuse agli ebrei di omicidio rituale, di dis-
sanguare bambini cristiani per condire le azzime pasquali, di
vampirismo e perversioni sessuali. Eppure la Germania era
anche il paese che più aveva integrato gli ebrei nella propria
cultura. Peter Gay ricorda nel suo memoir My German
Que- stion una lite furibonda che ebbe alla Columbia
University col suo collega Franz Neumann. Neumann,
ebreo e tedesco come lui, aveva lasciato da esule la
Germania nel 1933. Il suo Behemoth sarebbe divenuto per
generazioni di studiosi il te- sto di riferimento sul sistema
nazista. Gay racconta che ci li- tigò perché continuava a
sostenere una tesi assurda: che pri- ma dell’arrivo al potere
dei nazisti i tedeschi erano il popolo meno antisemita in
Europa. E che poi, ripensandoci, gli ven- ne il dubbio che
potesse avere ragione.
In Europa i tedeschi erano stati surclassati in zelo antise-
mita dagli intellettuali francesi. In fatto di astio a furor di po-
polo erano superati dai polacchi. Pogrom è una parola russa.
I russi non sono mai andati leggeri in fatto di pregiudizi po-
polari contro gli ebrei. Era stata la polizia zarista a inventare
i Protocolli dei Savi di Sion. C’è una continuità in questo,
da- gli zar fino a Solženicyn. La paranoia antisemita di
Stalin avrebbe raggiunto il parossismo nel dopoguerra: era
proba- bilmente davvero convinto che i medici ebrei
complottasse- ro per ammazzarlo. In fatto di martellante
propaganda sulla cospirazione ebraica mondiale, Hitler
aveva trovato in Ame-

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rica un maestro, se possibile ancor più fanatico, nel magnate
dell’automobile Henry Ford. C’era davvero qualcosa che
predisponeva più di altri la Germania allo sterminio?

Contro le élite e contro i disperati

Ma perché ce l’avevano tanto con gli ebrei? Tra le


molte spiegazioni possibili ce n’è una a prima vista bizzarra:
l’invi- dia. È quella avanzata nel 1933 da Siegfried
Lichtenstaedter, alto funzionario bavarese in pensione,
ebreo e al tempo stes- so tedesco sino al midollo. A tempo
perso scriveva romanzi colmi di profezie per il futuro. E
spesso ci azzeccava. Lo in- contreremo ancora in questa
veste nelle pagine che seguono. Sosteneva che gli antisemiti
ce l’hanno con gli ebrei per invi- dia. Invidiano gli ebrei
perché sono colti, sono ricchi, hanno successo, sono più felici
di loro. L’invidia è una ragione suffi- ciente per odiare.
L’invidioso si rode, ma non ammetterà mai di voler imitare
l’oggetto della propria invidia. Anzi lo deni- gra, dice che gli
fa ribrezzo, gli dà del ladro, del farabutto, dell’immorale,
dell’imbroglione, del furbo se ha successo, del parassita se
non ce l’ha, dell’essere spregevole in ogni ca- so. Nega di
voler diventare come lui. L’unica impagabile sod- disfazione
è se l’invidiato finisce in disgrazia, perde quelli che
l’invidioso considera vantaggi e privilegi. La lingua tede- sca
ha persino un termine specifico per indicare il godimen- to,
la gioia per la disgrazia altrui: Schadenfreude.
Un’altra spiegazione è che ce l’avessero con gli ebrei per
la ragione opposta, perché molti ebrei – e in particolare gli
immigrati – erano al livello più basso della scala sociale, po-
veri tra i poveri, ignoranti, insomma “brutti, sporchi e catti-
vi”. In realtà queste due spiegazioni addotte come origine
dell’odio non sono in contraddizione. Si può essere infastidi-
ti, odiare, chi sta peggio, e al tempo stesso invidiare, odiare,
chi sta meglio. Le due cose si tengono per mano, sono
com- plementari. Lo vediamo ogni giorno: coloro che più ce
l’han- no con gli immigrati, i poveracci arrivati dal Medio
Oriente, dall’Afghanistan, dall’Africa (o dal Sudamerica),
sono anche

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quelli che più ce l’hanno con le élite, con chi viene
accusato di non comprendere, anzi di prosperare sul
malessere del “popolo”, dell’uomo qualunque, dei
“dimenticati”.
Mentre scrivo ascolto in tv il nostro ministro dell’Interno
dire che quelli che si impietosiscono per gli immigrati, i pro-
fughi, i naufraghi lasciati a vomitare l’anima sulla nave che li
ha raccolti, dovrebbero invece avere a cuore il disagio degli
italiani in difficoltà. Quelli sì che soffrono, sono stati abban-
donati, mentre gli immigrati sono accolti in “hotel a tre stel-
le”, finiscono in testa alle graduatorie per l’assistenza, viene
martellato in continuazione. Scrosciano gli applausi. Ecco
uno che parla come il popolo che lo vota. Prima gli
italiani, Americans first, Les Français d’abord. Tutto già
sentito nel 1933. Nella puntigliosa rassegna degli orrori di
quell’anno, che sarebbe stata pubblicata, postuma, solo nel
dopoguerra col titolo La terza notte di Valpurga (in
riferimento al viaggio infernale di Faust in Goethe), Karl
Kraus si sovviene di un episodio di cui era stato testimone
a Berlino, che lo aveva portato “alla radice del problema”, lo
aveva portato “a intui- re ciò che è così difficile dire”: una
giornalaia tedesca che pubblicizzava a squarciagola il titolo:
Perché l’ebreo guada- gna di più e più presto di noi?

La domanda ricorrente, che tutti continuiamo a porci è:


ma perché tanto odio? È la domanda delle domande, secon-
do lo storico e giornalista tedesco Gö tz Aly, che ha provato a
rispondere in un libro ricco di suggestioni, tradotto in italia-
no con il titolo: Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? Ugua-
glianza, invidia e odio razziale 1800-1933.
Ma chi glielo faceva fare? Quale guadagno poteva deriva-
re dal coltivare, ingigantire, mettere al centro della propria
politica, anzi al centro di tutto, un tale odio per gli ebrei?
Che senso aveva? Non avrebbero potuto fare esattamente
tutto quello che hanno fatto senza doversela per forza pren-
dere, e con tanta ferocia, con gli ebrei? Imporre una dittatu-
ra al posto della democrazia di Weimar, eliminare ogni op-
posizione politica, compresi gli alleati di governo fino al

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giorno prima, perseguire una politica ultranazionalista, esal-
tare “la Germania per i tedeschi”, consolidare l’economia
interna, finanziare il riarmo, persino fare una guerra di con-
quista: tutto questo avrebbero potuto farlo lo stesso, senza
bisogno di aizzare all’odio degli ebrei. O no?
C’è chi ha tirato in ballo le psicosi di Hitler. Altri il fanati-
smo dei suoi seguaci. Victor Klemperer, che lo visse sulla
propria pelle e annotò giorno per giorno nel suo diario il
progredire dell’odio anche sul piano linguistico, ha una ri-
sposta molto semplice: lo fecero perché gli conveniva. A fare
i trucidi avevano tutto da guadagnare, poco da perdere.

Un guadagno enorme, tanto enorme da farmi ritenere che l’antisemi-


tismo dei nazisti non sia un’applicazione particolare della più gene-
rale teoria della razza, ma che essi abbiano ripreso e sviluppato la
teoria generale solo per dare un fondamento durevole e scientifico
all’antisemitismo. L’ebreo è la persona più importante nello stato
hit- leriano: è la testa di turco, il capro espiatorio più popolare,
l’antago- nista del popolo, il denominatore comune più evidente, la
parentesi più adatta a racchiudere i diversi fattori. Se al Fü hrer fosse
finalmen- te riuscita l’auspicata eliminazione di tutti gli ebrei, ne
avrebbe do- vuti inventare di nuovi, perché senza il diavolo ebraico –
Chi non co- nosce l’ebreo non conosce il diavolo stava scritto sulle
bacheche dello “Stü rmer” – senza l’ebreo tenebroso non sarebbe
esistita l’immagine luminosa del tedesco nordico. Del resto il Fü hrer
non avrebbe fati- cato a trovare altri ebrei, visto che più volte autori
nazisti hanno defi- nito gli inglesi come discendenti di una tribù
ebraica scomparsa…

Il ragionamento fila perfettamente, quasi come un’e-


quazione algebrica, se al termine “ebreo” sostituiamo il ter-
mine “straniero” o, peggio, l’oggi ancor più spregiativo
“immigrato”.
L’antisemitismo non era il solo argomento della propa-
ganda nazista. Ce l’avevano anche con le “influenze interna-
zionali venefiche e appestanti”, con “la ragnatela internazio-
nale della finanza”, con le organizzazioni economiche
mondiali che volevano imporre alla Germania “la miseria”,
con la scusa che era troppo indebitata, e ovviamente ce l’ave-
vano con la “minaccia bolscevica” e il “terrore comunista”.
Ma all’origine di tutto questo, nel ruolo di cerniera del gran-

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de complotto internazionale contro la Germania c’erano
sempre e comunque gli ebrei. Negli anni 1930-33 per i nazi-
sti fu l’antisemitismo a costituire “la struttura portante emo-
zionale”. Hitler, fa notare Aly, “pizzicava la corda della razza
quasi incidentalmente, come una nota smorzata e ricorrente
nel basso continuo delle sue arringhe”. E “bastava”,
perché questo era ciò che la sua audience voleva sentire. A
riprova cita anche un ricordo di famiglia. Suo zio August,
che allora era studente a Monaco, va ad ascoltare un
discorso di Hitler e nota che “parlava senza mostrare astio,
con una tale cautela che fu il pubblico a condire il discorso
con le consuete inte- riezioni ‘ebrei’, ‘traditori’, ‘canaglie’”.
Insomma: “Oratore e pubblico facevano dell’antisemitismo
uno spettacolo interat- tivo”. Interattivo come Facebook e
Twitter.
Facendo dell’antisemitismo la loro principale ragione so-
ciale, i nazisti ampliavano la loro base di consenso, facevano
leva su qualcosa di già molto diffuso nell’opinione pubblica.
Cavalcare il pregiudizio e l’isteria di massa che avevano rin-
focolato non era più un optional, era per loro una via
obbli- gata. Come l’apprendista stregone, non potevano
più con- trollare le forze infernali che avevano evocato ed
esasperato, nemmeno se le avessero volute rinnegare.
Perché proprio su questa esasperazione si erano affermati,
avevano riscosso una parte consistente del loro dividendo
elettorale. Ma è chiaro che sono condizionato dall’attualità.
Non c’è bisogno di essere nazisti per seminare odio e
prendersela con gli im- migrati. Basta che porti voti.

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5.
L’inferno è lastricato di elezioni

Negli otto mesi precedenti la “presa del potere” da


parte dei nazisti, i tedeschi avevano votato due volte
per la presidenza della Repubblica, tre volte per il
Reichstag, senza contare un’infinità di elezioni locali.
Un’intuizio- ne di Gramsci: i populisti di Hitler erano
diventati par- tito “di centro”? Cadute le coalizioni di
centro-sinistra e di centro-destra, quaglia un’alleanza
inattesa.

“Trentaquattro partiti! I lavoratori hanno il loro partito.


Ma non uno solo. Sarebbe troppo poco! Ne hanno tre,
quat- tro. La classe media, che è così intelligente, deve
averne per forza anche un numero maggiore. Quelli che
hanno interessi economici hanno i loro partiti. Gli agricoltori
hanno un par- tito tutto loro. Anzi, ne hanno due, tre. I
proprietari di case devono avere i loro specifici interessi di
natura politica e filo- sofica rappresentati in un partito! E
naturalmente non si possono trascurare i signori inquilini
in affitto. Devono avere un partito i cattolici. E uno i
protestanti. Ci vuole un partito per la Turingia e uno tutto
loro per i cittadini del Wü rttemberg…” Era uno dei
numeri preferiti da Hitler nei comizi. Il sarcasmo suscitava
inevitabilmente risate tra gli ascoltatori. Poi scoppiavano
applausi fragorosi quando con- cludeva: “Il mio obiettivo è
spazzare via questi trentaquattro partiti dalla Germania. Non
vogliamo essere i rappresentanti di una professione, di una
classe, di una sola religione o di una sola regione. Noi
vogliamo che i tedeschi si sentano un solo popolo”. Si rivelò
di parola. Spazzati via tutti gli altri partiti, non ci sarebbe
stata più neanche necessità di elezioni.

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L’antipolitica nazista trovava una sponda a sinistra. Kurt
Tucholsky prende di mira il moltiplicarsi di partiti e partitini
con argomenti che somigliano a quelli di Hitler:

Alle origini c’era L’ASSOCIAZIONE. Una, ma diventano subito


due – fenomeno conosciuto come partenogenesi – ed è immediata-
mente guerra: i loro segretari avranno pur diritto all’esistenza! E le
associazioni non hanno cariche sufficienti per tutti. Primo presiden-
te, secondo presidente, terzo presidente, direttori, direttori generali,
direttori esecutivi, membri onorari. E poi? Rimane ancora un consi-
derevole numero di persone che non sono un bel niente, persone
grigie, anonime, persone senza gioia. Questo affligge il Buon Dio.
Si accarezza la barba e inventa una cosa nuova. Un’opposizione!!! Co-
me si genera un’opposizione? Di solito un presidente bocciato si tro-
va uno di quelli che a ogni riunione semina assiduamente zizzania e
insieme cominciano a far guerra al presidente in carica e a rumoreg-
giare: è attraverso il baccano che si afferma l’esistenza dell’uomo.
Urlano anche nel sonno finché una dose di valeriana e un cazzotto
della moglie li riduce a più miti consigli. Ma in associazione purtrop-
po mancano le mogli e, in assenza di cazzotti, presto i due diventano
quattro che, tornando a casa, si fermano a ogni lampione, e per stra-
da urlano quello per cui, in associazione, non gli era bastata la saliva.
Finché, al più grigio dei quattro, sale in bocca la frase: ‘Signori,
do- vremmo organizzare la nostra opposizione in modo più
concreto’. Sono le 11 e 20 di una notte metropolitana. È lì,
all’angolo fra la Genthiner e la Lü tzowstrasse, che il tempo si ferma:
è nata ufficial- mente l’opposizione. Un presidente – ovviamente
quello bocciato nell’associazione – un secondo presidente, cassiere e
addetto al pro- tocollo. Li abbiamo detti tutti, erano in quattro, no?
Bisognava solo trovare la carica giusta per l’eventualità di un quinto
iscritto! In bre- ve si arriva a contare cinquantatré persone, e
quarantotto cariche. E un bel giorno successe che nel corso di una
riunione in cui si era de- ciso su quale articolo votare contro in
assemblea, la Presidenza chie- se il voto e due membri votarono
contro. Caos completo, stava cre- scendo una nuova opposizione
per combattere la vecchia opposizione e nella nuova opposizione,
così autonominatasi, si gene- ra un’ala di sinistra da cui a sua volta si
genera un’ala radicale. Alla fine era stato raggiunto l’ideale dello
Stato tedesco. A ogni uomo il suo partito! Oops!!! Scusate, ho
detto partito. Ma queste cose i par- titi non le farebbero mai.
Parlavamo solo di associazioni.

Sulla scheda di carta riciclata giallognola per le due ele-


zioni politiche del 1932 figuravano quasi una sessantina di

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partiti. Non con simboli ma con i nomi stampati in caratteri
gotici. Alcuni partiti, di cui non s’era sentito prima e non
si sarebbe sentito in seguito, riuscirono persino a eleggere
de- putati. Ma il problema non era tanto l’inflazione di
partiti e partitini, quanto la moltiplicazione all’infinito delle
elezioni. Nella Germania di Weimar – così chiamata perché
i padri costituenti avevano deciso di riunirsi nella città di
Goethe e Schiller anziché a Berlino – si votava in
continuazione, a tut- to spiano. Votavano tutti, senza
distinzione di censo o di ge- nere. La Germania era stata tra
i primi in Europa a introdur- re nel 1918, subito finita la
Grande Guerra, il suffragio femminile. Si votava
liberamente per una molteplicità di par- titi e liste. Si votava
con il proporzionale puro, il metodo più democratico che si
possa concepire: un cittadino, un voto. Avevano “la
Costituzione più bella del mondo”, che garanti-
va eguali diritti a tutti.
Le libere elezioni sono il sale della democrazia. Ma trop-
pe elezioni non le fanno per niente bene. Anzi, rischiano
di ucciderla. Nella Germania degli anni trenta andare a
votare e rivotare era un sintomo dell’incapacità di dare
risposte po- litiche alla crisi. Si votava e si rivotava perché
nessun partito, e nessuna delle possibili coalizioni aveva una
maggioranza. Ma tornare e ritornare a votare nella speranza
che il risultato futuro sia più favorevole di quello passato
non ha mai soppe- rito all’assenza di iniziativa politica, di
soluzioni politiche all’impasse. La voglia di rivincita non
paga né alle elezioni né al casinò , anzi è il modo più sicuro
per perdere.
Per il Reichstag si votò nel 1928, nel 1930, nel luglio
1932, nel novembre 1932 e poi si sarebbe rivotato ancora
nel marzo 1933. Cinque elezioni politiche in cinque anni,
una ogni anno! In queste cinque tornate di elezioni il Nsdap
(Na- tionalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, Partito
nazional- socialista dei lavoratori tedeschi) di Hitler aveva
ottenuto ri- spettivamente 800.000, 6,4 milioni, 13,7 milioni,
11,7 milioni e 17,3 milioni di voti. I voti ai nazisti erano
cresciuti in pro- gressione geometrica. Ma nello stesso
periodo era cresciuto costantemente anche il numero totale
dei votanti: da 30,4 a 39,3 milioni. Per i nazisti votarono
anche coloro che si erano

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astenuti, avevano disertato le urne, si erano allontanati di-
sgustati dalla politica nelle tornate precedenti. Secondo una
stima, dei 16,5 milioni di voti conquistati in cinque anni dai
nazionalsocialisti, 7 milioni sarebbero voti che prima erano
andati ai vecchi partiti di destra o di centro-destra, 1 milione
proverrebbero da elettori che prima votavano per i partiti
della sinistra, e ben 8,5 milioni da “elettori nuovi”, da gio-
vani che votavano per la prima volta o da elettori che nelle
precedenti consultazioni non avevano votato.
Il caso Weimar è un esempio clamoroso di come alla ca-
tastrofe ci si può arrivare non per disaffezione al voto ma
addirittura per più ampio coinvolgimento dell’elettorato.
Per anni quella Repubblica si era dovuta confrontare con
l’incubo ricorrente della violenza rivoluzionaria e controri-
voluzionaria, delle barricate, dei putsch, con la minaccia
continua di un intervento dei militari per por fine al caos.
E invece fu distrutta dopo una serie di elezioni a suffragio
uni- versale, con partecipazione crescente degli elettori.
Negli anni settanta del secolo scorso la mia generazione
si era assuefatta all’idea che libere elezioni fossero la garanzia
assoluta della libertà e della democrazia, e che la minaccia
venisse dai colpi di Stato. Con libere elezioni andavano al
governo i buoni, come Allende in Cile. Con i golpe erano i
militari cattivi, come Pinochet, a rovesciare i governi legitti-
mi. Da esecrare era chi ordiva i golpe: la Cia, ma anche il
Kgb, in Cecoslovacchia nel 1968, o in Afghanistan dieci anni
dopo. Coup d’fítat si intitolava un agile volumetto pubblica-
to nel 1968 da un allora giovane e già disinvolto studioso e
aspirante consulente dei servizi: Edward Luttwak. “Un ma-
nuale pratico”, prometteva il sottotitolo.
Ce l’eravamo raccontata a lungo in questa maniera. Quel
modello di narrazione non prestava però abbastanza atten-
zione a quel che era successo quarant’anni prima nel paese
al- lora più democratico d’Europa. Forse anche perché lo si
con- siderava irripetibile. Poteva succedere, e in effetti
successe di tutto. Ma c’era la certezza che non ci sarebbe
più stato un 1933. Perlomeno non in Europa. Non in
America. Era davve- ro necessario che trascorressero quasi
altri cinquant’anni per

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riscoprire che la strada per l’inferno può essere lastricata di
elezioni, almeno quanto lo è di colpi di Stato?

Campagna elettorale permanente

Nel 1932, l’anno prima che Hitler andasse al governo, i


te- deschi avevano votato due volte per l’elezione diretta del
pre- sidente della Repubblica, il 13 marzo e poi ancora il 10
aprile per il ballottaggio. Aveva perso Hitler e vinto
Hindenburg, grazie anche all’appoggio dei socialisti (ma non
dei comuni- sti che al ballottaggio avevano ripresentato il
loro candida- to). Nello stesso anno avevano votato due volte
quasi di se- guito anche per il Parlamento. Una prima volta il
31 luglio, e poi di nuovo il 6 novembre. Avrebbero rivotato,
per la terza volta in meno di otto mesi, il 5 marzo 1933. La
prima cosa che Hitler fece appena diventato cancelliere fu
sciogliere il Reichstag e tornare alle urne un’altra volta
ancora, in cerca di una maggioranza che continuava a non
avere, nemmeno sommando gli alleati nel governo. Oltre alle
Politiche e alle Presidenziali, nei mesi precedenti c’era stato
un susseguirsi ininterrotto di altri appuntamenti elettorali.
Pochi giorni do- po il ballottaggio alle Presidenziali, il 24
aprile, gli elettori tedeschi erano tornati alle urne per
eleggere la Dieta della Prussia, che da sola rappresentava tre
quinti del territorio e della popolazione tedesca, e le
assemblee di altri Länder. Tra un’elezione di portata
nazionale e l’altra c’erano poi elezioni locali a non finire.
Anziché a una “rivoluzione permanente” erano condannati a
una campagna elettorale permanente. Fi- nita una campagna
ne ricominciava subito dopo un’altra. È difficile governare
facendo propaganda elettorale in conti- nuazione. Difficile
pure fare l’opposizione.
Ogni elezione, anche locale, veniva usata non per quello
che era, ma come leva per modificare i rapporti di forza, o
anche solo per farsi valere di più a livello nazionale. Decisive
nel condurre Hitler alla cancelleria erano state ad esempio le
elezioni, a metà gennaio 1933, nel Lippe, il più piccolo degli
Stati tedeschi, tanto minuscolo che è difficile trovarlo dise-

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gnato nelle carte geografiche. I nazisti vi avevano messo in
campo tutte le risorse di cui potevano disporre. Hitler si era
impegnato di persona, battendo anche ogni piccolo centro.
Aveva tenuto quindici comizi in undici giorni. Più che alle
presidenziali. Ogni suo comizio era una vera e propria per-
formance teatrale. Il risultato fu che i nazisti ottennero 5000
voti più che alle Politiche di novembre, ma 3500 in meno che
a quelle di luglio. “Ha infilzato una mosca con la spada”, iro-
nizzò il giornale antinazista “Berliner Tageblatt”. Quella
manciata di voti in più erano stati però decisivi. Gli erano
serviti per dimostrare che il suo partito non era in inarresta-
bile declino come tutti pensavano in quel momento. E anche
per zittire i malumori e la fronda interna al movimento.

Se gli elettori preferiscono i ciarlatani

Il Partito nazista all’inizio veniva considerato come un fe-


nomeno poco più che folcloristico. Aveva un impatto locale
(limitato alla Germania meridionale, a Monaco e dintorni).
Il fanatismo chiassoso degli adepti suscitava derisione. Le
violenze venivano considerate un problema di ordine pub-
blico più che una minaccia alla democrazia. Elettoralmente
faticavano a superare il 2 per cento. Quando nel 1923 aveva-
no tentato il putsch gli era andata male. E quella volta non
erano nemmeno soli, avevano l’appoggio degli ultrà naziona-
listi, dai quali poi si erano separati. L’esercito era
intervenuto contro. Hitler era finito in prigione, sia pure a
scontare una pena mite. Non era detto ci riprovassero.
Il punto di svolta, il raggiungimento della massa critica
per poter sfondare c’era stato alle elezioni politiche del 14
settembre 1930 quando i nazionalsocialisti erano saliti al
18,2 per cento. Non erano ancora il primo partito. Si
erano piazzati al secondo posto, dopo i socialisti dell’Spd al
24,3 e prima dei comunisti del Kpd, al 13,3. Mutatis
mutandis, non c’è da andare molto indietro nella storia delle
recenti elezioni italiane per rendersi conto di quel che un
leader aggressivo e spregiudicato può combinare con poco
più del 17 per cento,

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e anche se il suo partito non è arrivato neppure secondo ma
terzo o quarto. Il “Berliner Tageblatt”, il più prestigioso
dei giornali berlinesi di allora, aveva definito “mostruoso”
che “sei milioni di elettori abbiano in questo civilissimo
paese votato per la più bassa, volgare, rozza
ciarlataneria”.
Ben detto, ma cosa avrebbero dovuto dire quando nel
1932 questi elettori divennero quasi 14 milioni? E poi 17 mi-
lioni? È forte la tentazione di dare la colpa agli elettori, al po-
polo che si è lasciato irretire. Lo si è sentito dire per
Trump, Erdoğ an, Modi, Orbá n, Bolsonaro. Anche per
Putin che è stato plebiscitato nelle Presidenziali russe.
Per Xi Jinping no, ma solo perché in Cina non si vota.
Spero solo che non diventi quello il modello di
riferimento. È sempre forte la tentazione di dare la colpa
agli elettori, al popolo. Verrebbe da rispondere,
parafrasando l’ironia di Brecht: “Se siete de- lusi dai risultati
elettorali, vi suggerisco di sciogliere il popo- lo ed eleggerne
un altro”.

Chi votava per Hitler?

“Ma c’è già tutto nei romanzi”, risponde una segretaria


d’ufficio all’interlocutore nell’esordio del saggio del 1930 su
Gli impiegati di Siegfried Kracauer. Si apprende molto dai
romanzi dell’epoca. Anche (sarei tentato di scrivere specie)
se non parlano direttamente delle vicende politiche. Vale an-
che per un argomento arido come le elezioni. E adesso, po-
ver’uomo? di Hans Fallada è del 1932, l’anno in cui ci fu il
maggior numero di elezioni. È la storia di una giovane
cop- pia di sposi di Berlino in lenta discesa nei gironi
dell’inferno della disoccupazione. Non sono nazisti, anzi.
Lui non si oc- cupa di politica. Lei viene da una famiglia
con tradizioni di sinistra, ha un padre socialista, un
fratello comunista. Ha un’innata avversione alle ingiustizie.
È una persona sempli- ce: “Ha solo un paio di concetti di
fondo: che la maggioranza della gente è cattiva solo perché la
si è fatta diventare così; che non bisogna giudicare nessuno
perché non si sa cosa si farebbe al suo posto”. Percepisce
la rabbia che monta.

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“Comportandosi così stanno facendo venire su soltanto del-
le belve feroci. E presto se ne accorgeranno”, dice al marito.
“Certo che se ne accorgeranno, le risponde lui. Da noi la
maggior parte è già passata ai nazisti”. “Grazie tante! Lo
so io per chi voteremo invece noi”, gli ribatte lei. “Beh! E
per chi? Per i comunisti?” “Si capisce”, fa lei, che sa il fatto
suo. “Bisogna che ci pensiamo ancora un po’. Non è che
non mi piacerebbe, ma non riesco a decidermi”, conclude
lui. “E va bene, amore, alle prossime elezioni ne riparliamo”,
accondi- scende lei.
Se non avessimo l’edizione integrale, pubblicata per la
prima volta da Sellerio nel 2008, non sapremmo neanche che
discutono anche di queste cose. La traduzione italiana del
1933 uscita nella Medusa le aveva censurate, assieme a
interi capitoli osé, dove si parla di sesso e altre cose
“laide”, offen- sive, a detta del traduttore, per il “più
pudico orecchio lati- no”. Il romanzo non ci fa sapere
come voteranno davvero i due protagonisti. Col senno di
poi si può tirare a indovinare che finiranno anche loro per
votare Hitler.

Chi e perché aveva votato per i nazisti? È da decenni una


delle questioni più studiate. Non basterebbe un’intera bi-
blioteca a contenere le risposte che sono state date. Le
elezio- ni della Repubblica di Weimar sono state analizzate,
se possi- bile, più in profondità di quanto lo siano quelle
dei nostri giorni. Sappiamo ormai per filo e per segno chi
votava e per chi. C’è una caterva di studi sul perché e per
come i voti si spostarono verso il partito nazista e si
prosciugarono quelli verso i socialdemocratici o quelli ai
partiti di centro, che a turno avevano preso parte al
governo, o avevano appoggiato il susseguirsi di maggioranze.
Ci sono interpretazioni a non finire sul se si spostarono
seguendo l’appartenenza di classe, le proprie tendenze
religiose o ideologiche, le promesse e la propaganda.
Ultimamente prevale l’opinione degli studiosi che ritengono
e provano che i tedeschi votavano soprattutto seguendo i
propri interessi economici, votavano per i partiti

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che si curavano di più dei loro problemi, o promettevano di
curarsene di più .

Difficilmente i grandi spostamenti elettorali dipendono


da una sola causa. Intervengono in genere più concause, una
molteplicità di fattori diversi, i più disparati. Il risultato può
dipendere dal per chi si vota quanto dal contro chi si decide
di votare, da interessi concreti e materiali quanto da grandi
idee, da piccolezze quanto da considerazioni di più ampio
respiro, da quanti si recano alle urne e quanti invece non
vanno a votare.
Permettetemi un piccolo aneddoto. Non dimenticherò
mai la conversazione orecchiata in treno, nella Pianura pada-
na, nel 1976, l’anno di massimo successo per il Pci. Nello
scompartimento strapieno tutti annunciavano che avrebbero
votato Pci. Ma per ragioni diverse, anche opposte: uno per-
ché i comunisti avrebbero messo a posto i delinquenti, “co-
me faceva Stalin in Russia”, un altro perché difendevano la
democrazia, uno perché stavano dalla parte dei lavoratori,
un altro perché in Emilia governavano bene, uno perché non
facevano compromessi, erano diversi dagli altri, un altro per-
ché condivideva il compromesso storico, l’impegno per uni-
re, uno perché suo nonno era stato partigiano, un altro per-
ché ce l’aveva con quel fascista di suo padre… Se sui treni
non fossero tutti attaccati all’iPhone, e si conversasse ancora,
forse capiremmo sui flussi elettorali più di quanto ci viene
raccontato.

Un’intuizione di Gramsci

C’è una curiosa pagina di Gramsci nei Quaderni, una del-


le ultime, redatta nell’anno della presa del potere da parte di
Hitler. Definisce il partito hitleriano come “di centro”, men-
tre “estremisti”, sarebbero Hugenberg e Papen, esponenti di
una destra più tradizionale. Una svista? O un’osservazione
estremamente profonda?

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Come molte delle note di Gramsci, non è un testo com-
piuto. È soprattutto un programma di lavoro. Non del
tutto “in chiaro”. È criptato tenendo in considerazione le
mani in cui potrebbe finire: i suoi carcerieri, i suoi
compagni. Proba- bilmente parla a nuora perché suocera
intenda. Non menzio- na la Russia sovietica, ma seguendone
la logica si potrebbe concludere che, non diversamente dai
giacobini, sono diven- tati “centro” anche i bolscevichi.
Intende dire che “centro”, per definizione, è chi governa,
mentre “estremisti”, sempre per definizione, sono i
movimenti “demagogici”, populisti, prima che arrivino al
governo? Prende un abbaglio – peral- tro condiviso da molti
in quel momento – nell’ipotizzare che siano i partiti della
destra “storica”, Hugenberg e Papen, a manipolare Hitler e
i nazisti, e non viceversa? L’unica cosa che non si può dire
è che non sappia di cosa parla. Benché prigioniero,
Gramsci seguiva con attenzione tutto quel che si andava
pubblicando sulla politica europea, e in particolare sulla
Germania.
Rileggiamola:

Uno studio accurato dei partiti di centro in senso largo sarebbe ol-
tremodo educativo. Termine esatto, estensione del termine, cambia-
mento storico del termine e dell’accezione. Per esempio, i giacobini
furono un partito estremo: oggi sono tipicamente di centro; così i
cattolici (nella loro massa); così anche i socialisti, ecc. Ma credo che
un’analisi dei partiti di centro e della loro funzione sia parte impor-
tante della storia contemporanea.
E non lasciarsi illudere dalle parole o dal passato: è certo per
esempio che i “nichilisti” russi sono da considerarsi partito di
centro, e così perfino gli ‘anarchici’ moderni. La quistione è se per
simbiosi un parti- to di centro non serva a un partito ‘storico’,
esempio il partito hitleria- no (di centro) a Hugenberg e Papen
(estremisti: estremisti in un certo senso, agrari e in parte industriali,
data la storia tedesca particolare). Partiti di centro e partiti
“demagogici” o borghesi-demagogici.
Lo studio della politica tedesca e francese nell’inverno 1932-33 dà
una massa di materiale per questa ricerca, così la contrapposizione
della politica estera a quella interna (mentre è sempre la politica in-
terna che detta le decisioni, s’intende di un paese determinato: infat-
ti è chiaro che l’iniziativa, dovuta a ragioni interne, di un paese,
di- venterà ‘estera’ per il paese che subisce l’iniziativa).

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Nella Germania degli anni trenta nel corso di appena po-
co più di un decennio c’era stato un cambiamento di
fondo nell’atteggiamento degli elettori. A cui pochi avevano
fatto caso, specie tra gli addetti ai lavori, cioè tra i politici e i
gior- nalisti. Dal 1919 al 1933, cioè in quattordici anni,
avevano avuto tredici cancellieri e ventuno governi. I
governi conti- nuavano a essere volatili. Ma nel contempo –
per buona par- te di quel periodo, cioè per oltre un
decennio – l’elettorato era rimasto sostanzialmente stabile
nelle sue scelte. Si sposta- va all’interno di ciascun campo,
ma poco tra uno schiera- mento e l’altro. Gli elettori si
esprimevano con una costanza simile a quanto succedeva da
noi nella cosiddetta Prima Re- pubblica. Lo spartiacque era
tra destra e sinistra.
Poi arrivò un partito che sin dal nome teneva a dichiarar-
si “né di destra né di sinistra”, ma “del popolo”. Si
dicevano allo stesso tempo “nazionalisti” e “socialisti”, oltre
che parti- to “dei lavoratori”. Beninteso dei “lavoratori
tedeschi” e ba- sta, non dei “lavoratori di tutto il mondo”.
Forzando un po’ in direzione dell’attualità si potrebbe dire
che si presentava- no allo stesso tempo come “sovranisti” e
“populisti”. Quasi da un momento all’altro l’elettorato
tedesco, che prima oscil- lava con regolarità tra i poli
tradizionali, divenne mobile. Con gli elettori in libera uscita
gli spostamenti assunsero un carattere impetuoso,
torrentizio, incontrollabile. Erano cam- biati i parametri. Ci
furono partiti in precedenza promettenti che evaporarono
all’istante. “Abbiamo visto il Partito demo- cratico sparire in
una sola notte”, scrisse il berlinese “8 Uhr-Abendblatt”,
riferendosi al crollo del Ddp, Deutsche Demokratische
Partei, progressista e di centrosinistra, che aveva governato
con il Zentrum cattolico e l’Spd socialdemo- cratico dal 1924
al 1928.
Alle Politiche del 31 luglio 1932, cioè di appena due anni
successive a quelle del 1930, il Nsdap era più che raddoppia-
to, balzando al 37,4 per cento e 230 seggi. Ed era diventato il
primo partito, superando per la prima volta il glorioso So-
zialdemokratische Partei Deutschlands (Spd). Ci sarebbero
stati ancora alti e bassi, ma era cambiato l’asse, il perno, il
“centro”. A novembre del 1932 il Partito nazionalsocialista

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02/04/19
avrebbe subito una battuta d’arresto, scendendo al 33,1 per
cento, ma restando sempre il primo partito.
Si confermava la presenza stabile di un “terzo polo”,
di- verso da quelli tradizionali. Tra sinistra, destra e
populisti le combinatorie possibili aumentavano, a seconda
di quali due si fossero accordati contro il terzo. Tra coloro
che avevano colto la novità ci fu il leader del Zentrum
cattolico, monsi- gnor Kaas. Chiamato a consultazioni dal
Presidente della Repubblica dopo le elezioni del
novembre 1932, gli aveva detto: “Ci sono 12 milioni di
tedeschi che si trovano all’op- posizione da destra [gli
elettori del Nsdap di Hitler], ce ne sono 13,5
all’opposizione da sinistra [i 6 milioni che avevano votato
per il Kpd e i 7,3 milioni che avevano votato per l’Spd]”.
Non si poteva evitare di coinvolgere gli uni o gli altri nel
governo. Se non si voleva rischiare che si unisse e pren-
desse l’iniziativa la sinistra si sarebbe dovuto per forza coin-
volgere nel governo Hitler. La cosa di cui non si era
proba- bilmente reso conto è che così sarebbe stato il Partito
nazista a diventare l’ago della bilancia, il vero centro.

Una volta al governo, il Nsdap alle Politiche del 5


marzo 1933 avrebbe addirittura sfiorato la maggioranza
assoluta col 43,9 per cento e oltre 17 milioni di voti. Ma
quelle già non erano più elezioni né libere né normali: si
erano svolte subito dopo l’incendio del Reichstag, tra
messe al bando di partiti e giornali della sinistra, in mezzo a
ondate di arresti e intimidazioni a tappeto, in un clima di
sospensione delle ga- ranzie costituzionali.

fi la coalizione, stupido!

I numeri elettorali sono importanti. Ma più importan-


te ancora è come possono combinarsi. Dal 1930 in poi in
Germania non era cambiato solo il peso elettorale relativo
di ciascuno dei partiti. Era cambiato qualcosa di ancora più
importante, anzi decisivo, in un sistema elettorale proporzio-

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02/04/19
nale: la possibile combinatoria con cui potevano interagire
gli uni con gli altri, entrare in coalizione con altri partiti. Non
corrisponde meccanicamente ai “blocchi sociali” che si van-
no via via formando. Né meccanicamente ai “blocchi ideolo-
gici”. Dipende da una molteplicità di fattori. Ma da uno in
modo particolare: dalla capacità di iniziativa politica.
Nel 1919 la coalizione, l’accordo di governo tra socialde-
mocratici, centro e partiti “borghesi” poteva contare addirit-
tura sul 76,4 per cento dei voti. Alla vigilia della nomina
di Hitler a cancelliere quella coalizione di un tempo,
sempre che fosse riproponibile, risultava dimezzata, poteva
contare su non più del 36,3 per cento dei voti. Sulla carta
una coali- zione delle sole forze di sinistra, Spd più Kpd,
avrebbe potu- to contare su una percentuale anche
superiore: 37,3 per cen- to. Centro più Sinistra avrebbero
potuto contare sul 53,3 per cento. Forse poco per governare
in quelle condizioni. Il fatto è che comunque nessuno ci
provò . Non presero nemmeno in considerazione la
possibilità di un’alternativa.
Non aveva una maggioranza nemmeno la coalizione
Nsdap-Dnvp su cui poggiava il governo Hitler: non
supera- va il 41,5 per cento di voti. Gli altri partiti, e tutti
gli addetti ai lavori, erano assolutamente convinti che fosse
impossibile che andassero al governo insieme, che non
sarebbero mai riusciti a mettersi d’accordo, e che, se anche
per caso ci fos- sero riusciti, non sarebbe durata. In fin dei
conti ci avevano già provato una volta, fallendo
miseramente: quando la de- stra, nell’ottobre 1931, si era
unita nel Fronte di Harzburg (dal nome della località della
Bassa Sassonia in cui si tenne il raduno di massa) per far
cadere il governo Brü ning, “tollera- to” dai socialdemocratici.
Avevano finito per litigare furiosa- mente anziché unirsi.
Molti erano convinti che sarebbe andata così anche nel
1933. Non tenevano però conto né della capacità di
iniziativa politica dei nazisti, né del fatto che c’era davvero,
indipendentemente dalle posizioni dei partiti, un blocco
sociale e di opinione che non vedeva l’ora di tro- vare uno
sbocco politico.

