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NOTIZIE DOC

Un salvagente in un mare di informazioni

Innovazione e analisi dei modelli di giornalismo


Laboratorio di tecniche e linguaggi
2023-2024

Corso di Laurea Triennale in Comunicazione,


tecnologie e culture digitali
Sapienza Università di Roma

dispense di Dario Laruffa

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Queste dispense sintetizzano (in alcuni casi ampliano) i
contenuti delle mie lezioni nell’ambito dell’Insegnamento
“Innovazione e analisi dei modelli di giornalismo -
Laboratorio di tecniche e linguaggi del giornalismo”, tenute
fra Settembre e Dicembre del 2023.
Il loro obiettivo è sostenere gli studenti (anche chi non
abbia frequentato) nella preparazione degli esami.
La loro diffusione è strettamente connessa a questo
obiettivo.

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INDICE

I. CHI LEGGE, CHI GUARDA, CHI ASCOLTA.............................................. 4


II. FATTI E NOTIZIE................................................................................. 10
III. COSTRUIAMO UN ARTICOLO........................................................... 12
IV. VITA DA GIORNALE…….....................................................................15
V. LE AGENZIE DI STAMPA.....................................................................18
VI. I SITI WEB ……………...........................................................................20
VII. LA CASA GIORNALE RADIO..............................................................22
VIII. LA CASA TELEGIORNALE ................................................................27
IX. PAROLE IN ECONOMIA.....................................................................30
X. PERSONAGGI
11.1 LUIGI CONTU…………………………………………………………………………….42
11.2 ANDREA CANGINI………………………………………………………………………52
11.3 ALESSANDRA SARDONI……………………………………………………………..65
11.4 LAZZARO PAPPAGALLO…………………………………………………………....73
XI. LA NOTIZIE QUELLA GRANDE AVVENTURA.............................. ....81
XII. QUALCHE LETTURA FORSE UTILE..…………………………………………..84

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Chi legge, chi guarda, chi ascolta

Chi legge cosa


L’Italia non è mai stata un Paese nel quale la lettura del quotidiano su
carta stampata sia stata diffusa e ampia come altrove, in Europa e nel
mondo.
Vittorio Capecchi e Marino Livolsi (La stampa quotidiana in Italia, volume
datato ma ancora validissimo) ricordano che la stampa italiana fu da
subito rivolta a ristretti gruppi sociali, strettamente legata al potere, con
diffusione limitata perché concepita a fini politici e non commerciali,
senza bisogno quindi di rispettare gusti e interessi di un pubblico
potenziale.
In quei giornali la politica era bandita quando l’Italia era nelle mani di
monarchi nostrani o potenze straniere; divenne centrale ai tempi del
Risorgimento, ma a scapito di altri generi che altrove invece favorivano la
crescita del numero dei lettori; nel ventennio della dittatura fascista la
politica divenne argomento forzoso, in un contesto di isolamento che
tagliò fuori la stampa quotidiana da quel progresso tecnico, da quei
mutamenti di impostazione, da quella struttura economica e aziendale
che ne segnavano invece lo sviluppo in altri Paesi.
Il dopoguerra e la democrazia cambiano ovviamente lo scenario. I
quotidiani italiani crescono in numero, diffusione, qualità del prodotto.
Continuano a risentire però di limiti strutturali: mancano editori “puri”, i
proprietari sono gruppi di imprenditori che fanno altro e investono nei
giornali per poter esercitare influenza politica culturale. Ha peso anche la
stampa direttamente di partito, soprattutto l’Unità del Partito comunista.
Sono quotidiani dalla fisionomia ibrida, nobile, ma pur sempre ibrida, che
mescola attenzione a temi “alti” come politica, cultura, esteri (meno) e
temi “popolari” come cronaca nera, costume, sport.

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Risultato: sino agli anni Novanta le vendite crescono, pur se senza mai
raggiungere le vette toccate all’estero. Lo storico milanese Corriere della
Sera (nato nel 1876) contende il primato alla rampante romana la
Repubblica (nata nel 1976). Nel 1986 la seconda sorpassa il primo,
raggiunge 730mila copie vendute al giorno, tre anni dopo il Corsera
riconquista il primato e tocca le 880mila copie.
Si viaggia invece a milioni di copie negli Stati Uniti, patria del giornalismo
libero e di inchiesta, ripartite tra la stampa di qualità e i popolari tabloid
dal formato ridotto, pieni di illustrazioni e rubriche. Scenario analogo in
Gran Bretagna con il popolare Sun. In Germania i tabloid, spesso
scandalistici, arrivano a cinque milioni di copie al giorno (Bild).
I giapponesi Yomiuri Shimbun e Asahi Shimbun rimangono ancora oggi i
due quotidiani con maggiore diffusione al mondo. Anche attualmente
superano di molto i dieci milioni (a testa) di copie vendute al giorno. Un
grande successo che ha radici storiche (un antico alto tasso di
alfabetizzazione della popolazione) e motivi industriali (vendite e
distribuzione basate nel 95 per cento dei casi sugli abbonamenti, con le
copie consegnate a casa, usualmente da studenti con lavori part-time).
Quando arriva Internet, commercializzato in Italia dal 1994, il mondo
cambia. Quando Internet non esisteva (e quando non c’erano i social) i
giornali vivevano in virtù degli introiti da copie vendute e pubblicità; in
Italia anche grazie a forme diverse di sovvenzioni pubbliche.
Il web scardina questo meccanismo, offre all’inizio un oceano di
informazione gratuita, ma il mercato della pubblicità viene via via
prosciugato soprattutto dai social come Facebook, Instagram o Twitter
(ora X) e dal monopolio di fatto di Google fra i motori di ricerca.
I numeri delle vendite crollano. Nel 2023, dati dell’Agenzia di controllo
sulle comunicazioni, si vendono in Italia un milione e mezzo di copie di
quotidiani, incluse quelle digitali.
Nel 2003 le prime otto testate nazionali (dati Fieg, la federazione degli
editori) vendevano in totale quasi tre milioni e 300mila copie al giorno, in
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pratica tutte cartacee. Dieci anni dopo (2013) le copie cartacee sono
scese a poco più di due milioni, quasi due milioni e 200mila considerando
le vendite in digitale (la perdita è del 33 per cento). Venti anni dopo
(2023) le stesse testate hanno venduto in totale poco più di mezzo
milione di copie cartacee e poco meno di un milione di copie
considerando l’offerta on line: in soli dieci anni, dimezzate le copie totali,
ridotte a un quarto quelle cartacee.
2003 (copie in migliaia) 2013
Cartacee Incluso digitale
Corriere della Sera 655 422 464
la Repubblica 602 355 382
Gazzetta dello Sport 411 234 257
Quotidiano Nazionale
(Carlino-Nazione-Giorno) 391 268 274
La Stampa 351 216 221
Il Sole 24 Ore 350 261 315
Il Corriere dello Sport 269 138 140
Il Messaggero 238 139 142

2023 (copie in migliaia)


Cartacee Incluso digitale
Corriere della Sera 128 245
la Repubblica 71 123
La Gazzetta dello Sport 79 179
Quotidiano Nazionale
(Carlino-Nazione-Giorno) 103 117
6
La Stampa 56 82
Il Sole 24 Ore 22 125
Il Corriere dello Sport 36 43
Il Messaggero 41 65
Alcune note aggiuntive: nel 2023 si inserisce nella parte alta della
classifica, con 102mila copie complessive al giorno, il quotidiano Avvenire
(edito dalla Cei, i vescovi italiani). Interessante, inoltre, la differenza per Il
Sole 24 Ore fra copie in edicola, pochissime (22mila) e quelle incluse le
vendite on line (125mila), nessuna altra testata fa rilevare uno scarto così
enorme.
Nel 2023 il New York Times (forse il giornale più autorevole al mondo)
vende circa 700mila copie cartacee e ha oltre 9 milioni di abbonati on
line.
Dati i numeri, quasi inevitabile prevedere a questo punto un futuro di
grandi complicazioni Italia per i quotidiani a pagamento esplicito (nulla è
in realtà gratis sul web) e di ultra-nicchia per le loro copie stampate.
Chi guarda cosa
Gli italiani guardano la televisione, meno di prima, (la discesa è storica e
accelerata negli ultimi anni) ma sempre in misura massiccia.
La visione tradizionale della tv in diretta, quella degli appuntamenti
rituali, (broadcasting) è insidiata dalla diffusione di programmi via
internet (streaming); ma non soccombe, anche grazie al fatto di caricare
in streaming i propri contenuti di qualità che diventano così
concorrenziali a quelli delle grandi piattaforme (Netflix, Disney,
Paramount, Prime Video). Il tutto nel 2023, anno in cui gli apparecchi
connessi alla rete (smart tv) hanno superato quelli tradizionali: 21 milioni
contro 20 milioni e mezzo.
Nella fascia di maggior ascolto (prime time) ovvero dalle 20.30 alle 22.30
si viaggia attorno ai 19 milioni di telespettatori di età dai 4 anni in su.
Erano 24 milioni e 700 nel 2003, 26 milioni nel 2103.
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In questa fascia oraria la Rete più seguita è Rai1; l’insieme dei canali Rai è
in pratica allo stesso livello di quelli Mediaset.
La fruizione dei canali televisivi è molto concentrata nel nostro Paese. Nei
mesi inclusi fra il Gennaio e il Novembre 2023, considerando sempre la
prima serata, i primi 4 gruppi (Rai, Mediaset, Warner Bros Discovery che
comprende il canale 9 del digitale terrestre, incluso il canale 8) coprivano
il 90,5 per cento dell’audience. E un altro 5 per cento era appannaggio
della 7, del gruppo Cairo che edita i quotidiani Corriere della Sera e
Gazzetta dello Sport.
Chi ascolta cosa
In un giorno medio oltre 36 milioni e 600mila italiani ascoltano la radio
anche solo per un periodo brevissimo di tempo (26 milioni lo fanno in
automobile), rappresentano il 69 per cento della popolazione con più di
14 anni.
Il dato è riferito al primo semestre del 2023 e viene dalle rilevazioni
campionarie via telefono gestite dal Ter, il Tavolo Editori Radio. La
rilevazione è in via di cambiamento ed è contestata dalla Rai, per metodo
e per risultati.
In Italia trasmettono circa 1200 stazioni radio, delle quali una ventina a
diffusione nazionale.
Il pubblico è da tempo in leggero aumento, così come la raccolta
pubblicitaria, che ha superato fasi economiche non sempre facili
attraversate dal nostro Paese.
L’ascolto della radio è prevalentemente maschile, 58 per cento uomini, 42
per cento donne.
Le fasce orario con maggior ascolto sono quelle del mattino: dalle 6 alle 9
e dalle 9 alle 12. La radio ha prevalentemente un pubblico maturo,
(superando la composizione della nostra popolazione) che cresce al di
sopra dei 55 anni d’età; ma anche giovani e giovanissimi non disprezzano,

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chi è fra i 14 e i 24 anni copre il 9 per cento del campione, ma sale al 12
fra gli ascoltatori.
Raccoglie consensi assai diversificati se si considera il livello di istruzione:
è molto ascoltata fra i laureati e, all’opposto, fra chi ha solo la licenza
elementare.
Le emittenti più ascoltate in Italia sono private, ormai da anni e anni. Nel
primo semestre del 2023 prima in classifica nel giorno medio era Rtl
102.5.
I pubblicitari considerano più significativo il dato relativo al quarto d’ora
medio; in questa classifica primeggia Radio Deejay. Rai Radio1 è solo
ottava in classifica.
Rispetto al mercato televisivo la concentrazione degli editori in quello
radiofonico è diversa e molto inferiore.
I primi 4 gruppi editoriali sfiorano il 50 per cento degli ascolti.
Radiomediaset (105, Virgin, R101, Monte Carlo, Subasio) è in testa;
seguono il gruppo Gedi (Dee Jay, Capital, M2O), che edita Repubblica e
Stampa fra i quotidiani stampati, e la Rai (Radio 1, 2, 3 e Isoradio); chiude
il gruppo Hit radio con Rtl 102.5, Radio Freccia e Radio Zeta.

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Fatti e notizie

Mettiamo da parte il punto di vista dei filosofi e assumiamo quello dei


giornalisti per tentare di capire cosa considerino una notizia.
Un evento non è in sé una notizia: la notizia è il racconto di un evento.
Un fatto può essere molto importante, persino eclatante, ma se non è
stato riportato non è diventato notizia, anche se avrebbe potuto o dovuto
esserlo.
Un evento diventa una notizia per ragioni diverse, se ha i requisiti per
destare attenzione.
Li ha quando (per motivi oggettivi) provoca interesse generale: scoppia
una guerra, cade il governo, si vota. La “notiziabilità” deriva anche dalla
notorietà di chi è coinvolto: un rapporto di coppia che finisce interessa la
cerchia degli amici e dei parenti dei due, ma il discorso cambia se uno fra i
due è una star dello spettacolo o un capo di Stato.
Decisivo è quanto l’evento sia attuale, ossia il tempo che è trascorso, o
che trascorrerà, sino al momento della pubblicazione della notizia.
Un fatto diventa notizia perché presenta caratteristiche di novità e
singolarità. Senza arrivare all’abusato uomo che morde il cane, la prima
volta di una donna presidente del Consiglio in Italia è un possibile
esempio calzante.
È notizia perché può avere conseguenze sulla vita delle persone, o
potrebbe averne se si ripetesse: un decreto del governo che aumenta (o
riduce) le imposte sui carburanti.
Aumenta il costo del denaro per via di un aumento del tasso di
Riferimento principale deciso dalla Banca Centrale Europea: è notizia
perché cresce (per esempio) il costo del mutuo a tasso variabile per chi ha
comprato una casa. E potranno avere conseguenze anche le prossime
riunioni del vertice della Bce se dovesse decidere di alzare ancora, o di
abbassare, il costo del denaro.
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Un evento fa notizia perché avviene in una zona vicina a quella nella
quale viene diffuso il mezzo di comunicazione della notizia: un aereo che
cade fa sempre notizia, ma trova sicuramente più spazio se cade (anche
senza vittime) vicino a “casa tua”.
Un disastro naturale causa 13 morti in Italia, un altro 1300 in Bangladesh.
Al disastro italiano vengono dedicate pagine e pagine, ore di dirette radio
e tv. Il disastro in Bangladesh conquista solo una breve notizia.
Strabismo? Provincialismo? Egoismo? Forse si tratta solo di una
valutazione non cinica, ma realistica, delle due notizie. Quelle morti
italiane ci toccano: vogliamo verificare che non ci sia stato errore umano
ad aggravare il disastro, vogliamo capire se in futuro si possa fare
qualcosa per evitare o limitare i danni.
Si comprende così come un fatto diventi notizia anche in base al
coinvolgimento psicologico o alla reazione emotiva che può causare.
E non dimentichiamo il criterio di utilità collettiva: è notizia uno sciopero
nei trasporti; ma occhio alle revoche dello sciopero all’ultimo minuto, un
annuncio non aggiornato può recar danno, anche se era in origine
concepito per semplificare la tua giornata.

