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Sindrome 1933
02/04/19
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione in “Varia” maggio 2019
ISBN 978-88-07-49257-0
www.feltrinellieditore.it
Libri in uscita, interviste, reading,
commenti e percorsi di lettura.
Aggiornamenti quotidiani razzismobruttastoria.net
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Sindrome 1933
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1.
Cose già viste nel ’33
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un certo punto era corsa voce che le trattative per il nuovo
governo si erano rotte, e che Hitler era già ripartito per
Mo- naco. L’ambasciatore britannico aveva già informato il
suo governo che il presidente si apprestava a dare l’incarico
un’al- tra volta a von Papen. In effetti le trattative
proseguivano in modo concitato.
Fra le 9 e le 10 i due massimi esponenti dello Stahlhelm
(gli Elmetti d’acciaio, la potente associazione
ultranazionalista e conservatrice degli ex combattenti),
Theodor Dü sterberg e Franz Seldte, si recarono
nell’appartamento di Papen al mi- nistero degli Interni.
Papen cercò di convincerli a entrare in un governo di
coalizione presieduto da Hitler. Gli disse agi- tato: “Se per
le 11 non sarà insediato il nuovo gabinetto, in- terverrà
l’esercito. C’è la minaccia di una dittatura militare sotto
Schleicher”. Più tardi arrivarono anche Hitler e Gö ring.
Dü sterberg non li salutò nemmeno. Non perdonava il modo
in cui la stampa nazista durante le Presidenziali del 1932 lo
aveva attaccato dandogli dell’“ebreo” (ebreo in ef- fetti era
per parte di uno dei suoi nonni, che poi si era fatto
battezzare, ma questo fino a quel momento Dü sterberg
neanche lo sapeva). Hitler gli si avvicinò e gli giurò di non
aver mai autorizzato, tanto meno ordinato, quegli attacchi
personali. Disarmato dal gesto, Dü sterberg lasciò cadere le
obiezioni alla partecipazione di un rappresentante dello
Stahlhelm al governo. A ministero donato non si guarda in
bocca. Seldte accettò con entusiasmo il ministero del Lavoro.
Continuarono a trattare nervosamente nell’anticamera
del presidente della Repubblica, dove erano stati convocati
per le 11. Hitler faceva promesse, dava rassicurazioni a tutti.
Il conte Schwerin von Krosigk, un tecnico che aveva già ser-
vito nei precedenti governi, era stato chiamato, ma non sape-
va ancora perché. Solo all’ultimo istante gli dissero che lo
volevano ministro delle Finanze. Pose una sola condizione,
che gli consentissero di tenere i bilanci in ordine, non gli fa-
cessero sforare il deficit. Lo rassicurarono, sapendo di men-
tire. Hugenberg, il leader dei nazionalpopulisti, nonché pa-
drone di metà della stampa, aveva fatto man bassa di
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ministeri. Ma minacciò di mandare tutto a monte appena
qualche minuto prima del previsto giuramento: non gli ave-
vano detto che Hitler aveva già deciso di convocare subito
nuove elezioni politiche. Temeva, a ragione, che in tal caso il
suo Partito nazionale del popolo tedesco finisse asfaltato.
Hitler dette la sua parola d’onore che, qualunque fosse stato
il risultato delle elezioni, la composizione del governo sareb-
be rimasta invariata. Hugenberg restava sulle sue: niente ele-
zioni anticipate. “Come puoi dubitare della parola d’onore
di un tedesco?” intervenne Papen. Hitler mentiva. Papen
mediava, blandiva, e mentiva anche lui. Il battibecco cessò
solo quando il capogabinetto della Presidenza della Repub-
blica, Otto Meißner, entrò con l’orologio in mano a dire
che non si poteva più far attendere il Presidente. A prestare
giu- ramento a mezzogiorno fu Hitler. Aveva quarantatré
anni.
È contro ogni regola anticipare prima del dovuto come
va a finire una storia, chi sono i colpevoli, che fine fanno i
personaggi principali. Ma non resisto a dirvelo subito, qui, a
costo di fare lo spoiler, rovinare la suspense. Dei contraenti
originali del “contratto” di governo ne sopravvisse uno solo,
fagocitando l’altro. La partecipazione di Hugenberg al go-
verno sarebbe durata meno di sei mesi, da gennaio a giugno.
Il suo Partito nazionale del popolo tedesco si sarebbe di-
sciolto nel Partito nazionalsocialista. Alla fine gli avrebbero
portato via anche i giornali. Ma conservò il seggio e l’inden-
nità da deputato fino al 1945. “Ho fatto la più grossa
stupi- daggine della mia vita. Mi sono alleato col peggior
demago- go della storia…”, è l’affermazione che gli viene
attribuita. Forse è apocrifa, forse lui non lo disse o non lo
disse con queste parole. Di certo è veritiera.
Il leader dei “nazionalisti con l’elmetto”, Dü sterberg, sa-
rebbe sopravvissuto per un pelo alla resa dei conti della
“Notte dei lunghi coltelli” nel 1934. Poi sarebbe finito in
campo di concentramento per aver criticato il governo. Ave-
va pure la colpa di essere mezzo ebreo. Seldte, passato anima
e corpo ai nazisti, sarebbe rimasto ministro del Lavoro fino
alla fine del Terzo Reich.
Papen, l’apprendista stregone che aveva fatto Hitler can-
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celliere pensando di metterlo nel sacco, scampò anche lui di
misura alla “Notte dei lunghi coltelli”. Si era messo di traver-
so a Hitler con il discorso del giugno 1934 all’Università
di Marburgo in cui condannava “il falso culto della
personali- tà ”, il “fanatismo dei fanatici dottrinari”,
l’intolleranza a qualsiasi critica. I suoi principali
collaboratori, a cominciare da Edgar Jung, che aveva scritto
il discorso di Marburgo, ci avrebbero rimesso la pelle. Lui
invece riuscì a farsi perdona- re e a sopravvivere. Ebbe un
incontro chiarificatore con Hit- ler, di quelli del tipo “una
telefonata ti salva la vita”, e fu perdonato. Forse perché il
cancelliere non voleva provocare il presidente della
Repubblica. Hindenburg era vecchio e malato, ma aveva
autorità sull’esercito. Correva ancora una volta voce che
avrebbe dichiarato la legge marziale se Hitler non avesse
messo freno alle violenze delle SA. Hitler fece ammazzare
il leader delle SA, Rö hm, e l’intero suo stato maggiore,
risparmiò Papen. Papen, dimesso dal governo, continuò a
servirlo in ginocchio da diplomatico. Firmò , as- sieme al
cardinale Pacelli, il Concordato tra la Germania na- zista e il
Vaticano di Pio XI, in pratica l’atto di decesso del Zentrum
cattolico. Fu ambasciatore a Vienna a preparare
l’Anschluss, poi ad Ankara, a cercare di trascinare la Turchia
in guerra a fianco della Germania, senza però riuscirci. Finì
sul banco degli accusati a Norimberga. Ma non aveva perso
l’abitudine di cadere sempre in piedi: fu assolto e liberato in
Appello.
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dell’8 per cento, aveva il triplo di ministri dei nazionalsociali-
sti. Cumulava i ministeri dell’Economia, dello Sviluppo e
dell’Agricoltura, sia del Reich che della Prussia. Faceva l’en-
plein dei serbatoi di consensi e clientele, si arrogava il ruolo
di Wirtschaftsdiktator, zar dell’Economia. Gli altri ministri,
compresi Difesa ed Esteri, erano “tecnici” graditi al Presi-
dente. Papen, il cattolico di destra che era stato l’artefice di
tutta l’operazione, aveva tenuto per sé il ruolo di vicecancel-
liere, nonché di commissario per la Prussia.
Hitler e Hugenberg insieme avevano 248 seggi su 584.
Per avere la maggioranza gliene sarebbero occorsi almeno
un’altra quarantina. Questa la ragione per cui la lista dei mi-
nistri era incompleta: avevano lasciato vuoto il ministero
del- la Giustizia nella speranza di imbarcare anche il
Zentrum cattolico moderato di monsignor Ludwig Kaas, 75
deputati. Non ci sarebbero riusciti. I cattolici non
entrarono nel go- verno Hitler, ma gli avrebbero poi votato
la riforma costitu- zionale che gli consentiva di fare a meno
del Parlamento.
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Quel giorno di lui abbiamo immagini in doppiopetto e
cravatta. Non siamo abituati alle foto di Hitler in
borghese. Ce ne sono. Ma lui preferiva quelle in cui lo si vede
in unifor- me. La sua era un’uniforme da Fü hrer, concepita
per lui so- lo. Anche al colmo del delirio di onnipotenza non
si sarebbe mai permesso di travestirsi con uniformi che non
gli spetta- vano, mettiamo una divisa da generale della
Wehrmacht o della Polizia di Stato.
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Anche questo era abituale. “Berlino era in uno stato di
guerra civile. L’odio esplodeva improvvisamente, senza al-
cun preavviso, da episodi in apparenza insignificanti. Agli an-
goli delle strade, nei ristoranti, nei cinema, nelle sale da
ballo, nelle piscine; a mezzanotte, a mezzogiorno, nel
pomeriggio. I coltelli balzavano fuori all’improvviso: si
picchiavano coi tira- pugni, coi boccali di birra, con le gambe
delle sedie, coi basto- ni piombati. Le pallottole sfregiavano
gli annunci sulle colon- ne pubblicitarie, rimbalzavano
sulle tettoie di ferro dei vespasiani.” La violenza era
all’ordine del giorno. Anzi è l’idea stessa che ci siamo fatta di
Weimar. Grazie anche a pagine co- me questa di Christopher
Isherwood. Sono abbastanza vec- chio da aver vissuto
momenti che “somigliavano” a questo aspetto del ’33: il ’68,
gli anni di piombo, la strategia della tensione, i colpi di
Stato dei militari per riportare l’ordine: Cile 1973, Turchia
1980. Succede ancora, ma non da noi, non dalle nostre
parti, non in questo momento. O almeno così pensavo
finché ho visto in tv, sabato dopo sabato, le im- magini degli
scontri con i Gilet gialli in Francia.
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tinuavano a prendersela con i socialdemocratici, i socialde-
mocratici coi comunisti. A litigare, gli uni con gli altri e
cia- scuno coi propri compagni di partito. Non c’era verso
che concordassero un’iniziativa comune. Si trovarono
d’accordo su pochissime cose: che un governo Hitler sarebbe
durato poco, come erano durati poco i governi precedenti. E
che tra i firmatari del patto di governo, il “reazionario”
Hugenberg fosse di gran lunga più pericoloso del
populista Hitler.
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l’Organizzazione centrale degli ebrei tedeschi fece un comu-
nicato nel quale, pur ovviamente diffidando di Hitler, si
di- ceva convinta che “nessuno oserà toccare i nostri diritti
co- stituzionali”.
N’importe quoi, come dicono i francesi. Un florilegio infi-
nito di stupidate dette da persone serie, sagge, esperte. Avre-
ste scommesso che sapevano il fatto loro. E invece più erano
autorevoli meno la imbroccavano. Ci sarebbe da ridere, a ri-
leggere gli interventi dei massimi dirigenti del Partito social-
democratico, se molti di quelli che erano convinti che Hitler
fosse un fenomeno passeggero non avessero poi pagato tra-
gicamente, di persona, nelle camere di tortura, in prigione,
nei campi di concentramento in cui venivano rinchiusi “per
la loro stessa protezione”, braccati in Germania e nell’esilio,
assassinati dopo essere stati consegnati dal governo di Vichy
alla Gestapo.
In confronto, la reazione del Partito comunista alla nomi-
na di Hitler è assai più trucida: “Spudorata rapina dei salari,
terrore senza limiti da parte della Peste bruna assassina, at-
tacco ai residui diritti delle classi lavoratrici, a passo di corsa
verso la guerra imperialista: ecco quel che ci riserva l’imme-
diato futuro”. Dogmatici ma profetici, verrebbe da dire.
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L’appunto per il 28 gennaio 1933, due giorni prima della
nomina di Hitler, è però dedicato a tutt’altro tema. Ci fa
sa- pere che è tempo di carnevale, “la stagione dei balli in
ma- schera è in pieno svolgimento”. Lo portano in un
locale che gli ricorda il Jazz Palace di Broadway, tre
enormi saloni, ognuno con un’orchestra diversa. In sei
bevono tre bottiglie di vino, se ne vanno alle 3 del mattino, le
danze continuano fino alle 5. Il giorno dopo
l’appuntamento è alla manifesta- zione al Lustgarten, dove
sfilano le milizie socialdemocrati- che, dei sindacati e quelle
cattoliche. Inquadrati e in unifor- me al pari di quelle naziste,
con il vessillo rosso-nero-oro del Reichsbanner.
Curiosa, tra le notazioni non politiche, anche quella data-
ta 22 dicembre. Ci fa sapere che Berlino è in fermento per la
stagione degli acquisti di Natale. Sta andando alla grande.
I negozi sul Kurfü rstendamm non erano mai stati così
affolla- ti. Per la prima volta i negozianti avevano chiesto alle
autori- tà il permesso di tenere aperto anche la domenica.
Solo che i comunisti avevano indetto manifestazioni di
protesta anche contro l’apertura dei negozi. “La logica di
questo mi sfugge. Sarò anche stupido, ma non vedo che
vantaggio gliene possa venire.”
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stopher Isherwood, Stephen Spender, sono tra gli osservato-
ri più attenti e sensibili di quel che sta succedendo a Berlino
in quei giorni. Addio a Berlino e Il signor Norris se ne va sono
miniere di spunti. “La situazione politica è molto noiosa”,
scriveva Isherwood a metà gennaio da Berlino all’amico
Spender tornato a Londra. “Sì, immagino che stiano
succe- dendo un sacco di cose dietro le quinte, ma non
sempre ci si rende conto. Papen visita Hindenburg, Hitler
visita Papen, Hitler e Papen visitano Schleicher,
Hugenberg visita Hin- denburg e scopre di essere fuori dai
giochi. E così via andan- do. Non c’è più quella
consapevolezza leggermente esilaran- te della crisi nei gesti
dei mendicanti e dei tramvieri.” Quando poco dopo Hitler
va al potere, aggiorna l’amico: “Abbiamo un nuovo
governo con Charlie Chaplin e Babbo Natale”. “Hitler ha
formato un governo con Hugenberg. Nessuno pensa che
possa durare fino a primavera”, l’annota- zione di poco
successiva.
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se apparso meno che obiettivo su Hitler. La maggior parte
dei commentatori, sia in Germania che all’estero, erano
convinti che fosse stato Papen a mettere nel sacco Hitler, e
non vicever- sa. Tutti davano per scontato che a tirare le fila
nel governo fosse Hugenberg, non Hitler.
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2.
Analogie e scaramanzia
Breve nota sul perché di questo libro
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tifiche” avanzate nel tempo, di cui ben ventidue negli ultimi
tre decenni.
In realtà la storia, ammesso che si ripeta, non si ripete
mai allo stesso modo. Allora perché occuparsi di come ot-
tant’anni fa la Germania precipitò nel Terzo Reich quasi sen-
za accorgersene, con noncuranza, sbadatamente, per molti
addirittura con entusiasmo, per alcuni persino con una certa
allegria? Perché riaprire un cold case, un dossier chiuso e se-
polto, una storia ormai passata in giudicato?
È una storia molto raccontata. In tutte le maniere. Ma non
per questo conosciuta. Cercando su internet sono incappato
per caso in una puntata di qualche anno fa del gioco tv L’Ere-
dità, allora condotto da Carlo Conti. La domanda è: in
quale anno fu nominato cancelliere Adolf Hitler? C’è da
scegliere tra quattro riposte: 1933, 1948, 1964, 1974. La
prima con- corrente risponde: 1948. Il secondo, con qualche
esitazione: 1964. La terza, a quel punto con grande
sicurezza: 1974. Solo la quarta dice 1933, perché è rimasta
una sola scelta, ed è im- possibile sbagliare, ma con un
sorriso imbarazzato, un’into- nazione di dubbio nella voce,
come se dovesse scusarsi di una risposta assurda. Non va
meglio per la domanda successiva: in quale anno Mussolini
incontrò il poeta Ezra Pound a Pa- lazzo Chigi? La risposta
giusta è sempre 1933. Ancora una volta i concorrenti le
sbagliano tutte. Non è una barzelletta, andare a guardare su
YouTube per credere. I concorrenti non sono “coatti”, sono
ragazzi e ragazze normali, dalla faccia pu- lita. Sono vestiti
in modo sobrio e ricercato. Si capisce che hanno studiato,
sono andati a scuola, magari all’università. Sono giovani in
apparenza preparati, che leggono, vanno al cinema,
guardano la televisione, altrimenti non partecipe- rebbero a
un gioco a quiz. Hanno probabilmente superato la prova di
storia alla maturità, a nessuno passava ancora per la mente
di abolirla.
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avanzata democrazia dell’Europa di quei tempi, mi sono im-
battuto in indizi insospettati, cose che non conoscevo o ave-
vo trascurato, in rassomiglianze, analogie cui non avevo fatto
caso. Il sostantivo femminile “sindrome” indica in medicina
una serie di sintomi e segnali che costituiscono le concause
di una malattia o processo degenerativo. Il nostro mondo è
molto diverso da quello del 1933. Ma alcuni sintomi, segnali,
processi, atteggiamenti si assomigliano. Non sono identici,
ma si evocano in qualche modo. Più proseguivo nell’indagi-
ne, più la vittima, la Repubblica di Weimar, aveva un volto
vagamente famigliare. E così ce l’avevano i suoi assassini. E
c’era qualcosa di simile nelle modalità del delitto.
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te di male se lo fosse. Anche negli anni venti e trenta era stata la
letteratura (da Joseph Roth a Dö blin, da Fallada a Tucholsky)
a raccontarci meglio e più in profondità di quanto facciano
gli storici. Non si intende sopperire all’immensa mole di
ricerche storiche già pubblicate sull’argomento, di cui però si
è tenuto conto, comprese quelle più recenti. Nullum iam
dictum, quod non dictum sit prius, non vi si dice nulla che
non sia stato già detto, o pubblicato, potrei dire con
Terenzio. Questo è un libro che compie una scelta, come dire,
faziosa, parziale: tra i fatti e gli argomenti privilegia quanto
può richiamare al lettore vicen- de, cronache e polemiche
della nostra attualità. Ogni riferi- mento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente inten- zionale, parafrasando
l’avvertenza che compariva in testa ai vecchi film. Personaggi,
detti e fatti del passato evocano voluta- mente fatti, formule,
personaggi orecchiati nella nostra attuali- tà. Ma è inutile che
cerchiate corrispondenze precise, univo- che, speculari, tra
questo o quel personaggio di allora con i loro analoghi di oggi.
Può darsi che qualche personaggio dei nostri giorni si ritrovi
nei detti, nei fatti e nei misfatti di quelli di allo- ra. Gli è
consentito adombrarsi. Ma non illudersi: i cattivi di allora
sono inarrivabili, a provare a rispecchiarsi ci si rende solo
ridicoli.
O almeno lo spero. Quella di allora è un’altra storia, con-
tinuo a ripetermi. È un incubo da cui abbiamo sempre cerca-
to faticosamente di svegliarci. E sembrava persino ci fossimo
riusciti. Provo a cullarmi nel confortevole detto, reso celebre
da Marx, che la storia si ripete sempre due volte, la prima
volta come tragedia, la seconda come farsa. E se invece non
fosse proprio così? Se l’ordine fosse invertito, prima la comi-
ca, poi il disastro? Se si ripetesse due volte, e di seguito,
ed entrambe le volte come tragedia? (Non è inusuale, anzi è
l’e- sito più probabile: così fu la Prima guerra mondiale,
seguita solo vent’anni dopo dalla Seconda.) Gli incubi del
passato scalciano nel futuro. E se inaspettatamente un
incubo da cui ci eravamo risvegliati da tempo, che quasi non
ricordiamo più , si mettesse a scalciare come un mulo, ci
tirasse una gra- gnuola di calci micidiali?
Certo che non siamo nel ’33. E nemmeno nel ’29. Non
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c’è stata, incrociando le dita, una catastrofe economica mon-
diale. Per quanto protezionismi ed egoismi nazionali ce la
stiano mettendo tutta. Non sembrano profilarsi all’orizzonte
guerre mondiali e stermini di massa. A essere onesti,
sembra- vano inconcepibili anche nell’Europa degli anni
trenta. Così come nella Belle É poque non ci si aspettava la
Grande car- neficina del ’14-’18. L’Europa è in crisi. Ma
non si può dire che ci sia fuga dalla libertà e dalla
democrazia. Nemmeno nell’America di Donald Trump.
Ci sono, in molti paesi, leader poco raccomandabili,
arri- vati al potere sull’onda di un voto popolare. È ridicolo
pensa- re di poterli esorcizzare paragonandoli al Duce e al
Fü hrer. Non sono un fautore del metodo che il
conservatore Leo Strauss definiva “reductio ad hitlerum”.
Oltre a essere fallace sul piano logico e storico, è pure
controproducente. Quel che non ammazza ingrassa, dice la
saggezza contadina. Senza con- tare che a gridare troppo di
frequente “al lupo al lupo” si ri- schia che nessuno presti
più attenzione quando il lupo magari arriva per davvero. Non
mi fanno paura i quattro imbecilli che inneggiano al passato
fascista o nazista. Un po’ di più quelli che fanno finta di non
sapere cosa dicono e cosa fanno, quelli del: “Non intendevo
dire…”, “Fascista io?”. Mi preoccupa una specie di coazione
a ripetere involontaria, il riaffacciarsi di dinamiche,
meccanismi che avevano portato al disastro la Germania di
Weimar, e con lei l’intera Europa.
Temo il presente che imita il passato inconsapevolmente,
senza volerlo, magari senza neanche accorgersene. Ecco per-
ché sono andato in cerca di analogie. Non come
strumento di polemica o propaganda, ma come strumento di
compren- sione. Le analogie sono per definizione imperfette.
Possono essere, anzi sono, superficiali. Possono portare fuori
strada. Eppure non possiamo farne a meno. La mente
umana fun- ziona per analogie. La sopravvivenza della
nostra specie non sarebbe possibile se fossimo incapaci di
fare analogie. La lo- gica e la scienza sono sempre andate
avanti per analogie. Le analogie si sono sempre rivelate uno
strumento potentissimo per capire e distinguere, cioè
l’esatto contrario del fare di ogni erba un fascio.
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3.
Europa, dica 33
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scussione su “gli equilibri dell’Europa, nel 1933…”. E
quel- lo imperterrito, a raccontargli per l’ennesima volta,
“mentre svuota il decimo bicchiere di vodka”, delle miserie
patite sot- to l’occupazione russa. I polacchi non ce l’hanno
solo con i russi e i tedeschi, ce l’hanno anche con il resto
dell’Europa, che non capisce quanto loro hanno sofferto:
“Capireste se aveste subito centocinquanta anni di
schiavitù !”.
Il viaggio lo porterà anche in Germania, nei Paesi
nordi- ci, in Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania…
Un’in- digestione di paesi del Patto di Visegrá d, diremmo
oggi… Poi per nave attraverso il Mar Nero, in Ucraina, in
Russia, a Batum (dove attingerà il materiale per La finestra
di fronte)… E infine in Turchia, a Istanbul e Ankara (che gli
forniranno il materiale per I clienti di Avrenos). A
Costantinopoli (la città da qualche anno ha ripreso il
nome turco: Istanbul, ma Si- menon continua a datare così
nel reportage), prende il vapo- retto sul ponte di Galata e
va a intervistare Trotsky, che si trova in esilio sull’isoletta
di Prinkipo.
Parlano di Hitler, di fascismi, e di dittature e democrazie
in Europa. Trotsky considera inevitabile che le cose vadano
di male in peggio. Per spiegarlo all’intervistatore ricorre a
un’immagine meccanicistica: “Per analogia con l’elettrotec-
nica, si potrebbe definire la democrazia come un sistema di
interruttori ed isolatori per far fronte ai picchi di tensione
nei conflitti nazionali o sociali… Se le tensioni e le
contrad- dizioni di classe sono eccessive, interruttori e fusi
si fondo- no, si sbriciolano… Il corto circuito porta alla
dittatura”.
Alla domanda se ritiene che le cose possano continuare
ad evolversi gradualmente o ritiene più probabile una scossa
violenta, la risposta è molto diversa da quella che la maggior
parte dei commentatori – sia tedeschi che nel mondo – ave-
vano dato all’indomani dell’ascesa di Hitler al governo: “Il
fascismo, in particolare il fascismo tedesco, porta all’Europa
un’incontestabile pericolo di guerra. Mi posso sbagliare, or-
mai io sono in disparte, ma mi sembra che non ci si renda
conto abbastanza dell’estensione di questo pericolo. In una
prospettiva non di mesi ma di anni – in ogni caso non di
de- cine di anni – considero come assolutamente
inevitabile
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un’esplosione guerriera da parte della Germania fascista”.
Questo nel ’33. Quasi una profezia. L’invasione della Polo-
nia e la guerra contro Francia e Inghilterra sarebbero scop-
piate nel settembre 1939, l’operazione Barbarossa contro
l’Unione Sovietica sarebbe stata lanciata nel giugno 1941.
L’Europa venuta fuori dalla Grande Guerra era compo-
sta di ventotto Stati indipendenti. Uno più uno meno, sup-
pergiù lo stesso numero di paesi che attualmente fanno
parte dell’Unione Europea. Con problemi, recriminazioni,
spac- cature politiche ed etniche all’interno, divisione per
blocchi contrapposti che somigliano a quelli attuali.
Soprattutto a Est. Molti erano Stati nuovi, nati dal crollo
degli odiati im- peri autocratici e multinazionali (i quali
reprimevano brutal- mente i nazionalismi, però
consentivano, anzi imponevano, la convivenza di nazioni,
etnie e religioni diverse). Ancora nel 1920, ventisei di
questi ventotto Stati avevano Parla- menti
democraticamente eletti, una molteplicità di partiti, governi
costituzionali. Poi già nel 1920 l’ammiraglio Horthy si era
sostituito al tentativo di “dittatura del proletariato” della
rivoluzione di Béla Kun, pur rispettando Parlamento e
Costituzione. L’Unione Sovietica nata dalla Rivoluzione di
Lenin non era certo una democrazia parlamentare. Nel 1922
c’era stata in Italia la Marcia su Roma di Benito Mussoli-
ni. Il maresciallo Piłsudski si era impadronito della Polonia.
Nel 1932 l’Austria era caduta in mano all’estrema destra di
Dollfuss. A sistemi autoritari sarebbero passati, uno dopo
l’altro, i piccoli Paesi Baltici: la Lituania nel 1926 con
Sme- tona, la Lettonia e l’Estonia nel 1934, rispettivamente
con Ulmanis e Pä ts. Nei Balcani, Ahmet Zogu si era
proclamato re Zog I di Albania nel 1928, re Alessandro
aveva assunto il controllo della Jugoslavia nel 1929, in
Bulgaria re Boris avrebbe assunto i pieni poteri nel 1934, in
Romania re Carol avrebbe fatto a meno del Parlamento dal
1938 in poi. Dal 1936 la Grecia di Metaxas si sarebbe
organizzata su imita- zione del regime nazista in Germania.
In Spagna Primo de Rivera avrebbe esercitato la sua
dittatura personale dal 1923 al 1930 (seguita dalla dittatura
di Francisco Franco, dopo la breve e tragica esperienza
della Repubblica). In Portogallo
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la dittatura iniziata dal dottor Antó nio Salazar sarebbe dura-
ta dal 1932 alla Rivoluzione dei garofani del 1974. Nel 1938
di democrazie in Europa ne restavano appena una dozzina,
tutte minacciate da esplosioni di populismo, fomentate an-
che da una specie di “internazionale sovranista”. La Francia
e la stessa Inghilterra furono lì lì per cascarci, furono scosse
da movimenti antisistema, antisemiti e anti-immigrati, an-
ticapitalismo e anticorruzione, o anche apertamente filofa-
sciste, che attraevano simpatie, militanza, consensi elettorali
sia da destra che da sinistra. La Francia se la sarebbe cavata
grazie al sussulto delle elezioni del 1936 che portarono inve-
ce al governo il Front Populaire. L’Inghilterra grazie al fatto
che il matrimonio malvisto con l’americana divorziata Wallis
Simpson costrinse all’abdicazione Edoardo VIII, cui piace-
va Hitler. Negli Stati Uniti avevano evitato per il rotto
della cuffia di avere un presidente tipo Trump. Nel 1932 era
stato eletto il democratico Franklin Delano Roosevelt.
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settimana prima delle elezioni, che si sarebbero tenute il sa-
bato. Ho telegrafato la notizia a Parigi al giornale della sera.
Non hanno osato pubblicarla…”.
Simenon se la prende con i titoli gridati dei giornali
eu- ropei (La Miseria in Germania, Il terrore in Germania).
For- se ce l’ha con Marc Orlan, l’autore del Porto delle
nebbie, il romanzo da cui Marcel Carné trasse l’omonimo
film. Orlan aveva pubblicato su “Paris-Soir” dei reportage
sulla mise- ria a Berlino, che poi erano usciti in volume
con disegni di Grosz. Certamente non prevede il terrore
totale che le squa- dracce naziste, arruolate in massa nella
polizia del Reich, avrebbero di lì a poco esercitato contro
comunisti, ebrei e tutti gli altri avversari, compresi i loro
soci nel governo. È in buona compagnia: anche una
militante operaista come Si- mone Weil scriveva in quei
giorni ai genitori dalla capitale tedesca che Berlino è la città
più calma del mondo, vive in una situazione di attesa.
Simenon irride agli editoriali sul perché “è impossibile
che prevalga il partito della violenza”, alle valutazioni con-
traddittorie del fenomeno Hitler: “È l’uomo di Papen! È
l’uomo del Principe della Corona! È l’uomo di Hugenberg!
È un fantoccio! È il nuovo Siegfried!”. Soprattutto vede
un’incongruenza tra tutte queste valutazioni e il consenso
crescente che percepisce attorno a Hitler.
Azzarda un tentativo di spiegazione: “Il governo? Il so-
cialismo? Il bolscevismo? La politica internazionale?”. Mac-
ché. Il mito di Hitler si alimenta di débauche sessuale. “Si
fermano per strada ragazzini e ragazzine di sedici,
diciassette anni per organizzare orge. Un ragazzo è stato
ucciso dal fra- tello in una crisi di gelosia. Il macellaio
Haarmann faceva a pezzi nella sua macelleria le piccole
vittime che violentava. E poi il maniaco sessuale di
Dü sseldorf…”
Il riferimento è a Fritz Haarmann, detto anche “il Lupo
mannaro di Hannover”, notissimo personaggio della crona-
ca nera. Adescava ragazzi di strada nei dintorni delle stazioni
ferroviarie. Li uccideva mordendoli alla gola, nella frenesia
dell’atto sessuale. Poi li faceva a pezzi. Durante il processo,
seguito dall’opinione pubblica con attenzione morbosa ai
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dettagli, si era sparsa la voce che avesse venduto la carne
del- le sue vittime al mercato nero, spacciandola per carne
di maiale. Questo non fu provato, così come non fu mai
accer- tato se le vittime erano state ventiquattro, o
ventisette, o un numero ancora maggiore. Era stato
giustiziato nel 1925, ma se ne parlava ancora. Più fresco
era il processo a Peter Kü rten, che preferiva violentare e
uccidere bambine preado- lescenti. Le stuprava, tagliava
loro la gola con un coltello o con delle forbici, e poi ne
beveva il sangue. Gli furono attri- buiti oltre una trentina di
omicidi commessi tra 1929 e 1930. Pare che fosse stato lui
stesso a condurre la polizia sulle pro- prie tracce, come
avviene spesso nella serie tv americana Cri- minal Minds.