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Coalizioni potenziali ed effettive
SPD+
DDP+ SPD+
SINISTRA CENTRO DESTRA DDP+Z+ DVP+ Coalizione
DDP+
Z Z+DVP DVP DNVP effettiva

1919 45,5 38,6 16,3 76,4 80,8 43 16,3 76,4


1920 41,7 26,3 32 48 62 40,3 32 48/40,3
1924 I 33,7 22,5 43,4 42,9 52,1 31,7+ 36,8 55,5
1924 II 35,2 41 23,4 49,8 59,7 33,7+ 37,6 41
1928 40,7 28,8 29,9 50 58,6 28,8+ 35,9 58,6
1930 37,7 18,5 43,8 43,1 47,7 23,1+ 25,5 36,9
1932 I 35,9 16,8 47,2 38,4 39,5 20,9 10,1 …

1932 II 37,3 … … 36,3 38,3 21,5 14 41,5

Risultati elettorali per i principali partiti


USPD)
KPD Z LISTE
SPD DDP DVP DNVP NSDAP Astenuti
( (+ BVP) LOCALI

1919 7,7 37,8 18,6 20 4,4 1,6 10,3 … 17,3


1920 20 21,7 8,3 18 14 3,1 14,9 … 21,6

1924 I 13,3 20,4 5,8 16,7 9,2 8,2 19,4 6,6 23,7

1924 II 9,2 26 6,3 17,5 9,9 7,3 20,4 3 22,3

1928 10,7 29,8 5 15,2 8,6 13 14,3 2,6 25,5

1930 13,1 24,6 3,7 14,8 4,6 13,8 7,1 18,3 18,6
Kpd. Kommunistische Partei Deutschlands (Partito comunista di Germania)
Spd. Sozialdemokratische Partei Deutschlands (Partito socialdemocratico di Germania)
Ddp. Deutsche Demokratische Partei (Partito democratico tedesco)
Z. Zentrum (Partito di centro tedesco)
Bvp. Bayerische Volkspartei (Partitolo del popolo bavarese)
Dvp. Deutsche Volkspartei (Partito del popolo tedesco)
Dnvp. Deutschnationale Volkspartei (Partito nazionale del popolo tedesco)
Nsdap. Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalsocialista tedesco dei
lavoratori)
Rettangoli linea continua: coalizioni governative
Rettangoli tratteggiati: appoggio esterno
Linee punteggiate verticali: separazioni schieramenti Sinistra, Centro, Destra

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02/04/19
I socialdemocratici avevano fondato la Repubblica, ave-
vano governato per quasi un ventennio, erano i più strenui
difensori degli interessi dei lavoratori. Erano il partito che
con più coerenza difendeva la Costituzione e la legalità re-
pubblicana. Il problema era che una parte consistente degli
elettori tedeschi aveva cessato di credere nella Repubblica e
nella Costituzione, era delusa dalla democrazia. Preferiva
votare per chi gli prometteva altro.
L’apice del successo elettorale l’Spd l’aveva conseguito
nel 1928, con quasi il 30 per cento. Un terzo dei voti è, anche
in gran parte delle democrazie della nostra epoca, il peso cri-
tico che consente di candidarsi a governare. Ma il 30 per
cento non basta per governare da soli in un sistema propor-
zionale. Occorre una coalizione. I socialdemocratici avevano
governato a lungo in una Grosse Koalition con i centristi. Ma
poi questa coalizione si era rotta. E nemmeno sui grandi
principi, su quisquilie. Il governo di coalizione del socialde-
mocratico Hermann Mü ller era caduto nel 1930 su un cavil-
lo: a chi far pagare l’assicurazione contro la disoccupazione,
se ai lavoratori o alle imprese. “I socialdemocratici si sono
dati una randellata in testa perché erano infastiditi da una
mosca”, il commento impietoso del “Frankfurter Zeitung”.
I socialdemocratici non erano più riusciti a ricostruire
una coalizione, né aprendo al centro né aprendo alla sinistra.
Erano ancora un gigante, ma privo di leadership e di strate-
gia. I veti incrociati tra le diverse lobby in cui si divideva il
partito avevano finito col paralizzarlo. Nel luglio 1932, l’an-
no in cui anche i nazisti avevano superato il fatidico 30 per
cento dei voti, i socialisti avevano perso solo una decina di
seggi. I comunisti ne avevano guadagnato una dozzina. Nien-
te di così drammatico a prima vista. A subire un salasso era-
no stati i partiti che facevano concorrenza ai nazisti da de-
stra. Ma a sinistra si guardarono bene dal fare un’analisi
approfondita di quel che era successo. In particolare, non si
accorsero che era cambiata la possibile combinatoria politi-
ca, che nazisti e destra nazionalista, sino a quel momento ap-
parentemente incompatibili, avrebbero potuto mettersi in-
sieme.

65

02/04/19
Non si accorsero che quel tipo di compromesso tra po-
pulisti e destra era un possibile sbocco dei malumori, delle
delusioni, delle recriminazioni, della stanchezza, e degli
egoismi di tutte le parti sociali. Peggio: non si accorsero che
la priorità assoluta, l’unica cosa per cui sinistra e centro
avrebbero potuto riscattarsi, sarebbe stato far di tutto, anche
sacrificare i propri interessi di partito se necessario, per im-
pedirlo.

Magari era impossibile. Forse non ci sarebbero mai riu-


sciti. La cosa decisiva è che nemmeno ci provarono. Anzi.
Sembrava che sfidassero, quasi incoraggiassero la destra e il
centro a fare un governo con Hitler. Vero, non arrivarono
a dire: ci provino, tocca a loro che hanno vinto le elezioni for-
mare il governo, vediamo cosa sono capaci di fare. È vero
anche che nessuno gli propose formalmente di far parte di
una coalizione diversa.
A essere più precisi qualcuno ci aveva pure provato. A
coinvolgere in uno schieramento in funzione antinazista e
anticomunista i sindacati, se non direttamente il partito so-
cialdemocratico, c’aveva provato, in extremis, il generale
Kurt von Schleicher, l’ultimo dei cancellieri senza maggio-
ranza scelti dal presidente Hindenburg. Non era però
l’uo- mo giusto. Dopo aver fatto carriera a capo di uno
speciale Ufficio affari politici delle Forze armate, ed essere
diventato consigliere del Presidente della Repubblica, era
stato lui, in combutta con l’altro favorito di Hindenburg,
Franz von Pa- pen, a fare e disfare tutti governi che si erano
succeduti nel 1932. Era stato lui a far cadere il governo
Brü ning, e poi a far nominare cancelliere Papen dopo che
dalle elezioni di luglio non era emersa alcuna maggioranza
praticabile. Papen era stato ignominiosamente battuto, con
42 voti a favore, e ben 544 contro, in un voto di fiducia
richiesto dai nazisti e dai comunisti in un inatteso accordo.
Lui sospettò che ci fosse lo zampino di Schleicher. Da quel
momento in poi la sua osses- sione divenne fargliela pagare.
Non bisognerebbe mai sotto- valutare il ruolo delle ripicche
personali, specie tra alleati e

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02/04/19
compagni di partito. Ci fosse stata l’usanza del passaggio
della campanella, Papen a Schleicher gliel’avrebbe tirato in
testa. Si era così andati, per la seconda volta in tre mesi, a
elezioni anticipate. Ancora una volta nessun partito aveva la
maggioranza. Né si profilava all’orizzonte una coalizione che
potesse avercela. Fu nominato cancelliere Schleicher. Senza
che il Reichstag fosse consultato, anzi neppure convocato.
Schleicher vantava l’appoggio dell’esercito. Aveva an-
nunciato l’intenzione di formare un governo “al di sopra dei
partiti”, mandava segnali sia a sinistra che a destra. Corteg-
giava Hitler perché entrasse nel governo, o almeno in mag-
gioranza. E allo stesso tempo strizzava l’occhio ai sindacati e
alla sinistra. Diceva di voler perseguire una politica econo-
mica “né socialista né capitalista”. Trotsky lo definì “un enig-
ma con le spalline”. I sindacati gli fecero un’apertura di cre-
dito. “Noi in quanto sindacati non abbiamo la facoltà , anzi
nemmeno la possibilità di sostenere un governo… Come sin-
dacato dobbiamo però fare i conti con ogni governo,
anche se non ha la nostra fiducia”, la dichiarazione solo
apparente- mente sibillina di Theodor Leipart, il leader della
Allgemei- ner Deutscher Gewerkschaftsbund (Adgb), la Cgil
tedesca di allora. Malauguratamente il “ni” a Schleicher
sarebbe diven- tato poco dopo praticamente un “sì” a
Hitler. I socialdemo- cratici gli risposero invece con un no.
Con tutta probabilità dovuto anche al timore di farsi
complici di un colpo di Stato militare nel caso il generale
Schleicher avesse fatto interveni- re la Wehrmacht per
sciogliere le contrapposte milizie di par- tito. Per i difensori a
oltranza della Costituzione e della lega- lità repubblicana
questo era inaccettabile, fosse stato anche l’unico modo per
fermare Hitler.
Hitler pretendeva la nomina a cancelliere sin da quando
il suo era diventato il partito più votato e con più
deputati. Più o meno tutti i cancellieri che nel 1932 si
avvicendarono alla testa di governi privi di una maggioranza
parlamentare gli avevano proposto di entrare nel governo,
o almeno in maggioranza. Ma non erano disposti a cedergli
la cancelleria né a lasciarlo governare da solo. Il presidente
Hindenburg sembrava irremovibile. Gliel’aveva detto
chiaro e tondo, in

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02/04/19
faccia, durante il loro primo incontro dopo le elezioni in
lu- glio: non era conciliabile con la sua coscienza e il suo
giura- mento alla Costituzione “consegnare tutti i poteri a un
parti- to solo, e per giunta a un partito così intollerante
verso gli altri”; un siffatto governo rischiava di sfociare
inevitabilmen- te in “una dittatura di partito”.
Hitler dal canto suo rifiutava ostinatamente ogni coinvol-
gimento parziale. “Tutti mi chiedono: Herr Hitler, perché lei
rifiuta di salire sul treno di un governo di coalizione? La mia
risposta è sempre la stessa: perché mai dovrei salire su un
treno da cui sarei costretto a scendere subito, visto che non
posso appoggiare le azioni dei reazionari che guidano il tre-
no?”. Noi non siamo come gli altri, non siamo disposti a
compromessi, non ci prestiamo a giochetti parlamentari, era
il refrain. E comunque “quando prenderemo il potere non
lasceremo che ce lo tolgano”, aggiungeva. Nei comizi per
le elezioni di novembre aveva pronunciato varianti di questo
discorso almeno quarantacinque volte.
La pretesa del “tutto o niente”, il rifiuto di governare coi
vecchi arnesi “corrotti” e “reazionari”, condusse però anche
una parte degli elettori che avevano votato per lui al secondo
turno delle Presidenziali, e poi così numerosi alle Politiche
di luglio, ad abbandonarlo. Potevano andargli bene la “pu-
rezza”, l’aggressività verbale nei confronti di tutti gli altri
partiti. Ma non il fatto che rifiutando l’idea stessa di un con-
fronto con gli altri, il Partito nazista si condannasse alla steri-
lità, finisse col non avere nessuna influenza sulle scelte di go-
verno. Alle Politiche di novembre del 1932 il Nsdap ebbe
una pesante battuta d’arresto. Aveva perso 2 milioni di voti e
34 deputati. Erano ancora il primo partito. Ma isolati e ar-
roccati rischiavano l’irrilevanza.
La strategia del “nessun compromesso”, “nessuna anda-
ta al governo dalla porta di servizio”, veniva contestata an-
che all’interno del partito nazista. Gregor Strasser, camerata
della prima ora, aveva cercato di convincere Hitler a cambia-
re linea. Era considerato l’esponente di punta dell’ala “di si-
nistra” del partito. Suo fratello Otto era stato uno dei teorici
del “bolscevismo prussiano” – una mescolanza di idee nazio-

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02/04/19
naliste, anticapitaliste e razziste – e guidava un gruppo scis-
sosi dal Nsdap. Gregor aveva invece scelto di stare con
Hit- ler. Tacciato di traditore, additato nelle sezioni del
partito come Giuda, anzi come “ebreo”, si era dimesso da
ogni inca- rico di partito e se n’era andato in vacanza
all’estero. Non in America Latina come Dibba, ma nella più
vicina Italia. Sulla stampa cominciò a correre voce che si
accingesse a guidare anche lui una scissione nel movimento,
che stesse trattando in segreto con il generale Schleicher per
entrare nel governo. Non era vero, ma Hitler se la sarebbe
legata al dito.
La vendetta venne servita fredda: Hitler avrebbe fatto
am- mazzare un anno e mezzo dopo dalle SS, la sua
guardia per- sonale, che nel frattempo avevano assunto il
pieno controllo della Polizia segreta di Stato, sia Strasser che
il generale Sch- leicher (quest’ultimo con l’intera famiglia).
Era il 30 giugno 1934, la stessa “Notte dei lunghi coltelli” in
cui fu giustiziato sommariamente Ernst Rö hm, il capo
carismatico delle SA, le famigerate milizie di partito, che
scalpitavano per “continua- re la rivoluzione
nazionalsocialista”. Hitler soprattutto non tollerava
concorrenti. Pare che la rapidità con cui si era sba- razzato
dell’opposizione interna, con un colpo al cerchio e uno alla
botte, avesse impressionato molto Stalin.

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02/04/19
6.
La filologia dell’odio

Insulti, sconcezze, troll che spacciano rivelazioni e no-


tizie taroccate. Nelle pagine dello “Stürmer” c’era già
quasi tutto il peggio dei social online. La rubrica del-
le lettere dava sfogo a tutte le lagne, tutte le stupidate,
davvero “bagatelle per un massacro”. fi sui tecnici nella
pubblica amministrazione che si abbatte la prima “me-
gavendetta” del nuovo governo, accompagnata dall’a-
strusa nomenclatura di quelli che vanno eliminati.

È la politica che cambia il linguaggio o è il linguaggio a


cambiare la politica? Uno dei documenti più straordinari e
profondi sui mutamenti nel modo di esprimersi in quegli an-
ni è la Lingua Tertii Imperii del filologo Victor Klemperer,
una riflessione fondata sui diari che aveva scrupolosamente
tenuto dal 1933 in poi. C’è qualcosa che accomuna il
Klem- perer dei Diari e il Gramsci dei Quaderni. Nelle loro
rifles- sioni si sforzano di cercare le ragioni profonde di
quanto è successo, Gramsci del perché del fascismo e della
sconfitta del movimento di cui era leader, Klemperer del
perché la sua Germania si era consegnata anima, corpo e
lingua a Hitler. Diverse le personalità, diversi i tempi,
diverse le circostanze. Ma curioso: entrambi erano stati
linguisti.
Sin dall’inizio i nazisti si mostrano campioni dell’insulto,
dell’iperbole polemica, della volgarità rivolta agli avversari e
agli ebrei e a tutti gli estranei al “popolo” con cui si
identifica- no. La loro ascesa è accompagnata da un “Vaffa”
continuo, ripetuto, scandito all’infinito. Non è solo sfogo
plebeo. È stu- diato, voluto, recitato. C’era già molta violenza,
anche verbale, nelle continue campagne elettorali, nei comizi
e nelle discus- sioni politiche dell’epoca di Weimar. Una
violenza teatrale.

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02/04/19
Il pubblico non si limitava ad ascoltare, presenziare pas-
sivamente. Partecipava rumoreggiando, applaudendo, scan-
dendo slogan. Sembrava di assistere a un talk-show televisi-
vo dei giorni nostri, con comportamenti aggressivi codificati,
prevedibili, anzi previsti dalle regole, come in un gioco di
ruolo. Grida, boati, sibili, insulti, bestemmie, maledizioni ri-
volte agli avversari facevano parte integrante del repertorio.
Così come i gesti, il saluto a braccio teso contro il pugno
chiuso. I comizi, le parate, più tardi le adunate e le
celebra- zioni del regime nazista si sarebbero trasformati in
eventi, con regia e scenografie sempre più spettacolari.
L’insulto sarebbe stato il filo conduttore anche della più
ricca e importante mostra d’arte esposta durante il Terzo
Reich. L’esposizione Entartete Kunst, Arte degenerata, inau-
gurata a Monaco nel luglio 1937 esibiva 650 opere proibite
già dal 1933. Tra gli altri van Gogh, Cézanne, Chagall,
Mon- drian, Klee, Kandinsky… Era organizzata in nove
sezioni, con titoli tipo: “Idioti, cretini e deformi”, “Bordelli,
putta- ne, ruffiani”, e così via. Una era intitolata
semplicemente: “Ebrei”.
Faccio zapping in tv. Mi fermo su una puntata di
Piazza pulita di Formigli su La7. Intervistano dei ragazzi in
un bar del litorale ostiense dopo il pestaggio di un giovane di
colo- re. “Se vedo un nero lo insulto.” Ma perché? “Mi
piace of- fendere”, “Mi diverte”, le risposte. Il giorno dopo
su Face- book c’è chi si lamenta. Del servizio, non degli
odiatori. “Perché non fate vedere anche le persone pestate…
le ragaz- ze stuprate e massacrate sempre da queste brave
persone [sottinteso: di colore]”, fa un post. E un altro:
“Millemila puntate su un ragazzo di colore pestato da dei
deficienti… Ma non vedo mai puntate sugli accoltellamenti
da parte dei ragazzi di colore a danno di poliziotti, passanti
ecc. Per non parlare degli stupri…”.
Confesso una tremenda sensazione di già ascoltato nei
toni concitati, negli scambi di insulti, nelle insinuazioni, nel-
la propensione al linciaggio verbale, sempre più spesso an-
che personale cui si assiste – non da adesso, ormai da anni –
negli slogan gridati allo stadio o in piazza, nelle risse in

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02/04/19
Parlamento, in televisione, ma soprattutto in rete. Insulto,
ergo sum.

Un giornale per la Verità

Tutta la contemporaneità degli insulti virali via social,


delle fake news spacciate come rivelazioni, dell’odio appa-
rentemente genuino e spontaneo, che poi in realtà è colti-
vato ad arte, dei troll che moltiplicano il messaggio si trova
già nelle colonne dello “Stü rmer”. Era un giornaletto del
Sud, fondato negli anni venti dal boss del partito nazista
in Franconia, Julius Streicher, un ometto calvo con i baffi
alla Hitler. All’inizio solo quattro paginette, senza
illustrazioni e pochissima pubblicità. Circolava in poche
migliaia di copie, solo a Norimberga e dintorni. “Settimanale
della lotta per la verità” recitava la testata. Strano destino
delle parole: più si mente, più si è faziosi, più ci si erge a
soli che dicono il vero. “Pravda”, Verità, si chiamava
l’organo del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Non
saprei se è in base a questi pre- cedenti che è stato scelto
“La Verità” come testata del nuovo giornale di Maurizio
Belpietro. Lo “Stü rmer” mi richiama piuttosto la galassia di
siti web fiancheggiatori che si dichia- rano portatori di
“verità ”, si pretendono “fuori dal coro”, si vantano di
“rivelare”, in modo libero e irriverente, “sen- za guardare
in faccia nessuno” quel che i media tradizionali
cercherebbero di “tenere nascosto” al popolo.
Imperversano in tutto il mondo, in tutte le lingue. Tan-
to per restare in casa e limitarsi ai siti che parlano italiano:
Profugo trascina via bambino per attirare in trappola mamma
e stuprarla, Immigrata nigeriana partorisce e getta il feto nel
secchio, Se sei immigrato il terreno da coltivare te lo regala lo
Stato. Così pagine web che si intitolano “Informare per re-
sistere”, “Catena umana”, “Tutti i crimini degli immigrati”,
“Vox News”, “Piove governo ladro”, “Stop invasione”.
Basta sostituire “ebrei” a “immigrati” e sarebbero copie
carbone delle “verità” spacciate nella Germania degli anni
trenta.
La ragione sociale dello “Stü rmer” era esplicita sin dal

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02/04/19
primo numero: “Finché l’Ebreo continuerà a occupare la
nostra Casa, saremo schiavi dell’Ebreo. Perciò l’Ebreo deve
andarsene. Chi deve andarsene? L’Ebreo!”. L’ebreo, al sin-
golare, non gli ebrei: l’intero popolo, non singoli possibili
malfattori! Era una fabbrica di odio, gestita magistralmente.
Non c’era numero in cui non fossero riferiti scandali, malver-
sazioni, delitti, stupri, perversioni sessuali, invariabilmente
attribuiti agli ebrei, o alla sinistra, che a ogni modo per i na-
zisti erano la stessa cosa. All’inizio il bersaglio era soprattut-
to politico. Poi si aggiunsero le vignette, disegni e foto osé di
donnine nude o discinte, e un’aggressività che superavano in
violenza, volgarità e turpiloquio qualsiasi altra pubblicazio-
ne nazionalsocialista, compresi il “Vö lkischer Beobachter”,
l’organo ufficiale del Nspd, e il “Der Angriff” di Goebbels.
Molti nazisti lo giudicavano eccesivo, controproducente
per l’immagine del partito. Fu Hitler a intuire che gli forniva
un servizio impagabile, ancor più efficace della maschera di
perbenismo.
Streicher divenne intoccabile. Era un accentratore infati-
cabile: continuò a occuparsi della sua creatura, a seguire di
persona ogni minimo dettaglio redazionale anche quando il
giornale aveva centinaia di migliaia di copie di tiratura e un
organico redazionale di oltre trecento redattori. Secondo un
rapporto commissionato alla Gestapo da Gö ring, della
reda- zione faceva parte anche un ebreo, Jonas Wolk, che
firmava con lo pseudonimo Fritz Brand alcuni degli articoli
più vele- nosi contro gli ebrei. Streicher, a quanto pare, lo
pagava pure bene. Ma, trattandosi di ebreo, rifiutava di
stringergli la mano. Ecco quel che dice del suo stile un
lettore che dichiara di non essere né ebreo né antinazista.
“Streicher pubblica in ciascun numero del suo ‘Stü rmer’
qualcosa che attira l’atten- zione. Porta sempre alla luce
qualcosa di marcio. Tiene i suoi lettori in uno stato costante
di suspense. Dà ai lettori quello che vogliono: sensazione e
porcherie… cattivo gusto… Ma chi sono i suoi lettori?
Soprattutto adolescenti, che su queste pagine imparano
tutto su argomenti come omosessualità e
prostituzione…”
Anche la nudità serve a propagare odio. Ad esempio, una

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prima pagina del 1926 è per oltre la metà occupata da un di-
segno in cui si vede una bella ragazza nuda, bianchissima,
biondissima, col seno costretto da lacci che evocano un bon-
dage erotico sadomaso, attorniata da tre uomini dalle fattez-
ze stereotipate dell’ebreo, dall’espressione luridamente libi-
dinosa, che si apprestano a seviziarla. La vignetta è
intitolata: La ragazza polacca massacrata. Subito sotto
campeggia, a tut- ta pagina, uno dei motti preferiti della
testata: “Gli ebrei so- no la nostra disgrazia!”. Furono
immagini pornografiche co- me questa, presenti in gran
copia in ogni numero del giornale, a contribuire al successo
della pubblicazione. An- dava a ruba soprattutto tra i
ragazzini, che se lo passavano di mano in mano e lo
leggevano di nascosto, un po’ come più tardi i ragazzini
americani avrebbero fatto con “Playboy” e la mia
generazione con “Il Borghese” di Mario Tedeschi (non me
ne sarei accorto non fosse per un compagno delle medie che
a casa aveva l’intera raccolta del settimanale, e an- che un
busto di Mussolini) e poi le copertine di “Panorama” e
dell’“Espresso” (quelle di una volta, s’intende).
Lo “Stü rmer” martellava a ogni numero con mezza
doz- zina di articoli e vignette sugli stessi argomenti. Dopo il
1933 le tirature dei numeri monografici dedicati all’omicidio
ritua- le praticato dagli ebrei, alla criminalità ebraica, alla
cospira- zione mondiale ebraica, ai crimini sessuali ebraici, e
così via, superarono i 2 milioni di copie. Il numero
sull’omicidio ritua- le era stato bandito, ma solo dopo che la
tiratura era andata esaurita, e solo perché “offendeva i
cristiani” mettendo sullo stesso piano rituale il cannibalismo
attribuito agli ebrei e la comunione con l’ostia consacrata, il
corpo di Cristo. La diffu- sione e la visibilità erano anche
superiori alla tiratura: bache- che espositive affidate
all’iniziativa e all’ingegnosità dei lettori entrarono a far parte
del paesaggio in tutta la Germania. Il materiale sembrava
inesauribile. Veniva fornito, in parte, da specialisti della
denuncia e del ricatto, i quali talvolta cercava- no di farsi
pagare sia dal ricattato che dal giornale a cui pro- ponevano
foto e documenti compromettenti. Lo “Stü rmer” aveva, dal
1933 in poi, anche un formidabile archivio, che
comprendeva testi e documenti provenienti da fonti
ebraiche

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e, in particolare, una fornitissima sezione iconografica, com-
prese foto pornografiche, che, a detta di Streicher, servivano
a documentare scientificamente la parte più “sozza” della
que- stione ebraica. A fornire qualsiasi cosa che collegasse gli
ebrei alla pornografia, ai delitti a sfondo sessuale e alla
criminalità comune fu mobilitata anche la Gestapo. Quando
qualche uf- ficiale protestò che non era questo il loro
mestiere, Streicher si rivolse in alto per farli mettere in riga.
La cosa spaventosa è che la stragrande maggioranza del
materiale accusatorio, ve- rosimile o inverosimile che fosse,
veniva fornito entusiastica- mente, e gratis, dagli stessi
lettori.

Piccola posta dell’odio

Una donna scrive dell’usanza ebraica di “gettare dei sas-


si” (in realtà poggiare dei sassolini) sulla tomba dei congiun-
ti. E la commenta nel modo seguente: “E dicono: salutami
Abramo, Isacco e Giacobbe, e quando incontri il figlio del
carpentiere [Gesù ] lanciagli un sasso in testa”. La lettera
proviene da una regione rurale della Germania. È improba-
bile che l’autore della lettera abbia orecchiato o si sia fatto
tradurre una preghiera ebraica per i defunti. L’odio è
riserva- to ai “diversi”. Senza il minimo sforzo per cercare
di capire esattamente in che cosa sono diversi.
Il diverso per antonomasia è quello che mangia diversa-
mente da te. Quindi è comprensibile che gran parte delle
missive trattino di questioni legate al cibo, al cosa cucinano e
al modo in cui lo cucinano, e alla compravendita dei
generi alimentari. Non ci sono allusioni alla puzza della loro
cucina, come avviene in situazioni contemporanee, perché in
realtà non c’è vicinanza, il diverso è immaginato da lontano,
inven- tato di sana pianta, come quando si attribuisce agli
ebrei l’in- tenzione di prendere a sassate Gesù . Una massaia
è scanda- lizzata che un’ebrea cerchi di vendere a non ebrei
un’oca che il suo rabbino ha giudicato non kosher. Non c’è
ovviamente la minima conoscenza di cosa renda “puro” o
“impuro” un animale da macello. La conclusione del
lettore indignato è

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una variante del “dagli all’untore” e all’avvelenatore di poz-
zi: gli ebrei non si fanno scrupolo di avvelenare i gentili per
avidità e odio, spacciando cibo andato a male. Un’altra ra-
gazza, figlia di un capoccia locale nazista, è stata a servizio da
una famiglia cristiana, finché un giorno le viene servito un
polpettone fatto con carne comprata da una macelleria
ebraica. Evidentemente per anni le hanno raccontato di co-
me gli ebrei a Pasqua dissanguino i ragazzini cristiani per
condire le azzime e inquinino deliberatamente con chissà
quali schifezze la carne che poi vendono ai non ebrei. Lei ri-
fiuta inorridita. Tiene testa ai datori di lavoro che la prendo-
no in giro per i suoi pregiudizi assurdi. E, piuttosto di
man- giare quel pasto orrendo, si licenzia. A raccontare
con fierezza la storia sulla pagina delle lettere dello
“Stü rmer” è il padre della ragazza. Il direttore del giornale,
Julius Streicher, loda come esemplare il comportamento di
figlia e padre.

Una categoria a sé stante di lettere denuncia gli appetiti


smisurati e le depravazioni sessuali. Prerogativa anche que-
sti, manco a dirlo, degli ebrei. Non è detto che abbiano
letto il Mein Kampf, il passo in cui Hitler immagina “il
ragazzo ebreo dai capelli neri e crespi”, capace di “attendere
per ore in agguato, con un’espressione di gioia satanica sul
volto per la ragazza ignara che insozzerà col suo sangue,
allontanando- la così dal suo popolo…”. Lo sanno e basta.
Gliel’hanno ri- petuto così tante volte che è verità ovvia.
Chi non sa che gli ebrei, orridi, ma vogliosi e superdotati,
seduttori nati, non pensano ad altro, aspettano solo
l’occasione di inguaiare, o stuprare, fanciulle ariane? Se
non l’hanno visto coi propri occhi, l’hanno immaginato in
modo vivido.
Un lettore racconta la scena a cui ha assistito al cinema:
una Fräulein si alza e se ne va lasciando in asso l’uomo che le
siede accanto. Non ha dubbi: evidentemente si tratta di
uno sporcaccione ebreo che ha molestato un’ariana
sussurrandole qualcosa di sconveniente. Altri raccontano di
approcci inde- centi di pedofili (ovviamente ebrei) a ragazzine
e ragazzini (ov- viamente ariani) nei parchi. Lo sanno tutti: i
maniaci sessuali

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degli anni trenta erano ebrei, mentre quelli dei giorni nostri
sono negri o maghrebini, comunque immigrati. I nostri eroi
epistolari si sentono moralmente in dovere di intervenire e de-
nunciare. Uno scorge una ragazzina che discorre con un
uomo più anziano, dalle “pronunciate fattezze giudaiche”.
Segue la ragazza, la ferma e le fa una ramanzina. La lettera
esprime in- dignazione per il fatto che a quel punto
interviene un poliziot- to, il quale chiede i documenti a lui, il
salvatore, anziché dar la caccia al sospetto aspirante
violentatore.
Sto attingendo alle lettere della più becera delle pubblica-
zioni naziste raccolte dallo storico americano Dennis
Showal- ter in Little Man, What Now: Der Stürmer in the
Weimar Republic. Showalter non si è limitato a riprodurre
quelle pub- blicate, ha ritrovato in quel che è sopravvissuto
degli archivi dello “Stü rmer” anche gli originali, scritti a
mano con grafia stentata e infantile, a volte quasi
incomprensibile, con le loro sgrammaticature e gli errori di
ortografia, su carta di ogni ori- gine e formato, per lo più su
fogli di quaderno. Sono scritte da persone di ogni
condizione sociale, commercianti, profes- sionisti, professori
di liceo, ma anche casalinghe e operai. So- prattutto sono
scritte da povera gente frustrata e rancorosa, che crede di
aver individuato il bersaglio delle proprie frustra- zioni negli
ebrei, in quelli che “guadagnano alle loro spalle”, nei
privilegiati e negli intellettuali da cui si sentono trattati con
sufficienza, nei politici “traditori del popolo” da cui si
sento- no abbandonati. Si rivolgono ai soli che sembrano
disposti ad ascoltarli, che danno sfogo alle loro frustrazioni,
che non li rimproverano di maleducazione, non gli danno
lezioni di bon ton, anzi li incitano a vuotare il sacco,
premiano l’autenticità del loro parlare “come mangiano”. Le
loro rimostranze trasu- dano ignoranza, rancori, odio,
fanatismo. Magari fossero ope- ra di cretini, di gente che dà
di matto. La cosa tremenda è che sono autentica vox populi.

Il potere della lagna

Per lo più è un florilegio di lamentele, lagnanze, richieste


d’aiuto spicciole. Evidentemente i nazisti avevano intuito

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con molto anticipo il “potere della lagna”. Una madre si la-
menta di essersi data inutilmente da fare nel vano tentativo
di ottenere dalle autorità municipali la pubblica assistenza
che le spetterebbe (siamo nella primavera del 1932). Un let-
tore racconta la storia di un reduce di guerra carcerato. Sta
scontando una condanna a otto anni per avere minacciato
con un coltello una fruttivendola (presumibilmente ebrea).
Non è forse comprensibile che a un vecchio soldato saltino i
nervi di fronte a tanta avidità? I commercianti sono sempre
più avidi, gli ebrei sono tutti commercianti, quindi gli ebrei
sono avidi: questo il sillogismo. Un’altra lettera racconta il
caso di un nazionalsocialista con famiglia numerosa. Ha do-
dici figli. Uno di questi vorrebbe fare l’apprendista meccani-
co. Ma l’unico meccanico del luogo non lo vuole assumere,
non ama i nazionalsocialisti, è uno che simpatizza e vota per
i nazionalpopolari di Hugenberg (come per Lega e 5
Stelle, non si poteva ancora immaginare che i due partiti
sarebbero andati al governo insieme). Non potrebbe il
giornale fare qualcosa per trovare lavoro a un ragazzo
volenteroso discri- minato per la sua fede politica? Un
miliziano delle SA si ar- ruola in polizia. Gli dicono che deve
scegliere tra rinunciare alla sua tessera di partito o
rinunciare al lavoro in polizia. Il padre, impiegato delle
Poste, teme “rappresaglie politiche”, è troppo impaurito per
aiutare il giovane. Il giovane finisce sulla strada, dorme nelle
stazioni, vive di elemosina. Non lo si potrebbe aiutare?
Altri lamentano la dignità ferita, la mancanza di buona
educazione. Un uomo anziano va dal sindaco di
Norimber- ga, il democratico Hermann Luppe, chiedendogli
di aiutarlo con l’assegnazione di una casa popolare perché è
costretto a dormire coi figli in garage. Quello non lo fa
nemmeno acco- modare, gli risponde sgarbato che
dovrebbe fare meno figli. “Io sono un uomo semplice.
Possibile che le persone istruite si comportino a questo
modo?” Una donna racconta la pro- pria complicatissima
vicenda giudiziaria, cause e ricorsi su questioni di eredità ,
in cui a un certo punto sono coinvolti anche degli uomini
d’affari e degli agenti immobiliari ebrei.

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Il marito è “un debole”, la figlia è malata di cuore, il figlio è
soldato. “Mi tiene in vita solo il pensiero che Hitler vincerà e
gli ebrei saranno cacciati dal nuovo Reich,” conclude.
Nelle lettere allo “Stü rmer” il malumore si sfoga in gene-
re su piccolezze, cose di poco conto. Un lettore racconta di
una donna che occupa un intero sedile di un vagone di terza
classe coi propri bagagli. Le chiedono di far posto ai passeg-
geri in piedi. Lei fa finta di niente. Uno gli dice: lei deve esse-
re proprio ebrea, ché nessun tedesco sarebbe così maleduca-
to. La risposta che indigna il lettore: e allora? Discendete
comunque da noi. Un’altra lettera racconta di una donna
anziana costretta a viaggiare in piedi perché un genitore
ebreo rifiuta di prendersi sulle ginocchia il figlioletto che oc-
cupa un posto.
Spesso si inciampa in paranoie surreali. Un cliente la-
menta di essere entrato in un negozio per comprare un cap-
potto e che il commesso ebreo insisteva invece per vendergli
una giacca estiva. Una cliente si lamenta dell’etichetta del
vestito che ha comprato in una sartoria di ebrei. Dice: “Tutto
a credito, nessun anticipo, nove mesi per pagare”. L’elucu-
brazione: è un modo per offendere le clienti, dargli delle put-
tane, insinuare che “pagheranno” restando incinte. Una let-
tera denuncia la cospirazione ebraica per rendere piatti i
piedi delle signore ariane: diffondere l’uso dei tacchi alti.

Bagatelle per un massacro

Insomma bazzecole, piccinerie. Vere e proprie “Bagatelle


per un massacro” viene da dire, riprendendo il titolo di uno
dei libri più disgustosi di un campione di antisemitismo co-
me Céline. Guai a trascurare le piccole ripicche, le irritazioni
per un nonnulla. L’aggravarsi della crisi fa uscire all’aperto il
Mr. Hyde, la bestia che si cela in ciascuno di noi. Basta po-
chissimo a trasformare i piccoli malumori, il fastidio bonario
di quelli dell’“io non sono razzista, però …”, in odio impla-
cabile, in ferocia che non vuol sentire ragioni, come il lupo
della favola verso l’agnello che beve allo stesso ruscello.