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Costruiamo un articolo
Un articolo giornalistico è un resoconto; preciso, conseguenziale,
completo (nei limiti del possibile) ragionato, brioso (quando possibile).
Un buon articolo (un buon “pezzo” in gergo giornalistico) è, prima di
tutto, un testo che da notizie.
Un articolo non è un tema scolastico o un saggio breve. È concepito per
conquistare un lettore che probabilmente conosce l’argomento meno del
giornalista, e non per compiacere un professore che forse lo conosce
meglio.
Un articolo fa ricorso a un linguaggio il più possibile includente e non
burocratico o astruso, il che non equivale a dire che debba essere un
linguaggio povero o banale.
Prima della scrittura
Partire con il piede giusto è fondamentale. Devi seguire una conferenza
stampa, una manifestazione legata a uno sciopero, o una prima teatrale
con annessi pre e post spettacolo. Ti informi su quel che sta per accadere,
prima di andare sul posto.
Mentre guardi, ascolti e tenti di capire, segui il principio di non fidarsi
della memoria (inganna); necessario il blocchetto per gli appunti e magari
un piccolo registratore audio, serve a sorreggere il ricordo, a essere
impeccabili nelle citazioni testuali, a proteggerti da eventuali
contestazioni in merito al modo nel quale hai riportato una affermazione.
Quando torni in redazione, metti assieme il materiale e inizi a scrivere.
Il percorso che stiamo per tracciare è riferito a un articolo (servizio) per
un quotidiano della carta stampata, ma è utilizzabile anche per un articolo
da giornale radio o telegiornale, con gli ovvi e dovuti adattamenti; vale
meno nel caso di un testo per un’agenzia di stampa o per il web.

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L’attacco
L’attacco del servizio: la notizia in testa? Dipende. Non si deve
dimenticare che un articolo è preceduto da un titolo e un sommario, o da
un lancio, se si tratta di un servizio radio-televisivo, teniamone conto.
Difficile rinunciare allo schema classico (Chi, cosa, quando, dove, perché)
nel caso di un articolo di cronaca o del lancio di una agenzia di stampa.
Detto ciò, ricordiamo che nelle prime righe il giornalista si gioca la
possibilità di non essere abbandonato dal lettore, quindi: cerchiamo un
particolare suggestivo e inseriamo a seguire i punti sostanziali diluiti in
tre-quattro righe.
Nel corpo dell’articolo si aggiungono particolari, si suggeriscono
interpretazioni, si propongono precedenti e testimonianze, insomma, si
sviluppa il resoconto e lo si affianca a un ragionamento.
La chiusura
È importante quasi quanto l’attacco. Un articolo è un processo circolare, il
lettore così faticosamente conquistato non può essere abbandonato nel
dubbio o su due piedi, scoviamo un qualcosa che possa rimanere nella
sua mente.
Uno sperimentato giornalista, Giuseppe Tabasso, ha scritto un manuale
per studenti, insegnanti e apprendisti comunicatori: Fare un giornale
Diventare giornalisti, nel testo propone un
Decalogo per la redazione di un articolo.
1 trovare l’argomento e documentarsi
2 fare una scaletta con tutte le notizie
3 darle una gerarchia e buttar via il superfluo
4 mettersi sempre dalla parte del lettore
5 trovare un attacco efficace
6 evitare ripetizioni e conformismi linguistici
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7 fare paragoni e citazioni
8 dare cifre e curiosità
9 trovare una conclusione che rimanga impressa
10 rileggere e correggere
Il titolo
I classici elementi della titolazione sono tre: titolo, occhiello e sommario.
Il titolo è la presentazione di un articolo, ne indica il contenuto e a volte
ne evidenzia gli aspetti emotivi. Può essere notarile o coinvolgente,
pacato o provocatorio, sempre, deve essere chiaro e conciso.
Lavora in squadra con occhiello e sommario, sono parti di un tutto senza
mai proporre parole eguali fra loro.
L’occhiello è meno usato che in passato nella carta stampata ed è ridotto
spesso a una sola parola nelle edizioni on line. Chiarisce il titolo dandogli
così licenza di essere immaginifico: Il sodalizio fra sorelle (occhiello)
Giorgia e Arianna Dynasty di destra (titolo) (Corsera, 18 dicembre 2023).
Il sommario è la parte della titolazione che ha la più evidente funzione
descrittiva, spiega, dice molto, ma non troppo, altrimenti il lettore sarà
tentato di saltare l’articolo. Un esempio dalla medesima copia del
Corsera: La disabilità spiegata a tutti con la dura vita di un ciclope (titolo)
Un illustratore ucraino ribalta gli stereotipi in un libro per bimbi (e adulti)
(sommario). È un titolo semplice, esplicativo, nulla di eccezionale, eppure,
è buona dimostrazione di artigianale capacità.
Giuseppe Tabasso ricorda uno fra i tanti titoli che sono passati alla storia.
Quello della Stampa di Torino dopo il delitto Matteotti del 1924: Il voto
del Parlamento a Mussolini, il cuore degli italiani a Matteotti. Per questo
titolo Mussolini decretò l’ostracismo per Gino Pestelli, il redattore capo
che ne fu l’autore.

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Vita da giornale

Le testate giornalistiche di ogni genere sono di proprietà di un editore.


Gli editori scelgono i direttori delle loro testate.
I direttori sono Giano Bifronte: anello di congiunzione fra il management
aziendale e la redazione; un dirigente aziendale che si fa carico delle
esigenze della proprietà, e assieme il primo giornalista della testata che
ne deve difendere storia e aspirazioni.
Un monarca in redazione
Detto ciò, una volta nominato, il direttore, in redazione, è un re.
Può essere sfiduciato in assemblea, può dover soffrire guerre interne
manifeste o clandestine, ma, se ha nervi saldi e il gradimento dell’editore,
la sua poltrona può resistere a mille terremoti.
Il direttore è un "monarca da contratto" perché può fare in pratica quello
che vuole e lo fa in base all'articolo 6 del Contratto nazionale di lavoro
giornalistico, quello che regola i suoi poteri.
Questo articolo recita: “E’ il direttore che propone le assunzioni e, per
motivi tecnico-professionali, i licenziamenti dei giornalisti. Tenute
presenti le norme dell'articolo 34, (quello che definisce i poteri del Cdr, il
comitato di redazione, che è la rappresentanza sindacale di base dei
giornalisti, poteri che sono essenzialmente di informazione preventiva e
di consultazione, sulla base delle quali il cdr esprime dei pareri non
vincolanti per il direttore ndr) è competenza specifica ed esclusiva del
direttore fissare e impartire le direttive politiche e tecnico-professionali
del lavoro redazionale, stabilire le mansioni di ogni giornalista (decide lui
quello che faccio o non faccio ndr), adottare le decisioni necessarie per
garantire l'autonomia della testata, nei contenuti del giornale e di quanto
può essere diffuso il medesimo, dare le disposizioni necessarie al regolare
andamento del servizio (ovvero decidere come si sviluppa
quotidianamente la vita del giornale ndr) e stabilire gli orari..”.
Questo direttore che fa sostanzialmente ciò che vuole nomina a volte un
condirettore e nomina sempre uno o più vicedirettori.

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Le redazioni
Nodo decisivo in ogni giornale è l'ufficio centrale; è retto da un capo
redattore centrale che viene gerarchicamente immediatamente sotto i
vicedirettori.
I giornali sono delle macchine, il capo redattore centrale è il macchinista
capo. Il suo ufficio centrale disegna le pagine; in un tg e in un gr stabilisce
l’impaginazione di una edizione che solo successivamente andrà verificata
da un vicedirettore e dal direttore.
È la persona che in un tg o gr fornisce al conduttore l’agenzia con la
notizia dell’ultimo istante; nella carta stampata propone di cambiare la
prima pagina quasi fuori tempo massimo, anche a rischio di ritardare la
stampa del giornale e di perdere così, causa ritardi nella spedizione,
qualche copia in edicola.
Un ruolo oscuro ma di grande impegno e peso giornalistico.
Altrettanto oscura, ma molto importante, è la funzione della Segreteria di
redazione, che gestisce gli aspetti organizzativi decisivi per la realizzazione
dei prodotti, e le relazioni con l’esterno, altrettanto decisive. Chi, se non il
segretario di redazione dice al direttore: “guarda che siamo messi male (o
bene) con il budget”.
Se bisogna mandare un inviato all’estero per una breaking news, e sono
rimasti in aereo solo posti in business è il segretario di redazione che dice
al direttore “bisogna spendere per un volo in business, per arrivare prima
degli altri, il gioco vale la candela”. Per capire l’importanza di una spesa
straordinaria serve un giornalista, non un burocrate dei conti.
I rami dell’albero
Le redazioni tematiche sono i rami dell’albero giornale, in ogni diverso
medium.
La redazione politica, che si occupa della politica interna; la redazione
esteri, che si occupa di politica e cronaca estera; la redazione economica
che una volta era divisa fra economia e finanza da una parte e sindacato
da un’altra; ormai da tempo sono redazioni unificate.
C’è la redazione della cronaca, una volta si dividevano in bianca e nera,
ora non più così; la cronaca copre tutto quel che accade nel Paese, dai
processi ai terremoti.
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Negli anni sono diventate sempre più presenti le redazioni di costume e
società, che a volte si accavallano con la cronaca e la sostituiscono.
I problemi della scuola, ad esempio, in alcuni giornali vengono assegnati
alla cronaca, in altri all’economia, in altri ancora alla società.
Si sono sviluppate le redazioni di salute e ambiente, temi affidati spesso a
un’unica redazione.
Ambita ed elitaria la redazione cultura e spettacoli; un tempo erano
separate, oggi non più. Spesso in un Tg o Gr è si è soddisfatti se trova
spazio anche un solo servizio di cultura e spettacolo.
Infine, orgogliosa della sua autonomia (e del consenso di tanti, nel
pubblico) la redazione sportiva.

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Le Agenzie di Stampa

Quel raffinato materiale grezzo


Le agenzie di stampa forniscono via internet (una volta via telescrivente)
la “materia prima” dell’informazione. Il loro pubblico sono i loro abbonati,
ovvero: radio, tv, carta stampata, ma anche ministeri, ambasciate,
governi locali, e infine imprese e professionisti.
In Italia ve ne sono molte, le principali sono cinque. La più importante si
chiama Ansa, erede della storica agenzia Stefani che nacque nel 1853.
L’Ansa è di proprietà dei giornali, sono i loro editori che ne detengono le
quote. Segue l’Agenzia Italia (Agi), di proprietà dell’Eni. Adnkronos e
Askanews fanno capo a editori privati. Infine, Radiocor, l’agenzia del
Sole24ore, gruppo editoriale della Confindustria, concentrata su politica,
economia e finanza.
In agenzia la notizia va data in poche righe. Con linguaggio conciso, stile
uniforme, tono non personalizzato (ma la fantasia non è bandita).
Nel caso di urgenze si mandano in rete dei Flash, possono essere di poche
parole e sino a due righe. Di norma, le informazioni sono condensate in
un lancio (take) lungo al massimo 30 righe. Se serve più spazio, a un take
iniziale di 15 righe ne fanno seguito non più di altri due di 30 righe
ognuno.
Le risposte alle canoniche domande racchiuse nelle 5W inglesi (Chi, Cosa,
Dove, Quando, Perché) vanno nel primo lancio, così come la notizia
principale e la risposta alla sesta domanda: come?
Le citazioni da testi, documenti, comunicati, dichiarazioni, conferenze
stampa, devono essere rigorose, se testuali vanno fra virgolette.
Il discorso delle citazioni non vale solo per i giornalisti d’agenzia o i
giornalisti in genere; riguarda tutti coloro i quali si occupano di

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comunicazione, se si scrive un paper ad esempio (o anche una tesi di
laurea).
Ai giornalisti di agenzia tocca il compito più ingrato: selezionare ciò che è
“notiziabile” fra il mare magnum di quello che accade. Loro, più degli altri,
soffrono del giornalistico “terrore da pagina bianca”, quella che devi
riempire comunque con qualcosa che abbia senso e sia appetibile.
All'agenzia di stampa si chiede un “raffinato materiale grezzo”. Non è un
ossimoro. Si chiede del materiale di base, ma al tempo stesso già
completamente confezionato. In molti casi alcuni giornali minori che
hanno delle redazioni meno strutturate e numerose, prendono i servizi
dell'Ansa o di altre agenzie e li mettono in pagina così come sono scritti,
anche per questo devono essere ben scritti.

