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Teoria dell’architettura: da Vitruvio ad oggi

Sonja Hildebrand, Elena Chestnova


SP 2022

Riflessioni sulla Bellezza

Ioannis Barbas
no. matricola 18-983-32
1
Indice
Introduzione alla bellezza: il Bello e il Buono 3

Pitagora e Policleto: la bellezza come proporzione e armonia 3

Gli ordini architettonici e il decorum vitruviano 4

Firmitas, Utilitas, Venustas 5

Venustas: Symmetria ed Eurithmia 5

Alberti: il De Re Aedificatoria 6

Concinnitas 6

Numerus, Finitio, Collocatio e Varietas 7

Conclusione 8

(In copertina, il dettaglio della facciata del cortile di Palazzo Te a Mantova, progettato da Giulio Romano nel 1524. La
fotografia ritrae la sottile e ironica bellezza dei triglifi scivolati, che, rompendo l’ordine classico, introducono un elegante
elemento di tensione nella teoria compositiva della facciata: la bellezza scaturita dall’armonia dei contrasti.)
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Introduzione alla Bellezza: il Bello e il Buono

Parlare di bellezza è difficile. Si ha sempre l’impressione che, appena la si provi a tradurre in


parole, sia già sparita. La fugacità della bellezza è la ragione per la quale ci risulta tanto difficile
delinearne un’idea precisa, o una definizione che non sfoci nella vaghezza. Se si prende in mano
una matita e si prova a disegnare un volto o un paesaggio, c’è sempre un momento in cui si ha la
percezione che, cancellando o aggiungendo qualcosa, si possa rompere l’equilibrio dell’insieme.
La ricerca della bellezza si riferisce alla ricerca consapevole di questo equilibrio.
Cos’è il bello? Nell’introduzione del volume Storia Della Bellezza, Umberto Eco sottolinea come il
termine “bello” sia “(…) un aggettivo che usiamo sovente per indicare qualcosa che ci piace.
Sembra che, in questo senso, ciò che è bello sia uguale a ciò che è buono (…)”1. L’autore
specifica come diverse epoche storiche abbiano trattato i termini come intercambiabili, a partire
da Platone nell’antica Grecia. Delinea, tuttavia, una sottile demarcazione, affermando che “ (…)
parliamo di Bellezza quando godiamo qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che
lo possediamo”2. Mentre tendiamo ad utilizzare “buono” per descrivere qualcosa che vorremmo
avere per noi stessi (una buona salute, per esempio), qualcosa di “bello” rimane tale anche se
appartiene a qualcun altro. Il senso di bellezza differisce quindi dal desiderio: riusciamo a
contemplarla e riconoscerla quasi fosse un’entità a sé stante. Eco afferma come l’intenzione del
libro non sia quella di giungere ad una definizione univoca di bellezza, scrivendo: “E’ possibile che
al di la delle diverse concezioni della Bellezza vi siano alcune regole uniche per tutti i popoli in tutti
i secoli. In questo volume non tenteremo di cercarle e trovarle a tutti i costi. Piuttosto, metteremo
in luce le differenze. Starà al lettore cercare l’unità al di sotto di queste differenze”3. Esiste davvero
un principio unitario che si cela dietro l’idea di bellezza, capace di andare oltre la soggettività e la
cultura? Può esistere una bellezza senza tempo?

Pitagora e Policleto: la Bellezza come proporzione e armonia

L’Uomo Vitruviano mostra l’interpretazione grafica di un passo di Vitruvio da parte di Leonardo da