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Innumerevoli le lettere in cui chi scrive lamenta di essere
stato “imbrogliato” dagli ebrei. In genere si tratta di
picco- lezze, di risentimenti per una compera di cui si è
pentiti, per aver pagato un prezzo eccessivo, della
sensazione di non es- sere stati trattati con rispetto,
dell’essere stati trascurati dal commesso del negozio, dal
medico curante della mutua, da chi avrebbe dovuto
occuparsi della pratica che giace inevasa negli uffici,
dall’impiegato allo sportello… Scortesi, quindi per forza
ebrei. Particolarmente curiosa questa recrimina- zione, di
mancanza di cortesia, rivolta a chi viene odiato per il fatto
stesso di esistere, a chi in realtà dovrebbe lamentarsi lui di
essere insultato in continuazione.
La calamita di tutte le lagnanze, il luogo di tutte le nefan-
dezze è il commercio. È al mercato, nei negozi, nei grandi
magazzini di loro proprietà che gli ebrei imbrogliano, suc-
chiano il sangue, cioè i soldi degli ignari tedeschi. Showalter,
che ha analizzato migliaia di queste lettere, osserva che molti
di coloro che si lamentano con tanta veemenza degli “imbro-
gli” a loro danno, semplicemente non hanno gli strumenti
aritmetici per poter tener dietro ai rapidi mutamenti subiti
dai prezzi nell’alternarsi di momenti di inflazione e deflazio-
ne, di stagione alta delle vendite e stagione di saldi. La
fru- strazione causata dal non riuscire più a seguire e a
capire quel che sta succedendo all’economia porta
facilmente a concludere che qualcuno sta cercando di
fregarti.
Ci sono molti modi per declinare il “piove, governo la-
dro”. Tutta colpa della burocrazia, dei corrotti, dei privile-
giati, degli immigrati, dell’etnicamente altro. Il gioco consi-
ste nel cercare di attribuire la responsabilità di tutto a
qualcuno su cui si possa dirigere il risentimento. Nella Ger-
mania di quegli anni assumeva principalmente le sembianze
degli ebrei. I quali poi erano anche stranieri, immigrati, bol-
scevichi o i politicanti dell’odiata Repubblica “giudaica” di
Weimar. O, ancora, gli ebrei che controllano la finanza inter-
nazionale, i governi di Francia e Inghilterra, le Borse. Ai
giorni nostri, se non è zuppa è pan bagnato: ancora gli immi-
grati, le élite, la casta, la Borsa, i poteri forti, i pensionati d’o-
ro, i burocrati dell’Europa, e delle istituzioni “che non az-

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zeccano mai i conti”. Con la crisi economica che mordeva,
il messaggio martellante, il sentire condiviso tra la gente
diven- ne: i soldi ci sono, ma qualcuno vi imbroglia e ve li
ruba, qualcuno che vi vuole male, ce l’ha con il popolo
tedesco, cioè con voi. Com’è che ho l’impressione di sentire
tutti gior- ni qualcosa di analogo? Si ripete nei discorsi
orecchiati al bar, nelle dichiarazioni in tv, persino nelle
immagini di reper- torio sempre identiche che nei
telegiornali accompagnano le notizie economiche: una
macchina che stampa montagne di banconote da 50 euro…

Questione di nomi

Presi di mira in modo particolare sono gli ebrei che non


sembrano nemmeno ebrei. Quelli che non si fanno riconosce-
re, non hanno i tratti somatici dell’“orientale emaciato”, ma
si nascondono dietro fattezze tedesche, talvolta addirittura
die- tro nomi tedeschi. Un lettore scrive allo “Stü rmer” di
essere stato imbrogliato, anzi costretto a “tradire il proprio
popolo”, comprando sigari da un tabaccaio di cognome
Borchardt, per poi scoprire inorridito che il signor
Borchardt ha un nome che più giudeo di così non si può :
Isidore.
Solo un tipo di gente gli è più odiosa dei pezzenti che so-
no immigrati dall’Est: gli ebrei che si travestono da tedeschi,
anzi sembrano più tedeschi dei tedeschi. Sono i più pericolo-
si: così travestiti si infilano nelle università, inquinano la cul-
tura tedesca, inquinano l’economia, minacciano la purezza
della razza germanica. Sono insieme élite e reietti. Si merita-
no doppio disprezzo, dai tedeschi in quanto ebrei, e dagli al-
tri ebrei in quanto tedeschi e privilegiati. Il nuovo regime si
sarebbe preso cura di proibire per legge simili travestimenti.
Molte famiglie ebraiche erano talmente integrate nella cultu-
ra tedesca che si tramandavano ormai da padre a figlio, a ni-
pote, nomi teutonici. Nelle sue memorie dell’infanzia a Ber-
lino negli anni trenta Peter Gay (in realtà Peter Israel
Frö hlich, l’Israel imposto dai nazisti), ricorda che sua madre
aveva il nordico nome Helga e ben due suoi zii si chiamava-

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no Siegfried. “Se l’intenzione era mascherare le origini ebrai-
che risultò controproducente: si diceva che solo agli ebrei
potevano piacere nomi siffatti”, osserva. Comunque furono
obbligati a cambiar nome, o almeno aggiungere un secondo
nome che denunciava l’origine ebraica. Fossi nato nella Ger-
mania nazista mi avrebbero obbligato a chiamarmi Israel an-
ziché Siegmund, fossi stato donna mi avrebbero obbligato a
chiamarmi Sara. Era il primo passo verso l’imposizione della
stella gialla.

“Nella strada deserta un’auto di passaggio frena, la testa


di uno sconosciuto si sporge dal finestrino: ‘Sei ancora vivo,
porco maledetto? Bisognerebbe schiacciarti, passarti sopra
la pancia!...’”
“Sto per salire sul tram, dove mi è permesso sostare solo
sulla piattaforma anteriore, a patto che sia separata dall’in-
terno della carrozza (posso usare questo mezzo solo per an-
dare in fabbrica, purché questa disti più di sei chilometri da
casa mia); sto dunque per salire, è tardi e se non arrivo pun-
tuale al lavoro il capo mi può denunciare alla Gestapo. Da
dietro qualcuno mi tira giù violentemente. ‘Ma vai a piedi
che ti fa meglio!...’”
Quante volte, in quanti luoghi, in quante epoche e mo-
menti diversi abbiamo assistito a scene come queste?
Sono due tra le molte notazioni di Victor Klemperer sulla
sua condizione di ebreo a Norimberga dopo l’introduzione
obbligatoria della stella gialla. “Oggi torno a farmi la stessa
domanda che ho posto centinaia di volte a me stesso e alle
persone più diverse: quale è stato il giorno più difficile per
gli ebrei in quei dodici anni infernali? Tanto io quanto gli al-
tri abbiamo sempre dato una risposta univoca: il 19 settem-
bre 1941. Da quel giorno ci fu obbligo di portare la stella
di David a sei punte…”

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“Ebrei per intero [Volljuden]”, “ebrei per metà [Halbju-
den], i “misti [Mischlinge] di primo grado”, quelli di grado
diverso, i “discendenti da ebrei” [Judenstämmlinge].
E, aggiunge Klemperer, i “privilegiati”.
Questa è l’unica invenzione a proposito della quale ignoro se gli au-
tori fossero totalmente consapevoli della diabolica malvagità di quel-
lo che avevano escogitato. I privilegiati apparivano come tali solo nei
gruppi di ebrei che lavoravano in fabbrica; il loro privilegio consiste-
va nel non dover portare la stella e nel non dover abitare nelle “case
degli ebrei”. Si era privilegiati avendo contratto un matrimonio mi-
sto, purché da questo matrimonio fossero nati dei figli “allevati come
tedeschi”, vale a dire non registrati nella comunità ebraica. Questo
paragrafo, la cui interpretazione oscillante portò spesso a grottesche
cavillosità , fu forse escogitato soltanto per tutelare una parte di citta-
dini sfruttabili per fini nazisti; certo, nessun altro provvedimento eb-
be su un gruppo di ebrei un effetto più devastante e demoralizzante
di questa denominazione capace di suscitare tanta invidia e tanto
odio. Poche altre frasi ho sentito pronunciare con maggiore amarez-
za e frequenza di questa: “È un privilegiato”, cioè: paga meno
tasse di noi, non deve abitare nella casa degli ebrei, non porta la
stella, in certo qual modo può mimetizzarsi… E quanta superbia,
quanta mi- serabile gioia maligna – sì miserabile, perché in fin dei
conti erano nel nostro stesso inferno, anche se in un girone migliore
e alla fine i forni crematori hanno divorato anche i privilegiati –
quanto insistito distacco si avvertiva spesso in quelle due parole:
“Sono privilegia- to”!... Nella rubrica del mio lessico dedicata agli
ebrei, “privilegiato” occupa il secondo posto fra le parole peggiori; al
primo rimane sem- pre la stella.

La Nomenclatura dell’odio

La prima definizione di chi debba essere considerato


ebreo e chi no risale all’aprile 1933. È contenuta nel decreto
modestamente intitolato: Per la ristrutturazione del pubblico
impiego, che prevede il licenziamento o il pensionamento
forzato di tutti i dirigenti e funzionari pubblici che “non sia-
no di discendenza ariana”. Non si erano limitati ad annun-
ciare per l’anno successivo – come ha fatto il nostro Rocco
Casalino – la “megavendetta” contro i tecnici sospetti di

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ostilità, di mettere i bastoni fra le ruote all’azione del nuovo
governo. La misero in atto subito, per decreto. Senza nean-
che aspettare che ci fosse opposizione o boicottaggio. La leg-
ge prevedeva la rimozione di tutti i funzionari ritenuti a giu-
dizio insindacabile del governo “inadeguati” o politicamente
inaffidabili. E in particolare di tutti i funzionari e dirigenti
pubblici “le cui precedenti attività politiche non garantisca-
no che diano in ogni circostanza il loro pieno sostegno
allo Stato nazionale”. Un’attenzione particolare è
ovviamente de- dicata agli ebrei, politicamente inaffidabili
per definizione. Il decreto definisce “non ariano” chiunque
“discenda da geni- tori o nonni non ariani, ed ebrei in
particolare”. E precisa: “È sufficiente che uno solo dei
genitori e dei nonni sia non ariano”.
Il provvedimento fu accolto con entusiasmo. Liberava
posti di lavoro. Nel 1933, malgrado i tagli ancora in vigore
alla spesa pubblica e il blocco delle assunzioni, il licenzia-
mento in massa degli ebrei permise di assumere il 60 per
cento degli aspiranti al posto di insegnante. Nelle università
si liberarono di colpo oltre 5000 posti in organico per
laurea- ti, professori a contratto che non avevano passato i
concorsi, per altri che aspettavano da tempo il posto fisso. La
qualifica richiesta era essere simpatizzanti dei nazisti.
Poi le definizioni si faranno sempre più sottili e complica-
te. Da far invidia all’ars definitoria medievale. Il primo para-
grafo delle leggi “Per la protezione del Sangue e
dell’Onore tedesco” annunciate a Norimberga nel 1935
stabiliva: “È proibito il matrimonio tra Ebrei e cittadini di
sangue Germa- nico o affine. Matrimoni contratti in
violazione di questa norma sono nulli”. Il decreto di
attuazione precisava che era da considerarsi pienamente
“ebreo” qualsiasi persona che avesse almeno tre nonni ebrei.
Chi avesse due nonni ebrei era da considerarsi Mischling,
misto (di primo grado). Ma tornava a essere ebreo a pieno
titolo se al momento dell’en- trata in vigore della legge (o
successivamente) professava la religione ebraica o aveva
una moglie ebrea. Irrimediabilmen- te ebrei erano anche i
figli concepiti, non importa se in matri- monio o fuori del
matrimonio, in violazione delle leggi raz-

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ziali. Chi avesse un solo nonno ebreo era considerato “misto”
di secondo grado, quasi ariano. Si spaccava il capello in
quattro, anzi all’infinito. Si aggiunsero anno dopo anno nuo-
vi supplementi alla legge “Per la protezione del Sangue tede-
sco”. Ben 5 nel solo biennio 1936-37. Ognuno introduceva
nuove restrizioni.
Agli ebrei era stato proibito avere impieghi pubblici, poi
gli fu proibito insegnare, esercitare la professione di medico
o dentista, fare l’avvocato, essere titolari di ristoranti o bar,
poi essere titolari di qualsiasi attività. Dovevano solo andar-
sene, andarsene tutti. L’obiettivo dichiarato era rendergli la
vita impossibile, per spingerli alla “totale emigrazione”. Ma
verso dove? A parole la comunità internazionale esprimeva
comprensione e solidarietà. Nell’estate del 1938 fu convoca-
ta, su iniziativa del presidente americano Roosevelt, una con-
ferenza internazionale a Evian per distribuire i profughi.
Parteciparono trentadue paesi. Si concluse in un fallimento
clamoroso. Il “Vö lkischer Beobachter” titolò soddisfatto:
Nessuno li vuole.
Quelli che furono costretti o vollero restare vennero
schedati con gran zelo. Sapevano dove andarli a cercare. Il
censimento del 1933 non teneva ancora conto di tutte le di-
stinzioni bizantine sul grado di ebraicità. Il censimento del
1939 registrò invece pure la presenza di un solo nonno
ebreo. Anche nella Germania nazista i dati individuali
ufficialmente erano riservati ai soli fini statistici. E invece
vennero trasmes- si agli schedari di polizia (ormai in mano
alle SS), con nome, cognome, mestiere, gradi di
inquinamento della razza, muta- menti di domicilio. Se ne
sarebbero serviti nella conferenza di Wannsee in cui si
decise la “soluzione finale”.

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7.
Il lupo si traveste da agnello

Hitler moderato? Quando ne poteva avere un torna-


conto. Lo fa per ingraziarsi gli industriali. Poi per farsi
dare il potere di governare senza più il Parlamento. Gli
faceva un baffo comparire davanti ai giudici, lo usava
per farsi propaganda. Riuscì persino a farsi passare per
“uomo di pace”. Solo a guerra iniziata si sarebbe per-
messo di dare dell’“ubriacone” all’uomo “che governa
l’Inghilterra”, cioè a Churchill.

Una delle cose che mi pare di rivivere se dal presente tor-


no al 1933 è il costante alternarsi di momenti di estrema ag-
gressività a momenti di apparente moderazione e ragionevo-
lezza. Sauna e doccia fredda. “Andiamo avanti costi quello
che costi”, “non ci fermerà nessuno”, “nessun compromes-
so”. E poi il momento dopo: “Discutiamo”, “trattiamo”,
“vedete come siamo generosi e ragionevoli”. Un momento
barricadieri, sovversivi, violenti. Il giorno dopo a presentarsi
come moderati, rispettosi e ligi alle regole del gioco demo-
cratico.

Un momento di moderazione c’era stato immediatamen-


te prima dell’assunzione del cancellierato, volto a
rassicurare soprattutto gli industriali. Invitato dal magnate
dell’acciaio Fritz Thyssen, Hitler era andato a parlare a una
loro assem- blea a Dü sseldorf, nel cuore della Ruhr. Per
l’occasione ave- va indossato un completo blu, si era tolta dal
braccio la fascia con la svastica. Sorprendente per
moderazione era anche il discorso che rivolse via radio alla
nazione il primo febbraio, appena diventato cancelliere. Un
discorso pacato, misurato,

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da uomo di Stato, niente a che vedere con le tirate fanatiche
e bellicose cui il suo pubblico era abituato. Chiamava all’uni-
tà nazionale. Si diceva impegnato appieno “nella preserva-
zione e nel mantenimento della pace, di cui il mondo ora più
che mai ha bisogno”. Esprimeva “gli auguri più sinceri per il
benessere dell’Europa, anzi del mondo intero”. Un giorno
Mister Hyde, l’indomani Doctor Jekyll.

Il lento suicidio del Parlamento

Un altro momento memorabile di moderazione ci fu nel


marzo del 1933. Hitler chiedeva i pieni poteri, cioè la possi-
bilità di promulgare qualsiasi legge senza nemmeno consul-
tare il Parlamento. Il titolo era quasi neutro: Legge per porre
rimedio alle difficoltà dello Stato e del popolo. Veniva dopo
settimane di fuoco e fiamme e piombo. C’erano già stati
gli arresti in massa degli oppositori, l’ordine di “sparare a
vista” impartito da Gö ring all’ormai “sua” polizia, con gli
organici rimpolpati da energumeni delle milizie naziste, la
messa al bando del Partito comunista, l’istituzione della
Geheime Staatspolizei, la polizia politica segreta poi nota
come Gesta- po, affidata ai fedelissimi delle SS. Hitler
avrebbe potuto a quel punto dire: adesso ci prendiamo
tutto. Ma per farsi vo- tare i pieni poteri dal Reichstag aveva
bisogno di una mag- gioranza di due terzi. Quindi li chiese
con un’argomentazio- ne in apparenza moderata e
“ragionevole”: la Germania doveva far fronte alla crisi
economica interna e internaziona- le con una dimostrazione
di unità nazionale, che le desse la possibilità di contare di più
nelle sedi internazionali, aver più voce nei negoziati in corso
con le altre potenze europee.
I nazisti erano in quel momento particolarmente preoc-
cupati della cattiva stampa di cui il nuovo governo godeva
all’estero (il problema della cattiva stampa all’interno l’ave-
vano già risolto con le buone, minacciando e ricattando gli
editori dei giornali non amici, o con le cattive,
chiudendoli, arrestando direttori e giornalisti). Una cattiva
immagine ri- schiava di rovinargli l’intenso lavorio di
relazioni pubbliche

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all’estero, di turbare l’immagine di una Germania forte e
unita che gli serviva proiettare in quel momento. La mano
tesa si estese anche ai nemici irriducibili, a quelli che
chiama- vano con disprezzo “marxisti”, cioè i
socialdemocratici dell’Spd. Quelli gli risposero che erano
ben disposti ad ap- poggiare qualsiasi “proposta positiva”,
sia sul piano interno che in politica estera, ma a una sola
condizione: che fosse aderente alla lettera e allo spirito
della Costituzione. I pieni poteri violavano il ruolo che la
Costituzione di Weimar asse- gnava al Parlamento, in
pratica lo esautoravano. Questo era il motivo per cui
avrebbero votato contro, annunciarono tra boati e fischi
degli sgherri nazisti che occupavano l’aula. Era- no rimasti
soli a opporsi. Gli 87 deputati comunisti erano già stati
arrestati o costretti alla clandestinità. Tutti gli altri parti- ti
avevano capitolato, compreso il Zentrum cattolico che pu- re
aveva rifiutato di far parte del gabinetto Hitler.
Il primo a intervenire e a pronunciare la dichiarazione di
voto del suo partito era stato il presidente dell’Spd e
capo- gruppo parlamentare Otto Wels. Qualcuno l’aveva
avvertito che rischiava la vita, lo aveva implorato di non
esporsi, di la- sciare il compito a un deputato più giovane.
Otto deputati Spd erano già agli arresti, uno era finito in
ospedale dopo es- sere stato picchiato dalle SA ormai
ufficialmente riconosciu- te come “polizia ausiliaria”. Solo
94 dei 120 eletti dell’Spd erano riusciti a entrare, tra due ali
di miliziani nazisti urlanti, nella Krolloper dove, causa
inagibilità del Reichstag, era stato provvisoriamente
convocato il Parlamento. La riunione era presieduta da
Gö ring. Dietro di lui campeggiava un’enorme bandiera con
la svastica. SA in uniforme occupavano i pal- chi, si
aggiravano anche in mezzo ai deputati, scandendo:
“Vogliamo i pieni poteri, se no la pagherete cara!”. Wels,
smentendo la fama di grigio uomo d’apparato, fece un bel
discorso. “Non riuscirete a far tornare indietro la ruota della
storia… Noi socialdemocratici ci impegniamo solennemente
a sostenere i principi di umanità e giustizia, libertà e sociali-
smo”, disse rivolto al governo. E rimasero soli. La legge
sui pieni poteri fu approvata con 444 voti a favore, 94
contro.

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Così si suicidò il Parlamento della Repubblica di Weimar.
Ma in realtà il suicidio era iniziato molto prima. Il Reichstag
aveva cessato almeno dal 1929 in poi di essere il luogo in cui
si manifestava la sovranità popolare. Le decisioni cruciali
erano diventate gradualmente prerogativa di una cerchia
sempre più ristretta. Prima erano stati i partiti ad arrogarsi
le decisioni più importanti lasciando ai parlamentari rappre-
sentanti del popolo il compito di eseguirle, votando come gli
veniva comandato. Poi cominciarono a non contare più
niente nemmeno le direzioni e le segreterie dei partiti, e da
un certo punto in poi nemmeno i ministri. Nel 1932 a
deci- dere la sorte dei governi, le alleanze, gli accordi al
vertice era già un numero ristrettissimo di persone. Dentro e
fuori dai partiti, e addirittura più fuori che dentro il
governo. Quelli che oggi vengono chiamati i “poteri forti”, la
Banca centrale, gli altri banchieri, le lobby, i rappresentanti
della grande in- dustria, delle corporazioni, delle
associazioni, dei singoli gruppi di interesse. La Rdi
(Reichsverband der Deutschen In- dustrie, la Confindustria
tedesca) da una parte e i sindacati dall’altra contavano e
decidevano più dell’intero Parlamen- to. I sindacati
preferivano trattare direttamente col padrona- to, anziché
rivendicare una legislazione. Piuttosto che ai de- putati del
Reichstag, tutti preferivano affidarsi all’expertise di think
tank privati. Sarebbe stato un momento d’oro per la
Casaleggio associati. Un gruppo di interesse particolare, di
cui tutti gli altri dovevano tener conto, erano poi le Forze
armate.
Il Partito nazionalsocialista era favorito dal fatto di avere
un leader indiscusso e indiscutibile, deciso a eliminare bru-
talmente ogni dissidenza interna, a schiacciare spietatamen-
te, se necessario eliminare fisicamente tutti i potenziali
rivali, chiunque fosse sospetto di disobbedienza o sfida alla
sua au- torità. Se c’era da trattare con altri trattava solo lui, o
tramite qualcuno di cui potesse fidarsi in modo assoluto.
Il Parlamento era stato esautorato di fatto già molto pri-
ma che Hitler lo rendesse anche formalmente inutile facen-
dosi dare i pieni poteri. Erano stati i governi che avevano
preceduto quello di Hitler ad abusare sistematicamente

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dell’articolo 48 della Costituzione di Weimar che consentiva
– ma solo in casi eccezionali – di legiferare per decreto presi-
denziale, anziché con leggi regolarmente discusse e approva-
te dal Parlamento. A ricorrere in modo sistematico ai decreti
presidenziali era stato il governo Brü ning, “tollerato” – in
pratica sostenuto – dai socialdemocratici. Nel 1930 il Reich-
stag aveva fatto 98 leggi, il Presidente della Repubblica ne
aveva fatte per decreto solo 5. Nel 1931 le leggi approvate
per via parlamentare erano state 32, ma i decreti
presidenzia- li 44. Nel 1932 il Parlamento era riuscito a farne
solo 5, men- tre il numero dei decreti presidenziali era
balzato a 66.

Zitti per carità di patria

I nazisti accusavano i socialdemocratici di remare contro


l’interesse nazionale, di diffondere all’estero notizie false e
ne- gative sulla situazione in Germania, di minare la tenuta
del marco, mettere a repentaglio i conti del “Sistema Paese”.
Wels negò che fossero i socialisti a sparlare della Germania e
met- terla in cattiva luce. “Con i legami internazionali che ha
il suo partito, allora non dovrebbe esservi difficile ristabilire
la veri- tà… sono proprio curioso di vedere quanto valgono
i vostri collegamenti internazionali”, la replica sardonica di
Hitler dai banchi del governo. Era un ricatto, una proposta di
scambio: voi state zitti e sostenete la nostra immagine
all’estero, noi vi lasciamo respirare un attimo. Il concetto fu
ribadito qualche giorno dopo da Gö ring in un incontro con
la stampa estera. Un altro dirigente Spd, l’ex presidente
del Reichstag, Paul Lö be, andò da Gö ring per chiedergli di
levare il bando sui giornali socialisti. Quello gli rispose che
prima o poi si sareb- be fatto, gli chiese solo di pazientare
ancora un poco e ag- giunse ironico: “A che vi servirebbe
poter stampare il ‘Vorwä rts’ se poi i distributori vengono
attaccati dalle SA e le copie vengono bruciate?”. Wels era
convinto che coi nazi- sti si potesse trattare la sopravvivenza
del partito e della sua stampa, la cui chiusura aveva gettato
diecimila dipendenti sul lastrico. Era una menzogna come
tante altre: il “Vorwärts”

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non riprese più le pubblicazioni. Ancora poche settimane e
oltre ai suoi giornali fu messo fuori legge il Partito socialde-
mocratico. A luglio avrebbe fatto seguito lo scioglimento di
tutti gli altri partiti, compresi quelli che avevano votato a fa-
vore dei pieni poteri a Hitler. Nel tentativo di rabbonire i
nazisti, Wels era arrivato a chiedere pubblicamente all’Inter-
nazionale socialista di smettere di pubblicare notizie “false”
ed “esagerate” su persecuzioni in corso in Germania, su pre-
sunte “atrocità” commesse dalle orde nazionalsocialiste.
Quelli giustamente rifiutarono di farsi condizionare. E Wels
ritirò polemicamente il rappresentante dell’Spd dall’Interna-
zionale.
Una sedicente Associazione degli ebrei nazional-tedeschi
fece anche di più . Pubblicò addirittura un libro intero,
tradot- to in diverse lingue, per smentire che ci fossero
persecuzioni. Si intitolava: La propaganda dell’orrore è una
propaganda di menzogne! Le vittime che fanno propaganda
ai loro persecu- tori! È il colmo per Karl Kraus, il brillante
polemista vienne- se che da maggio a settembre del 1933
annota e chiosa con sferzante ironia tutti gli orrori e tutte le
stupidaggini di cui gli giunge notizia dalla Germania (quasi
cinquecento pagine, raccolte sotto il titolo La terza notte di
Valpurga, che doveva- no essere un quaderno speciale della
sua rivista “Die Fackel”, la Fiaccola, ma furono pubblicate
solo nel dopoguerra). “Cosa mai è impossibile in un
manicomio in cui l’infermo può aggredire l’infermiere e
diventare subito Presidente del Consiglio dei ministri?”
In realtà di “esagerato” c’era solo la pretesa che tutto pro-
cedesse normalmente, e l’illusione che si potesse andare a un
accomodamento coi nazisti. Le “atrocità” c’erano, eccome. Le
immagini del 21 marzo 1933 mostrano un Hitler in abiti
civili che si inchina al Presidente della Repubblica
Hindenburg in divisa militare. Sino a quasi un attimo prima
la stampa nazi- sta lo aveva vilipeso perché rifiutava di
nominare Hitler can- celliere, ne chiedevano l’impeachement.
Proprio lo stesso 21 marzo era stato inaugurato a Dachau,
una ventina di chilo- metri da Monaco, il primo campo di
concentramento per oppositori politici. Ad annunciarlo
alla stampa, con tanto di

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foto che mostravano l’amenità del luogo e molta insistenza
sull’umanità del trattamento riservato ai primi 5000 prigio-
nieri “comunisti” e altri “nemici del Reich”, fu Himmler,
nella sua carica di neopresidente della polizia di Monaco. Al-
leviava, spiegò , il sovraffollamento nelle carceri. Gli ospiti vi
sarebbero stati trattenuti il tempo necessario alla loro “rie-
ducazione”. Quando vi mandarono gli ebrei, dissero che era
una misura per “proteggerli” dal furore del popolo. Il
cam- po era gestito direttamente dalle SS, entrate negli
organici della Polizia di Stato. Un lager modello, tanto che
all’inizio ci portavano persino i turisti in visita.
A Berlino continuavano intanto a funzionare a pieno re-
gime le camere di tortura “ufficiose” gestite dalle SA. Ecco la
descrizione che ne fa, non un oppositore, non una vittima,
ma l’allora capo della Gestapo Rudolf Diels, fresco di
nomi- na da parte di Gö ring, dopo avervi fatto irruzione
nella sua nuova veste ufficiale: stanze buie e nude, da cui
erano stati rimossi i mobili, il pavimento ricoperto di paglia,
sporco di sangue e urina; i prigionieri ridotti a scheletri,
denutriti, disi- dratati, la testa penzolante sulle spalle,
“come di fantocci”, costretti a stare in piedi, per giorni,
senza cibo e acqua, tra una sessione di tortura e l’altra, tra
un pestaggio e l’altro, im- partiti a turni da una dozzina di
bruti delle SA con spranghe di ferro, manganelli di gomma,
fruste di cuoio…“Un inferno peggiore di quelli descritti da
Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel”, il commento di
Diels, nelle memorie che avrebbe pubblicato dopo la
guerra, Lucifer ante portas.
Ma perché scrivo di questo? Non ci sono camere di
tor- tura nel nostro presente, o almeno così pare, se
qualcuno dalla parte dell’ordine sgarra, viene processato
e punito. Non ci sono campi di concentramento, solo
centri di acco- glienza per stranieri non in regola. O no? Il
déjà vu si an- nida in un dettaglio apparentemente
secondario: nel mini- mizzare, negare tutto, anche
l’evidenza. Chiunque denunci o racconti qualcosa di non
gradito, “mente” per definizione. Sono “favole”,
“esagerazioni”, “invenzioni”, insomma solo propaganda
malevola per mettere in cattiva luce il governo del
cambiamento.

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Né leader né Congresso per l’opposizione

E l’opposizione in tutto questo? I socialdemocratici era-


no tutti presi a litigare al loro interno, mentre evaporava con
rapidità impressionante la loro formidabile organizzazione,
si spezzavano una dopo l’altra le radici che avevano in pro-
fondità nella società tedesca, si sgretolavano il Reichsbanner,
la potentissima struttura di autodifesa e gestione del tempo
libero, il Fronte di ferro antifascista, con il suo simbolo delle
Tre frecce che spezzano la svastica, l’organizzazione giovani-
le, i sindacati, che contavano milioni di membri. Erano stati
il partito più solido della sinistra, un partito di governo. Uno
dei grandi misteri su cui continuano a discutere gli storici è
perché, a differenza di quel che era successo appena una
decina di anni prima, non ci sia stata quasi reazione, mobi-
litazione popolare contro la “presa del potere” da parte dei
nazisti.
C’era una spaccatura tra la leadership socialista che era
rimasta a Berlino e quelli che erano riparati all’estero. Quelli
ancora in Germania avevano convocato a fine aprile una con-
ferenza nazionale di un numero limitato di delegati prove-
niente da ciascun distretto del paese, in una sala del vecchio
Reichstag non distrutta dall’incendio. Non ci provarono
nemmeno a chiamarlo Congresso. I nazisti li lasciarono fare,
evidentemente a quel punto non avevano molto da temere,
anzi gli faceva comodo la pochezza degli avversari. I
socialde- mocratici polemizzavano con il resto
dell’opposizione, litiga- vano, si esercitavano in rabbiose
recriminazioni, anziché cer- care di capire cos’era successo,
trovare rimedi e unirsi contro i nazisti. L’unica decisione che
riuscirono a prendere fu rotta- mare i vecchi dirigenti e
affidare il partito a tre funzionari che avevano
rispettivamente 31, 32 e 45 anni. Il partito in esilio aveva un
centro in Svizzera, uno a Praga, uno a Parigi, l’uno ai ferri
corti con l’altro. Gli storici, compresi quelli più di parte,
che non nascondono simpatie per la sinistra di matrice
socialdemocratica, sono esterrefatti di fronte alla rapidità di
questa disgregazione. Una delle spiegazioni che sono state
avanzate è l’incapacità a esprimere un leader carismatico
che

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sapesse imporsi alle molte anime del partito, così come
Hitler si era imposto alle molte anime del movimento
nazionalsocia- lista e poi alle ancora più numerose anime del
blocco che uni- va destra e populisti.

Alla prima riunione del nuovo governo era stato Hugen-


berg, non Hitler a proporre l’immediata messa al bando del
Partito comunista e l’arresto dei dirigenti e deputati. Hitler e
Gö ring si erano opposti, argomentando che non era al
mo- mento opportuno, così si rischiava di scatenare
disordini. Chi era il moderato e chi l’estremista? La
proposta di Hu- genberg era strumentale: sperava,
cancellando la delegazio- ne comunista al Reichstag, che ci
fosse una maggioranza sen- za dover andare a nuove
elezioni. Anche la moderazione di Hitler era strumentale:
voleva nuove elezioni subito per ridi- mensionare l’alleato.
Comunque la caccia ai comunisti era già iniziata. Molti
dirigenti, deputati e militanti furono arre- stati. Il partito
passò all’attività clandestina, cui era già abi- tuato. Si
attardarono per molto tempo ancora a denunciare il
“disegno del grande capitale” e le responsabilità dei social-
democratici nella catastrofe. Continuarono a essere distratti
da lotte al coltello all’interno del gruppo dirigente.
Avrebbe provveduto Stalin a mettere in riga i litiganti. La
punizione per i loro “errori politici” fu tremenda. Dei mem-
bri dell’ufficio politico del Kpd cinque sarebbero stati uccisi
dai nazisti. Ma ben sette dai compagni sovietici. Dei sessan-
totto membri del Comitato centrale del Kpd rifugiatisi a pro-
seguire la lotta in Urss, ben quarantuno (quasi due terzi) sa-
rebbero finiti internati nei gulag o fucilati. Negli anni delle
purghe, il “luxemburghismo” veniva considerato una va-
riante del “trotzkismo”. Poi si cominciò a considerare spie
dei nazisti tutti i tedeschi rifugiati in Unione Sovietica. Dopo
la firma del patto Molotov-Ribbentrop nel 1939, i sovietici
riconsegnarono a Hitler i tedeschi prigionieri nei gulag.
Tra le testimonianze più toccanti di questo capitolo tri-
stissimo, le memorie di Margarete Buber-Neumann: Prigio-
niera di Stalin e di Hitler. Aveva sposato il figlio di Martin

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Buber, ma non lo aveva seguito in Palestina quando questi
emigrò con le figlie. Militante e funzionaria comunista, era
diventata la compagna di Heinz Neumann, uno dei massimi
dirigenti del Kpd. Dopo la presa del potere da parte dei
na- zisti si erano rifugiati a Mosca. La coppia viveva
nell’Hotel Lux, come gli altri dirigenti del Comintern. Nel
1937 Neu- mann fu arrestato dalla Nkvd. Di lui non si è più
saputo nul- la, non c’è alcuna notizia affidabile sulla data, il
luogo, le cir- costanze della morte. La colpa? Aver contestato
nel 1932 la linea di rottura coi socialdemocratici imposta
da Stalin? Averla attuata con troppo zelo? Non si sa.
Margarete aveva cercato inutilmente e a lungo di avere
notizie del marito. Poi commise un altro errore: cercò di
riavere il passaporto tede- sco, che, come per tutti gli ospiti
del Lux, veniva ritirato al momento dell’arrivo. Forse
voleva raggiungere la sorella Ba- bette, moglie di Willi
Mü nzenberg, l’importante agente del Comintern che era
riuscito a farsi mandare a Parigi. Invece l’arrestarono e la
spedirono in Siberia. Dalla Siberia sarebbe poi stata rispedita
in Germania, dove i nazisti la rinchiusero nel campo di
concentramento per donne di Ravensbrü ck. A Ravensbrü ck
avrebbe conosciuto e fatto amicizia con la gior- nalista e
scrittrice Milena Jesenská, ingiustamente ricordata solo
come fidanzata di Kafka.

Come furono addomesticati i sindacati

Hitler mise ulteriormente in difficoltà la sinistra giocan-


do la carta dell’apertura al mondo del lavoro (che già for-
mava buona parte del suo elettorato) e ai sindacati. Ripri-
stinò il Primo maggio, la Festa dei lavoratori, che i governi
precedenti avevano proibito per ragioni di sicurezza, ag-
giungendo solo un aggettivo: lavoratori sì, ma “tedeschi”.
Gli iscritti ai sindacati di sinistra marciarono dietro bandie-
re rosse sì, ma con la svastica. Theodor Leipart, il presiden-
te della Confederazione dei sindacati tedeschi, Allgemeine
Deutsche Gewerkschaftsbund, che contava 3 milioni e mez-
zo di iscritti ed era sempre stata tradizionalmente legata

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all’Spd, dichiarò la sua organizzazione politicamente “neu-
tra” e disse che avrebbero giudicato il nuovo governo
“alla prova dei fatti”, sul concreto delle politiche
economiche e nei confronti dei lavoratori.
In realtà il governo aveva già deciso e molti dirigenti di
categoria avevano già negoziato la confluenza di tutte le
orga- nizzazioni sindacali preesistenti in un unico sindacato
sotto controllo nazista. Buona parte dei vecchi gruppi
dirigenti aveva aderito con convinzione, alcuni
entusiasticamente. Se- guivano la loro base, si potrebbe dire
a loro giustificazione. Operai, impiegati e disoccupati già
avevano abbandonato in massa la sinistra nelle urne,
votando per i nazisti. Da non cre- dersi? Ho letto da qualche
parte che un terzo dei quadri della Cgil ha simpatie o ha
votato per la Lega o i 5 Stelle. Io non ci credo. Ma il ’33 mi
dice che non è affatto impossibile. Chi non voleva
adeguarsi, o non era di pura razza germanica ven- ne messo
da parte, o peggio. Lo stesso Leipart, che nel 1933 aveva
superato la sessantina, fu trattenuto in una delle fami-
gerate camere di tortura che le SA operavano a Berlino. Il
9 maggio, pochi giorni dopo il Primo maggio “unitario”
che avrebbe dovuto riconciliare nazisti e organizzazioni dei
lavo- ratori, fu sottoposto a un’indagine per “tradimento”.
Non ar- rivò mai a conclusione, ma inviarono Leipart “per
sua prote- zione” in un campo di concentramento. Lo
liberarono perché in cattive condizioni di salute. Ma gli
tolsero la pensione.

Carinerie verso gli ebrei

Ci fu un momento in cui sembrava che Hitler avesse


persi- no smesso di dare addosso agli ebrei. Dal gennaio
1933 in poi aveva cessato di menzionarli esplicitamente nei
suoi discorsi. A dire il vero aveva parlato poco della
“questione ebraica” an- che durante le campagne elettorali
del 1932. Tanto l’odio anti- semita era nel Dna del suo
partito, a rinfocolarlo ci pensavano gli altri, il “Der Angriff”
di Goebbels e lo “Stü rmer” di Julius Streicher, mentre le SA
continuavano a cantare: “Affilate i col-

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telli / affondiamoli nel petto dell’ebreo / noi ci caghiamo
sulla libertà di questa Repubblica giudaica”.
In apparenza il governo prendeva le distanze dagli
episodi quotidiani di arresti arbitrari, intimidazioni,
umiliazioni, sac- cheggi a danno di ebrei, delle loro
proprietà, dei loro negozi e delle sinagoghe. Erano
“spontanei”, si diceva. Quando il 9 marzo, pochi giorni
dopo le elezioni, le squadre di Camicie brune invasero il
quartiere ebraico di Berlino e fecero una re- tata di ebrei
provenienti dall’Est, il governo non ebbe da ri- dire:
dopotutto era un’operazione di polizia contro immigrati
irregolari. Così come nessuno fece una piega per le retate e le
perquisizioni nelle case di ebrei sospettati di detenere armi.
Arrestavano i detentori anche quando si trattava di cimeli di
guerra, sciabole da ufficiale conservate accanto alle medaglie
al valore. Non valeva che esibissero regolari denunce di pos-
sesso, porto d’armi in piena regola, magari appena
rinnovato. L’ebreo era delinquente e terrorista per
definizione, anche se la persona in questione era un affermato
professionista, faceva l’avvocato o il giudice. O magari era
stato commissario o ad- dirittura capo della polizia. Contro
Bernhard Weiß, vicepresi- dente della polizia di Berlino, era
stato spiccato un mandato di cattura il giorno dopo la
nomina di Hitler a cancelliere. L’a- vrebbero di certo mandato
a Dachau se non avesse già lasciato il paese. Non era uomo di
sinistra, tutt’altro. Era un servitore dello Stato che faceva con
solerzia il suo mestiere. Ma non gli perdonavano di essere
ebreo (nei comizi, Goebbels lo irride- va chiamandolo
Isidore) e uomo delle istituzioni (cioè fedele servitore della
Repubblica di Weimar, repubblica “giudaica” secondo i
nazisti).
Quando a Breslau invasero l’aula del tribunale e caccia-
rono via giudici e avvocati ebrei, si disse che era “un’azione
indipendente”, non autorizzata. Hitler continuava a non
parlare pubblicamente della “questione ebraica”. Ma quan-
do le organizzazioni ebraiche americane ed europee lancia-
rono un boicottaggio dei prodotti tedeschi, fu lui a incarica-
re Julius Streicher, il più rabbioso antisemita nei ranghi
nazisti, di organizzare per il primo aprile un boicottaggio a
tappeto dei negozi, dei grandi magazzini e degli studi profes-

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sionali di ebrei. “Tedeschi, difendetevi. Non comprate
dagli Ebrei”, era la parola d’ordine. Goebbels la presentò
come risposta alla “dichiarazione di guerra economica” che
era ve- nuta dall’“ebraismo mondiale”.
Il boicottaggio economico durò , per espresso ordine della
cancelleria, solo nove ore, nel giorno per cui era stato procla-
mato, il primo aprile 1930. Aveva prodotto un crollo alla
Bor- sa di Berlino. La stampa americana riferì che il ministro
degli Esteri von Neurath aveva minacciato le dimissioni se si
fosse andati avanti su questa strada. La Germania stava
correndo veloce verso la bancarotta. Il vicecancelliere Papen
si era rivol- to al presidente Hindenburg perché intervenisse.
Hindenburg avrebbe chiamato Hitler, gli avrebbe fatto “una
lavata di ca- po” e gli avrebbe chiesto di smetterla. Il
Presidente avrebbe minacciato altrimenti la proclamazione
della legge marziale e il decadimento del governo. Non ci
sono prove che sia andata proprio così. Probabilmente è solo
un’invenzione giornalistica per spiegare perché Hitler fosse
addivenuto a più miti consi- gli. A me però fa venire in
mente i giorni convulsi di quando lo spread aveva ripreso
a correre a rotta di collo, il paese ri- schiava sanzioni, si
riaffacciava lo spettro del default, finché il governo non
aveva deciso di trattare con Bruxelles.
Non per questo erano cessate le polemiche. Intervenen-
do alla Federazione dei medici tedeschi, Hitler se la prese
con le proteste in America, sostenendo che gli americani era-
no gli ultimi a potersi permettere di criticare l’antisemitismo
in Germania, dal momento che erano stati “i primi a
trarre conclusioni pratiche e politiche dalla differenza tra le
razze”. E non mancò di ricordare che erano le leggi
sull’immigrazio- ne americane a impedire l’ingresso negli
Stati Uniti dei “co- siddetti profughi ebrei dalla Germania”.
Sarò fissato, ma mi fa venire in mente i “senti un po’ chi ci
critica” rivolti alla Francia di Macron.