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I siti Web

Fra milioni di blog


Ci concentreremo qui sui siti che fanno dell’informazione il compito
primario, siano essi la versione on line di quotidiani cartacei, o siano
testate nate o diventate reperibili esclusivamente sul web.
Notizie sotto forma di articoli si possono leggere anche sui siti che ti
introducono alla tua casella di posta elettronica o su siti di importanti
organizzazioni o imprese.
Chi fa informazione deve confrontarsi anche con milioni di blog, termine
nato dalla fusione fra l’ultima lettera di web e log, diario di bordo.
E come diario personale nasce infatti il blog, che viene proposto a tutti via
Internet. Il blogger è auto-editore e pubblica contenuti scavalcando i filtri
professionali e deontologici propri invece dei siti di informazione.
L’articolo on line
La disponibilità alla lettura di un articolo on line è diversa rispetto a quella
di un quotidiano cartaceo, in genere si punta a sbrigarsi prima.
Il popolo della rete è in perenne movimento, si stanca in fretta, così come
in fretta si appassiona e vuole partecipare, dire la sua.
In una situazione nella quale nulla si impone e tutto si conquista, le regole
di base per la redazione di un articolo per il web rafforzano quelle che
valgono per il testo per una agenzia, per la radio, per la televisione, in
parte (fatte le debite eccezioni) anche per un quotidiano di carta
stampata: le notizie fondamentali vanno sempre date in apertura
dell’articolo.
Sul web lo stile non può essere impersonale. Come in radio e tv, il testo
deve essere sintetico e semplice, ma, sul modello della carta stampata,
deve anche fornire elementi per una prima analisi di quanto accaduto e
riportato.
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Un articolo per un sito è in genere ordinato in paragrafi di una decina di
righe ciascuno.
Pubblicare on line fa crescere anche nuove competenze. Per consolidare i
contenuti e arricchire la lettura il “pezzo” va congegnato in maniera
specifica: frequenti a capo, link con altri articoli o altre fonti, proposta di
forum di confronto. Il tutto in uno spazio grafico che preveda molti titoli,
sommari, foto, annunci e tenga conto degli spazi pubblicitari.
Il testo va aggiornato, un articolo sul web invecchia rapidamente.
L’operazione però richiede giudizio: non si possono inserire in apertura
del servizio elementi solo perché nuovi, a prescindere dalla loro
importanza.
Può fare eccezione l’aggiornamento di un evento in corso che viene
contrassegnato dall’orario nel quale viene data l’ultima notizia. In questo
caso, sotto un titolo di un paio di righe, seguiremo nell’ordine, lo scorrere
degli eventi.

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La casa Giornale radio
Il Giornale radio è l’apoteosi della notizia in radio, la sua casa naturale.
La sigla
Il Gr è aperto da una sigla. La sigla è il marchio di riconoscimento di un
giornale radio; musicale, in genere creata ad hoc, in alcuni casi (rari)
riprende temi di brani musicali editi e riadattati all'esigenza.
I titoli
Subito dopo la sigla vengono i titoli; in genere sono 8-10 in un giornale
radio di una mezz'ora, possono essere 4-5 in un giornale radio più breve
di una decina di minuti, sono praticamente assenti nelle edizioni flash.
Sostanzialmente mai più lungo di una riga e mezzo di testo, il titolo è
assertivo e non contempla (salvo rarissimi casi) elementi dubitativi: i se, i
forse, i probabilmente. Si legge con tono robusto e un minimo di enfasi.
Il titolo ha una doppia funzione. Quella principale è sintetizzare quel che il
Gr proporrà, indicare qual è la selezione compiuta per quell'edizione dalla
redazione rispetto all'universo dell’accaduto. Ma ha anche un compito di
fascinazione: facile a dirsi, non sempre a farsi. Ma titoli “mosci”
minacciano un Gr “moscio” con relativo cambio di canale da parte
dell’ascoltatore.
L’impaginazione
Dopo i titoli parte il giornale, condotto spesso da uno o due giornaliste o
giornalisti, a voci alternate.
Le notizie da inserire in un Gr vengono scelte sulla base di due criteri
fondamentali: la loro importanza e la loro datazione, ossia quando il fatto
è avvenuto.
Conquista la precedenza una notizia che arriva a pochi istanti dalla messa
in onda del Gr, a patto che rientri comunque nelle notizie di rilievo e di
interesse generale.

22
Il lancio
Dopo i titoli, il conduttore apre il Gr con il primo “lancio”, un testo che
introduce il servizio che seguirà. Nel gergo antico della radio il lancio è
chiamato il “cappello”, perché sta in testa alla notizia.
Il lancio ha caratteristiche in parte analoghe al titolo: è breve, introduce
l’argomento che verrà (ma deve farlo senza “bruciarne” del tutto il
contenuto) va letto con tono disteso e discorsivo. Non è male se suscita
elementi di curiosità. Un buon lancio ha queste caratteristiche; un cattivo
lancio riprende esattamente l’attacco del servizio che introduce; un
terribile lancio contraddice il servizio che segue (sembra incredibile, ma
può accadere).
Il servizio chiuso e il collegamento in diretta
Perché “chiuso”? Perché nella gran parte dei casi i servizi vengono
registrati, anche sino a pochi istanti prima della messa in onda (a volta
anche col Gr in corso). Si è partecipi di un momento di vera tensione
creativa se si può essere testimoni di come si prepara un Tg o un Gr, nei
momenti in cui si affollano le salette di montaggio, quando è il momento
della scadenza che non può essere superata.
Nel caso si racconti un evento in corso e si abbia necessità di riportare le
ultimissime notizie, si ricorre alla diretta, con un collegamento
dall’esterno o con un giornalista in studio.
Una diretta può anche dipendere da una scelta editoriale: il direttore
vuole enfatizzare un evento considerato importante. Anche se non ci
sarebbe necessariamente bisogno di un collegamento in diretta,
realizzarlo evidenza che la testata ha una persona sul posto, si crea più
pathos anche solo col tono che usa il giornalista, con i rumori di
sottofondo che vengono trasmessi, con l’interlocuzione inviato-
conduttore.

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Scrivere per essere ascoltati
Il servizio da Gr deve essere “scritto per essere ascoltato” e non per
essere letto su una pagina scritta. È la base del mestiere del giornalista
radiofonico.
Se è realizzato senza supporti sonori viene definito in gergo un “tale e
quale”. Quando possibile si preferisce arricchire l’articolo con brevi
dichiarazioni in voce di un protagonista, o con effetti sonori: gli slogan di
una manifestazione, il tuonare dei cannoni in guerra, il tema di una
canzone. Un servizio di durata standard (1’10”) ad esempio di politica
interna risulta più completo se contiene due dichiarazioni in voce
(maggioranza e opposizione ad esempio) lunghe una ventina di secondi in
totale.
Qual è il vantaggio di questa scelta? Si segue un principio giornalistico di
base che equivale all’’utile ricorso alle virgolette di una citazione in un
quotidiano cartaceo, e si ottiene una maggiore fruibilità: un servizio a più
voci si ascolta meglio.
La notizia breve
Quando un evento è rilevante ma non a livello tale da meritare lo spazio
destinato a un servizio, il conduttore legge delle “brevi”, vale a dire il
racconto di un fatto in poche righe, al massimo 4. La differenza fra notizia
breve e lancio è questa: il lancio introduce un servizio; la notizia esaurisce
l’evento nella sua brevità.
L’intervista
Strumento fondamentale, poco usato nei Gr perché una intervista
decorosa non può essere troppo breve. L’intervista costituisce invece
elemento portante delle trasmissioni radiofoniche di informazione.
Chiariamo subito che una dichiarazione non è equivalente a un’intervista.
L'intervista è un susseguirsi di domande e risposte, se necessario con una
sub-domanda. Esempio; chiedo a una persona, “come stai?”. Risponde:
“bene, ma potrei stare meglio”. Io ho pronta una seconda domanda, ma,
24
incuriosito dal “potrei stare meglio”, la rinvio e chiedo: “perché?”; questo
accade in un'intervista, se sono un decente intervistatore.
La dichiarazione invece è un contributo sonoro pensato per essere
inserito in un servizio. Può capitare anche che si estragga un passaggio
sonoro da un discorso di rilievo, per esempio, una trentina di secondi
significativi da un discorso del Papa o del presidente della Repubblica. Il
passaggio selezionato verrà introdotto da un lancio del conduttore.
I jingle
Utili micro-stacchi sonori. Se vi si ricorre senza esagerare danno respiro
all’ascolto e possono aiutare a segnare il passaggio fra argomenti molto
diversi fra loro. I notiziari flash possono avere una base musicale che
accompagna l’intera edizione.
Gr lunghi, Gr Flash e Radio All News
Oramai i Gr da 20-30 minuti si ascoltano solo sulle reti del servizio
pubblico. In onda al mattino presto, a metà giornata, in serata, a
mezzanotte.
Le edizioni Flash oscillano fra i 3 e i 5 minuti di durata, vanno spesso in
onda allo scoccare dell'ora.
Le reti all news sono Radio1 e Radio24 del Sole24 ore (particolari i casi di
Radio Radicale e del canale Gr Parlamento). Sono reti che alternano Gr e
trasmissioni di approfondimento; anche musica, ma all’interno di
contenitori che la motivano e la contestualizzano. Alla nascita, su Radio24
tassativamente non veniva trasmessa musica; questa linea editoriale è
stata opportunamente modificata col tempo.
La radiocronaca
È la regina dell’informazione radiofonica. Sportiva, soprattutto, ma non
solo. Al radiocronista sono indispensabili cultura e competenza, prontezza
di riflessi, ricchezza di vocabolario, nervi saldi. E molta passione,
altrimenti, meglio evitare un cimento così impegnativo.

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Le lunghe edizioni straordinarie, i fili diretti
Sconvolgono la programmazione nel caso di eventi di particolare rilievo.
Eventi previsti, come l’elezione del presidente della Repubblica o una
notte post elezioni politiche. O imprevedibili, come un terremoto o un
attentato terroristico. Non le può condurre un redattore di passaggio,
servono competenze, capacità di gestire le novità senza dare per scontate
le notizie fondamentali, garbo e polso nel distribuire i pareri degli esperti,
i collegamenti con i giornalisti inviati, i contributi degli ascoltatori.
Le rubriche
Non così adrenalinica come la radiocronaca, la rubrica è però fonte
potenziale di grande soddisfazione per chi la realizza e di coinvolgimento
per chi la ascolta.
Le rubriche possono essere di varia durata, vivono a metà strada fra il Gr
e la trasmissione radiofonica. A volte vanno in onda registrate.
Approfondiscono i temi attraverso il ricorso a inchieste e interviste,
spesso su tematiche specifiche: per esempio, Ambiente, Economia,
Salute. Appuntamenti fissi che danno molto a chi ascolta una percezione
di “casalinga frequentazione” con la giornalista o il giornalista che li
propongono.

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La casa telegiornale
Come il Gr in radio, il Tg rimane la “casa” della notizia in televisione,
anche oggi, nell’era dell’imperversare del talk show.
La scrittura parlata
Nel pensare e realizzare un testo per un Tg deve dominare una struttura
colloquiale, basata sull’essenzialità e la sintesi, i tempi morti non sono
contemplati e contemplabili.
Molte delle indicazioni che valgono per la struttura di un Gr sono
applicabili a un Tg: sigla, titoli, impaginazione, lancio del servizio, scelta
fra servizio registrato o in diretta, struttura e durata dei “pezzi”,
l’intervista, la telecronaca.
Salvo l’elemento fondamentale: le immagini. Sono loro le regine, sia
quando “parlano da sole” sia quando sostengono un articolo che sia
forzatamente sprovvisto di immagini “fresche” che descrivano l’accaduto.
Il servizio per il Tg nasce dal rapporto fra l’immagine, le parole ed
eventuali corredi ipertestuali come grafica o musica.
Domande per un servizio
Sandro Petrone, per anni inviato di guerra in Tg privati e alla Rai,
suggerisce (Il linguaggio delle news) le domande che un giornalista
dovrebbe rigorosamente porsi prima di redigere un testo e di andare in
saletta di montaggio.
Quali immagini ho a disposizione. Sia girate dal mio collega tele-
cineoperatore sia arrivate dalle agenzie video nazionali e internazionali.
Quali interviste.
Quali informazioni danno queste immagini e interviste.
Nel costruire l’attacco del mio servizio, come devo tener conto di quanto
già detto dal conduttore nel lancio che mi introduce.
Quale immagine introduce meglio il telespettatore nel racconto.

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Immagine e racconto
Sono le immagini la base e la sostanza del mio racconto. Il mio testo deve
esser costruito su di loro. Se servono solo da illustrazioni a un testo
precotto si riducono a un qualcosa che gli inglesi ironicamente chiamano
wall paper, carta da parati.
Il volto del giornalista che parla può essere molto importante in alcune
circostanze, così come la faccia di un intervistato. Ma senza abusare,
altrimenti il servizio diventa (sempre a detta dei giornalisti inglesi) una
sfilata di talking heads, teste che parlano.
Ma come me la cavo, quando non ho immagini a disposizione? Le
immagini di attualità, “fresche”, sono preferibili nella stragrande
maggioranza dei casi. Anche se può spesso capitare che siano meno
significative ed efficaci di altre immagini, riferite allo stesso evento o
argomento, che non siano però le più recenti a disposizione.
Quando non ci sono entra in gioco la fondamentale e insostituibile risorsa
del repertorio. Repertorio di attualità (non l’immagine del giorno, ma del
giorno prima) o repertorio storico al quale si può ricorrere quando sia
utile fare citazioni dal passato.
Mai, comunque, una immagine di repertorio può essere spacciata come
“fresca”, peggio ancora se utilizzata a sostegno (posticcio) di una tesi
narrativa.
Al posto delle immagini
Le immagini hanno alternative. Alternative nobili, risorse, non “trovate”.
Alternative essenziali, ad esempio, quando si debba tornare tutti i giorni e
più volte al giorno sul medesimo argomento, come può accadere per la
serie dei resoconti sulla legge annuale di Bilancio dello Stato.
Quando le immagini mancano, o sono abusate, o si devono rappresentare
concetti astratti, arriva in soccorso la grafica. Cartelli grafici con numeri e
tabelle (pochi numeri e semplici tabelle), cartine geografiche, frasi scritte
con caratteri evidenti affiancate a una foto della persona che le ha
pronunciate, semplici animazioni.
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Nel caso di trasmissioni in studio si può ricorrere alla realtà virtuale,
anche aumentata in 3D, per avere in diretta proiezioni di personaggi
famosi, o anche non famosi, ma funzionali alla bisogna.