Vinci. Il termine rinascenza suggerisce la volontà da parte degli artisti del Rinascimento di attuare
il recupero, la riscoperta dell’antico; un ritorno alle origini della bellezza. Notiamo come L’Uomo
Vitruviano, che l’autore descrive come “uomo ben proporzionato”, sia inscritto in un cerchio e in
un quadrato. Nel libro terzo del De Architettura, l’unico trattato di architettura pervenutoci
dall’antichità, l’autore scrive: “Parimenti il centro in mezzo al corpo per natura è l’ombelico. E
infatti se un uomo fosse collocato supino con le mani e i piedi distesi e il centro del compasso
fosse puntato nell’ombelico di questi, descrivendo una circonferenza le dita di entrambe le mani e
dei piedi saranno toccate dalla linea. Analogamente come la forma della circonferenza viene
istituita nel corpo, così si rinviene in esso il disegno di un quadrato. Infatti se si misura dalle piante
dei piedi alla sommità del capo e tale misura è riferita alle mani distese, si trova che pure la
larghezza è come l’altezza, come le aree che sono quadrate regolari (…)”4.
Si intuisce come la bellezza ideale tracciata da Vitruvio sia fondata sui precisi rapporti di
proporzione e geometria. La bellezza intesa come proporzione e armonia rimanda all’idea
pitagorica di numero, identificato come il principio di tutte le cose. Umberto Eco scrive: “Con
Pitagora nasce una visione estetico-matematica dell’universo: tutte le cose esistono perché
riflettono un ordine; e sono ordinate perché in esse si realizzano leggi matematiche, che sono
insieme condizione di esistenza e di Bellezza”5. L’armonia delle belle proporzioni è dunque
scandita da precise leggi numeriche, nel disegno come nella musica, che è geometria traslata in
suoni: in entrambe le discipline, l’ordine matematico si descrive con misure e spazi. In
architettura, i rapporti proporzionali che dimensionano gli intervalli delle colonne corrispondo ai
3
rapporti di intervalli musicali. L’armonia delle parti deriva dalle proporzioni matematiche perfette;
la sezione aurea come principio del rettangolo armonico, ad esempio, è considerata tale, perfetta,
in quanto potenzialmente riproducibile all’infinito. Si tratta di un rapporto che trova una
corrispondenza in natura, nel principio di crescita di alcuni organismi. I pitagorici consideravano
l’armonia nell’opposizione di due contrari, quali i numeri pari, simbolo dell’infinito, e i numeri
dispari, finiti in quanto “la linea ha sempre un punto centrale che separa un numero eguale di
punti”6. Tuttavia, Eco sottolinea che se per Pitagora solamente uno degli opposti rappresenti la
perfezione, “l’impari la retta e il quadrato sono buoni e belli, le realtà opposte rappresentano
l’errore, il male e la disarmonia”7, secondo Eraclito “l’armonia non è assenza bensì equilibrio di
contrasti”8. Questo si traduce, nel piano visivo, come principio di simmetria, intesa come equilibrio
di tensioni opposte: la vita e la morte, la calma e il movimento. Sarà la simmetria a diventare il
canone di bellezza nell’arte e nell’architettura della Grecia classica. L’approfondita conoscenza
della natura, lo studio dal vivo del corpo e del proprio movimento, consentiranno di trovare, in un
meticoloso lavoro di sintesi, le “belle proporzioni”. Tutto questo è visibile nella scultura classica,
nella quale si dissolve ogni traccia di rigidezza presente nell’arte egizia. Il marmo prende vita e
sembra respirare: ci sembra di poter sentire i muscoli che si tendono sotto la morbidezza della
pelle, che evoca il candore della porcellana. I corpi ritratti nella scultura classica sono corpi
utopici, risuonano di una bellezza ideale, quasi ultraterrena. Sono più da considerare come una
sintesi di caratteristiche proporzionali perfette, che difficilmente trovano corrispondenza in un solo
individuo.
Eco scrive che, secondo la concezione pitagorica, una scultura rappresentante una fanciulla era
bella perché “le sue membra si ponevano in un rapporto giusto e armonico, dato che erano
regolate dalla stessa legge che reggeva le distanze dalle sfere planimetriche”. Le leggi che
misurano l’armonia del cosmo e il movimento dei pianeti, si ritrovano negli spazi tra una nota
musicale e l’altra, e sono le stesse che abitano il nostro corpo: “queste stesse proporzioni si
ritrovano nell’armonia del cosmo, così che micro e macrocosmo appaiono legati da un’unica
regola matematica ed estetica insieme”9. Questo significato di bellezza, tramandato ai posteri
tramite De Architettura di Vitruvio, troverà innumerevoli riscontri nel Rinascimento italiano.