Nessuno mi può giudicare

Hitler e gli altri dirigenti nazisti si trovavano a loro agio


nei procedimenti giudiziari. Soprattutto in quelli a loro cari-

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co. Sarebbero stati davvero “assolutamente tranquilli” in ca-
so di richiesta di autorizzazione a procedere. Anzi, non
aspettavano altro, ne avrebbero approfittato. Erano habitué
delle aule di giustizia, maestri nel trarre vantaggio politico
dai processi, nel trasformarli in tribune da cui fare propa-
ganda. A cominciare da quello in cui erano finiti sul banco
degli accusati per il putsch della Birreria a Monaco nel 1923,
conclusosi con condanne peraltro abbastanza miti.
Nel 1930 Hitler aveva fatto un gran numero al processo a
Lipsia contro tre giovani ufficiali accusati di aver fatto pro-
paganda per un intervento dei militari a fianco dei nazisti.
Aveva preso le distanze da coloro che nel partito “si gingilla-
vano con la parola rivoluzione” e ribadito che il suo movi-
mento avrebbe perseguito il potere solo nell’assoluta legalità
costituzionale. Prevedeva, aveva aggiunto, di conquistare la
maggioranza nel giro di altre due o tre tornate elettorali. “Al-
lora sì che modelleremo lo Stato secondo il nostro volere”,
“e cadranno molte teste”, aveva concluso, tra applausi e urla
di “bravo”, interrotte dal presidente della corte che ammonì
il pubblico ricordando che non ci si trovava “né a teatro né a
un raduno politico”.
Nel maggio 1931 un giovane avvocato ebreo di Berlino,
ancora neanche ventottenne, era riuscito a portare Hitler in
tribunale. Non come imputato ma come testimone a un pro-
cesso a carico di tre militanti nazisti che avevano attaccato il
Tanzpalast Eden, una sala da ballo frequentata, a loro
dire, da stranieri e comunisti. Non era il peggiore dei fatti di
san- gue di quei tempi. Ma la presenza del Fü hrer al
processo lo trasformò in un avvenimento mediatico.
Fotografi e giornali- sti presero d’assalto la sede del
tribunale penale nel quartiere di Moabit. Hitler era stato
convocato come persona infor- mata dei fatti su richiesta
dell’avvocato di parte civile, in rap- presentanza dei feriti
nell’assalto. Si presentò significativa- mente in completo blu
scuro, non nell’uniforme abituale. Il presidente della corte
mise a tacere i sostenitori che al suo ingresso nell’aula 664
erano scattati in piedi nel saluto nazi- sta. Poi rivolse al
testimone la prima domanda. Gli chiese se

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era a conoscenza di squadre punitive organizzate dal suo
partito.
Hitler negò decisamente che ci fossero squadre punitive
organizzate e ispirate sotto la sua leadership. Sostenne, come
aveva fatto in altre occasioni, che il Partito nazionalsocialista
rifiutava la violenza e si atteneva rigorosamente a metodi le-
gali nella lotta politica. Disse che le sue SA,
Sturmabteilung, squadre d’assalto, avevano solo il
compito di difendere il partito dagli “assassini rossi” (al che
il presidente della corte lo pregò di moderare il
linguaggio). Lui insistette: “Non mi piace l’attuale
Costituzione. Ma so bene che andare al potere contro la
Costituzione comporterebbe un bagno di sangue. Se
dovessi trascinare i miei seguaci in una tale sciagura tradi-
rei la fiducia che hanno riposto in me…”.
Ma l’avvocato di parte civile, calmo ma implacabile, ave-
va continuato a chiedergli di spiegare, verbali e ritagli in ma-
no, le contraddizioni tra quel che diceva in aula e quel che lui
stesso aveva affermato in altre circostanze, e veniva ribadito
ogni giorno nelle pubblicazioni naziste. Se così stavano le co-
se, se il Partito nazista rispettava la legalità, allora perché
Goebbels insisteva che avrebbero “fatto la rivoluzione”,
“mandato il Parlamento al diavolo”, fatto sentire agli avver-
sari “i pugni dei tedeschi”? L’interrogatorio durò tre ore.
Finché Hitler perse le staffe e si mise a inveire.
L’avvocato Hans Litten l’avrebbe pagata cara: subì un
vero e proprio linciaggio da parte della stampa nazista. Fu
insultato, minacciato, arrivarono persino a vendicarsi sui
suoi famigliari, accusando suo padre di evasione fiscale.
Era un avvocato militante, come molti altri colleghi
impegnati nei processi politici degli anni venti, accusati dai
socialisti al go- verno di voler “politicizzare” e
“spettacolarizzare” la giusti- zia. In effetti, la consegna da
parte del Partito comunista era “non limitarsi a ridurre le
condanne ma trasformare in ogni occasione i processi in
palcoscenici della rivoluzione”. Lui non era comunista, ma
si era fatto notare come difensore in tutti i processi intentati
contro militanti della sinistra rivolu- zionaria. Quando al
governo giunsero i nazisti finì in campo

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02/04/19
di concentramento, e fu sottoposto a brutalità inenarrabili.
Morì suicida a Dachau (o almeno così dissero i suoi
aguzzini). L’anno dopo, nel 1932, Hitler cambiò maschera.
Si levò quella del moderato e difese a spada tratta i militanti
nazisti che avevano ucciso in una spedizione punitiva nella
cittadina mineraria di Potempa, in Bassa Slesia, un operaio
comunista immigrato dalla Polonia. La stampa nazista
scrisse che “era un onore difendere chi aveva messo a
tacere quel polacco”. Le nuove leggi per arginare le violenze
politiche avevano in- trodotto la pena di morte per questo
tipo di reati. Papen, che allora era cancelliere e non voleva
inimicarsi troppo Hitler, commutò la pena in ergastolo. Nel
1934 gli assassini di Po- tempa sarebbero stati amnistiati.
Evidentemente in quel mo-
mento gli faceva più comodo mostrarsi feroce.
Il 1933 avrebbe messo una pietra tombale sull’indipen-
denza della magistratura. Nessun giudice contestò i decreti
di emergenza. Nessuno tra i colleghi protestò quando venne-
ro rimossi dai loro incarichi i giudici e gli avvocati ebrei o
socialdemocratici. Anzi, c’era soddisfazione per i posti che si
liberavano e le possibilità di carriera. Nel 1934 sarebbero
state create le “Corti del popolo”, un vecchio sogno del nazi-
smo forcaiolo delle origini. Carl Schmitt teorizzò che era il
Fü hrer a impersonare la giustizia, quella viva fondata sul po-
polo, non quella che si impantana nei “cavilli”. “Il Fü hrer è
sempre anche il Giudice… Non è subordinato alla
Giustizia ma è lui stesso la Giustizia”, così l’“insigne giurista”
avrebbe giustificato la “Notte dei lunghi coltelli”, in cui
Hitler si era arrogato in contemporanei, i ruoli di
accusatore, giudice, giuria e boia.

Un “uomo di pace”

Sulla scena internazionale Hitler si presentava come “uo-


mo di pace”. Non minacciava di smettere di pagare i debiti
della Germania, né di abbandonare il tavolo della Conferen-
za sul disarmo a Ginevra o altre organizzazioni internaziona-

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li. Men che meno parlava di guerre, conquiste, imposizioni
con la forza su altri popoli “inferiori” a quello tedesco.
Non usava un linguaggio violento o insultante nei con-
fronti degli altri leader mondiali. Non si sarebbe permesso di
dare dell’ubriacone e neanche del burocrate a quelli che gli
stavano sullo stomaco. Lo fece solo molto più tardi, a guerra
già inoltrata. Era il 30 gennaio 1942 quando in un discorso
trasmesso e ritrasmesso dalla radio (lo stesso in cui promet-
teva “occhio per occhio, dente per dente” agli ebrei, se la
prese con “l’ubriacone che governa l’Inghilterra” [Chur-
chill] e con quel ”pazzo alla Casa bianca” [Roosevelt].
Questo voler apparire un agnello era assolutamente in-
tenzionale. È il Fü hrer in persona a spiegarlo in un incontro
con un gruppo scelto di giornalisti tedeschi nel novembre
1938:
Per decenni le circostanze mi hanno costretto a parlare quasi
esclusi- vamente di pace. Perché solo mettendo costantemente
l’enfasi sul desiderio di pace e le intenzioni pacifiche potevo
acquisire i prere- quisiti per il passo successivo. È evidente che
questa propaganda di pace martellata per decenni poteva anche
avere effetti indesiderati. Poteva ad esempio dare a molti
l’impressione erronea che l’attuale regime fosse disposto a
preservare la pace a qualunque costo e con- dizione… io ho parlato
per anni di pace in condizioni forzate. Ma adesso è giunto il
momento di preparare psicologicamente a poco a poco il popolo
tedesco al fatto che ci sono cose che non si possono ottenere con
mezzi pacifici. Ci sono cose che si possono conseguire solo con l’uso
della forza...

“L’uomo della pace” era riuscito a trarre in inganno,


nei mesi successivi la nomina a cancelliere, quasi tutta la
stampa internazionale e i leader di mezzo mondo. Ma non il
filologo Victor Klemperer:
Nella Prima guerra mondiale gli Alleati credettero di vedere nel no-
stro inno Deutschland Deutschland über alles la prova della nostra
volontà di conquista, ma sbagliavano: questo über alles non esprime
una volontà di espansione bensì solo una valutazione positiva del
sentimento del patriota nei confronti della sua patria. Più spiacevole
era sentire i soldati cantare: “Vogliamo, vittoriosi, battere la Francia,
la Russia e il mondo intero”. Comunque, anche questo non è una

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prova valida di un vero imperialismo… non si parla dell’annessione
di territori nemici… Ma si veda invece uno dei canti più caratteristici
del Terzo Reich, che già nel 1934 fu accolto nel Singkamerad, raccol-
ta di canti per le scuole della gioventù tedesca… “Tremano le
fradi- cie ossa/ del mondo davanti alla rossa guerra/ Abbiamo
infranto il grande timore, / per noi è stata una grande vittoria./
Continueremo la nostra marcia/ quando tutto va in rovina, / perché
oggi ci appar- tiene la Germania/ ma domani il mondo intero.” Il
canto è in gran voga subito dopo la vittoria interna, quindi dopo
l’ascesa al governo di Hitler, il quale in ogni discorso insiste sulla
volontà di pace… Ep- pure nel canto si parla di mandare tutto in
rovina per arrivare a con- quistare il mondo. E per non lasciare alcun
dubbio sulla certezza di questa volontà di conquista, nelle due strofe
che seguono si ripete, prima che ridurremo “il mondo intero a un
mucchio di macerie”, poi che invano i “mondi” (al plurale!!) si
opporranno a noi, mentre per ben tre volte il ritornello assicura che
domani il mondo intero ci apparterrà … Il Fü hrer teneva un
discorso di pace dietro l’altro e i suoi ragazzi della Hitlerjugend,
grandi e piccini, erano costretti a cantare anno dopo anno questo
testo pazzesco…

Sempre Klemperer racconta di come, finita la guerra, al


termine di una conferenza sulla Lingua Tertii Imperii, un
ascoltatore l’avesse apostrofato chiedendogli perché volesse
“calunniare i tedeschi” attribuendogli una volontà di domi-
nio che nel testo non ci sarebbe stata affatto: “Lei è
sicura- mente in errore, professore. Le porterò io il testo
giusto”. E, in effetti, l’interlocutore l’indomani gli aveva
portato un’edi- zione successiva, del 1942-43, a cura
dell’Opera del Soccor- so invernale del popolo tedesco, in cui
il canto veniva ritoc- cato, sostituendo a “oggi ci appartiene
[Gehören] la Germania, domani il mondo intero”, un assai
più innocente “e oggi ci ascolta [Hören] la Germania,
domani il mondo in- tero”. Anzi, in quell’anno in cui il
mondo era stato già effetti- vamente ridotto in macerie, e le
armate naziste, dopo aver conquistato buona parte
dell’Europa, erano arrivate quasi a Mosca, ma erano state
fermate a Stalingrado, era stata ag- giunta una quarta strofa,
in cui si deploravano le interpreta- zioni malevole al testo
originario: “Non vogliono capire il si- gnificato del canto,
pensano a schiavitù e guerra / mentre i nostri campi
maturano, sventola, vessillo della libertà. / Con-

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tinueremo a marciare quando tutto va in rovina / la libertà è
sorta in Germania e domani le apparterrà il mondo”.
Basterebbe la metamorfosi di questa sillaba a giustificare
la superiorità della filologia sulla diplomazia e sul giornali-
smo. Ma non c’era bisogno di essere filologi, e nemmeno
profeti, per intuire dove si andava a parare. Sarebbe bastata
un pochino di memoria, ricordarsi quel che dicevano i di-
scorsi e gli slogan di poco prima della andata al governo (lo-
ro la chiamavano Machtergreifung, “presa del potere”). In
questo caso il déjà vu riguarda una malattia diffusissima, en-
demica in tutto il mondo: l’amnesia, l’Alzheimer dei
popoli, la coazione a dimenticare e far dimenticare quel che
si è det- to poco prima.
L’illusione che in realtà Hitler fosse un moderato, che fa-
ceva la voce grossa per accontentare la sua base, ma in fondo
in fondo voleva trattare, non rompere, voleva la pace, non
una nuova guerra, sarebbe durata fino all’ultimo. Chamber-
lain era assolutamente sincero e convinto quando tornò a
Londra da Monaco nel 1938 sventolando un pezzo di carta
su cui aveva sottoscritto assieme a Hitler l’impegno per cui
Germania e Inghilterra non si sarebbero mai più fatte la
guerra e disse le ultime parole famose: “Ecco la pace del no-
stro tempo”. E dire che la Germania era uscita già
nell’otto- bre del 1933 sia dalla Conferenza per il disarmo di
Ginevra, sia dalla Lega delle Nazioni.
Per confermare questa decisione nel modo più solenne
possibile avevano indetto un referendum. I Ja, sì, furono
39.350.000, il 95,1% dei votanti. L’esito era scontato: la pace
imposta a Versailles alla fine della Prima guerra mondiale
era estremamente impopolare. E comunque guai a sgarrare.
A votar contro si veniva incriminati come traditori della
patria. Giacché gli elettori venivano convocati alle urne, ne
appro- fittarono per accompagnare al plebiscito anche nuove
elezio- ni per il rinnovo del Reichstag. La volta prima era
stata il 5 marzo, erano passati appena sette mesi. Ormai
però non si poteva più parlare propriamente di elezioni. Era
solo un’e- sercitazione formale, un’occasione di
mobilitazione e di pro- paganda. Di partiti da votare non ne
restava che uno solo: il

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Partito nazionalsocialista. Gli altri erano stati soppressi, o si
erano suicidati. Già dal 14 luglio erano stati aboliti tutti
gli altri partiti, ed era stato formalmente vietato di fondarne
di nuovi. La lista del Nsdap ottenne 39.650.000 voti,
addirittu- ra qualcuno in più che nel referendum.
Dalle elezioni politiche del 5 marzo in poi in Germania si
fecero solo plebisciti. Con esito scontato e sempre con le
stesse fantastiche percentuali di adesione. Alla morte del
Presidente Hindenburg i tedeschi furono chiamati alle urne
il 19 agosto 1934 per ratificare l’unificazione del ruolo di
cancelliere e presidente della Repubblica, nella persona ov-
viamente del Fü hrer. Si fece poi un altro referendum nel
1936 per approvare la rioccupazione della Renania in barba
alle clausole del Trattato di Versailles. E poi ancora un refe-
rendum per l’Anschluss, la riunificazione con l’Austria, nel
1938. A fatto, cioè invasione compiuta, peraltro. Non era più
possibile esprimere dissenso, anzi non era nemmeno conce-
pibile.

Eppure, studi recenti hanno mostrato che il consenso


non era affatto così unanime come appare. E talvolta il dis-
senso costringeva persino Hitler a compromessi, a posporre,
o rivedere certe decisioni. Sa quasi dell’incredibile, alla luce
della brutalità con cui venivano imposte le scelte del regime,
che i malumori nell’opinione pubblica lo costringessero a ri-
dimensionare nell’agosto 1941 i programmi per l’eutanasia
degli adulti, e che le proteste della Rosenstrasse, inscenate
dalle mogli ariane degli ebrei di Berlino, cioè da una
mino- ranza fragilissima, lo costringessero a sospendere nel
1943 gli ordini già emanati per la deportazione dei loro
mariti. È la sfera del privato, non quella della politica, a
mostrare ca- pacità di resistenza inaspettate, insospettabili,
anche nelle più feroci dittature.

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8.
Uomini che odiano i giornali

I nazisti al governo arraffarono il monopolio assoluto


delle trasmissioni. Poi misero in riga tutti i giornali,
con un misto di intimidazioni e di offerte che gli edi-
tori, indeboliti dalla crisi economica e dalle liti in fa-
miglia, “non potevano rifiutare”. Eppure la Germania
aveva alcuni tra i giornali più diffusi, più letti e più pre-
stigiosi in Europa. A essere crudeli si potrebbe dire che
quella fine ingloriosa se l’erano pure cercata.

Ai tempi della dinastia Ming viveva in Cina un boia di


straordinaria abilità. Si chiamava Wang Lun. Era famoso per
la destrezza e la velocità con cui procedeva alle decapitazio-
ni. La sua fama si estendeva in tutte le province dell’impero.
La sua tecnica consisteva nel tranquillizzare i condannati con
un sorriso, e vibrargli il colpo prima ancora che questi finis-
sero di salire la scala per il patibolo. Ma non gli bastava. Il
suo sogno era riuscire a decapitare i condannati senza che
questi neanche si accorgessero di aver perso la testa. Si eser-
citò alacremente per oltre cinquant’anni, a prezzo di sforzi
enormi. Era ormai settantenne quando riuscì a realizzare la
sua ambizione. Quel giorno aveva sedici teste da tagliare. Ne
aveva fatte rotolare già undici, quando il dodicesimo, arriva-
to in cima alla scaletta senza che gli fosse successo nulla pro-
testò : “Boia crudele, perché prolunghi il mio supplizio?
Ep- pure con gli altri avevi avuto compassione, avevi fatto
in fretta”. Fu allora che Wang Lun comprese che aveva
rag- giunto la perfezione che aveva cercato tanto a lungo.
“Sii gentile, fai di sì con la testa. Ti accorgerai che ti ho già
accon- tentato.”
Arthur Koestler racconta nella sua autobiografia questa

106

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storiella che circolava a Berlino tra i suoi colleghi dei giornali
del gruppo Ullstein, nel quale era stato assunto come redat-
tore scientifico. Rende un’idea del clima complessivo di in-
certezza che attraversava la Germania. Anche se è riferito in
modo specifico all’aria che spirava nelle redazioni del mag-
gior gruppo editoriale progressista della Germania, prima
ancora della nomina di Hitler a cancelliere. Erano iniziati da
tempo i licenziamenti, i prepensionamenti, le riduzioni del
personale. Nessuno, neanche le grandi firme, poteva essere
sicuro che la prossima testa a cadere, senza preavviso, non
fosse la propria. La crisi continuava a mordere pubblicità e
vendite.
Il gruppo Ullstein era un gigante, pubblicava alcuni dei
quotidiani più prestigiosi, tra cui il “Vossische Zeitung”,
portabandiera del giornalismo liberale e progressista. Aveva
sede nella Kochstrasse, in pieno centro di Berlino, dove oc-
cupava un intero isolato. Per Casa Ullstein lavoravano dieci-
mila persone. Il loro quartier generale era una città nella cit-
tà, un alveare di testate, direttori, caporedattori, giornalisti,
segretarie, fattorini. Solo per spolverare e lucidare, svuotare
i cestini della carta nella sede di questo impero editoriale
era- no impegnate trecento donne delle pulizie. Ma più un
grup- po editoriale era grande e potente, più era vulnerabile
ai ri- catti. Gli Ullstein erano una famiglia ebraica. Ma gli
eredi erano meno interessati alla difesa della democrazia
repubbli- cana e della libertà di stampa di quanto fosse stato
il fonda- tore. Cambiava pure, sia pure in maniera non
dichiarata, la linea. Si adeguava ai mutamenti nell’opinione
pubblica. Ad esempio, i giornali del gruppo Ullstein avevano
sempre con- dotto una battaglia appassionata contro la
pena di morte. Ma sull’onda dell’emozione suscitata dai
processi ai serial killer, il “Lupo mannaro di Hannover”
Haarmann e il “Vam- piro di Dü sseldorf” Kü rten, era stata
data indicazione alle redazioni di abbandonare la campagna
contro le esecuzioni capitali “perché non ce lo possiamo più
permettere”. Koestler racconta di aver visto sparire dal
giornale le firme più presti- giose, gli opinionisti più
indipendenti, i cronisti più corag- giosi. “Si vedevano volti
nuovi, sparivano le vecchie mae-

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stranze… Benché gli Ullstein fossero ebrei, le vittime
dell’epurazione erano tutti ebrei, i rimpiazzanti, a quanto mi
ricordo, tutti ariani... benché gli Ullstein avessero opinioni
progressiste, quelli che venivano mandati via erano tutti di
sinistra, quelli che venivano assunti tutti nazionalisti.”
Non era ancora scontato che arrivassero al potere i nazi-
sti. Anzi. C’erano, ricorda Koestler, gli ottimisti per
profes- sione, e gli ottimisti per temperamento. “I primi
ingannava- no i propri lettori, gli altri ingannavano se
stessi. C’era chi diceva: ‘Non possono essere così cattivi’; gli
altri: ‘Sono trop- po deboli, non ce la faranno’. Altri ancora:
‘Sono troppo for- ti, bisogna giungere a un accomodamento
con loro’; altri an- cora: ‘Vi fate spaventare da uno
spauracchio, siete paranoici’. Qualcuno predicava: ‘Odiarli
non serve a niente, bisogna cercare di comprenderli, dargli
fiducia’; e c’erano altri che semplicemente rifiutavano di
‘pensarci’.”

Contro puttane e pennivendoli

I nazisti odiavano i giornali e i giornalisti. Sin dagli inizi


del loro movimento. Guazzavano nella disaffezione, anzi nel
disprezzo crescente dei lettori verso i giornali e la politica.
Lo fomentavano. Non sono sicuro che gli dessero delle “put-
tane” o dei “pennivendoli”. Non c’era però discorso, comi-
zio, articolo sulla loro stampa in cui non si scagliassero con
estrema violenza contro la Lügenpresse, la stampa bugiarda.
Ce l’avevano in particolare con i giornali di sinistra, la “stam-
pa marxista”. Con altrettanta se non maggiore violenza ce
l’avevano con la “stampa ebraica”, con i grandi giornali
“borghesi”, di orientamento liberale e democratico, i cui
editori, e molte delle grandi firme, avevano cognomi ebraici.
Ce l’avevano in special modo con la stampa berlinese, colpe-
vole di non avergli mai lisciato il pelo. Ma ce l’avevano anche
con la campana opposta, i tabloid e i giornali della destra
nazionalista, quelli che facevano capo all’impero mediatico
di Alfred Hugenberg. Senza il minimo riguardo, la minima
gratitudine per il fatto che proprio i giornali di Hugenberg

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gli avessero tirato per anni la volata, e fossero più beceri, più
reazionari, più violentemente avversi alla sinistra, alla demo-
crazia liberale, e agli ebrei, delle stesse pubblicazioni naziste.
Forse qualche motivo, o per lo meno qualche pretesto
per essere additati all’odio i giornali dell’epoca lo offrivano.
Weimar aveva grandi giornali, grandi giornalisti e grandi
edi- tori. Ma sarebbe vano cercare la grandeur leggendaria
che, negli stessi anni, aleggia sulla stampa americana. Il
cinema tedesco non avrebbe mai potuto produrre un
personaggio del calibro del Citizen Kane impersonato e
diretto nel 1940 da Orson Welles (Quarto potere, il titolo
italiano). Se c’è tra le due guerre una mistica del
poliziesco, del detective e del delitto tedeschi, non identici
ma paragonabili a quella ameri- cana, più difficile è ritrovare
un’analoga mistica del giornali-
smo e della libertà di stampa.

I giornali in verità non fanno gran bella figura nei


romanzi e nei memoir dell’epoca. Forse anche perché molti
scrittori so- no anche giornalisti. Certe cose le hanno vissute
dall’interno. Abbiamo visto che ne pensa il giovane
redattore Koestler. Un altro che sa bene di cosa parla è
Rudolf Ditzen, in arte Hans Fallada. Alla fine degli anni
venti si era fatto le ossa in un piccolo giornale di provincia,
nello Schleswig-Holstein. Il primo romanzo che gli diede
notorietà come scrittore uscì nel 1931, era intitolato Bauern,
Bonzen und Bomben (Conta- dini, bonzi e bombe). I
contadini sono furibondi per la crisi. Subiscono la
concorrenza dei prodotti importati dal resto d’Europa, sono
massacrati dalle tasse, e se non riescono a pagarle devono
subire pignoramenti, gli agenti del fisco gli portano via
mucche e vitelli. I bonzi (del termine è rimasta traccia anche
in italiano, fino ai giorni nostri) sono i politici e i funzionari
dei sindacati di sinistra. Le bombe sono quelle messe da chi
cavalca la protesta. Non è un saggio di sociolo- gia o di storia,
è un romanzo, quasi interamente fatto di dia- loghi, di
parlato quotidiano. Ma è una miniera di suggestioni sul
perché le cose andarono come andarono. Ci sono i parti- ti,
tutti i partiti, dai socialdemocratici, che governano la città,

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ai democratici, al centro cattolico, al partito dell’economia,
che rappresenta classi medie e commercianti, ai nazionalpo-
pulisti del Volkspartei che ce l’hanno soprattutto con la “de-
mocrazia corrotta” di Weimar e con gli ebrei, ai comunisti
che seguono la politica dettata da Mosca e si preoccupano
più che altro di fare le scarpe ai socialisti, cui danno dei “so-
cial-fascisti”. E, ovviamente, ci sono pure i nazisti, anche
se contano ancora poco. Sono i soli che capiscono la rabbia
dei contadini e la cavalcano. Proprio nell’anno in cui
Fallada scriveva il suo romanzo, nella cittadina descritta col
nome fittizio di Altholm (in realtà Neumü nster), i
nazionalsociali- sti sarebbero balzati dal 4 al 27 per cento.
Tutti i partiti sono più o meno corrotti. Divisi in fazioni e
correnti che si sbranano. Leader e uomini dell’apparato han-
no un tratto comune: si fanno le scarpe a vicenda, sgomitano
per fare carriera. Qualcuno resta “per bene”. Tra questi, il
sindaco socialista della cittadina. Governa talvolta con mezzi
poco ortodossi. Ma tutto sommato con integrità , non è un
corrotto, non pensa ad arricchirsi. Un po’ di disinvoltura
fa parte del mestiere. Solo una categoria è ancora più
“disinvol- ta” dei politici: i giornalisti. I giornali sono messi
male, ven- dono poco, perdono lettori, sono in deficit,
hanno bilanci colabrodo. Sono a caccia perenne di notizie
sensazionali per vendere più copie, di introiti pubblicitari
per non fallire. Gli editori tramano ardite operazioni
finanziarie, se li passano di mano in mano, talvolta senza
che i dipendenti e i lettori neanche se ne accorgano. È un
vortice di compravendite di testate, di acquisizioni ostili,
quasi sempre segrete, fusioni opache.
Il titolo che originariamente l’autore aveva apposto al
manoscritto, e che, stando a quel che lui stesso ci
racconta, avrebbe di gran lunga preferito a quello con cui
poi uscì il romanzo, era: “Un piccolo circo”. Si riferisce a
un episodio narrato nel prologo: un piccolo circo arriva in
città e non vuole pagare la pubblicità sul giornale locale;
insomma resi- ste a una pratica ricattatoria. Il direttore del
giornale si ven- dica commissionando ai suoi redattori una
stroncatura dello spettacolo. Lo scrittore è uno che nei
giornali di provincia ha

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lavorato, quindi si può presumere che stia scrivendo con co-
gnizione di causa. A uscirne male però non sono solo giorna-
li, editori e giornalisti. È la politica nella Germania di
quegli anni. Non la politica delle grandi idee, delle
passioni infuo- cate che si scontrano a Berlino e in altre
importanti città , bensì la politica degli interessi angusti,
delle recriminazioni sorde e accumulate, degli asti a lungo
compressi, in una real- tà marginale, periferica, ancora legata
all’agricoltura e all’al- levamento.
“Il mio obiettivo era dire ‘Povera Germania’, non ‘poveri
contadini’”, avrebbe poi precisato Fallada. “Magari non è
arte eccelsa, ma è spaventoso quant’è realistico…” il giudi-
zio, da sinistra, di Kurt Tucholsky.

La conquista della Rai, pardon della radio

Per non sapere né leggere né scrivere, appena arrivati al


potere i nazisti si impadronirono immediatamente, e com-
pletamente, del mezzo di comunicazione che si sarebbe rive-
lato più importante di tutta la stampa messa insieme. Misero
le mani sulla Rai, pardon sulla radio. È vero, la prima mossa,
nella primissima riunione del governo Hitler, era stata proi-
bire l’uscita dei giornali della sinistra. Era seguita l’intimida-
zione di tutti gli altri giornali, finché li costrinsero all’obbe-
dienza, a mettere il bavaglio ai giornalisti sgraditi, a licenziare
i direttori ostili, o dei quali non si fidavano. Gradualmente
sarebbero riusciti a metterli fuori gioco, farli chiudere,
espropriarli o sottrarli ai precedenti proprietari. Anzi, la
maggior parte dei giornali si sarebbe adeguata spontanea-
mente al nuovo regime prima ancora di esservi costretta. Ca-
pita, nelle migliori famiglie. Ma la mossa decisiva, quella più
lungimirante, fu la conquista della radio e il potenziamento
di tutto quello che le nuove tecnologie della comunicazione
potevano offrire.
Prima del 30 gennaio 1933, i nazisti praticamente non
avevano nessuna influenza sulla radio e sui contenuti delle
trasmissioni. Dal primo febbraio alle elezioni del 5 marzo in-

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vece usarono la radio per fare una martellante campagna
elettorale quotidiana. Monopolizzarono le assunzioni, bloc-
cando l’accesso a tutti gli altri partiti, compreso il Dnvp
del magnate dei media Hugenberg, loro alleato nel
governo. I nazisti avevano compreso la potenza del mezzo,
avevano im- parato a utilizzarlo. Il colpo di genio fu
l’accoppiata radio-al- toparlanti, trasmissione a distanza più
effetto stadio. Ecco il commento di Goebbels al discorso di
chiusura della campa- gna elettorale, pronunciato da Hitler
il 4 marzo a Kö nigs- berg e trasmesso in diretta:
“Resoconto grandioso. Hitler fantastico. Preghiera di
ringraziamento e suono delle campa- ne. 30-40 milioni di
ascoltatori…”.
Victor Klemperer, in una pagina del suo Lingua Tertii
Imperii, racconta di aver assistito alla diffusione di quell’e-
vento davanti alla facciata dell’albergo vicino alla stazione
di Dresda, tutta illuminata, da cui un altoparlante diffonde-
va il discorso. “Non l’ho mai visto, né l’ho ascoltato
parlare direttamente, agli ebrei era vietato…Del discorso
afferrai so- lo dei brani, in realtà più suoni che frasi… Non
sono mai riuscito a capire come con quella voce tutt’altro
che melo- diosa, sforzata fino all’urlo, con quelle frasi
rozze, spesso neppure in buon tedesco, con quella retorica
scoperta, del tutto estranea al carattere della lingua tedesca,
abbia potuto conquistare le masse, tenendole avvinte per un
tempo spa- ventosamente lungo…” “Il medium è il
messaggio”, avrebbe potuto rispondergli Marshall
McLuhan.
Goebbels curava di persona la regia delle trasmissioni, si
improvvisava cronista radiofonico. Le sue radio e cinecrona-
che sono accessibili su YouTube. Il tono di voce, il
sapiente dosaggio di alti e bassi fa venire in mente, alla mia
generazio- ne, le grandi radiocronache del calcio che fu.
Sembrava di esserci, allo stadio. Si riusciva a seguire tutto
anche senza ve- dere. Ora in televisione la partita si vede.
Ma almeno io non riesco più a seguirla: la moda, a quanto
pare, è che i com- mentatori dialoghino tra di loro, anziché
raccontare quel che succede in campo. Distraggono anziché
aiutare, si scambia- no un fuoco di fila di battute che io non
capisco. Goebbels è odioso, ma nessuno può dire di non
capire quel che dice.

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Alla Fiera internazionale della Radio di Berlino del 1933 era
stato presentato un ricevitore radio economico, alla portata
di tutte le tasche. Lo chiamarono Volksempfänger 301, rice-
vitore del popolo, 301 stava per la data della nomina di Hit-
ler a cancelliere. Fu il ministro della Propaganda del Reich a
ordinarne la produzione e diffusione di massa. Fino ad allora
la radio non aveva avuto grandi effetti sulle elezioni, era
stata politicamente neutrale o solo leggermente dalla parte
dei go- verni in carica e della democrazia di Weimar. Coi
nazisti di- venne onnipresente e onnipotente. Anche se si
dovette aspettare il 1939 perché il 70 per cento delle case
tedesche avesse una radio. Solo il cinema superava la radio
in popola- rità , e anche sul cinema il controllo divenne
totale. Era Goebbels a decidere che film si dovevano e
potevano fare. Possiamo solo immaginare cosa sarebbero
riusciti a fare se avessero avuto anche le televisioni e i
social.

Come misero in riga la stampa “bugiarda”

Il giornale del Partito comunista “Rote Fahne” era


stato bandito immediatamente. Il pretesto: avevano
proclamato uno sciopero generale per il 31 gennaio, giusto
l’indomani della nomina di Hitler a cancelliere. Tre giorni
dopo fu sop- presso anche il “Vorwä rts”, l’organo dell’Spd.
Il pretesto fu un editoriale che invitava i cittadini a
difendere i propri dirit- ti costituzionali. Anche se al tempo
stesso li esortava alla cal- ma, a non cadere in
provocazioni.
I socialdemocratici non avevano aderito all’appello dei
comunisti per uno sciopero generale, non avevano mobilita-
to le milizie di partito e sindacato del Reichsbanner (tre mi-
lioni e mezzo di membri, almeno sulla carta, più numerosi
anche se meno combattivi delle milizie naziste). Una delle
ragioni addotte per la mancata mobilitazione era non dare a
Hitler pretesti per scatenare “legalmente” la violenza. “In-
sorgere già quella prima notte [della nomina di Hitler a can-
celliere] ci avrebbe resi tecnicamente violatori della Costitu-
zione che volevamo difendere.”

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Una seconda ragione era dettata dal timore, tipico delle
paranoie imperanti nella sinistra, che i comunisti ne appro-
fittassero per “pugnalare alle spalle” i socialisti. Se sciopero
generale e protesta fossero sfociati in scontri sanguinosi tra
le milizie di sinistra e quelle naziste si rischiava di provocare
l’intervento dell’esercito. Contro i comunisti e di riflesso
contro l’intera sinistra. Mentre l’Spd pensava, sperava, di
potere ancora mobilitare la Reichswehr contro i nazisti.
Un’altra ragione ancora, non del tutto peregrina, era che
“uno sciopero generale difficilmente può riuscire quando ci
sono così tanti disoccupati”.
Alla messa al bando dei giornali della sinistra seguì la
proibizione di pubblicare qualsiasi notizia sgradita su qual-
siasi giornale. Il decreto “Per la protezione del popolo tede-
sco” del 4 febbraio 1933 prevedeva la messa al bando delle
“notizie scorrette”. A decidere cosa fosse “corretto” o “scor-
retto” era il ministro dell’Interno. E ministro dell’Interno,
anche se da pochi giorni, era il nazista Frick. Gli Interni ai
nazisti sembravano poca cosa in un governo zeppo di mini-
steri assegnati a esponenti non nazisti. E invece si rivelarono
decisivi.
“Ora abbiamo anche una leva contro la stampa. Le messe
al bando si susseguiranno a raffica. Il ‘Vorwärts’ e l’‘8 Uhr-A-
bendblatt’, e tutti gli altri organi ebraici che ci hanno causato
tanti fastidi e lutti, spariranno una volta per tutte dalle
strade di Berlino”, notò nel suo diario Goebbels.
Interessante l’accostamento. Il “Vorwärts” era un giorna-
le di partito, di quello che era stato a più riprese il primo
partito in Germania. L’“8-Uhr-Abendblatt” era invece un
giornale d’opinione, con simpatie liberal, anzi “progressi-
ste”, come amavano definirsi, ma non di partito. Appartene-
va alla famiglia Mosse, che l’aveva acquisito nel 1927, ag-
giungendolo al “Berliner Tageblatt” e ad altri giornali già in
loro possesso.
I giornali del gruppo Mosse erano molto prestigiosi. Lo
stesso Goebbels aveva cercato di farsi assumere al “Berliner
Tageblatt”, prima di diventare il braccio destro di Hitler e
prima di pubblicare un giornale tutto suo, “Der Angriff”.

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Farsi assumere dal “Berliner Tageblatt” era il massimo cui
un giornalista tedesco degli anni venti e trenta potesse aspi-
rare. Il direttore storico, e padre fondatore, del “Berliner Ta-
geblatt”, Theodor Wolff, si vantava spesso e volentieri di ri-
cevere in continuazione richieste di assunzione anche da
giornalisti del gruppo rivale, quello di Hugenberg.