Arrestato nel maggio 1930, fu decapitato nel luglio del
1931, dopo un processo seguito in modo morboso. Tra
arresto ed esecuzione di Kü rten c’erano state le elezioni per
il Reichstag del 1930, quelle in cui per la prima volta ave- va
sfondato il partito di Hitler.
Torniamo al reportage di Simenon. “Che cosa vi dice-
vo un attimo fa? Ah sì. Le partouzes, il nudismo, il tasso di
usura, il freudismo, i ragazzini e le ragazzine, lo squilibrio e
la febbre, lo sport, l’eroina, la cocaina, e chissà cos’altro…
Ebbene, ci sono alcune decine di milioni di tedeschi che
hanno l’impressione che tutto questo è finito, che hanno ri-
trovato un equilibrio… Hitler li ha messi in riga…”. Sime-
non trascura una cosa sola: che per i nazisti il debosciato,
il maniaco sessuale, il serial killer, il perverso, il corruttore
di ragazzini e ragazzine innocenti è per definizione l’ebreo.
“Pensate a Berlino, affacciatevi sulla Friedrichstrasse. E lì
vedrete passare un ragazzo ebreo dopo l’altro avvinghiato a
una ragazza tedesca. E ricordatevi che ogni notte migliaia e
migliaia di sorelle del nostro sangue vengono contaminate,
vanno perse in un istante, e con loro perdiamo anche i nostri
figli e i nostri nipotini…” Chi l’ha detto? Chi è mai questo
maniaco? Avete indovinato: nient’altri che Hitler in perso-
na, nel discorso pronunciato in occasione della ricostituzio-
ne del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, il 25
febbraio 1925, otto anni prima che lo facessero cancelliere.
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La foto del mostro in pagina
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to. Anche questo è solo uno dei moltissimi dipinti che Grosz
dedica al Frauenmörder, il femminicidio. Lui e la bellissima
Eva si sarebbero poco dopo sposati. Si salvarono salpando
per l’America a metà gennaio 1933. Il dipinto sarebbe finito
nel mucchio di quelli bollati dai nazisti come “arte degenera-
ta”. È andato perso, ne è rimasta solo una foto in bianco e
nero.
Il tema ricorre ossessivo anche nella letteratura, nel cine-
ma. Finisce fatta a pezzi da un maniaco cui sta per prostituir-
si la Lulu già concepita da Wedekind a fine Ottocento, poi
interpretata da Louise Brooks nel film di Pabst del 1929. Del
1931 è il film M di Fritz Lang, impareggiabilmente interpre-
tato da Peter Lorre nei panni dell’assassino di bambine. A
dargli la caccia sono, in gara gli uni con gli altri, la polizia e le
bande criminali del quartiere, perché il Mostro disturba i lo-
ro traffici. Arriveranno primi a catturarlo i criminali, verrà
processato da un tribunale di ladri, prostitute e assassini.
Negli stessi anni in cui la detective story americana creava i
suoi investigatori privati puri e duri, irriducibilmente indivi-
dualisti, la fantasia del tedesco Lang anticipava l’isteria col-
lettiva, la delazione di massa, la caccia agli ebrei e agli altri
che sarebbero stati additati come mostri dal regime. “Visto il
film M di Lang. Fantastico! Contro la spazzatura umanitaria.
A favore della pena di morte! Un giorno o l’altro Lang sarà
dei nostri” annotò Goebbels in data 21 maggio 1931, dopo
aver visto il film al cinema.
Lang poi raccontò che, divenuto ministro della Propa-
ganda nel 1933, Goebbels l’avrebbe chiamato e gli avrebbe
offerto di dirigere l’industria cinematografica tedesca. Lui
avrebbe obiettato: “Ma sono ebreo!”. Al che Goebbels
avrebbe replicato: “Non faccia lo stupido, Herr Lang! Qui
decidiamo noi chi è ebreo e chi no!”. Lang a questo punto
si sarebbe precipitato alla stazione e sarebbe scappato in
esilio. Questa parte probabilmente è un’invenzione a
posteriori del grande regista, che di fantasia ne aveva da
vendere.
Uno dei personaggi chiave nell’Uomo senza qualità di
Musil è l’assassino Moosbrugger.
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Aveva ammazzato una donna, una prostituta di infimo grado, in mo-
do raccapricciante. I cronisti avevano descritto minutamente una fe-
rita al collo che andava dalla gola alla nuca, due coltellate al petto
che attraversavano il cuore, due al lato sinistro del dorso, e la
recisio- ne delle mammelle che erano quasi staccate; essi
esprimevano, sì, tutta la loro esecrazione, ma non rinunziavano a
elencare anche le trentacinque trafitture nel ventre, e il taglio che si
estendeva dall’om- belico fino quasi alla colonna vertebrale e si
prolungava in una quan- tità di tagli più piccoli su per la schiena,
mentre il collo recava segni di strangolamento.
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mann, nel 1924 era stato arrestato e si era suicidato in carce-
re a Mü nsterberg, nella Prussia orientale, un altro serial
killer, Karl Denke. Ammazzava e poi faceva a pezzi con l’a-
scia i vagabondi che bussavano alla sua porta. Solo dopo il
suicidio gli inquirenti si erano dati la pena di perquisire la
sua casa. Lì avevano scoperto centinaia di frammenti di ossa
umane, carne umana in salamoia e giare di grasso umano. Un
taccuino dell’assassino cannibale registrava scrupolosamen-
te i nomi di trentuno delle sue vittime. Non c’era stato
pro- cesso, e quindi se n’era parlato molto meno che dei casi
Ha- armann e Kü rten. Un grande e rispettato giornale liberal,
il “Frankfurter Zeitung”, aveva tirato in ballo addirittura
la crisi economica, ipotizzando che l’assassino si fosse dato
al cannibalismo per sopravvivere dopo che era stato
rovinato dall’inflazione.
L’atteggiamento della stampa variava secondo l’orienta-
mento politico. L’organo comunista “Rote Fahne” (Bandiera
rossa) si era pronunciato contro la condanna a morte del “lu-
po mannaro” Haarmann con l’argomento che il serial killer
in definitiva aveva fatto in piccolo nient’altro che quello che
“lo Stato capitalista” fa in grande: un massacro di innocenti.
Non era un atteggiamento isolato né estremo. Era comune
tra gli intellettuali dell’epoca di Weimar considerare i crimi-
nali come “vittime della società ”, “capri espiatori di una
so- cietà ipocrita”. Anche per gli assassini, persino per i
serial killer, le cronache giudiziarie cercavano spiegazioni
sociali, attribuivano le esplosioni di furia omicida a “fatali
concate- nazioni di eventi”, oppure alla Guerra,
all’Inflazione, all’In- giustizia. Prestavano attenzione ai
traumi e alle umiliazioni subite dagli accusati nella loro
infanzia e nel corso della loro vita travagliata. Li
psicoanalizzavano.
Non solo sui giornali di sinistra o liberal, anche su quelli
di destra. Daniel Siemens, uno studioso tedesco che ha pas-
sato in rassegna tutte le cronache giudiziarie apparse sui
giornali berlinesi dal 1919 al 1933, nota che Alfred Karrasch,
cronista giudiziario del “Berliner Lokal-Anzeiger”, uno dei
giornali dell’impero mediatico Hugenberg, esprimeva co-
stantemente simpatia per gli accusati, con la sola eccezione
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dei “comunisti”. Li definiva non delinquenti ma
“disperati”, “disgraziati”, “tragici buffoni”, “vittime del
destino”. Non era per niente di sinistra, e nemmeno
moderato: nel 1932 si sarebbe iscritto al partito nazista. Ma
alla pari dei suoi colle- ghi dei giornali liberal esprimeva
sentimenti di pietà, invoca- va clemenza per i malfattori. Così
facendo davano quasi l’im- pressione di volerli giustificare,
in qualche modo difendere. Si prestavano all’accusa di
stare più dalla parte dei delin- quenti che delle loro vittime,
delle quali in effetti sui giornali si parlava assai meno o per
niente.
La reazione fu violenta. Ci fu chi, come Ernst Jü nger, tac-
ciò l’eccesso di “umanità” dei cronisti giudiziari nei confron-
ti degli accusati come qualcosa “al limite della perversità”. I
giornali di destra martellavano contro la “confusione mora-
le”, il lassismo, la colpevole condiscendenza verso i delin-
quenti. Invocavano tolleranza zero, pugno di ferro. Non c’e-
ra neanche bisogno che qualcuno evocasse la castrazione per
i crimini sessuali. C’era già. Nel romanzo autobiografico po-
stumo di Hans Fallada, Il bevitore, il protagonista si
ritrova in cella con uno stupratore seriale al quale era stata
fatta ba- lenare la possibilità di essere liberato se si fosse
sottoposto a una castrazione volontaria. Lui accetta, ma i
giudici ci ripen- sano e lui resta in carcere. L’obiettivo
dichiarato dei nazisti era invece “lo sterminio dei criminali di
professione”. Parola del futuro capo della Polizia Kurt
Daluege. Il passo dallo sterminio dei criminali allo
sterminio per motivi di razza sa- rebbe stato breve. Anche
perché le due categorie venivano a sovrapporsi, finirono per
combaciare. Che tutte le grandi fir- me “buoniste”,
“umanitarie”, della cronaca giudiziaria aves- sero cognomi
ebraici divenne un’aggravante.
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4.
Ebrei, cioè immigrati
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possibilità di lavorare e di estrinsecare il proprio talento, è
giustizia…” Ma non sa cosa lo aspetta.
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allora ci vogliono male. Gli ebrei (o gli islamici, o i messicani,
o quelli che ce l’hanno con noi in Europa o nel resto del
mondo), sono stranieri. Quindi ce l’hanno con noi. Se sono
ebrei (o sono immigrati), allora sono anche criminali, ladri,
ricettatori, sfruttatori di prostitute, seduttori di fanciulle in-
nocenti, portatori di malattie, spacciatori di stupefacenti, sa-
botatori dell’economia nazionale, maniaci sessuali e assassi-
ni, e ovviamente terroristi.
Il “Decreto immigrazione”
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di propaganda in questo senso è il documentario Der Ewige
Jude, l’eterno ebreo, prodotto nel 1940. Ricorreva a dati, ta-
belle, animazioni, sovrapposizioni di immagini di migranti
laceri e topi immondi che scendono dai barconi, per illustra-
re “scientificamente” quanto fosse perniciosa l’invasione
dell’Europa da parte di una razza estranea proveniente dal
Medio Oriente. Lo si trova facilmente in internet. A me dà
una sferzata di déjà vu. Provare per credere. Comunque
sfondavano una porta aperta: bisogna che ci sia già una forte
predisposizione, un pregiudizio già radicato per suscitare
adesione così ampia ed entusiastica all’odio contro i diversi.
Era evidente che non si sarebbero limitati a chiudere
frontiere e porti agli indesiderati. Bisognava sbarazzarsi an-
che di quelli che erano già entrati, magari si annidavano da
generazioni. Oltre l’80 per cento degli ebrei residenti in Ger-
mania fino al 1933 aveva la cittadinanza. Si sentivano tede-
schi, a pieno titolo. Ne andavano fieri. Si erano integrati.
Molti erano convinti di non avere niente a che fare con quei
poveracci che continuavano ad arrivare dall’Est. La loro pa-
tria era la Germania. Alcuni avevano combattuto con onore,
si erano distinti nella Grande Guerra, avevano non solo me-
daglie ma cicatrici a riprova della lealtà alla nazione di cui si
sentivano parte. Molti avevano avuto successo, esercitavano
professioni prestigiose, erano professori, medici, avvocati,
giudici, scienziati. Alcuni erano diventati celebri anche a li-
vello mondiale. Non erano affatto emarginati. Anzi, faceva-
no parte a pieno titolo delle élite.
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me in un letto d’albergo pieno di cimici, non chiede a ogni
singola cimice: sei una cimice perbene o disonesta? la schiac-
cia e basta”.
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canti di carne umana”, associazioni criminali che reclutava-
no e sfruttavano immigrati, questuanti molesti e prostitute.
Nel settembre 1933 fu lanciata una gigantesca retata per “ri-
pulire Berlino da vagabondi e accattoni”. Ne arrestarono ed
espulsero 100.000 in un giorno solo. Fu la più grande opera-
zione di polizia e di arresti di massa che si fosse vista fino ad
allora in Germania.
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cominciò a impiccarli in piazza. Perché avrebbero dovuto
commuoversi quando infine si passò allo sterminio
sistemati- co e di massa?
Era svanita da un giorno all’altro la grande tradizione
“romantica” di simpatia verso i ribelli e i non integrati, dal
Schiller dei Masnadieri, al Michael Kohlhaas di Kleist, al
Brecht dell’Opera da tre soldi. Protagonista del romanzo La
ribellione di Joseph Roth è il mutilato di guerra Andreas
Pum, che realizza il suo sogno quando gli concedono la li-
cenza di mendicare. Il mondo gli crolla addosso quando,
in seguito a un banale litigio col bigliettaio del tram, gliela
tol- gono, lui reagisce e viene internato. Scomparvero da un
gior- no all’altro dalle strade i suonatori ambulanti, i
mendicanti, e anche le grida dei raccoglitori di “Stracci,
ferro, vestiti vec- chi, carta”. Alla gente non dispiaceva. I
nazisti gli avevano tolto un fastidio. Molto dopo la fine
ignominiosa del Terzo Reich, c’era gente che ricordava con
nostalgia l’epoca in cui le leggi erano severe, non si
vedevano più accattoni e prosti- tute per strada, i ladri
venivano giustiziati e “nessuno si per- metteva di portare via
qualcosa che apparteneva a qualcun altro”.
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dell’onore”. Un decennio dopo i giuristi prendevano sempre
più le distanze da questo approccio da “cuore tenero”. Già
nel 1932 alla conferenza annuale della sezione tedesca
dell’Unione internazionale dei criminologi c’era stato chi
aveva attaccato l’eccesso di umanità nei confronti dei carce-
rati con l’argomento che “andando avanti di questo passo,
tra trenta o quarant’anni, non ci saranno più punizioni per
nulla”. Ci fu chi teorizzò che “l’idea di punizione è troppo
profondamente radicata nell’opinione popolare sulla finalità
della giustizia perché sia soppiantata”.
Se piove e se fa freddo,
Se il telefono è occupato,
Se la vasca da bagno perde,
Se ti sbagliano la dichiarazione dei redditi,
fi proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei!
Se quel che mangi sa di sapone,
Se la domenica piange il piatto,
Se il Principe di Galles è un finocchio…
È tutta colpa degli ebrei!
fi proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei!
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la canzoncina faceva parte di uno spettacolo di satira politica
che prendeva principalmente di mira non i nazisti ma la Re-
pubblica di Weimar. “Bugiardo, bugiardo, bugiardo, ma
co- me vorrei che le bugie fossero vere…”, faceva il ritornello
di Münchasen, la canzone dei delusi dalle bugie della politica
e dalla democrazia. C’era però anche un cameo su Hitler,
nei panni di uno spiritello di seconda categoria, che si
limitava a fare lo spauracchio: “Ah, ah! Sono il piccolo
Hitler, e ora mi metto a mordere. Vi metto tutti nel sacco,
uh, uh, uahuhh”. Era profetico, ma ancora in sordina, quasi
inconsapevolmen- te. Lo spiritello ancora in fasce in realtà
stava già azzannando con ferocia inaudita.
Il cabaret si presta bene alla compenetrazione intima tra
assurdo e tragico. Willy Rosen aveva inaugurato nel 1924 il
Kabarett der Komiker musicando Quo vadis, una parodia
dei nazisti quando ancora erano lontani dal potere e pochi si
curavano di loro. Si dice che sul vagone piombato che da
Theresienstadt lo portava ad Auschwitz continuasse a canta-
re: “Qualcuno di cui si ride c’è sempre in ogni luogo / In
ogni luogo c’è qualcuno che scherza / Qualcuno destinato a
recitare la parte del buffone…”. Nessuna risata sa essere tra-
gica quanto quella forzata del clown. È il buffone a
cogliere sfumature che altrimenti si perderebbero. Nel suo
bel libro Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti
(Quodlibet, 2016), Antonella Ottai riporta, tra molti altri,
uno sketch del “conferenziere” Franz Engel, ucciso poi ad
Auschwitz come moltissimi altri comici ebrei:
Vado verso mezzogiorno dal mio barbiere, come ogni giorno.
Vedo un uomo catapultato fuori dalla porta. Non me lo spiego.
Chiedo al mio barbiere: Che succede? Perché ha buttato fuori questo
signore? Mi dice: Stia attento. Il tipo viene nel mio locale e fa: ‘Mi
rada!’. Non potrebbe dire come tutti: ‘Sia così gentile da radermi?’…
A un tratto fa: ‘Qui puzza!’. ‘Scusi,’ gli faccio io, ‘credo che lei si
sbagli, ma di cosa dovrebbe esserci puzza?’. Tiro fuori il rasoio e
comincio a ra- derlo. E lui: ‘Continua a esserci puzza’. Comincio a
essere un po’ seccato. Dico: ‘Le faccio notare, signore, che il mio
locale viene di- sinfettato ogni giorno, non vedo proprio di cosa
dovrebbe puzzare’. Continuo a radere, e lui: ‘Eppure puzza’. Allora
mi arrabbio e dico: ‘Di cosa dovrebbe puzzare? Non è che è lei che
puzza?’. Mi dice: ‘Lo
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so io di che cosa puzza. Probabilmente puzza degli ebrei che sono
passati di qui’. Ah no, esplodo. Stia a sentire che cosa gli ho risposto:
‘Faccia attenzione a quel che dice, signore, tra la mia clientela ho
ebrei di prim’ordine, gente di riguardo, uomini d’affari onesti…
chi offende un ebreo offende anche me’. E allora lui: ‘Mi sa che sei
ebreo anche tu’. Capito cosa ha avuto la faccia tosta di dirmi?
Schiaffeg- giarlo e buttarlo fuori è stata questione di un attimo.
Non mi faccio mica offendere così io!
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rica un maestro, se possibile ancor più fanatico, nel magnate
dell’automobile Henry Ford. C’era davvero qualcosa che
predisponeva più di altri la Germania allo sterminio?
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quelli che più ce l’hanno con le élite, con chi viene
accusato di non comprendere, anzi di prosperare sul
malessere del “popolo”, dell’uomo qualunque, dei
“dimenticati”.
Mentre scrivo ascolto in tv il nostro ministro dell’Interno
dire che quelli che si impietosiscono per gli immigrati, i pro-
fughi, i naufraghi lasciati a vomitare l’anima sulla nave che li
ha raccolti, dovrebbero invece avere a cuore il disagio degli
italiani in difficoltà. Quelli sì che soffrono, sono stati abban-
donati, mentre gli immigrati sono accolti in “hotel a tre stel-
le”, finiscono in testa alle graduatorie per l’assistenza, viene
martellato in continuazione. Scrosciano gli applausi. Ecco
uno che parla come il popolo che lo vota. Prima gli
italiani, Americans first, Les Français d’abord. Tutto già
sentito nel 1933. Nella puntigliosa rassegna degli orrori di
quell’anno, che sarebbe stata pubblicata, postuma, solo nel
dopoguerra col titolo La terza notte di Valpurga (in
riferimento al viaggio infernale di Faust in Goethe), Karl
Kraus si sovviene di un episodio di cui era stato testimone
a Berlino, che lo aveva portato “alla radice del problema”, lo
aveva portato “a intui- re ciò che è così difficile dire”: una
giornalaia tedesca che pubblicizzava a squarciagola il titolo:
Perché l’ebreo guada- gna di più e più presto di noi?
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giorno prima, perseguire una politica ultranazionalista, esal-
tare “la Germania per i tedeschi”, consolidare l’economia
interna, finanziare il riarmo, persino fare una guerra di con-
quista: tutto questo avrebbero potuto farlo lo stesso, senza
bisogno di aizzare all’odio degli ebrei. O no?
C’è chi ha tirato in ballo le psicosi di Hitler. Altri il fanati-
smo dei suoi seguaci. Victor Klemperer, che lo visse sulla
propria pelle e annotò giorno per giorno nel suo diario il
progredire dell’odio anche sul piano linguistico, ha una ri-
sposta molto semplice: lo fecero perché gli conveniva. A fare
i trucidi avevano tutto da guadagnare, poco da perdere.
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de complotto internazionale contro la Germania c’erano
sempre e comunque gli ebrei. Negli anni 1930-33 per i nazi-
sti fu l’antisemitismo a costituire “la struttura portante emo-
zionale”. Hitler, fa notare Aly, “pizzicava la corda della razza
quasi incidentalmente, come una nota smorzata e ricorrente
nel basso continuo delle sue arringhe”. E “bastava”,
perché questo era ciò che la sua audience voleva sentire. A
riprova cita anche un ricordo di famiglia. Suo zio August,
che allora era studente a Monaco, va ad ascoltare un
discorso di Hitler e nota che “parlava senza mostrare astio,
con una tale cautela che fu il pubblico a condire il discorso
con le consuete inte- riezioni ‘ebrei’, ‘traditori’, ‘canaglie’”.
Insomma: “Oratore e pubblico facevano dell’antisemitismo
uno spettacolo interat- tivo”. Interattivo come Facebook e
Twitter.
Facendo dell’antisemitismo la loro principale ragione so-
ciale, i nazisti ampliavano la loro base di consenso, facevano
leva su qualcosa di già molto diffuso nell’opinione pubblica.
Cavalcare il pregiudizio e l’isteria di massa che avevano rin-
focolato non era più un optional, era per loro una via
obbli- gata. Come l’apprendista stregone, non potevano
più con- trollare le forze infernali che avevano evocato ed
esasperato, nemmeno se le avessero volute rinnegare.
Perché proprio su questa esasperazione si erano affermati,
avevano riscosso una parte consistente del loro dividendo
elettorale. Ma è chiaro che sono condizionato dall’attualità.
Non c’è bisogno di essere nazisti per seminare odio e
prendersela con gli im- migrati. Basta che porti voti.
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5.
L’inferno è lastricato di elezioni
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L’antipolitica nazista trovava una sponda a sinistra. Kurt
Tucholsky prende di mira il moltiplicarsi di partiti e partitini
con argomenti che somigliano a quelli di Hitler:
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partiti. Non con simboli ma con i nomi stampati in caratteri
gotici. Alcuni partiti, di cui non s’era sentito prima e non
si sarebbe sentito in seguito, riuscirono persino a eleggere
de- putati. Ma il problema non era tanto l’inflazione di
partiti e partitini, quanto la moltiplicazione all’infinito delle
elezioni. Nella Germania di Weimar – così chiamata perché
i padri costituenti avevano deciso di riunirsi nella città di
Goethe e Schiller anziché a Berlino – si votava in
continuazione, a tut- to spiano. Votavano tutti, senza
distinzione di censo o di ge- nere. La Germania era stata tra
i primi in Europa a introdur- re nel 1918, subito finita la
Grande Guerra, il suffragio femminile. Si votava
liberamente per una molteplicità di par- titi e liste. Si votava
con il proporzionale puro, il metodo più democratico che si
possa concepire: un cittadino, un voto. Avevano “la
Costituzione più bella del mondo”, che garanti-
va eguali diritti a tutti.
Le libere elezioni sono il sale della democrazia. Ma trop-
pe elezioni non le fanno per niente bene. Anzi, rischiano
di ucciderla. Nella Germania degli anni trenta andare a
votare e rivotare era un sintomo dell’incapacità di dare
risposte po- litiche alla crisi. Si votava e si rivotava perché
nessun partito, e nessuna delle possibili coalizioni aveva una
maggioranza. Ma tornare e ritornare a votare nella speranza
che il risultato futuro sia più favorevole di quello passato
non ha mai soppe- rito all’assenza di iniziativa politica, di
soluzioni politiche all’impasse. La voglia di rivincita non
paga né alle elezioni né al casinò , anzi è il modo più sicuro
per perdere.
Per il Reichstag si votò nel 1928, nel 1930, nel luglio
1932, nel novembre 1932 e poi si sarebbe rivotato ancora
nel marzo 1933. Cinque elezioni politiche in cinque anni,
una ogni anno! In queste cinque tornate di elezioni il Nsdap
(Na- tionalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, Partito
nazional- socialista dei lavoratori tedeschi) di Hitler aveva
ottenuto ri- spettivamente 800.000, 6,4 milioni, 13,7 milioni,
11,7 milioni e 17,3 milioni di voti. I voti ai nazisti erano
cresciuti in pro- gressione geometrica. Ma nello stesso
periodo era cresciuto costantemente anche il numero totale
dei votanti: da 30,4 a 39,3 milioni. Per i nazisti votarono
anche coloro che si erano
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astenuti, avevano disertato le urne, si erano allontanati di-
sgustati dalla politica nelle tornate precedenti. Secondo una
stima, dei 16,5 milioni di voti conquistati in cinque anni dai
nazionalsocialisti, 7 milioni sarebbero voti che prima erano
andati ai vecchi partiti di destra o di centro-destra, 1 milione
proverrebbero da elettori che prima votavano per i partiti
della sinistra, e ben 8,5 milioni da “elettori nuovi”, da gio-
vani che votavano per la prima volta o da elettori che nelle
precedenti consultazioni non avevano votato.
Il caso Weimar è un esempio clamoroso di come alla ca-
tastrofe ci si può arrivare non per disaffezione al voto ma
addirittura per più ampio coinvolgimento dell’elettorato.
Per anni quella Repubblica si era dovuta confrontare con
l’incubo ricorrente della violenza rivoluzionaria e controri-
voluzionaria, delle barricate, dei putsch, con la minaccia
continua di un intervento dei militari per por fine al caos.
E invece fu distrutta dopo una serie di elezioni a suffragio
uni- versale, con partecipazione crescente degli elettori.
Negli anni settanta del secolo scorso la mia generazione
si era assuefatta all’idea che libere elezioni fossero la garanzia
assoluta della libertà e della democrazia, e che la minaccia
venisse dai colpi di Stato. Con libere elezioni andavano al
governo i buoni, come Allende in Cile. Con i golpe erano i
militari cattivi, come Pinochet, a rovesciare i governi legitti-
mi. Da esecrare era chi ordiva i golpe: la Cia, ma anche il
Kgb, in Cecoslovacchia nel 1968, o in Afghanistan dieci anni
dopo. Coup d’fítat si intitolava un agile volumetto pubblica-
to nel 1968 da un allora giovane e già disinvolto studioso e
aspirante consulente dei servizi: Edward Luttwak. “Un ma-
nuale pratico”, prometteva il sottotitolo.
Ce l’eravamo raccontata a lungo in questa maniera. Quel
modello di narrazione non prestava però abbastanza atten-
zione a quel che era successo quarant’anni prima nel paese
al- lora più democratico d’Europa. Forse anche perché lo si
con- siderava irripetibile. Poteva succedere, e in effetti
successe di tutto. Ma c’era la certezza che non ci sarebbe
più stato un 1933. Perlomeno non in Europa. Non in
America. Era davve- ro necessario che trascorressero quasi
altri cinquant’anni per
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riscoprire che la strada per l’inferno può essere lastricata di
elezioni, almeno quanto lo è di colpi di Stato?
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gnato nelle carte geografiche. I nazisti vi avevano messo in
campo tutte le risorse di cui potevano disporre. Hitler si era
impegnato di persona, battendo anche ogni piccolo centro.
Aveva tenuto quindici comizi in undici giorni. Più che alle
presidenziali. Ogni suo comizio era una vera e propria per-
formance teatrale. Il risultato fu che i nazisti ottennero 5000
voti più che alle Politiche di novembre, ma 3500 in meno che
a quelle di luglio. “Ha infilzato una mosca con la spada”, iro-
nizzò il giornale antinazista “Berliner Tageblatt”. Quella
manciata di voti in più erano stati però decisivi. Gli erano
serviti per dimostrare che il suo partito non era in inarresta-
bile declino come tutti pensavano in quel momento. E anche
per zittire i malumori e la fronda interna al movimento.
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e anche se il suo partito non è arrivato neppure secondo ma
terzo o quarto. Il “Berliner Tageblatt”, il più prestigioso
dei giornali berlinesi di allora, aveva definito “mostruoso”
che “sei milioni di elettori abbiano in questo civilissimo
paese votato per la più bassa, volgare, rozza
ciarlataneria”.
Ben detto, ma cosa avrebbero dovuto dire quando nel
1932 questi elettori divennero quasi 14 milioni? E poi 17 mi-
lioni? È forte la tentazione di dare la colpa agli elettori, al po-
polo che si è lasciato irretire. Lo si è sentito dire per
Trump, Erdoğ an, Modi, Orbá n, Bolsonaro. Anche per
Putin che è stato plebiscitato nelle Presidenziali russe.
Per Xi Jinping no, ma solo perché in Cina non si vota.
Spero solo che non diventi quello il modello di
riferimento. È sempre forte la tentazione di dare la colpa
agli elettori, al popolo. Verrebbe da rispondere,
parafrasando l’ironia di Brecht: “Se siete de- lusi dai risultati
elettorali, vi suggerisco di sciogliere il popo- lo ed eleggerne
un altro”.
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“Comportandosi così stanno facendo venire su soltanto del-
le belve feroci. E presto se ne accorgeranno”, dice al marito.
“Certo che se ne accorgeranno, le risponde lui. Da noi la
maggior parte è già passata ai nazisti”. “Grazie tante! Lo
so io per chi voteremo invece noi”, gli ribatte lei. “Beh! E
per chi? Per i comunisti?” “Si capisce”, fa lei, che sa il fatto
suo. “Bisogna che ci pensiamo ancora un po’. Non è che
non mi piacerebbe, ma non riesco a decidermi”, conclude
lui. “E va bene, amore, alle prossime elezioni ne riparliamo”,
accondi- scende lei.
Se non avessimo l’edizione integrale, pubblicata per la
prima volta da Sellerio nel 2008, non sapremmo neanche che
discutono anche di queste cose. La traduzione italiana del
1933 uscita nella Medusa le aveva censurate, assieme a
interi capitoli osé, dove si parla di sesso e altre cose
“laide”, offen- sive, a detta del traduttore, per il “più
pudico orecchio lati- no”. Il romanzo non ci fa sapere
come voteranno davvero i due protagonisti. Col senno di
poi si può tirare a indovinare che finiranno anche loro per
votare Hitler.
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che si curavano di più dei loro problemi, o promettevano di
curarsene di più .
Un’intuizione di Gramsci
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Come molte delle note di Gramsci, non è un testo com-
piuto. È soprattutto un programma di lavoro. Non del
tutto “in chiaro”. È criptato tenendo in considerazione le
mani in cui potrebbe finire: i suoi carcerieri, i suoi
compagni. Proba- bilmente parla a nuora perché suocera
intenda. Non menzio- na la Russia sovietica, ma seguendone
la logica si potrebbe concludere che, non diversamente dai
giacobini, sono diven- tati “centro” anche i bolscevichi.
Intende dire che “centro”, per definizione, è chi governa,
mentre “estremisti”, sempre per definizione, sono i
movimenti “demagogici”, populisti, prima che arrivino al
governo? Prende un abbaglio – peral- tro condiviso da molti
in quel momento – nell’ipotizzare che siano i partiti della
destra “storica”, Hugenberg e Papen, a manipolare Hitler e
i nazisti, e non viceversa? L’unica cosa che non si può dire
è che non sappia di cosa parla. Benché prigioniero,
Gramsci seguiva con attenzione tutto quel che si andava
pubblicando sulla politica europea, e in particolare sulla
Germania.
Rileggiamola:
Uno studio accurato dei partiti di centro in senso largo sarebbe ol-
tremodo educativo. Termine esatto, estensione del termine, cambia-
mento storico del termine e dell’accezione. Per esempio, i giacobini
furono un partito estremo: oggi sono tipicamente di centro; così i
cattolici (nella loro massa); così anche i socialisti, ecc. Ma credo che
un’analisi dei partiti di centro e della loro funzione sia parte impor-
tante della storia contemporanea.