Gli ordini architettonici e il decorum vitruviano

Vitruvio stabilisce delle precise analogie tra il corpo e gli ordini architettonici, riprese e
perfezionate dagli artisti e architetti rinascimentali attraverso il disegno, luogo della
sperimentazione empirica (si pensi all’Uomo Vitruviano di da Vinci). A proposito dell’ordine dorico,
Vitruvio scrive: “Dovendo erigere le colonne di quel tempio, non sapendo come proporzionarle e
domandandosi con quale criterio potessero fare ciò, perché da un lato fossero idonee a sostenere
i carichi e dall’altro fossero piacevoli a vedersi, presero come unità di misura la pianta del piede di
un uomo, che riportarono in altezza. E avendo riscontrato che il piede è la sesta parte dell’altezza
dell’uomo, trasportarono questa proporzione nella colonna. Cosi avvenne che la colonna dorica
rappresento negli edifici la proporzione, la forza e la bellezza del corpo virile”10. Si legge il tentativo
di trovare un’analogia antropomorfica nelle forme che compongono l’architettura. Sull’ordine
ionico, più femminile, gentile e aggraziato, l’autore scrive: “Volendo edificare un tempio dedicato a
Diana, ricercarono uno stile espressivo nuovo: continuarono a usare il sistema di
proporzionamento basato sulla pianta del piede, ma fecero riferimento alla forma più slanciata
della donna. Perciò stabilirono che il diametro della colonna corrisponde a un ottavo del piede,
perché sembrasse più alta. Sotto la base posero un elemento a profilo convesso, come se fosse
una calzatura, mentre a destra e a sinistra del capitello posero delle volute pendenti in avanti,
come quelle di una capigliatura ondulata. Posero anche i cuscini e dei festoni al posto dei capelli,

4
e così ornarono il volto, e tracciarono le scanalature lungo la lunghezza del corpo della colonna, a
somiglianza delle pieghe di una stola matrimoniale”11. È interessante notare come la bellezza sia,
secondo la concezione vitruviana, indissolubilmente legata ad un principio di adeguatezza e
corrispondenza. Se si desidera erigere un tempio per Diana, questo dovrà articolarsi attraverso
l’impiego dell’ordine ionico, per esprimere femminilità e delicatezza; un tempio in onore di Era,
dea della guerra, dovrà invece impiegare un ordine dorico, rappresentativo di forza e resistenza.
Esiste quindi una correlazione precisa tra forma e funzione, il decorum vitruviano dal quale
scaturisce armonia.

Firmitas, Utilitas, Venustas

La triade vitruviana, firmitas, utilitas, venustas, rappresenta i principi fondamentali della


composizione architettonica. La firmitas, la solidità e la permanenza; l’utilitas, la funzione intesa
come destinazione d’uso; la venustas, la perfezione di bellezza. Vitruvio scrive: “Tutte queste
costruzioni devono avere requisiti di solidità, utilità e bellezza. Avranno solidità quando le
fondamenta, costruite con materiali scelti con cura e senza avarizia, poggeranno profondamente e
saldamente sul terreno sottostante; utilità, quando la distribuzione dello spazio interno di ciascun
edificio di qualsiasi genere sarà corretta e pratica all’uso; bellezza, infine quando l’aspetto
dell’opera sarà piacevole per l’armoniosa proporzione delle parti che si ottiene con l’avveduto
calcolo delle simmetrie”12. Dagli scritti di Vitruvio, le tre componenti sono descritte come
intimamente connesse, al punto da perdere di senso se considerate senza le altre. Al tempo
stesso, l’autore sembra suggerire che, nelle parole di Renato De Fusco: “la componente della
bellezza presenti una doppia valenza: concorre ad annodare le tre parti e presenta una qualità
estetica in sé e per sé”13. La firmitas è, a tutti gli effetti, fondata su leggi di simmetria e
matematica, e l’utilitas sembra trovare una corrispondenza con il principio di decorum, inteso
come il rapporto armonico tra forma e funzione. La bellezza sembra quasi permeare nelle altre
componenti della triade. Secoli più tardi, Leon Battista Alberti ritornerà su questo medesimo
punto.