I conti in tasca agli eredi dell’editore

In realtà i grandi giornali erano già stati messi in riga,


ben prima che arrivassero al potere i nazisti. Da governi di
centro-destra o di centro-sinistra. Si erano macchiati della
colpa di essere troppo indipendenti. Per ultimo dal gover-
no Brü ning, che aveva l’appoggio esterno dei socialisti.
Non gli si perdonava di essere stati troppo critici. Non è
certo inaudito che i governi, di sinistra o di destra che sia-
no, non amino giornali troppo indipendenti, non sopporti-
no di buon grado le critiche, che se ne lamentino con gli
editori, che esercitino pressioni. Come tutti gli altri giorna-
li, anche quelli della famiglia Mosse erano in difficoltà fi-
nanziarie. La crisi aveva dimezzato gli introiti pubblicitari.
Alla morte del fondatore del gruppo, Rudolf Mosse, erano
subentrati la figlia e il genero. Gli eredi però soprattutto
non volevano perderci soldi, della continuità della linea del
giornale gli importava assai meno. Litigavano coi direttori e
l’amministratore scelti e blindati dal fondatore per garanti-
re continuità. Avevano assunto un nuovo amministratore
più esperto in pubblicità e in taglio dei costi che in giornali-
smo. Avevano progettato la trasformazione del giornale in
modo da renderlo più “popolare”. Avevano di conseguenza
già ridotto gli organici, sfoltito, e di parecchio, le firme che
scrivevano di politica e argomenti considerati troppo “se-
riosi”. Così facendo avevano continuato a perdere lettori.
Erano alla mercé del nuovo governo senza che ci fosse
nemmeno bisogno di proibirli.

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Gli editori si erano piegati a mandar via i giornalisti
sgradi- ti prima ancora che a imporglielo fosse il nuovo
regime. A co- minciare da quelli di razza sbagliata. Tra le
prime vittime illu- stri ci fu la cronista mondana della
“Vossische Zeitung”, Bella Fromm. Il suo licenziamento
suscitò parecchio clamore negli ambienti diplomatici. La
giornalista conosceva tout le monde a Berlino ed era
conosciuta da tutti. Era adorata dai lettori. Pia- ceva anche
all’editore. Ma aveva un difetto: era ebrea.
Ebrei erano anche i proprietari dell’impero Ullstein.
Pubblicavano numerosi tabloid, tra cui il “Berliner Zeitung”
(“B.Z.”), 200.000 copie, il “Berliner Morgenpost”, oltre
mezzo milione, il “Berliner Illustrierte”, 2 milioni, il
“Grü ne Post”, 1 milione, nonché l’avveniristico e
l’illustratissimo giornale della sera “Tempo”. Erano tabloid,
non giornali po- litici, con circolazione di massa e grandi
raccolte pubblicita- rie. La perla dell’impero Ullstein era il
“Vossische Zeitung”, equivalente in prestigio al “Times” di
Londra e al “Le Temps” di Parigi. Con fior fiore di firme,
dal poeta Kurt Tu- cholsky all’autrice di Grand Hotel Vicki
Baum, a Erich Ma- ria Remarque, il quale vi aveva
pubblicato a puntate nel 1928 il suo Niente di nuovo sul
fronte occidentale. L’avevano affet- tuosamente
soprannominata Tante Voss, Zia Voss (giornale, in tedesco, è
al femminile). Per i berlinesi di peso era inam- missibile non
venire menzionati, naturalmente a pagamento, nelle colonne
della vecchia Zia Voss nel giorno della nascita, del
matrimonio o dei funerali.
Sembra una costante nella storia delle famiglie proprieta-
rie di grandi giornali, una maledizione che arriva fino ai gior-
ni nostri: anche gli eredi Ullstein litigavano tra di loro, anzi
uno dei fratelli aveva intentato causa agli altri. Anche loro
perdevano soldi molto malvolentieri. Anche loro erano inte-
ressati ai conti e al rendimento più che alla linea del giornale,
ai valori della democrazia e alla libertà di stampa. Anche loro
erano esposti alle pressioni e al ricatto degli inserzionisti e
dei cancellieri di turno. Nei primi mesi del 1933 sembrava
che la stampa, tutta la stampa, fosse in sia pure leggera ripre-
sa dopo anni di crisi. L’avvento di Hitler e le minacce alla
li- bertà di stampa apparentemente avevano ridestato
l’interes-

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se dei lettori, alle notizie se non alla politica. Non bastò però
a salvare i giornali. Gli Ullstein furono costretti a chiudere
“Tempo” e il prestigioso “Vossische”, e infine a cedere la
maggioranza azionaria di tutto quel che restava del loro im-
menso impero, su cui non tramontava mai il sole (produce-
vano a ciclo orario continuo: giornali del mattino, del pome-
riggio e della sera), a una cordata di imprenditori “ariani”
graditi ai nazisti.
Il quotidiano più prestigioso di tutti era il “Frankfurter
Zeitung”. Fondato dal banchiere Leopold Sonnemann a
metà Ottocento era rimasto un gioiello di famiglia per quasi
un secolo. In realtà nel 1933 era già passato da un paio d’an-
ni in modo riservato, senza dare troppo nell’occhio, sotto il
controllo della IG Farben, il colosso della chimica. Fino ad
allora era sempre stato un giornale di centro-sinistra. Aveva
caldeggiato negli anni venti la cooperazione tra l’Spd e i cen-
tristi del Ddp, difendeva a spada tratta i valori della Costitu-
zione di Weimar e della giustizia sociale. Gli antisemiti lo
avevano costantemente attaccato come massima e più perni-
ciosa espressione della Judenpresse. Nel Mein Kampf Hitler
aveva dedicato più invettive al “Frankfurter Zeitung” che a
qualsiasi altro giornale, lo considerava l’organo della cospi-
razione giudaica mondiale. Eppure, come quasi tutti gli altri
grandi giornali in Europa, il “Frankfurter” aveva la vocazio-
ne a posizionarsi dalla parte del governo, chiunque fosse al
governo. Pur continuando a rivendicare equidistanza e indi-
pendenza di giudizio. L’editoriale del 31 gennaio, firmato dal
capo dell’ufficio berlinese, Rudolf Kircher, trasudava rassi-
curazioni al lettore: l’esuberante esultanza dei nazionalsocia-
listi non sarebbe durata a lungo; i compiti del nuovo governo
erano formidabili; i partner di Hitler nel governo erano gen-
te seria, non fantocci; il nuovo ministro della Difesa, il gene-
rale Blomberg (che godeva della fiducia del Presidente della
Repubblica), non avrebbe mai permesso l’instaurazione di
una dittatura; il fatto stesso che Hitler avesse accettato di en-
trare nel governo dimostrava che lo si poteva “addomestica-
re”. Esempio egregio di “ultime parole famose”. Ma ben me-
ditate dal punto di vista del tornaconto.

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Il “Frankfurter Zeitung”, che per anni si era presentato
come il più strenuo difensore della legalità e della Costitu-
zione, sarebbe finito in ginocchio, anzi sdraiato di fronte ai
nuovi padroni della Germania. Il punto più basso fu quando
giunse a giustificare i pieni poteri a Hitler, che esautoravano
il Parlamento. “Il Parlamentarismo? Siamo gli ultimi a rim-
piangere che qualcuno ne metta in luce i limiti, che noi stessi
avevamo fatto notare ai politici di partito. Una riorganizza-
zione più rigorosa della vita politica era inevitabile; anzi di
più : era una necessità vitale.” Questo il commento del solito
Kircher. Il quale, grazie a queste giravolte, sarebbe stato pre-
miato, promosso da notista politico a direttore del quotidia-
no. Direttore lo era ancora quando nel 1939 il “Frankfur-
ter” fu acquisito dal Franz-Eher Verlag. Il boss
dell’editoria nazista, Max Amann, l’aveva comprato per
farne dono al Fü hrer, in occasione del suo compleanno.
Kircher ne sareb- be rimasto direttore fino all’agosto del
1943, quando il gior- nale fu chiuso per espresso ordine del
Fü hrer. L’occasione è una delle poche volte in cui nel suo
diario Goebbels dissente da Hitler: dice di avere cercato
inutilmente di convincerlo che tenere in vita il giornale
sarebbe stato assai più utile che chiuderlo.

Stampa ebraica in perfetta armonia col governo

C’era stato un momento in cui i nazisti erano riusciti a


strumentalizzare persino l’odiata “stampa ebraica”. “La stam-
pa ebraica se la sta facendo sotto. Tutte le organizzazioni
ebraiche proclamano la loro lealtà al governo”, l’annotazione
di Goebbels nel suo diario per il 27 marzo 1933. Ancora
più entusiastica quella del primo aprile: “La stampa sta
lavorando [con noi] in completa armonia”. E una settimana
dopo: “Che splendida stampa abbiamo!”. Non era un
risultato spontaneo, ma il frutto di un intenso lavorio.
C’erano state minacce diret- te e messaggi di tipo mafioso,
assalti alle redazioni, intimida- zioni ai giornalisti, ma
soprattutto ai raccoglitori di abbona- menti e ai grandi
inserzionisti. Il messaggio era: siete ebrei, se

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non vi adeguate vi facciamo chiudere, sapete benissimo che ne
abbiamo i mezzi. Il 6 aprile Hitler incontrò gli editori e gli
dis- se chiaro e tondo che i loro giornali gli servivano ancora
per una sola cosa: alleviare le apprensioni internazionali sul
suo governo. Quelli ringraziarono e obbedirono.
Sessantasei quotidiani, quattromila testate, per lo più lo-
cali, con una circolazione media di cinquemila copie. Non
c’erano mai stati tanti giornali in Germania quanti ce n’erano
all’inizio degli anni trenta. Né ce ne sarebbero stati tanti in
seguito. In Germania si pubblicavano allora più giornali che
in Gran Bretagna, Francia e Italia messe insieme. Le famiglie
Mosse e Ullstein controllavano metà dei venti milioni e passa
di copie vendute all’inizio degli anni trenta. Erano su posi-
zioni liberali, oggi si direbbe di centro-sinistra. L’altra metà
faceva capo a Hugenberg, ultranazionalista, antisemita, filo-
monarchico, nemico feroce della Repubblica e della demo-
crazia di Weimar. I giornali di Hugenberg avevano sostenuto
per oltre un decennio tutte le campagne di odio e di denigra-
zione contro la sinistra, gli immigrati, gli ebrei, tutti coloro
che nel mondo volevano male alla Germania, che magari
pretendevano che rispettasse gli impegni internazionali e
che non smettesse di pagare i propri debiti.
Praticamente erano stati i giornali di Hugenberg a creare
il clima di opinione, l’isteria xenofoba, antigiudaica e anti-
bolscevica, le fandonie sulla “pugnalata alla schiena”, sul
“complotto internazionale” su cui sarebbero cresciuti i nazi-
sti. Hitler avrebbe dovuto essergliene grato. E invece mal
gliene incolse pure a lui. Anche l’impero mediatico di Hu-
genberg fu smembrato e fagocitato. Senza troppi compli-
menti, non appena il co-firmatario del contratto di governo
con Hitler fu scaricato dal suo partner. I suoi giornali, le sue
agenzie di stampa e le sue case di produzione cinematografi-
ca finirono assorbite nella galassia di aziende dei media che
facevano capo a Max Winkler e rispondevano direttamente
ai vertici nazisti. Neanche Hugenberg, gli Ullstein e i
Mosse messi insieme erano riusciti ad accumulare tante
aziende e tanto potere. Era come se un nuovo magnate
venuto dal nulla si pappasse, uno dopo l’altro, il gruppo
Repubblica-Espresso,

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il “Corriere della Sera”, Mediaset e Sky. Allora come oggi,
non ci sono limiti alla voglia di saltare sul carro dei vincitori,
allo zelo nel servire i nuovi padroni. Winkler, prima di diven-
tare il fiduciario di Hitler per giornali e film, era stato funzio-
nario delle Poste, poi deputato centrista. “Ho servito diciot-
to governi. Perché mai non avrei dovuto mettermi al servizio
di un diciannovesimo?” Così Winkler avrebbe spiegato lo
zelo, anzi l’entusiasmo con cui si prese cura della concentra-
zione dei media nelle mani del regime nazista.

Tradizione di linciaggi mediatici

Si potrebbe obiettare che ci fu continuità tra il prima e


il dopo. La stampa, tutta la stampa, aveva reso un buon ser-
vizio ai nazisti da ben prima che finisse nelle loro mani o gli
fosse dato il benservito. Erano stati i giornali a fomentare
anno dopo anno l’avversione alla politica e ai politici, il di-
sgusto per la democrazia parlamentare. Era stata la stampa
– e non solo la stampa di destra – a inventare la leggenda
della “pugnalata alla schiena”, ai danni di una Germania
che avrebbe potuto vincere la Grande Guerra se non fosse
stata tradita dall’interno, dagli ebrei in combutta con i loro
correligionari dalla parte opposta del fronte, dai socialisti e
dai pacifisti, dai bolscevichi, dai profittatori e dalla finanza
internazionale, a loro volta tutti ebrei o in combutta con gli
ebrei.
La prima grande campagna di stampa era stata quella di-
retta contro l’“Ebreo Erzberger”. Matthias Erzberger era in
realtà un esponente del centro cattolico, in coalizione con la
sinistra nel primo governo repubblicano. Da segretario di
Stato in carica aveva guidato, in accordo con l’Alto coman-
do militare, la delegazione tedesca nelle trattative per l’ar-
mistizio. Lo accusavano di aver accettato condizioni umi-
lianti, anzi peggio: di aver “venduto” la Germania alle
potenze vincitrici della Grande Guerra. Lui aveva querelato
i detrattori. Al termine della quarta udienza in tribunale, un
ufficiale in congedo ventenne, avido lettore dei giornali di

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Hugenberg, gli aveva sparato. Erzberger era sopravvissuto:
il proiettile era stato deviato dalla catena d’oro dell’orolo-
gio. Il mancato assassino aveva ricevuto una condanna lieve,
a soli diciotto mesi di detenzione. La corte gli credette quan-
do affermava che non aveva l’intenzione di uccidere, ma vo-
leva solo costringerlo a dare le dimissioni. Il processo per
calunnia era andato avanti per mesi. Finché un giornale di
destra, il “Deutsche Zeitung”, aveva introdotto un nuovo
argomento, pubblicando le dichiarazioni dei redditi di Erz-
berger, e accusandolo di evasione fiscale. Lui, per meglio di-
fendersi, si era dimesso da ministro delle Finanze, esigendo
che le sue dichiarazioni dei redditi venissero passate a un
vaglio approfondito e rigoroso. L’indagine si era conclusa
rilevando solo qualche errore marginale dovuto alla com-
plessità delle norme fiscali in tempo di guerra, ma assolven-
dolo dalle più gravi accuse di falso ed evasione fiscale.
Non bastò : la campagna di stampa gli aveva
irrimediabilmente rovinato la reputazione. Era stato
abbandonato anche dai giornali di sinistra, che gli davano
addosso quanto quelli di destra. Nell’agosto 1921 gli
spararono nuovamente, stavolta senza mancare il
bersaglio.
Gli assassini si sarebbero giustificati citando per filo e per
segno quel che a proposito delle malefatte della loro vittima
avevano letto sui giornali. Ci sarebbe voluto, quasi a ruota,
un altro assassinio clamoroso di un esponente politico
additato come ebreo, quello del ministro degli Esteri
Walther Rathe- nau, per far passare una legge contro la
calunnia a mezzo stampa. In realtà quella legge non venne
mai applicata. I gior- nali continuarono a macinare scandali
politici. In compenso, la misura era a doppio taglio:
nell’intento di difendere l’onore della politica dalle calunnie a
mezzo stampa creava un terribile precedente. Ne avrebbero
approfittato tutti i successivi can- cellieri della Repubblica di
Weimar, socialisti quanto centristi e conservatori. Ma a
portarla alle estreme conseguenze, met- tendo il bavaglio a
qualsiasi critica a mezzo stampa al proprio governo,
sarebbero stati i nazisti.

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Indigestione di scandali finanziari

Lo sport preferito dalla stampa tedesca negli anni venti


erano gli scandali che coinvolgevano uomini d’affari e politi-
ci. Contendevano le prime pagine all’altro argomento di cui i
giornali, tutti i giornali, sembrava non potessero fare a
meno: la cronaca che gronda sangue, i delitti sessuali, con
attenzio- ne spasmodica alle storie di scempio del corpo
femminile. L’un genere e l’altro di notizie faceva vendere
copie. Assai più dell’ideologia. Gli editori potevano
giustificarsi soste- nendo che davano al pubblico quello che
il pubblico gli chie- deva. Finché qualcuno ebbe un’idea
geniale: mischiare i ge- neri, dargli insieme odio e ideologia,
scandali e finanza, sfogo e denuncia, mezze verità e pure
invenzioni, sesso e delitto.
All’inizio il tema preferito era quello del politico corrot-
to, che si vende a speculatori senza scrupoli. Esemplare il ca-
so Barmat, che coinvolse addirittura un Presidente della Re-
pubblica in carica, il socialdemocratico Friedrich Ebert, e un
ex cancelliere, anche lui socialdemocratico, Gustav Bauer. I
sette fratelli Barmat erano affaristi ebrei di origine russa. Si
erano arricchiti durante la guerra trafficando con l’Olanda in
generi alimentari. Poi avevano creato società di investimento
impegnate in speculazioni valutarie e altre attività
finanziarie dubbie. Quando a fine 1924 le loro società
fallirono e i Bar- mat furono arrestati, venne fuori che erano
Stati finanziati dalle Poste e dalla Banca di Stato della
Prussia. Peggio: che vantavano amicizie politiche con l’Spd
e finanziavano gior- nali e associazioni benefiche del
partito.
A dar fuoco alle polveri, in questo caso, non erano stati
neanche i giornali conservatori o di destra. Tanto meno i fo-
gli nazisti (il “Vö lkischer Beobachter” di Hitler vendeva
an- cora pochissime copie, era perennemente sull’orlo del
falli- mento e della chiusura). La bordata iniziale era venuta
dal giornale del Partito comunista, il “Rote Fahne”, con
l’obiet- tivo di smascherare la corruzione del governo
socialdemo- cratico, portar via voti all’Spd alla vigilia delle
Politiche del 1924. Non gli era servito a niente. L’impatto
sul risultato elettorale era stato modesto, anzi in senso
opposto alle atte-

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se: i comunisti avevano perso un milione di voti, i socialisti
ne avevano guadagnati due.
Solo in un secondo momento si era unita all’inseguimen-
to della preda, una volta sentito odore di sangue, la muta fe-
roce dei giornali di Hugenberg. Che avevano rilanciato e tra-
sformato in caccia spietata al marxista e all’ebreo quello che
inizialmente poteva apparire come uno scambio di dispetti
tra i due principali partiti della sinistra. Bauer dovette
dimet- tersi da deputato. Ebert dovette sottoporsi a una
commissio- ne d’inchiesta del Parlamento prussiano.
La stampa di destra non aveva mollato l’osso neppure
dopo le elezioni. Anzi, aveva approfittato – esattamente co-
me era successo anni prima col caso Erzberger – di un pro-
cesso per calunnia intentato dal Presidente Ebert contro un
giornalista che l’aveva accusato di “alto tradimento” per aver
appoggiato, sul finire della guerra nel 1918, uno sciopero in
una fabbrica di munizioni a Berlino. Rivangare quella vec-
chia storia aveva trasformato in men che non si dica Ebert da
querelante in difesa del proprio onore in accusato di aver
pugnalato la patria alle spalle. La magistratura dal canto suo
ci aveva aggiunto il proprio carico da novanta. Con una
biz- zarra sentenza, definita “mostruosa” anche dai
conservatori, il giudice aveva condannato a tre mesi di
carcere il giornali- sta per ingiurie, riconoscendo che dare
del “traditore” al Presidente della Repubblica significa
insultarlo. Ma al tempo stesso lo aveva assolto dal reato di
calunnia, sostenendo che indire uno sciopero in tempo di
guerra sarebbe stato in effet- ti “tradimento”.
Il primo presidente della Repubblica di Weimar fu assol-
to, otto mesi dopo, con formula piena, da tutte le inchieste, e
da tutte le accuse. Ma il Partito socialdemocratico non si ri-
prese mai del tutto da quello tsunami di fango. La sinistra
comunista ce l’aveva con Ebert almeno quanto ce l’aveva la
destra nazionalista. Non gli perdonava che avesse fermato e
represso i moti rivoluzionari nel 1918-19. Lo consideravano
complice, se non mandante diretto, dell’assassinio di Karl
Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ebert ci lasciò la pelle. An-
che se non per mano di un assassino. I continui attacchi, il

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linciaggio quotidiano a mezzo stampa l’avevano fiaccato.
Morì di peritonite prima che scadesse il suo mandato da Pre-
sidente della Repubblica.
Non si era ancora del tutto spenta l’eco dei processi a ca-
rico di Ebert, che esplose l’affaire Sklarek. Stavolta a lanciare
e fomentare in modo sistematico la campagna fu direttamen-
te la stampa nazionalsocialista, l’“Angriff” del Gauleiter
del Nsdap per Berlino, Goebbels. Gli Sklarek erano tre
fratelli di origine ebraica immigrati dall’Est, proprio come la
fami- glia Barmat finita nel ciclone qualche anno prima.
Avevano praticamente il monopolio della fornitura di divise
alla poli- zia e ad altri servizi municipali di Berlino. Erano
stati arresta- ti nel settembre 1929 con l’accusa di aver
corrotto i dirigenti socialdemocratici di Berlino per
aggiudicarsi le commesse. Il “Berliner Lokal-Anzeiger” (del
gruppo Hugenberg) fu il pri- mo a insistere sul fatto che i
fratelli Sklarek erano grandi fi- nanziatori dell’Spd e delle
sue organizzazioni fiancheggiatri- ci. La stampa comunista si
accodò subito a quella nazista nel denunciare la corruzione
dell’amministrazione socialdemo- cratica. Nell’articolo di
prima pagina in cui dava notizia del nuovo scandalo il
“Welt am Abend” di Willi Mü nzenberg, il “Paese Sera”
della Berlino anni trenta, insisteva che gli Sklarek erano
iscritti all’Spd. Come dire: vedete quanto so- no corrotti i
socialisti. Il “Rote Fahne” implicò come desti- natario delle
mazzette anche il sindaco di Berlino, il centrista del Ddp
Gustav Bö ss. In realtà , come succede nelle migliori
famiglie e di frequente anche ai giorni nostri, gli Sklarek ave-
vano dato contributi a pioggia a tutte le forze politiche. Non
solo ai politici socialdemocratici (tra cui due sindaci di circo-
scrizione) ma anche ad almeno un paio di consiglieri comu-
nali comunisti. Avevano buoni rapporti anche con politici
dell’opposizione di destra, e persino coll’editore del giornale
antisemita “Wahrheit”. I tabloid moderati e liberali, il “Tem-
po” della famiglia Ullstein e l’“8 Uhr-Abendblatt” della fa-
miglia Mosse si buttarono pure loro a pesce a denunciare lo
scandalo, e deplorare il “sistema” di potere socialista. Berli-
no ebbe molto prima di Roma la sua Mafia Capitale. I cui
protagonisti non erano sinti ma ebrei.

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Tutti facevano a gara a rivelare, spesso a ricamare,
talvolta a inventare, nuovi particolari. Comunque il più bravo
e fanta- sioso, nonché il più implacabile, si rivelò l’“Angriff”
di Goeb- bels, con raffiche di titoli a effetto, per quanto privi
di riscon- tri, tipo Cassaforte segreta nella villa degli Sklarek
oppure Fagiani, champagne, aragoste. L’argomento faceva
presa. Ren- deva voti. Continuò a essere evocato in
continuazione dai na- zisti in tutte le campagne elettorali,
fino al ’33. I socialdemo- cratici, che in quegli anni non ne
indovinavano una, sbagliarono clamorosamente strategia
sulla “questione mora- le”. Minimizzavano, se la
prendevano con il “sensazionali- smo” della stampa
avversaria. Non avevano del tutto torto, sensazionalismo
era. Ma l’opinione pubblica ne trasse la con- clusione che
volevano nascondere i panni sporchi in casa. Punì chi
minimizzava, non gli spacciatori di sensazionalismo.
È la stampa, bellezza! Il pubblico era ammaliato dalla
dovizia di particolari, si beveva avidamente qualunque cosa
gli venisse propinata. Ancora una volta è la letteratura a dare
un’idea del clima. In un romanzo del 1931 di Gabriele Tergit
(pseudonimo maschile della cronista giudiziaria del “Berli-
ner Tageblatt” Elise Hirschmann, ebrea, poi profuga nel
1933), il protagonista, un giornalista rampante, alle obiezio-
ni di un collega più anziano che gli rimprovera mancanza di
scrupoli e sensazionalismo al posto di analisi accurate, ri-
sponde: “A cosa servono gli scrupoli? Gli scandali
rendono molto di più ”.
Fu in buona misura grazie allo scandalo Sklarek che il
giornale comunista poté vantare l’acquisizione di cinquemila
nuovi lettori, i giornali di Ullstein aumentarono del 20 per
cento la tiratura, quelli di Hugenberg raggiunsero vendite
record. Ma più ancora lettori acquisì il nazista “Angriff”, che
grazie a questa campagna, da bisettimanale divenne quoti-
diano.
Il tutto avveniva alla vigilia delle elezioni del 1929 a
Berli- no e in Prussia, che rappresentarono una batosta per i
centri- sti e il centrosinistra, e portarono i nazisti a triplicare
i voti. I giornali avevano guadagnato qualche copia in più . Ma
a caro prezzo: l’affossamento della Repubblica e della
democrazia.

125

02/04/19
9.
Come fu comprato il popolo

Istruzioni per ottenere il consenso universale: renderlo


obbligatorio e, soprattutto, pagarlo in contanti. Il catti-
vo uso della parola “popolo”, e la definizione di chi
ne fa parte e chi no. Avevano inventato il reddito di
citta- dinanza e mantenuto la promessa di pensioni per
tutti. Ma poi finirono col mandarle in fumo. Si
dichiaravano il Partito dell’onestà, ma la nuova
nomenclatura era più vorace di quella vecchia.

Già nei primi mesi del 1933 il saluto nazista con il


brac- cio teso si era diffuso dappertutto. Heil Hitler! aveva
sosti- tuito il Guten Tag di Berlino, il Moin di Amburgo, il
Grüss Gott della Baviera. Nel luglio 1933 una direttiva del
ministro dell’Interno Frick avrebbe reso questo saluto
obbligatorio per i dipendenti pubblici. Presto divenne
contagioso, assun- se la forma di rito propiziatorio
collettivo. A scuola e nelle università gli insegnanti entravano
in classe salutando gli stu- denti con Heil Hitler! Erika Mann,
la figlia dello scrittore e lei stessa brillante autrice di
cabaret, stimò che i bambini usassero l’Heil Hitler! una
cinquantina, o forse un centinaio di volte al giorno. Tutti lo
usavano molto più spesso dei salu- ti neutri di prima.
Quanto era spontaneo? Non farlo poteva essere rischio-
so. Era diventato routine per il console americano a Berlino
occuparsi dei turisti che venivano malmenati per strada per-
ché non facevano il saluto nazista. Comparvero nelle vetrine
dei negozi cartelli con l’invito perentorio: “I tedeschi si salu-
tano con Heil Hitler!”. La selva di braccia alzate ai raduni è
una delle immagini che rendono l’idea del grado di adesione
di massa, di consenso al regime. Non a caso fu ampiamente

126

02/04/19
utilizzata dalla propaganda nazista. Ma al tempo stesso ren-
dono conto di quanto possa essere difficile sottrarsi,
resistere alla corrente. Quando tutti fanno un gesto, non
farlo equiva- le ad autodenunciarsi come dissidente, diverso,
nemico della maggioranza, quindi nemico del popolo. Il “chi
non salta co- munista è” può far sorridere. Rifiutarsi
ostentatamente di fa- re il “saluto tedesco” aveva ben altre
conseguenze.
Tra le molte foto dell’epoca ce n’è una ritrovata solo nel
1991 e pubblicata dal quotidiano “Die Zeit”. Mostra le mae-
stranze dei cantieri Blohm und Voss di Amburgo che saluta-
no col braccio teso. Uno solo rifiuta ostentatamente di farlo,
tiene le braccia conserte. Non si sa con certezza chi fosse
e che fine abbia fatto. Irene Eckart, che ha scritto un libro
sul- le vicende della propria famiglia, ritiene che si tratti di
suo padre, l’operaio August Landmesser, allora tra le
maestranze del cantiere. Era un iscritto al Partito nazista
sin dal 1931. Ma era innamorato di una ragazza ebrea. Per
la precisione mezza ebrea, con due nonni ebrei e due no.
Avevano avuto due figlie, lui le aveva riconosciute, ma le
leggi razziali aveva- no impedito che si potessero sposare.
Non è chiaro se a per- derli fu la recidiva nel reato di
“oltraggio alla purezza della razza”, o quel gesto clamoroso
di protesta. Lui scontò trenta mesi in campo di
concentramento, poi i lavori forzati, e infi- ne
l’arruolamento coatto, fino alla morte in Croazia. Lei,
passata per diversi campi di concentramento, fu eliminata in
un’istituzione per malati mentali. Le figlie finirono in orfano-
trofio, furono separate, poi affidate a parenti e tutori diversi.
L’Hitler Gruss, il saluto a Hitler, era diventato un’abitudi-
ne. Quasi un tic. Persino in privato, in casa, tra amici, tra
mari- to e moglie ci si salutava così. E forse non solo per il
timore di venire denunciati. Ma c’è chi ha fatto notare che
proprio la diffusione del rito, il fatto che venisse
considerato un saluto universale, lo trasformava in luogo
comune, proteggeva in qualche modo nell’anonimato della
folla chi si conformava all’esercizio del saluto, ma aveva
dubbi sul regime. Paradossal- mente, i visitatori stranieri del
Terzo Reich lo notano di più agli inizi del regime. Forse
perché è una novità. Così come al- tri attribuiscono
importanza a quel che percepiscono come ri-

127

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torno ad altre forme di saluto. A Monaco “hanno smesso
di dire Heil Hitler!”, scrive il corrispondente della Cbs
William Shirer nel 1940. Victor Klemperer nota che al terzo
mese della guerra contro l’Unione Sovietica, a Dresda la
gente comincia a dire più spesso buongiorno o buonasera. Si
mette a contare chi nei negozi saluta in un modo e chi
nell’altro. “Pare che i buongiorno stiano aumentando. Dal
panettiere Zscheichler cinque donne hanno detto Guten
Tag e due Heil Hitler!” Ma “dal pizzicagnolo hanno detto
tutte Heil Hitler!”. Si mette a contare per strada chi saluta in
un modo e chi nell’altro anche il sociologo americano
Theodore Abel, che nel 1934 era venu- to a Berlino per
completare il suo studio sul come e perché di Hitler al
potere.
Lo storico Peter Fritzsche nel suo Vita e morte nel
Terzo Reich mette però in guardia dal considerare il saluto
nazista come misura del consenso, o del dissenso. Osserva
che “Heil Hitler! poteva servire anche per rivendicare un
riconosci- mento sociale, in quanto sostituiva nell’uso
quotidiano saluti più deferenti. Quando il postino salutava
i vicini con un ostentato Heil Hitler! segnalava che era un
Volksgenosse, un compagno del popolo e un loro pari. Allo
stesso modo, il ca- po che all’ingresso della mensa in
fabbrica accoglieva col braccio teso gli operai in precedenza
esclusi dal saluto, non cancellava le differenze sociali, ma
riconosceva i nuovi diritti di cui godevano i suoi dipendenti”.
Insomma, dava anche un senso di parità, comunanza di
propositi, come per “compa- gno” nella sinistra del tempo
che fu, tovarišč in Russia, ton- gzhi in Cina. “Mettere [il
nuovo saluto] solamente in bocca ai fanatici significa
ignorare che i tedeschi si adeguarono più o meno
volontariamente all’ideale unitario della Comunità del
popolo (Volksgemeinschaft).”

Volk qua, Volk là

La parola di cui si fa più uso nel Terzo Reich è indubbia-


mente “popolo”. Dilaga in tutte le salse, in tutti i composti
possibili. Annota Victor Klemperer il 20 aprile 1933: “Anco-

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ra un’occasione celebrativa, un nuovo giorno festivo per il
popolo: il compleanno di Hitler. Attualmente la parola po-
polo [Volk] si usa tanto spesso, parlando e scrivendo, quanto
il sale nelle pietanze; su tutto si aggiunge un pizzico di popo-
lo; festa del popolo, membro del popolo, compagno del
po- polo [Volksgenosse], comunità di popolo
[Volksgemein- schaft], vicino al popolo [Volksnah]. Il
popolo si definisce anche in base a chi viene considerato
estraneo al popolo [Volksfremd], o addirittura nemico del
popolo [Volksfeind]”. E ancora: Hitler è il Volkskanzler, il
cancelliere del popo-
lo. Si può essere Volksbewußt, cosciente, curante del popolo,
oppure, al contrario, Volksschädling, parassita del popolo.
Uno dei vanti del regime fu la costruzione e diffusione della
Volkswagen, l’auto del popolo. C’è una foto di Hitler con-
tento come un bambino mentre gli mostrano un modellino
del “maggiolino”. Völkisch è la parola chiave, il grimaldello
passe-partout che indica continuità e discontinuità allo stes-
so tempo. La parola popolo distingue i nazisti dai “borghesi”
e, allo stesso tempo, gli consente continuità col nazionalismo
esasperato dei loro predecessori ideologici. D’altra parte, an-
che i cosiddetti partiti “borghesi” non riuscivano a fare a me-
no del popolo nella propria denominazione: Deutsche Volk-
spartei si chiamava la formazione liberale che tanta parte
aveva avuto nelle fasi iniziali della Repubblica di Weimar,
Deutschnationale Volkspartei quella nazionalista e di destra.
“Le idee fondamentali del movimento nazionalsocialista so-
no populiste (völkisch) e le idee populiste (völkisch) sono na-
zionalsocialiste”, sentenzia Hitler nel Mein Kampf.
È un’orgia, un’indigestione continua di popolo. E di po-
pulismo.

Loro infatti dicono di andare verso il popolo… Questi movimenti


fascisti si autodefiniscono dappertutto movimenti populisti. Spesso
usano un tono molto aspro contro i ricchi, specialmente quando
questi lesinano le sovvenzioni al partito, mostrando di non capire il
proprio tornaconto. Io però sono convinto che conta proprio il
pic- colo contributo. E quanto più severamente tuonano contro i
ricchi, tanto più lautamente affluisce il piccolo contributo, e tanto più
ricchi diventano loro. In contraccambio però , devono pur fare
qualcosa. In

129

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generale oggigiorno si pretende troppo… Non è meraviglia che non
riescano ad adeguarsi a queste tremende pretese. Si pretende, per
esempio, che siano assolutamente disinteressati. Vorrei sapere come
potrebbero esserlo, e perché proprio loro. Ma loro devono continua-
mente assicurare che non ne ricavano nulla...

Ecco come la mette uno dei due interlocutori costretti


all’esilio, nei Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht. L’ironia è
a doppio taglio. Smaschera i nazisti, ma anche la dabbenag-
gine della sinistra che non era riuscita a impedire che si im-
padronissero del potere. I dialoganti sembrano la parodia
del solenne scambio di stupidaggini nel Bouvard e Pécuchet
di Flaubert. Brecht li aveva scritti nei giorni dell’esilio in Fin-
landia, dall’aprile 1940 al maggio 1941. Poi li aveva messi da
parte, forse per non infierire sul fallimento della sua parte
politica. Erano stati pubblicati postumi, nel 1961.

Nella Germania nazista il popolo si definisce principal-


mente per esclusione di chi non fa parte del popolo. Il punto
4 del programma originario del 1920 del Partito nazionalso-
cialista recitava: “Solo un compagno del popolo può avere la
cittadinanza. Solo chi è di sangue tedesco, indipendente-
mente dalla sua confessione religiosa, può essere
considerato un membro del popolo. Di conseguenza
nessun ebreo può essere un membro del popolo…”.

Il reddito di cittadinanza

Il protagonista di E adesso, pover’uomo? di Hans


Fallada si reca alla sede della Cassa mutua, per verificare lo
stato del- la domanda di contributo per puerperio e
allattamento.
“Tessera d’iscrizione”, gli intima l’impiegato allo sportello.
“Eccola… vi ho scritto.”
“Certificato di nascita.”
“Vi ho scritto e vi ho mandato i documenti che mi hanno
dato all’ospedale.”
“Be’, cosa vuole ancora?”

130

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“Volevo chiedere se la cosa s’è risolta. Se il denaro è stato
spedito. Ne avrei bisogno.”
“Che ne so. Se lei ha avanzato l’istanza per iscritto, le ver-
rà dato corso anche per iscritto.”
“Potrebbe accertarsi se la pratica è stata evasa?”
L’addetto allo sportello si allontana bofonchiando: “Solo
fastidi inutili...”. Si infila in un uscio dove c’è una targhetta
che l’utente non riesce a leggere da lontano. Ma più guarda e
più si convince che ci sia scritto: “Toilette”. Gli monta den-
tro una gran rabbia. Dopo un po’ di tempo, anzi dopo un bel
po’ di tempo, l’impiegato ricompare, prende la tessera d’i-
scrizione e la posa sul banco: “La pratica è stata evasa”.
Tornato a casa il protagonista trova una busta conte-
nente una lettera e due questionari da compilare. Gli chie-
dono un certificato di nascita “ad uso cassa malattia”, quel-
lo rilasciato dall’ospedale non gli basta. Poi gli chiedono gli
attestati delle casse malattie a cui sono stati iscritti negli ul-
timi due anni… Il senso della lettera è così ironicamente
riassunta dall’autore del romanzo: “È vero che siamo per-
fettamente al corrente del fatto che i medici propendono a
ritenere che una gravidanza dura solo nove mesi… ma può
darsi che in questo modo i costi possiamo accollarglieli ad
un’altra cassa malattia… Abbia la compiacenza di pazien-
tare fintanto che non ci saranno pervenuti i documenti ne-
cessari…”. Lui vorrebbe andarli a cercare e strozzarli. La
moglie cerca di calmarlo.
Una testimonianza giornalistica di fine anni venti da Co-
lonia dà un’idea della variegata “clientela” della miriade di
uffici a cui rivolgersi per l’assistenza sociale: “Sono le otto
del mattino. Nell’ufficio distrettuale si affolla gente di ogni
genere, ogni classe, unite solo dal fatto di essere recipienti di
un sussidio. Ecco la domestica licenziata dopo vent’anni con
lo stesso datore di lavoro, che ha perso i risparmi… accanto
a lei il giovane che non ha ancora trovato un lavoro… il
pic- colo commerciante che non ce l’ha fatta..., l’operaio
vittima di un incidente sul lavoro a cui non basta la pensione
di inva- lidità …”. Non più solo i “poveri”, ma quelli che
prima se la cavavano, quello che chiamavano Mittelstand,
ceto medio.