E non lasciarsi illudere dalle parole o dal passato: è certo per
esempio che i “nichilisti” russi sono da considerarsi partito di
centro, e così perfino gli ‘anarchici’ moderni. La quistione è se per
simbiosi un parti- to di centro non serva a un partito ‘storico’,
esempio il partito hitleria- no (di centro) a Hugenberg e Papen
(estremisti: estremisti in un certo senso, agrari e in parte industriali,
data la storia tedesca particolare). Partiti di centro e partiti
“demagogici” o borghesi-demagogici.
Lo studio della politica tedesca e francese nell’inverno 1932-33 dà
una massa di materiale per questa ricerca, così la contrapposizione
della politica estera a quella interna (mentre è sempre la politica in-
terna che detta le decisioni, s’intende di un paese determinato: infat-
ti è chiaro che l’iniziativa, dovuta a ragioni interne, di un paese,
di- venterà ‘estera’ per il paese che subisce l’iniziativa).
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Nella Germania degli anni trenta nel corso di appena po-
co più di un decennio c’era stato un cambiamento di
fondo nell’atteggiamento degli elettori. A cui pochi avevano
fatto caso, specie tra gli addetti ai lavori, cioè tra i politici e i
gior- nalisti. Dal 1919 al 1933, cioè in quattordici anni,
avevano avuto tredici cancellieri e ventuno governi. I
governi conti- nuavano a essere volatili. Ma nel contempo –
per buona par- te di quel periodo, cioè per oltre un
decennio – l’elettorato era rimasto sostanzialmente stabile
nelle sue scelte. Si sposta- va all’interno di ciascun campo,
ma poco tra uno schiera- mento e l’altro. Gli elettori si
esprimevano con una costanza simile a quanto succedeva da
noi nella cosiddetta Prima Re- pubblica. Lo spartiacque era
tra destra e sinistra.
Poi arrivò un partito che sin dal nome teneva a dichiarar-
si “né di destra né di sinistra”, ma “del popolo”. Si
dicevano allo stesso tempo “nazionalisti” e “socialisti”, oltre
che parti- to “dei lavoratori”. Beninteso dei “lavoratori
tedeschi” e ba- sta, non dei “lavoratori di tutto il mondo”.
Forzando un po’ in direzione dell’attualità si potrebbe dire
che si presentava- no allo stesso tempo come “sovranisti” e
“populisti”. Quasi da un momento all’altro l’elettorato
tedesco, che prima oscil- lava con regolarità tra i poli
tradizionali, divenne mobile. Con gli elettori in libera uscita
gli spostamenti assunsero un carattere impetuoso,
torrentizio, incontrollabile. Erano cam- biati i parametri. Ci
furono partiti in precedenza promettenti che evaporarono
all’istante. “Abbiamo visto il Partito demo- cratico sparire in
una sola notte”, scrisse il berlinese “8 Uhr-Abendblatt”,
riferendosi al crollo del Ddp, Deutsche Demokratische
Partei, progressista e di centrosinistra, che aveva governato
con il Zentrum cattolico e l’Spd socialdemo- cratico dal 1924
al 1928.
Alle Politiche del 31 luglio 1932, cioè di appena due anni
successive a quelle del 1930, il Nsdap era più che raddoppia-
to, balzando al 37,4 per cento e 230 seggi. Ed era diventato il
primo partito, superando per la prima volta il glorioso So-
zialdemokratische Partei Deutschlands (Spd). Ci sarebbero
stati ancora alti e bassi, ma era cambiato l’asse, il perno, il
“centro”. A novembre del 1932 il Partito nazionalsocialista
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avrebbe subito una battuta d’arresto, scendendo al 33,1 per
cento, ma restando sempre il primo partito.
Si confermava la presenza stabile di un “terzo polo”,
di- verso da quelli tradizionali. Tra sinistra, destra e
populisti le combinatorie possibili aumentavano, a seconda
di quali due si fossero accordati contro il terzo. Tra coloro
che avevano colto la novità ci fu il leader del Zentrum
cattolico, monsi- gnor Kaas. Chiamato a consultazioni dal
Presidente della Repubblica dopo le elezioni del
novembre 1932, gli aveva detto: “Ci sono 12 milioni di
tedeschi che si trovano all’op- posizione da destra [gli
elettori del Nsdap di Hitler], ce ne sono 13,5
all’opposizione da sinistra [i 6 milioni che avevano votato
per il Kpd e i 7,3 milioni che avevano votato per l’Spd]”.
Non si poteva evitare di coinvolgere gli uni o gli altri nel
governo. Se non si voleva rischiare che si unisse e pren-
desse l’iniziativa la sinistra si sarebbe dovuto per forza coin-
volgere nel governo Hitler. La cosa di cui non si era
proba- bilmente reso conto è che così sarebbe stato il Partito
nazista a diventare l’ago della bilancia, il vero centro.
fi la coalizione, stupido!
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nale: la possibile combinatoria con cui potevano interagire
gli uni con gli altri, entrare in coalizione con altri partiti. Non
corrisponde meccanicamente ai “blocchi sociali” che si van-
no via via formando. Né meccanicamente ai “blocchi ideolo-
gici”. Dipende da una molteplicità di fattori. Ma da uno in
modo particolare: dalla capacità di iniziativa politica.
Nel 1919 la coalizione, l’accordo di governo tra socialde-
mocratici, centro e partiti “borghesi” poteva contare addirit-
tura sul 76,4 per cento dei voti. Alla vigilia della nomina
di Hitler a cancelliere quella coalizione di un tempo,
sempre che fosse riproponibile, risultava dimezzata, poteva
contare su non più del 36,3 per cento dei voti. Sulla carta
una coali- zione delle sole forze di sinistra, Spd più Kpd,
avrebbe potu- to contare su una percentuale anche
superiore: 37,3 per cen- to. Centro più Sinistra avrebbero
potuto contare sul 53,3 per cento. Forse poco per governare
in quelle condizioni. Il fatto è che comunque nessuno ci
provò . Non presero nemmeno in considerazione la
possibilità di un’alternativa.
Non aveva una maggioranza nemmeno la coalizione
Nsdap-Dnvp su cui poggiava il governo Hitler: non
supera- va il 41,5 per cento di voti. Gli altri partiti, e tutti
gli addetti ai lavori, erano assolutamente convinti che fosse
impossibile che andassero al governo insieme, che non
sarebbero mai riusciti a mettersi d’accordo, e che, se anche
per caso ci fos- sero riusciti, non sarebbe durata. In fin dei
conti ci avevano già provato una volta, fallendo
miseramente: quando la de- stra, nell’ottobre 1931, si era
unita nel Fronte di Harzburg (dal nome della località della
Bassa Sassonia in cui si tenne il raduno di massa) per far
cadere il governo Brü ning, “tollera- to” dai socialdemocratici.
Avevano finito per litigare furiosa- mente anziché unirsi.
Molti erano convinti che sarebbe andata così anche nel
1933. Non tenevano però conto né della capacità di
iniziativa politica dei nazisti, né del fatto che c’era davvero,
indipendentemente dalle posizioni dei partiti, un blocco
sociale e di opinione che non vedeva l’ora di tro- vare uno
sbocco politico.
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Coalizioni potenziali ed effettive
SPD+
DDP+ SPD+
SINISTRA CENTRO DESTRA DDP+Z+ DVP+ Coalizione
DDP+
Z Z+DVP DVP DNVP effettiva
1924 I 13,3 20,4 5,8 16,7 9,2 8,2 19,4 6,6 23,7
1930 13,1 24,6 3,7 14,8 4,6 13,8 7,1 18,3 18,6
Kpd. Kommunistische Partei Deutschlands (Partito comunista di Germania)
Spd. Sozialdemokratische Partei Deutschlands (Partito socialdemocratico di Germania)
Ddp. Deutsche Demokratische Partei (Partito democratico tedesco)
Z. Zentrum (Partito di centro tedesco)
Bvp. Bayerische Volkspartei (Partitolo del popolo bavarese)
Dvp. Deutsche Volkspartei (Partito del popolo tedesco)
Dnvp. Deutschnationale Volkspartei (Partito nazionale del popolo tedesco)
Nsdap. Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalsocialista tedesco dei
lavoratori)
Rettangoli linea continua: coalizioni governative
Rettangoli tratteggiati: appoggio esterno
Linee punteggiate verticali: separazioni schieramenti Sinistra, Centro, Destra
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I socialdemocratici avevano fondato la Repubblica, ave-
vano governato per quasi un ventennio, erano i più strenui
difensori degli interessi dei lavoratori. Erano il partito che
con più coerenza difendeva la Costituzione e la legalità re-
pubblicana. Il problema era che una parte consistente degli
elettori tedeschi aveva cessato di credere nella Repubblica e
nella Costituzione, era delusa dalla democrazia. Preferiva
votare per chi gli prometteva altro.
L’apice del successo elettorale l’Spd l’aveva conseguito
nel 1928, con quasi il 30 per cento. Un terzo dei voti è, anche
in gran parte delle democrazie della nostra epoca, il peso cri-
tico che consente di candidarsi a governare. Ma il 30 per
cento non basta per governare da soli in un sistema propor-
zionale. Occorre una coalizione. I socialdemocratici avevano
governato a lungo in una Grosse Koalition con i centristi. Ma
poi questa coalizione si era rotta. E nemmeno sui grandi
principi, su quisquilie. Il governo di coalizione del socialde-
mocratico Hermann Mü ller era caduto nel 1930 su un cavil-
lo: a chi far pagare l’assicurazione contro la disoccupazione,
se ai lavoratori o alle imprese. “I socialdemocratici si sono
dati una randellata in testa perché erano infastiditi da una
mosca”, il commento impietoso del “Frankfurter Zeitung”.
I socialdemocratici non erano più riusciti a ricostruire
una coalizione, né aprendo al centro né aprendo alla sinistra.
Erano ancora un gigante, ma privo di leadership e di strate-
gia. I veti incrociati tra le diverse lobby in cui si divideva il
partito avevano finito col paralizzarlo. Nel luglio 1932, l’an-
no in cui anche i nazisti avevano superato il fatidico 30 per
cento dei voti, i socialisti avevano perso solo una decina di
seggi. I comunisti ne avevano guadagnato una dozzina. Nien-
te di così drammatico a prima vista. A subire un salasso era-
no stati i partiti che facevano concorrenza ai nazisti da de-
stra. Ma a sinistra si guardarono bene dal fare un’analisi
approfondita di quel che era successo. In particolare, non si
accorsero che era cambiata la possibile combinatoria politi-
ca, che nazisti e destra nazionalista, sino a quel momento ap-
parentemente incompatibili, avrebbero potuto mettersi in-
sieme.
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Non si accorsero che quel tipo di compromesso tra po-
pulisti e destra era un possibile sbocco dei malumori, delle
delusioni, delle recriminazioni, della stanchezza, e degli
egoismi di tutte le parti sociali. Peggio: non si accorsero che
la priorità assoluta, l’unica cosa per cui sinistra e centro
avrebbero potuto riscattarsi, sarebbe stato far di tutto, anche
sacrificare i propri interessi di partito se necessario, per im-
pedirlo.
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compagni di partito. Ci fosse stata l’usanza del passaggio
della campanella, Papen a Schleicher gliel’avrebbe tirato in
testa. Si era così andati, per la seconda volta in tre mesi, a
elezioni anticipate. Ancora una volta nessun partito aveva la
maggioranza. Né si profilava all’orizzonte una coalizione che
potesse avercela. Fu nominato cancelliere Schleicher. Senza
che il Reichstag fosse consultato, anzi neppure convocato.
Schleicher vantava l’appoggio dell’esercito. Aveva an-
nunciato l’intenzione di formare un governo “al di sopra dei
partiti”, mandava segnali sia a sinistra che a destra. Corteg-
giava Hitler perché entrasse nel governo, o almeno in mag-
gioranza. E allo stesso tempo strizzava l’occhio ai sindacati e
alla sinistra. Diceva di voler perseguire una politica econo-
mica “né socialista né capitalista”. Trotsky lo definì “un enig-
ma con le spalline”. I sindacati gli fecero un’apertura di cre-
dito. “Noi in quanto sindacati non abbiamo la facoltà , anzi
nemmeno la possibilità di sostenere un governo… Come sin-
dacato dobbiamo però fare i conti con ogni governo,
anche se non ha la nostra fiducia”, la dichiarazione solo
apparente- mente sibillina di Theodor Leipart, il leader della
Allgemei- ner Deutscher Gewerkschaftsbund (Adgb), la Cgil
tedesca di allora. Malauguratamente il “ni” a Schleicher
sarebbe diven- tato poco dopo praticamente un “sì” a
Hitler. I socialdemo- cratici gli risposero invece con un no.
Con tutta probabilità dovuto anche al timore di farsi
complici di un colpo di Stato militare nel caso il generale
Schleicher avesse fatto interveni- re la Wehrmacht per
sciogliere le contrapposte milizie di par- tito. Per i difensori a
oltranza della Costituzione e della lega- lità repubblicana
questo era inaccettabile, fosse stato anche l’unico modo per
fermare Hitler.
Hitler pretendeva la nomina a cancelliere sin da quando
il suo era diventato il partito più votato e con più
deputati. Più o meno tutti i cancellieri che nel 1932 si
avvicendarono alla testa di governi privi di una maggioranza
parlamentare gli avevano proposto di entrare nel governo,
o almeno in maggioranza. Ma non erano disposti a cedergli
la cancelleria né a lasciarlo governare da solo. Il presidente
Hindenburg sembrava irremovibile. Gliel’aveva detto
chiaro e tondo, in
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faccia, durante il loro primo incontro dopo le elezioni in
lu- glio: non era conciliabile con la sua coscienza e il suo
giura- mento alla Costituzione “consegnare tutti i poteri a un
parti- to solo, e per giunta a un partito così intollerante
verso gli altri”; un siffatto governo rischiava di sfociare
inevitabilmen- te in “una dittatura di partito”.
Hitler dal canto suo rifiutava ostinatamente ogni coinvol-
gimento parziale. “Tutti mi chiedono: Herr Hitler, perché lei
rifiuta di salire sul treno di un governo di coalizione? La mia
risposta è sempre la stessa: perché mai dovrei salire su un
treno da cui sarei costretto a scendere subito, visto che non
posso appoggiare le azioni dei reazionari che guidano il tre-
no?”. Noi non siamo come gli altri, non siamo disposti a
compromessi, non ci prestiamo a giochetti parlamentari, era
il refrain. E comunque “quando prenderemo il potere non
lasceremo che ce lo tolgano”, aggiungeva. Nei comizi per
le elezioni di novembre aveva pronunciato varianti di questo
discorso almeno quarantacinque volte.
La pretesa del “tutto o niente”, il rifiuto di governare coi
vecchi arnesi “corrotti” e “reazionari”, condusse però anche
una parte degli elettori che avevano votato per lui al secondo
turno delle Presidenziali, e poi così numerosi alle Politiche
di luglio, ad abbandonarlo. Potevano andargli bene la “pu-
rezza”, l’aggressività verbale nei confronti di tutti gli altri
partiti. Ma non il fatto che rifiutando l’idea stessa di un con-
fronto con gli altri, il Partito nazista si condannasse alla steri-
lità, finisse col non avere nessuna influenza sulle scelte di go-
verno. Alle Politiche di novembre del 1932 il Nsdap ebbe
una pesante battuta d’arresto. Aveva perso 2 milioni di voti e
34 deputati. Erano ancora il primo partito. Ma isolati e ar-
roccati rischiavano l’irrilevanza.
La strategia del “nessun compromesso”, “nessuna anda-
ta al governo dalla porta di servizio”, veniva contestata an-
che all’interno del partito nazista. Gregor Strasser, camerata
della prima ora, aveva cercato di convincere Hitler a cambia-
re linea. Era considerato l’esponente di punta dell’ala “di si-
nistra” del partito. Suo fratello Otto era stato uno dei teorici
del “bolscevismo prussiano” – una mescolanza di idee nazio-
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naliste, anticapitaliste e razziste – e guidava un gruppo scis-
sosi dal Nsdap. Gregor aveva invece scelto di stare con
Hit- ler. Tacciato di traditore, additato nelle sezioni del
partito come Giuda, anzi come “ebreo”, si era dimesso da
ogni inca- rico di partito e se n’era andato in vacanza
all’estero. Non in America Latina come Dibba, ma nella più
vicina Italia. Sulla stampa cominciò a correre voce che si
accingesse a guidare anche lui una scissione nel movimento,
che stesse trattando in segreto con il generale Schleicher per
entrare nel governo. Non era vero, ma Hitler se la sarebbe
legata al dito.
La vendetta venne servita fredda: Hitler avrebbe fatto
am- mazzare un anno e mezzo dopo dalle SS, la sua
guardia per- sonale, che nel frattempo avevano assunto il
pieno controllo della Polizia segreta di Stato, sia Strasser che
il generale Sch- leicher (quest’ultimo con l’intera famiglia).
Era il 30 giugno 1934, la stessa “Notte dei lunghi coltelli” in
cui fu giustiziato sommariamente Ernst Rö hm, il capo
carismatico delle SA, le famigerate milizie di partito, che
scalpitavano per “continua- re la rivoluzione
nazionalsocialista”. Hitler soprattutto non tollerava
concorrenti. Pare che la rapidità con cui si era sba- razzato
dell’opposizione interna, con un colpo al cerchio e uno alla
botte, avesse impressionato molto Stalin.
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6.
La filologia dell’odio
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Il pubblico non si limitava ad ascoltare, presenziare pas-
sivamente. Partecipava rumoreggiando, applaudendo, scan-
dendo slogan. Sembrava di assistere a un talk-show televisi-
vo dei giorni nostri, con comportamenti aggressivi codificati,
prevedibili, anzi previsti dalle regole, come in un gioco di
ruolo. Grida, boati, sibili, insulti, bestemmie, maledizioni ri-
volte agli avversari facevano parte integrante del repertorio.
Così come i gesti, il saluto a braccio teso contro il pugno
chiuso. I comizi, le parate, più tardi le adunate e le
celebra- zioni del regime nazista si sarebbero trasformati in
eventi, con regia e scenografie sempre più spettacolari.
L’insulto sarebbe stato il filo conduttore anche della più
ricca e importante mostra d’arte esposta durante il Terzo
Reich. L’esposizione Entartete Kunst, Arte degenerata, inau-
gurata a Monaco nel luglio 1937 esibiva 650 opere proibite
già dal 1933. Tra gli altri van Gogh, Cézanne, Chagall,
Mon- drian, Klee, Kandinsky… Era organizzata in nove
sezioni, con titoli tipo: “Idioti, cretini e deformi”, “Bordelli,
putta- ne, ruffiani”, e così via. Una era intitolata
semplicemente: “Ebrei”.
Faccio zapping in tv. Mi fermo su una puntata di
Piazza pulita di Formigli su La7. Intervistano dei ragazzi in
un bar del litorale ostiense dopo il pestaggio di un giovane di
colo- re. “Se vedo un nero lo insulto.” Ma perché? “Mi
piace of- fendere”, “Mi diverte”, le risposte. Il giorno dopo
su Face- book c’è chi si lamenta. Del servizio, non degli
odiatori. “Perché non fate vedere anche le persone pestate…
le ragaz- ze stuprate e massacrate sempre da queste brave
persone [sottinteso: di colore]”, fa un post. E un altro:
“Millemila puntate su un ragazzo di colore pestato da dei
deficienti… Ma non vedo mai puntate sugli accoltellamenti
da parte dei ragazzi di colore a danno di poliziotti, passanti
ecc. Per non parlare degli stupri…”.
Confesso una tremenda sensazione di già ascoltato nei
toni concitati, negli scambi di insulti, nelle insinuazioni, nel-
la propensione al linciaggio verbale, sempre più spesso an-
che personale cui si assiste – non da adesso, ormai da anni –
negli slogan gridati allo stadio o in piazza, nelle risse in
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Parlamento, in televisione, ma soprattutto in rete. Insulto,
ergo sum.
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primo numero: “Finché l’Ebreo continuerà a occupare la
nostra Casa, saremo schiavi dell’Ebreo. Perciò l’Ebreo deve
andarsene. Chi deve andarsene? L’Ebreo!”. L’ebreo, al sin-
golare, non gli ebrei: l’intero popolo, non singoli possibili
malfattori! Era una fabbrica di odio, gestita magistralmente.
Non c’era numero in cui non fossero riferiti scandali, malver-
sazioni, delitti, stupri, perversioni sessuali, invariabilmente
attribuiti agli ebrei, o alla sinistra, che a ogni modo per i na-
zisti erano la stessa cosa. All’inizio il bersaglio era soprattut-
to politico. Poi si aggiunsero le vignette, disegni e foto osé di
donnine nude o discinte, e un’aggressività che superavano in
violenza, volgarità e turpiloquio qualsiasi altra pubblicazio-
ne nazionalsocialista, compresi il “Vö lkischer Beobachter”,
l’organo ufficiale del Nspd, e il “Der Angriff” di Goebbels.
Molti nazisti lo giudicavano eccesivo, controproducente
per l’immagine del partito. Fu Hitler a intuire che gli forniva
un servizio impagabile, ancor più efficace della maschera di
perbenismo.
Streicher divenne intoccabile. Era un accentratore infati-
cabile: continuò a occuparsi della sua creatura, a seguire di
persona ogni minimo dettaglio redazionale anche quando il
giornale aveva centinaia di migliaia di copie di tiratura e un
organico redazionale di oltre trecento redattori. Secondo un
rapporto commissionato alla Gestapo da Gö ring, della
reda- zione faceva parte anche un ebreo, Jonas Wolk, che
firmava con lo pseudonimo Fritz Brand alcuni degli articoli
più vele- nosi contro gli ebrei. Streicher, a quanto pare, lo
pagava pure bene. Ma, trattandosi di ebreo, rifiutava di
stringergli la mano. Ecco quel che dice del suo stile un
lettore che dichiara di non essere né ebreo né antinazista.
“Streicher pubblica in ciascun numero del suo ‘Stü rmer’
qualcosa che attira l’atten- zione. Porta sempre alla luce
qualcosa di marcio. Tiene i suoi lettori in uno stato costante
di suspense. Dà ai lettori quello che vogliono: sensazione e
porcherie… cattivo gusto… Ma chi sono i suoi lettori?
Soprattutto adolescenti, che su queste pagine imparano
tutto su argomenti come omosessualità e
prostituzione…”
Anche la nudità serve a propagare odio. Ad esempio, una
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prima pagina del 1926 è per oltre la metà occupata da un di-
segno in cui si vede una bella ragazza nuda, bianchissima,
biondissima, col seno costretto da lacci che evocano un bon-
dage erotico sadomaso, attorniata da tre uomini dalle fattez-
ze stereotipate dell’ebreo, dall’espressione luridamente libi-
dinosa, che si apprestano a seviziarla. La vignetta è
intitolata: La ragazza polacca massacrata. Subito sotto
campeggia, a tut- ta pagina, uno dei motti preferiti della
testata: “Gli ebrei so- no la nostra disgrazia!”. Furono
immagini pornografiche co- me questa, presenti in gran
copia in ogni numero del giornale, a contribuire al successo
della pubblicazione. An- dava a ruba soprattutto tra i
ragazzini, che se lo passavano di mano in mano e lo
leggevano di nascosto, un po’ come più tardi i ragazzini
americani avrebbero fatto con “Playboy” e la mia
generazione con “Il Borghese” di Mario Tedeschi (non me
ne sarei accorto non fosse per un compagno delle medie che
a casa aveva l’intera raccolta del settimanale, e an- che un
busto di Mussolini) e poi le copertine di “Panorama” e
dell’“Espresso” (quelle di una volta, s’intende).
Lo “Stü rmer” martellava a ogni numero con mezza
doz- zina di articoli e vignette sugli stessi argomenti. Dopo il
1933 le tirature dei numeri monografici dedicati all’omicidio
ritua- le praticato dagli ebrei, alla criminalità ebraica, alla
cospira- zione mondiale ebraica, ai crimini sessuali ebraici, e
così via, superarono i 2 milioni di copie. Il numero
sull’omicidio ritua- le era stato bandito, ma solo dopo che la
tiratura era andata esaurita, e solo perché “offendeva i
cristiani” mettendo sullo stesso piano rituale il cannibalismo
attribuito agli ebrei e la comunione con l’ostia consacrata, il
corpo di Cristo. La diffu- sione e la visibilità erano anche
superiori alla tiratura: bache- che espositive affidate
all’iniziativa e all’ingegnosità dei lettori entrarono a far parte
del paesaggio in tutta la Germania. Il materiale sembrava
inesauribile. Veniva fornito, in parte, da specialisti della
denuncia e del ricatto, i quali talvolta cercava- no di farsi
pagare sia dal ricattato che dal giornale a cui pro- ponevano
foto e documenti compromettenti. Lo “Stü rmer” aveva, dal
1933 in poi, anche un formidabile archivio, che
comprendeva testi e documenti provenienti da fonti
ebraiche
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e, in particolare, una fornitissima sezione iconografica, com-
prese foto pornografiche, che, a detta di Streicher, servivano
a documentare scientificamente la parte più “sozza” della
que- stione ebraica. A fornire qualsiasi cosa che collegasse gli
ebrei alla pornografia, ai delitti a sfondo sessuale e alla
criminalità comune fu mobilitata anche la Gestapo. Quando
qualche uf- ficiale protestò che non era questo il loro
mestiere, Streicher si rivolse in alto per farli mettere in riga.
La cosa spaventosa è che la stragrande maggioranza del
materiale accusatorio, ve- rosimile o inverosimile che fosse,
veniva fornito entusiastica- mente, e gratis, dagli stessi
lettori.
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una variante del “dagli all’untore” e all’avvelenatore di poz-
zi: gli ebrei non si fanno scrupolo di avvelenare i gentili per
avidità e odio, spacciando cibo andato a male. Un’altra ra-
gazza, figlia di un capoccia locale nazista, è stata a servizio da
una famiglia cristiana, finché un giorno le viene servito un
polpettone fatto con carne comprata da una macelleria
ebraica. Evidentemente per anni le hanno raccontato di co-
me gli ebrei a Pasqua dissanguino i ragazzini cristiani per
condire le azzime e inquinino deliberatamente con chissà
quali schifezze la carne che poi vendono ai non ebrei. Lei ri-
fiuta inorridita. Tiene testa ai datori di lavoro che la prendo-
no in giro per i suoi pregiudizi assurdi. E, piuttosto di
man- giare quel pasto orrendo, si licenzia. A raccontare
con fierezza la storia sulla pagina delle lettere dello
“Stü rmer” è il padre della ragazza. Il direttore del giornale,
Julius Streicher, loda come esemplare il comportamento di
figlia e padre.
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degli anni trenta erano ebrei, mentre quelli dei giorni nostri
sono negri o maghrebini, comunque immigrati. I nostri eroi
epistolari si sentono moralmente in dovere di intervenire e de-
nunciare. Uno scorge una ragazzina che discorre con un
uomo più anziano, dalle “pronunciate fattezze giudaiche”.
Segue la ragazza, la ferma e le fa una ramanzina. La lettera
esprime in- dignazione per il fatto che a quel punto
interviene un poliziot- to, il quale chiede i documenti a lui, il
salvatore, anziché dar la caccia al sospetto aspirante
violentatore.
Sto attingendo alle lettere della più becera delle pubblica-
zioni naziste raccolte dallo storico americano Dennis
Showal- ter in Little Man, What Now: Der Stürmer in the
Weimar Republic. Showalter non si è limitato a riprodurre
quelle pub- blicate, ha ritrovato in quel che è sopravvissuto
degli archivi dello “Stü rmer” anche gli originali, scritti a
mano con grafia stentata e infantile, a volte quasi
incomprensibile, con le loro sgrammaticature e gli errori di
ortografia, su carta di ogni ori- gine e formato, per lo più su
fogli di quaderno. Sono scritte da persone di ogni
condizione sociale, commercianti, profes- sionisti, professori
di liceo, ma anche casalinghe e operai. So- prattutto sono
scritte da povera gente frustrata e rancorosa, che crede di
aver individuato il bersaglio delle proprie frustra- zioni negli
ebrei, in quelli che “guadagnano alle loro spalle”, nei
privilegiati e negli intellettuali da cui si sentono trattati con
sufficienza, nei politici “traditori del popolo” da cui si
sento- no abbandonati. Si rivolgono ai soli che sembrano
disposti ad ascoltarli, che danno sfogo alle loro frustrazioni,
che non li rimproverano di maleducazione, non gli danno
lezioni di bon ton, anzi li incitano a vuotare il sacco,
premiano l’autenticità del loro parlare “come mangiano”. Le
loro rimostranze trasu- dano ignoranza, rancori, odio,
fanatismo. Magari fossero ope- ra di cretini, di gente che dà
di matto. La cosa tremenda è che sono autentica vox populi.
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con molto anticipo il “potere della lagna”. Una madre si la-
menta di essersi data inutilmente da fare nel vano tentativo
di ottenere dalle autorità municipali la pubblica assistenza
che le spetterebbe (siamo nella primavera del 1932). Un let-
tore racconta la storia di un reduce di guerra carcerato. Sta
scontando una condanna a otto anni per avere minacciato
con un coltello una fruttivendola (presumibilmente ebrea).
Non è forse comprensibile che a un vecchio soldato saltino i
nervi di fronte a tanta avidità? I commercianti sono sempre
più avidi, gli ebrei sono tutti commercianti, quindi gli ebrei
sono avidi: questo il sillogismo. Un’altra lettera racconta il
caso di un nazionalsocialista con famiglia numerosa. Ha do-
dici figli. Uno di questi vorrebbe fare l’apprendista meccani-
co. Ma l’unico meccanico del luogo non lo vuole assumere,
non ama i nazionalsocialisti, è uno che simpatizza e vota per
i nazionalpopolari di Hugenberg (come per Lega e 5
Stelle, non si poteva ancora immaginare che i due partiti
sarebbero andati al governo insieme). Non potrebbe il
giornale fare qualcosa per trovare lavoro a un ragazzo
volenteroso discri- minato per la sua fede politica? Un
miliziano delle SA si ar- ruola in polizia. Gli dicono che deve
scegliere tra rinunciare alla sua tessera di partito o
rinunciare al lavoro in polizia. Il padre, impiegato delle
Poste, teme “rappresaglie politiche”, è troppo impaurito per
aiutare il giovane. Il giovane finisce sulla strada, dorme nelle
stazioni, vive di elemosina. Non lo si potrebbe aiutare?
Altri lamentano la dignità ferita, la mancanza di buona
educazione. Un uomo anziano va dal sindaco di
Norimber- ga, il democratico Hermann Luppe, chiedendogli
di aiutarlo con l’assegnazione di una casa popolare perché è
costretto a dormire coi figli in garage. Quello non lo fa
nemmeno acco- modare, gli risponde sgarbato che
dovrebbe fare meno figli. “Io sono un uomo semplice.
Possibile che le persone istruite si comportino a questo
modo?” Una donna racconta la pro- pria complicatissima
vicenda giudiziaria, cause e ricorsi su questioni di eredità ,
in cui a un certo punto sono coinvolti anche degli uomini
d’affari e degli agenti immobiliari ebrei.
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Il marito è “un debole”, la figlia è malata di cuore, il figlio è
soldato. “Mi tiene in vita solo il pensiero che Hitler vincerà e
gli ebrei saranno cacciati dal nuovo Reich,” conclude.
Nelle lettere allo “Stü rmer” il malumore si sfoga in gene-
re su piccolezze, cose di poco conto. Un lettore racconta di
una donna che occupa un intero sedile di un vagone di terza
classe coi propri bagagli. Le chiedono di far posto ai passeg-
geri in piedi. Lei fa finta di niente. Uno gli dice: lei deve esse-
re proprio ebrea, ché nessun tedesco sarebbe così maleduca-
to. La risposta che indigna il lettore: e allora? Discendete
comunque da noi. Un’altra lettera racconta di una donna
anziana costretta a viaggiare in piedi perché un genitore
ebreo rifiuta di prendersi sulle ginocchia il figlioletto che oc-
cupa un posto.