Venustas: symmetria ed eurithmia

La venustas vitruviana, termine che rimanda a Venus, la dea della bellezza, si ottiene progettando
attraverso symmetria: “ossia, stabilito un modulo, tutte le parti dell’edificio devono, secondo
precisi rapporti, essere multipli o sottomultipli di quel modulo”14. L’architettura acquisisce in tal
modo eurithmia, un giusto battito, un’accordata melodia. La concezione Vitruviana di eurithmia
deriva dal canone proporzionale di Policleto, secondo il quale la bellezza non risiede nei singoli
elementi, ma nell’armoniosa proporzione delle parti. Il criterio assume un connotato organico, in
cui i rapporti tra le parti dipendono, per la prima volta, anche dal mutare della prospettiva: nella
scultura, il punto di vista dello spettatore diviene centrale per stabilire il proporzionamento
armonico delle figure, che non è sempre di natura matematica. Secondo la concezione platonica, i
nostri occhi, come tutti i nostri sensi, sono imperfetti, in quanto incapaci di cogliere precisi
rapporti misurativi se non in maniera distorta: ciò che è più vicino ci apparirà più grande di ciò che
è lontano, anche se così non è. La proporzione che armonizza le figure scultoree o gli elementi
architettonici, terrà quindi conto della natura illusoria del nostro sguardo, “correggendone" la
prospettiva, in maniera tale che ai nostri occhi risulti più “bella”. Mentre la proporzione si riferisce
all’applicazione tecnica del principio di simmetria, l’eurithmia vitruviana è, come la definisce Eco,
“l’adattamento delle proporzioni alle necessità della visione”15.

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Il Partenone dell’Acropoli di Atene, ad esempio, non è perfettamente simmetrico: è stato
progettato per essere contemplato dal basso, calcolando ogni distorsione ottica affinché le
proporzioni apparissero perfette allo sguardo.

Leon Battista Alberti: il De Re Aedificatoria

Leon Battista Alberti, architetto e teorico dell’architettura del Rinascimento, redigerà quello che ad
oggi rimane il più importante trattato di architettura, il De Re Aedificatoria. Si tratta di una raccolta
di dieci libri, scritti in latino, nei quali non figurano immagini. È particolare come un umanista quale
Alberti diffidi del disegno come strumento attraverso il quale tramandare la conoscenza; questa
diffidenza è attribuibile al timore che l’autore sentiva nei confronti dei copisti, che sovente
nell’arco della storia avevano commesso delle imprecisioni. Le parole di Alberti risultano di una
precisione inequivocabile, il che suggerisce la volontà del trattatista di redigere un’opera duratura
nel tempo. Alberti è il primo a discostarsi dal De Architettura di Vitruvio, scrivendo un trattato
radicalmente diverso, suddiviso in capitoli differenti. Già nell’incipit del volume, Alberti attacca
duramente lo scritto di Vitruvio, ammettendo, tuttavia, di averlo studiato con attenzione:
“In mezzo a tante rovine, un’opera sola è scampata giungendo fino a noi, quella di Vitruvio:
scrittore assai competente, ma tanto guasto nei suoi scritti e malridotto dai secoli, che in molte
parti vi si notano lacune e imperfezioni. Non solo; il suo eloquio non è curato; sicchè i Latini
direbbero ch’è voluto apparir greco, i Greci latino. Il fatto, tuttavia, basta da sé a provare che il suo
linguaggio non è latino né greco; sicchè per noi è quasi come non avesse scritto nulla, dal
momento che egli scrisse in modo a noi non comprensibile”16. La diffidenza nei confronti del De
Architettura spingerà l’autore a recarsi direttamente alle rovine classiche per studiarle dal vivo,
sotto forma di schizzi e appunti. Con Alberti torna il tema della rinascenza, del recupero
dell’antico: “Tutti gli edifici dell’antichità che potessero avere importanza per qualche rispetto, io li
ho esaminati, per potere ricavare elementi utili. Incessantemente ho rovistato, scrutato, misurato,
rappresentato con schizzi tutto quello che ho potuto, per potermi impadronire e servire di tutti i
contributi possibili... Indubbiamente dare una veste unitaria ad argomenti tanto svariati…”17.