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Dal 1927 al 1932 era cambiata a fondo la distribuzione dei
tipi di recettori di Welfare, non più solo i disoccupati e i pen-
sionati. Ed era cambiata la distribuzione geografica: avevano
un loro Sud.
Quel che li univa era la rabbia. Ecco, a caso, un’altra te-
stimonianza del 1932, da Dü sseldorf, da parte di uno che sta
dall’altra parte dello sportello, un assistente sociale:

Quando oggi sono arrivato in ufficio, alle 8 meno 5, [i richiedenti del


sussidio] avevano già invaso la sala d’attesa. In piedi, serrati uno ad-
dosso all’altro, la fila continuava nel corridoio, e anche oltre, per
stra- da. Facendo forza come potevo, riuscii a farmi strada sino al
mio uffi- cio. Mi si era strappata la giacca. Quando cercai di uscire,
tanta era la calca che non riuscii ad aprire la porta dall’interno.
Dovetti scavalcare la finestra. Alle dieci circa una giovane assistente
sociale a contratto cercò anche lei di uscire. Ma non riuscì ad aprire
la porta. Dovette an- che lei usare la finestra. Poco prima delle undici
arrivò un commesso con i dossier. Con molto sforzo riuscì ad
entrare negli uffici. Ma non riuscì più ad uscire. Hai voglia gridare e
battere pugni sulla porta. La gente in attesa gli urlava contro: “Stia al
suo posto a lavorare. È da sta- mattina che siamo in fila”. Con l’aiuto
degli altri assistenti sociali riuscì finalmente ad aprire la porta. Ma ne
scaturì un tafferuglio, si venne alle mani…

La Germania di Weimar aveva la più estesa, ramificata e


complicata rete di assistenza sociale e sanitaria in Europa. Il
guaio è però che un’assistenza che non funziona o funziona
male crea ancora più malcontento e odio della mancanza di
assistenza. Negli anni trenta i socialdemocratici e i partiti al
governo avevano tagliato i ponti con la parte più in difficoltà
della popolazione. Venivano identificati irrimediabilmente
con politiche per la casa e l’assistenza che non funzionavano
granché, erano percepite come clientelari, specie a livello lo-
cale. In realtà le amministrazioni locali di sinistra si erano
date da fare come potevano, avevano fatto sforzi sovrumani
per l’assistenza ai più deboli in un momento in cui c’era una
tragica mancanza di fondi. Ma l’attivismo, anziché premiarli,
gli si era ritorto contro.

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“Investire nella felicità!”

La crisi post-1929 aveva prodotto un picco senza prece-


denti di disoccupati. Dei 6,1 milioni disoccupati censiti uffi-
cialmente nel 1933 solo 900.000 ricevevano un sussidio dal
sistema nazionale. Gli altri si dovevano rivolgere all’assisten-
za a carico degli enti locali. Appena giunti al governo nel
1933 i nazisti smantellarono tutte le organizzazioni caritate-
voli, solidali, indipendenti, municipali, religiose, non gover-
native. Vi sostituirono un ente unico e centralizzato: il
Nationalsozialistische Volkswohlfahrt (Direzione per il be-
nessere del popolo). Lo vantavano all’epoca come “la più
grande istituzione sociale del mondo”. Viene ancora oggi
considerato l’architrave dell’ingegneria sociale nazista. Ge-
stiva le pensioni, gli affitti, i sussidi di disoccupazione e inva-
lidità, gli ospizi, i prestiti senza interessi per le giovani cop-
pie, il sostegno alle famiglie e l’assicurazione sanitaria.
Avevano inventato persino il reddito di cittadinanza, un
reddito minimo per tutti. A dire il vero non proprio per tutti,
solo per i cittadini di pura e comprovata razza ariana, di lin-
gua e cultura tedesca, che potessero dimostrare di essere in
regola in fatto di cittadinanza e residenza, e potessero prova-
re di essere disoccupati ed effettivamente in cerca di lavoro.
La platea iniziale fu enorme: 14 milioni di tedeschi. I sus-
sidi potevano essere spesi solo in negozi tedeschi (e non ad
esempio in quelli di proprietà di ebrei o stranieri). Si suppo-
neva che dovessero stimolare l’economia e i consumi nazio-
nali. Dovevano venire utilizzati solo per acquistare beni di
prima necessità (e nulla che l’austera cultura protestante
considerasse inutilmente frivolo o “immorale”). Gli uffici
della Volkswohlfahrt gestivano le offerte di lavoro e propo-
nevano impieghi ai disoccupati. Per chi non trovava impiego
c’erano i lavori “socialmente utili”.
La parola Volksgemeinschaft, la comunità di popolo
(c’è chi preferisce tradurre “comunità di razza”), combinava
le promesse di “nazione”, “socialismo”, “lavoro” presenti
nel nome stesso del Partito. Premiava gli eletti, dannava
gli

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esclusi (stranieri, ebrei, oppositori, asociali). Univa utile e di-
lettevole, mobilitazione e propaganda.
Hitler veniva chiamato “primo lavoratore della nazione”.
Una delle immagini propagandistiche più suggestive del re-
gime nazista è il dipinto a olio del 1936 di Ferdinand Staeger
dal titolo I soldati del lavoro che mostra una squadra di lavo-
ratori che avanza con le vanghe in spalla come fossero fucili.
Occasioni di “fraternizzazione”, “cameratismo” tra il
popo- lo furono il moltiplicarsi delle feste comandate, con
relative teatrali e fastose celebrazioni di massa:
l’anniversario della “presa del potere” il 30 gennaio, quello
della fondazione del Partito nazista il 24 febbraio, il Giorno
degli Eroi e dei Mar- tiri del movimento in marzo, il
compleanno del Fü hrer il 20 aprile, la nuova festa del
lavoro, anzi “Festa nazionale del Popolo tedesco”, il Primo
maggio, e ancora, il raduno reso “perpetuo” a
Norimberga, la celebrazione del putsch del 1923… Il
Winterhilfe, la raccolta di fondi e vestiario per l’aiuto
invernale alle famiglie in difficoltà, che in realtà era stato
introdotto nel 1931 dal governo Brü ning, divenne una
colossale esercitazione di solidarietà, peraltro obbligatoria,
in seno al popolo. Giganteschi programmi vennero creati e
gestiti dal Deutsche Arbeitsfront, l’organizzazione statale del
Fronte tedesco del lavoro che nell’estate 1933 aveva assorbi-
to e rimpiazzato i sindacati. Suggestive le denominazioni:
Kraft durch Freude, Forza mediante la gioia, e Schönheit der
Arbeit, Bellezza del lavoro. La prima si occupava di tempo
libero e vacanze, la seconda dell’igiene e delle mense in fab-
brica.
Capirete perché ho avuto un brivido quando ho sentito i
due vicepremier parlare a proposito dell’ultima finanziaria
di “investimento per la felicità degli italiani”. Il più infelice
degli slogan pubblicitari è quello che evoca, magari senza sa-
perlo, qualcosa di vomitevole. “Il lavoro nobilita” (Arbeit
adelt) e “Il lavoro rende liberi” (Arbeit macht frei) erano slo-
gan molto in voga prima di diventare grotteschi sui cancelli
di Auschwitz.

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Onesti ma mica tanto

La punta di diamante della propaganda nazista contro il


marcio nella Repubblica di Weimar era stata diretta contro
la corruzione degli ebrei, della sinistra e della politica. Calò
immediatamente la scure sui favoritismi e il sistema clientela-
re del passato. Ne venne introdotto uno nuovo. Per avere un
lavoro si dovevano presentare credenziali ineccepibili di pu-
rezza di razza e di fede politica. I primi a trovare un posto
fisso furono i miliziani delle SS e delle SA, inquadrati
prima come ausiliari e poi come organici nella polizia, nei
servizi di sicurezza e nelle forze armate. Poi anche tutti gli
altri. Nel luglio del 1933 il numero due del partito e braccio
destro del Fü hrer, Rudolf Hess, aveva promesso un lavoro a
tutti colo- ro che fossero membri del Partito da prima del 30
gennaio 1933. Già in ottobre la promessa fu mantenuta: fu
trovato un posto a tutti i membri del Partito nazista che
avessero un nu- mero di tessera sotto il 300.000.
Si continuò così anno dopo anno. Il 90 per cento dei nuo-
vi posti di lavoro impiegatizi nella pubblica amministrazione
fu assegnato ai “vecchi combattenti” per la causa del nazi-
smo. Le Poste fecero un concorso in cui 30.000 posti
erano riservati a “nazionalsocialisti meritevoli”. E così nelle
Ferro- vie. Anche per le promozioni valeva l’anzianità di
partito. La conseguenza fu che, per far spazio agli “aventi
diritto”, si moltiplicarono posizioni amministrative di cui
non vi era ne- cessità e a molti furono conferiti incarichi di
direzione per cui erano del tutto inadeguati. Alcuni
ricevevano lo stipen- dio senza nemmeno presentarsi in
ufficio. Avevano buone ragioni per essere grati al nuovo
regime.
La nomenclatura aveva appetiti smisurati. Tenere rap-
porti con la nuova classe dirigente divenne indispensabile
per chi voleva fare affari. Si affermò un mestiere inedito: la
persona che tiene i contatti, il consulente con buone relazio-
ni in alto loco che si procura licenze e permessi. Tangenti
e regali costosi erano la norma. Particolarmente clamoroso il
caso di Anton Karl, il capo del Dipartimento costruzioni del
Fronte del lavoro, il quale distribuì somme enormi in regali

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per assicurarsi le commesse. Sepp Dietrich, il capo della
guardia personale di Hitler, prese nota di quel che aveva ri-
cevuto per favorire l’assegnazione dell’appalto della nuova
caserma per i suoi uomini: camicie di seta, un orologio d’oro,
fucili da caccia, un viaggio in Italia per la moglie.
L’andazzo imbarazzava i campioni, fino a poco prima, della
moralizza- zione. Corsero ai ripari: dal 1934 al 1941 si
contano ben
11.000 processi per appropriazione indebita di fondi del
partito.
Era dominio comune. Tutti sapevano come funzionava,
circolavano barzellette a non finire sulla corruzione nel
Terzo Reich. Ma con la dovuta prudenza. Il comico
Werner Finck recitò nel 1934 dal palcoscenico del cabaret
Kata- kombe una storiella in cui il cliente col braccio
alzato nel saluto nazista, davanti al sarto che gli prende le
misure e gli chiede che tipo di giacca desideri, risponde:
“Con le tasche belle larghe, come di moda adesso”. La
battuta gli costò il campo di concentramento.
La peggiore corruzione, come aveva intuito Monte-
squieu, è quella del popolo, che pertanto tende a tollerare i
corruttori. I rapporti clandestini inviati dall’interno ai centri
esteri del Partito socialdemocratico segnalano irritazione tra
la gente per la corruzione e gli stili di vita sfarzosi del Fronte
del lavoro (Deutsche Arbeitsfront), e in particolare del suo
capo carismatico, Robert Ley. Altro che “bonzi”, come veni-
vano spregiativamente chiamati i funzionari del sindacato
all’epoca della Repubblica di Weimar! Ma non sembra che la
nomea abbia avuto conseguenze né su Ley né su Gö ring
né sugli altri alti papaveri che ostentavano proprietà e stili di
vi- ta sfarzosi. Hitler era fuori causa: aveva rinunciato
persino allo stipendio da cancelliere e al relativo rimborso
spese, era indicato come il campione di onestà e moralità. Le
cose non stavano esattamente così. Era spesato di tutto,
accumulava residenze ufficiali, aveva un fondo spese segreto
illimitato, i diritti del Mein Kampf, divenuto lettura
obbligatoria, i diritti per la sua immagine sui francobolli, le
donazioni gli consen- tirono di accumulare un ingente
patrimonio personale. E co-

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munque parlar male del Fü hrer era reato, passibile di con-
danna a morte.

La rapina delle pensioni

Le pensioni erano state il cardine del consenso sin da


quando Bismarck le aveva introdotte, anticipando il resto
dell’Europa, a fine Ottocento. Nel 1933 il sistema
pensioni- stico tedesco copriva i quattro quinti della
popolazione, ga- rantiva il futuro a 21,6 milioni di lavoratori
che continuava- no a versare i contributi, oltre 4 milioni già
ricevevano una pensione, altri milioni di superstiti godevano
della reversibi- lità . Ai pensionati il regime promise di
tutto e di più . Alla fi- ne gli avrebbe tolto ogni cosa.
Robert Ley propose una riforma del sistema pensionisti-
co per cui tutti avrebbero potuto andare in pensione all’età
che gli pareva, cessare di lavorare prima del previsto, o
conti- nuare a lavorare oltre il previsto. L’età minima era 65
anni per la maggior parte, 55 anni per i lavori usuranti.
Non era Quota 100 ma ci somigliava. Il piano garantiva una
pensione minima a tutti. Tutti, esclusi ovviamente ebrei e
stranieri. Ley, fanatico antisemita, sognatore sino all’ultimo
di utopie anticapitalistiche, aveva molto a cuore il potere
d’acquisto di salari e pensioni. Purché, beninteso, andassero
solo ai “veri tedeschi”.
Il ministro del Lavoro, Franz Seldte, si rivolse diretta-
mente a Hitler sostenendo che Ley creava aspettative e false
speranze che non avrebbero potuto essere realizzate, che
per farlo si sarebbero dovuti aumentare i contributi a carico
dei lavoratori, o aumentare le tasse. Ley replicò che l’ufficio
stu- di del suo Daf prevedeva che grazie all’aumento del
numero di lavoratori che versavano i contribuiti, le pensioni
avrebbe- ro potuto anche triplicare. La discussione andò
avanti per un decennio. A guerra già iniziata il Daf avrebbe
proposto nuo- vamente un raddoppio delle pensioni, oltre
a un meccani- smo automatico legato al costo della vita,
insomma la scala mobile, che sarebbe stata poi realizzata
solo negli anni cin-

137

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quanta. Hitler avrebbe continuato a mediare sino all’ultimo
tra le diverse anime della sua amministrazione, tra esigenze
del bilancio ed esigenze del consenso. Propendeva per non
scontentare la sua constituency. La guerra era già avanzata
quando nel 1941, l’anno dell’invasione dell’Unione Sovieti-
ca, una riforma delle pensioni diede aumenti uguali a tutti,
quindi proporzionalmente maggiori di quelle più basse.
“Con visibile soddisfazione e grande gioia”, anche perché gli
aumenti erano retroattivi e furono pagati subito tre mesi di
arretrati. Ci fu chi persino alla fine, nell’autunno 1944, so-
stenne la necessità di un rapido aumento delle pensioni. Cu-
rioso: nella discussione interna i propugnatori più accesi del-
la generosità assistenziale a ogni costo erano anche i più
convinti sostenitori delle politiche per lo sterminio.
Finirono con lo scardinare e distruggere completamente
il sistema pensionistico. Non perché fosse in deficit ma per-
ché era diventato un boccone troppo ghiotto. Da prima
an- cora del 1933 i fondi pensionistici avevano continuato ad
accumulare ingenti riserve grazie alla ripresa dell’occupazio-
ne. Le riserve per le pensioni operaie aumentarono di 6 volte
dalla fine del 1932 alla fine del Terzo Reich nel 1945, le
riser- ve delle pensioni degli impiegati di 5 volte, quelle dei
mina- tori di 11,5 volte. Furono costretti a investirle in
obbligazioni del Reich, in debito pubblico. Che servì a
finanziare le auto- strade e le ferrovie, ma soprattutto il
riarmo. Ai fondi pen- sione avrebbero continuato ad
attingere per finanziare la guerra. Quando la guerra fu
persa e il valore del debito del Reich si azzerò , i fondi
avevano perso il 90 per cento delle riserve, e i pensionati
restarono con un pugno di mosche.

Il prezzo del consenso

Il consenso aveva un prezzo. In moneta sonante. Come


i nazisti comprarono il popolo tedesco è il sottotitolo
dell’edizio- ne inglese dello studio del 2005 di Gö tz Aly. I
beneficiari di Hitler suona il titolo. (Il titolo della
traduzione italiana, Lo stato sociale di Hitler è più
corrispondente all’originale tede-

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sco.) È una miniera di notizie su come fu finanziato il mante-
nimento del consenso, anche attraverso una politica
assisten- ziale. Sin dall’inizio ci fu uno straordinario
dispiegamento di “fantasia finanziaria” da parte dei
“tecnici” fedeli al nuovo regime per “dare al popolo”
spennando gli “estranei al popo- lo”. Nell’estate del 1935, il
ministro delle Finanze indisse per- sino un concorso di idee
tra i suoi funzionari su come arrivare a un miglior saccheggio
fiscale a danno degli ebrei. Fu ripetu- to nel 1938. Con la
guerra, la “fantasia finanziaria” si scatenò ulteriormente. La
esercitarono senza più alcuna remora nell’esproprio degli
ebrei acquisiti nei territori occupati, nella rapina sistematica
delle risorse materiali, finanziarie e umane di tutta l’Europa
sottomessa. “Chi non vuole parlare dei van- taggi che ne
trassero milioni di semplici tedeschi farebbe me- glio a
tacere, sul nazionalsocialismo e sull’Olocausto”: questa la
conclusione di Aly.

I nazisti furono generosissimi in sussidi ai disoccupati, ai


più poveri (e infine agli orfani e alle vedove delle guerre che
avevano scatenato). Durante la Seconda guerra mondiale il
Reich dedicò per il sostegno alle famiglie somme enormi. I
famigliari dei tedeschi chiamati alle armi ricevettero in me-
dia, per tutta la durata del conflitto, il 72 per cento dell’ulti-
mo reddito di pace del loro congiunto. Era il doppio di
quel che ricevettero le famiglie statunitensi (36,7 per cento)
e bri- tanniche (38,1 per cento). Poco gli importava che le
risorse provenissero dalle espropriazioni a danno degli ebrei
(ai quali tolsero le “pensioni d’oro” ben prima di
strappargli i denti d’oro) e infine dalle conquiste militari e
dalla riduzione in schiavitù dei non ariani.
Propagandarono il tutto come “stare dalla parte del po-
polo”. Niente di nuovo sul fronte occidentale del populismo.
Furono anche fortunati. Potevano vantare un “miracolo
economico”. Anche se tutti gli storici dell’economia ultima-
mente concordano nel sostenere che c’è molto “mito” su
quel miracolo. La ripresa non fu quello che volevano far cre-
dere. E si fondava in gran parte sulle politiche dei governi

139

02/04/19
precedenti. Era già in atto quando Hitler prese il potere. Nel
1933 Hitler aveva promesso ai 6 milioni di disoccupati: “La-
voro, lavoro, lavoro”. Già nell’ottobre 1933 Hitler, intervi-
stato dal corrispondente del “Daily Mail”, poteva vantare di
aver “reinserito nel processo produttivo 2,25 milioni di di-
soccupati su 6 milioni”. Nel 1936 i disoccupati erano scesi a
2,5 milioni, nel 1937 a 1,6 milioni. Tra il 1933 e il 1938 l’eco-
nomia tedesca crebbe a tassi che oggi diremmo cinesi: 9,5%
all’anno in media.
C’è un acceso dibattito tra gli storici su come abbiano
fatto, su quanto ci sia da fidarsi di queste statistiche e quanto
siano state invece manipolate, su quanto sia dipeso dai gran-
di progetti per infrastrutture, e poi dalla spesa per il riarmo,
e quanto invece sia dovuto alla ripresa in Europa e nel
mondo. Altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, si erano
ripresi dalla crisi del 1929 con tassi di crescita simili, o anche
più elevati di quelli della Germania nazista. La stessa
Germania aveva cono- sciuto il tasso più rapido di ripresa
non sotto Hitler ma a metà anni venti. I programmi per la
creazione di posti di lavoro erano simili per dimensione e
risorse a quelli nell’America di Roosevelt: in entrambe le
situazioni avevano assorbito il 2,5 per cento del Pil. Ma più
ancora del tasso di crescita effettivo valse la capacità di
creare la sensazione che le cose andavano molto meglio. I
nazisti seppero insomma “vendere” meglio di altri i
successi economici. Anzi, fecero ancora di più : riu- scirono
– come osserva efficacemente Peter Fritzsche in Vita e morte
nel Terzo Reich – a “rivendere il futuro all’infinito”, non
solo e non tanto le realizzazioni ma la pura e semplice
promessa di prosperità. Non si può ovviamente dire come sa-
rebbe andata se l’economia tedesca, anziché crescere, fosse
tornata indietro, come sta succedendo in Italia.
Il mistero del consenso a Hitler non è però spiegabile so-
lo in termini di propaganda. I nazisti toccavano tasti cui la
gente era sensibile, blandivano interessi reali e diffusi (non
solo gli interessi del grande capitale, come voleva la vulgata
di sinistra). A elargizioni concrete corrispondeva consenso
reale, crescente e formidabile. La cosa che più impressiona, e
si fa più fatica a comprendere, è come siano riusciti a trovare

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consenso anche sui comportamenti più atroci e disumani del
regime. Per basso tornaconto? Possibile?
Ci sono molti tipi di consenso. “Su tutto splendeva il sole,
c’era felicità, gioia, allegria”, il modo lirico in cui Hans Frank,
lo spietato boia della Polonia, scrive degli anni trenta nel me-
moir vergato poco prima che lo impiccassero come criminale
di guerra a Norimberga. C’è il consenso fanatico e c’è il
con- senso d’interesse. Poi c’è il consenso d’assuefazione.

Un’atmosfera pesante, fosca, soffocante è calata sul paese, così che la


gente è giù di corda e scontenta di tutto, ma, per contro, è disposta a
incassare qualunque cosa senza protestare e perfino senza stupirse-
ne. Situazione tipica dei periodi di tirannide. Il malcontento genera-
le, considerato sempre dagli osservatori superficiali come un indice
della fragilità del potere, in realtà testimonia l’esatto contrario. Un
malcontento sordo e diffuso è compatibile con una sottomissione
pressoché illimitata per decine e decine d’anni; quando al sentimen-
to della sventura si unisce l’assenza di speranza, come sta accadendo
ora, gli uomini obbediscono sempre, fino a quando uno shock ester-
no non restituisca loro la speranza.

Così scriveva nel 1940 Simone Weil al fratello André, il


grande matematico. Non si riferiva alla Germania ma alla
Francia di quel momento. Simone Weil era una patita
delle analogie.

141

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10.
Mefistofele all’Economia

Due giudizi su Hitler economista e una domanda attua-


le: ci erano o ci facevano? Alla conferenza economica di
Londra del 1933 la Germania è la sorvegliata speciale.
Hugenberg vuole fare la voce grossa. Ma Hitler decide
che “non è ancora il momento”. La sua priorità è riar-
mare, senza dare nell’occhio. Schacht gli trova i soldi,
con lo stesso trucco del diavolo nel Faust di Goethe.

“La nostra esistenza dipende tutta e completamente


dall’economia: faccenda talmente complicata che, per com-
prenderla tutta e bene, si richiese tanta intelligenza quanta
non ne esiste nemmeno… Poiché non si trovavano superuo-
mini capaci di comprendere questa economia così com’era, e
certuni già proponevano di semplificarla radicalmente per
renderla più chiara e pianificabile, ecco che in tale situazione
trovarono ascolto alcuni individui che annunziarono la loro
ferma decisione di non tenere in nessuna considerazione l’e-
conomia.”
“Il Comediavolosichiama [il riferimento qui è a Hitler,
ma, nello spirito del nostro libro il lettore ha ovviamente li-
cenza di mettere qualunque altro nome gli passi per la men-
te (NdA)] fu d’un tratto sulle labbra di tutti. Quest’uomo
eminente già da anni aveva raccolto intorno a sé, in una città
di provincia… una quantità di piccoli borghesi, assicurando
loro, con una verbosità insolita nel nostro paese, che stava
per inaugurarsi una grande Epoca. Dopo essersi esibito
qualche anno al circo, si guadagnò la fiducia del Presidente
del Reich, un generale che aveva perso la Prima guerra mon-
diale e che lo mise in grado di preparare la seconda. Io però ,

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che una grande epoca l’avevo già vissuta in gioventù , mi cer-
cai in fretta un posto a Praga e lasciai il paese in quattro e
quattr’otto”. Così Bertolt Brecht, nei suoi Dialoghi di
profu- ghi, in un brano che suona autobiografico.
Un po’ diversa l’opinione di un’altra testimone dei tempi,
Simone Weil. Anche lei, come Brecht, non mastica molto
di economia. Ma è una che su molte altre cose aveva intuito
più di altri suoi contemporanei. “Se Hitler disprezza
l’economia, probabilmente non è semplicemente perché non
ne capisce niente. È perché sa (…) che l’economia non è
una realtà in- dipendente, e quindi non ha leggi davvero
proprie, dal mo- mento che l’economia, come tutte le sfere
dell’attività uma- na, è governata dalla forza… Mi sembra
difficile negare che Hitler abbia una sua concezione, e una
concezione ben chia- ra, di una sorta di fisica della materia
umana… Possiede una nozione esatta del potere della
forza…”, annota la Weil in un testo inedito del 1942.
Due valutazioni diverse, da parte di contemporanei non
specialisti, non economisti: uno scrittore schierato, comuni-
sta, la cui analisi ricalca un’interpretazione “di classe” del fe-
nomeno Hitler: populismo “bonapartista”, che raccoglie il
consenso della piccola borghesia incarognita e poi del gran-
de capitale; una filosofa ebrea e operaista, che non sopporta
nessun tipo di interpretazione canonica. In che cosa consiste
il déjà vu, quale analogia con l’attualità ? In qualcosa, lo
am- metto, di molto personale. Nel fatto che giorno dopo
giorno, di fronte alle dichiarazioni pubbliche sull’economia,
sulla Fi- nanziaria, sullo spread, sui mercati, non so
decidermi su co- me prenderle, non riesco a capire se ci
sono o ci fanno…

Sorvegliata speciale sul debito

La Germania era da anni una sorvegliata speciale nei


mercati internazionali e nelle sedi di decisioni economiche.
Era indebitata sino al collo. Nel 1931 il debito estero aveva
superato il cento per cento del Pil. Tra i grandi paesi indu-
strializzati era quello che aveva subito più pesantemente i

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contraccolpi della crisi del 1929 e della recessione mondiale
che vi era seguita. Restava il fanalino di coda in fatto di cre-
scita, anche quando gli altri avevano già iniziato la ripresa. I
suoi sei milioni di disoccupati arrabbiati erano causa perma-
nente di preoccupazione per la stabilità politica e per lo stato
dei conti pubblici. Rischiava in continuazione il default, e
con questo di trascinare giù nel gorgo di una nuova recessio-
ne anche gli altri. Tutti i governi della Repubblica di Weimar
si erano trovati di fronte a un dilemma impossibile: seguire
le regole imposte dai creditori internazionali, o smettere di
pa- gare, col rischio di subire le conseguenze: non solo una
“pro- cedura d’infrazione” ma forse anche un intervento
armato, come era avvenuto per la Ruhr.
Tutti i paesi avevano subito la Grande Depressione. Non
tutti ne sarebbero usciti alla stessa maniera. La crisi aveva
sconvolto dappertutto le vecchie certezze di dottrina e le
vecchie alleanze sociali. Non ci sono spiegazioni semplici e
univoche sul perché in America, dove pure i disoccupati era-
no non 6 ma 25 milioni, ne uscirono col New Deal di Roose-
velt e in Germania invece con Hitler, sul perché in Inghilter-
ra e in Francia resse il sistema democratico e in quasi tutto il
resto d’Europa no. Più o meno tutti seguirono all’inizio ri-
cette deflazionistiche e di mantenimento a ogni costo della
stabilità monetaria. Poi passarono a una politica di spesa
pubblica e a svalutazioni competitive del dollaro e della ster-
lina. Solo la Germania non svalutò , perché tutto poteva sop-
portare, tranne un ripetersi dell’esperienza devastante della
iper-inflazione del 1921-23, quando il marco si era svalutato
miliardi di volte. Nessuno, neanche Hitler, poteva fare o dire
nulla che rinfrescasse nell’opinione tedesca quella horror
story.
Piuttosto che rischiare inflazione e svalutazione, il gover-
no Brü ning, col sostegno esterno dei socialdemocratici, ave-
va perseguito anche dopo il 1929 una politica di austerità,
deflazionistica. Il che salvò il marco e impedì la bancarotta,
ma gli mise contro tutti. C’è chi ha fatto notare che l’Spd si
era trovato in una tenaglia insostenibile: da una parte
l’essere costretti ad appoggiare un governo impopolare per
difende-

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re la Costituzione e la democrazia di Weimar dall’assalto del-
la destra e della sinistra comunista, dall’altra subire le conse-
guenze di una politica deflazionistica e rispettosa degli impe-
gni internazionali. La tenaglia aveva finito col frantumare il
consenso. La politica di cooperazione tra lavoro e capitale
negli anni venti aveva consentito una certa dose di benesse-
re, alti salari, l’affermarsi dei diritti in fabbrica e la miglior
assistenza sociale in Europa. Ma tutto questo si era inceppa-
to col crescere a dismisura della disoccupazione. Hitler inve-
ce prometteva qualcosa a tutti, fregandosene dell’ortodossia
economica, dell’indebitamento e dei rapporti internazionali.
Il corrispondente da Berlino del “New York Evening Post”,
H.R. Knickerbocker, riferisce nel 1932 di operai che si la-
mentano dei dazi altrui che penalizzano i prodotti tedeschi,
concludendo che con Hitler le cose “certo non potranno an-
dare peggio”. Sono convinti che solo lui “manderà al
diavo- lo” francesi e inglesi.

La fine del contratto di governo

Alla Conferenza economica di Londra del 12 giugno


1933 parteciparono rappresentanti di sessantaquattro nazio-
ni, fu una delle riunioni più ampie mai tenutesi in Europa.
Dovevano concordare misure per rianimare il commercio in-
ternazionale e stabilizzare i cambi delle monete. Il momento
sembrava favorevole, la ripresa era già in corso. La riunione
aveva l’obiettivo di consolidarla. Ma non sarebbero riusciti
a trovare alcun accordo. Le divisioni passavano tra paesi e
all’interno di ciascuna delegazione. C’era chi puntava a una
maggiore cooperazione internazionale, a ridurre le tariffe
doganali, alla rimozione degli ostacoli al commercio. E
c’e- rano invece i sostenitori del nazionalismo economico,
quelli del “prima i nostri interessi e al diavolo gli accordi
interna- zionali”, quelli che oggi si direbbero sovranisti e
vorrebbero fare come Trump.
Erano divisi anche in seno alla delegazione tedesca. Il mi-
nistro degli Esteri Konstantin von Neurath, quello delle Fi-

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nanze Schwerin von Krosigk e il governatore della Banca
centrale Hjalmar Schacht, tutti e tre tecnici, erano per accor-
di e cooperazione internazionali. In un’intervista alla radio,
ripresa dal “New York Times”, Schacht aveva dichiarato che
per i partecipanti alla Conferenza c’erano due modi di uscire
dalla crisi: “separarsi e accettare standard di vita più bassi”,
oppure “la cooperazione internazionale”, insomma “separa-
zione e povertà, oppure cooperazione e prosperità”. Il mini-
stro dell’Economia e dell’Agricoltura Hugenberg era invece
per la linea dura sul debito, protezionista sul commercio,
specie in favore degli agricoltori tedeschi, avverso ad accordi
internazionali, che riteneva “ingerenze” nella politica inter-
na tedesca. Diffuse di sua iniziativa, senza l’approvazione del
capo delegazione, un memorandum nel quale accanto a rife-
rimenti razzisti tipo “la subumanità che cresce in seno alle
nostre nazioni”, alla rivendicazione di colonie per la Germa-
nia e a un appello all’autosufficienza delle nazioni, si attri-
buiva la crisi interamente all’“intreccio internazionale del
debito”. Era una posizione soprattutto propagandistica. La
destra aveva sempre usato l’argomento delle pesantissime
ri- parazioni di guerra imposte alla Germania come clava
con- tro i governi democratici di Weimar, accusandoli di
suddi- tanza a chi “voleva male alla Germania”. Sotto il
regime del Piano Dawes dal 1924 al 1928 la Germania aveva
acquisito, soprattutto dagli Stati uniti, nuovi prestiti pari
al 25% del Pil, molto più di quanto avesse pagato in
riparazioni. Nel 1929 Hugenberg e Hitler alleati avevano
promosso un refe- rendum contro il nuovo Piano Young di
dilazione nei paga- menti del debito tedesco (in base al
principio che non anda- va più ripagato nulla). Era
un’iniziativa comparabile a quel che sarebbe oggi un
referendum contro l’euro. E avevano perso. Le riparazioni
di guerra erano da sempre l’argomento più efficace per
dare la colpa di tutto a chi si ostinava a “pu- nire” la
Germania. Esattamente come oggi si dà la colpa di tutto
all’Europa e ai “burocrati” di Bruxelles. In realtà le ri-
parazioni non erano già più un problema: la Germania
sull’orlo della bancarotta aveva già sospeso unilateralmente i

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pagamenti, e alla conferenza di Losanna del 1932 le ripara-
zioni di guerra erano già state praticamente cancellate.
Neurath si appellò al Presidente della Repubblica Hin-
denburg e al cancelliere Hitler facendo notare che l’atteggia-
mento irresponsabile di Hugenberg aveva creato ostilità nei
confronti della Germania nelle altre delegazioni. Hitler non
si pronunciò apertamente, ma col suo silenzio in sostanza
diede ragione a Neurath. Già in febbraio, durante la
prepa- razione della conferenza, si era opposto a
Hugenberg che chiedeva più protezionismo e la
cancellazione degli accordi economici giudicati sfavorevoli
alla Germania con l’argo- mento che “violazioni dei trattati
senza motivi persuasivi scuoterebbero la fiducia nel [nuovo]
governo tedesco”. “Era troppo presto per mettersi contro
tutti”, avrebbe poi spiega- to. Il 27 giugno Hugenberg diede
le dimissioni dal governo. Hitler lo costrinse a sciogliere
anche il suo partito. Il “con- tratto di governo” si era rotto
dopo neanche sei mesi. Dei due contraenti uno scalzava
l’altro e prendeva tutto il potere. Non è chiaro nemmeno agli
storici se a Hitler interessasse la controversia riguardante
l’economia. Il potere invece gli in- teressava, eccome.
Abbiamo già visto nel capitolo preceden- te l’importanza che
i nazisti attribuivano alla creazione del consenso, a
qualunque costo, piuttosto che alle leggi dell’e- conomia. Ma
chi pagava, e come? C’è chi dice: col metodo di Mefistofele.

Un’invenzione diabolica

L’aveva già previsto il genio di Goethe. Nella seconda


parte del Faust l’impero è in preda al disordine, si ruba e
si ammazza, languiscono commerci e industria, l’illegalità le-
galmente comanda, le forze dell’ordine reclamano la paga, le
casse del Tesoro sono vuote, sembra di vivere un incubo. Ar-
riva Mefistofele in veste di nuovo buffone, individua l’origine
di tutti i problemi e offre la soluzione, il modo di
acconten- tare tutti. “Dove mai a questo mondo non
manca qualcosa? All’uno manca questo, all’altro quello.
Ebbene, qui manca il

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denaro…” Bella trovata, lo sappiamo tutti, ma come si fa a
reperire del denaro? La risposta del demonio: ce n’è a
iosa, sepolto sottoterra, sin dall’epoca in cui “fiumane di
popoli si riversarono, sommergendo paesi e genti, e molti,
colti da pau- ra, seppellirono i propri tesori nei luoghi più
disparati”. Ma l’idea geniale è che non occorre neanche
scavarli quei tesori. Basta un pezzo di carta, garantito da
quei tesori irraggiun- gibili. Spetta al cancelliere esporre la
cosa al popolo: “Udi- te dunque tutti e contemplate il
fatidico pezzo di carta che tramuta ogni pena in felicità.
Rendiamo noto che questo bi- glietto vale mille corone. A
sicura garanzia del suo valore sta il tesoro incalcolabile
sepolto nel sottosuolo. Si è provvedu- to affinché l’oro
appena scavato sia sostituito alla carta…”. Si sente puzza
non di zolfo ma di imbroglio, di “delitto”, di “frode
immane”. Ma nessuno protesta, finché funziona.
Il Mefistofele di Hitler si chiamava Hjlmar Schacht. Ge-
minello Alvi ha tracciato di lui un ritratto in poche righe,
straordinario per concisione ed efficacia, ripubblicato in Uo-
mini del Novecento. Non gli è per nulla simpatico. Più che
il talento di economista e banchiere, mette in rilievo la sua
va- nità e l’attitudine a mentire e servire il potente di
turno. Schacht era stato presidente della Reichsbank, si era
dovuto dimettere una prima volta nel 1930 per aver messo
in imba- razzo l’allora governo tedesco di centro-sinistra
proponendo il ripudio tout court delle riparazioni e dei
debiti con l’estero. Dire non vogliamo più pagare i nostri
debiti equivaleva in quel momento al proporre oggi il
default e un piano di uscita dall’euro. Era stato Hitler a
richiamarlo in servizio nel ’33. Contava sulla sua abilità,
sulla sua dimestichezza con tutti i banchieri del mondo e
sulle sue relazioni internazionali, spe- cie a Londra e negli
Stati uniti. Poi gli aveva affidato anche il ministero
dell’Economia. Era stato proprio Schacht a intro- durre
Hitler prima della sua nomina a cancelliere nei salotti buoni
della finanza, e a presentargli quel banchiere, Schrö der, che
nel dicembre 1932 avrebbe salvato il Partito nazista dalla
bancarotta per debiti e avrebbe organizzato a casa sua i pri-
mi fatidici incontri segreti del futuro Fü hrer con Papen. Poi
però Schacht avrebbe dato a Hitler un’idea ancora più ge-

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niale: su come finanziare la ripresa economica, creare occu-
pazione e accontentare il popolo senza provocare inflazione,
e al tempo stesso riarmare pesantemente la Germania facen-
do finta di non farlo.
Lo strumento diabolico fu la creazione di un
apparente- mente innocente Istituto di ricerca per
l’industria metallur- gica (Metallforschungsgesellschaft, nota
anche come Mefo). L’istituto emetteva certificati di scambio
con cui venivano pagate le commesse militari all’industria
pesante. I certificati erano garantiti dalla Banca centrale e
potevano essere sconta- ti presso tutte le banche. Per
attrarre ulteriormente gli inve- stitori offrivano anche un
tasso d’interesse del 4% annuo, più alto di quello delle
normali obbligazioni commerciali. Era un azzardo. A far
cassa ci aveva già provato nel 1932 Papen con “certificati
fiscali” fruttiferi, basati sulle tasse dovute all’e- rario.
Nessuno aveva abboccato. Se il gioco dei Mefo fosse
andato storto si rischiava il crollo delle banche e dell’intero
sistema finanziario tedesco. E invece funzionò . Per evitare
il rischio che gli acquirenti dei Mefo pretendessero davvero
di scambiarli con denaro sonante, la maturazione a 90 giorni
fu continuamente estesa, fino a 5 anni. Il 70 per cento
delle astronomiche spese per il riarmo tedesco dal 1934 al
1939 fu finanziato in questa maniera. Le spese militari
rappresenta- vano già nel 1937 il 42 per cento della crescita
del Pil. Il mar- chingegno permetteva inoltre di prendere
diversi altri piccio- ni con la stessa fava. I Mefo consentivano
di aggirare la norma che proibiva alla Reichsbank di
finanziare direttamente la spesa pubblica; consentivano di
escludere queste spese dai conti pubblici, disinnescandone
gli effetti inflattivi: e infine gli consentiva di nascondere il
finanziamento del riarmo, che era proibito dal Trattato di
Versailles, fino a quando Hitler lo rivelò a sorpresa al
mondo intero nel marzo 1935.
Nemmeno il diavolo avrebbe potuto far durare l’imbro-
glio all’infinito. Per mantenere le promesse (sussidi ai disoc-
cupati e ai poveri, lavoro e felicità) il governo nazista
spende- va molto più di quanto incassasse. Quando si
aggiunsero le spese per il riarmo, la Germania si ritrovò
sull’orlo della ban- carotta. Lo stesso Schacht dovette
mettere fine al sistema dei

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buoni Mefo perché ormai fuori controllo. Provò a emettere
più tradizionali Buoni del Tesoro. Riuscì a piazzare le prime
tranche, ma la quarta asta andò deserta. Non esisteva ancora
lo spread, ma il segnale era chiaro.
Persino Goebbels, che irrideva agli esperti di cose finan-
ziarie chiamandoli “poveracci”, annotò nel suo diario che si
aveva a che fare con un “deficit folle”. Schacht scrisse a
Hitler, avvertendo che “l’illimitata crescita delle spese dello
Stato va- nifica ogni tentativo di impostare un bilancio
ordinato, porta, nonostante l’enorme pressione esercitata
sulla leva fiscale, le finanze statali sull’orlo del tracollo”.
Tutto sta a indicare che Hitler aveva sin dall’inizio idee
chiare su cosa voleva fare: la guerra, la conquista di spazio
vitale, Lebensraum, all’Est. E per questo non gliene poteva
importare meno di tecnicalità come spread e deficit. L’unico
documento di politica economica attribuibile a Hitler è il co-
siddetto “Memorandum sul Piano quadriennale” stilato di
suo pugno nell’estate del 1936. Era un documento ultrase-
greto. Il testo completo fu dato solo a Gö ring e al ministro
della Guerra Blomberg. Il commissario ai Rifornimenti per
la guerra Speer ne sarebbe venuto a conoscenza solo nel
1942. Schacht non lo vide mai. Indicava senza mezzi termini
le priorità economiche: “I. L’esercito tedesco deve essere
operativo entro quattro anni; II. L’economia tedesca deve es-
sere pronta alla guerra entro quattro anni”. La scelta di sca-
tenare la guerra viene confermata dagli appunti segreti presi
dall’attaché militare del Fü hrer, il colonnello Friedrich Hos-
sbach, a una riunione ristrettissima, il 5 novembre 1937, con
Gö ring, nella sua capacità di responsabile del piano qua-
driennale e comandante della Luftwaffe, il ministro della Di-
fesa, quello degli Esteri e i capi di Stato maggiore. Hitler
gli spiegò che il futuro della Germania dipendeva
interamente dalla possibilità di risolvere il problema dello
“spazio vitale”. Per tre ore illustrò le opzioni per procurarsi
le materie pri- me, concludendo che il problema si sarebbe
potuto risolvere solo con la forza. Detto, fatto.