Spesso si inciampa in paranoie surreali. Un cliente la-
menta di essere entrato in un negozio per comprare un cap-
potto e che il commesso ebreo insisteva invece per vendergli
una giacca estiva. Una cliente si lamenta dell’etichetta del
vestito che ha comprato in una sartoria di ebrei. Dice: “Tutto
a credito, nessun anticipo, nove mesi per pagare”. L’elucu-
brazione: è un modo per offendere le clienti, dargli delle put-
tane, insinuare che “pagheranno” restando incinte. Una let-
tera denuncia la cospirazione ebraica per rendere piatti i
piedi delle signore ariane: diffondere l’uso dei tacchi alti.
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Innumerevoli le lettere in cui chi scrive lamenta di essere
stato “imbrogliato” dagli ebrei. In genere si tratta di
picco- lezze, di risentimenti per una compera di cui si è
pentiti, per aver pagato un prezzo eccessivo, della
sensazione di non es- sere stati trattati con rispetto,
dell’essere stati trascurati dal commesso del negozio, dal
medico curante della mutua, da chi avrebbe dovuto
occuparsi della pratica che giace inevasa negli uffici,
dall’impiegato allo sportello… Scortesi, quindi per forza
ebrei. Particolarmente curiosa questa recrimina- zione, di
mancanza di cortesia, rivolta a chi viene odiato per il fatto
stesso di esistere, a chi in realtà dovrebbe lamentarsi lui di
essere insultato in continuazione.
La calamita di tutte le lagnanze, il luogo di tutte le nefan-
dezze è il commercio. È al mercato, nei negozi, nei grandi
magazzini di loro proprietà che gli ebrei imbrogliano, suc-
chiano il sangue, cioè i soldi degli ignari tedeschi. Showalter,
che ha analizzato migliaia di queste lettere, osserva che molti
di coloro che si lamentano con tanta veemenza degli “imbro-
gli” a loro danno, semplicemente non hanno gli strumenti
aritmetici per poter tener dietro ai rapidi mutamenti subiti
dai prezzi nell’alternarsi di momenti di inflazione e deflazio-
ne, di stagione alta delle vendite e stagione di saldi. La
fru- strazione causata dal non riuscire più a seguire e a
capire quel che sta succedendo all’economia porta
facilmente a concludere che qualcuno sta cercando di
fregarti.
Ci sono molti modi per declinare il “piove, governo la-
dro”. Tutta colpa della burocrazia, dei corrotti, dei privile-
giati, degli immigrati, dell’etnicamente altro. Il gioco consi-
ste nel cercare di attribuire la responsabilità di tutto a
qualcuno su cui si possa dirigere il risentimento. Nella Ger-
mania di quegli anni assumeva principalmente le sembianze
degli ebrei. I quali poi erano anche stranieri, immigrati, bol-
scevichi o i politicanti dell’odiata Repubblica “giudaica” di
Weimar. O, ancora, gli ebrei che controllano la finanza inter-
nazionale, i governi di Francia e Inghilterra, le Borse. Ai
giorni nostri, se non è zuppa è pan bagnato: ancora gli immi-
grati, le élite, la casta, la Borsa, i poteri forti, i pensionati d’o-
ro, i burocrati dell’Europa, e delle istituzioni “che non az-
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zeccano mai i conti”. Con la crisi economica che mordeva,
il messaggio martellante, il sentire condiviso tra la gente
diven- ne: i soldi ci sono, ma qualcuno vi imbroglia e ve li
ruba, qualcuno che vi vuole male, ce l’ha con il popolo
tedesco, cioè con voi. Com’è che ho l’impressione di sentire
tutti gior- ni qualcosa di analogo? Si ripete nei discorsi
orecchiati al bar, nelle dichiarazioni in tv, persino nelle
immagini di reper- torio sempre identiche che nei
telegiornali accompagnano le notizie economiche: una
macchina che stampa montagne di banconote da 50 euro…
Questione di nomi
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no Siegfried. “Se l’intenzione era mascherare le origini ebrai-
che risultò controproducente: si diceva che solo agli ebrei
potevano piacere nomi siffatti”, osserva. Comunque furono
obbligati a cambiar nome, o almeno aggiungere un secondo
nome che denunciava l’origine ebraica. Fossi nato nella Ger-
mania nazista mi avrebbero obbligato a chiamarmi Israel an-
ziché Siegmund, fossi stato donna mi avrebbero obbligato a
chiamarmi Sara. Era il primo passo verso l’imposizione della
stella gialla.
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“Ebrei per intero [Volljuden]”, “ebrei per metà [Halbju-
den], i “misti [Mischlinge] di primo grado”, quelli di grado
diverso, i “discendenti da ebrei” [Judenstämmlinge].
E, aggiunge Klemperer, i “privilegiati”.
Questa è l’unica invenzione a proposito della quale ignoro se gli au-
tori fossero totalmente consapevoli della diabolica malvagità di quel-
lo che avevano escogitato. I privilegiati apparivano come tali solo nei
gruppi di ebrei che lavoravano in fabbrica; il loro privilegio consiste-
va nel non dover portare la stella e nel non dover abitare nelle “case
degli ebrei”. Si era privilegiati avendo contratto un matrimonio mi-
sto, purché da questo matrimonio fossero nati dei figli “allevati come
tedeschi”, vale a dire non registrati nella comunità ebraica. Questo
paragrafo, la cui interpretazione oscillante portò spesso a grottesche
cavillosità , fu forse escogitato soltanto per tutelare una parte di citta-
dini sfruttabili per fini nazisti; certo, nessun altro provvedimento eb-
be su un gruppo di ebrei un effetto più devastante e demoralizzante
di questa denominazione capace di suscitare tanta invidia e tanto
odio. Poche altre frasi ho sentito pronunciare con maggiore amarez-
za e frequenza di questa: “È un privilegiato”, cioè: paga meno
tasse di noi, non deve abitare nella casa degli ebrei, non porta la
stella, in certo qual modo può mimetizzarsi… E quanta superbia,
quanta mi- serabile gioia maligna – sì miserabile, perché in fin dei
conti erano nel nostro stesso inferno, anche se in un girone migliore
e alla fine i forni crematori hanno divorato anche i privilegiati –
quanto insistito distacco si avvertiva spesso in quelle due parole:
“Sono privilegia- to”!... Nella rubrica del mio lessico dedicata agli
ebrei, “privilegiato” occupa il secondo posto fra le parole peggiori; al
primo rimane sem- pre la stella.
La Nomenclatura dell’odio
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ostilità, di mettere i bastoni fra le ruote all’azione del nuovo
governo. La misero in atto subito, per decreto. Senza nean-
che aspettare che ci fosse opposizione o boicottaggio. La leg-
ge prevedeva la rimozione di tutti i funzionari ritenuti a giu-
dizio insindacabile del governo “inadeguati” o politicamente
inaffidabili. E in particolare di tutti i funzionari e dirigenti
pubblici “le cui precedenti attività politiche non garantisca-
no che diano in ogni circostanza il loro pieno sostegno
allo Stato nazionale”. Un’attenzione particolare è
ovviamente de- dicata agli ebrei, politicamente inaffidabili
per definizione. Il decreto definisce “non ariano” chiunque
“discenda da geni- tori o nonni non ariani, ed ebrei in
particolare”. E precisa: “È sufficiente che uno solo dei
genitori e dei nonni sia non ariano”.
Il provvedimento fu accolto con entusiasmo. Liberava
posti di lavoro. Nel 1933, malgrado i tagli ancora in vigore
alla spesa pubblica e il blocco delle assunzioni, il licenzia-
mento in massa degli ebrei permise di assumere il 60 per
cento degli aspiranti al posto di insegnante. Nelle università
si liberarono di colpo oltre 5000 posti in organico per
laurea- ti, professori a contratto che non avevano passato i
concorsi, per altri che aspettavano da tempo il posto fisso. La
qualifica richiesta era essere simpatizzanti dei nazisti.
Poi le definizioni si faranno sempre più sottili e complica-
te. Da far invidia all’ars definitoria medievale. Il primo para-
grafo delle leggi “Per la protezione del Sangue e
dell’Onore tedesco” annunciate a Norimberga nel 1935
stabiliva: “È proibito il matrimonio tra Ebrei e cittadini di
sangue Germa- nico o affine. Matrimoni contratti in
violazione di questa norma sono nulli”. Il decreto di
attuazione precisava che era da considerarsi pienamente
“ebreo” qualsiasi persona che avesse almeno tre nonni ebrei.
Chi avesse due nonni ebrei era da considerarsi Mischling,
misto (di primo grado). Ma tornava a essere ebreo a pieno
titolo se al momento dell’en- trata in vigore della legge (o
successivamente) professava la religione ebraica o aveva
una moglie ebrea. Irrimediabilmen- te ebrei erano anche i
figli concepiti, non importa se in matri- monio o fuori del
matrimonio, in violazione delle leggi raz-
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ziali. Chi avesse un solo nonno ebreo era considerato “misto”
di secondo grado, quasi ariano. Si spaccava il capello in
quattro, anzi all’infinito. Si aggiunsero anno dopo anno nuo-
vi supplementi alla legge “Per la protezione del Sangue tede-
sco”. Ben 5 nel solo biennio 1936-37. Ognuno introduceva
nuove restrizioni.
Agli ebrei era stato proibito avere impieghi pubblici, poi
gli fu proibito insegnare, esercitare la professione di medico
o dentista, fare l’avvocato, essere titolari di ristoranti o bar,
poi essere titolari di qualsiasi attività. Dovevano solo andar-
sene, andarsene tutti. L’obiettivo dichiarato era rendergli la
vita impossibile, per spingerli alla “totale emigrazione”. Ma
verso dove? A parole la comunità internazionale esprimeva
comprensione e solidarietà. Nell’estate del 1938 fu convoca-
ta, su iniziativa del presidente americano Roosevelt, una con-
ferenza internazionale a Evian per distribuire i profughi.
Parteciparono trentadue paesi. Si concluse in un fallimento
clamoroso. Il “Vö lkischer Beobachter” titolò soddisfatto:
Nessuno li vuole.
Quelli che furono costretti o vollero restare vennero
schedati con gran zelo. Sapevano dove andarli a cercare. Il
censimento del 1933 non teneva ancora conto di tutte le di-
stinzioni bizantine sul grado di ebraicità. Il censimento del
1939 registrò invece pure la presenza di un solo nonno
ebreo. Anche nella Germania nazista i dati individuali
ufficialmente erano riservati ai soli fini statistici. E invece
vennero trasmes- si agli schedari di polizia (ormai in mano
alle SS), con nome, cognome, mestiere, gradi di
inquinamento della razza, muta- menti di domicilio. Se ne
sarebbero serviti nella conferenza di Wannsee in cui si
decise la “soluzione finale”.
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7.
Il lupo si traveste da agnello
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da uomo di Stato, niente a che vedere con le tirate fanatiche
e bellicose cui il suo pubblico era abituato. Chiamava all’uni-
tà nazionale. Si diceva impegnato appieno “nella preserva-
zione e nel mantenimento della pace, di cui il mondo ora più
che mai ha bisogno”. Esprimeva “gli auguri più sinceri per il
benessere dell’Europa, anzi del mondo intero”. Un giorno
Mister Hyde, l’indomani Doctor Jekyll.
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all’estero, di turbare l’immagine di una Germania forte e
unita che gli serviva proiettare in quel momento. La mano
tesa si estese anche ai nemici irriducibili, a quelli che
chiama- vano con disprezzo “marxisti”, cioè i
socialdemocratici dell’Spd. Quelli gli risposero che erano
ben disposti ad ap- poggiare qualsiasi “proposta positiva”,
sia sul piano interno che in politica estera, ma a una sola
condizione: che fosse aderente alla lettera e allo spirito
della Costituzione. I pieni poteri violavano il ruolo che la
Costituzione di Weimar asse- gnava al Parlamento, in
pratica lo esautoravano. Questo era il motivo per cui
avrebbero votato contro, annunciarono tra boati e fischi
degli sgherri nazisti che occupavano l’aula. Era- no rimasti
soli a opporsi. Gli 87 deputati comunisti erano già stati
arrestati o costretti alla clandestinità. Tutti gli altri parti- ti
avevano capitolato, compreso il Zentrum cattolico che pu- re
aveva rifiutato di far parte del gabinetto Hitler.
Il primo a intervenire e a pronunciare la dichiarazione di
voto del suo partito era stato il presidente dell’Spd e
capo- gruppo parlamentare Otto Wels. Qualcuno l’aveva
avvertito che rischiava la vita, lo aveva implorato di non
esporsi, di la- sciare il compito a un deputato più giovane.
Otto deputati Spd erano già agli arresti, uno era finito in
ospedale dopo es- sere stato picchiato dalle SA ormai
ufficialmente riconosciu- te come “polizia ausiliaria”. Solo
94 dei 120 eletti dell’Spd erano riusciti a entrare, tra due ali
di miliziani nazisti urlanti, nella Krolloper dove, causa
inagibilità del Reichstag, era stato provvisoriamente
convocato il Parlamento. La riunione era presieduta da
Gö ring. Dietro di lui campeggiava un’enorme bandiera con
la svastica. SA in uniforme occupavano i pal- chi, si
aggiravano anche in mezzo ai deputati, scandendo:
“Vogliamo i pieni poteri, se no la pagherete cara!”. Wels,
smentendo la fama di grigio uomo d’apparato, fece un bel
discorso. “Non riuscirete a far tornare indietro la ruota della
storia… Noi socialdemocratici ci impegniamo solennemente
a sostenere i principi di umanità e giustizia, libertà e sociali-
smo”, disse rivolto al governo. E rimasero soli. La legge
sui pieni poteri fu approvata con 444 voti a favore, 94
contro.
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Così si suicidò il Parlamento della Repubblica di Weimar.
Ma in realtà il suicidio era iniziato molto prima. Il Reichstag
aveva cessato almeno dal 1929 in poi di essere il luogo in cui
si manifestava la sovranità popolare. Le decisioni cruciali
erano diventate gradualmente prerogativa di una cerchia
sempre più ristretta. Prima erano stati i partiti ad arrogarsi
le decisioni più importanti lasciando ai parlamentari rappre-
sentanti del popolo il compito di eseguirle, votando come gli
veniva comandato. Poi cominciarono a non contare più
niente nemmeno le direzioni e le segreterie dei partiti, e da
un certo punto in poi nemmeno i ministri. Nel 1932 a
deci- dere la sorte dei governi, le alleanze, gli accordi al
vertice era già un numero ristrettissimo di persone. Dentro e
fuori dai partiti, e addirittura più fuori che dentro il
governo. Quelli che oggi vengono chiamati i “poteri forti”, la
Banca centrale, gli altri banchieri, le lobby, i rappresentanti
della grande in- dustria, delle corporazioni, delle
associazioni, dei singoli gruppi di interesse. La Rdi
(Reichsverband der Deutschen In- dustrie, la Confindustria
tedesca) da una parte e i sindacati dall’altra contavano e
decidevano più dell’intero Parlamen- to. I sindacati
preferivano trattare direttamente col padrona- to, anziché
rivendicare una legislazione. Piuttosto che ai de- putati del
Reichstag, tutti preferivano affidarsi all’expertise di think
tank privati. Sarebbe stato un momento d’oro per la
Casaleggio associati. Un gruppo di interesse particolare, di
cui tutti gli altri dovevano tener conto, erano poi le Forze
armate.
Il Partito nazionalsocialista era favorito dal fatto di avere
un leader indiscusso e indiscutibile, deciso a eliminare bru-
talmente ogni dissidenza interna, a schiacciare spietatamen-
te, se necessario eliminare fisicamente tutti i potenziali
rivali, chiunque fosse sospetto di disobbedienza o sfida alla
sua au- torità. Se c’era da trattare con altri trattava solo lui, o
tramite qualcuno di cui potesse fidarsi in modo assoluto.
Il Parlamento era stato esautorato di fatto già molto pri-
ma che Hitler lo rendesse anche formalmente inutile facen-
dosi dare i pieni poteri. Erano stati i governi che avevano
preceduto quello di Hitler ad abusare sistematicamente
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dell’articolo 48 della Costituzione di Weimar che consentiva
– ma solo in casi eccezionali – di legiferare per decreto presi-
denziale, anziché con leggi regolarmente discusse e approva-
te dal Parlamento. A ricorrere in modo sistematico ai decreti
presidenziali era stato il governo Brü ning, “tollerato” – in
pratica sostenuto – dai socialdemocratici. Nel 1930 il Reich-
stag aveva fatto 98 leggi, il Presidente della Repubblica ne
aveva fatte per decreto solo 5. Nel 1931 le leggi approvate
per via parlamentare erano state 32, ma i decreti
presidenzia- li 44. Nel 1932 il Parlamento era riuscito a farne
solo 5, men- tre il numero dei decreti presidenziali era
balzato a 66.
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non riprese più le pubblicazioni. Ancora poche settimane e
oltre ai suoi giornali fu messo fuori legge il Partito socialde-
mocratico. A luglio avrebbe fatto seguito lo scioglimento di
tutti gli altri partiti, compresi quelli che avevano votato a fa-
vore dei pieni poteri a Hitler. Nel tentativo di rabbonire i
nazisti, Wels era arrivato a chiedere pubblicamente all’Inter-
nazionale socialista di smettere di pubblicare notizie “false”
ed “esagerate” su persecuzioni in corso in Germania, su pre-
sunte “atrocità” commesse dalle orde nazionalsocialiste.
Quelli giustamente rifiutarono di farsi condizionare. E Wels
ritirò polemicamente il rappresentante dell’Spd dall’Interna-
zionale.
Una sedicente Associazione degli ebrei nazional-tedeschi
fece anche di più . Pubblicò addirittura un libro intero,
tradot- to in diverse lingue, per smentire che ci fossero
persecuzioni. Si intitolava: La propaganda dell’orrore è una
propaganda di menzogne! Le vittime che fanno propaganda
ai loro persecu- tori! È il colmo per Karl Kraus, il brillante
polemista vienne- se che da maggio a settembre del 1933
annota e chiosa con sferzante ironia tutti gli orrori e tutte le
stupidaggini di cui gli giunge notizia dalla Germania (quasi
cinquecento pagine, raccolte sotto il titolo La terza notte di
Valpurga, che doveva- no essere un quaderno speciale della
sua rivista “Die Fackel”, la Fiaccola, ma furono pubblicate
solo nel dopoguerra). “Cosa mai è impossibile in un
manicomio in cui l’infermo può aggredire l’infermiere e
diventare subito Presidente del Consiglio dei ministri?”
In realtà di “esagerato” c’era solo la pretesa che tutto pro-
cedesse normalmente, e l’illusione che si potesse andare a un
accomodamento coi nazisti. Le “atrocità” c’erano, eccome. Le
immagini del 21 marzo 1933 mostrano un Hitler in abiti
civili che si inchina al Presidente della Repubblica
Hindenburg in divisa militare. Sino a quasi un attimo prima
la stampa nazi- sta lo aveva vilipeso perché rifiutava di
nominare Hitler can- celliere, ne chiedevano l’impeachement.
Proprio lo stesso 21 marzo era stato inaugurato a Dachau,
una ventina di chilo- metri da Monaco, il primo campo di
concentramento per oppositori politici. Ad annunciarlo
alla stampa, con tanto di
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foto che mostravano l’amenità del luogo e molta insistenza
sull’umanità del trattamento riservato ai primi 5000 prigio-
nieri “comunisti” e altri “nemici del Reich”, fu Himmler,
nella sua carica di neopresidente della polizia di Monaco. Al-
leviava, spiegò , il sovraffollamento nelle carceri. Gli ospiti vi
sarebbero stati trattenuti il tempo necessario alla loro “rie-
ducazione”. Quando vi mandarono gli ebrei, dissero che era
una misura per “proteggerli” dal furore del popolo. Il
cam- po era gestito direttamente dalle SS, entrate negli
organici della Polizia di Stato. Un lager modello, tanto che
all’inizio ci portavano persino i turisti in visita.
A Berlino continuavano intanto a funzionare a pieno re-
gime le camere di tortura “ufficiose” gestite dalle SA. Ecco la
descrizione che ne fa, non un oppositore, non una vittima,
ma l’allora capo della Gestapo Rudolf Diels, fresco di
nomi- na da parte di Gö ring, dopo avervi fatto irruzione
nella sua nuova veste ufficiale: stanze buie e nude, da cui
erano stati rimossi i mobili, il pavimento ricoperto di paglia,
sporco di sangue e urina; i prigionieri ridotti a scheletri,
denutriti, disi- dratati, la testa penzolante sulle spalle,
“come di fantocci”, costretti a stare in piedi, per giorni,
senza cibo e acqua, tra una sessione di tortura e l’altra, tra
un pestaggio e l’altro, im- partiti a turni da una dozzina di
bruti delle SA con spranghe di ferro, manganelli di gomma,
fruste di cuoio…“Un inferno peggiore di quelli descritti da
Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel”, il commento di
Diels, nelle memorie che avrebbe pubblicato dopo la
guerra, Lucifer ante portas.
Ma perché scrivo di questo? Non ci sono camere di
tor- tura nel nostro presente, o almeno così pare, se
qualcuno dalla parte dell’ordine sgarra, viene processato
e punito. Non ci sono campi di concentramento, solo
centri di acco- glienza per stranieri non in regola. O no? Il
déjà vu si an- nida in un dettaglio apparentemente
secondario: nel mini- mizzare, negare tutto, anche
l’evidenza. Chiunque denunci o racconti qualcosa di non
gradito, “mente” per definizione. Sono “favole”,
“esagerazioni”, “invenzioni”, insomma solo propaganda
malevola per mettere in cattiva luce il governo del
cambiamento.
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Né leader né Congresso per l’opposizione
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sapesse imporsi alle molte anime del partito, così come
Hitler si era imposto alle molte anime del movimento
nazionalsocia- lista e poi alle ancora più numerose anime del
blocco che uni- va destra e populisti.
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Buber, ma non lo aveva seguito in Palestina quando questi
emigrò con le figlie. Militante e funzionaria comunista, era
diventata la compagna di Heinz Neumann, uno dei massimi
dirigenti del Kpd. Dopo la presa del potere da parte dei
na- zisti si erano rifugiati a Mosca. La coppia viveva
nell’Hotel Lux, come gli altri dirigenti del Comintern. Nel
1937 Neu- mann fu arrestato dalla Nkvd. Di lui non si è più
saputo nul- la, non c’è alcuna notizia affidabile sulla data, il
luogo, le cir- costanze della morte. La colpa? Aver contestato
nel 1932 la linea di rottura coi socialdemocratici imposta
da Stalin? Averla attuata con troppo zelo? Non si sa.
Margarete aveva cercato inutilmente e a lungo di avere
notizie del marito. Poi commise un altro errore: cercò di
riavere il passaporto tede- sco, che, come per tutti gli ospiti
del Lux, veniva ritirato al momento dell’arrivo. Forse
voleva raggiungere la sorella Ba- bette, moglie di Willi
Mü nzenberg, l’importante agente del Comintern che era
riuscito a farsi mandare a Parigi. Invece l’arrestarono e la
spedirono in Siberia. Dalla Siberia sarebbe poi stata rispedita
in Germania, dove i nazisti la rinchiusero nel campo di
concentramento per donne di Ravensbrü ck. A Ravensbrü ck
avrebbe conosciuto e fatto amicizia con la gior- nalista e
scrittrice Milena Jesenská, ingiustamente ricordata solo
come fidanzata di Kafka.
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all’Spd, dichiarò la sua organizzazione politicamente “neu-
tra” e disse che avrebbero giudicato il nuovo governo
“alla prova dei fatti”, sul concreto delle politiche
economiche e nei confronti dei lavoratori.
In realtà il governo aveva già deciso e molti dirigenti di
categoria avevano già negoziato la confluenza di tutte le
orga- nizzazioni sindacali preesistenti in un unico sindacato
sotto controllo nazista. Buona parte dei vecchi gruppi
dirigenti aveva aderito con convinzione, alcuni
entusiasticamente. Se- guivano la loro base, si potrebbe dire
a loro giustificazione. Operai, impiegati e disoccupati già
avevano abbandonato in massa la sinistra nelle urne,
votando per i nazisti. Da non cre- dersi? Ho letto da qualche
parte che un terzo dei quadri della Cgil ha simpatie o ha
votato per la Lega o i 5 Stelle. Io non ci credo. Ma il ’33 mi
dice che non è affatto impossibile. Chi non voleva
adeguarsi, o non era di pura razza germanica ven- ne messo
da parte, o peggio. Lo stesso Leipart, che nel 1933 aveva
superato la sessantina, fu trattenuto in una delle fami-
gerate camere di tortura che le SA operavano a Berlino. Il
9 maggio, pochi giorni dopo il Primo maggio “unitario”
che avrebbe dovuto riconciliare nazisti e organizzazioni dei
lavo- ratori, fu sottoposto a un’indagine per “tradimento”.
Non ar- rivò mai a conclusione, ma inviarono Leipart “per
sua prote- zione” in un campo di concentramento. Lo
liberarono perché in cattive condizioni di salute. Ma gli
tolsero la pensione.
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telli / affondiamoli nel petto dell’ebreo / noi ci caghiamo
sulla libertà di questa Repubblica giudaica”.
In apparenza il governo prendeva le distanze dagli
episodi quotidiani di arresti arbitrari, intimidazioni,
umiliazioni, sac- cheggi a danno di ebrei, delle loro
proprietà, dei loro negozi e delle sinagoghe. Erano
“spontanei”, si diceva. Quando il 9 marzo, pochi giorni
dopo le elezioni, le squadre di Camicie brune invasero il
quartiere ebraico di Berlino e fecero una re- tata di ebrei
provenienti dall’Est, il governo non ebbe da ri- dire:
dopotutto era un’operazione di polizia contro immigrati
irregolari. Così come nessuno fece una piega per le retate e le
perquisizioni nelle case di ebrei sospettati di detenere armi.
Arrestavano i detentori anche quando si trattava di cimeli di
guerra, sciabole da ufficiale conservate accanto alle medaglie
al valore. Non valeva che esibissero regolari denunce di pos-
sesso, porto d’armi in piena regola, magari appena
rinnovato. L’ebreo era delinquente e terrorista per
definizione, anche se la persona in questione era un affermato
professionista, faceva l’avvocato o il giudice. O magari era
stato commissario o ad- dirittura capo della polizia. Contro
Bernhard Weiß, vicepresi- dente della polizia di Berlino, era
stato spiccato un mandato di cattura il giorno dopo la
nomina di Hitler a cancelliere. L’a- vrebbero di certo mandato
a Dachau se non avesse già lasciato il paese. Non era uomo di
sinistra, tutt’altro. Era un servitore dello Stato che faceva con
solerzia il suo mestiere. Ma non gli perdonavano di essere
ebreo (nei comizi, Goebbels lo irride- va chiamandolo
Isidore) e uomo delle istituzioni (cioè fedele servitore della
Repubblica di Weimar, repubblica “giudaica” secondo i
nazisti).
Quando a Breslau invasero l’aula del tribunale e caccia-
rono via giudici e avvocati ebrei, si disse che era “un’azione
indipendente”, non autorizzata. Hitler continuava a non
parlare pubblicamente della “questione ebraica”. Ma quan-
do le organizzazioni ebraiche americane ed europee lancia-
rono un boicottaggio dei prodotti tedeschi, fu lui a incarica-
re Julius Streicher, il più rabbioso antisemita nei ranghi
nazisti, di organizzare per il primo aprile un boicottaggio a
tappeto dei negozi, dei grandi magazzini e degli studi profes-
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sionali di ebrei. “Tedeschi, difendetevi. Non comprate
dagli Ebrei”, era la parola d’ordine. Goebbels la presentò
come risposta alla “dichiarazione di guerra economica” che
era ve- nuta dall’“ebraismo mondiale”.
Il boicottaggio economico durò , per espresso ordine della
cancelleria, solo nove ore, nel giorno per cui era stato procla-
mato, il primo aprile 1930. Aveva prodotto un crollo alla
Bor- sa di Berlino. La stampa americana riferì che il ministro
degli Esteri von Neurath aveva minacciato le dimissioni se si
fosse andati avanti su questa strada. La Germania stava
correndo veloce verso la bancarotta. Il vicecancelliere Papen
si era rivol- to al presidente Hindenburg perché intervenisse.
Hindenburg avrebbe chiamato Hitler, gli avrebbe fatto “una
lavata di ca- po” e gli avrebbe chiesto di smetterla. Il
Presidente avrebbe minacciato altrimenti la proclamazione
della legge marziale e il decadimento del governo. Non ci
sono prove che sia andata proprio così. Probabilmente è solo
un’invenzione giornalistica per spiegare perché Hitler fosse
addivenuto a più miti consi- gli. A me però fa venire in
mente i giorni convulsi di quando lo spread aveva ripreso
a correre a rotta di collo, il paese ri- schiava sanzioni, si
riaffacciava lo spettro del default, finché il governo non
aveva deciso di trattare con Bruxelles.
Non per questo erano cessate le polemiche. Intervenen-
do alla Federazione dei medici tedeschi, Hitler se la prese
con le proteste in America, sostenendo che gli americani era-
no gli ultimi a potersi permettere di criticare l’antisemitismo
in Germania, dal momento che erano stati “i primi a
trarre conclusioni pratiche e politiche dalla differenza tra le
razze”. E non mancò di ricordare che erano le leggi
sull’immigrazio- ne americane a impedire l’ingresso negli
Stati Uniti dei “co- siddetti profughi ebrei dalla Germania”.
Sarò fissato, ma mi fa venire in mente i “senti un po’ chi ci
critica” rivolti alla Francia di Macron.
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co. Sarebbero stati davvero “assolutamente tranquilli” in ca-
so di richiesta di autorizzazione a procedere. Anzi, non
aspettavano altro, ne avrebbero approfittato. Erano habitué
delle aule di giustizia, maestri nel trarre vantaggio politico
dai processi, nel trasformarli in tribune da cui fare propa-
ganda. A cominciare da quello in cui erano finiti sul banco
degli accusati per il putsch della Birreria a Monaco nel 1923,
conclusosi con condanne peraltro abbastanza miti.
Nel 1930 Hitler aveva fatto un gran numero al processo a
Lipsia contro tre giovani ufficiali accusati di aver fatto pro-
paganda per un intervento dei militari a fianco dei nazisti.
Aveva preso le distanze da coloro che nel partito “si gingilla-
vano con la parola rivoluzione” e ribadito che il suo movi-
mento avrebbe perseguito il potere solo nell’assoluta legalità
costituzionale. Prevedeva, aveva aggiunto, di conquistare la
maggioranza nel giro di altre due o tre tornate elettorali. “Al-
lora sì che modelleremo lo Stato secondo il nostro volere”,
“e cadranno molte teste”, aveva concluso, tra applausi e urla
di “bravo”, interrotte dal presidente della corte che ammonì
il pubblico ricordando che non ci si trovava “né a teatro né a
un raduno politico”.
Nel maggio 1931 un giovane avvocato ebreo di Berlino,
ancora neanche ventottenne, era riuscito a portare Hitler in
tribunale. Non come imputato ma come testimone a un pro-
cesso a carico di tre militanti nazisti che avevano attaccato il
Tanzpalast Eden, una sala da ballo frequentata, a loro
dire, da stranieri e comunisti. Non era il peggiore dei fatti di
san- gue di quei tempi. Ma la presenza del Fü hrer al
processo lo trasformò in un avvenimento mediatico.