Concinnitas

Nel De Re Aedificatoria, Alberti tocca il tema della bellezza tracciando delle sottili demarcazioni
rispetto alla venustas vitruviana. Lo farà introducendo un termine differente: la concinnitas, la cui
traduzione letterale è “con il canto”. L’analogia con la musica si riallaccia inequivocabilmente alla
tradizione pitagorica, nonostante il termine sia probabilmente tratto da Cicerone, e si riferisce alla
musicalità delle espressioni poetiche. Alberti riconosce la bellezza come un “fattore della massima
importanza”, il più nobile della triade vitruviana “Dei tre criteri fondamentali che informano la
tecnica costruttiva in ogni campo – che gli edifici risultino adeguati alle loro funzioni, abbiano la
massima solidità e durata, e siano eleganti e piacevoli nella forma – abbiamo terminato di trattare i
primi due. Rimane dunque il terzo, che è di tutti il più nobile, oltreché indispensabile”18. Alberti
sostiene che, senza la bellezza, non possano esistere stabilità e utilità. La concinnitas diviene
quindi determinante per la perfezione dell’opera d’arte.
A proposito della concinnitas, Alberti scrive: “Definiremo la bellezza come l'armonia tra tutte le
membra, nell'unità di cui fan parte, fondata sopra una legge precisa, per modo che non si possa
aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio”19. Questa frase rivela la prima grande
differenza da Vitruvio: Alberti sembra intuire che la bellezza si riveli in un momento di equilibrio
preciso, in una composizione di contrasti che non ammette composizioni alternative. La
concinnitas è da intendere come una melodia delicata, tenuta in vita da un preciso equilibrio di
6
tensioni, che si rompe con una nota di troppo. Nelle parole di Elisabetta di Stefano: “La
concezione albertiana del bello va oltre la symmetria di Vitruvio. Infatti la concinnitas, pur avendo
un valore simile a quello della simmetria, si basa sul concetto di molteplicità nell’unità e si riferisce
ad un rapporto che è il frutto non solo di una somma di elementi, ma anche di una loro
riorganizzazione nell’intero, assumendo in questo caso un significato affine ad ‘organicità’”20.
Si capisce, dunque, come la concinnitas differisca dalla venustas in quanto non ammetta quella
che Vitruvio chiamava eurithmia. Mentre le simmetrie vitruviane potevano subire delle alterazioni
per porre rimedio alle illusioni prospettiche della visione, la concinnitas albertiana richiede
l’immutabilità dell’ordine, in quanto è “fondata sopra una legge precisa, per modo che non si
possa aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio”. La bellezza assume quindi un
connotato più naturalistico e matematico, slegandosi dalla concezione platonica di Buono e Vero,
per riallacciarsi invece ai principi pitagorici di numero, ordine e cosmo. Con Alberti si assiste,
quindi, ad una rivalutazione dei sensi: il mondo sensibile non è più una pallida imitazione del
mondo delle idee, come voleva la tradizione platonica, ma acquisisce una veridicità inedita. I
nostri occhi non sono più imperfetti, al contrario divengono autorità infallibili in quanto capaci di
cogliere la concinnitas; e la ragione, la ratio albertiana, ricomporrà i criteri matematici che la
sostengono. L’occhio e la prospettiva diventano, nel Rinascimento, strumenti di composizione
pittorica e progettazione architettonica; e la bellezza diventa un fenomeno visibile e percepibile
attraverso i sensi.

Numerus, finitio, collocatio

Secondo il pensiero di Alberti, la concinnitas in architettura si serve di tre criteri fondamentali: il


numerus, la finitio, la collocatio. La ricerca del numerus indica la scelta riguardante il numero
corretto delle differenti membrature (quali le colonne, o gli angoli) e aperture. Si nota come,
secondo l’autore, le membrature debbano sempre essere di numero pari, mentre le aperture
dispari. Questo principio deriva dall’osservazione della natura, in quanto “non esiste animale che
si regga o si muova su un numero di piedi dispari. Viceversa le aperture non erano mai fatte in
numero pari; e anche questo risponde alle norme della natura, come è verificabile dal fatto che
negli animali sono bensì in numero pari orecchie, occhi, e narici, posti ai lati, ma nel centro si trova
la bocca, una e ben ampia”21. La finitio, che si traduce con il termine “delimitazione”, si riferisce
allo studio della reciproca proporzione tra le linee -lunghezza, larghezza, altezza- che ne
determinano le dimensioni. La collocatio, o collocazione, indica la distribuzione spaziale degli
elementi in funzione della propria posizione. I rapporti armonici tra numerus, finitio e collocatio
sono determinati da precise proporzioni matematiche, le stesse che ritroviamo nella natura e nella
musica. Sono riportate nel disegno attraverso tracciati geometrici, e vengono “accordate”
attraverso il principio di varietas albertiana, intesa come la perfezione che può nascere solo
dall’armonia delle dissonanze. La varietas è, nelle parole dell’autore: “qualità la cui assenza
sarebbe motivo di grande biasimo e la cui presenza conferisce leggiadria e praticità all’edificio”22.
La musicalità delle proporzioni si rintraccia nella delicatezza dei rilievi nella facciata di Palazzo
Rucellai a Firenze, che si articola in un sottile gioco di linee d’ombra; si può cogliere nel
complesso gioco di geometrie nella facciata prospettica del Tempio Malatestiano a Rimini, che
rimandano a spazi immaginari.