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La fine dei “tecnici”

In rotta di collisione con Hitler, fu ovviamente Schacht a


doversi dimettere un’altra volta, prima da ministro dell’Eco-
nomia, poi da governatore della Banca centrale. Era troppo
intelligente per non sapere con chi aveva a che fare quando
accettò di servire i nazisti. Eppure era stata la sua spregiudi-
cata fantasia finanziaria a reperire le risorse per il riarmo e
la guerra. Sul banco degli imputati nazisti al processo di
No- rimberga avrebbe avuto la faccia tosta di dire: “Mi sarei
mes- so d’accordo con chiunque, anche col diavolo, per la
gran- dezza della Germania”. Sapeva come tenere i piedi
in più scarpe. Ecco cosa riferiva nel 1936 al Foreign Office
di un colloquio con lui l’ambasciatore britannico a
Berlino, Sir Eric Phipps: “Schacht iniziò col dirmi che
qualunque Paese estero che si fidi delle promesse
dell’attuale regime avrà una cocente delusione... che è
ridicolo pensare che Hitler tornerà a far parte della Società
delle Nazioni, se non per demolir- la… che in Germania
prevale l’anarchia… che i suoi telefoni sono intercettati e
che per quanto ne sapeva una pattuglia di SS può fare in
qualsiasi momento irruzione nel suo ufficio e sparargli…”.
Da documenti diplomatici americani viene fuori che dopo
aver scritto nel 1939 la lettera a Hitler in cui esprimeva
allarme per le dimensioni del deficit, ed essere sta- to di
conseguenza dimissionato, Schacht aveva tentato di
chiedere asilo in America. Ma non se n’era fatto nulla. A No-
rimberga se la sarebbe cavata per il rotto della cuffia. Solo
perché aveva preso le distanze al momento giusto. Anzi, do-
po la congiura di Stauffenberg e dei generali contro Hitler
era finito anche lui a Dachau.
Il conte Schwerin von Krosigk era un tecnico di
carriera. Era stato ministro delle Finanze già nei governi
Papen e Sch- leicher. Lo rimase nel governo Hitler. Si
destreggiò ad aiutar- lo a mantenere le sue promesse. Le sole
estorsioni a danno degli ebrei arrivarono a fornirgli un
margine di manovra nien- te affatto trascurabile: intorno al
10 per cento del Pil. Quan- do non bastarono più nemmeno
estorsioni e rapine, al mini- stero delle Finanze presero in
considerazione di far

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condividere i sacrifici fiscali anche alla constituency nazista,
ai beneficati dal regime. Goebbels se la prese con gli “sterili
bu- rocrati” che “non sanno essere abbastanza creativi”.
Anche gli altri “tecnici” che facevano parte del governo
Hitler furono dimissionati nel 1937, uno dopo l’altro, nel gi-
ro di pochi mesi. Il ministro della Guerra Blomberg,
l’uomo che aveva fatto giurare alla Wehrmacht fedeltà al
Fü hrer, in- cappò in apparenza in una faccenda privata. Si
era innamo- rato e aveva deciso di sposare una donna molto
più giovane, una “ragazza del popolo” che faceva la
commessa. Mentre erano in luna di miele, la Gestapo aveva
scoperto che la nuo- va Frau Blomberg aveva un passato da
prostituta. Peggio an- cora: aveva posato nuda per il
fotografo ebreo con il quale conviveva. Hitler si sarebbe
infuriato: “Se un feldmaresciallo tedesco sposa una puttana,
allora può davvero succedere di tutto”. L’avevano costretto
alle dimissioni. Poco dopo subì la stessa sorte il comandante
supremo dell’esercito, il generale Werner von Fritsch,
falsamente accusato di omosessualità. E fu dimissionato
anche il ministro degli Esteri von Neurath, per far posto al
successore von Ribbentrop. Li accomunava una sola cosa:
l’aver espresso riserve sui piani di conquista esposti da
Hitler nella riunione segreta di cui ci restano solo gli appunti
del colonnello Hossbach.
Donald Trump ha già perso più di metà del suo governo.
Che farà il professor Tria qualora si accorgesse che i suoi da-
tori di lavoro ci sono e non solo ci fanno, ma ci vogliono dav-
vero portare nel baratro?

152

02/04/19
11.
Pronostici e profezie

I più non si erano resi conto. Qualcuno però aveva visto


giusto con molto, anzi troppo anticipo. Hitler si vanta-
va a ogni piè sospinto di essere un profeta. Le sue prime
profezie sullo sterminio degli ebrei erano volgari ricatti
per costringere gli altri paesi a farsi carico dei
profughi. La maledizione di tutti i populisti:
mantenere le pro- messe, anche le più atroci.

Si dice che Erich Ludendorff abbia inviato, il giorno


del- la nomina di Hitler a cancelliere, una nota
manoscritta al Presidente Hindenburg, col quale era in
rapporti di familia- rità sin da quando, nella Prima guerra
mondiale, condivide- vano il comando supremo delle
armate del Kaiser: “Faccio una profezia solenne: che
quest’uomo maledetto porterà il Reich nell’abisso e causerà
sofferenze inenarrabili alla nostra nazione. Le generazioni
future ti malediranno nella tomba per quel che hai fatto”. Il
generale Ludendorff non era un tipo raccomandabile, era
un reazionario dichiarato, fanatico e antisemita, nemico
giurato della democrazia e della Repub- blica di Weimar. Ma
conosceva bene Hitler: erano stati soci nel fallito tentativo
di putsch a Monaco nel 1923.
Furono in molti a non accorgersi invece granché di quel
che stava succedendo. Non è che si disinteressassero a Hitler
e al suo movimento. Al contrario: sulla stampa non si parlava
d’altro. Il governo Brü ning sin dal 1930 aveva dedicato inte-
re sedute ad analizzare e discutere le ragioni della presa
elet- torale e le prospettive politiche del movimento nazista.
An- che la sinistra si era esercitata a capire, non solo a
esorcizzare. Menti egregie, intellettuali prestigiosi, politici
con lunga

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esperienza alle spalle furono però colti del tutto di sorpresa
nel 1933. Non recepirono appieno la gravità della sindrome
in atto. Alcuni di loro avrebbero continuato a non accorger-
sene a lungo. Altri invece l’avevano intuito da ben prima che
succedesse. Forse addirittura troppo e troppo presto.
La città senza ebrei è il titolo di un libro pubblicato a
Vienna nel 1922. Un romanzo di dopodomani, recitava il sot-
totitolo. Ebbe un grande successo. Ne furono vendute un
quarto di milione di copie. Due anni dopo ne fu tratto anche
un film. Si riteneva che la pellicola fosse andata ormai perdu-
ta, quando ne fu recentemente scoperta una copia in un mer-
cato delle pulci parigino. La si può vedere integrale su
You- Tube. Ma, credetemi, è meglio il libro (una
traduzione italiana è uscita da Donzelli). L’autore, Hugo
Bettauer, era il rampollo di una famiglia ebraica agiata,
originaria della Gali- zia. Lui si era convertito a diciotto anni
al cristianesimo. Ave- va girato il mondo, aveva acquisito la
cittadinanza america- na, era poi tornato in Europa per fare
il giornalista a Berlino.
La città nel romanzo non viene nominata. Ma è la
Vienna di inizio secolo. Tra i malumori creati dalla crisi
economica (“Dopo il cosiddetto risanamento, durato due
anni, le finanze si erano di nuovo ritrovate in disordine”), il
popolo elegge alla carica di cancelliere un populista che
promette la soluzione di tutti i problemi: espellere gli ebrei. I
socialdemocratici “si era- no presentati alle elezioni senza un
nuovo programma” e ave- vano subìto una batosta, alla pari
dei comunisti e dei liberali. “Persino le masse dei lavoratori
avevano votato al grido di ‘Fuori gli ebrei!’.”
Il nuovo cancelliere illustra in un appassionato discorso
in Parlamento il decreto “Per l’esclusione di tutti i non aria-
ni”. Impone l’espulsione, nel giro di sei mesi, di tutti i
500.000 ebrei che vivono nel paese. Prevede la pena di
morte per chi cerchi surrettiziamente di restare o tenti di
“portare via somme maggiori di quelle consentite”. Vieta
espressa- mente eccezioni per vecchi e malati, e anche per
coloro “che si sono guadagnati meriti particolari verso lo
Stato”. Unica esenzione prevista quella per “i figli dei figli
nati da matrimo- ni misti”, purché i genitori non si siano di
nuovo mischiati

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con ebrei. I socialdemocratici dichiarano che voteranno con-
tro questo documento di “umana ignominia”. Ma vengono
zittiti, bersagliati da cartacce e altri oggetti. La legge viene
approvata persino dall’unico deputato sionista. All’uscita il
cancelliere viene accolto da una folla festante, fanciulle ri-
denti gli offrono fiori, viene baciato e abbracciato. “La
sera si scatena la gioia infinita del popolo.”
È una profezia precisa nei minimi particolari, persino
nor- mativi e legislativi, di quel che sarebbe successo decenni
dopo in Germania. Non basta: ci sono anche i suicidi, i
treni in cui vengono stipati i deportati, “con l’aiuto di
locomotive prese in prestito dagli Stati vicini”, e con
l’accortezza di far partire i convogli “soprattutto di notte” e
da “stazioni di manovra fuori città”. C’è l’entusiasmo, la
soddisfazione popolare, “an- che all’interno della classe dei
lavoratori”, se non altro perché la partenza degli ebrei
alleggerisce la carenza abitativa.
L’unica differenza rispetto a quel che poi sarebbe succes-
so davvero è il lieto fine, l’happy ending, che forse l’autore ha
mutuato dal suo lungo soggiorno negli Stati Uniti: senza
ebrei la città va in rovina, languiscono l’economia e la vita
culturale. La gente comincia a provare nostalgia e rimpianto,
gli ebrei vengono richiamati a furor di popolo.
Bettauer avrebbe pagato caro le sue profezie. Fu sotto-
posto a un vero e proprio linciaggio da parte della stampa di
destra, per i suoi romanzi e anche per il settimanale di
educa- zione sessuale che dirigeva, “Er und Sie”, Lui e Lei,
“setti- manale di vita, cultura ed erotismo”, additato come
“sozze- ria” volta a minare la morale della gioventù ariana.
Nel 1925 un odontotecnico disoccupato gli sparò e lo
uccise. Al pro- cesso l’assassino fu difeso da un collettivo di
avvocati nazisti. Fu dichiarato malato di mente e liberato
dopo quattordici mesi in manicomio.
Un altro “profeta” notevole fu Siegfried Lichtenstaedter.
Lo abbiamo già incontrato in queste pagine che teorizzava
l’invidia come fattore scatenante dell’odio verso gli ebrei.
Era anche lui ebreo, laureatosi in Giurisprudenza e Lingue
orientali a Erlangen e Lipsia. Di giorno faceva il funzionario
delle Finanze bavaresi, di notte scriveva romanzi pieni di

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pronostici sulle minacce gravanti sulla sua epoca. Secondo
Gö tz Aly, che me lo ha fatto scoprire, la vita di
Lichtenstaedter ricorda un po’ quella di un altro
fantasticatore profetico a lui quasi suo contemporaneo:
Franz Kafka. Incredibile la quanti- tà di previsioni di cose
ancora a venire che era riuscito a im- broccare. In un’opera
in due volumi dal titolo Il nuovo Stato mondiale, contributo
alla storia del XX secolo, la definiva divi- nazione storica o
storiografia del futuro. Pubblicata tra il 1901 e il 1903,
l’opera aveva preannunciato per il 1910 lo sbarco delle
truppe italiane a Tripoli (avvenne in realtà nel 1911) e il
marasma nei Balcani, “angolo instabile dell’Euro- pa”. La sua
fiction di inizio secolo preannunciava un “racca- pricciante”
massacro perpetrato dai turchi a danno degli ar- meni in
Anatolia nel 1912. Puntualmente si sarebbe verificato.
Aveva correttamente fantasticato un’azione puni- tiva della
Germania contro Praga, e l’Anschluss con l’Austria per il
1939. Sempre del 1903 è l’incredibilmente esatta pro- fezia
che nel 1945 si sarebbe stabilito a Praga un “commissa- rio
russo per l’Amministrazione dei paesi slavi occidentali li-
berati”. Nel 1926, quando i nazisti erano ancora lontani dal
potere, aveva pubblicato una raccolta di racconti “un po’ se-
ria, un po’ allegra, un po’ vera, un po’ inventata” intitolata
Antisemitica, in cui si prevedeva l’attribuzione agli ebrei del-
le colpe più nefaste. Molti dei suoi pronostici di fantasia si
sarebbero realizzati. Incorse naturalmente anche in qualche
piccolo errore: in uno dei racconti la vicenda che scatena
l’ondata di odio si svolge nel 1999…
A partire dal 1933, Siegfried Lichtenstaedter si adoperò
perché il maggior numero possibile di ebrei lasciasse la Ger-
mania. Invitava a “non ostinarsi in modo ottuso o rassegnato
a restare in un luogo che non apparteneva più agli ebrei”.
“Dio voglia che non sia troppo tardi”, scriveva nel 1937. Ar-
rivò a predire che, a differenza di quanto ci viene raccontato
dell’esodo biblico, stavolta il mare avrebbe potuto anche
non aprirsi per far passare il popolo di Israele e poi richiu-
dersi per distruggere i suoi persecutori. Lui stesso emigrò ,
ormai settantatreenne, in Palestina nel 1938. Era pensionato
dal 1932. Ma poi inspiegabilmente decise di tornare in Ger-

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mania. Come molti che vedono lontano era cieco sull’imme-
diato? Come nome ebraico imposto allora per legge al posto
del teutonico Siegfried non volle prendere Israel bensì Sami.
Nel giugno 1942 fu deportato a Theresienstadt, dove morì
nel dicembre dello stesso anno.

Il Novecento è il secolo delle grandi profezie letterarie.


Fu spesso la fantasia degli scrittori a vedere con più chiarez-
za quel che stava per succedere. A volte con notevole antici-
po. Noi di Evgenij Zamjatin era stato scritto a Mosca nel
1920. Immaginava uno “Stato unico”, retto da un “Grande
benefattore”, rieletto per la quarantottesima volta dai suoi
beneficati, all’unanimità dopo che sono stato estirpati i “ne-
mici della felicità”. Non si riferisce esplicitamente alla Russia
sovietica. Intuirono di cosa trattava e non gli permisero di
pubblicarlo (un’edizione integrale in Russia sarebbe uscita
solo nel 1988, giusto alla vigilia della caduta dell’Urss). Lui si
rivolse nel 1931 personalmente a Stalin, chiedendo il per-
messo di emigrare. Gli fu concesso. A Parigi, dove avrebbe
vissuto fino alla fine dei suoi giorni (nel 1937), scrisse poco.
Ma si fece un’autointervista ironica – ritrovata e pubblicata
solo nel 1972 – sul senso del suo romanzo: “Una volta nel
Caucaso sentii raccontare una favola persiana in cui si parla-
va di un gallo che cantava un’ora prima degli altri galli. Dava
così fastidio che il padrone gli tirò il collo. Noi è un po’ come
quel gallo persiano…”.
Altre due grandi distopie profetiche, 1984 di George
Orwell e No, il mondo degli accusati di Walter Jens sono
più tarde, furono pubblicate rispettivamente nel 1949 e
1950. In qualche modo sono profezie post factum. Parlano di
incubi totalitari proiettati nel futuro, ma sulla base di cose
che han- no percepito nel loro presente o nel loro immediato
passato. La profezia consiste nel cogliere, o interpretare in
altra luce, cose che erano sfuggite, o non erano state notate a
sufficien- za, neanche da coloro che quegli avvenimenti li
avevano sot- to gli occhi, li vivevano in diretta. In 1984 c’è
anche la mani- polazione della storia e la manipolazione
della lingua, il

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“newspeak” che serve – avrebbe spiegato lo stesso Orwell –
“a far sembrare verità le bugie e rispettabile l’assassinio”.
Parrebbe lo stesso argomento di cui si occupa Victor
Klem- perer nella Lingua Tertii Imperii. In Nein, del
professore di retorica Jens, si immagina una società da
incubo retta da un Giudice supremo nella quale tutti sono o
accusati, o testimo- ni contro gli accusati, o giudici. C’è
però chi ha osservato che, specie in Germania, entrambi i
romanzi furono letti all’epoca della loro uscita come
denuncia dello stalinismo, più che del nazismo, che pure era
fresco nell’esperienza.
Molte profezie partorisce l’ironica fantasia di Erich
Kästner. Ne ha una tremenda il romanzo Fabian. Storia di un
moralista ovvero l’andata a puttana (o anche come suggeriva
Cesare Cases “l’andata a remengo”), pubblicato da
Marsilio nel 2010. Il protagonista sogna di una “macchina
enorme... intorno alla quale si affaccendano operai seminudi,
armati di badili, che infornavano centinaia di migliaia di
piccoli bam- bini in una caldaia gigantesca in cui ardeva un
vivissimo fuo- co” e di altre scene infernali e di distruzioni
belliche. Il ro- manzo fu pubblicato nel 1931. Come faceva
Kä stner a prevedere Auschwitz, la Seconda guerra, i
bambini inforna- ti, le città che bruciano distrutte dai
bombardamenti?
Non occorre nemmeno che le profezie siano esplicite e
particolareggiate. Né che le profezie siano ex ante. Ancora
più efficaci sono quelle criptiche, come i responsi della Pizia
dell’Oracolo di Delfi. Credo che nessuno abbia saputo
esse- re profeta delle angosce profonde di quei tempi, e
anche del nostro tempo, quanto Franz Kafka. Hans Fallada è
un eccel- lente testimone della Germania degli anni trenta,
ma ancor più profetico degli altri romanzi è forse
l’autobiografico Il bevitore, pubblicato nel dopoguerra.
Non parla esplicita- mente di politica. Racconta di una
discesa personale, indivi- duale, nell’inferno della
tossicodipendenza, martella impie- tosamente su quanto
questa passi per la menzogna, il mentire continuamente agli
altri, ma innanzitutto a se stessi. La men- zogna più grande
consiste nel dirsi in continuazione: posso smettere quando
voglio. Era anche la grande menzogna col-

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lettiva che raccontavano a sé stessi i tedeschi dal 1933 in poi.
Stiamo continuando a raccontarcela?

Trovo a volte qualcosa di profetico anche nelle favole.


Nella favola dei fratelli Grimm, che ebbe molta fortuna all’e-
poca del Terzo Reich, i bambini di Hamelin seguono
incan- tati, anzi gioiosi il Pifferaio che li sta trascinando nel
burro- ne. Così i tedeschi seguirono volenterosi Hitler che li
portava alla catastrofe. La cosa più strana, e più difficile da
spiegare, è un’altra: come mai in tanti continuarono a
credere cieca- mente in Lui anche quando nel burrone erano
già precipita- ti. Fanatismo? Abitudine? Paura? Mancanza di
alternative?
Una favola scritta da un geniale populista americano di
inizio Novecento dà una possibile risposta. Sul finire del ro-
manzo, il terribile Mago di Oz viene smascherato per
quel- lo che è: un imbroglione. Che però gode del
consenso per- ché dà alla gente quello che la gente
desidera. È lui stesso a confessare di essere solo un
ciarlatano agli eroi della favola: la bambina, lo
spaventapasseri e l’uomo di latta. E quelli a chiedergli
dopo un po’, imperterriti, ancora un piccolo mi- racolo...

Ricatti a mezzo profezia

Hitler ci teneva molto a passare da profeta. La più famo-


sa e agghiacciante è la profezia pronunciata il 30 gennaio
1939 nel discorso al Reichstag: “Sono stato sovente profeta
nel corso della mia vita. Sovente hanno riso di me, ma ho
sempre visto giusto. All’epoca della lotta per il potere gli
ebrei ridevano di me quando dicevo che avrei assunto la lea-
dership della nazione… Ridevano forte, ma ora quella risata
gli si è spenta in gola. Voglio essere ancora una volta profeta:
se la finanza internazionale ebraica, in Europa e fuori, doves-
se riuscire ancora una volta a far precipitare il mondo in una
guerra, allora il risultato non sarebbe la bolscevizzazione del

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pianeta, e quindi la vittoria dell’ebraismo, ma la distruzione
della razza ebraica in Europa”.
Ci sarebbe tornato ripetutamente. Nel discorso alla “vec-
chia guardia” nazista a Monaco dell’8 novembre 1941: “Pos-
sono [gli ebrei] ancora riderne oggi, come hanno riso delle
altre mie profezie. Ma i prossimi mesi e anni dimostreranno
che anche in questo ho visto giusto”. Era in corso l’Opera-
zione Barbarossa contro l’Unione Sovietica, le Einsatzgrup-
pen, le unità operative composte da uomini delle SS, della
polizia e della Wehrmacht stavano già procedendo al massa-
cro sistematico di ebrei e comunisti nelle zone conquistate. E
poi ancora il 30 settembre 1942, quando già lo sterminio
procedeva a pieno regime: “Sappiamo che questa guerra può
finire con lo sterminio dei popoli ariani, o con la scomparsa
degli ebrei dall’Europa… questa guerra – e sapete che non
faccio previsioni avventate – non finirà come hanno immagi-
nato gli ebrei, bensì con la distruzione del giudaismo. Mette-
remo per la prima volta in atto il vecchio detto ebraico:
oc- chio per occhio, dente per dente…”. E ancora:
“Dichiarai che... gli ebrei sarebbero stati annientati... Gli
ebrei risero nuovamente in Germania delle mie profezie.
Non so se stia- no ancora ridendo, o se la loro risata si sia
spenta. Ma questo solo posso affermare: la loro risata si
spegnerà dovunque”. E ancora, nel febbraio 1943: “Mi hanno
sempre deriso come profeta. Moltissimi di coloro che allora
risero oggi non rido- no più , e quelli che ancora ridono
forse tra poco non ride- ranno più ”.
Strana ossessione, per i nazisti, questa del ridicolo, del far
spegnere le risate degli avversari. Anche Goebbels così regi-
strava compiaciuto nel suo diario nel 1933 la “conquista di
Berlino”, la città in cui i nazisti avevano avuto più
difficoltà ad affermarsi, e avevano dovuto a lungo
assediare dalle “campagne”: “La nostra fortuna fu che i
marxisti e la stampa ebraica non ci presero sul serio per
tutto quel periodo […]. In seguito avrebbero dovuto spesso
e amaramente rimpian- gere di non averci assolutamente
conosciuti o, quando ci co- noscevano, di aver solo saputo
sorridere di noi…”.
Si è molto romanzato sulle superstizioni di Hitler, la sua

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passione per l’occulto, la frequentazione del “mago” (in real-
tà cabarettista illusionista) di origine ebraica Erik Jan Ha-
nussen che gli aveva predetto le vittorie elettorali del 1932,
la nomina a cancelliere, e poi era misteriosamente sparito. In
realtà non occorreva essere chiaroveggenti per “vedere”
quello, sarebbe forse bastato essere un pochino meno ciechi.
Volendo si potrebbero trovare profezie ovunque. Divertenti,
quanto del tutto insulse, tanto per fare un esempio, le nume-
rosissime profezie su Hitler e dintorni che qualcuno s’è dato
la pena di reperire nelle quartine cinquecentesche di Nostra-
damus. Qui sono interessato a un altro tipo di profezia: quel-
la che enuncia un programma, assume l’aspetto di una pro-
messa. È noto: la promessa di Hitler riguardo gli ebrei fu
mantenuta, la profezia venne spietatamente realizzata. Meno
noto è il contesto in cui fu formulata la prima volta nel 1939:
un vero e proprio ricatto al resto dell’Europa e al mondo
in tema di accoglienza agli immigrati.
C’era stata l’anno prima la Conferenza sull’emigrazione a
Evian, con la partecipazione di 32 paesi, invitati ad accollarsi
una quota degli ebrei di cui i nazisti volevano sbarazzarsi.
L’aveva promossa Roosevelt, sotto pressione perché l’opinio-
ne pubblica americana era allarmata dalla campagna populi-
sta contro l’“invasione” di profughi. Roosevelt stava per can-
didarsi per la terza volta alla Casa Bianca. Temeva di essere
sconfitto sul tema immigrazione. A Evian c’era stata gran
bella retorica sulla necessità di accogliere i profughi e sulla
condivisione dell’onere. Ma nulla di fatto, tutti nicchiavano,
specie dopo che il governo tedesco aveva annunciato che
non avrebbe più consentito agli ebrei di portare fuori risorse
finanziarie. Erano in corso negoziati tra Berlino e inviati di
Washington per il finanziamento dell’emigrazione di
150.000 ebrei, che sarebbero stati raggiunti in seguito dalle
famiglie. Hitler minacciò di far saltare tutto perché c’erano
“paesi ter- zi che di punto in bianco rifiutano di accogliere
ebrei, ac- campando ogni possibile scusa”. Come dire: se
non ve li ac- collate, li stermino. Fossero stati in mare
avrebbe detto: se non li prendono tutti, un po’ per uno, non
li faccio sbarcare, piuttosto affoghino.

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Il linguaggio becero, la maschera da cattivo, le sparate re-
toriche, le iperboli sono una componente costante del lin-
guaggio populista. Servono a “parlare come il popolo”, a
“farsi capire dal popolo”. Ma non sono mai neutri,
innocen- ti. La propaganda costringe chi la fa a mantenere
la parola, osservava lo storico tedesco Martin Broszat a
proposito della retorica incendiaria e apocalittica di Hitler.
Notava che la popolarità di Hitler era dovuta in buona
misura al fatto che diceva apertamente, brutalmente, a voce
alta quello che la sua audience pensava tra sé e sé. Hai voglia
ad assumere pose da moderato, da statista una volta giunto
al governo, se pri- ma per anni hai sbraitato contro gli ebrei
attribuendogli la volontà di distruggere e assassinare la
Germania, dandogli dei parassiti, sanguinari, vermi, bacilli
che infettano la nazio- ne, oppure te la sei presa con gli
immigrati, dandogli dei de- linquenti, stupratori, terroristi,
portatori di malattie.
Quello che dicono prima di andare al governo non
sono sempre parole al vento. Sarà meglio prenderne nota. È
ricor- rente l’illusione (o la speranza) che certe esuberanze
siano solo esagerazioni, artifici retorici, intemperanze
passeggere, iperboli appunto. Ma c’è un tratto comune ai
populisti che arrivano al governo: la smania di mantenere le
promesse fat- te in campagna elettorale, fare quello che
hanno detto, ca- schi il mondo, costi quello che costi. Come
se avessero il ter- rore di essere tacciati di inadempienza,
volessero distinguer- si dai loro predecessori accusati di
dire una cosa e farne un’altra. Trump aveva promesso il
Muro antimigranti, e su quello continua a testa bassa, a
costo di sbattere contro lo shutdown del governo, aveva
promesso protezionismo, e procede imperterrito
nell’imporre tariffe doganali, incurante delle conseguenze
sull’economia mondiale… Salvini aveva promesso di
fermare gli sbarchi, di mettere fine ai diktat dall’Europa…
Leggo ogni tanto che l’opposizione li rimpro- vera di non
aver adempiuto le promesse. Visto gli anteceden- ti, davvero
non saprei se dobbiamo davvero augurarci che mantengano
quello che hanno detto e hanno promesso.

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Contare fino a mille

Per marcare la discontinuità con i governi precedenti, la


Germania nazista aveva deciso di chiamarsi Terzo Reich. I
nazisti si dicevano rivoluzionari. A noi, che di superamenti
della Prima Repubblica ne abbiamo già avuto annunciati
non so più quanti, ultimamente a ritmo accelerato, una nuo-
va Repubblica e un cambiamento rivoluzionario quasi ogni
giorno, può sembrare modesto che la Germania hitleriana si
sia fermata appena alla Terza. La Francia, che di rivoluzioni
vere ne ha fatte parecchie, è ferma alla Quinta, la Repubblica
presidenziale di De Gaulle. In compenso noi siamo più sobri
sulla durata, si ragiona in termini vaghi, tipo “a lungo”, o
in termini di “legislatura”, se proprio ci si vuole “allargare”,
co- me dicono a Roma. Vero: qualcuno ha detto “decenni”,
anzi “per sempre”, ma è stata presa come battuta di spirito,
non come profezia, nemmeno come pronostico benaugurale.
Il Terzo Reich doveva durare un millennio e di più .
Ragionava- no a grandi numeri. “La difesa dell’Europa dal
bolscevismo è il nostro compito per i prossimi duecento o
trecento anni”, aveva detto Hitler a tre vescovi cattolici che
aveva ricevuto nel 1934, appena qualche giorno prima della
“Notte dei lun- ghi coltelli”. Darsi tempi secolari o addirittura
millenari de- nota un bel po’ di insicurezza. Sarebbe in realtà
durata poco, una dozzina di anni appena, dal 1933 al 1945.
Un soffio. Ma anche la riprova che è possibile fare danni
incalcolabili in pochissimo tempo.

L’era Trump potrebbe durare trent’anni, diceva l’efficace


titolo dell’articolo di uno dei più autorevoli commentatori
del “Financial Times”, Gideon Rachman. Per “Era Trump”
intendeva non solo e non tanto la Presidenza degli Stati Uni-
ti (che comunque più di due mandati, cioè otto anni, non
può durare), ma la più generale “era populista”, quella della
Brexit, del marasma in Europa, di Bolsonaro in Brasile, di
Orbán in Ungheria, di Salvini in Italia, degli altri ammiratori
di Trump nel mondo. Era evidentemente una provocazione,

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forse anche un po’ scaramantica. Abbiamo avuto, a partire
dal secolo scorso, cicli che sono durati effettivamente diversi
decenni: le trente glorieuses, i trenta anni di crescita impe-
tuosa in Occidente dal 1945 al 1975, poi l’era neo-liberista di
Reagan e della Thatcher, a sua volta screditata dalla crisi fi-
nanziaria globale del 2008. In Cina al trentennio maoista era
seguita l’era dell’apertura economica di Deng Xiaoping, che
sostanzialmente è ancora in corso. Ora i nodi stanno venen-
do di nuovo al pettine, potrebbe esserci nell’aria una nuova
svolta. Ma per durare un trentennio l’“era populista” do-
vrebbe essere in grado di mantenere non solo e non tanto il
momento elettorale (cosa anche possibile), ma la promessa
dello sviluppo (cosa che al momento è in dubbio).

Il fascino delle grandi democrazie rappresentative è che


i trend elettorali vanno e vengono. Nessuno può essere si-
curo di vincere l’elezione successiva, neanche se ne ha la
certezza, o magari l’ha provocata. Cambia, si alterna chi sta
al governo. Arthur Schlesinger, grande studioso dei cicli
politici, scriveva di “pendolo” a proposito dell’alternarsi di
cicli di apertura e chiusura nella democrazia americana. Ma
neanche la pendolarità è una certezza. Nulla garantisce che
il meccanismo che abbiamo assunto sinora come modello
continui a funzionare. Quello a cui stiamo assistendo po-
trebbe anche essere sintomo di una sindrome più grave e di
più lunga durata. Lo psicanalista freudiano ortodosso Eri-
ch Fromm, costretto a fuggire dalla Germania l’anno suc-
cessivo all’ascesa al governo di Hitler perché ebreo, aveva
individuato pulsioni profonde all’origine della generalizza-
ta “fuga dalla libertà ” nell’Europa di quegli anni. Yascha
Mounk nel suo brillante Popolo vs Democrazia torna a ve-
dere una fuga generalizzata dalla democrazia liberale, che
ci eravamo abituati, anzi adagiati a ritenere irreversibile,
almeno in Nordamerica e in Europa occidentale. Anche
nella Germania di Weimar si erano adagiati a considerare
irreversibile la democrazia rappresentativa, le libere elezio-

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ni, la concorrenza tra più partiti. Invece più votavano più si
impantanavano. S’è visto come andò a finire.

Pronostici? Nessuno. Lo scopo di questo libro non era


fare pronostici, tanto meno profezie. Non servirebbe co-
munque a molto. Cassandra, la figlia di Ecuba e Priamo, ave-
va il dono di fare profezie veridiche, ma nessuno le credeva.
Quando annunciò la caduta di Troia per poco la
linciavano. Si sa che i profeti sono antipatici, soprattutto
alla propria gente (nemo propheta in patria). Rischiano di
passare per la- gnosi o per menagramo. Popolarissimi sono
invece in genere i falsi profeti. La divinazione era in grande
auge nell’antica Cina e nell’antica Roma. Poi, verso il IV
secolo dell’impero romano venne severamente proibita.
C’era la pena di morte per gli indovini, gli aruspici, gli
astrologi (mathematici), in- somma per tutti coloro che
predicevano il futuro, e, tranne per un breve periodo, anche
per tutti quelli che li consulta- vano. La ragione, convergono
gli studiosi, è principalmente politica: chi è al potere non
vuole che circolino previsioni, se non ufficiali e autorizzate,
sul proprio conto.
Le analogie non sono previsioni. Che sia andata una vol-
ta, in circostanze simili, in quel modo, non significa che deb-
ba andare allo stesso modo. Incrociando le dita, potrebbe
andare anche peggio. Per dirla con Shakespeare: “O Dei!
Chi può dire “Sono al peggio”? / Io sto peggio di come mai
sia stato / E posso stare anche peggio; / non siamo al peggio
finché possiamo dire / “questo è il peggio”.

O gods! Who is’t can say “I am at the


worst”? I am worse than e’er I was.
….
So and worse I may be yet: the worst is not
long as we can say “This is the worst”.

King Lear, atto IV, scena I.

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Letture su 1933 e dintorni

Tutto quello che volete sapere (e anche qualcosa di cui


fareste volentieri a meno) sul potere cognitivo delle analogie
lo trovate in Surfaces and Essences: Analogy as the Fuel and
Fire of Thinking (Superfici ed Essenze: l’analogia come car-
burante e fuoco del pensiero) di Douglas Hofstadter ed Em-
manuel Sander (Basic Books 2013). A proposito di analogie,
trovo molto di analogo al mio nel modo di affrontare gli anni
trenta in rapporto alla nostra attualità nel documentatissimo
Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi
di oggi dello studioso di Storia europea comparata Donald
Sassoon (Garzanti 2019), che purtroppo ho avuto modo di
scoprire solo quando ormai questo libro era già in bozze.

Il boom anni trenta

La letteratura su “Germania 1933”, caduta della


Repub- blica di Weimar, presa del potere da parte dei
nazisti, Hitler al governo è sterminata. Qui mi limito a
elencare, sperando che sia utile al lettore, ma senza la
minima pretesa di comple- tezza, solo alcuni dei titoli a cui
mi sono rifatto, indicando dove esiste, la traduzione
italiana.
Alla classica Storia del Terzo Reich dell’allora corrispon-
dente della Cbs a Berlino William Shirer, pubblicata nel
1960,

167

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considerata a lungo il testo di riferimento, e più volte ristam-
pata in traduzione italiana da Einaudi, si sono aggiunte molte
altre opere di ampio respiro, trattazioni globali che mirano a
essere esaustive. C’è chi ha notato che nel campo degli
studi sul Terzo Reich, e specie per le biografie di Hitler, si va
a cicli. A momenti di stanca, in cui sembra sia già stato
detto tutto quel che si poteva dire, seguono momenti di
rinnovato interes- se, anzi di vero e proprio boom, a detta
dei curatori dell’ulti- ma edizione del Vierteljahrshefte für
Zeitgeschichte, pubblica- to dall’Istituto per la Storia
contemporanea di Monaco e Berlino, dedicato alle nuove
ricerche su Hitler (German Yearbook of Contemporary
History. Hitler New Research, vo- lume 3, 2018). A quanto
pare siamo nel pieno di un nuovo boom, almeno dal 2015
in poi. Non si fa che pubblicare e scrivere sugli anni trenta,
sul fascismo e su Mussolini, su Hit- ler e sul nazismo. Visti i
tempi, il vento che tira, e le novità politiche da un capo
all’altro del pianeta, forse succede pour cause. Del resto
non faccio fatica a confessare che l’in- terpretazione in
termini di déjà vu in questo libro viene dall’attualità .
E forse non è un caso nemmeno che molti autori delle ri-
cerche più recenti non siano storici di professione ma gior-
nalisti. Ad esempio, storico e giornalista (del “Die Zeit” di
Amburgo) è Volker Ullrich, autore di una nuova monumen-
tale opera su Hitler, in tre ponderosi volumi, di cui il
primo, di oltre mille pagine, è uscito nel 2013 in tedesco (ce
n’è una traduzione in inglese, Hitler. Volume I: Ascent
1889-1939, ma non ancora in italiano). Altrettanto
monumentali gli stu- di, sempre dedicati a Hitler pubblicati
nel 2015 dagli storici tedeschi Wolfram Pyta e Peter
Longerich.
E dire che era parso che il mercato per le biografie di Hit-
ler fosse ormai saturo quando nel 1998 uscì in due enormi
volumi Hitler di Ian Kershaw (ora disponibile in volume uni-
co da Bompiani). Sempre di Kershaw, Laterza aveva pubbli-
cato nel 1997 una sintesi dal titolo molto (forse troppo) pro-
mettente: Hitler e l’enigma del consenso (il titolo originale è
Hitler e basta). Un altro volumetto agile ma denso, The
Hit- ler of History, del 1997, è quello dello storico
americano di

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origine ungherese John Lukacs, autore nel 2005 di un pre-
veggente Democracy and Populism. Solo a elencare quello
che è stato pubblicato di biografie di Hitler occorrerebbe un
volume assai più ampio di quello che avete sottomano. Qui
non si è trattato per nulla di argomenti tipo la personalità di
Hitler, la vita privata di Hitler, la biblioteca di Hitler, le
ma- nie di Hitler e così via. Le analogie toccano l’azione
politica, i fatti, non i personaggi. Per cui mi limito a segnalare,
tra le ope- re di carattere generale da cui ho tratto
riferimenti, il freschis- simo Thomas Childers, The Third
Reich: A History of Nazi Germany, Simon & Schuster, 2017
(non ancora disponibile in italiano).