Fotografi e giornali- sti presero d’assalto la sede del
tribunale penale nel quartiere di Moabit. Hitler era stato
convocato come persona infor- mata dei fatti su richiesta
dell’avvocato di parte civile, in rap- presentanza dei feriti
nell’assalto. Si presentò significativa- mente in completo blu
scuro, non nell’uniforme abituale. Il presidente della corte
mise a tacere i sostenitori che al suo ingresso nell’aula 664
erano scattati in piedi nel saluto nazi- sta. Poi rivolse al
testimone la prima domanda. Gli chiese se
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era a conoscenza di squadre punitive organizzate dal suo
partito.
Hitler negò decisamente che ci fossero squadre punitive
organizzate e ispirate sotto la sua leadership. Sostenne, come
aveva fatto in altre occasioni, che il Partito nazionalsocialista
rifiutava la violenza e si atteneva rigorosamente a metodi le-
gali nella lotta politica. Disse che le sue SA,
Sturmabteilung, squadre d’assalto, avevano solo il
compito di difendere il partito dagli “assassini rossi” (al che
il presidente della corte lo pregò di moderare il
linguaggio). Lui insistette: “Non mi piace l’attuale
Costituzione. Ma so bene che andare al potere contro la
Costituzione comporterebbe un bagno di sangue. Se
dovessi trascinare i miei seguaci in una tale sciagura tradi-
rei la fiducia che hanno riposto in me…”.
Ma l’avvocato di parte civile, calmo ma implacabile, ave-
va continuato a chiedergli di spiegare, verbali e ritagli in ma-
no, le contraddizioni tra quel che diceva in aula e quel che lui
stesso aveva affermato in altre circostanze, e veniva ribadito
ogni giorno nelle pubblicazioni naziste. Se così stavano le co-
se, se il Partito nazista rispettava la legalità, allora perché
Goebbels insisteva che avrebbero “fatto la rivoluzione”,
“mandato il Parlamento al diavolo”, fatto sentire agli avver-
sari “i pugni dei tedeschi”? L’interrogatorio durò tre ore.
Finché Hitler perse le staffe e si mise a inveire.
L’avvocato Hans Litten l’avrebbe pagata cara: subì un
vero e proprio linciaggio da parte della stampa nazista. Fu
insultato, minacciato, arrivarono persino a vendicarsi sui
suoi famigliari, accusando suo padre di evasione fiscale.
Era un avvocato militante, come molti altri colleghi
impegnati nei processi politici degli anni venti, accusati dai
socialisti al go- verno di voler “politicizzare” e
“spettacolarizzare” la giusti- zia. In effetti, la consegna da
parte del Partito comunista era “non limitarsi a ridurre le
condanne ma trasformare in ogni occasione i processi in
palcoscenici della rivoluzione”. Lui non era comunista, ma
si era fatto notare come difensore in tutti i processi intentati
contro militanti della sinistra rivolu- zionaria. Quando al
governo giunsero i nazisti finì in campo
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02/04/19
di concentramento, e fu sottoposto a brutalità inenarrabili.
Morì suicida a Dachau (o almeno così dissero i suoi
aguzzini). L’anno dopo, nel 1932, Hitler cambiò maschera.
Si levò quella del moderato e difese a spada tratta i militanti
nazisti che avevano ucciso in una spedizione punitiva nella
cittadina mineraria di Potempa, in Bassa Slesia, un operaio
comunista immigrato dalla Polonia. La stampa nazista
scrisse che “era un onore difendere chi aveva messo a
tacere quel polacco”. Le nuove leggi per arginare le violenze
politiche avevano in- trodotto la pena di morte per questo
tipo di reati. Papen, che allora era cancelliere e non voleva
inimicarsi troppo Hitler, commutò la pena in ergastolo. Nel
1934 gli assassini di Po- tempa sarebbero stati amnistiati.
Evidentemente in quel mo-
mento gli faceva più comodo mostrarsi feroce.
Il 1933 avrebbe messo una pietra tombale sull’indipen-
denza della magistratura. Nessun giudice contestò i decreti
di emergenza. Nessuno tra i colleghi protestò quando venne-
ro rimossi dai loro incarichi i giudici e gli avvocati ebrei o
socialdemocratici. Anzi, c’era soddisfazione per i posti che si
liberavano e le possibilità di carriera. Nel 1934 sarebbero
state create le “Corti del popolo”, un vecchio sogno del nazi-
smo forcaiolo delle origini. Carl Schmitt teorizzò che era il
Fü hrer a impersonare la giustizia, quella viva fondata sul po-
polo, non quella che si impantana nei “cavilli”. “Il Fü hrer è
sempre anche il Giudice… Non è subordinato alla
Giustizia ma è lui stesso la Giustizia”, così l’“insigne giurista”
avrebbe giustificato la “Notte dei lunghi coltelli”, in cui
Hitler si era arrogato in contemporanei, i ruoli di
accusatore, giudice, giuria e boia.
Un “uomo di pace”
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li. Men che meno parlava di guerre, conquiste, imposizioni
con la forza su altri popoli “inferiori” a quello tedesco.
Non usava un linguaggio violento o insultante nei con-
fronti degli altri leader mondiali. Non si sarebbe permesso di
dare dell’ubriacone e neanche del burocrate a quelli che gli
stavano sullo stomaco. Lo fece solo molto più tardi, a guerra
già inoltrata. Era il 30 gennaio 1942 quando in un discorso
trasmesso e ritrasmesso dalla radio (lo stesso in cui promet-
teva “occhio per occhio, dente per dente” agli ebrei, se la
prese con “l’ubriacone che governa l’Inghilterra” [Chur-
chill] e con quel ”pazzo alla Casa bianca” [Roosevelt].
Questo voler apparire un agnello era assolutamente in-
tenzionale. È il Fü hrer in persona a spiegarlo in un incontro
con un gruppo scelto di giornalisti tedeschi nel novembre
1938:
Per decenni le circostanze mi hanno costretto a parlare quasi
esclusi- vamente di pace. Perché solo mettendo costantemente
l’enfasi sul desiderio di pace e le intenzioni pacifiche potevo
acquisire i prere- quisiti per il passo successivo. È evidente che
questa propaganda di pace martellata per decenni poteva anche
avere effetti indesiderati. Poteva ad esempio dare a molti
l’impressione erronea che l’attuale regime fosse disposto a
preservare la pace a qualunque costo e con- dizione… io ho parlato
per anni di pace in condizioni forzate. Ma adesso è giunto il
momento di preparare psicologicamente a poco a poco il popolo
tedesco al fatto che ci sono cose che non si possono ottenere con
mezzi pacifici. Ci sono cose che si possono conseguire solo con l’uso
della forza...
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prova valida di un vero imperialismo… non si parla dell’annessione
di territori nemici… Ma si veda invece uno dei canti più caratteristici
del Terzo Reich, che già nel 1934 fu accolto nel Singkamerad, raccol-
ta di canti per le scuole della gioventù tedesca… “Tremano le
fradi- cie ossa/ del mondo davanti alla rossa guerra/ Abbiamo
infranto il grande timore, / per noi è stata una grande vittoria./
Continueremo la nostra marcia/ quando tutto va in rovina, / perché
oggi ci appar- tiene la Germania/ ma domani il mondo intero.” Il
canto è in gran voga subito dopo la vittoria interna, quindi dopo
l’ascesa al governo di Hitler, il quale in ogni discorso insiste sulla
volontà di pace… Ep- pure nel canto si parla di mandare tutto in
rovina per arrivare a con- quistare il mondo. E per non lasciare alcun
dubbio sulla certezza di questa volontà di conquista, nelle due strofe
che seguono si ripete, prima che ridurremo “il mondo intero a un
mucchio di macerie”, poi che invano i “mondi” (al plurale!!) si
opporranno a noi, mentre per ben tre volte il ritornello assicura che
domani il mondo intero ci apparterrà … Il Fü hrer teneva un
discorso di pace dietro l’altro e i suoi ragazzi della Hitlerjugend,
grandi e piccini, erano costretti a cantare anno dopo anno questo
testo pazzesco…
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tinueremo a marciare quando tutto va in rovina / la libertà è
sorta in Germania e domani le apparterrà il mondo”.
Basterebbe la metamorfosi di questa sillaba a giustificare
la superiorità della filologia sulla diplomazia e sul giornali-
smo. Ma non c’era bisogno di essere filologi, e nemmeno
profeti, per intuire dove si andava a parare. Sarebbe bastata
un pochino di memoria, ricordarsi quel che dicevano i di-
scorsi e gli slogan di poco prima della andata al governo (lo-
ro la chiamavano Machtergreifung, “presa del potere”). In
questo caso il déjà vu riguarda una malattia diffusissima, en-
demica in tutto il mondo: l’amnesia, l’Alzheimer dei
popoli, la coazione a dimenticare e far dimenticare quel che
si è det- to poco prima.
L’illusione che in realtà Hitler fosse un moderato, che fa-
ceva la voce grossa per accontentare la sua base, ma in fondo
in fondo voleva trattare, non rompere, voleva la pace, non
una nuova guerra, sarebbe durata fino all’ultimo. Chamber-
lain era assolutamente sincero e convinto quando tornò a
Londra da Monaco nel 1938 sventolando un pezzo di carta
su cui aveva sottoscritto assieme a Hitler l’impegno per cui
Germania e Inghilterra non si sarebbero mai più fatte la
guerra e disse le ultime parole famose: “Ecco la pace del no-
stro tempo”. E dire che la Germania era uscita già
nell’otto- bre del 1933 sia dalla Conferenza per il disarmo di
Ginevra, sia dalla Lega delle Nazioni.
Per confermare questa decisione nel modo più solenne
possibile avevano indetto un referendum. I Ja, sì, furono
39.350.000, il 95,1% dei votanti. L’esito era scontato: la pace
imposta a Versailles alla fine della Prima guerra mondiale
era estremamente impopolare. E comunque guai a sgarrare.
A votar contro si veniva incriminati come traditori della
patria. Giacché gli elettori venivano convocati alle urne, ne
appro- fittarono per accompagnare al plebiscito anche nuove
elezio- ni per il rinnovo del Reichstag. La volta prima era
stata il 5 marzo, erano passati appena sette mesi. Ormai
però non si poteva più parlare propriamente di elezioni. Era
solo un’e- sercitazione formale, un’occasione di
mobilitazione e di pro- paganda. Di partiti da votare non ne
restava che uno solo: il
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Partito nazionalsocialista. Gli altri erano stati soppressi, o si
erano suicidati. Già dal 14 luglio erano stati aboliti tutti
gli altri partiti, ed era stato formalmente vietato di fondarne
di nuovi. La lista del Nsdap ottenne 39.650.000 voti,
addirittu- ra qualcuno in più che nel referendum.
Dalle elezioni politiche del 5 marzo in poi in Germania si
fecero solo plebisciti. Con esito scontato e sempre con le
stesse fantastiche percentuali di adesione. Alla morte del
Presidente Hindenburg i tedeschi furono chiamati alle urne
il 19 agosto 1934 per ratificare l’unificazione del ruolo di
cancelliere e presidente della Repubblica, nella persona ov-
viamente del Fü hrer. Si fece poi un altro referendum nel
1936 per approvare la rioccupazione della Renania in barba
alle clausole del Trattato di Versailles. E poi ancora un refe-
rendum per l’Anschluss, la riunificazione con l’Austria, nel
1938. A fatto, cioè invasione compiuta, peraltro. Non era più
possibile esprimere dissenso, anzi non era nemmeno conce-
pibile.
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8.
Uomini che odiano i giornali
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storiella che circolava a Berlino tra i suoi colleghi dei giornali
del gruppo Ullstein, nel quale era stato assunto come redat-
tore scientifico. Rende un’idea del clima complessivo di in-
certezza che attraversava la Germania. Anche se è riferito in
modo specifico all’aria che spirava nelle redazioni del mag-
gior gruppo editoriale progressista della Germania, prima
ancora della nomina di Hitler a cancelliere. Erano iniziati da
tempo i licenziamenti, i prepensionamenti, le riduzioni del
personale. Nessuno, neanche le grandi firme, poteva essere
sicuro che la prossima testa a cadere, senza preavviso, non
fosse la propria. La crisi continuava a mordere pubblicità e
vendite.
Il gruppo Ullstein era un gigante, pubblicava alcuni dei
quotidiani più prestigiosi, tra cui il “Vossische Zeitung”,
portabandiera del giornalismo liberale e progressista. Aveva
sede nella Kochstrasse, in pieno centro di Berlino, dove oc-
cupava un intero isolato. Per Casa Ullstein lavoravano dieci-
mila persone. Il loro quartier generale era una città nella cit-
tà, un alveare di testate, direttori, caporedattori, giornalisti,
segretarie, fattorini. Solo per spolverare e lucidare, svuotare
i cestini della carta nella sede di questo impero editoriale
era- no impegnate trecento donne delle pulizie. Ma più un
grup- po editoriale era grande e potente, più era vulnerabile
ai ri- catti. Gli Ullstein erano una famiglia ebraica. Ma gli
eredi erano meno interessati alla difesa della democrazia
repubbli- cana e della libertà di stampa di quanto fosse stato
il fonda- tore. Cambiava pure, sia pure in maniera non
dichiarata, la linea. Si adeguava ai mutamenti nell’opinione
pubblica. Ad esempio, i giornali del gruppo Ullstein avevano
sempre con- dotto una battaglia appassionata contro la
pena di morte. Ma sull’onda dell’emozione suscitata dai
processi ai serial killer, il “Lupo mannaro di Hannover”
Haarmann e il “Vam- piro di Dü sseldorf” Kü rten, era stata
data indicazione alle redazioni di abbandonare la campagna
contro le esecuzioni capitali “perché non ce lo possiamo più
permettere”. Koestler racconta di aver visto sparire dal
giornale le firme più presti- giose, gli opinionisti più
indipendenti, i cronisti più corag- giosi. “Si vedevano volti
nuovi, sparivano le vecchie mae-
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stranze… Benché gli Ullstein fossero ebrei, le vittime
dell’epurazione erano tutti ebrei, i rimpiazzanti, a quanto mi
ricordo, tutti ariani... benché gli Ullstein avessero opinioni
progressiste, quelli che venivano mandati via erano tutti di
sinistra, quelli che venivano assunti tutti nazionalisti.”
Non era ancora scontato che arrivassero al potere i nazi-
sti. Anzi. C’erano, ricorda Koestler, gli ottimisti per
profes- sione, e gli ottimisti per temperamento. “I primi
ingannava- no i propri lettori, gli altri ingannavano se
stessi. C’era chi diceva: ‘Non possono essere così cattivi’; gli
altri: ‘Sono trop- po deboli, non ce la faranno’. Altri ancora:
‘Sono troppo for- ti, bisogna giungere a un accomodamento
con loro’; altri an- cora: ‘Vi fate spaventare da uno
spauracchio, siete paranoici’. Qualcuno predicava: ‘Odiarli
non serve a niente, bisogna cercare di comprenderli, dargli
fiducia’; e c’erano altri che semplicemente rifiutavano di
‘pensarci’.”
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gli avessero tirato per anni la volata, e fossero più beceri, più
reazionari, più violentemente avversi alla sinistra, alla demo-
crazia liberale, e agli ebrei, delle stesse pubblicazioni naziste.
Forse qualche motivo, o per lo meno qualche pretesto
per essere additati all’odio i giornali dell’epoca lo offrivano.
Weimar aveva grandi giornali, grandi giornalisti e grandi
edi- tori. Ma sarebbe vano cercare la grandeur leggendaria
che, negli stessi anni, aleggia sulla stampa americana. Il
cinema tedesco non avrebbe mai potuto produrre un
personaggio del calibro del Citizen Kane impersonato e
diretto nel 1940 da Orson Welles (Quarto potere, il titolo
italiano). Se c’è tra le due guerre una mistica del
poliziesco, del detective e del delitto tedeschi, non identici
ma paragonabili a quella ameri- cana, più difficile è ritrovare
un’analoga mistica del giornali-
smo e della libertà di stampa.
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ai democratici, al centro cattolico, al partito dell’economia,
che rappresenta classi medie e commercianti, ai nazionalpo-
pulisti del Volkspartei che ce l’hanno soprattutto con la “de-
mocrazia corrotta” di Weimar e con gli ebrei, ai comunisti
che seguono la politica dettata da Mosca e si preoccupano
più che altro di fare le scarpe ai socialisti, cui danno dei “so-
cial-fascisti”. E, ovviamente, ci sono pure i nazisti, anche
se contano ancora poco. Sono i soli che capiscono la rabbia
dei contadini e la cavalcano. Proprio nell’anno in cui
Fallada scriveva il suo romanzo, nella cittadina descritta col
nome fittizio di Altholm (in realtà Neumü nster), i
nazionalsociali- sti sarebbero balzati dal 4 al 27 per cento.
Tutti i partiti sono più o meno corrotti. Divisi in fazioni e
correnti che si sbranano. Leader e uomini dell’apparato han-
no un tratto comune: si fanno le scarpe a vicenda, sgomitano
per fare carriera. Qualcuno resta “per bene”. Tra questi, il
sindaco socialista della cittadina. Governa talvolta con mezzi
poco ortodossi. Ma tutto sommato con integrità , non è un
corrotto, non pensa ad arricchirsi. Un po’ di disinvoltura
fa parte del mestiere. Solo una categoria è ancora più
“disinvol- ta” dei politici: i giornalisti. I giornali sono messi
male, ven- dono poco, perdono lettori, sono in deficit,
hanno bilanci colabrodo. Sono a caccia perenne di notizie
sensazionali per vendere più copie, di introiti pubblicitari
per non fallire. Gli editori tramano ardite operazioni
finanziarie, se li passano di mano in mano, talvolta senza
che i dipendenti e i lettori neanche se ne accorgano. È un
vortice di compravendite di testate, di acquisizioni ostili,
quasi sempre segrete, fusioni opache.
Il titolo che originariamente l’autore aveva apposto al
manoscritto, e che, stando a quel che lui stesso ci
racconta, avrebbe di gran lunga preferito a quello con cui
poi uscì il romanzo, era: “Un piccolo circo”. Si riferisce a
un episodio narrato nel prologo: un piccolo circo arriva in
città e non vuole pagare la pubblicità sul giornale locale;
insomma resi- ste a una pratica ricattatoria. Il direttore del
giornale si ven- dica commissionando ai suoi redattori una
stroncatura dello spettacolo. Lo scrittore è uno che nei
giornali di provincia ha
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lavorato, quindi si può presumere che stia scrivendo con co-
gnizione di causa. A uscirne male però non sono solo giorna-
li, editori e giornalisti. È la politica nella Germania di
quegli anni. Non la politica delle grandi idee, delle
passioni infuo- cate che si scontrano a Berlino e in altre
importanti città , bensì la politica degli interessi angusti,
delle recriminazioni sorde e accumulate, degli asti a lungo
compressi, in una real- tà marginale, periferica, ancora legata
all’agricoltura e all’al- levamento.
“Il mio obiettivo era dire ‘Povera Germania’, non ‘poveri
contadini’”, avrebbe poi precisato Fallada. “Magari non è
arte eccelsa, ma è spaventoso quant’è realistico…” il giudi-
zio, da sinistra, di Kurt Tucholsky.
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vece usarono la radio per fare una martellante campagna
elettorale quotidiana. Monopolizzarono le assunzioni, bloc-
cando l’accesso a tutti gli altri partiti, compreso il Dnvp
del magnate dei media Hugenberg, loro alleato nel
governo. I nazisti avevano compreso la potenza del mezzo,
avevano im- parato a utilizzarlo. Il colpo di genio fu
l’accoppiata radio-al- toparlanti, trasmissione a distanza più
effetto stadio. Ecco il commento di Goebbels al discorso di
chiusura della campa- gna elettorale, pronunciato da Hitler
il 4 marzo a Kö nigs- berg e trasmesso in diretta:
“Resoconto grandioso. Hitler fantastico. Preghiera di
ringraziamento e suono delle campa- ne. 30-40 milioni di
ascoltatori…”.
Victor Klemperer, in una pagina del suo Lingua Tertii
Imperii, racconta di aver assistito alla diffusione di quell’e-
vento davanti alla facciata dell’albergo vicino alla stazione
di Dresda, tutta illuminata, da cui un altoparlante diffonde-
va il discorso. “Non l’ho mai visto, né l’ho ascoltato
parlare direttamente, agli ebrei era vietato…Del discorso
afferrai so- lo dei brani, in realtà più suoni che frasi… Non
sono mai riuscito a capire come con quella voce tutt’altro
che melo- diosa, sforzata fino all’urlo, con quelle frasi
rozze, spesso neppure in buon tedesco, con quella retorica
scoperta, del tutto estranea al carattere della lingua tedesca,
abbia potuto conquistare le masse, tenendole avvinte per un
tempo spa- ventosamente lungo…” “Il medium è il
messaggio”, avrebbe potuto rispondergli Marshall
McLuhan.
Goebbels curava di persona la regia delle trasmissioni, si
improvvisava cronista radiofonico. Le sue radio e cinecrona-
che sono accessibili su YouTube. Il tono di voce, il
sapiente dosaggio di alti e bassi fa venire in mente, alla mia
generazio- ne, le grandi radiocronache del calcio che fu.
Sembrava di esserci, allo stadio. Si riusciva a seguire tutto
anche senza ve- dere. Ora in televisione la partita si vede.
Ma almeno io non riesco più a seguirla: la moda, a quanto
pare, è che i com- mentatori dialoghino tra di loro, anziché
raccontare quel che succede in campo. Distraggono anziché
aiutare, si scambia- no un fuoco di fila di battute che io non
capisco. Goebbels è odioso, ma nessuno può dire di non
capire quel che dice.
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Alla Fiera internazionale della Radio di Berlino del 1933 era
stato presentato un ricevitore radio economico, alla portata
di tutte le tasche. Lo chiamarono Volksempfänger 301, rice-
vitore del popolo, 301 stava per la data della nomina di Hit-
ler a cancelliere. Fu il ministro della Propaganda del Reich a
ordinarne la produzione e diffusione di massa. Fino ad allora
la radio non aveva avuto grandi effetti sulle elezioni, era
stata politicamente neutrale o solo leggermente dalla parte
dei go- verni in carica e della democrazia di Weimar. Coi
nazisti di- venne onnipresente e onnipotente. Anche se si
dovette aspettare il 1939 perché il 70 per cento delle case
tedesche avesse una radio. Solo il cinema superava la radio
in popola- rità , e anche sul cinema il controllo divenne
totale. Era Goebbels a decidere che film si dovevano e
potevano fare. Possiamo solo immaginare cosa sarebbero
riusciti a fare se avessero avuto anche le televisioni e i
social.
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Una seconda ragione era dettata dal timore, tipico delle
paranoie imperanti nella sinistra, che i comunisti ne appro-
fittassero per “pugnalare alle spalle” i socialisti. Se sciopero
generale e protesta fossero sfociati in scontri sanguinosi tra
le milizie di sinistra e quelle naziste si rischiava di provocare
l’intervento dell’esercito. Contro i comunisti e di riflesso
contro l’intera sinistra. Mentre l’Spd pensava, sperava, di
potere ancora mobilitare la Reichswehr contro i nazisti.
Un’altra ragione ancora, non del tutto peregrina, era che
“uno sciopero generale difficilmente può riuscire quando ci
sono così tanti disoccupati”.
Alla messa al bando dei giornali della sinistra seguì la
proibizione di pubblicare qualsiasi notizia sgradita su qual-
siasi giornale. Il decreto “Per la protezione del popolo tede-
sco” del 4 febbraio 1933 prevedeva la messa al bando delle
“notizie scorrette”. A decidere cosa fosse “corretto” o “scor-
retto” era il ministro dell’Interno. E ministro dell’Interno,
anche se da pochi giorni, era il nazista Frick. Gli Interni ai
nazisti sembravano poca cosa in un governo zeppo di mini-
steri assegnati a esponenti non nazisti. E invece si rivelarono
decisivi.
“Ora abbiamo anche una leva contro la stampa. Le messe
al bando si susseguiranno a raffica. Il ‘Vorwärts’ e l’‘8 Uhr-A-
bendblatt’, e tutti gli altri organi ebraici che ci hanno causato
tanti fastidi e lutti, spariranno una volta per tutte dalle
strade di Berlino”, notò nel suo diario Goebbels.
Interessante l’accostamento. Il “Vorwärts” era un giorna-
le di partito, di quello che era stato a più riprese il primo
partito in Germania. L’“8-Uhr-Abendblatt” era invece un
giornale d’opinione, con simpatie liberal, anzi “progressi-
ste”, come amavano definirsi, ma non di partito. Appartene-
va alla famiglia Mosse, che l’aveva acquisito nel 1927, ag-
giungendolo al “Berliner Tageblatt” e ad altri giornali già in
loro possesso.
I giornali del gruppo Mosse erano molto prestigiosi. Lo
stesso Goebbels aveva cercato di farsi assumere al “Berliner
Tageblatt”, prima di diventare il braccio destro di Hitler e
prima di pubblicare un giornale tutto suo, “Der Angriff”.
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Farsi assumere dal “Berliner Tageblatt” era il massimo cui
un giornalista tedesco degli anni venti e trenta potesse aspi-
rare. Il direttore storico, e padre fondatore, del “Berliner Ta-
geblatt”, Theodor Wolff, si vantava spesso e volentieri di ri-
cevere in continuazione richieste di assunzione anche da
giornalisti del gruppo rivale, quello di Hugenberg.
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Gli editori si erano piegati a mandar via i giornalisti
sgradi- ti prima ancora che a imporglielo fosse il nuovo
regime. A co- minciare da quelli di razza sbagliata. Tra le
prime vittime illu- stri ci fu la cronista mondana della
“Vossische Zeitung”, Bella Fromm. Il suo licenziamento
suscitò parecchio clamore negli ambienti diplomatici. La
giornalista conosceva tout le monde a Berlino ed era
conosciuta da tutti. Era adorata dai lettori. Pia- ceva anche
all’editore. Ma aveva un difetto: era ebrea.
Ebrei erano anche i proprietari dell’impero Ullstein.
Pubblicavano numerosi tabloid, tra cui il “Berliner Zeitung”
(“B.Z.”), 200.000 copie, il “Berliner Morgenpost”, oltre
mezzo milione, il “Berliner Illustrierte”, 2 milioni, il
“Grü ne Post”, 1 milione, nonché l’avveniristico e
l’illustratissimo giornale della sera “Tempo”. Erano tabloid,
non giornali po- litici, con circolazione di massa e grandi
raccolte pubblicita- rie. La perla dell’impero Ullstein era il
“Vossische Zeitung”, equivalente in prestigio al “Times” di
Londra e al “Le Temps” di Parigi. Con fior fiore di firme,
dal poeta Kurt Tu- cholsky all’autrice di Grand Hotel Vicki
Baum, a Erich Ma- ria Remarque, il quale vi aveva
pubblicato a puntate nel 1928 il suo Niente di nuovo sul
fronte occidentale. L’avevano affet- tuosamente
soprannominata Tante Voss, Zia Voss (giornale, in tedesco, è
al femminile). Per i berlinesi di peso era inam- missibile non
venire menzionati, naturalmente a pagamento, nelle colonne
della vecchia Zia Voss nel giorno della nascita, del
matrimonio o dei funerali.
Sembra una costante nella storia delle famiglie proprieta-
rie di grandi giornali, una maledizione che arriva fino ai gior-
ni nostri: anche gli eredi Ullstein litigavano tra di loro, anzi
uno dei fratelli aveva intentato causa agli altri. Anche loro
perdevano soldi molto malvolentieri. Anche loro erano inte-
ressati ai conti e al rendimento più che alla linea del giornale,
ai valori della democrazia e alla libertà di stampa. Anche loro
erano esposti alle pressioni e al ricatto degli inserzionisti e
dei cancellieri di turno. Nei primi mesi del 1933 sembrava
che la stampa, tutta la stampa, fosse in sia pure leggera ripre-
sa dopo anni di crisi. L’avvento di Hitler e le minacce alla
li- bertà di stampa apparentemente avevano ridestato
l’interes-
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se dei lettori, alle notizie se non alla politica. Non bastò però
a salvare i giornali. Gli Ullstein furono costretti a chiudere
“Tempo” e il prestigioso “Vossische”, e infine a cedere la
maggioranza azionaria di tutto quel che restava del loro im-
menso impero, su cui non tramontava mai il sole (produce-
vano a ciclo orario continuo: giornali del mattino, del pome-
riggio e della sera), a una cordata di imprenditori “ariani”
graditi ai nazisti.
Il quotidiano più prestigioso di tutti era il “Frankfurter
Zeitung”. Fondato dal banchiere Leopold Sonnemann a
metà Ottocento era rimasto un gioiello di famiglia per quasi
un secolo. In realtà nel 1933 era già passato da un paio d’an-
ni in modo riservato, senza dare troppo nell’occhio, sotto il
controllo della IG Farben, il colosso della chimica. Fino ad
allora era sempre stato un giornale di centro-sinistra. Aveva
caldeggiato negli anni venti la cooperazione tra l’Spd e i cen-
tristi del Ddp, difendeva a spada tratta i valori della Costitu-
zione di Weimar e della giustizia sociale. Gli antisemiti lo
avevano costantemente attaccato come massima e più perni-
ciosa espressione della Judenpresse. Nel Mein Kampf Hitler
aveva dedicato più invettive al “Frankfurter Zeitung” che a
qualsiasi altro giornale, lo considerava l’organo della cospi-
razione giudaica mondiale. Eppure, come quasi tutti gli altri
grandi giornali in Europa, il “Frankfurter” aveva la vocazio-
ne a posizionarsi dalla parte del governo, chiunque fosse al
governo. Pur continuando a rivendicare equidistanza e indi-
pendenza di giudizio. L’editoriale del 31 gennaio, firmato dal
capo dell’ufficio berlinese, Rudolf Kircher, trasudava rassi-
curazioni al lettore: l’esuberante esultanza dei nazionalsocia-
listi non sarebbe durata a lungo; i compiti del nuovo governo
erano formidabili; i partner di Hitler nel governo erano gen-
te seria, non fantocci; il nuovo ministro della Difesa, il gene-
rale Blomberg (che godeva della fiducia del Presidente della
Repubblica), non avrebbe mai permesso l’instaurazione di
una dittatura; il fatto stesso che Hitler avesse accettato di en-
trare nel governo dimostrava che lo si poteva “addomestica-
re”. Esempio egregio di “ultime parole famose”. Ma ben me-
ditate dal punto di vista del tornaconto.
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02/04/19
Il “Frankfurter Zeitung”, che per anni si era presentato
come il più strenuo difensore della legalità e della Costitu-
zione, sarebbe finito in ginocchio, anzi sdraiato di fronte ai
nuovi padroni della Germania. Il punto più basso fu quando
giunse a giustificare i pieni poteri a Hitler, che esautoravano
il Parlamento. “Il Parlamentarismo? Siamo gli ultimi a rim-
piangere che qualcuno ne metta in luce i limiti, che noi stessi
avevamo fatto notare ai politici di partito. Una riorganizza-
zione più rigorosa della vita politica era inevitabile; anzi di
più : era una necessità vitale.” Questo il commento del solito
Kircher. Il quale, grazie a queste giravolte, sarebbe stato pre-
miato, promosso da notista politico a direttore del quotidia-
no. Direttore lo era ancora quando nel 1939 il “Frankfur-
ter” fu acquisito dal Franz-Eher Verlag. Il boss
dell’editoria nazista, Max Amann, l’aveva comprato per
farne dono al Fü hrer, in occasione del suo compleanno.
Kircher ne sareb- be rimasto direttore fino all’agosto del
1943, quando il gior- nale fu chiuso per espresso ordine del
Fü hrer. L’occasione è una delle poche volte in cui nel suo
diario Goebbels dissente da Hitler: dice di avere cercato
inutilmente di convincerlo che tenere in vita il giornale
sarebbe stato assai più utile che chiuderlo.