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Parole in economia
Perché ci soffermiamo sul giornalismo economico.
Perché l’economia viene considerata tema ostico, arido e tecnico. Lo è,
può esserlo, ma, al tempo stesso, se capita, può essere raccontata con
semplicità e addirittura una certa leggerezza.
Perché la nostra vita, anche quella quotidiana, è permeata dall’economia.
E allora, perché abbandonarne ad altri la comprensione?
Scorriamo, con parole il più possibile semplici, quattro grandi temi trattati
quasi quotidianamente dall’informazione. Lo facciamo con i dati più
aggiornati al momento (dicembre 2023) nel quale scriviamo. Le fonti alle
quali faremo ricorso sono: Istat, ministero dell’Economia, Eurostat, Banca
d’Italia, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale. Tenteremo
anche di mettere a confronto la nostra realtà con quella internazionale e
il nostro presente con il nostro passato. Perché un numero può avere
poco senso se non messo in relazione a qualche altro numero.

Il Pil, Prodotto interno lordo


Nel senso comune è l’indicatore di quanto un Paese sia ricco, anche se in
realtà non ne misura la ricchezza in senso proprio, ma il valore in un anno
del totale dei beni e dei servizi prodotti e consumati in questo Paese.
Pur essendo la seconda manifattura europea (dopo la Germania) il
contributo dell’industria manifatturiera italiana al nostro Prodotto interno
lordo è meno rilevante di quanto si possa immaginare, pesa per il 20 per
cento.
L’industria delle costruzioni copre il 5 per cento, l’agricoltura solo il 2 per
cento. La parte del leone è assegnata al settore dei servizi (pubblica
amministrazione, commercio, turismo) che genera il 73 per cento del Pil.

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Il Pil italiano del 2023 vale circa 2000 miliardi di euro, 2200 miliardi di
dollari. Siamo l’ottavo Paese al mondo, dopo: Stati Uniti, Cina, Giappone-
Germania, India, Gran Bretagna, Francia.
Come eravamo
Nel 2023 L’Italia crescerà in termini reali di poco meno dell’1 per cento.
Da anni cresciamo poco. Non era così in passato. Negli anni Sessanta, gli
anni del boom economico del dopoguerra, l’Italia crebbe del 60 per cento
rispetto al decennio precedente, una media di circa il 6 per cento l’anno, i
ritmi attuali della Cina.
Anni Sessanta +60%
Settanta +40%
Ottanta +25%
Novanta +13%
2000-9 +1.2%
2010-19 +2.7%
Le cifre parlano da sole, i motivi del rallentamento sono svariati ed è
impossibile elencarli in questa sede. Da notare che in sei occasioni il
nostro Paese andò in recessione, ovvero il suo Pil fu preceduto da un
segno meno, non crebbe, magari di poco, ma addirittura diminuì in
termini reali (fra poco vedremo cosa significhi “in termini reali”). Sempre,
la recessione fu figlia di eventi internazionali: nel 1993 per un attacco
speculativo contro la Lira; nel 2008 e 2009 per le ripercussioni di una
enorme crisi finanziaria e bancaria negli stati Uniti; nel 2012 e 2013 dopo
la crisi europea dei debiti di alcuni Stati; nel 2020, l’anno della pandemia.
Ricchi e poveri
Raffronti sul valore del Pil, per capire le dimensioni di cui parliamo.
Usa 23mila mld $
Cina 17mila mld $
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Ue 18mila mld $
Germania 4300 mld $
Burundi 3 mld $
Questi numeri dicono che: Il Pil americano vale oltre 10 volte quello
italiano; l’Unione Europea tutta assieme è la seconda potenza economica
mondiale; il Pil tedesco è il doppio del nostro; il Paese più povero del
pianeta è il Burundi, i suoi 12 milioni di abitanti possono contare su molto
meno di un dollaro al giorno a testa. I lussemburghesi, i più ricchi per Pil
pro-capite, producono circa 300 dollari in media al giorno.
Aree di potere
Come si distribuisce la ricchezza e quindi anche il potere fra aree del
mondo?
Prendiamo in considerazione il G7, che riunisce dal 1975 i 7 grandi Paesi
industrializzati: Stati Uniti, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia,
Italia e Canada. Mettiamolo a confronto con i Brics, il gruppo che mette
assieme dal 2010 le potenze emergenti di Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica.
Consideriamo il Pil calcolato secondo il criterio della Parità di Potere
d’Acquisto (Ppa), che confronta prezzi di prodotti identici in più Nazioni,
acquistato nelle rispettive valute. Secondo la Ppa la Cina è già la prima
potenza economica mondiale.
Quote di Pil mondiale (Ppa)
2022
G7 30.3%
Brics 31.5%
2013
G7 32.5%
Brics 28.7%
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Negli ultimi dieci anni i Paesi emergenti hanno superato le vecchie
potenze e le distaccheranno ancor di più se si allargheranno (come
previsto) ad altri giganti del mondo arabo, dell’Asia, dell’Africa e del Sud
America.
Il signor Dollaro
Questo significa che il baricentro economico del pianeta si è ormai
trasferito? No, ancora non è così, non solo se si considera il valore del Pil
in termini assoluti e non a parità di potere d’acquisto, ma anche se si
prendono in esame il valore della finanza internazionale, il peso e il
dinamismo delle Borse e, infine, quali valute siano tenute da parte nei
forzieri delle Nazioni, come affidabili riserve (assieme all’oro) per
fronteggiare i casi di gravissime crisi.
Riserve valutarie nel mondo
Dollaro 59%
Euro 20%
Yen 6%
Sterlina 5%
Yuan 3%
Come emerge chiaramente, sarà in salita la via per contendere il primato
alla valuta degli Stati Uniti; quelle del Giappone (Yen) e della Cina (Yuan)
sono clamorosamente ancora indietro. Interessante il caso della Sterlina
britannica, che tiene botta perché la City di Londra rimane centro
finanziario molto importante.

L’inflazione
Il tasso d’inflazione è un numero che racconta una grande scocciatura: il
denaro che perde valore nelle nostre tasche. L’inflazione è il generalizzato
aumento dei prezzi al consumo.

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Ogni mese in Italia in tutte le città, l’Istat, l’istituto centrale di statistica,
tiene sotto controllo oltre 50mila fra punti vendita e abitazioni. Verifica i
prezzi di un “paniere” di oltre 1.900 fra prodotti e servizi.
Dentro c’è un po’ di tutto: l’affitto di casa, il biglietto del cinema, il casco
del motorino. Tutti questi singoli prezzi vengono messi assieme, e
“pesati” in maniera ragionevole: in genere mangiamo tutti i giorni, ma
non compriamo un cappotto tutti i giorni.
Al termine, viene fuori l’indice dei prezzi al consumo, il numero
dell’inflazione.
L’Istat fornisce due dati: il primo è l’inflazione mensile, che ci dice che i
prezzi al consumo (ad esempio) a dicembre sono cresciuti (ad esempio)
dello zero virgola qualcosa per cento rispetto a novembre. L’inflazione
annua ci dice invece che i prezzi sono in crescita (ad esempio) a dicembre
(ad esempio) dell’uno per cento, rispetto al dicembre dell’anno
precedente.
Il primo è il dato congiunturale, il secondo è quello dell’inflazione
tendenziale.
L’inflazione media annua misura invece la media degli ultimi 12 mesi
rispetto alla media dei 12 mesi precedenti. Quello tendenziale è il dato
più comunemente usato per misurare l’inflazione. Quello medio viene
usato soprattutto per documenti ufficiali di contabilità.
Per avere una idea: a novembre 2023 l’inflazione tendenziale in Italia era
allo 0.8 per cento, nel novembre 2022 era ll’11.8 per cento; media del
2023 attorno al 6 per cento; nell’area Euro al 2,4, negli Usa al 3,2:
Se l’inflazione rallenta (ad esempio passa dal 4 al 3 per cento) si innesta
un processo che si chiama disinflazione; i prezzi aumentano, ma meno di
prima, è un processo positivo e un livello d’inflazione considerato
accettabile dagli economisti è sotto il 2 per cento annuo.

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Se invece i prezzi diminuiscono si innesta un processo che si chiama
deflazione, è un processo negativo perché è accoppiato a un momento di
rallentamento dell’economia, a una crisi.
Valori nominali e reali
È a causa dell’inflazione che gli aumenti di valore di un bene (o di uno
stipendio) possono essere definiti nominali o reali.
In una fase di inflazione al 10 per cento un aumento di stipendio del 10
per cento si rivelerà un aumento solo nominale, ovvero, in termini reali
(di potere d’acquisto) il mio stipendio rimarrà invariato. Il ragionamento
non vale solo per i prezzi, ma anche per tante altre grandezze
economiche come, ad esempio, la ricchezza prodotta da una nazione.
Svalutazione e inflazione
Sono concetti che non vanno confusi, anche se a volte si intrecciano o si
sovrappongono. È vero che l’inflazione porta a far perdere di valore al
mio stipendio, ma, in termini corretti, l’inflazione è la misura
dell’aumento dei prezzi al consumo, mentre la svalutazione è il
deprezzamento di una moneta rispetto a quelle estere (valute).
L’inflazione può essere causata dalla svalutazione: pur senza variazioni di
prezzo sui mercati internazionali, il petrolio (che si paga prevalentemente
in dollari) mi costerà di più se l’Euro si sarà deprezzato nei confronti della
valuta statunitense.
Iperinflazione
Negli Stati Uniti e in Europa, dopo una fiammata, a fine 2023 siamo
tornati a vivere in tempi di inflazione contenuta. Ma non sempre, e non
ovunque, è andata e va così: Anche nel dopoguerra ci sono stati anni di
alta inflazione. In Italia, nel 1980, l’inflazione superò il 21 per cento. In
Brasile, nel 1994, l’inflazione arrivò al 2mila per cento l’anno. È in questi
casi che si parla di iperinflazione. In Argentina, attualmente, l’inflazione è
alò 140 per cento annuo. Nel 2018 la crisi venezuelana ha portato il Paese
sudamericano a calcolare l’aumento dei prezzi in milioni per cento: cifre
folli e del tutto fuori controllo.
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Nel 1923 in Germania, nella crisi dopo la Prima guerra mondiale, il denaro
perse quasi ogni valore. Un dollaro americano valeva 4 miliardi di marchi
tedeschi. L’inflazione toccò il 23mila per cento.
Per questo i tedeschi hanno imparato ad aver sempre paura
dell’inflazione. E non solo loro.

Lavoro che viene e che va


In genere ci si informa su chi e ci si preoccupa per chi un lavoro lo cerca,
ma non lo trova: i disoccupati, o gli inoccupati (se sono persone che non
hanno mai lavorato) è ovvio interessarsi di loro.
Partiamo invece dal dato su chi lavora nel nostro Paese, anche per capire
se anche questo dato riveli problemi.
tasso di occupazione 2023
Ita 61.8% (23.7 Mln su 38)
Ue 75%
tasso di disoccupazione
Ita 7.8% (2 milioni)
Ue 6% Usa 3.9%
Il tasso di occupazione ci informa sulla percentuale degli occupati sul
totale delle forze lavoro (occupati+disoccupati). In Italia lavorano quasi 24
milioni di persone su un totale di 38 nella fascia d’età (15-64 anni) che gli
statistici considerano per definire il concetto di forza lavoro.
Emerge chiaramente un primo problema italiano: da noi sono occupate
assai meno persone che nel complesso dell’Unione europea (e anche
negli Stati Uniti), mettendo assieme contratti a tempo indeterminato e
determinato, a tempo pieno e part-time.

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Due milioni di persone che vivono in Italia sono invece alla ricerca di un
lavoro, il tasso di disoccupazione è ben più alto della media europea (che
pure concorriamo a determinare) e molto più alto di quello americano.
Che tipo di lavoro facciamo: quasi 19 milioni di persone hanno un lavoro
dipendente, altri 5 milioni sono lavoratori autonomi, il cosiddetto “popolo
delle partite Iva”.
Le donne rappresentano il 52 per cento della nostra popolazione, ma
questa percentuale non si ripropone nell’universo del lavoro.
È il secondo grande guaio. Si parla spesso (e con fondamento) dei
problemi legati alla disoccupazione giovanile e meridionale, ma a fianco e
prima di queste questioni viene la questione femminile.
tasso di occupazione 2023
Ita uomini 71%
Ita donne 53% (Ue 69%)
Fra uomini e donne vi sono quasi venti punti percentuali di differenza,
mentre la media europea di occupazione femminile è quasi eguale a
quella maschile nel nostro Paese.
giovani disoccupati
15-29 ANNI
Ita 22% Ue 11%
Ita (15-24) 24.7%
(25-34) 10%
Una rapida riflessione sui giovani. Ripetendo che i dati di cui sopra
peggiorano se riferiti alle giovani e ai meridionali e senza dimenticare che
alcune giovani e alcuni meridionali hanno la fiducia ridotta al lumicino e
quindi, spesso, hanno anche smesso di cercare un lavoro. La percentuale
di giovani italiani disoccupati è il doppio di quella europea, e ancora
peggio va nella fascia d’età sino ai 24 anni.
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neet
not (in) education employment training
(25-29 anni)
Ita 25% Ue 15%
Battiamo di 10 punti la media europea, 25 a 15 per cento (non invidiabile
successo), anche analizzando il fenomeno dei neet, giovani che non
studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione. Un giovane
italiano su quattro è in questa condizione, nella fascia d’età in cui, in
genere, si sono terminati gli studi universitari.