7
Concluderei con una curiosa considerazione di Alberti a proposito del rapporto tra ratio e opinio,
un giudizio estetico che vede a confronto l’oggettività e la soggettività della bellezza. “Ciò
nonostante, il fatto di preferir l’una o l’altra delle bellezze precedenti non implica che si
classifichino tutte le rimanenti come scarse o sconvenienti; ciò indica invece che la preferenza è
stata originata dalla presenza di un qualcosa, sulle cui caratteristiche non indagheremo”23. È
interessante come in questo passaggio l’autore decida di fermarsi e non andare oltre; riconosce
che, introducendo un principio di soggettività nello studio della bellezza, compare un elemento
indefinito che gli sfugge.
Forse non si conoscerà mai il segreto della bellezza. Perché per quanto uno ci provi, non potrà
non riconoscere che c’è della bellezza anche nelle cose storte; c’è una bellezza sfuggente
nell’incrinatura di una voce, come nella ruga di un volto, in un tessuto stropicciato. C’è grazia
nella tensione che si crea tra due corpi asimmetrici, nelle cose non finite; c’è eleganza in una linea
che sembra dritta ma non lo è. Tuttavia, rimane sempre la parvenza che, sotto tutte queste
differenze, qualcosa che le unisce c’è; e non appena sembra di poterla intuire, questa si dissolve.

1U. Eco, Storia della Bellezza, Introduzione p.8


2U. Eco, Storia della Bellezza, Introduzione p.8
3U. Eco, Storia della Bellezza, Introduzione p.14
4M. Vitruvio, De Architectura, III, 1, 3
5U. Eco, Storia della Bellezza, cap. 3.1, p.61
6U. Eco, Storia della Bellezza, cap. 3.2, p.64
7U. Eco, Storia della Bellezza, cap. 3.3, p.72
8U. Eco, Storia della Bellezza, cap. 3.3, p.72
9U. Eco, Storia della Bellezza, cap. 3.3, p.73
10M. Vitruvio, De Architectura, IV, 1, 4-6
11M. Vitruvio, De Architectura, IV, 1, 7
12M. Vitruvio, De Architectura, IV, 1, 7
12R. De Fusco, Della Bellezza in Architettura, p.5
14A. Rossetti, Prima dell’Architettura, p.57
15U. Eco, Storia della Bellezza, cap. 3.3, p.75
16L.B. Alberti, De Re Aedificatoria, II, 6, 1
17L.B. Alberti, De Re Aedificatoria, II, 6, 1
18L.B Alberti, De Re Aedificatoria, VI, 1
19L.B Alberti, De Re Aedificatoria, VI, 2
20E. Di Stefano, L’Altro Sapere: Bello, Arte e Immagine in Leon Battista Alberti, p.26
21L.B Alberti, De Re Aedificatoria, IX, 5
22L.B Alberti, De Re Aedificatoria, I, 8
23L.B Alberti, De Re Aedificatoria, IX, 5

8
Bibliografia
Eco U., Storia della Bellezza, Bompiani, 2004

Di Stefano E., L’Altro Sapere: Bello, Arte e Immagine in Leon Battista Alberti, 2000 reperibile su
https://www.academia.edu

De Fusco R., Della Bellezza in Architettura, reperibile su https://www.academia.edu

Vitruvio M., De Architectura, translato commentato et affigurato da Cesare Cesariano 1521; a cura
di Arnaldo Bruschi, Adriano Carugo e Francesco Paolo Fiore, Il Polifilo 1981

Alberti L.B., L'architettura (De Re Aedificatoria), testo latino e traduzione a cura di G. Oriundi,
introduzione e note di P. Portoghesi, Milano, Il Polifilo, 1966

Hersey G., Il significato nascosto dell’architettura classica, introduzione di M. Biraghi, Mondadori,


2001

Rossetti A., Prima dell’architettura, Graffiti, Napoli, 1994

9
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Riflessioni Sulla Bellezza

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Ioannis Barbas

Mendrisio, 26.06.2022

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