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non vi adeguate vi facciamo chiudere, sapete benissimo che ne
abbiamo i mezzi. Il 6 aprile Hitler incontrò gli editori e gli
dis- se chiaro e tondo che i loro giornali gli servivano ancora
per una sola cosa: alleviare le apprensioni internazionali sul
suo governo. Quelli ringraziarono e obbedirono.
Sessantasei quotidiani, quattromila testate, per lo più lo-
cali, con una circolazione media di cinquemila copie. Non
c’erano mai stati tanti giornali in Germania quanti ce n’erano
all’inizio degli anni trenta. Né ce ne sarebbero stati tanti in
seguito. In Germania si pubblicavano allora più giornali che
in Gran Bretagna, Francia e Italia messe insieme. Le famiglie
Mosse e Ullstein controllavano metà dei venti milioni e passa
di copie vendute all’inizio degli anni trenta. Erano su posi-
zioni liberali, oggi si direbbe di centro-sinistra. L’altra metà
faceva capo a Hugenberg, ultranazionalista, antisemita, filo-
monarchico, nemico feroce della Repubblica e della demo-
crazia di Weimar. I giornali di Hugenberg avevano sostenuto
per oltre un decennio tutte le campagne di odio e di denigra-
zione contro la sinistra, gli immigrati, gli ebrei, tutti coloro
che nel mondo volevano male alla Germania, che magari
pretendevano che rispettasse gli impegni internazionali e
che non smettesse di pagare i propri debiti.
Praticamente erano stati i giornali di Hugenberg a creare
il clima di opinione, l’isteria xenofoba, antigiudaica e anti-
bolscevica, le fandonie sulla “pugnalata alla schiena”, sul
“complotto internazionale” su cui sarebbero cresciuti i nazi-
sti. Hitler avrebbe dovuto essergliene grato. E invece mal
gliene incolse pure a lui. Anche l’impero mediatico di Hu-
genberg fu smembrato e fagocitato. Senza troppi compli-
menti, non appena il co-firmatario del contratto di governo
con Hitler fu scaricato dal suo partner. I suoi giornali, le sue
agenzie di stampa e le sue case di produzione cinematografi-
ca finirono assorbite nella galassia di aziende dei media che
facevano capo a Max Winkler e rispondevano direttamente
ai vertici nazisti. Neanche Hugenberg, gli Ullstein e i
Mosse messi insieme erano riusciti ad accumulare tante
aziende e tanto potere. Era come se un nuovo magnate
venuto dal nulla si pappasse, uno dopo l’altro, il gruppo
Repubblica-Espresso,
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il “Corriere della Sera”, Mediaset e Sky. Allora come oggi,
non ci sono limiti alla voglia di saltare sul carro dei vincitori,
allo zelo nel servire i nuovi padroni. Winkler, prima di diven-
tare il fiduciario di Hitler per giornali e film, era stato funzio-
nario delle Poste, poi deputato centrista. “Ho servito diciot-
to governi. Perché mai non avrei dovuto mettermi al servizio
di un diciannovesimo?” Così Winkler avrebbe spiegato lo
zelo, anzi l’entusiasmo con cui si prese cura della concentra-
zione dei media nelle mani del regime nazista.
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Hugenberg, gli aveva sparato. Erzberger era sopravvissuto:
il proiettile era stato deviato dalla catena d’oro dell’orolo-
gio. Il mancato assassino aveva ricevuto una condanna lieve,
a soli diciotto mesi di detenzione. La corte gli credette quan-
do affermava che non aveva l’intenzione di uccidere, ma vo-
leva solo costringerlo a dare le dimissioni. Il processo per
calunnia era andato avanti per mesi. Finché un giornale di
destra, il “Deutsche Zeitung”, aveva introdotto un nuovo
argomento, pubblicando le dichiarazioni dei redditi di Erz-
berger, e accusandolo di evasione fiscale. Lui, per meglio di-
fendersi, si era dimesso da ministro delle Finanze, esigendo
che le sue dichiarazioni dei redditi venissero passate a un
vaglio approfondito e rigoroso. L’indagine si era conclusa
rilevando solo qualche errore marginale dovuto alla com-
plessità delle norme fiscali in tempo di guerra, ma assolven-
dolo dalle più gravi accuse di falso ed evasione fiscale.
Non bastò : la campagna di stampa gli aveva
irrimediabilmente rovinato la reputazione. Era stato
abbandonato anche dai giornali di sinistra, che gli davano
addosso quanto quelli di destra. Nell’agosto 1921 gli
spararono nuovamente, stavolta senza mancare il
bersaglio.
Gli assassini si sarebbero giustificati citando per filo e per
segno quel che a proposito delle malefatte della loro vittima
avevano letto sui giornali. Ci sarebbe voluto, quasi a ruota,
un altro assassinio clamoroso di un esponente politico
additato come ebreo, quello del ministro degli Esteri
Walther Rathe- nau, per far passare una legge contro la
calunnia a mezzo stampa. In realtà quella legge non venne
mai applicata. I gior- nali continuarono a macinare scandali
politici. In compenso, la misura era a doppio taglio:
nell’intento di difendere l’onore della politica dalle calunnie a
mezzo stampa creava un terribile precedente. Ne avrebbero
approfittato tutti i successivi can- cellieri della Repubblica di
Weimar, socialisti quanto centristi e conservatori. Ma a
portarla alle estreme conseguenze, met- tendo il bavaglio a
qualsiasi critica a mezzo stampa al proprio governo,
sarebbero stati i nazisti.
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Indigestione di scandali finanziari
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se: i comunisti avevano perso un milione di voti, i socialisti
ne avevano guadagnati due.
Solo in un secondo momento si era unita all’inseguimen-
to della preda, una volta sentito odore di sangue, la muta fe-
roce dei giornali di Hugenberg. Che avevano rilanciato e tra-
sformato in caccia spietata al marxista e all’ebreo quello che
inizialmente poteva apparire come uno scambio di dispetti
tra i due principali partiti della sinistra. Bauer dovette
dimet- tersi da deputato. Ebert dovette sottoporsi a una
commissio- ne d’inchiesta del Parlamento prussiano.
La stampa di destra non aveva mollato l’osso neppure
dopo le elezioni. Anzi, aveva approfittato – esattamente co-
me era successo anni prima col caso Erzberger – di un pro-
cesso per calunnia intentato dal Presidente Ebert contro un
giornalista che l’aveva accusato di “alto tradimento” per aver
appoggiato, sul finire della guerra nel 1918, uno sciopero in
una fabbrica di munizioni a Berlino. Rivangare quella vec-
chia storia aveva trasformato in men che non si dica Ebert da
querelante in difesa del proprio onore in accusato di aver
pugnalato la patria alle spalle. La magistratura dal canto suo
ci aveva aggiunto il proprio carico da novanta. Con una
biz- zarra sentenza, definita “mostruosa” anche dai
conservatori, il giudice aveva condannato a tre mesi di
carcere il giornali- sta per ingiurie, riconoscendo che dare
del “traditore” al Presidente della Repubblica significa
insultarlo. Ma al tempo stesso lo aveva assolto dal reato di
calunnia, sostenendo che indire uno sciopero in tempo di
guerra sarebbe stato in effet- ti “tradimento”.
Il primo presidente della Repubblica di Weimar fu assol-
to, otto mesi dopo, con formula piena, da tutte le inchieste, e
da tutte le accuse. Ma il Partito socialdemocratico non si ri-
prese mai del tutto da quello tsunami di fango. La sinistra
comunista ce l’aveva con Ebert almeno quanto ce l’aveva la
destra nazionalista. Non gli perdonava che avesse fermato e
represso i moti rivoluzionari nel 1918-19. Lo consideravano
complice, se non mandante diretto, dell’assassinio di Karl
Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ebert ci lasciò la pelle. An-
che se non per mano di un assassino. I continui attacchi, il
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linciaggio quotidiano a mezzo stampa l’avevano fiaccato.
Morì di peritonite prima che scadesse il suo mandato da Pre-
sidente della Repubblica.
Non si era ancora del tutto spenta l’eco dei processi a ca-
rico di Ebert, che esplose l’affaire Sklarek. Stavolta a lanciare
e fomentare in modo sistematico la campagna fu direttamen-
te la stampa nazionalsocialista, l’“Angriff” del Gauleiter
del Nsdap per Berlino, Goebbels. Gli Sklarek erano tre
fratelli di origine ebraica immigrati dall’Est, proprio come la
fami- glia Barmat finita nel ciclone qualche anno prima.
Avevano praticamente il monopolio della fornitura di divise
alla poli- zia e ad altri servizi municipali di Berlino. Erano
stati arresta- ti nel settembre 1929 con l’accusa di aver
corrotto i dirigenti socialdemocratici di Berlino per
aggiudicarsi le commesse. Il “Berliner Lokal-Anzeiger” (del
gruppo Hugenberg) fu il pri- mo a insistere sul fatto che i
fratelli Sklarek erano grandi fi- nanziatori dell’Spd e delle
sue organizzazioni fiancheggiatri- ci. La stampa comunista si
accodò subito a quella nazista nel denunciare la corruzione
dell’amministrazione socialdemo- cratica. Nell’articolo di
prima pagina in cui dava notizia del nuovo scandalo il
“Welt am Abend” di Willi Mü nzenberg, il “Paese Sera”
della Berlino anni trenta, insisteva che gli Sklarek erano
iscritti all’Spd. Come dire: vedete quanto so- no corrotti i
socialisti. Il “Rote Fahne” implicò come desti- natario delle
mazzette anche il sindaco di Berlino, il centrista del Ddp
Gustav Bö ss. In realtà , come succede nelle migliori
famiglie e di frequente anche ai giorni nostri, gli Sklarek ave-
vano dato contributi a pioggia a tutte le forze politiche. Non
solo ai politici socialdemocratici (tra cui due sindaci di circo-
scrizione) ma anche ad almeno un paio di consiglieri comu-
nali comunisti. Avevano buoni rapporti anche con politici
dell’opposizione di destra, e persino coll’editore del giornale
antisemita “Wahrheit”. I tabloid moderati e liberali, il “Tem-
po” della famiglia Ullstein e l’“8 Uhr-Abendblatt” della fa-
miglia Mosse si buttarono pure loro a pesce a denunciare lo
scandalo, e deplorare il “sistema” di potere socialista. Berli-
no ebbe molto prima di Roma la sua Mafia Capitale. I cui
protagonisti non erano sinti ma ebrei.
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Tutti facevano a gara a rivelare, spesso a ricamare,
talvolta a inventare, nuovi particolari. Comunque il più bravo
e fanta- sioso, nonché il più implacabile, si rivelò l’“Angriff”
di Goeb- bels, con raffiche di titoli a effetto, per quanto privi
di riscon- tri, tipo Cassaforte segreta nella villa degli Sklarek
oppure Fagiani, champagne, aragoste. L’argomento faceva
presa. Ren- deva voti. Continuò a essere evocato in
continuazione dai na- zisti in tutte le campagne elettorali,
fino al ’33. I socialdemo- cratici, che in quegli anni non ne
indovinavano una, sbagliarono clamorosamente strategia
sulla “questione mora- le”. Minimizzavano, se la
prendevano con il “sensazionali- smo” della stampa
avversaria. Non avevano del tutto torto, sensazionalismo
era. Ma l’opinione pubblica ne trasse la con- clusione che
volevano nascondere i panni sporchi in casa. Punì chi
minimizzava, non gli spacciatori di sensazionalismo.
È la stampa, bellezza! Il pubblico era ammaliato dalla
dovizia di particolari, si beveva avidamente qualunque cosa
gli venisse propinata. Ancora una volta è la letteratura a dare
un’idea del clima. In un romanzo del 1931 di Gabriele Tergit
(pseudonimo maschile della cronista giudiziaria del “Berli-
ner Tageblatt” Elise Hirschmann, ebrea, poi profuga nel
1933), il protagonista, un giornalista rampante, alle obiezio-
ni di un collega più anziano che gli rimprovera mancanza di
scrupoli e sensazionalismo al posto di analisi accurate, ri-
sponde: “A cosa servono gli scrupoli? Gli scandali
rendono molto di più ”.
Fu in buona misura grazie allo scandalo Sklarek che il
giornale comunista poté vantare l’acquisizione di cinquemila
nuovi lettori, i giornali di Ullstein aumentarono del 20 per
cento la tiratura, quelli di Hugenberg raggiunsero vendite
record. Ma più ancora lettori acquisì il nazista “Angriff”, che
grazie a questa campagna, da bisettimanale divenne quoti-
diano.
Il tutto avveniva alla vigilia delle elezioni del 1929 a
Berli- no e in Prussia, che rappresentarono una batosta per i
centri- sti e il centrosinistra, e portarono i nazisti a triplicare
i voti. I giornali avevano guadagnato qualche copia in più . Ma
a caro prezzo: l’affossamento della Repubblica e della
democrazia.
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9.
Come fu comprato il popolo
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utilizzata dalla propaganda nazista. Ma al tempo stesso ren-
dono conto di quanto possa essere difficile sottrarsi,
resistere alla corrente. Quando tutti fanno un gesto, non
farlo equiva- le ad autodenunciarsi come dissidente, diverso,
nemico della maggioranza, quindi nemico del popolo. Il “chi
non salta co- munista è” può far sorridere. Rifiutarsi
ostentatamente di fa- re il “saluto tedesco” aveva ben altre
conseguenze.
Tra le molte foto dell’epoca ce n’è una ritrovata solo nel
1991 e pubblicata dal quotidiano “Die Zeit”. Mostra le mae-
stranze dei cantieri Blohm und Voss di Amburgo che saluta-
no col braccio teso. Uno solo rifiuta ostentatamente di farlo,
tiene le braccia conserte. Non si sa con certezza chi fosse
e che fine abbia fatto. Irene Eckart, che ha scritto un libro
sul- le vicende della propria famiglia, ritiene che si tratti di
suo padre, l’operaio August Landmesser, allora tra le
maestranze del cantiere. Era un iscritto al Partito nazista
sin dal 1931. Ma era innamorato di una ragazza ebrea. Per
la precisione mezza ebrea, con due nonni ebrei e due no.
Avevano avuto due figlie, lui le aveva riconosciute, ma le
leggi razziali aveva- no impedito che si potessero sposare.
Non è chiaro se a per- derli fu la recidiva nel reato di
“oltraggio alla purezza della razza”, o quel gesto clamoroso
di protesta. Lui scontò trenta mesi in campo di
concentramento, poi i lavori forzati, e infi- ne
l’arruolamento coatto, fino alla morte in Croazia. Lei,
passata per diversi campi di concentramento, fu eliminata in
un’istituzione per malati mentali. Le figlie finirono in orfano-
trofio, furono separate, poi affidate a parenti e tutori diversi.
L’Hitler Gruss, il saluto a Hitler, era diventato un’abitudi-
ne. Quasi un tic. Persino in privato, in casa, tra amici, tra
mari- to e moglie ci si salutava così. E forse non solo per il
timore di venire denunciati. Ma c’è chi ha fatto notare che
proprio la diffusione del rito, il fatto che venisse
considerato un saluto universale, lo trasformava in luogo
comune, proteggeva in qualche modo nell’anonimato della
folla chi si conformava all’esercizio del saluto, ma aveva
dubbi sul regime. Paradossal- mente, i visitatori stranieri del
Terzo Reich lo notano di più agli inizi del regime. Forse
perché è una novità. Così come al- tri attribuiscono
importanza a quel che percepiscono come ri-
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torno ad altre forme di saluto. A Monaco “hanno smesso
di dire Heil Hitler!”, scrive il corrispondente della Cbs
William Shirer nel 1940. Victor Klemperer nota che al terzo
mese della guerra contro l’Unione Sovietica, a Dresda la
gente comincia a dire più spesso buongiorno o buonasera. Si
mette a contare chi nei negozi saluta in un modo e chi
nell’altro. “Pare che i buongiorno stiano aumentando. Dal
panettiere Zscheichler cinque donne hanno detto Guten
Tag e due Heil Hitler!” Ma “dal pizzicagnolo hanno detto
tutte Heil Hitler!”. Si mette a contare per strada chi saluta in
un modo e chi nell’altro anche il sociologo americano
Theodore Abel, che nel 1934 era venu- to a Berlino per
completare il suo studio sul come e perché di Hitler al
potere.
Lo storico Peter Fritzsche nel suo Vita e morte nel
Terzo Reich mette però in guardia dal considerare il saluto
nazista come misura del consenso, o del dissenso. Osserva
che “Heil Hitler! poteva servire anche per rivendicare un
riconosci- mento sociale, in quanto sostituiva nell’uso
quotidiano saluti più deferenti. Quando il postino salutava
i vicini con un ostentato Heil Hitler! segnalava che era un
Volksgenosse, un compagno del popolo e un loro pari. Allo
stesso modo, il ca- po che all’ingresso della mensa in
fabbrica accoglieva col braccio teso gli operai in precedenza
esclusi dal saluto, non cancellava le differenze sociali, ma
riconosceva i nuovi diritti di cui godevano i suoi dipendenti”.
Insomma, dava anche un senso di parità, comunanza di
propositi, come per “compa- gno” nella sinistra del tempo
che fu, tovarišč in Russia, ton- gzhi in Cina. “Mettere [il
nuovo saluto] solamente in bocca ai fanatici significa
ignorare che i tedeschi si adeguarono più o meno
volontariamente all’ideale unitario della Comunità del
popolo (Volksgemeinschaft).”
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02/04/19
ra un’occasione celebrativa, un nuovo giorno festivo per il
popolo: il compleanno di Hitler. Attualmente la parola po-
polo [Volk] si usa tanto spesso, parlando e scrivendo, quanto
il sale nelle pietanze; su tutto si aggiunge un pizzico di popo-
lo; festa del popolo, membro del popolo, compagno del
po- polo [Volksgenosse], comunità di popolo
[Volksgemein- schaft], vicino al popolo [Volksnah]. Il
popolo si definisce anche in base a chi viene considerato
estraneo al popolo [Volksfremd], o addirittura nemico del
popolo [Volksfeind]”. E ancora: Hitler è il Volkskanzler, il
cancelliere del popo-
lo. Si può essere Volksbewußt, cosciente, curante del popolo,
oppure, al contrario, Volksschädling, parassita del popolo.
Uno dei vanti del regime fu la costruzione e diffusione della
Volkswagen, l’auto del popolo. C’è una foto di Hitler con-
tento come un bambino mentre gli mostrano un modellino
del “maggiolino”. Völkisch è la parola chiave, il grimaldello
passe-partout che indica continuità e discontinuità allo stes-
so tempo. La parola popolo distingue i nazisti dai “borghesi”
e, allo stesso tempo, gli consente continuità col nazionalismo
esasperato dei loro predecessori ideologici. D’altra parte, an-
che i cosiddetti partiti “borghesi” non riuscivano a fare a me-
no del popolo nella propria denominazione: Deutsche Volk-
spartei si chiamava la formazione liberale che tanta parte
aveva avuto nelle fasi iniziali della Repubblica di Weimar,
Deutschnationale Volkspartei quella nazionalista e di destra.
“Le idee fondamentali del movimento nazionalsocialista so-
no populiste (völkisch) e le idee populiste (völkisch) sono na-
zionalsocialiste”, sentenzia Hitler nel Mein Kampf.
È un’orgia, un’indigestione continua di popolo. E di po-
pulismo.
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generale oggigiorno si pretende troppo… Non è meraviglia che non
riescano ad adeguarsi a queste tremende pretese. Si pretende, per
esempio, che siano assolutamente disinteressati. Vorrei sapere come
potrebbero esserlo, e perché proprio loro. Ma loro devono continua-
mente assicurare che non ne ricavano nulla...
Il reddito di cittadinanza
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02/04/19
“Volevo chiedere se la cosa s’è risolta. Se il denaro è stato
spedito. Ne avrei bisogno.”
“Che ne so. Se lei ha avanzato l’istanza per iscritto, le ver-
rà dato corso anche per iscritto.”
“Potrebbe accertarsi se la pratica è stata evasa?”
L’addetto allo sportello si allontana bofonchiando: “Solo
fastidi inutili...”. Si infila in un uscio dove c’è una targhetta
che l’utente non riesce a leggere da lontano. Ma più guarda e
più si convince che ci sia scritto: “Toilette”. Gli monta den-
tro una gran rabbia. Dopo un po’ di tempo, anzi dopo un bel
po’ di tempo, l’impiegato ricompare, prende la tessera d’i-
scrizione e la posa sul banco: “La pratica è stata evasa”.
Tornato a casa il protagonista trova una busta conte-
nente una lettera e due questionari da compilare. Gli chie-
dono un certificato di nascita “ad uso cassa malattia”, quel-
lo rilasciato dall’ospedale non gli basta. Poi gli chiedono gli
attestati delle casse malattie a cui sono stati iscritti negli ul-
timi due anni… Il senso della lettera è così ironicamente
riassunta dall’autore del romanzo: “È vero che siamo per-
fettamente al corrente del fatto che i medici propendono a
ritenere che una gravidanza dura solo nove mesi… ma può
darsi che in questo modo i costi possiamo accollarglieli ad
un’altra cassa malattia… Abbia la compiacenza di pazien-
tare fintanto che non ci saranno pervenuti i documenti ne-
cessari…”. Lui vorrebbe andarli a cercare e strozzarli. La
moglie cerca di calmarlo.
Una testimonianza giornalistica di fine anni venti da Co-
lonia dà un’idea della variegata “clientela” della miriade di
uffici a cui rivolgersi per l’assistenza sociale: “Sono le otto
del mattino. Nell’ufficio distrettuale si affolla gente di ogni
genere, ogni classe, unite solo dal fatto di essere recipienti di
un sussidio. Ecco la domestica licenziata dopo vent’anni con
lo stesso datore di lavoro, che ha perso i risparmi… accanto
a lei il giovane che non ha ancora trovato un lavoro… il
pic- colo commerciante che non ce l’ha fatta..., l’operaio
vittima di un incidente sul lavoro a cui non basta la pensione
di inva- lidità …”. Non più solo i “poveri”, ma quelli che
prima se la cavavano, quello che chiamavano Mittelstand,
ceto medio.
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Dal 1927 al 1932 era cambiata a fondo la distribuzione dei
tipi di recettori di Welfare, non più solo i disoccupati e i pen-
sionati. Ed era cambiata la distribuzione geografica: avevano
un loro Sud.
Quel che li univa era la rabbia. Ecco, a caso, un’altra te-
stimonianza del 1932, da Dü sseldorf, da parte di uno che sta
dall’altra parte dello sportello, un assistente sociale:
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“Investire nella felicità!”
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esclusi (stranieri, ebrei, oppositori, asociali). Univa utile e di-
lettevole, mobilitazione e propaganda.
Hitler veniva chiamato “primo lavoratore della nazione”.
Una delle immagini propagandistiche più suggestive del re-
gime nazista è il dipinto a olio del 1936 di Ferdinand Staeger
dal titolo I soldati del lavoro che mostra una squadra di lavo-
ratori che avanza con le vanghe in spalla come fossero fucili.
Occasioni di “fraternizzazione”, “cameratismo” tra il
popo- lo furono il moltiplicarsi delle feste comandate, con
relative teatrali e fastose celebrazioni di massa:
l’anniversario della “presa del potere” il 30 gennaio, quello
della fondazione del Partito nazista il 24 febbraio, il Giorno
degli Eroi e dei Mar- tiri del movimento in marzo, il
compleanno del Fü hrer il 20 aprile, la nuova festa del
lavoro, anzi “Festa nazionale del Popolo tedesco”, il Primo
maggio, e ancora, il raduno reso “perpetuo” a
Norimberga, la celebrazione del putsch del 1923… Il
Winterhilfe, la raccolta di fondi e vestiario per l’aiuto
invernale alle famiglie in difficoltà, che in realtà era stato
introdotto nel 1931 dal governo Brü ning, divenne una
colossale esercitazione di solidarietà, peraltro obbligatoria,
in seno al popolo. Giganteschi programmi vennero creati e
gestiti dal Deutsche Arbeitsfront, l’organizzazione statale del
Fronte tedesco del lavoro che nell’estate 1933 aveva assorbi-
to e rimpiazzato i sindacati. Suggestive le denominazioni:
Kraft durch Freude, Forza mediante la gioia, e Schönheit der
Arbeit, Bellezza del lavoro. La prima si occupava di tempo
libero e vacanze, la seconda dell’igiene e delle mense in fab-
brica.
Capirete perché ho avuto un brivido quando ho sentito i
due vicepremier parlare a proposito dell’ultima finanziaria
di “investimento per la felicità degli italiani”. Il più infelice
degli slogan pubblicitari è quello che evoca, magari senza sa-
perlo, qualcosa di vomitevole. “Il lavoro nobilita” (Arbeit
adelt) e “Il lavoro rende liberi” (Arbeit macht frei) erano slo-
gan molto in voga prima di diventare grotteschi sui cancelli
di Auschwitz.
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Onesti ma mica tanto
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per assicurarsi le commesse. Sepp Dietrich, il capo della
guardia personale di Hitler, prese nota di quel che aveva ri-
cevuto per favorire l’assegnazione dell’appalto della nuova
caserma per i suoi uomini: camicie di seta, un orologio d’oro,
fucili da caccia, un viaggio in Italia per la moglie.
L’andazzo imbarazzava i campioni, fino a poco prima, della
moralizza- zione. Corsero ai ripari: dal 1934 al 1941 si
contano ben
11.000 processi per appropriazione indebita di fondi del
partito.
Era dominio comune. Tutti sapevano come funzionava,
circolavano barzellette a non finire sulla corruzione nel
Terzo Reich. Ma con la dovuta prudenza. Il comico
Werner Finck recitò nel 1934 dal palcoscenico del cabaret
Kata- kombe una storiella in cui il cliente col braccio
alzato nel saluto nazista, davanti al sarto che gli prende le
misure e gli chiede che tipo di giacca desideri, risponde:
“Con le tasche belle larghe, come di moda adesso”. La
battuta gli costò il campo di concentramento.
La peggiore corruzione, come aveva intuito Monte-
squieu, è quella del popolo, che pertanto tende a tollerare i
corruttori. I rapporti clandestini inviati dall’interno ai centri
esteri del Partito socialdemocratico segnalano irritazione tra
la gente per la corruzione e gli stili di vita sfarzosi del Fronte
del lavoro (Deutsche Arbeitsfront), e in particolare del suo
capo carismatico, Robert Ley. Altro che “bonzi”, come veni-
vano spregiativamente chiamati i funzionari del sindacato
all’epoca della Repubblica di Weimar! Ma non sembra che la
nomea abbia avuto conseguenze né su Ley né su Gö ring
né sugli altri alti papaveri che ostentavano proprietà e stili di
vi- ta sfarzosi. Hitler era fuori causa: aveva rinunciato
persino allo stipendio da cancelliere e al relativo rimborso
spese, era indicato come il campione di onestà e moralità. Le
cose non stavano esattamente così. Era spesato di tutto,
accumulava residenze ufficiali, aveva un fondo spese segreto
illimitato, i diritti del Mein Kampf, divenuto lettura
obbligatoria, i diritti per la sua immagine sui francobolli, le
donazioni gli consen- tirono di accumulare un ingente
patrimonio personale. E co-
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munque parlar male del Fü hrer era reato, passibile di con-
danna a morte.
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quanta. Hitler avrebbe continuato a mediare sino all’ultimo
tra le diverse anime della sua amministrazione, tra esigenze
del bilancio ed esigenze del consenso. Propendeva per non
scontentare la sua constituency. La guerra era già avanzata
quando nel 1941, l’anno dell’invasione dell’Unione Sovieti-
ca, una riforma delle pensioni diede aumenti uguali a tutti,
quindi proporzionalmente maggiori di quelle più basse.
“Con visibile soddisfazione e grande gioia”, anche perché gli
aumenti erano retroattivi e furono pagati subito tre mesi di
arretrati. Ci fu chi persino alla fine, nell’autunno 1944, so-
stenne la necessità di un rapido aumento delle pensioni. Cu-
rioso: nella discussione interna i propugnatori più accesi del-
la generosità assistenziale a ogni costo erano anche i più
convinti sostenitori delle politiche per lo sterminio.
Finirono con lo scardinare e distruggere completamente
il sistema pensionistico. Non perché fosse in deficit ma per-
ché era diventato un boccone troppo ghiotto. Da prima
an- cora del 1933 i fondi pensionistici avevano continuato ad
accumulare ingenti riserve grazie alla ripresa dell’occupazio-
ne. Le riserve per le pensioni operaie aumentarono di 6 volte
dalla fine del 1932 alla fine del Terzo Reich nel 1945, le
riser- ve delle pensioni degli impiegati di 5 volte, quelle dei
mina- tori di 11,5 volte. Furono costretti a investirle in
obbligazioni del Reich, in debito pubblico. Che servì a
finanziare le auto- strade e le ferrovie, ma soprattutto il
riarmo. Ai fondi pen- sione avrebbero continuato ad
attingere per finanziare la guerra. Quando la guerra fu
persa e il valore del debito del Reich si azzerò , i fondi
avevano perso il 90 per cento delle riserve, e i pensionati
restarono con un pugno di mosche.
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sco.) È una miniera di notizie su come fu finanziato il mante-
nimento del consenso, anche attraverso una politica
assisten- ziale. Sin dall’inizio ci fu uno straordinario
dispiegamento di “fantasia finanziaria” da parte dei
“tecnici” fedeli al nuovo regime per “dare al popolo”
spennando gli “estranei al popo- lo”. Nell’estate del 1935, il
ministro delle Finanze indisse per- sino un concorso di idee
tra i suoi funzionari su come arrivare a un miglior saccheggio
fiscale a danno degli ebrei. Fu ripetu- to nel 1938. Con la
guerra, la “fantasia finanziaria” si scatenò ulteriormente. La
esercitarono senza più alcuna remora nell’esproprio degli
ebrei acquisiti nei territori occupati, nella rapina sistematica
delle risorse materiali, finanziarie e umane di tutta l’Europa
sottomessa. “Chi non vuole parlare dei van- taggi che ne
trassero milioni di semplici tedeschi farebbe me- glio a
tacere, sul nazionalsocialismo e sull’Olocausto”: questa la
conclusione di Aly.
139
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precedenti. Era già in atto quando Hitler prese il potere. Nel
1933 Hitler aveva promesso ai 6 milioni di disoccupati: “La-
voro, lavoro, lavoro”. Già nell’ottobre 1933 Hitler, intervi-
stato dal corrispondente del “Daily Mail”, poteva vantare di
aver “reinserito nel processo produttivo 2,25 milioni di di-
soccupati su 6 milioni”. Nel 1936 i disoccupati erano scesi a
2,5 milioni, nel 1937 a 1,6 milioni. Tra il 1933 e il 1938 l’eco-
nomia tedesca crebbe a tassi che oggi diremmo cinesi: 9,5%
all’anno in media.
C’è un acceso dibattito tra gli storici su come abbiano
fatto, su quanto ci sia da fidarsi di queste statistiche e quanto
siano state invece manipolate, su quanto sia dipeso dai gran-
di progetti per infrastrutture, e poi dalla spesa per il riarmo,
e quanto invece sia dovuto alla ripresa in Europa e nel
mondo. Altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, si erano
ripresi dalla crisi del 1929 con tassi di crescita simili, o anche
più elevati di quelli della Germania nazista. La stessa
Germania aveva cono- sciuto il tasso più rapido di ripresa
non sotto Hitler ma a metà anni venti. I programmi per la
creazione di posti di lavoro erano simili per dimensione e
risorse a quelli nell’America di Roosevelt: in entrambe le
situazioni avevano assorbito il 2,5 per cento del Pil. Ma più
ancora del tasso di crescita effettivo valse la capacità di
creare la sensazione che le cose andavano molto meglio. I
nazisti seppero insomma “vendere” meglio di altri i
successi economici. Anzi, fecero ancora di più : riu- scirono
– come osserva efficacemente Peter Fritzsche in Vita e morte
nel Terzo Reich – a “rivendere il futuro all’infinito”, non
solo e non tanto le realizzazioni ma la pura e semplice
promessa di prosperità. Non si può ovviamente dire come sa-
rebbe andata se l’economia tedesca, anziché crescere, fosse
tornata indietro, come sta succedendo in Italia.