Il bilancio dello Stato


Il bilancio di uno Stato, volendo semplificare al massimo, potrebbe essere
letto in modo simile al bilancio di una famiglia. Se questo bilancio è in
attivo (il termine si usa anche per le società private) si parla di bilancio in
nero, se è in passivo, di bilancio in rosso.
Mettiamo il caso di una famiglia che in un anno guadagni 50mila euro e
ne spenda 55mila. Avrà un disavanzo di 5mila euro, per far fronte al quale
probabilmente chiederà in banca un prestito che le sarà concesso a un
tasso di interesse mettiamo del 10% l’anno (500 euro l’anno).
Se, per necessità o sventatezza, questa famiglia continuerà ad accumulare
passivi dovrà continuare a chiedere prestiti (ammesso che trovi chi glieli
conceda) e a pagare nuovi interessi.
Quei primi 5mila euro di passivo sono il deficit annuale della famiglia; col
passare del tempo, il capitale non restituito e i vecchi e nuovi interessi da
pagare formano il castelletto del debito accumulato negli anni.
Lo stesso discorso vale per il deficit e il debito degli Stati.
Nel 2023 il deficit pubblico italiano è stimato valere il 5.2 per cento del Pil,
la media dei Paesi della zona Euro è al 3.9. Il Debito pubblico italiano è al

38
140 per cento del Pil, è al 92 nell’Eurozona, dove solo la Grecia sta peggio
di noi.
L’Euro è nato con il Trattato di Maastricht che venne firmato il 7 febbraio
1992, in una cittadina olandese ai confini col Belgio. I 12 Paesi membri
della Comunità europea, che si trasformò allora in Unione europea,
firmarono un Patto di stabilità, più avanti (1997) trasformato in Patto di
stabilità e crescita, sospeso per la pandemia nel 2020 e rinnovato a
dicembre 2023.
il bilancio dello Stato
entrate: imposte (irpef, iva)
contributi sociali
prestiti
uscite: spese statali e locali
stipendi, acquisti, investimenti
prestazioni sociali
interessi sul debito pubblico
Il bilancio di ogni azienda è formato da entrate e uscite, lo stesso vale per
quello statale. Le fonti principali di entrata sono: le imposte dirette (come
l’Irpef) e indirette (come l’Iva); i contributi sociali, come quelli per la
previdenza o per la sicurezza sul lavoro; i prestiti che lo Stato chiede sul
mercato dei capitali per poter sostenere il proprio funzionamento.
Le entrate finanziano la spesa pubblica. Sia la spesa a livello centrale che
quella delle Regioni o dei Comuni: gli stipendi; gli acquisti dei beni
necessari al funzionamento di tutti i giorni della macchina pubblica; gli
investimenti; le prestazioni sociali come pensioni, indennità di
disoccupazione, cassa integrazione guadagni; gli interessi da pagare sul
debito contratto.

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Per finanziarsi lo Stato emette Titoli del Debito pubblico. Possono avere
vita lunga da tre mesi a trenta anni: Buoni ordinari del Tesoro (Bot),
Certificati di credito del Tesoro, (Cct) Buoni del Tesoro poliennali (Btp).
Fanno parte della grande famiglia finanziaria delle obbligazioni, titoli
emessi anche da aziende private che a scadenza garantiscono la
restituzione del capitale investito (se l’emittente non fallisce) e, nel
frattempo pagano periodicamente degli interessi che si chiamano cedole.
L’altra grande famiglia finanziaria è quella delle azioni. Gli Stati non ne
emettono. Con una azione in mano diventi proprietario in parte (magari
anche solo in minuscola) di una azienda, con annesso diritto a riscuotere
un dividendo annuale. Diritto potenziale, però, che diventa effettivo solo
se il bilancio della società è positivo e se il suo consiglio di
amministrazione stabilisce che vengano pagati dividendi agli azionisti e
non di usare l’attivo di bilancio per rafforzare il patrimonio dell’azienda.
Altro elemento fondamentale: quando acquisti una azione nessuno ti
garantisce che il suo valore rimarrà invariato o crescerà. Nelle
contrattazioni quotidiane di Borsa questo valore potrebbe addirittura
azzerarsi, accade, raramente, ma accade.
Infine, da più parti viene affermato: “la nostra spesa pubblica è troppo
alta e il peso delle tasse sui cittadini è troppo elevato”. È vero, ma solo in
parte.
si spende e si incassa
spesa pubblica 2023
Italia 53% del Pil - Eu 51%
pressione fiscale
Italia 43% del Pil – Eu 41%
La spesa pubblica ha un peso molto rilevante sul nostro reddito nazionale,
vale il 53 per cento del Pil contro una media europea del 51 per cento,

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che è più bassa, ma non così più bassa come negli Stati Uniti, dove scende
al 37 per cento.
Discorso analogo per la pressione fiscale, ovvero quanto pesa sul Pil il
carico delle imposte e dei contributi sociali che lo Stato richiede alle
persone e alle aziende. In Italia è al 43 per cento del Pil, in Europa al 41,
minore, ma non di moltissimo. È più bassa in America, ma qui il raffronto
è difficile perché ci sono grandi differenze fra Stato e Stato.
Più che sul livello della spesa si può forse ragionare sul fatto che conti la
sua qualità: non quanto si spenda, ma come si spenda; quanto siano
efficienti i servizi che lo Stato garantisce ai cittadini.
Stesso discorso per le entrate fiscali. Devono diminuire, è fondato senso
comune, ma è altrettanto comune (e fondata) l’affermazione che, se
pagassero tutti, tutti pagherebbero di meno. Si chiama lotta all’evasione
fiscale. Ma qui entra in ballo la politica.

41
XI.1 Luigi Contu
11 ottobre 2023
Luigi Contu alla Sapienza. Luigi Contu, direttore dell’Ansa, nasce come
cronista economico; poi giornalista politico-parlamentare; dal 2004 capo
della redazione politica di la Repubblica; dal 2009 direttore responsabile
dell’agenzia Ansa

Dario Laruffa. Come un evento dell’universo-mondo si traduce in una


notizia dell’Ansa?

Luigi Contu. Le notizie sono di tanti tipi, quello che succede nella realtà
può arrivare in agenzia da fonti specifiche, da comunicati stampa,
televisione, radio, giornalisti in giro. L’Ansa pubblica ogni giorno 2800
notizie in cinque lingue diverse: naturalmente non tutte sono
estremamente importanti o si riferiscono a un grande evento. Gli eventi
importanti in una giornata non sono molti, forse tra i cinque e i quindici, e
questi eventi generano molte più notizie che li approfondiscono.
2800 notizie al giorno in cinque lingue, in quali forme vengono trasmesse?
Prima di tutto come testi, suddivisi in varie notizie che vengono a volte
sintetizzate (quando si tratta di un evento che lo merita) in un articolo
finale. L’Ansa è 24h/24 operativa e lancia continuamente notizie che poi
qualcuno raccoglie e pubblica. I nostri testi arrivano agli abbonati (non
tutti possono leggerli, ma solo chi paga), tra loro, tutti i giornali, le
televisioni e radio italiane, i siti web, tutte le istituzioni (ministeri,
governo), le aziende. Questo enorme bacino di persone segue l’attualità
della giornata attraverso le nostre notizie.
Forniamo anche le fotografie, che ogni giorno sono 500/600 dall’Italia e
più di 2000 dal mondo, in aggiunta a un centinaio di video che
diffondiamo sul nostro sito e sulle piattaforme social (tiktok, Facebook,
Instagram…).
Cosa viene prima di tutto.
La prima caratteristica della notizia dell’Ansa, è che deve essere esatta:
non si può sbagliare perché le persone abbonate sono certe
dell’affidabilità della notizia. Ogni notizia Ansa deve essere verificata;
viene scritta o dettata, ripresa o fotografata da un giornalista/reporter,
mandata a un desk specializzato nella materia della notizia, che controlla
42
se va bene e, nel caso di dubbi, non la trasmette. Si richiama il collega, si
fanno delle verifiche e se si hanno ulteriori dubbi si arriva ai livelli
superiori: l’ufficio centrale, il direttore. È un elemento fondamentale
perché uno dei punti di forza dell’agenzia è la credibilità e l’affidabilità: se
la notizia è dell’Ansa deve essere giusta.
L’attenzione all’esattezza è maniacale, non è un optional. L’errore è un
errore grave.
Il secondo elemento è che deve essere una notizia data in tempi
velocissimi, dato che dovremmo sempre dare la notizia prima di tutti.
Bisogna essere esatti e veloci, spesso due fattori in conflitto tra loro,
perché serve tempo per verificare. La verifica della notizia, però, non è
mai tempo perso. È quasi sempre meglio dare la notizia tre o quattro
minuti dopo (parliamo sempre di secondi o minuti) piuttosto che scrivere
una cosa che poi si rivela falsa.
Terzo punto.
Terzo punto fondamentale: deve essere oggettiva. Non dovreste mai
trovare una notizia che faccia trapelare favoritismi e opinioni, perché
l’agenzia si limita a raccontare i fatti.
Piccolo aneddoto: il direttore storico dell’Ansa, Sergio Lepri, quando mi
assunse (ero un ragazzo più o meno della vostra età) mi disse una frase
che fa capire cosa significa lavorare per un’agenzia: “Contu, io non le
chiedo chi vota, e lei, non me lo faccia capire da quello che scrive.”
Questo è esattamente ciò che deve fare un’agenzia. Se si percepisce che
sei o non sei contento di dare una notizia hai capito male qual è il tuo
mestiere.
Nascita di una notizia.
Se la notizia di base è “scossa di terremoto nelle marche”, l’Ansa inizia ad
azionare la sua organizzazione (persone, conoscenze e fonti) per capire
cosa sta accadendo. Si chiama il sindaco, la protezione civile, la polizia, il
prefetto. Il valore aggiunto della notizia è continuare a sviluppare, a
cercare, a immaginare quali possano essere le notizie successive.
Nel caso di un terremoto si chiamano ad esempio le persone coinvolte: gli
esperti per sapere quanto era profondo l’epicentro, o per avere elementi
sulla faglia circostante; si cerca l’ospedale e si mandano fotografi,
videomaker e giornalisti a documentare feriti e vittime, chi sono e le loro
famiglie.
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E poi arrivano le guerre. Primi minuti di una prima giornata.
La schermata alle mie spalle mostra le notizie trasmesse da noi la notte
dell’attacco di Hamas a Israele, 7 ottobre di quest’anno. Alle 05:52 diamo
una prima notizia che apprendiamo perché abbiamo due persone in
Israele (una a Gerusalemme e una a Tel Aviv) e un collaboratore nella
striscia di Gaza. Quella notte sono stati svegliati dalle sirene: la sirena che
squilla è una notizia quindi il corrispondente dell’Ansa la prima cosa che
fa, piuttosto che andare nel bunker, è scrivere: “Sirene in Israele a Tel
Aviv”, due righe di notizia.
Sette minuti dopo arriva la seconda notizia che dice in quali città, oltre a
Tel Aviv, sono state sentite le sirene. Al momento non si sa nulla, ma il
nostro corrispondente attesta l’ora dell’evento e nel frattempo si è messo
in contatto con le sue fonti sul terreno (esercito israeliano, il comando
israeliano, l’ambasciata italiana) che gli hanno suggerito la possibilità di
un attacco. A volte le fonti importanti non vogliono essere citate, quindi il
giornalista deve valutare in pochi secondi se quella fonte è attendibile, e
lo fa sulla base della fiducia che si ha in quella persona. La nostra notizia
infatti cita: “atmosfera di guerra” perché in quel momento non era
ancora così chiara la dimensione di quel che stava accadendo.
Ancora dodici minuti dopo scriviamo una notizia che nel titolo cita una
fonte: “Esercito, razzi da Hamas nel centro di Israele”. Ci si rende conto
che siamo di fronte a un evento veramente importante. Nel frattempo,
anche il corrispondente da Gaza è operativo e riesce ad avere (attraverso
le sue fonti) la conferma di qualcosa di grave sta accadendo.
Alle 06.37 titoliamo: “Il capo dell’esercito di Hamas preannuncia un
evento importante”: Di solito non si annuncia un annuncio, ma questa
volta anche un annuncio è considerato un elemento di valore, nessuno in
Italia ha informazioni, quindi, ogni singola e minima informazione diviene
necessaria.
Arrivano a mano a mano i dettagli (ad esempio, “5000 bombe sganciate”)
e anche foto e video che mostrano luoghi in fiamme. Alle 07.40 per la
prima volta la parola “guerra”, fonte, l’esercito israeliano.
La redazione ormai è in moto.
Quando succede qualcosa del genere nella notte, oltre alle persone sul
posto, si mette al lavoro in redazione la squadra che si occupa della
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situazione di Israele (in questo caso) che cerca notizie a sua volta dove
può. C’è un gruppo che ad esempio setaccia i social. Si chiama ll ministero
degli esteri, che a sua volta chiama l’ambasciata italiana nel luogo per
sapere se ci sono italiani colpiti. I voli, gli aeroporti sono aperti? Sono
chiusi? Che cosa fanno le persone possono andare via?
Alla fine della giornata più di 1500 notizie trasmesse, alcune più o meno
importanti, altre più o meno soddisfacenti. Il grande evento è questo.
Fortunatamente non scoppiano solo guerre, inevitabilmente non si
verificano solo grandi eventi.
Per “far nascere” una notizia contano molto la capacità e l’intelligenza del
giornalista. Magari sta leggendo un rapporto statistico, scientifico o
economico. Pagine e pagine di numeri e di tecnicismi. Spetta a lui scovare
cosa possa interessare “fuori”. Se non sono preparato sull’argomento e
sul dibattito politico in merito a quell’argomento, vado ad esempio alla
presentazione di un rapporto Istat, non capiscono niente e scopiazzo più
o meno quello che mi dicono. Se invece sono preparato trovo dei
particolari che poi diventano notizia.
Ci sono molte situazioni nelle quali tu pensi di non essere di fronte a una
notizia, e invece, se sei bravo, sveglio, intelligente, la capisci e la trovi
dentro la sentenza di un giudice in provincia, nelle frasi di una
professoressa a scuola che agitano gli studenti. Devi avere le orecchie
aperte, avere molte fonti, frequentare molte persone che vivono la vita di
tutti i gironi per captare una notizia.
Qual è la via maestra per scrivere un articolo che sia almeno decoroso?
Prima di tutto capire qual è la notizia. Trovare uno spunto. Mettere a
fuoco le due tre cose che sono interessanti. Poi si può condire il tutto
anche con un elemento di scrittura importante, anche se io sono sempre
per un elemento di scrittura semplice, veloce, chiara; il resto viene dopo.
Frasi semplici, scorrevoli, brevi. Invece di una lunga frase con un inciso,
azzardiamo due frasi brevi. Più leggiamo, anche libri, più impariamo a
usare le parole. La comunicazione è terra di parole, ma è anche terra
piena di rischi. Il primo rischio è non dare una notizia esatta, abbiano
sentito.