Le elezioni

Uno dei temi che più mi ha appassionato è quello delle


elezioni. Sempre di Childers, da poco in pensione dopo
aver insegnato nelle principali università in America e in
Europa, per ultimo alla University of Pennsylvania, uno
studio estremamente dettagliato dell’elettorato nazista: The
Nazi Voter: The Social Foundations of Fascism in Germany,
1919-1933, The University of North Carolina Press, 2010.
Era stato preceduto negli anni ottanta dall’altrettanto den-
so Who Voted for Hitler? di William Hamilton, Princeton
University Press, 1982. Ho trovato ancora utilissimo il vec-
chio The Collapse of the Weimar Republic di David
Abraham (e soprattutto la seconda edizione da cui ho trat-
to le tabelle a p. 64), Holmes & Meier, 1986), da cui ho
tratto le cifre sulle coalizioni potenziali e attuali, nel para-
grafo “È la coalizione, stupido!”. Trovo assolutamente af-
fascinante la complessità dei flussi elettorali nella Repub-
blica di Weimar, che smentisce ogni semplificazione. Per
Hitler avevano votato non solo i piccolo borghesi e i
botte- gai arrabbiati, e non tanto i capitalisti come voleva la
vulga- ta di sinistra, ma elettori di ogni origine sociale,
compresi moltissimi operai, oltre a buona parte dei
disoccupati. Ave- vano votato i protestanti ma non i
cattolici. Avevano votato

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in certe regioni, ma non in altre. Per una discussione estesa
delle diverse posizioni e degli approfondimenti emersi in
decenni di ricerche sul tema: Gary King, Ori Rosen, Martin
Tanner, Alexander F. Wagner, Ordinary Economic Voting
Behavior in the Extraordinary Election of Adolf Hitler, in
“The Journal of Economic History”, volume 68, n. 4, de-
cember 2008. Un’estesa analisi sulle basi sociali del voto
partito per partito, e non solo per quello nazista: The Social
Bases of Political Cleavages in the Weimar Republic, 1919-
1933 di Jü rgen W. Falter, in “Historical Social Research”,
Supplement, 2013; e William Brustein, The Logic of Evil:
The Social Origins of the Nazi Party, 1925-1933, Yale Uni-
versity Press, 1998.
Il testo di Kurt Tucholsky sul moltiplicarsi di partiti e
partitini è adattato da Antonella Ottai per lo spettacolo Gro-
tesk! Ridere rende liberi, basato sul suo Ridere rende liberi.
Comici nei campi nazisti (Quodlibet 2016) e interpretato e
diretto da Bruno Maccallini. Così come la scena di
Kabarett sul barbiere.

Il populismo al governo

Sulle vicende politiche, le manovre, gli intrighi che porta-


rono Hitler alla cancelleria il riferimento resta I trenta giorni
di Hitler dello storico dell’Università di Yale Henry Ashby
Turner Jr. (Mondadori, 1997). Suo anche lo studio su Ger-
man Big Business and the Rise of Hitler, Oxford University
Press, 1985, che smentisce il mito per cui furono gli indu-
striali tedeschi a portare Hitler al governo. Certo, alcuni di
loro lo avevano finanziato, quasi tutti si accodarono e ci gua-
dagnarono, ma era stata la politica, compresa la politica sba-
gliata del centro e quella suicida della sinistra, a portarlo al
governo, non la finanza. Altro punto di riferimento essenzia-
le sul 1933 l’agile ma denso Germans into Nazis, (Harvard
University Press, 1998) del professore di origine tedesca
dell’Università dell’Illinois Peter Fritzsche. Suoi anche il leg-
gibilissimo Vita e morte nel Terzo Reich, Laterza 2010, da cui

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ho attinto le notizie sull’Heil Hitler! e su alcuni aspetti del
consenso, e Rehearsals for Fascism: Populism and Political
Mobilization in Weimar Germany, Oxford University Press,
1990, sullo sfaldamento dei partiti del Bürgerblock, il cen-
tro-destra “borghese”, culminato con elezioni del 1930. Un
testo di riferimento sullo squagliamento dei vecchi partiti di
centro e centro-destra resta: Larry Eugene Jones, German
Liberalism and the Dissolution of the Weimar Party System,
1918-1933, University of North Carolina Press, 1988.
Sul “socio” di Hitler nel contratto di governo del 1933, il
magnate dei media e capo del Partito nazionale del popolo
tedesco, Alfred Hugenberg, lo studio più recente è: The
Fa- teful Alliance: German Conservatives and Nazis in
1933: the Machtergreifung in a New Light di Hermann Beck,
Berghahn Books, 2008. Documenta con dovizia soprattutto
la rottura e lo spesso violento sgomitamento del Dnvp di
Hugenberg da parte del Nsdap di Hitler nei mesi
immediatamente successi- vi all’andata insieme al governo.
In confronto il comporta- mento della Lega di Salvini nei
confronti dei 5 Stelle di Di Maio è un campione di lealtà e
savoir faire. Ma anche su que- sto aspetto mi sono servito
molto di un testo più vecchio: Larry Eugene Jones, The
Greatest Stupidity of My Life: Al- fred Hugenberg and the
Formation of the Hitler Cabinet, Ja- nuary 1933, in “Journal
of Contemporary History”, vol. 27, 1992; così come,
sempre di Jones, Franz von Papen, Catholic Conservatives,
and the Establishment of the Third Reich, 1933-1934, in
“Journal of Modern History”, 83, giugno 2011.
Sul dibattito in seno alla sinistra resta insuperato lo stu-
dio di Gian Enrico Rusconi su La crisi di Weimar. Crisi di
si- stema e sconfitta operaia pubblicato da Einaudi nel 1977.
Più recente è German Social Democracy and the Rise of
Nazism di Donna Harsch, The University of North Carolina
Press, 1993 e una scelta di fonti c’è in The German Left
and the Weimar Republic. A Selection of documents, a cura
di Ben Fowkes (Haymarket Books, 2014). Ma ho attinto
molto allo studio di parecchio precedente di Lewis J.
Edinger, German Social Democracy and Hitler’s National
Revolution of 1933: A

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Study in Democratic Leadership, “World Politics”, Volume 5,
Issue 3, aprile 1953.

Rossobrunismo

Un discorso a sé, spesso trascurato, è quello sulle conver-


genze oggettive, e talvolta soggettive, tra sinistra estrema e
nazisti. Oggi si è soliti chiamarlo “rossobrunismo”. Il
tema, con ampi riferimenti al “bolscevismo prussiano” di
Otto Strasser e di altri esponenti dell’estrema destra
nazionalista tedesca, viene affrontato in un saggio scritto in
pieno fasci- smo da Delio Cantimori, all’epoca probabilmente
già comu- nista, ripubblicato recentemente in Carl Schmitt,
Stato, mo- vimento, popolo. Con un saggio sul
nazionalsocialismo di Delio Cantimori (Si24, 2018). Tra gli
studi più recenti sull’ar- gomento: Pamela E. Swett,
Neighbors and Enemies: The Cul- ture of Radicalism in Berlin,
1929-1933, Cambridge Univer- sity Press, 2004; Conan
Fischer, The German Communists and the Rise of Nazism ,
St. Martin’s Press 1991; e ancora: Eve Rosenhaft, Beating
the Fascists?: The German Communists and Political
Violence 1929-1933, Cambridge University Press, 1983.

Caro Diario

Sono un’infinità le testimonianze fornite dai diari, dalle


lettere, dai reportage, persino dalle opere di fiction dei con-
temporanei. La scelta ovviamente è estremamente parziale.
Gli articoli di Simenon sull’Europa del 1933 sono raccolti
nel volume Mes Apprentisages, Reportages 1931-1946, a cura
di Francis Lacassin (Omnibus, 2016). Sulla gran fuga dalla
democrazia nell’Europa tra le due guerre: Conan Fischer,
Europe Between Democracy and Dictatorship 1900-1945, Wi-
ley-Blackwell, 2011.
Riguardo l’ossessione dell’epoca per serial killer e delitti
sessuali: Maria Tatar, Lustmord: Sexual Murder in Weimar

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Germany (Princeton University Press, 1997), con imponente
documentazione iconografica.
Di molti dei giudizi di visitatori stranieri sulla Germania
degli anni trenta sono debitore al bel libro di Luigi Forte,
Berlino città d’altri. Il turismo intellettuale nella Repubblica
di Weimar, Neri Pozza, 2018, a Reisen ins Reich:1933 bis
1945 – Ausländische Autoren berichten aus Deutschland,
Eichborn, 2004, a cura di Oliver Lubrich (tradotto anche
in inglese: Travels in The Reich 1933-1945, The University
of Chicago Press 2004), e a Travellers in the Third Reich:
The Rise of Fascism Through the Eyes of Everyday People di
Julia Boyd, Elliott & Thompson, 2018. I diari del
sindacalista americano Abraham Plotkin sono stati ritrovati
negli archivi della Cornell University e commentati da
Catherine Collomp e Bruno Groppo in An American in
Hitler’s Berlin: Abraham Plotkin’s Diary, 1932-33,
University of Illinois Press, 2009. Un classico è La peste
Brune del militante trotskista Daniel Guérin sul suo viaggio
in Germania tra 1932 e 1933, da non confondersi con La
peste bruna. Diari 1931-1935 di Klaus Mann, figlio di
Thomas Mann e nipote di Heinrich Mann.
Sui diari di protagonisti e personaggi con ruoli di primo
piano nelle fasi iniziali del regime e che poi divennero pro-
fughi (Putzi Hanfstaengl, intimo di Hitler della prima ora,
poi suo addetto stampa, Rudolf Diels, il primo capo della
Gestapo) e su quelli degli osservatori stranieri che li fre-
quentavano (Martha, la figlia brillante e avvenente dell’am-
basciatore americano Wiliam Dodd, i suoi principali colla-
boratori, i corrispondenti esteri nella Berlino di quegli
anni), si basano due magnifiche ricostruzioni, rigorose nel-
le fonti e al tempo stesso leggibili come se fossero romanzi:
1933. L’ascesa al potere di Adolf Hitler di Philip Metcalfe
(Neri Pozza, 2018, ma pubblicato per la prima volta in
America nel 1988) e Il giardino delle bestie: Berlino 1934 di
Erik Larson (Neri Pozza, 2014). A chi avesse voglia di leg-
gere solo un libro soltanto sulla Germania del 1933-34,
consiglierei uno di questi due. Ne ho goduto la lettura e vi
ho attinto senza scrupoli.
Un discorso a parte meriterebbero le testimonianze e i

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diari di chi fu nazista convinto. Nel 1934, a giusto un anno
dalla nomina di Hitler, Theodore Abel, un sociologo della
Columbia University di origine ebraica, si era rivolto diretta-
mente al governo tedesco per poter condurre un’indagine
sulle motivazioni dell’adesione al Partito nazionalsocialista.
Il ministero per la Propaganda di Goebbels decise di aiutar-
lo. Lui inviò circa 600 questionari. Era prevista una ricom-
pensa in denaro per “le migliori storie di vita di aderenti al
movimento di Hitler”. Dalle risposte ai questionari Abel
ri- cavò Why Hitler Came to Power, pubblicato per la
prima volta nel 1938 e più di recente ripubblicato con una
prefa- zione di Thomas Childers (Harvard University Press,
1986). Anche Milton Mayer, ebreo di origine tedesca,
giornalista, sociologo in America, si era recato nel 1935
per un mese a Berlino, ospite dell’ambasciatore Dodd, per
cercare di capi- re cosa stava succedendo. Aveva inutilmente
cercato di inter- vistare Hitler. Ci sarebbe tornato all’inizio
degli anni cin- quanta a intervistare alcuni ex nazisti
convinti, gente del popolo, bancari, insegnanti, negozianti,
artigiani, poliziotti, studenti. Il risultato è They Thought
They Were Free. The Germans. 1933-1945, ora ripubblicato
con la postfazione di Richard J. Evans dalla University of
Chicago Press. William Sheridan Allen avrebbe negli anni
cinquanta passato alcuni mesi in un borgo dello stato di
Hannover con appena dieci- mila abitanti. Ne sarebbe
scaturito Come si diventa nazisti, più volte ripubblicato da
Einaudi.
Infine, ci sono i diari dei dirigenti nazisti, o amici dei na-
zisti, più o meno apologetici, più o meno pentiti. Goebbels
teneva un diario e periodicamente lo rimaneggiava per la
pubblicazione, in funzione di autopromozione. Hanno scrit-
to memorie Papen, Weizsäcker, Speer, Schacht, e anche mili-
tari come il feldmaresciallo Keitel e l’ammiraglio Dö nitz.
Tutti ovviamente da prendere con le pinze. Così come le Me-
morie di Gerusalemme di Adolf Eichmann, le memorie sotto
la forca, Im Angesicht des Galgens, del boia di Varsavia Hans
Frank o Comandante ad Auschwitz di Rudolf Hö ss, pubbli-
cato da Einaudi con una prefazione di Primo Levi. Un’araba
fenice, una bufala ricorrente sono poi i Diari di Hitler, quan-

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to quelli di Mussolini, come racconta da grande affabulatore
Pasquale Chessa nel suo Il romanzo di Benito, Utet, 2018.
A me sono bastati e avanzati i discorsi ufficiali nella
monumen- tale raccolta di Max Domarus, Hitler: Reden
und Proklama- tionen, 1932-1945, disponibile anche in
inglese in quattro volumi: Hitler: Speeches and
Proclamations 1932-1945: The Chronicle of a Dictatorship,
Bolchazy-Carducci Publishers, 1988.

fi la stampa, bellezza!

Una fonte inesauribile e ricchissima sono naturalmente i


giornali dell’epoca. Sulla stampa di Weimar, e la sua
brutta fine sotto il nazismo, prezioso mi è stato Bernhard
Fulda, Press and Politics in the Weimar Republic, Oxford
University Press, 2009. Ma anche l’assai più vecchio
Modris Ekstein, Limits of Reason: The German Democratic
Press and the Col- lapse of Weimar Democracy, Oxford
University Press, 1975 e, sul passaggio sotto controllo
nazista, The Captive Press in the Third Reich (Princeton
University Press, 1964) di Oron J. Hale, l’ufficiale
dell’intelligence americana che interrogò do- po la sua
cattura il gran patron della stampa nel Terzo Reich, Max
Amann. Julius Streicher di Randall L. Bytwerk sul padre
padrone dell’arci-antisemita “Stü rmer”. E sulla sua “piccola
posta assassina”: Showalter Dennis E., Little Man, What
Now: Der Stürmer in the Weimar Republic, Archon Books,
1982. Sui siti web italiani che fanno venire in mente lo
“Stü rmer”: I fiancheggiatori del web in soccorso di Salvini do-
po il crollo sui social, di Matteo Pucciarelli, “La
Repubblica”, sabato 11 gennaio 2019, p. 11.
Sull’atteggiamento della stampa americana, molto docu-
mentato: Adolf Hitler and the Third Reich in American Ma-
gazines, 1923-1939 di Michael Zalampas, Popular Press of
Bowling Green State University 2001.

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Ebrei come immigrati

Per Ebrei erranti di Joseph Roth, ho utilizzato la tradu-


zione di Flaminia Bussotti in Opere 1916-1930, Bompiani,
1987. Il testo canonico sulle persecuzioni e le leggi razziali,
almeno per la prima fase, è Saul Friedlä nder, La Germania
nazista e gli ebrei (1933-1938), Garzanti, 1988. Ma sullo spe-
cifico degli Ost-Juden e i loro rapporti con gli ebrei
integrati nella cultura tedesca, ho utilizzato Jack
Wertheimer, Unwel- come Strangers: East European Jews in
Imperial Germany, Oxford University Press, 1987 (Studies in
Jewish History) e William I. Brustein, Roots of Hate: Anti-
Semitism in Europe before the Holocaust, Cambridge
University Press, 2003. Sull’ebreo come criminale nato:
Michael Berkowitz, The Cri- me of My Very Existence.
Nazism and the Myth of Jewish Cri- minality, University of
California Press, 2007. Dell’idea circa il sovrapporsi
dell’odio verso i più disperati all’invidia e all’odio nei
confronti dei privilegiati e delle élite, sono debi- tore a Gö tz
Aly, Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? Ugua- glianza,
invidia e odio razziale 1800-1933, Einaudi, 2013.

L’enigma del consenso

Su come fu comprato il popolo tedesco, sempre di Aly,


Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e
nazionalso- cialismo, Einaudi, 2007. Come i nazisti
comprarono il popolo tedesco, è il sottotitolo dell’edizione
inglese dello studio del 2005 di Gö tz Aly. I beneficiari di
Hitler suona il titolo. (Il ti- tolo della traduzione italiana, Lo
Stato sociale di Hitler è più corrispondente all’originale
tedesco, Hitlers Volksstaat).
Aly documenta anche la pressoché sconosciuta rapina ai
danni degli europei e anche degli alleati, Italia compresa
(molti documenti erano stati deliberatamente distrutti dalla
Banca centrale tedesca nel dopoguerra). Sulla versione italia-
na della rapina a danno degli ebrei il recentissimo 1938, l’Ita-
lia razzista. I documenti della persecuzione contro gli ebrei di

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Fabio Isman, con una prefazione di Liliana Segre (il Mulino,
2018).
Sul sistema di assistenza sociale, prima e dopo Hitler:
David F. Crew, Germans on Welfare: From Weimar to Hitler,
Oxford Univesity Press, 1998. Fondamentale, sull’argomen-
to del consenso, anche sugli aspetti più orripilanti del regi-
me, è il documentatissimo Backing Hitler: Consent and Coer-
cion in Nazi Germany di Robert Gellately, Oxford University
Press, 2001. Ma non tutti si lasciarono sedurre e corrompere
dal Pifferaio. Non bisogna trascurare il peso che ebbe
l’op- posizione interna, in particolare sui temi che
riguardavano la famiglia, la sfera del privato, l’affetto per i
propri cari con- trapposto alle politiche per l’eutanasia delle
“vite indegne di essere vissute”, degli handicappati e dei
malati di mente. Su questo il giornalista tedesco e poi
professore di Studi sull’O- locausto alla Florida State
University Nathan Stoltzfus, Hit- ler’s Compromises: Coercion
and Consensus in Nazi Germany, Yale University Press,
2016.

Nessuno mi può giudicare

Sulla connivenza tra la giustizia e il regime nazista: Ingo


Mü ller, Hitler’s Justice: Courts of the Third Reich, I.B.
Tauris 1991. Sulla giustizia come spettacolo, virtuosimo
degli avvo- cati d’assalto e “continuazione della lotta di
classe” nella Germania di Weimar: Henning Grunwald,
Courtroom to Re- volutionary Stage: Performance and
Ideology in Weimar Poli- tical Trials, Oxford University
Press, 2012. Su Hans Litten, l’avvocato che riuscì a portare
Hitler in tribunale e a metter- lo in difficoltà : Benjamin
Carter Hett, Crossing Hitler: The Man Who Put the Nazis on
the Witness Stand, Oxford Uni- versity Press, 2008. Dello
stesso autore, ex giurista e avvoca- to, prestato alla City
University of New York: The Death of Democracy: Hitler’s
Rise to Power and the Downfall of the Weimar Republic,
William Heinemann, 2018.

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Misteri dell’economia

Tra gli enigmi su cui si continua a discutere tra gli specia-


listi ci sono il “miracolo economico” di Hitler, l’assorbimen-
to di quasi tutti i sei milioni di disoccupati negli anni succes-
sivi all’ascesa di Hitler al governo, un tasso di crescita quasi
cinese e come si finanziò prima il riarmo e poi la guerra
senza un’inflazione micidiale come quella del 1923, e senza
delu- dere troppo i beneficati dal regime. L’orientamento
degli studi più recenti è che fu in realtà meno miracolo di
quanto appare, molto fumo e non tutto arrosto. Furono
obbligati a fare la guerra di rapina al resto d’Europa e all’Est,
anche per- ché altrimenti sarebbero falliti.
Anche sulle ragioni economiche del collasso della Germa-
nia di Weimar e sulla politica economica del Terzo Reich c’è
un’infinità di studi. Una miniera di notizie e interpretazioni
fornisce ancora The German Slump: Politics and Economics,
1924-36 di Harold James (Oxford, 1987). James si pone,
da specialista, lo stesso dilemma che mi pongo attraverso i
giu- dizi contrastanti dei non specialisti Brecht e Weil,
insomma è tra i primi storici a chiedersi se Hitler
sull’economia c’era o ci faceva: “Molti storici hanno tentato di
interpretare il pensiero di Hitler sull’economia, ma hanno
dovuto rinunciare perché quel che scoprivano era del tutto
vago e nebuloso… Per Ma- son l’economia per Hitler è solo
una questione di politiche sociali. Stone conclude che ‘non è
che Hitler ne sapesse mol- to di economia, agiva in base al
senso comune’… Ma cosa si- gnificava fare ‘politica sociale’
nelle circostanze specifiche del 1932, 1933, 1934? Solo
molto tardi, a cominciare da Turner, Barkai e Herbst, gli
storici hanno cominciato a interessarsi alla visione
economica di Hitler…”.
Gli studi più recenti che ho consultato sono: Albrecht
Ritschl, Reparations, Deficits, and Debt Default: The Great
Depression in Germany in Nicholas Crafts, Peter Fearon
(a cura di); The Great Depression of the 1930s: Lessons for
Today, Oxford University Press, 2013; Richard Overy, The
German Economy 1919-1945 in Panikos Panayi, Weimar
and Nazi Germany: Continuities and Discontinuities, Long-

178

02/04/19
man Pearson, 2001. Più fresco, ma un pochino dispersivo,
col rischio di perdersi nella marea di documentazione: Adam
Tooze, The Wages of Destruction: The Making and
Breaking of the Nazi Economy, Penguin, 2007. From Recovery
to Cata- strophe: Municipal Stabilization and Political Crisis in
Weimar Germany di Ben Liberman (Berghahn Books,
1998, Mono- graphs in German History) tocca un argomento
importante ma raramente affrontato: la distruzione delle
finanze locali.
Su Schacht, oltre al delizioso profilo di Geminello Alvi
in Uomini del Novecento (Adelphi, 1995), John Weitz, Hit-
ler’s Banker: Hjalmar Horace Greeley Schacht (Little Brown,
1997). L’idea del trucco simile a quello di Mefistofele nel
Faust di Goethe, da Guido Preparata, brillante e poliedrico
economista italiano prestato alla University of Washington,
e in particolare dal suo Hitler’s Money: The Bills of
Exchange of Schacht and Rearmament in the Third Reich, in
“American Review of Political Economy”, volume 1, n. 1
(pp. 15-27) ot- tobre 2002. Utili su Schacht, riarmo e
politiche di gestione del debito anche Pierpaolo Barbieri,
L’impero ombra di Hit- ler. La guerra civile spagnola e
l’egemonia economica nazista, Mondadori, 2015, e Fabio
Casini, Schacht e Norman. Politi- ca e finanza negli anni fra
le due guerre mondiali, Rubettino, 2018.
Per gli operai tedeschi convinti che con Hitler le cose
“certo non potranno andare peggio”, e che solo lui “man-
derà al diavolo” francesi e inglesi: H. R. Knickerbocker,
The German Crisis, Farrar & Rinehart, 1933. La lettera di
Simo- ne Weil al fratello matematico André è in L’arte
della mate- matica, Adelphi, 2018.

Mancati pronostici e vecchie profezie

La città senza ebrei di Bettauer me l’ha fatta riscoprire la


mia amica Antonella Ottai, studiosa degli anni trenta grazie
anche all’“Ora di Berlino”, i racconti di suo padre che in
quella che era allora la capitale del mondo in fatto di moder-
nità era vissuto da studente. Per la scoperta di Lichtenstae-

179

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dter sono indebitato a Gö tz Aly. Zamjatin, Orwell e Jens
so- no vecchie conoscenze. Ho sempre pensato che la
fantascienza non servisse a profetizzare il futuro ma a
meglio capire il presente. La scoperta di Primo Levi scrittore
di fan- tascienza non fa che confermarmelo. I peggiori profeti
sono sempre stati quelli che pensano di essere profeti. Su
Hitler profeta dello sterminio degli ebrei, almeno
inizialmente per ricattare il resto del mondo affinché
accogliesse gli immigrati di cui voleva disfarsi, l’idea mi è
venuta da un seminario sulla Conferenza di Evian del 1938
organizzato da Gianantonio Caggiano all’Università di
Roma Tre. Gli atti saranno pub- blicati.
Tra le moltissime cose usate sulla fascinazione nazista per
l’occulto, e in particolare sul veggente Hanussen: Mel Gor-
don, Il mago di Hitler. Un ebreo alla corte del Führer, Monda-
dori 2004. Se qualcuno volesse divertirsi sulle profezie di
Nostradamus in cui si parlerebbe di Hitler, segnalo la compi-
lazione di Robert Arthur apparsa nel volume 51, numero
339, del gennaio-febbraio 1959 di “The Military Engineer”:
The Rise and Fall of Hitler As Foreseen by Nostradamus.

180

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Indice dei nomi

Abel, Theodore 128, 174


Breitscheid, Rudolf 16
Alessandro I di Jugoslavia (Ales-
sandro Karad¯ord¯ević) 28 Brooks, Louise 33
Allende, Salvador 54 Broszat, Martin 162
Allen, William Sheridan 174 Bruegel, Pieter 92
Alvi, Geminello 148 Brü ning, Heinrich 63, 66, 90, 115,
Aly, August 50 134, 144, 153
Aly, Gö tz 48, 50, 138, 139, 156, Buber, Martin 95
180 Buber-Neumann, Margarete 94, 95
Amann, Max 118, 175 Buber, Rafael 94
Auden, Wystan Hugh 18
Caggiano, Gianantonio 180
Barmat, famiglia 122, 124 Carné, Marcel 30
Barth, Karl 16 Carol II di Romania 28
Bauer, Gustav 122, 123 Casalino, Rocco 83
Baum, Vicki 116 Cases, Cesare 158
Belpietro, Maurizio 72 Céline, Louis-Ferdinand 79
Bettauer, Hugo 154, 155, 179 Cézanne, Paul 71
Bismarck, Otto von 137 Chagall, Marc 71
Blomberg, Eva (Gruhn) 152 Chamberlain, Arthur Neville 104
Blomberg, Werner von 117, 150, Churchill, Winston 86, 102
152 Conti, Carlo 22
Bolsonaro, Jair 57, 163
Borchardt, Isidore 81 Daluege, Kurt 36
Boris III di Bulgaria 28 Dawes, Charles 146
Bosch, Hieronymus 92 Deng Xiaoping 164
Bö ss, Gustav 124 Denke, Karl 35
Brand, Fritz 73 Dibba, Alessandro Di Battista detto
Brecht, Bertolt 43, 57, 130, 143, 69
178 Diels, Rudolf 92, 173

181

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Dietrich, Marlene 44, 136
Goethe, Johann Wolfgang von 48,
Di Maio, Luigi 20, 171
53, 142, 147, 179
Dix, Otto 32
Gö ring, Hermann 10, 12, 73, 87,
Dö blin, Alfred 24
88, 90, 92, 94, 136, 150
Dodd, Martha 173
Gramsci, Antonio 51, 59, 60, 70
Dodd, William 173
Grimm, fratelli (Wilhelm Karl e Ja-
Dollfuss, Engelbert 28
cob Karl) 159
Dö nitz, Karl 174
Grosz, George 30, 32, 33
Duce, vedere Mussolini, Benito
Guérin, Daniel 173
Dü sterberg, Theodor 10, 11, 20
Haarmann, Fritz 30, 34, 35, 107
Ebert, Friedrich 122-124
Hanfstaengl, Ernst “Putzi” 173
Eckart, Irene 127
Hanussen, Erik Jan 161, 180
Edoardo VIII, re di Gran Hess, Rudolf 135
Bretagna e Irlanda 29 Himmler, Heinrich 41, 92
Eichmann, Adolf 174
Hindenburg, Paul Ludwig von
Engel, Franz 45
12,
Erdoğ an, Recep Tayyip 57 19, 20, 55, 66, 68, 91, 98, 105,
Ernst, Marx 32 147, 153
Erzberger, Matthias 120, 121, 123 Hitler, Adolf 9-20, 22, 23, 25-32,
34, 39, 42, 45, 46, 49-53, 55-60,
Fallada, Hans, pseudonimo di Ru- 62, 63, 66-70, 72, 73, 76, 79,
dolf Ditzen 24, 36, 57, 109- 86-91, 94-105, 107, 111-114,
111, 130, 158
116-120, 122, 127, 128, 129,
Finck, Werner 136
134-138, 140, 142-153, 159-
Flaubert, Gustave 130
164, 167-171, 173-175, 177-
Ford, Henry 47
180
Formigli, Corrado 71
Hollaender, Felix 44
Franco, Francisco 28
Horthy von Nagybá nya, Mikló s 28
François-Poncet, André 14
Hossbach, Friedrich 150, 152
Frank, Hans 141, 174
Hö ss, Rudolf 174
Frick, Wilhelm 12, 39, 114, 126
Hugenberg, Alfred 9-13, 16, 19,
Fritzsche, Peter 128, 140
20, 30, 35, 59, 60, 78, 94, 108,
Fromm, Bella 116
112, 115, 119, 121, 123, 125,
Fromm, Erich 164
142, 146, 147, 171
Fü hrer,vedere Hitler, Adolf
Isherwood, Christopher 15, 19
Gallimard, Gaston 26
Gaulle, Charles-André-Josep- h- James, Harold 178
Marie de 163
Jens, Walter 157, 158, 180
Gay, Peter (Peter Israel Frö hlich)
Jesenská , Milena 95
46, 81
Jung, Edgar 12
Goebbels, Paul Joseph 29, 33, 43,
Jü nger, Ernst 36
73, 96-98, 100, 112-114, 118,
124, 125, 150, 152, 160, 174 Kaas, Ludwig 13, 62
Kafka, Franz 95, 156, 158

182

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Kaiser, Guglielmo II di Prussia e
Marx, Karl 24
Germania detto 153
Kandinsky, Wassily 71 Mastropietro, Pamela 34
Karl, Anton 135 Mayer, Milton 174
Karrasch, Alfred 35 McLuhan, Marshall 112
Kä stner, Erich 158 Meißner, Otto 11
Kautsky, Karl 16 Metaxas, Ioannis 28
Keitel, Wilhelm 174 Modi, Narendra Damodardas 57
Kircher, Rudolf 117, 118 Molotov, Vjačeslav 94
Kirchner, Ernst Ludwig 32 Mondrian, Piet 71
Klee, Paul 71 Montesquieu, Charles-Louis de Se-
Kleist, Heinrich von 20, 43 condat barone di La Brède e di
Kleist-Schmenzin, Ewald von 20 136
Klemperer, Victor 49, 70, 82, 83, Mosse, famiglia 114, 119, 124
102, 103, 112, 128, 158 Mosse, Rudolf 115
Knickerbocker, Hubert Renfro 145 Mounk, Yascha 164
Koestler, Arthur 106-109 Mü ller, Hermann 65
Kokoschka, Oskar 32 Mü nzenberg, Babette (Thü ring) 95
Kracauer, Siegfried 57 Mü nzenberg, Willi 95, 124
Kraus, Karl 48, 91 Musil, Robert 33
Kun, Béla 28 Mussolini, Benito 9, 15, 16, 22, 25,
Kü rten, Peter 31, 32, 35, 107 28, 74, 168, 175

Landmesser, August 127 Neumann, Franz 46, 95


Lang, Fritz 33 Neurath, Konstantin von 98, 145,
Lautréamont, le Comte de 32 147, 152
Leipart, Theodor 67, 95, 96 Nostradamus, pseudonimo di Mi-
Levi, Primo 180 chel de Nostredame 161, 180
Ley, Robert 136, 137
Lichtenstaedter, Siegfried 47, 155, Ochs, Adolph 19
156, 179 Orbá n, Viktor Mihá ly 57, 163
Liebknecht, Karl 123 Orlan, Marc 30
Litten, Hans 100, 177 Orwell, George 157, 158, 180
Lö be, Paul 90 Ottai, Antonella 45, 179
Lorre, Peter 33
Ludendorff, Erich 153 Pabst, Georg Wilhelm 33
Luppe, Hermann 78 Papen, Franz von 10-13, 19, 20, 30,
Luttwak, Edward 54 59, 60, 66, 67, 98, 101, 148,
Luxemburg, Rosa 123 149, 151, 174
Pä ts, Konstantin 28
Macron, Emmanuel 98 Peter, Eva 33
Mann, Erika 18, 126 Phipps, Eric 151
Mann, Heinrich 173 Piłsudski, Jó zef 28
Mann, Klaus 18, 173 Pinochet, Augusto José Ramó n 54
Mann, Thomas 18, 173 Pio XI, papa 12
Plotkin, Abraham 17, 173

183

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Pound, Ezra 22
Stauffenberg, Claus Schenk von
Primo de Rivera y Orbaneja, Mi-
20, 151
guel 28
Strasser, Gregor 68, 69, 172
Putin, Vladimir 57
Strasser, Otto 69
Rachman, Gideon 163 Strauss, Leo 25
Rathenau, Walther 121 Streicher, Julius 72, 73, 75, 76, 96,
Reagan, Ronald 164 97
Remarque, Erich Maria 116 Sulzberger, Arthur 19
Renzi, Matteo 20
Ribbentrop, Joachim von 94, 152 Tedeschi, Mario 74
Rö hm, Ernst 12, 69 Terenzio Afro, Publio 24
Roosevelt, Franklin Delano 29, 85, Tergit, Gabriele, pseudonimo di
102, 140, 144, 161 Elise Hirschmann 125
Rosen, Willy 45 Thatcher, Margaret 164
Roth, Joseph 24, 37, 38, 43 Thyssen, Fritz 86
Trotsky, Lev 27, 67
Sade, Donatien-Alphonse-François Trump, Donald 25, 29, 57, 145,
marchese di 32 152, 162, 163
Salazar, Antó nio de Oliveira 29 Tucholsky, Kurt 24, 52, 111, 116
Salvini, Matteo 20, 162, 163,
171 Ullstein, famiglia 107, 108, 116,
Schacht, Hjalmar 146, 148-150, 117, 119, 124, 125
151, 174, 179 Ulmanis, Kā rlis 28
Schiller, Friedrich 43, 53
Schleicher, Kurt von 10, 19, 20, 66, Van Gogh, Vincent 71
67, 69, 151
Wagner, Richard 18
Schlesinger, Arthur 164
Wang Lun 106
Schmitt, Carl 101
Wedekind, Frank 33
Schwerin von Krosigk, Johann Lu-
Weil, André 141, 179
dwig conte di 10, 146, 151
Seldte, Franz 10, 11, 137 Weil, Simone 30, 141, 143, 178, 179
Shakespeare, William 165 Weiß, Bernhard 97
Shirer, William 128, 167 Welles, Orson 109
Showalter, Dennis 77, 80 Wels, Otto 88, 90, 91
Siemens, Daniel 35 Werner von Fritsch, Thomas Lu-
Simenon, Georges 26, 27, 29-32, dwig 152
172 Winkler, Max 119, 120
Simpson, Wallis 29 Wolf, Christa 42
Sklarek, famiglia 124, 125 Wolff, Theodor 16, 115
Smetona, Antanas 28 Wolk, Jonas 73
Sonnemann, Leopold 117 Xi Jinping 57
Speer, Albert 150, 174
Spender, Stephen 19 Young, Owen Daniel 146
Staeger, Ferdinand 134 Zamjatin, Evgenij 157, 180
Stalin, Iosif Vissarionovič 46, 59,
Zogu, Ahmet, Zog I di Albania 28
69, 94, 95, 157

184

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Indice

9 1. Cose già viste nel ’33


Contratto di governo con mediatore, 9; Scene di giubilo dal bal-
cone, 13; “Hitler non è Mussolini, la Germania non è l’Italia”,
15; “La carnevalata durerà poco”, 16; Chi se ne importa delle
chiusure domenicali, 17; “La situazione politica a Berlino è
molto noiosa”, 18; Più sono furbi più casca l’asino, 20

21 2. Analogie e scaramanzia
Breve nota sul perché di questo libro

26 3. Europa, dica 33
Con Hitler in ascensore, 29; La foto del mostro in pagina, 32;
Cento, mille casi Pamela Mastropietro, 34

37 4. Ebrei, cioè immigrati


Il “Decreto immigrazione”, 39; “La pacchia è finita”, 41; Tutto
sempre colpa degli ebrei, 44; Contro le élite e contro i disperati, 47

51 5. L’inferno è lastricato di elezioni


Campagna elettorale permanente, 55; Se gli elettori preferisco-
no i ciarlatani, 56; Chi votava per Hitler?, 57; Un’intuizione di

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Gramsci, 59; fi la coalizione, stupido!, 62; Coalizioni potenziali
ed effettive, 64; Risultati elettorali per i principali partiti, 64

70 6. La filologia dell’odio
Un giornale per la Verità, 72; Piccola posta dell’odio, 75; Il po-
tere della lagna, 77; Bagatelle per un massacro, 79; Questione
di nomi, 81; La Nomenclatura dell’odio, 83

86 7. Il lupo si traveste da agnello


Il lento suicidio del Parlamento, 87; Zitti per carità di patria,
90; Né leader né Congresso per l’opposizione, 93; Come furono
addomesticati i sindacati, 95; Carinerie verso gli ebrei, 96; Nes-
suno mi può giudicare, 98; Un “uomo di pace”, 101

106 8.Uomini che odiano i giornali


Contro puttane e pennivendoli, 108; La conquista della Rai,
pardon della radio, 111; Come misero in riga la stampa “bugiar-
da”, 113; I conti in tasca agli eredi dell’editore, 115; Stampa
ebraica in perfetta armonia col governo, 118; Tradizione di lin-
ciaggi mediatici, 120; Indigestione di scandali finanziari, 122

126 9. Come fu comprato il popolo


Volk qua, Volk là, 128; Il reddito di cittadinanza, 130; “Investi-
re nella felicità!”, 133; Onesti ma mica tanto, 135; La rapina
delle pensioni, 137; Il prezzo del consenso, 138

142 10. Mefistofele all’Economia


Sorvegliata speciale sul debito, 143; La fine del contratto di gover-
no, 145; Un’invenzione diabolica, 147; La fine dei “tecnici”, 151

153 11. Pronostici e profezie


Ricatti a mezzo profezia, 159; Contare fino a mille, 163

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167 Letture su 1933 e dintorni
Il boom anni trenta, 167; Le elezioni, 169; Il populismo al
go- verno, 170; Rossobrunismo, 172; Caro Diario, 172; fi la
stam- pa, bellezza!, 175; Ebrei come immigrati, 176;
L’enigma del consenso, 176; Nessuno mi può giudicare, 177;
Misteri dell’e- conomia, 178; Mancati pronostici e vecchie
profezie, 179

181 Indice dei nomi

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