Il mistero del consenso a Hitler non è però spiegabile so-
lo in termini di propaganda. I nazisti toccavano tasti cui la
gente era sensibile, blandivano interessi reali e diffusi (non
solo gli interessi del grande capitale, come voleva la vulgata
di sinistra). A elargizioni concrete corrispondeva consenso
reale, crescente e formidabile. La cosa che più impressiona, e
si fa più fatica a comprendere, è come siano riusciti a trovare
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consenso anche sui comportamenti più atroci e disumani del
regime. Per basso tornaconto? Possibile?
Ci sono molti tipi di consenso. “Su tutto splendeva il sole,
c’era felicità, gioia, allegria”, il modo lirico in cui Hans Frank,
lo spietato boia della Polonia, scrive degli anni trenta nel me-
moir vergato poco prima che lo impiccassero come criminale
di guerra a Norimberga. C’è il consenso fanatico e c’è il
con- senso d’interesse. Poi c’è il consenso d’assuefazione.
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10.
Mefistofele all’Economia
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che una grande epoca l’avevo già vissuta in gioventù , mi cer-
cai in fretta un posto a Praga e lasciai il paese in quattro e
quattr’otto”. Così Bertolt Brecht, nei suoi Dialoghi di
profu- ghi, in un brano che suona autobiografico.
Un po’ diversa l’opinione di un’altra testimone dei tempi,
Simone Weil. Anche lei, come Brecht, non mastica molto
di economia. Ma è una che su molte altre cose aveva intuito
più di altri suoi contemporanei. “Se Hitler disprezza
l’economia, probabilmente non è semplicemente perché non
ne capisce niente. È perché sa (…) che l’economia non è
una realtà in- dipendente, e quindi non ha leggi davvero
proprie, dal mo- mento che l’economia, come tutte le sfere
dell’attività uma- na, è governata dalla forza… Mi sembra
difficile negare che Hitler abbia una sua concezione, e una
concezione ben chia- ra, di una sorta di fisica della materia
umana… Possiede una nozione esatta del potere della
forza…”, annota la Weil in un testo inedito del 1942.
Due valutazioni diverse, da parte di contemporanei non
specialisti, non economisti: uno scrittore schierato, comuni-
sta, la cui analisi ricalca un’interpretazione “di classe” del fe-
nomeno Hitler: populismo “bonapartista”, che raccoglie il
consenso della piccola borghesia incarognita e poi del gran-
de capitale; una filosofa ebrea e operaista, che non sopporta
nessun tipo di interpretazione canonica. In che cosa consiste
il déjà vu, quale analogia con l’attualità ? In qualcosa, lo
am- metto, di molto personale. Nel fatto che giorno dopo
giorno, di fronte alle dichiarazioni pubbliche sull’economia,
sulla Fi- nanziaria, sullo spread, sui mercati, non so
decidermi su co- me prenderle, non riesco a capire se ci
sono o ci fanno…
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contraccolpi della crisi del 1929 e della recessione mondiale
che vi era seguita. Restava il fanalino di coda in fatto di cre-
scita, anche quando gli altri avevano già iniziato la ripresa. I
suoi sei milioni di disoccupati arrabbiati erano causa perma-
nente di preoccupazione per la stabilità politica e per lo stato
dei conti pubblici. Rischiava in continuazione il default, e
con questo di trascinare giù nel gorgo di una nuova recessio-
ne anche gli altri. Tutti i governi della Repubblica di Weimar
si erano trovati di fronte a un dilemma impossibile: seguire
le regole imposte dai creditori internazionali, o smettere di
pa- gare, col rischio di subire le conseguenze: non solo una
“pro- cedura d’infrazione” ma forse anche un intervento
armato, come era avvenuto per la Ruhr.
Tutti i paesi avevano subito la Grande Depressione. Non
tutti ne sarebbero usciti alla stessa maniera. La crisi aveva
sconvolto dappertutto le vecchie certezze di dottrina e le
vecchie alleanze sociali. Non ci sono spiegazioni semplici e
univoche sul perché in America, dove pure i disoccupati era-
no non 6 ma 25 milioni, ne uscirono col New Deal di Roose-
velt e in Germania invece con Hitler, sul perché in Inghilter-
ra e in Francia resse il sistema democratico e in quasi tutto il
resto d’Europa no. Più o meno tutti seguirono all’inizio ri-
cette deflazionistiche e di mantenimento a ogni costo della
stabilità monetaria. Poi passarono a una politica di spesa
pubblica e a svalutazioni competitive del dollaro e della ster-
lina. Solo la Germania non svalutò , perché tutto poteva sop-
portare, tranne un ripetersi dell’esperienza devastante della
iper-inflazione del 1921-23, quando il marco si era svalutato
miliardi di volte. Nessuno, neanche Hitler, poteva fare o dire
nulla che rinfrescasse nell’opinione tedesca quella horror
story.
Piuttosto che rischiare inflazione e svalutazione, il gover-
no Brü ning, col sostegno esterno dei socialdemocratici, ave-
va perseguito anche dopo il 1929 una politica di austerità,
deflazionistica. Il che salvò il marco e impedì la bancarotta,
ma gli mise contro tutti. C’è chi ha fatto notare che l’Spd si
era trovato in una tenaglia insostenibile: da una parte
l’essere costretti ad appoggiare un governo impopolare per
difende-
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re la Costituzione e la democrazia di Weimar dall’assalto del-
la destra e della sinistra comunista, dall’altra subire le conse-
guenze di una politica deflazionistica e rispettosa degli impe-
gni internazionali. La tenaglia aveva finito col frantumare il
consenso. La politica di cooperazione tra lavoro e capitale
negli anni venti aveva consentito una certa dose di benesse-
re, alti salari, l’affermarsi dei diritti in fabbrica e la miglior
assistenza sociale in Europa. Ma tutto questo si era inceppa-
to col crescere a dismisura della disoccupazione. Hitler inve-
ce prometteva qualcosa a tutti, fregandosene dell’ortodossia
economica, dell’indebitamento e dei rapporti internazionali.
Il corrispondente da Berlino del “New York Evening Post”,
H.R. Knickerbocker, riferisce nel 1932 di operai che si la-
mentano dei dazi altrui che penalizzano i prodotti tedeschi,
concludendo che con Hitler le cose “certo non potranno an-
dare peggio”. Sono convinti che solo lui “manderà al
diavo- lo” francesi e inglesi.
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02/04/19
nanze Schwerin von Krosigk e il governatore della Banca
centrale Hjalmar Schacht, tutti e tre tecnici, erano per accor-
di e cooperazione internazionali. In un’intervista alla radio,
ripresa dal “New York Times”, Schacht aveva dichiarato che
per i partecipanti alla Conferenza c’erano due modi di uscire
dalla crisi: “separarsi e accettare standard di vita più bassi”,
oppure “la cooperazione internazionale”, insomma “separa-
zione e povertà, oppure cooperazione e prosperità”. Il mini-
stro dell’Economia e dell’Agricoltura Hugenberg era invece
per la linea dura sul debito, protezionista sul commercio,
specie in favore degli agricoltori tedeschi, avverso ad accordi
internazionali, che riteneva “ingerenze” nella politica inter-
na tedesca. Diffuse di sua iniziativa, senza l’approvazione del
capo delegazione, un memorandum nel quale accanto a rife-
rimenti razzisti tipo “la subumanità che cresce in seno alle
nostre nazioni”, alla rivendicazione di colonie per la Germa-
nia e a un appello all’autosufficienza delle nazioni, si attri-
buiva la crisi interamente all’“intreccio internazionale del
debito”. Era una posizione soprattutto propagandistica. La
destra aveva sempre usato l’argomento delle pesantissime
ri- parazioni di guerra imposte alla Germania come clava
con- tro i governi democratici di Weimar, accusandoli di
suddi- tanza a chi “voleva male alla Germania”. Sotto il
regime del Piano Dawes dal 1924 al 1928 la Germania aveva
acquisito, soprattutto dagli Stati uniti, nuovi prestiti pari
al 25% del Pil, molto più di quanto avesse pagato in
riparazioni. Nel 1929 Hugenberg e Hitler alleati avevano
promosso un refe- rendum contro il nuovo Piano Young di
dilazione nei paga- menti del debito tedesco (in base al
principio che non anda- va più ripagato nulla). Era
un’iniziativa comparabile a quel che sarebbe oggi un
referendum contro l’euro. E avevano perso. Le riparazioni
di guerra erano da sempre l’argomento più efficace per
dare la colpa di tutto a chi si ostinava a “pu- nire” la
Germania. Esattamente come oggi si dà la colpa di tutto
all’Europa e ai “burocrati” di Bruxelles. In realtà le ri-
parazioni non erano già più un problema: la Germania
sull’orlo della bancarotta aveva già sospeso unilateralmente i
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pagamenti, e alla conferenza di Losanna del 1932 le ripara-
zioni di guerra erano già state praticamente cancellate.
Neurath si appellò al Presidente della Repubblica Hin-
denburg e al cancelliere Hitler facendo notare che l’atteggia-
mento irresponsabile di Hugenberg aveva creato ostilità nei
confronti della Germania nelle altre delegazioni. Hitler non
si pronunciò apertamente, ma col suo silenzio in sostanza
diede ragione a Neurath. Già in febbraio, durante la
prepa- razione della conferenza, si era opposto a
Hugenberg che chiedeva più protezionismo e la
cancellazione degli accordi economici giudicati sfavorevoli
alla Germania con l’argo- mento che “violazioni dei trattati
senza motivi persuasivi scuoterebbero la fiducia nel [nuovo]
governo tedesco”. “Era troppo presto per mettersi contro
tutti”, avrebbe poi spiega- to. Il 27 giugno Hugenberg diede
le dimissioni dal governo. Hitler lo costrinse a sciogliere
anche il suo partito. Il “con- tratto di governo” si era rotto
dopo neanche sei mesi. Dei due contraenti uno scalzava
l’altro e prendeva tutto il potere. Non è chiaro nemmeno agli
storici se a Hitler interessasse la controversia riguardante
l’economia. Il potere invece gli in- teressava, eccome.
Abbiamo già visto nel capitolo preceden- te l’importanza che
i nazisti attribuivano alla creazione del consenso, a
qualunque costo, piuttosto che alle leggi dell’e- conomia. Ma
chi pagava, e come? C’è chi dice: col metodo di Mefistofele.
Un’invenzione diabolica
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denaro…” Bella trovata, lo sappiamo tutti, ma come si fa a
reperire del denaro? La risposta del demonio: ce n’è a
iosa, sepolto sottoterra, sin dall’epoca in cui “fiumane di
popoli si riversarono, sommergendo paesi e genti, e molti,
colti da pau- ra, seppellirono i propri tesori nei luoghi più
disparati”. Ma l’idea geniale è che non occorre neanche
scavarli quei tesori. Basta un pezzo di carta, garantito da
quei tesori irraggiun- gibili. Spetta al cancelliere esporre la
cosa al popolo: “Udi- te dunque tutti e contemplate il
fatidico pezzo di carta che tramuta ogni pena in felicità.
Rendiamo noto che questo bi- glietto vale mille corone. A
sicura garanzia del suo valore sta il tesoro incalcolabile
sepolto nel sottosuolo. Si è provvedu- to affinché l’oro
appena scavato sia sostituito alla carta…”. Si sente puzza
non di zolfo ma di imbroglio, di “delitto”, di “frode
immane”. Ma nessuno protesta, finché funziona.
Il Mefistofele di Hitler si chiamava Hjlmar Schacht. Ge-
minello Alvi ha tracciato di lui un ritratto in poche righe,
straordinario per concisione ed efficacia, ripubblicato in Uo-
mini del Novecento. Non gli è per nulla simpatico. Più che
il talento di economista e banchiere, mette in rilievo la sua
va- nità e l’attitudine a mentire e servire il potente di
turno. Schacht era stato presidente della Reichsbank, si era
dovuto dimettere una prima volta nel 1930 per aver messo
in imba- razzo l’allora governo tedesco di centro-sinistra
proponendo il ripudio tout court delle riparazioni e dei
debiti con l’estero. Dire non vogliamo più pagare i nostri
debiti equivaleva in quel momento al proporre oggi il
default e un piano di uscita dall’euro. Era stato Hitler a
richiamarlo in servizio nel ’33. Contava sulla sua abilità,
sulla sua dimestichezza con tutti i banchieri del mondo e
sulle sue relazioni internazionali, spe- cie a Londra e negli
Stati uniti. Poi gli aveva affidato anche il ministero
dell’Economia. Era stato proprio Schacht a intro- durre
Hitler prima della sua nomina a cancelliere nei salotti buoni
della finanza, e a presentargli quel banchiere, Schrö der, che
nel dicembre 1932 avrebbe salvato il Partito nazista dalla
bancarotta per debiti e avrebbe organizzato a casa sua i pri-
mi fatidici incontri segreti del futuro Fü hrer con Papen. Poi
però Schacht avrebbe dato a Hitler un’idea ancora più ge-
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niale: su come finanziare la ripresa economica, creare occu-
pazione e accontentare il popolo senza provocare inflazione,
e al tempo stesso riarmare pesantemente la Germania facen-
do finta di non farlo.
Lo strumento diabolico fu la creazione di un
apparente- mente innocente Istituto di ricerca per
l’industria metallur- gica (Metallforschungsgesellschaft, nota
anche come Mefo). L’istituto emetteva certificati di scambio
con cui venivano pagate le commesse militari all’industria
pesante. I certificati erano garantiti dalla Banca centrale e
potevano essere sconta- ti presso tutte le banche. Per
attrarre ulteriormente gli inve- stitori offrivano anche un
tasso d’interesse del 4% annuo, più alto di quello delle
normali obbligazioni commerciali. Era un azzardo. A far
cassa ci aveva già provato nel 1932 Papen con “certificati
fiscali” fruttiferi, basati sulle tasse dovute all’e- rario.
Nessuno aveva abboccato. Se il gioco dei Mefo fosse
andato storto si rischiava il crollo delle banche e dell’intero
sistema finanziario tedesco. E invece funzionò . Per evitare
il rischio che gli acquirenti dei Mefo pretendessero davvero
di scambiarli con denaro sonante, la maturazione a 90 giorni
fu continuamente estesa, fino a 5 anni. Il 70 per cento
delle astronomiche spese per il riarmo tedesco dal 1934 al
1939 fu finanziato in questa maniera. Le spese militari
rappresenta- vano già nel 1937 il 42 per cento della crescita
del Pil. Il mar- chingegno permetteva inoltre di prendere
diversi altri piccio- ni con la stessa fava. I Mefo consentivano
di aggirare la norma che proibiva alla Reichsbank di
finanziare direttamente la spesa pubblica; consentivano di
escludere queste spese dai conti pubblici, disinnescandone
gli effetti inflattivi: e infine gli consentiva di nascondere il
finanziamento del riarmo, che era proibito dal Trattato di
Versailles, fino a quando Hitler lo rivelò a sorpresa al
mondo intero nel marzo 1935.
Nemmeno il diavolo avrebbe potuto far durare l’imbro-
glio all’infinito. Per mantenere le promesse (sussidi ai disoc-
cupati e ai poveri, lavoro e felicità) il governo nazista
spende- va molto più di quanto incassasse. Quando si
aggiunsero le spese per il riarmo, la Germania si ritrovò
sull’orlo della ban- carotta. Lo stesso Schacht dovette
mettere fine al sistema dei
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buoni Mefo perché ormai fuori controllo. Provò a emettere
più tradizionali Buoni del Tesoro. Riuscì a piazzare le prime
tranche, ma la quarta asta andò deserta. Non esisteva ancora
lo spread, ma il segnale era chiaro.
Persino Goebbels, che irrideva agli esperti di cose finan-
ziarie chiamandoli “poveracci”, annotò nel suo diario che si
aveva a che fare con un “deficit folle”. Schacht scrisse a
Hitler, avvertendo che “l’illimitata crescita delle spese dello
Stato va- nifica ogni tentativo di impostare un bilancio
ordinato, porta, nonostante l’enorme pressione esercitata
sulla leva fiscale, le finanze statali sull’orlo del tracollo”.
Tutto sta a indicare che Hitler aveva sin dall’inizio idee
chiare su cosa voleva fare: la guerra, la conquista di spazio
vitale, Lebensraum, all’Est. E per questo non gliene poteva
importare meno di tecnicalità come spread e deficit. L’unico
documento di politica economica attribuibile a Hitler è il co-
siddetto “Memorandum sul Piano quadriennale” stilato di
suo pugno nell’estate del 1936. Era un documento ultrase-
greto. Il testo completo fu dato solo a Gö ring e al ministro
della Guerra Blomberg. Il commissario ai Rifornimenti per
la guerra Speer ne sarebbe venuto a conoscenza solo nel
1942. Schacht non lo vide mai. Indicava senza mezzi termini
le priorità economiche: “I. L’esercito tedesco deve essere
operativo entro quattro anni; II. L’economia tedesca deve es-
sere pronta alla guerra entro quattro anni”. La scelta di sca-
tenare la guerra viene confermata dagli appunti segreti presi
dall’attaché militare del Fü hrer, il colonnello Friedrich Hos-
sbach, a una riunione ristrettissima, il 5 novembre 1937, con
Gö ring, nella sua capacità di responsabile del piano qua-
driennale e comandante della Luftwaffe, il ministro della Di-
fesa, quello degli Esteri e i capi di Stato maggiore. Hitler
gli spiegò che il futuro della Germania dipendeva
interamente dalla possibilità di risolvere il problema dello
“spazio vitale”. Per tre ore illustrò le opzioni per procurarsi
le materie pri- me, concludendo che il problema si sarebbe
potuto risolvere solo con la forza. Detto, fatto.
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La fine dei “tecnici”
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condividere i sacrifici fiscali anche alla constituency nazista,
ai beneficati dal regime. Goebbels se la prese con gli “sterili
bu- rocrati” che “non sanno essere abbastanza creativi”.
Anche gli altri “tecnici” che facevano parte del governo
Hitler furono dimissionati nel 1937, uno dopo l’altro, nel gi-
ro di pochi mesi. Il ministro della Guerra Blomberg,
l’uomo che aveva fatto giurare alla Wehrmacht fedeltà al
Fü hrer, in- cappò in apparenza in una faccenda privata. Si
era innamo- rato e aveva deciso di sposare una donna molto
più giovane, una “ragazza del popolo” che faceva la
commessa. Mentre erano in luna di miele, la Gestapo aveva
scoperto che la nuo- va Frau Blomberg aveva un passato da
prostituta. Peggio an- cora: aveva posato nuda per il
fotografo ebreo con il quale conviveva. Hitler si sarebbe
infuriato: “Se un feldmaresciallo tedesco sposa una puttana,
allora può davvero succedere di tutto”. L’avevano costretto
alle dimissioni. Poco dopo subì la stessa sorte il comandante
supremo dell’esercito, il generale Werner von Fritsch,
falsamente accusato di omosessualità. E fu dimissionato
anche il ministro degli Esteri von Neurath, per far posto al
successore von Ribbentrop. Li accomunava una sola cosa:
l’aver espresso riserve sui piani di conquista esposti da
Hitler nella riunione segreta di cui ci restano solo gli appunti
del colonnello Hossbach.
Donald Trump ha già perso più di metà del suo governo.
Che farà il professor Tria qualora si accorgesse che i suoi da-
tori di lavoro ci sono e non solo ci fanno, ma ci vogliono dav-
vero portare nel baratro?
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11.
Pronostici e profezie
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esperienza alle spalle furono però colti del tutto di sorpresa
nel 1933. Non recepirono appieno la gravità della sindrome
in atto. Alcuni di loro avrebbero continuato a non accorger-
sene a lungo. Altri invece l’avevano intuito da ben prima che
succedesse. Forse addirittura troppo e troppo presto.
La città senza ebrei è il titolo di un libro pubblicato a
Vienna nel 1922. Un romanzo di dopodomani, recitava il sot-
totitolo. Ebbe un grande successo. Ne furono vendute un
quarto di milione di copie. Due anni dopo ne fu tratto anche
un film. Si riteneva che la pellicola fosse andata ormai perdu-
ta, quando ne fu recentemente scoperta una copia in un mer-
cato delle pulci parigino. La si può vedere integrale su
You- Tube. Ma, credetemi, è meglio il libro (una
traduzione italiana è uscita da Donzelli). L’autore, Hugo
Bettauer, era il rampollo di una famiglia ebraica agiata,
originaria della Gali- zia. Lui si era convertito a diciotto anni
al cristianesimo. Ave- va girato il mondo, aveva acquisito la
cittadinanza america- na, era poi tornato in Europa per fare
il giornalista a Berlino.
La città nel romanzo non viene nominata. Ma è la
Vienna di inizio secolo. Tra i malumori creati dalla crisi
economica (“Dopo il cosiddetto risanamento, durato due
anni, le finanze si erano di nuovo ritrovate in disordine”), il
popolo elegge alla carica di cancelliere un populista che
promette la soluzione di tutti i problemi: espellere gli ebrei. I
socialdemocratici “si era- no presentati alle elezioni senza un
nuovo programma” e ave- vano subìto una batosta, alla pari
dei comunisti e dei liberali. “Persino le masse dei lavoratori
avevano votato al grido di ‘Fuori gli ebrei!’.”
Il nuovo cancelliere illustra in un appassionato discorso
in Parlamento il decreto “Per l’esclusione di tutti i non aria-
ni”. Impone l’espulsione, nel giro di sei mesi, di tutti i
500.000 ebrei che vivono nel paese. Prevede la pena di
morte per chi cerchi surrettiziamente di restare o tenti di
“portare via somme maggiori di quelle consentite”. Vieta
espressa- mente eccezioni per vecchi e malati, e anche per
coloro “che si sono guadagnati meriti particolari verso lo
Stato”. Unica esenzione prevista quella per “i figli dei figli
nati da matrimo- ni misti”, purché i genitori non si siano di
nuovo mischiati
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con ebrei. I socialdemocratici dichiarano che voteranno con-
tro questo documento di “umana ignominia”. Ma vengono
zittiti, bersagliati da cartacce e altri oggetti. La legge viene
approvata persino dall’unico deputato sionista. All’uscita il
cancelliere viene accolto da una folla festante, fanciulle ri-
denti gli offrono fiori, viene baciato e abbracciato. “La
sera si scatena la gioia infinita del popolo.”
È una profezia precisa nei minimi particolari, persino
nor- mativi e legislativi, di quel che sarebbe successo decenni
dopo in Germania. Non basta: ci sono anche i suicidi, i
treni in cui vengono stipati i deportati, “con l’aiuto di
locomotive prese in prestito dagli Stati vicini”, e con
l’accortezza di far partire i convogli “soprattutto di notte” e
da “stazioni di manovra fuori città”. C’è l’entusiasmo, la
soddisfazione popolare, “an- che all’interno della classe dei
lavoratori”, se non altro perché la partenza degli ebrei
alleggerisce la carenza abitativa.
L’unica differenza rispetto a quel che poi sarebbe succes-
so davvero è il lieto fine, l’happy ending, che forse l’autore ha
mutuato dal suo lungo soggiorno negli Stati Uniti: senza
ebrei la città va in rovina, languiscono l’economia e la vita
culturale. La gente comincia a provare nostalgia e rimpianto,
gli ebrei vengono richiamati a furor di popolo.
Bettauer avrebbe pagato caro le sue profezie. Fu sotto-
posto a un vero e proprio linciaggio da parte della stampa di
destra, per i suoi romanzi e anche per il settimanale di
educa- zione sessuale che dirigeva, “Er und Sie”, Lui e Lei,
“setti- manale di vita, cultura ed erotismo”, additato come
“sozze- ria” volta a minare la morale della gioventù ariana.
Nel 1925 un odontotecnico disoccupato gli sparò e lo
uccise. Al pro- cesso l’assassino fu difeso da un collettivo di
avvocati nazisti. Fu dichiarato malato di mente e liberato
dopo quattordici mesi in manicomio.
Un altro “profeta” notevole fu Siegfried Lichtenstaedter.
Lo abbiamo già incontrato in queste pagine che teorizzava
l’invidia come fattore scatenante dell’odio verso gli ebrei.
Era anche lui ebreo, laureatosi in Giurisprudenza e Lingue
orientali a Erlangen e Lipsia. Di giorno faceva il funzionario
delle Finanze bavaresi, di notte scriveva romanzi pieni di
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pronostici sulle minacce gravanti sulla sua epoca. Secondo
Gö tz Aly, che me lo ha fatto scoprire, la vita di
Lichtenstaedter ricorda un po’ quella di un altro
fantasticatore profetico a lui quasi suo contemporaneo:
Franz Kafka. Incredibile la quanti- tà di previsioni di cose
ancora a venire che era riuscito a im- broccare. In un’opera
in due volumi dal titolo Il nuovo Stato mondiale, contributo
alla storia del XX secolo, la definiva divi- nazione storica o
storiografia del futuro. Pubblicata tra il 1901 e il 1903,
l’opera aveva preannunciato per il 1910 lo sbarco delle
truppe italiane a Tripoli (avvenne in realtà nel 1911) e il
marasma nei Balcani, “angolo instabile dell’Euro- pa”. La sua
fiction di inizio secolo preannunciava un “racca- pricciante”
massacro perpetrato dai turchi a danno degli ar- meni in
Anatolia nel 1912. Puntualmente si sarebbe verificato.
Aveva correttamente fantasticato un’azione puni- tiva della
Germania contro Praga, e l’Anschluss con l’Austria per il
1939. Sempre del 1903 è l’incredibilmente esatta pro- fezia
che nel 1945 si sarebbe stabilito a Praga un “commissa- rio
russo per l’Amministrazione dei paesi slavi occidentali li-
berati”. Nel 1926, quando i nazisti erano ancora lontani dal
potere, aveva pubblicato una raccolta di racconti “un po’ se-
ria, un po’ allegra, un po’ vera, un po’ inventata” intitolata
Antisemitica, in cui si prevedeva l’attribuzione agli ebrei del-
le colpe più nefaste. Molti dei suoi pronostici di fantasia si
sarebbero realizzati. Incorse naturalmente anche in qualche
piccolo errore: in uno dei racconti la vicenda che scatena
l’ondata di odio si svolge nel 1999…
A partire dal 1933, Siegfried Lichtenstaedter si adoperò
perché il maggior numero possibile di ebrei lasciasse la Ger-
mania. Invitava a “non ostinarsi in modo ottuso o rassegnato
a restare in un luogo che non apparteneva più agli ebrei”.
“Dio voglia che non sia troppo tardi”, scriveva nel 1937. Ar-
rivò a predire che, a differenza di quanto ci viene raccontato
dell’esodo biblico, stavolta il mare avrebbe potuto anche
non aprirsi per far passare il popolo di Israele e poi richiu-
dersi per distruggere i suoi persecutori. Lui stesso emigrò ,
ormai settantatreenne, in Palestina nel 1938. Era pensionato
dal 1932. Ma poi inspiegabilmente decise di tornare in Ger-
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mania. Come molti che vedono lontano era cieco sull’imme-
diato? Come nome ebraico imposto allora per legge al posto
del teutonico Siegfried non volle prendere Israel bensì Sami.
Nel giugno 1942 fu deportato a Theresienstadt, dove morì
nel dicembre dello stesso anno.
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“newspeak” che serve – avrebbe spiegato lo stesso Orwell –
“a far sembrare verità le bugie e rispettabile l’assassinio”.
Parrebbe lo stesso argomento di cui si occupa Victor
Klem- perer nella Lingua Tertii Imperii. In Nein, del
professore di retorica Jens, si immagina una società da
incubo retta da un Giudice supremo nella quale tutti sono o
accusati, o testimo- ni contro gli accusati, o giudici. C’è
però chi ha osservato che, specie in Germania, entrambi i
romanzi furono letti all’epoca della loro uscita come
denuncia dello stalinismo, più che del nazismo, che pure era
fresco nell’esperienza.
Molte profezie partorisce l’ironica fantasia di Erich
Kästner. Ne ha una tremenda il romanzo Fabian. Storia di un
moralista ovvero l’andata a puttana (o anche come suggeriva
Cesare Cases “l’andata a remengo”), pubblicato da
Marsilio nel 2010. Il protagonista sogna di una “macchina
enorme... intorno alla quale si affaccendano operai seminudi,
armati di badili, che infornavano centinaia di migliaia di
piccoli bam- bini in una caldaia gigantesca in cui ardeva un
vivissimo fuo- co” e di altre scene infernali e di distruzioni
belliche. Il ro- manzo fu pubblicato nel 1931. Come faceva
Kä stner a prevedere Auschwitz, la Seconda guerra, i
bambini inforna- ti, le città che bruciano distrutte dai
bombardamenti?
Non occorre nemmeno che le profezie siano esplicite e
particolareggiate. Né che le profezie siano ex ante. Ancora
più efficaci sono quelle criptiche, come i responsi della Pizia
dell’Oracolo di Delfi. Credo che nessuno abbia saputo
esse- re profeta delle angosce profonde di quei tempi, e
anche del nostro tempo, quanto Franz Kafka. Hans Fallada è
un eccel- lente testimone della Germania degli anni trenta,
ma ancor più profetico degli altri romanzi è forse
l’autobiografico Il bevitore, pubblicato nel dopoguerra.
Non parla esplicita- mente di politica. Racconta di una
discesa personale, indivi- duale, nell’inferno della
tossicodipendenza, martella impie- tosamente su quanto
questa passi per la menzogna, il mentire continuamente agli
altri, ma innanzitutto a se stessi. La men- zogna più grande
consiste nel dirsi in continuazione: posso smettere quando
voglio. Era anche la grande menzogna col-
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lettiva che raccontavano a sé stessi i tedeschi dal 1933 in poi.
Stiamo continuando a raccontarcela?
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pianeta, e quindi la vittoria dell’ebraismo, ma la distruzione
della razza ebraica in Europa”.
Ci sarebbe tornato ripetutamente. Nel discorso alla “vec-
chia guardia” nazista a Monaco dell’8 novembre 1941: “Pos-
sono [gli ebrei] ancora riderne oggi, come hanno riso delle
altre mie profezie. Ma i prossimi mesi e anni dimostreranno
che anche in questo ho visto giusto”. Era in corso l’Opera-
zione Barbarossa contro l’Unione Sovietica, le Einsatzgrup-
pen, le unità operative composte da uomini delle SS, della
polizia e della Wehrmacht stavano già procedendo al massa-
cro sistematico di ebrei e comunisti nelle zone conquistate. E
poi ancora il 30 settembre 1942, quando già lo sterminio
procedeva a pieno regime: “Sappiamo che questa guerra può
finire con lo sterminio dei popoli ariani, o con la scomparsa
degli ebrei dall’Europa… questa guerra – e sapete che non
faccio previsioni avventate – non finirà come hanno immagi-
nato gli ebrei, bensì con la distruzione del giudaismo. Mette-
remo per la prima volta in atto il vecchio detto ebraico:
oc- chio per occhio, dente per dente…”. E ancora:
“Dichiarai che... gli ebrei sarebbero stati annientati... Gli
ebrei risero nuovamente in Germania delle mie profezie.
Non so se stia- no ancora ridendo, o se la loro risata si sia
spenta. Ma questo solo posso affermare: la loro risata si
spegnerà dovunque”. E ancora, nel febbraio 1943: “Mi hanno
sempre deriso come profeta. Moltissimi di coloro che allora
risero oggi non rido- no più , e quelli che ancora ridono
forse tra poco non ride- ranno più ”.