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Poi c’è un rischio che purtroppo non viene sempre tenuto presente.
Bisogna un attimo accendere il cervello e chiedersi: ma io con questa
notizia che cosa provoco? Che cosa succede della mia notizia?
Cito un caso che mi coinvolse direttamente. Parliamo della tragedia di
Rigopiano, Nel 2017 un albergo sul Gran sasso fu seppellito da una
valanga e sotto questa valanga rimasero intrappolate diverse persone.
Alla fine, 29 morti e 11 superstiti. Il posto era inaccessibile, le strade
coperte di neve, non ci arrivava nessuno. A un certo punto uno dei nostri
tre inviati ascolta una comunicazione radio tra un militare e la centrale:
“abbiamo sentito dei rumori”; poteva voler dire che ci fossero dei
sopravvissuti, forse anche bambini. Mi chiama: “direttore io ho sentito
questa frase, che facciamo la pubblichiamo?” Io rispondo: “no, aspetta,
facciamo delle verifiche, un rumore può essere qualsiasi cosa, prova a
capire di più”. C’erano famiglie in attesa di sapere se i bimbi fossero
ancora vivi. Noi questa notizia l’abbiamo tenuta ferma, abbiamo
aspettato, per avere un’ulteriore conferma che la notizia fosse vera.
Perché puoi fare dei grandi danni alle persone anche se scrivi una cosa
che in quel momento è vera. Dobbiamo sempre domandarci dove arriva
la mia notizia. Poi alla fine prevale il dovere di fare cronaca, ma, secondo
me, un giornalista eticamente si deve sempre porre questa domanda.
Il giornalista come filtro, ma non censore della realtà. A difesa di un
modello di lavoro in un mondo nel quale i social media scavalcano
mediazioni e tagliano drasticamente I tempi del comunicare. Potenzialità
e rischi dei social media.
Le potenzialità sono enormi, io vi potrei raccontare di notizie molto
importanti che noi abbiamo appreso attraverso Twitter o altri social
media, parlo per esempio della prima rivolta in Iran di ormai otto anni fa.
Prime notizie che ci sono giunte attraverso canali iraniani, che
conoscevamo e quindi eravamo sicuri che fossero attendibili, a
cominciare dalle immagini delle manifestazioni in piazza.
I rischi sorgono quando qualcuno dà credito a una notizia tipo: “dieci
persone sono morte per un vaccino”. Chi lo dice? Perché lo può dire?
Dove lo ha sentito? È un professore, è un medico? Che fonte è? Cosa sto
leggendo? Chi lo sta scrivendo? Perché lo sta scrivendo? Senza
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dimenticare che se l’Ansa pubblica una notizia falsa io posso finire in
galera, io ho la responsabilità di tutto quello che l’Ansa pubblica. Altri
sono responsabili di quello che dicono? No. Non c’è nessuna
responsabilità, né su Twitter, né su Facebook, né su Instagram, né altrove.
Dentro il profilo Facebook dell’Ansa, di una testata della Rai, di un grande
quotidiano, ci sono delle persone che ci lavorano, ci hanno speso dei
soldi, sono state mandate in guerra, hanno rischiato la vita per trovare
una notizia, c’è qualcuno che ne è responsabile, l’ha verificata. Magari
può contenere errori, ma io ho fatto di tutto per dare all’ opinione
pubblica una cosa reale, vera che è esistita, è dimostrabile.
Non voglio dire che i social siano sempre non attendibili, ho portato
esempi del contrario. Ma guardate ad esempio i video che ha prodotto
Hamas dopo la sua aggressione in Israele: montaggi, musiche, la gente
inquadrata bene, c'è un'evoluzione anche nel terrorismo, mezzi usati per
influenzare, spaventare, galvanizzare i propri. Ci sono per fortuna degli
algoritmi, dei sistemi di verifica delle immagini, per capire se quelle
immagini siano state veramente girate in quel dato momento o siano
state modificate. Ma rimangono spazi di contraffazione. Noi abbiamo
modi per difenderci, ma, noi tutti i giorni ci troviamo con finte notizie
dell’Ansa che vengono mandate in giro per fare casino, per attaccare un
politico o per creare delle situazioni di difficoltà.
I rischi che corre un giornalista e alcuni fra i vincoli che lo pressano. I
giornali hanno dei “padroni”, i loro editori. Come si può fare
correttamente il proprio mestiere anche quando questo non garba
all’editore?
A volte è impossibile. Ci sono dei momenti in cui ti trovi di fronte a notizie
che non sono gradite al tuo editore, che possono coinvolgere il tuo
editore, dare fastidio al tuo editore, ma tu le devi pubblicare. Non c’è via
di scampo, nel senso che gli editori possono inviarti un messaggio, se tu
lavori in un giornale sai quel giornale come la pensa, però un direttore,
ma non soltanto un direttore, un giornalista, deve scrivere quello che è
successo, anche se questo è scomodo per il potere, per il politico di turno
e per il proprio editore. Questa è proprio l’essenza della libertà del
giornalismo. Perché la legge prevede la figura del direttore responsabile?
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Perché sono solo io il responsabile, nessuno degli editori dell’Ansa può
pubblicare una notizia. Nessuno può mettere le mani sul tuo prodotto,
sulla tua notizia che non sia il direttore o un giornalista. Certo,
l’autonomia e l’indipendenza di una testata dipendono molto spesso dalla
forza che ha il direttore e dalla capacità che ha di pubblicare o meno una
notizia che crea grandi problemi: questo succede sempre. Io sono un caso
particolare e più fortunato, sono il direttore di un’azienda giornalistica
che è di proprietà di tanti editori, quelli di destra, quelli di sinistra, laici,
cattolici. Quindi se io mai ricevessi una pressione da un editore di destra
per non dare una notizia scomoda per la Meloni, quello di sinistra
direbbe: “Perché non la dai questa notizia? A me interessa”.
L’Ansa è nata nel 1945, dopo il fascismo, sapete chi l’ha fondata? Gli
alleati americani, cioè l’esercito di liberazione alleato, quando ha pensato
che, per far ripartire l’Italia, ci fosse bisogno di pane, di soldi, di
autostrade e di libertà di informazione. E siccome i giornali non avevano
soldi, decisero di fare ciò che era successo in America, che è il Paese più
libero del mondo per quanto riguarda l’informazione, e cioè fare una
cooperativa, mettere insieme tutti i giornali che non avevano soldi per
pagarsi i giornalisti, non avevano i soldi per mandare un inviato all’estero,
non avevano i soldi per fare un servizio fotografico. Ci fu un grande
dibattito per decidere se questa agenzia dovesse essere di proprietà del
governo e si disse: no. Il governo non può avere la proprietà diretta di
un’agenzia di informazione proprio perché si può creare un conflitto
d’interesse. Questo succede nel 1945 e ancora noi abbiamo lo stesso
statuto, gli stessi editori che vengono fuori dalla Resistenza e dal dopo
fascismo per garantire un’informazione plurale e libera da conflitti
d’interesse.
Questo il passato; ora, presente e futuro. Giornalismo e intelligenza
artificiale. Andremo tutti a casa e gli articoli saranno scritti da computer?
L’intelligenza artificiale è il tema dei temi per tutti, dalla medicina
all’informazione, e tutti ci stiamo facendo i conti. L’intelligenza artificiale
è potenzialmente un grandissimo strumento ed è molto interessante per
chi fa il mio lavoro. Noi abbiamo una rete di accordi con tante “Ansa nel
mondo”, l’agenzia thailandese, l’agenzia della Birmania, l’agenzia
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libanese, l’agenzia tunisina, che producono flussi di notizie analoghi ai
nostri, notizie che ci scambiamo. La maggior parte non sono in inglese,
ma nelle diverse lingue nazionali. Noi abbiamo messo in piedi un sistema
di intelligenza artificiale che traduce, in maniera molto efficace, tutte le
notizie che arrivano da questi Paesi. Non le pubblichiamo direttamente,
ma entrano in un serbatoio a disposizione della redazione degli Esteri,
già tradotte in italiano. Un grande aiuto, anche se ci sono ancora degli
errori stile “Meloni/Cocomeri”! L’intelligenza artificiale per noi è una
grandissima ricchezza.
Pensate anche in direzione contraria: noi scriviamo in quattro lingue, ma
quante lingue ci sono nel mondo? Quante persone possono leggere e
possono abbonarsi all’Ansa? Poche, perché nel Kosovo (ad esempio)
nessuno parla italiano, però adesso posso tradurre l’Ansa nella loro lingua
e mandargliela.
Non parliamo poi della capacità dell’intelligenza artificiale di studiare i
dati, compararli ed entrare negli archivi. Noi abbiamo un’archivio digitale
in cui ci sono quattordici milioni di fotografie di storia dell’Italia che
abbiamo scattato dal 1945 ad oggi, sono tutte archiviate e sono tutte
dentro un sistema in parte digitale, in parte cartaceo. Ci sono tutte le
notizie pubblicate, le duemilacinquecento al giorno, da quel giorno ad
oggi. Ci sono i grafici, ci sono i video. Se serve una rievocazione del
terremoto dell’Irpinia (1980) non devo scendere nei meandri degli archivi,
ma premere un pulsante per avere le notizie di allora immediatamente.
Poi però magari gli articoli escono fuori tutti eguali, precisi, ma
senz’anima.
L’anima è un’altra cosa. Qui esattamente sta la differenza. L’intelligenza
artificiale ti può aiutare tanto nella raccolta di dati, nella verifica,
soprattutto se è applicata a un bacino che sia una fonte sicura, dove tutto
è stato verificato e controllato. Nei fatti invece (dico una cosa contro
corrente) l’intelligenza artificiale è disponibile a tutti: archivi non
controllati nelle mani sia di persone in grado di leggere, di capire, sia di
persone non in grado di farlo.

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Il futuro del giornalismo declinato fra i diversi possibili strumenti: le
agenzie, la radio, la televisione, i social media, i quotidiani di carta
stampata, i periodici settimanali e mensili di approfondimento?
Sono sicuro che il giornalismo avrà un futuro, probabilmente non avranno
un futuro i giornali di carta, perché effettivamente hanno un costo
importante e difficile da sostenere per colpa del fatto che nessuno li
compra più. Sopravviveranno giornali di nicchia, con meno copie. Ma
l’informazione, la notizia, l’approfondimento, l’analisi saranno sempre più
necessarie. Più ci saranno fonti, social, gente che dice la sua in tutti i
modi, più ci sarà bisogno di trovare dei profili, dei posti, dei luoghi, nei
quali uno crede e dei quali sa di potersi fidare. Aggiungo che lì dentro c’è
la cultura e la preparazione delle persone, che fa la differenza. Avere visto
di persona un fatto, una visita di un Papa, un discorso di un Presidente del
Consiglio, un attacco aereo, genera un racconto che non è quello di
Wikipedia, e neanche quello dell’intelligenza artificiale. I dubbi morali ed
etici, l’intelligenza artificiale non se li pone. E il sentimento? L’emozione?
Fare vedere la fotografia di un cadavere è giusto o sbagliato? Questa è la
funzione che avrà sempre l’informazione e il giornalismo, magari con
meno carta stampata ma con più piattaforme, ma rimarrà fondamentale
per la democrazia e per la libertà dei cittadini.
Per la serie sentimento ed emozione, la più grande soddisfazione
professionale di Luigi Contu.
Sicuramente una notizia che non ho trovato io, ma io ero il direttore. Le
dimissioni di Papa Ratzinger, uno scoop mondiale dell’Ansa. Ricordo che
eravamo in una delle tre riunioni quotidiane per impostare la giornata.
Era una giornata qualsiasi, si spalanca la porta, entra una collega e spara:
si è dimesso il Papa”. Tutti a ridere. E lei: "guarda che è vero, si è dimesso
il Papa e abbiamo la notizia” Le chiedo: “chi l’ha data?”. “Me lo ha detto
Giovanna (la nostra vaticanista) l’ha sentita dal Papa in persona...in
Latino. Chiamo Giovanna: “che succede?”. Lei, che tra l’altro è una collega
bravissima e molto cattolica, è totalmente sconvolta perché è per lei una
notizia importante ma anche personalmente coinvolgente.
Fortunatamente lei aveva fatto bene il classico, (non come me) e aveva
sentito il Papa pronunciare la famosa frase, lascio per età avanzata
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(“Ingravescentem aetatem”). Io non mi fido, tento una verifica con le
fonti vaticane, ma niente, silenzio. A quel punto scelgo: pubblico la
notizia. E mi va bene.
E il più grande rimpianto?
Ero un giovane cronista parlamentare, a un certo punto (seconda metà
degli anni Novanta) fu creata una Commissione bicamerale per le riforme
costituzionali. Una sera eravamo tutti a caccia di notizie. All’epoca la
caccia di notizie era fatta con i motorini, cioè si andava col motorino
dietro ai politici tipo Craxi (prima) e Berlusconi (poi) per vedere dove
andavano e se ci fosse aria di incontri importanti. Quel giorno girava la
voce che ci sarebbe stata una cena importantissima tra i principali leader
politici per decidere se fare un accordo sul testo della riforma della
Costituzione, una roba enorme. Io avevo un motorino e mi ero appostato
sotto casa di uno dei personaggi che sicuramente avrebbe partecipato a
questa cena, era Cesare Salvi, ex comunista. Solo che a un certo punto mi
finì la miscela e io me lo persi, tra l’altro a pochi chilometri di distanza
dalla meta. La riunione (ma io non lo sapevo) era a casa di Gianni Letta,
braccio destro di Silvio Berlusconi. Per sicurezza chiamai personalmente
Letta: “gira voce di una riunione importante”, e lui:” ma no, non è ancora
il momento, ti saluto” e attaccò il telefono. Il giorno dopo mi sveglio e sul
Corriere della sera leggo un titolo a tutta pagina: “Il patto della
bicamerale”. Si erano visti a casa di Gianni Letta, e il mio direttore mi
spellò vivo.
Dal saluto del direttore Contu traiamo due insegnamenti, il primo è non
fidarsi mai fino in fondo dei politici, il secondo è: controllare sempre la
riserva del motorino.