Strana ossessione, per i nazisti, questa del ridicolo, del far
spegnere le risate degli avversari. Anche Goebbels così regi-
strava compiaciuto nel suo diario nel 1933 la “conquista di
Berlino”, la città in cui i nazisti avevano avuto più
difficoltà ad affermarsi, e avevano dovuto a lungo
assediare dalle “campagne”: “La nostra fortuna fu che i
marxisti e la stampa ebraica non ci presero sul serio per
tutto quel periodo […]. In seguito avrebbero dovuto spesso
e amaramente rimpian- gere di non averci assolutamente
conosciuti o, quando ci co- noscevano, di aver solo saputo
sorridere di noi…”.
Si è molto romanzato sulle superstizioni di Hitler, la sua
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passione per l’occulto, la frequentazione del “mago” (in real-
tà cabarettista illusionista) di origine ebraica Erik Jan Ha-
nussen che gli aveva predetto le vittorie elettorali del 1932,
la nomina a cancelliere, e poi era misteriosamente sparito. In
realtà non occorreva essere chiaroveggenti per “vedere”
quello, sarebbe forse bastato essere un pochino meno ciechi.
Volendo si potrebbero trovare profezie ovunque. Divertenti,
quanto del tutto insulse, tanto per fare un esempio, le nume-
rosissime profezie su Hitler e dintorni che qualcuno s’è dato
la pena di reperire nelle quartine cinquecentesche di Nostra-
damus. Qui sono interessato a un altro tipo di profezia: quel-
la che enuncia un programma, assume l’aspetto di una pro-
messa. È noto: la promessa di Hitler riguardo gli ebrei fu
mantenuta, la profezia venne spietatamente realizzata. Meno
noto è il contesto in cui fu formulata la prima volta nel 1939:
un vero e proprio ricatto al resto dell’Europa e al mondo
in tema di accoglienza agli immigrati.
C’era stata l’anno prima la Conferenza sull’emigrazione a
Evian, con la partecipazione di 32 paesi, invitati ad accollarsi
una quota degli ebrei di cui i nazisti volevano sbarazzarsi.
L’aveva promossa Roosevelt, sotto pressione perché l’opinio-
ne pubblica americana era allarmata dalla campagna populi-
sta contro l’“invasione” di profughi. Roosevelt stava per can-
didarsi per la terza volta alla Casa Bianca. Temeva di essere
sconfitto sul tema immigrazione. A Evian c’era stata gran
bella retorica sulla necessità di accogliere i profughi e sulla
condivisione dell’onere. Ma nulla di fatto, tutti nicchiavano,
specie dopo che il governo tedesco aveva annunciato che
non avrebbe più consentito agli ebrei di portare fuori risorse
finanziarie. Erano in corso negoziati tra Berlino e inviati di
Washington per il finanziamento dell’emigrazione di
150.000 ebrei, che sarebbero stati raggiunti in seguito dalle
famiglie. Hitler minacciò di far saltare tutto perché c’erano
“paesi ter- zi che di punto in bianco rifiutano di accogliere
ebrei, ac- campando ogni possibile scusa”. Come dire: se
non ve li ac- collate, li stermino. Fossero stati in mare
avrebbe detto: se non li prendono tutti, un po’ per uno, non
li faccio sbarcare, piuttosto affoghino.
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Il linguaggio becero, la maschera da cattivo, le sparate re-
toriche, le iperboli sono una componente costante del lin-
guaggio populista. Servono a “parlare come il popolo”, a
“farsi capire dal popolo”. Ma non sono mai neutri,
innocen- ti. La propaganda costringe chi la fa a mantenere
la parola, osservava lo storico tedesco Martin Broszat a
proposito della retorica incendiaria e apocalittica di Hitler.
Notava che la popolarità di Hitler era dovuta in buona
misura al fatto che diceva apertamente, brutalmente, a voce
alta quello che la sua audience pensava tra sé e sé. Hai voglia
ad assumere pose da moderato, da statista una volta giunto
al governo, se pri- ma per anni hai sbraitato contro gli ebrei
attribuendogli la volontà di distruggere e assassinare la
Germania, dandogli dei parassiti, sanguinari, vermi, bacilli
che infettano la nazio- ne, oppure te la sei presa con gli
immigrati, dandogli dei de- linquenti, stupratori, terroristi,
portatori di malattie.
Quello che dicono prima di andare al governo non
sono sempre parole al vento. Sarà meglio prenderne nota. È
ricor- rente l’illusione (o la speranza) che certe esuberanze
siano solo esagerazioni, artifici retorici, intemperanze
passeggere, iperboli appunto. Ma c’è un tratto comune ai
populisti che arrivano al governo: la smania di mantenere le
promesse fat- te in campagna elettorale, fare quello che
hanno detto, ca- schi il mondo, costi quello che costi. Come
se avessero il ter- rore di essere tacciati di inadempienza,
volessero distinguer- si dai loro predecessori accusati di
dire una cosa e farne un’altra. Trump aveva promesso il
Muro antimigranti, e su quello continua a testa bassa, a
costo di sbattere contro lo shutdown del governo, aveva
promesso protezionismo, e procede imperterrito
nell’imporre tariffe doganali, incurante delle conseguenze
sull’economia mondiale… Salvini aveva promesso di
fermare gli sbarchi, di mettere fine ai diktat dall’Europa…
Leggo ogni tanto che l’opposizione li rimpro- vera di non
aver adempiuto le promesse. Visto gli anteceden- ti, davvero
non saprei se dobbiamo davvero augurarci che mantengano
quello che hanno detto e hanno promesso.
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Contare fino a mille
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forse anche un po’ scaramantica. Abbiamo avuto, a partire
dal secolo scorso, cicli che sono durati effettivamente diversi
decenni: le trente glorieuses, i trenta anni di crescita impe-
tuosa in Occidente dal 1945 al 1975, poi l’era neo-liberista di
Reagan e della Thatcher, a sua volta screditata dalla crisi fi-
nanziaria globale del 2008. In Cina al trentennio maoista era
seguita l’era dell’apertura economica di Deng Xiaoping, che
sostanzialmente è ancora in corso. Ora i nodi stanno venen-
do di nuovo al pettine, potrebbe esserci nell’aria una nuova
svolta. Ma per durare un trentennio l’“era populista” do-
vrebbe essere in grado di mantenere non solo e non tanto il
momento elettorale (cosa anche possibile), ma la promessa
dello sviluppo (cosa che al momento è in dubbio).
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ni, la concorrenza tra più partiti. Invece più votavano più si
impantanavano. S’è visto come andò a finire.
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Letture su 1933 e dintorni
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considerata a lungo il testo di riferimento, e più volte ristam-
pata in traduzione italiana da Einaudi, si sono aggiunte molte
altre opere di ampio respiro, trattazioni globali che mirano a
essere esaustive. C’è chi ha notato che nel campo degli
studi sul Terzo Reich, e specie per le biografie di Hitler, si va
a cicli. A momenti di stanca, in cui sembra sia già stato
detto tutto quel che si poteva dire, seguono momenti di
rinnovato interes- se, anzi di vero e proprio boom, a detta
dei curatori dell’ulti- ma edizione del Vierteljahrshefte für
Zeitgeschichte, pubblica- to dall’Istituto per la Storia
contemporanea di Monaco e Berlino, dedicato alle nuove
ricerche su Hitler (German Yearbook of Contemporary
History. Hitler New Research, vo- lume 3, 2018). A quanto
pare siamo nel pieno di un nuovo boom, almeno dal 2015
in poi. Non si fa che pubblicare e scrivere sugli anni trenta,
sul fascismo e su Mussolini, su Hit- ler e sul nazismo. Visti i
tempi, il vento che tira, e le novità politiche da un capo
all’altro del pianeta, forse succede pour cause. Del resto
non faccio fatica a confessare che l’in- terpretazione in
termini di déjà vu in questo libro viene dall’attualità .
E forse non è un caso nemmeno che molti autori delle ri-
cerche più recenti non siano storici di professione ma gior-
nalisti. Ad esempio, storico e giornalista (del “Die Zeit” di
Amburgo) è Volker Ullrich, autore di una nuova monumen-
tale opera su Hitler, in tre ponderosi volumi, di cui il
primo, di oltre mille pagine, è uscito nel 2013 in tedesco (ce
n’è una traduzione in inglese, Hitler. Volume I: Ascent
1889-1939, ma non ancora in italiano). Altrettanto
monumentali gli stu- di, sempre dedicati a Hitler pubblicati
nel 2015 dagli storici tedeschi Wolfram Pyta e Peter
Longerich.
E dire che era parso che il mercato per le biografie di Hit-
ler fosse ormai saturo quando nel 1998 uscì in due enormi
volumi Hitler di Ian Kershaw (ora disponibile in volume uni-
co da Bompiani). Sempre di Kershaw, Laterza aveva pubbli-
cato nel 1997 una sintesi dal titolo molto (forse troppo) pro-
mettente: Hitler e l’enigma del consenso (il titolo originale è
Hitler e basta). Un altro volumetto agile ma denso, The
Hit- ler of History, del 1997, è quello dello storico
americano di
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origine ungherese John Lukacs, autore nel 2005 di un pre-
veggente Democracy and Populism. Solo a elencare quello
che è stato pubblicato di biografie di Hitler occorrerebbe un
volume assai più ampio di quello che avete sottomano. Qui
non si è trattato per nulla di argomenti tipo la personalità di
Hitler, la vita privata di Hitler, la biblioteca di Hitler, le
ma- nie di Hitler e così via. Le analogie toccano l’azione
politica, i fatti, non i personaggi. Per cui mi limito a segnalare,
tra le ope- re di carattere generale da cui ho tratto
riferimenti, il freschis- simo Thomas Childers, The Third
Reich: A History of Nazi Germany, Simon & Schuster, 2017
(non ancora disponibile in italiano).
Le elezioni
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in certe regioni, ma non in altre. Per una discussione estesa
delle diverse posizioni e degli approfondimenti emersi in
decenni di ricerche sul tema: Gary King, Ori Rosen, Martin
Tanner, Alexander F. Wagner, Ordinary Economic Voting
Behavior in the Extraordinary Election of Adolf Hitler, in
“The Journal of Economic History”, volume 68, n. 4, de-
cember 2008. Un’estesa analisi sulle basi sociali del voto
partito per partito, e non solo per quello nazista: The Social
Bases of Political Cleavages in the Weimar Republic, 1919-
1933 di Jü rgen W. Falter, in “Historical Social Research”,
Supplement, 2013; e William Brustein, The Logic of Evil:
The Social Origins of the Nazi Party, 1925-1933, Yale Uni-
versity Press, 1998.
Il testo di Kurt Tucholsky sul moltiplicarsi di partiti e
partitini è adattato da Antonella Ottai per lo spettacolo Gro-
tesk! Ridere rende liberi, basato sul suo Ridere rende liberi.
Comici nei campi nazisti (Quodlibet 2016) e interpretato e
diretto da Bruno Maccallini. Così come la scena di
Kabarett sul barbiere.
Il populismo al governo
170
02/04/19
ho attinto le notizie sull’Heil Hitler! e su alcuni aspetti del
consenso, e Rehearsals for Fascism: Populism and Political
Mobilization in Weimar Germany, Oxford University Press,
1990, sullo sfaldamento dei partiti del Bürgerblock, il cen-
tro-destra “borghese”, culminato con elezioni del 1930. Un
testo di riferimento sullo squagliamento dei vecchi partiti di
centro e centro-destra resta: Larry Eugene Jones, German
Liberalism and the Dissolution of the Weimar Party System,
1918-1933, University of North Carolina Press, 1988.
Sul “socio” di Hitler nel contratto di governo del 1933, il
magnate dei media e capo del Partito nazionale del popolo
tedesco, Alfred Hugenberg, lo studio più recente è: The
Fa- teful Alliance: German Conservatives and Nazis in
1933: the Machtergreifung in a New Light di Hermann Beck,
Berghahn Books, 2008. Documenta con dovizia soprattutto
la rottura e lo spesso violento sgomitamento del Dnvp di
Hugenberg da parte del Nsdap di Hitler nei mesi
immediatamente successi- vi all’andata insieme al governo.
In confronto il comporta- mento della Lega di Salvini nei
confronti dei 5 Stelle di Di Maio è un campione di lealtà e
savoir faire. Ma anche su que- sto aspetto mi sono servito
molto di un testo più vecchio: Larry Eugene Jones, The
Greatest Stupidity of My Life: Al- fred Hugenberg and the
Formation of the Hitler Cabinet, Ja- nuary 1933, in “Journal
of Contemporary History”, vol. 27, 1992; così come,
sempre di Jones, Franz von Papen, Catholic Conservatives,
and the Establishment of the Third Reich, 1933-1934, in
“Journal of Modern History”, 83, giugno 2011.
Sul dibattito in seno alla sinistra resta insuperato lo stu-
dio di Gian Enrico Rusconi su La crisi di Weimar. Crisi di
si- stema e sconfitta operaia pubblicato da Einaudi nel 1977.
Più recente è German Social Democracy and the Rise of
Nazism di Donna Harsch, The University of North Carolina
Press, 1993 e una scelta di fonti c’è in The German Left
and the Weimar Republic. A Selection of documents, a cura
di Ben Fowkes (Haymarket Books, 2014). Ma ho attinto
molto allo studio di parecchio precedente di Lewis J.
Edinger, German Social Democracy and Hitler’s National
Revolution of 1933: A
171
02/04/19
Study in Democratic Leadership, “World Politics”, Volume 5,
Issue 3, aprile 1953.
Rossobrunismo
Caro Diario
172
02/04/19
Germany (Princeton University Press, 1997), con imponente
documentazione iconografica.
Di molti dei giudizi di visitatori stranieri sulla Germania
degli anni trenta sono debitore al bel libro di Luigi Forte,
Berlino città d’altri. Il turismo intellettuale nella Repubblica
di Weimar, Neri Pozza, 2018, a Reisen ins Reich:1933 bis
1945 – Ausländische Autoren berichten aus Deutschland,
Eichborn, 2004, a cura di Oliver Lubrich (tradotto anche
in inglese: Travels in The Reich 1933-1945, The University
of Chicago Press 2004), e a Travellers in the Third Reich:
The Rise of Fascism Through the Eyes of Everyday People di
Julia Boyd, Elliott & Thompson, 2018. I diari del
sindacalista americano Abraham Plotkin sono stati ritrovati
negli archivi della Cornell University e commentati da
Catherine Collomp e Bruno Groppo in An American in
Hitler’s Berlin: Abraham Plotkin’s Diary, 1932-33,
University of Illinois Press, 2009. Un classico è La peste
Brune del militante trotskista Daniel Guérin sul suo viaggio
in Germania tra 1932 e 1933, da non confondersi con La
peste bruna. Diari 1931-1935 di Klaus Mann, figlio di
Thomas Mann e nipote di Heinrich Mann.
Sui diari di protagonisti e personaggi con ruoli di primo
piano nelle fasi iniziali del regime e che poi divennero pro-
fughi (Putzi Hanfstaengl, intimo di Hitler della prima ora,
poi suo addetto stampa, Rudolf Diels, il primo capo della
Gestapo) e su quelli degli osservatori stranieri che li fre-
quentavano (Martha, la figlia brillante e avvenente dell’am-
basciatore americano Wiliam Dodd, i suoi principali colla-
boratori, i corrispondenti esteri nella Berlino di quegli
anni), si basano due magnifiche ricostruzioni, rigorose nel-
le fonti e al tempo stesso leggibili come se fossero romanzi:
1933. L’ascesa al potere di Adolf Hitler di Philip Metcalfe
(Neri Pozza, 2018, ma pubblicato per la prima volta in
America nel 1988) e Il giardino delle bestie: Berlino 1934 di
Erik Larson (Neri Pozza, 2014). A chi avesse voglia di leg-
gere solo un libro soltanto sulla Germania del 1933-34,
consiglierei uno di questi due. Ne ho goduto la lettura e vi
ho attinto senza scrupoli.
Un discorso a parte meriterebbero le testimonianze e i
173
02/04/19
diari di chi fu nazista convinto. Nel 1934, a giusto un anno
dalla nomina di Hitler, Theodore Abel, un sociologo della
Columbia University di origine ebraica, si era rivolto diretta-
mente al governo tedesco per poter condurre un’indagine
sulle motivazioni dell’adesione al Partito nazionalsocialista.
Il ministero per la Propaganda di Goebbels decise di aiutar-
lo. Lui inviò circa 600 questionari. Era prevista una ricom-
pensa in denaro per “le migliori storie di vita di aderenti al
movimento di Hitler”. Dalle risposte ai questionari Abel
ri- cavò Why Hitler Came to Power, pubblicato per la
prima volta nel 1938 e più di recente ripubblicato con una
prefa- zione di Thomas Childers (Harvard University Press,
1986). Anche Milton Mayer, ebreo di origine tedesca,
giornalista, sociologo in America, si era recato nel 1935
per un mese a Berlino, ospite dell’ambasciatore Dodd, per
cercare di capi- re cosa stava succedendo. Aveva inutilmente
cercato di inter- vistare Hitler. Ci sarebbe tornato all’inizio
degli anni cin- quanta a intervistare alcuni ex nazisti
convinti, gente del popolo, bancari, insegnanti, negozianti,
artigiani, poliziotti, studenti. Il risultato è They Thought
They Were Free. The Germans. 1933-1945, ora ripubblicato
con la postfazione di Richard J. Evans dalla University of
Chicago Press. William Sheridan Allen avrebbe negli anni
cinquanta passato alcuni mesi in un borgo dello stato di
Hannover con appena dieci- mila abitanti. Ne sarebbe
scaturito Come si diventa nazisti, più volte ripubblicato da
Einaudi.
Infine, ci sono i diari dei dirigenti nazisti, o amici dei na-
zisti, più o meno apologetici, più o meno pentiti. Goebbels
teneva un diario e periodicamente lo rimaneggiava per la
pubblicazione, in funzione di autopromozione. Hanno scrit-
to memorie Papen, Weizsäcker, Speer, Schacht, e anche mili-
tari come il feldmaresciallo Keitel e l’ammiraglio Dö nitz.
Tutti ovviamente da prendere con le pinze. Così come le Me-
morie di Gerusalemme di Adolf Eichmann, le memorie sotto
la forca, Im Angesicht des Galgens, del boia di Varsavia Hans
Frank o Comandante ad Auschwitz di Rudolf Hö ss, pubbli-
cato da Einaudi con una prefazione di Primo Levi. Un’araba
fenice, una bufala ricorrente sono poi i Diari di Hitler, quan-
174
02/04/19
to quelli di Mussolini, come racconta da grande affabulatore
Pasquale Chessa nel suo Il romanzo di Benito, Utet, 2018.
A me sono bastati e avanzati i discorsi ufficiali nella
monumen- tale raccolta di Max Domarus, Hitler: Reden
und Proklama- tionen, 1932-1945, disponibile anche in
inglese in quattro volumi: Hitler: Speeches and
Proclamations 1932-1945: The Chronicle of a Dictatorship,
Bolchazy-Carducci Publishers, 1988.
fi la stampa, bellezza!
175
02/04/19
Ebrei come immigrati
176
02/04/19
Fabio Isman, con una prefazione di Liliana Segre (il Mulino,
2018).
Sul sistema di assistenza sociale, prima e dopo Hitler:
David F. Crew, Germans on Welfare: From Weimar to Hitler,
Oxford Univesity Press, 1998. Fondamentale, sull’argomen-
to del consenso, anche sugli aspetti più orripilanti del regi-
me, è il documentatissimo Backing Hitler: Consent and Coer-
cion in Nazi Germany di Robert Gellately, Oxford University
Press, 2001. Ma non tutti si lasciarono sedurre e corrompere
dal Pifferaio. Non bisogna trascurare il peso che ebbe
l’op- posizione interna, in particolare sui temi che
riguardavano la famiglia, la sfera del privato, l’affetto per i
propri cari con- trapposto alle politiche per l’eutanasia delle
“vite indegne di essere vissute”, degli handicappati e dei
malati di mente. Su questo il giornalista tedesco e poi
professore di Studi sull’O- locausto alla Florida State
University Nathan Stoltzfus, Hit- ler’s Compromises: Coercion
and Consensus in Nazi Germany, Yale University Press,
2016.
177
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Misteri dell’economia
178
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man Pearson, 2001. Più fresco, ma un pochino dispersivo,
col rischio di perdersi nella marea di documentazione: Adam
Tooze, The Wages of Destruction: The Making and
Breaking of the Nazi Economy, Penguin, 2007. From Recovery
to Cata- strophe: Municipal Stabilization and Political Crisis in
Weimar Germany di Ben Liberman (Berghahn Books,
1998, Mono- graphs in German History) tocca un argomento
importante ma raramente affrontato: la distruzione delle
finanze locali.
Su Schacht, oltre al delizioso profilo di Geminello Alvi
in Uomini del Novecento (Adelphi, 1995), John Weitz, Hit-
ler’s Banker: Hjalmar Horace Greeley Schacht (Little Brown,
1997). L’idea del trucco simile a quello di Mefistofele nel
Faust di Goethe, da Guido Preparata, brillante e poliedrico
economista italiano prestato alla University of Washington,
e in particolare dal suo Hitler’s Money: The Bills of
Exchange of Schacht and Rearmament in the Third Reich, in
“American Review of Political Economy”, volume 1, n. 1
(pp. 15-27) ot- tobre 2002. Utili su Schacht, riarmo e
politiche di gestione del debito anche Pierpaolo Barbieri,
L’impero ombra di Hit- ler. La guerra civile spagnola e
l’egemonia economica nazista, Mondadori, 2015, e Fabio
Casini, Schacht e Norman. Politi- ca e finanza negli anni fra
le due guerre mondiali, Rubettino, 2018.
Per gli operai tedeschi convinti che con Hitler le cose
“certo non potranno andare peggio”, e che solo lui “man-
derà al diavolo” francesi e inglesi: H. R. Knickerbocker,
The German Crisis, Farrar & Rinehart, 1933. La lettera di
Simo- ne Weil al fratello matematico André è in L’arte
della mate- matica, Adelphi, 2018.
179
02/04/19
dter sono indebitato a Gö tz Aly. Zamjatin, Orwell e Jens
so- no vecchie conoscenze. Ho sempre pensato che la
fantascienza non servisse a profetizzare il futuro ma a
meglio capire il presente. La scoperta di Primo Levi scrittore
di fan- tascienza non fa che confermarmelo. I peggiori profeti
sono sempre stati quelli che pensano di essere profeti. Su
Hitler profeta dello sterminio degli ebrei, almeno
inizialmente per ricattare il resto del mondo affinché
accogliesse gli immigrati di cui voleva disfarsi, l’idea mi è
venuta da un seminario sulla Conferenza di Evian del 1938
organizzato da Gianantonio Caggiano all’Università di
Roma Tre. Gli atti saranno pub- blicati.
Tra le moltissime cose usate sulla fascinazione nazista per
l’occulto, e in particolare sul veggente Hanussen: Mel Gor-
don, Il mago di Hitler. Un ebreo alla corte del Führer, Monda-
dori 2004. Se qualcuno volesse divertirsi sulle profezie di
Nostradamus in cui si parlerebbe di Hitler, segnalo la compi-
lazione di Robert Arthur apparsa nel volume 51, numero
339, del gennaio-febbraio 1959 di “The Military Engineer”:
The Rise and Fall of Hitler As Foreseen by Nostradamus.
180
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Indice dei nomi
181
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Dietrich, Marlene 44, 136
Goethe, Johann Wolfgang von 48,
Di Maio, Luigi 20, 171
53, 142, 147, 179
Dix, Otto 32
Gö ring, Hermann 10, 12, 73, 87,
Dö blin, Alfred 24
88, 90, 92, 94, 136, 150
Dodd, Martha 173
Gramsci, Antonio 51, 59, 60, 70
Dodd, William 173
Grimm, fratelli (Wilhelm Karl e Ja-
Dollfuss, Engelbert 28
cob Karl) 159
Dö nitz, Karl 174
Grosz, George 30, 32, 33
Duce, vedere Mussolini, Benito
Guérin, Daniel 173
Dü sterberg, Theodor 10, 11, 20
Haarmann, Fritz 30, 34, 35, 107
Ebert, Friedrich 122-124
Hanfstaengl, Ernst “Putzi” 173
Eckart, Irene 127
Hanussen, Erik Jan 161, 180
Edoardo VIII, re di Gran Hess, Rudolf 135
Bretagna e Irlanda 29 Himmler, Heinrich 41, 92
Eichmann, Adolf 174
Hindenburg, Paul Ludwig von
Engel, Franz 45
12,
Erdoğ an, Recep Tayyip 57 19, 20, 55, 66, 68, 91, 98, 105,
Ernst, Marx 32 147, 153
Erzberger, Matthias 120, 121, 123 Hitler, Adolf 9-20, 22, 23, 25-32,
34, 39, 42, 45, 46, 49-53, 55-60,
Fallada, Hans, pseudonimo di Ru- 62, 63, 66-70, 72, 73, 76, 79,
dolf Ditzen 24, 36, 57, 109- 86-91, 94-105, 107, 111-114,
111, 130, 158
116-120, 122, 127, 128, 129,
Finck, Werner 136
134-138, 140, 142-153, 159-
Flaubert, Gustave 130
164, 167-171, 173-175, 177-
Ford, Henry 47
180
Formigli, Corrado 71
Hollaender, Felix 44
Franco, Francisco 28
Horthy von Nagybá nya, Mikló s 28
François-Poncet, André 14
Hossbach, Friedrich 150, 152
Frank, Hans 141, 174
Hö ss, Rudolf 174
Frick, Wilhelm 12, 39, 114, 126
Hugenberg, Alfred 9-13, 16, 19,
Fritzsche, Peter 128, 140
20, 30, 35, 59, 60, 78, 94, 108,
Fromm, Bella 116
112, 115, 119, 121, 123, 125,
Fromm, Erich 164
142, 146, 147, 171
Fü hrer,vedere Hitler, Adolf
Isherwood, Christopher 15, 19
Gallimard, Gaston 26
Gaulle, Charles-André-Josep- h- James, Harold 178
Marie de 163
Jens, Walter 157, 158, 180
Gay, Peter (Peter Israel Frö hlich)
Jesenská , Milena 95
46, 81
Jung, Edgar 12
Goebbels, Paul Joseph 29, 33, 43,
Jü nger, Ernst 36
73, 96-98, 100, 112-114, 118,
124, 125, 150, 152, 160, 174 Kaas, Ludwig 13, 62
Kafka, Franz 95, 156, 158
182
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Kaiser, Guglielmo II di Prussia e
Marx, Karl 24
Germania detto 153
Kandinsky, Wassily 71 Mastropietro, Pamela 34
Karl, Anton 135 Mayer, Milton 174
Karrasch, Alfred 35 McLuhan, Marshall 112
Kä stner, Erich 158 Meißner, Otto 11
Kautsky, Karl 16 Metaxas, Ioannis 28
Keitel, Wilhelm 174 Modi, Narendra Damodardas 57
Kircher, Rudolf 117, 118 Molotov, Vjačeslav 94
Kirchner, Ernst Ludwig 32 Mondrian, Piet 71
Klee, Paul 71 Montesquieu, Charles-Louis de Se-
Kleist, Heinrich von 20, 43 condat barone di La Brède e di
Kleist-Schmenzin, Ewald von 20 136
Klemperer, Victor 49, 70, 82, 83, Mosse, famiglia 114, 119, 124
102, 103, 112, 128, 158 Mosse, Rudolf 115
Knickerbocker, Hubert Renfro 145 Mounk, Yascha 164
Koestler, Arthur 106-109 Mü ller, Hermann 65
Kokoschka, Oskar 32 Mü nzenberg, Babette (Thü ring) 95
Kracauer, Siegfried 57 Mü nzenberg, Willi 95, 124
Kraus, Karl 48, 91 Musil, Robert 33
Kun, Béla 28 Mussolini, Benito 9, 15, 16, 22, 25,
Kü rten, Peter 31, 32, 35, 107 28, 74, 168, 175
183
02/04/19
Pound, Ezra 22
Stauffenberg, Claus Schenk von
Primo de Rivera y Orbaneja, Mi-
20, 151
guel 28
Strasser, Gregor 68, 69, 172
Putin, Vladimir 57
Strasser, Otto 69
Rachman, Gideon 163 Strauss, Leo 25
Rathenau, Walther 121 Streicher, Julius 72, 73, 75, 76, 96,
Reagan, Ronald 164 97
Remarque, Erich Maria 116 Sulzberger, Arthur 19
Renzi, Matteo 20
Ribbentrop, Joachim von 94, 152 Tedeschi, Mario 74
Rö hm, Ernst 12, 69 Terenzio Afro, Publio 24
Roosevelt, Franklin Delano 29, 85, Tergit, Gabriele, pseudonimo di
102, 140, 144, 161 Elise Hirschmann 125
Rosen, Willy 45 Thatcher, Margaret 164
Roth, Joseph 24, 37, 38, 43 Thyssen, Fritz 86
Trotsky, Lev 27, 67
Sade, Donatien-Alphonse-François Trump, Donald 25, 29, 57, 145,
marchese di 32 152, 162, 163
Salazar, Antó nio de Oliveira 29 Tucholsky, Kurt 24, 52, 111, 116
Salvini, Matteo 20, 162, 163,
171 Ullstein, famiglia 107, 108, 116,
Schacht, Hjalmar 146, 148-150, 117, 119, 124, 125
151, 174, 179 Ulmanis, Kā rlis 28
Schiller, Friedrich 43, 53
Schleicher, Kurt von 10, 19, 20, 66, Van Gogh, Vincent 71
67, 69, 151
Wagner, Richard 18
Schlesinger, Arthur 164
Wang Lun 106
Schmitt, Carl 101
Wedekind, Frank 33
Schwerin von Krosigk, Johann Lu-
Weil, André 141, 179
dwig conte di 10, 146, 151
Seldte, Franz 10, 11, 137 Weil, Simone 30, 141, 143, 178, 179
Shakespeare, William 165 Weiß, Bernhard 97
Shirer, William 128, 167 Welles, Orson 109
Showalter, Dennis 77, 80 Wels, Otto 88, 90, 91
Siemens, Daniel 35 Werner von Fritsch, Thomas Lu-
Simenon, Georges 26, 27, 29-32, dwig 152
172 Winkler, Max 119, 120
Simpson, Wallis 29 Wolf, Christa 42
Sklarek, famiglia 124, 125 Wolff, Theodor 16, 115
Smetona, Antanas 28 Wolk, Jonas 73
Sonnemann, Leopold 117 Xi Jinping 57
Speer, Albert 150, 174
Spender, Stephen 19 Young, Owen Daniel 146
Staeger, Ferdinand 134 Zamjatin, Evgenij 157, 180
Stalin, Iosif Vissarionovič 46, 59,
Zogu, Ahmet, Zog I di Albania 28
69, 94, 95, 157
184
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Indice
21 2. Analogie e scaramanzia
Breve nota sul perché di questo libro
26 3. Europa, dica 33
Con Hitler in ascensore, 29; La foto del mostro in pagina, 32;
Cento, mille casi Pamela Mastropietro, 34
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Gramsci, 59; fi la coalizione, stupido!, 62; Coalizioni potenziali
ed effettive, 64; Risultati elettorali per i principali partiti, 64
70 6. La filologia dell’odio
Un giornale per la Verità, 72; Piccola posta dell’odio, 75; Il po-
tere della lagna, 77; Bagatelle per un massacro, 79; Questione
di nomi, 81; La Nomenclatura dell’odio, 83
02/04/19
167 Letture su 1933 e dintorni
Il boom anni trenta, 167; Le elezioni, 169; Il populismo al
go- verno, 170; Rossobrunismo, 172; Caro Diario, 172; fi la
stam- pa, bellezza!, 175; Ebrei come immigrati, 176;
L’enigma del consenso, 176; Nessuno mi può giudicare, 177;
Misteri dell’e- conomia, 178; Mancati pronostici e vecchie
profezie, 179
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