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XI.2 Andrea Cangini
6 novembre 2023
Andrea Cangini alla Sapienza. Cangini nasce come giornalista politico-
parlamentare. Diventa nel 2014 direttore del Quotidiano Nazionale
(Resto del Carlino-Nazione-Il Giorno). Viene eletto nel 2018 Senatore
della Repubblica. Dal 2023 è Segretario generale della Fondazione Luigi
Einaudi.

Dario Laruffa
Il tuo libro, CocaWeb, una generazione da salvare, si presenta così: “Per la
prima volta nella storia dell’umanità le nuove generazioni mostrano un
quoziente di intelligenza inferiore a quello delle generazioni che le hanno
precedute. Calano le facoltà mentali dei più giovani, aumenta il loro
disagio psicologico”. Lo dicono gli inguaribili nostalgici dei “bei tempi che
furono”?

Andrea Cangini
Lo dice la realtà. È vero che storicamente ogni generazione adulta,
rimpiangendo il proprio tempo, ha considerato le generazioni successive
non all’altezza della propria, con conseguente piagnisteo colossale che va
avanti da alcuni millenni.
Qualcosa è cambiato però. La tecnologia ha sempre prodotto enormi
cambiamenti, ma mai come in questo caso, come per la rivoluzione
digitale nella quale i cambiamenti sono stati profondi, rapidi e ad ampio
raggio in un fenomeno globale a tutti gli effetti.
Tra i tanti cambiamenti, l’uso dei social e dei videogiochi sta intaccando le
capacità mentali dei più giovani; forse sta intaccando anche le nostre, è
una droga anche per noi più adulti, ma sui più giovani il danno è
irreversibile.

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Questi sono i risultati di un’indagine conoscitiva che promossi in
Commissione Istruzione del Senato, proprio sul tema: “l’impatto del web
nei processi di apprendimento dei più giovani”.
Abbiamo invitato psicologi, psichiatri, neurologi, pedagogisti, esperti delle
forze dell’ordine, grafologi (poi parleremo dell’importanza della scrittura
a mano e della lettura su carta) che avevano studiato il fenomeno e
hanno prodotto una rappresentazione veramente drammatica del
problema.
Con dati in crescita: le difficoltà d’apprendimento negli ultimi 7 anni sono
aumentate del 357 per cento, i casi di disgrafia del 164per cento i
tentativi di suicidio delle ragazze (in modo particolare) sono raddoppiati,
quelli dei ragazzi sono aumentati del 30 per cento e sono aumentati i
disturbi alimentari, gli attacchi di panico, l’ansia, la depressione.
Sono fenomeni che ci sono sempre stati (presumibilmente) nel mondo
giovanile, un tempo non venivano censiti, quindi, bene che le cose oggi
abbiano un nome.
Ma il dato nuovo ci dice che quanto più tempo passiamo attaccati allo
schermo di un computer tanto più le nostre facoltà mentali si
indeboliscono e la nostra autostima si incrina.
Cambia la percezione di sé stessi.
Se tu guardi Instagram, tutti sembrano felici. Tutti sembrano nel pieno
della vita con potenzialità immense. Ma non è così, il più delle volte si
mente anche nel rappresentare sé stessi sui social, e questo genera un
sentimento di frustrazione: se hai 100 amici ne vorresti 200, se ne hai 200
ne vorresti 2000 e così via…
Ricerca dell’Università di Oxford nel Regno Unito: quanto più le ragazze
stanno su Instagram a 13, 14, 15 anni tanto più a 18, 19 e 20 tenteranno il
suicidio o cadranno in depressione. Sono dati oggettivi purtroppo.
È evidente che la spiegazione di fenomeni così ampi e complessi non può
mai essere univoca.

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Si combinano la fine di ogni autorevolezza; la crisi della famiglia;
l’indifferenza rispetto alla politica che era un forte motivo di aggregazione
e che dava identità alle persone, magari dava una prospettiva spesso
ingenua, illusoria, ma la vita è fatta anche di illusioni e di ingenuità.
Tutto questo non c’è più, e anche questo contribuisce a creare quel
disagio e quel malessere che, soprattutto nei giovani, oggi mi sembra a dir
poco allarmante.
In Senato abbiamo usato per lo più ricerche internazionali, non ci siamo
rivolti solo all’accademia italiana. Ne è venuto fuori un capovolgimento:
per 50 anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale, guardavamo oltre
oceano, agli Stati Uniti, a Occidente. Volevamo capire come saremmo
diventati, si diceva: oggi i ragazzi americani sono così, tra 3 anni così
diventeranno i nostri ragazzi.
Da alcuni anni a questa parte dobbiamo guardare a Oriente e questo è un
inedito assoluto: il Giappone, la Corea del Sud, la Cina. Cioè i paesi dove la
tecnologia digitale si è prima affermata e poi più capillarmente diffusa e
dove il fenomeno a tutti gli effetti viene affrontato come un fenomeno di
dipendenza. Ci sono 400 centri in Cina, ci sono un milione di hikikomori in
Giappone, (gli hikikomori sono quelli che vivono in disparte) non sono
solo ragazzini, ma anche trentenni chiusi nelle loro stanze perennemente
a contatto con una realtà che è solo virtuale, ma che ormai è prevalente.
Il virtuale è più vero del reale ormai, la vita che si consuma in rete
influenza la nostra vita quotidiana molto di più di quello che facciamo
nella realtà paradossalmente. Ed è per questo che governare la rete è
un’urgenza.
Ragazzi, vi sentite per qualche verso dentro questa descrizione?
(Studentessa1) Io non conosco persone con questi problemi estremi, però
mi chiedo, problemi del genere non colpivano anche le generazioni
passate?
Si c’erano, ma venivano difficilmente censiti. Le malattie mentali erano
una cosa di cui era brutto parlare, quindi non se ne parlava: Gli psicologi
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erano una categoria che sembrava riguardare solo gli adulti, e forse anche
questo contribuisce a rendere impressionanti i numeri di oggi.
Ma è indiscutibile che da quando le consolle e i videogiochi sono entrate
nelle stanze dei ragazzini e da quando gli smartphone sono entrati nelle
nostre disponibilità, tutti questi problemi, anno dopo anno in tutto il
mondo, senza differenza tra Occidente e Oriente, crescono in maniera
esponenziale.
Coca web perché i neurologi ci hanno spiegato che l’attività che
soprattutto i più giovani fanno sul web (videogiochi, social, visione
compulsiva di video) genera a livello cerebrale gli stessi meccanismi della
cocaina, tali e quali.
Si incoraggia il cervello a rilasciare un neurotrasmettitore che si chiama
dopamina, che è quello che trasmette la sensazione del piacere. Ed è per
questo che poi è difficile trovare delle alternative soprattutto per i ragazzi
più giovani, ed è per questo che per i genitori è così difficile staccarli dal
telefonino. Perché è come dire a un cocainomane: “guarda qua hai un
chilo di cocaina, però ne devi usare soltanto mezz’ora al giorno, poca
poca, gestiscila”. Non ce la farà, perché è un drogato.
Quando (incoscientemente) i genitori danno uno smartphone a un
bambino che ha meno di dieci anni, per esempio, generano reazioni
isteriche quando al bambino tolgono lo Smartphone o la consolle dei
videogiochi.
Questo non succedeva con la televisione, per esempio, la televisione era
un elettrodomestico (un tempo una per famiglia) fermo in un certo luogo,
si accendeva e si spegneva (in merito potevano nascere piccole
polemiche…) e finiva lì.
Lo smartphone viene percepito come un'appendice del proprio corpo,
togliere lo smartphone ad un adolescente, è come amputargli un arto: lui
la vivrà così.
Fate la prova, lasciate il telefono a casa per vedere come vi sentite nelle
prime ore e nei primi giorni; vi sentirete a disagio, sentirete che vi manca
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qualcosa; e voi non siete dipendenti (auspicabilmente) pensate a una
persona che ci sta sette ore al giorno. Le statistiche, infatti, ci dicono che
la media di fruizione di questi strumenti è sei ore al giorno; è tanto ed è
tempo sottratto alla vita, a tutto il resto, che spesso non dà però lo stesso
piacere.
Scelgo alcuni fra i mille dati citati nelle ricerche che hai utilizzato, non
necessariamente i più importanti. L’82 per cento degli studenti di scuola
media negli Stati uniti non è in grado di distinguere su un sito una notizia
da una pubblicità. In Europa il tasso di miopia è dell’1 per cento ma tra i
giovani oscilla tra il 30 e il 50 per cento. In Corea del Sud, primo
produttore di smartphone, è al 95 per cento. Nel 2008 l’Australia ha
investito 2,4 miliardi di dollari sulla digitalizzazione dell’istituzione, negli
anni successivi tutti i parametri sull’apprendimento hanno registrato un
significativo calo. West Point, la mitica accademia militare americana:
ricerca su 726 allievi divisi in due classi.
Parto dalla fine. West Point è un’accademia militare americana molto
ambita, molto selettiva, chi ha la fortuna di riuscire a entrare studia con il
massimo dell'impegno possibile. Hanno diviso un corso in due classi; una
classe l'hanno fatta studiare soltanto con strumenti tradizionali, carta e
penna, l'altra soltanto con strumenti digitali, iPad e simili; alla fine del
semestre li hanno messi alla prova con lo stesso schema di esame, e chi
ha studiato con carta e penna ha avuto risultati mediamente del 20-25
per cento superiori a quelli degli altri.
Scrivere a mano intorpidisce i polsi ma fa bene alla mente e alla salute?
Dati che balzano fuori da tutte le ricerche. Quando si scrive a mano si
attiva una parte del cervello che se non scrivi a mano non si attiva. Il
cervello è un muscolo, smette di svilupparsi a 25 anni e nella fase tra i 10
e i 14 anni d’età assume la forma principale. Se tu fino ai tuoi 25 anni non
scrivi a mano in corsivo, non si sviluppa la parte del tuo emisfero sinistro
del cervello, quella che sottintende al pensiero logico-lineare, il pensiero
che tanto ci manca in quest'epoca fatta di emozioni, di sensazioni e non di
razionalità.
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Quindi non scrivere in corsivo ti lascia ancora di più in balia del clamore
dei social, fatto per suscitare emozioni perché tutti gli algoritmi sono
programmati per tenerti inchiodato lì il più possibile, perché è un
business, più stai attaccato al web più loro guadagnano.
E come fanno a farti stare attaccato al web? Facendo leva sul peggio che
c'è in ciascuno di noi: la tendenza all'aggressività, sul social funziona la
logica oppositiva, se parli bene di una persona ti seguono in 5, se parli
male ti applaudono in 100; la superficialità, più sei superficiale più sei
efficace, più affronti la complessità del mondo e dei temi e meno sei
comprensibile; la polarizzazione, anche in politica, si sta perdendo quello
spazio mediano tra l'estremista di destra e l'estremista di sinistra, che è lo
spazio naturale dove la politica si compie, perché la politica è mediazione,
compromesso; se manca lo spazio mediano rimangono un'esibizione di
demagogia di destra, un esibizione di demagogia di sinistra,
un'inconcludenza totale che genera frustrazione crescente nell'elettore.
Una generazione perduta?
Una generazione depotenziata; Luigi Einaudi diceva che la società sana è
quella in cui ciascuna persona – non lo Stato, la società - la persona è
quella che conta e va messa nelle condizioni di sviluppare al massimo le
proprie potenzialità.
Mi hanno molto colpito i risultati degli ultimi test Invalsi. Mi pare il 50 per
cento dei ragazzi che arriva alla maturità - ragazzi di 18 anni - non sia in
grado di comprendere un testo scritto complesso; diciotto anni!
È chiaro che poi avrai classi dirigenti fragili; il mondo non è mai stato così
complesso, i problemi ormai sono globali, mai come oggi ci sarebbe
bisogno di capacità di attenzione e di studio e di conoscenza.
La capacità di attenzione è un'altra cosa che sta svanendo, così come la
memoria e lo spirito critico. I ragazzi di oggi spesso faticano a seguire –
questo dicono i numeri – anche una partita di calcio; non solo non
riescono a leggere un libro perché non ne hanno voglia o non hanno
capacità di concentrazione per più di x minuti sullo stesso tema, non
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riescono a fare nemmeno le cose che più piacciono, una partita di calcio:
guardano sostanzialmente solo le azioni clou.
I problemi fisici – che sono tanti: obesità, diabete, miopia – possono
essere risolti. i limiti delle capacità mentali invece non li potrà curare
nessuno. Senza pensare allo stato di angoscia, alle malattie psicologiche
che nascono dall'abuso del web devastano la vita dei ragazzi e di chi sta
loro intorno. È ovvio, chiarisco, stiamo parlando solo del lato negativo
nell’uso dei social e della rete.
(Studente 2) Secondo me è sbagliato fare di tutta l'erba un fascio. Io leggo
quotidiani e libri, ma sono anche un utilizzatore quotidiano di web,
consolle, eccetera, e penso di trovare un equilibrio. Sono un fuorisede e la
via del web mi permette, a sera, di parlare con i miei amici, mi fa felice. La
rete ti offre anche tante possibilità lavorative. Magari invece i giovani si
rifugiano nel web perché il mondo reale ci è stato lasciato un
po’”maltrattato”.

Hai ragione, ma Andrea Cangini parla di abuso del web, non di uso del
web.

(Studentessa 3) La nostra generazione si è salvata per un pelo, siamo


anche noi dipendenti dai social o da internet ecc.… però abbiamo ancora
la capacità mentale di dire “adesso basta, mi leggo qualcosa, esco e faccio
qualcos'altro”. Io ho notato che invece la generazione dopo la nostra –
ragazzi del liceo e medie – è completamente coinvolta.
Tenete anche conto del fatto che voi siete privilegiati; è una minoranza di
vostri coetanei che arriva a poter fare l'università, mentre il fenomeno
danneggia soprattutto chi parte svantaggiato, chi non studia, chi cresce
senza presenze familiari solide, chi cresce senza che i genitori diano le
alternative al videogioco: lo sport, un viaggio...

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Un passo indietro: l’85 per cento dei bambini delle nostre scuole
elementari non sa tenere correttamente in mano una penna. Chi lo dice e
cosa significa?
Ripeto che non sto esprimendo solo opinioni personali. L'Organizzazione
Mondiale della Sanità, la Commissione Europea, molte autorità
internazionali sono arrivate alle stesse conclusioni. Il settimanale
Economist è uscito di recente con un inserto speciale sull'importanza della
scrittura a mano e la lettura su carta, la Svezia ha eliminato totalmente
dalle scuole primarie ogni sistema tecnologico, in otto stati americani si
sta ragionando sul fare la stessa cosa, La relazione sulla indagine che feci
condurre al Senato fu approvata all’unanimità, evento rarissimo in questi
tempi politici. Si può discute su come affrontare il fenomeno, ma il
fenomeno esiste, ve lo assicuro.
(Studente 4) Una certa politica dagli ultimi 10 anni si è fatta interamente
sui social. E qui non c’entrano le nuove generazioni. La politica non
dovrebbe cambiare modo di comunicazione per dare un buon esempio?
I politici sono cinici per definizione, guardano al risultato, se hanno
l'impressione che utilizzando i social nella maniera più spregiudicata
possibile si ottengano risultati, utilizzeranno i social nella maniera più
spregiudicata possibile. Io li usavo come un uomo del Novecento, scrivevo
articoli sui giornali e li postavo, che era una cosa demenziale, totalmente
inutile. Non fanno così i veri professionisti della politica. Salvini, ad
esempio, ti tiene attaccato lì con una narrazione continua che è una
specie di palinsesto della sua vita, della sua giornata; dal piatto di
maccheroni fumante all'invettiva su un tema che magari è marginale, ma
funziona così. Il primo ad utilizzare i social in maniera massiccia è stato
Obama, nella sua prima campagna presidenziale. La metà degli elettori si
informa esclusivamente sui social ormai, impressiona, considerando la
difficoltà di discernere tra vero e falso e la facilità con cui ciascuno di noi è
adescato in dinamiche demagogiche ed esorbitanti. Ma certo non è colpa
vostra, in questo caso è la politica...

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(Studentessa 5) Forse potrebbe essere utile offrire ai giovani svantaggiati
la possibilità di accedere ad attività extra-curriculari come e la danza, la
musica, lo sport, attività che ti permettono, non solo di imparare
qualcosa, ma anche di relazionarsi con le persone. Sono però attività a
pagamento, alcune volte estremamente costose, quindi, forse una riforma
sociale potrebbe essere quella di garantire economicamente queste
opportunità a un maggior numero di persone, come alternativa per le
future generazioni, invece di ricercare nei social un’evasione dalla noia o
dalla quotidianità.
Tre possibili soluzioni.
Uno: conoscere il problema, cioè parlarne il più possibile e guardarlo nella
sua complessità.
Due: si hai ragione, dare delle alternative ai giovani. Per esempio, si parla
da tempo, cosa che soltanto in alcune province avviene, di tenere le
scuole aperte il pomeriggio perché diventino un polo di aggregazione
anche per fare altro: per fare sport, per fare teatro, per approfondire
degli interessi.
Tre: servono delle regole. Ci sono tante norme che noi consideriamo
normali, giuste e legittime nel mondo reale che però non concepiamo nel
mondo virtuale.
Se io ora esco da qui con un passamontagna in testa e senza un
documento d’identità compio due reati, uno perché c’è una norma che
dice che il volto deve essere riconoscibile, il secondo perché una norma
obbliga qualsiasi cittadino a girare con un documento d’identità.
Per quale ragione sul web puoi girare con il passamontagna e nessuno
può riconoscerti?
C’è una norma che dice che se ti iscrivi ai social network devi farlo con un
documento d’identità, ma nessuno l’ha mai applicata.
C’è una norma europea che dice che se hai meno di 16 anni non ti puoi
iscrivere ad un social network, erano chiaro a tutti i danni possibili su
menti ancora in formazione.
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Ogni Stato l’ha recepita a modo suo, il parlamento italiano l’ha recepita
abbassando il limite dai 16 ai 13 anni. Il risultato: l’87 per cento dei minori
di 13 anni è iscritto ad un social network.
Perché più delle volte sono i genitori a mentire per conto dei figli, per non
affrontare quel conflitto di cui parlavamo prima.
Aggiungo una cosa: questi sono discorsi che la politica non fa volentieri
anzi non fa affatto per due ragioni: siamo di fronte alla lobby più potente
della storia dell’umanità; poche persone, una dozzina di persone, hanno
un potere economico e di condizionamento delle coscienze che mai
nessuno nella storia umana aveva avuto. Seconda ragione: la politica
teme di alienarsi le simpatie dei giovani.
Una delle nostre ragazze sta prendendo appunti a penna. Buon per lei?
Alla fine di questa giornata avrà meglio chiare degli altri le cose su cui
abbiamo ragionato; mentre scrivi l’appunto, non solo scrivi quello che
ascolti, ma il tuo cervello collega quello che stai scrivendo a quello che già
sai. È un lavoro che va molto oltre il semplice registrare e sintetizzare. La
stessa lezione, tenuta dallo stesso insegnante con le stesse parole, se la
vedi in video cogli il 30 per cento in meno; anche questo è il risultato di
diverse ricerche, prevalentemente americane.
Una vita da giornalista, prima da cronista, poi da direttore. Cosa pensavi
allora dei politici.
Non ho mai avuto una tessera di un partito, ho sempre ritenuto di fare
politica come soggetto della società civile. Però quando dirigevo un
giornale caldamente raccomandavo ai miei giornalisti di non usare la
parola “casta”. A me l’antipolitica fa orrore tanto quanto la bassa politica,
la retorica contro i politici è dannosissima per il Paese tanto quanto la
cialtronaggine di alcuni politici.
Gaetano Salvemini, grande storico, uomo politico dei primi del secolo
scorso diceva: “l’élite politica rappresenta per il 10 per cento il meglio
della società, per il 10 per cento il peggio; il resto è lo specchio della

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società nel momento in cui si svolgono le elezioni”, ed è così, che ci
piaccia o no.
Oggi la qualità del ceto politico è infame, ma lo potremmo dire dei
giornalisti, lo potremmo dire dei medici, lo potremmo dire degli avvocati,
di tanti professionisti. C’è uno scadimento, viviamo un’epoca cialtrona
purtroppo. Al politico non gliela perdoni, giustamente, perché su di lui
gravano responsabilità che vanno oltre la sua professione, ma non è
giusto, è un po’ autoassolutorio, prendersela soltanto con il ceto politico.
E da senatore cosa pensavi dei giornalisti?
Mi vergognavo un po’ di essere diventato un politico e continuavo a dire
che facevo il giornalista, anche se ho mai avuto un’opinione alta della
categoria giornalistica.
Una mia vicina casa, finché facevo il giornalista e mi vedeva in Tv, mi
considerava il suo eroe. Poi vengo eletto, e in tempo di lockdown mi
attrezzo sul terrazzo condominiale perché non ho uno studio personale,
mi metto a lavorare lì, seduto non a ballare il tiptap. La vicina esce in
vestaglia e intima: “voi politici, con tutto quello che lei guadagna, se lo
compri un attico, io non voglio sentire i suoi passi sulla mia testa”.
La stessa persona era lei, la stessa persona ero io, ma il fatto di essere
diventato un politico cambiavo tutto.
Dei giornalisti ho visto molto i limiti, si seguono le agenzie di stampa,
raramente si ha la forza redazionale per lavorare su qualcosa di inedito.
Consigli per riconoscere una notizia vera da una bufala nel grande mare
della rete.
È sempre più difficile perché ormai l’informazione è orizzontale, non è più
mediata; il fruitore di questa informazione disconosce le autorità,
tendenzialmente mette sullo stesso piano il blogger, lo youtuber e il
Premio Nobel.

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Sempre più difficile riconoscere le fake news e soprattutto ci rifiutiamo di
ammetterlo perché è molto più piacevole credere nel complotto: le balle
sono più seducenti della verità quasi sempre e per questo funzionano.
Una ricerca del Mit di Boston dice che su Twitter le notizie false si
diffondono 6 volte più velocemente delle notizie vere. Perché? Perché
sono più gustose.
La carta stampata ha ancora un futuro?
Si, ma piccolo. I libri reggono, grazie a Dio; gli e-book non hanno
conquistato fette di mercato significative.
I quotidiani assai meno. Mancano le edicole, i luoghi fisici dove acquistare
giornali; i giovani non ne conoscono l’esistenza, non sanno che esistono le
edicole tanto poco le frequentano.
Negli ultimi 10 anni ha chiuso il 50 per cento delle edicole e son chiuse
soprattutto la domenica che tradizionalmente era il giorno in cui si
leggeva di più e quindi si vendeva di più.
I giornali resteranno come fenomeno di nicchia ma l’informazione è
destinata a trasferirsi in blocco, ancor più di quanto non sia già successo,
sul web o in video e per video non intendo solo la televisione.
Quel che ti ha reso più orgoglioso, sinora, nel tuo percorso da giornalista.
Forse una piccola cosa di legame con il territorio.
I giornali che dirigevo son giornali molto territoriali, anche se avevano un
peso nazionale, e il resto del Carlino era forse quello più territoriale di
tutti. A Bologna c’è la Fontana del Nettuno a Piazza Maggiore, il simbolo
di Bologna, lo chiamano il gigante, come una specie di padre per il
bolognese ideale. Era in condizioni pietose. Ho avviato una raccolta di
fondi, occorrevano un sacco di soldi, ma in pochissimo tempo ci siamo
riusciti grazie alle piccole contribuzioni di ragazzini, le scuole, i tassisti.
Io credo molto nel potere dei simboli, ripristinare (attraverso il giornale) il
simbolo di Bologna con il contributo dei singoli cittadini mi è sembrata
una cosa meravigliosa.
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Il momento invece nel quale ti sei sentito più in difficoltà.
Da direttore tutti i giorni, vissuti tutti in totale apnea. Ma il momento
peggiore è stata una assemblea di redazione. Avevo minacciato, parlando
con l’editore, di dimettermi, perché l’editore voleva imporre tagli, voleva
chiudere la redazione romana, voleva accorpare le cronache locali
distruggendole e minando l’identità.
Tengo il punto, limito al massimo i danni, ma il capo del sindacato interno
ha ambizioni nazionali e riesce a farmi votare contro dalla redazione.
Fatico ancora a ricordare a me stesso quel voto. E forse anche per questo,
ripeto forse, dopo ho fatto altro.
Un suggerimento a una ragazza o a un ragazzo che sognino oggi di fare il
giornalista.
Ripensaci? No, seriamente. Però va vista non più per quello che era
ancora sino a un poco di anni fa: una bellissima professione eccitante e
avventurosa.
Va bene se uno ha una vocazione vera e propria, un qualcosa di simile a
una spinta artistica irrefrenabile. Va vista come, voglio fare il poeta, voglio
suonare l’oboe.

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XI.3 Alessandra Sardoni
13 novembre 2023
Alessandra Sardoni alla Sapienza. Alessandra Sardoni è una giornalista.
Inviata e notista parlamentare per il telegiornale de la7. Conduttrice del
programma Omnibus. È stata la prima donna presidente
dell’Associazione Stampa Parlamentare.

Dario Laruffa
Hai scelto di cominciare a raccontare la politica, per caso, per vocazione o
perché è considerato in un giornale il servizio “che conta di più”?

Alessandra Sardoni
Per un mix di queste ragioni. Sicuramente per caso, perché non ero per
niente interessata alla politica, nonostante fossi della generazione del
liceo Mamiani di Roma nel 1978. Anni di grande impegno politico tra i
licei romani, ma io ero completamente passata indenne fra tutto questo,
non avevo alcun interesse per la politica e volevo fare la giornalista di
cultura, anzi, in particolare, volevo fare il critico di Balletto.
Dopo la laurea in Lettere e Filosofia del linguaggio ho cominciato a
lavorare in un piccolo telegiornale, il telegiornale di Videomusic. La legge
Mammì nel 1990 rendeva obbligatorio per tutti i canali tv avere un
telegiornale. Era una redazione di giovani e io mi occupavo di cultura, e
anche di esteri perché non potevi fare una cosa sola. A un certo punto si
creò uno spazio sulla politica. Erano anni veramente molto caldi, erano i
primi anni Novanta, c’era Tangentopoli, una tempesta che tutto
cambiava, poi l’irruzione sulla scena di Berlusconi nel 1994. In quella fase
non bastava una sola persona per seguire la politica e quindi chiesero a
me se lo volevo fare.
Risposi: “va bene, proviamoci, facciamo questo tentativo”; poi è stato
tutto appassionante, perché ho capito che la politica mi interessava
moltissimo e che era importante occuparsi di qualcosa “che conta”. Ho
faticato anche tanto, perché non avevo fatto Scienze politiche, non avevo
fatto Giurisprudenza, non avevo una formazione politica giovanile o
un’appartenenza; ho dovuto colmare tante lacune, studiare e trovare dei
modi per studiare e approfondire, ho cominciato anche a leggere in modo
diverso i giornali.
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“Ho cominciato a leggere in maniera diversa i giornali” …spieghi?
Credo che sia una cosa molto importante. I giornali hanno come dei
“sotto testi” che bisogna imparare a riconoscere. Ad esempio, riguardano
chi scrive cosa, dove, su quale giornale, in quale pagina. Quando leggo
una notizia vado a capire: chi la scrive? Un giornalista che di solito si
occupa di economia o di politica? Un cronista o un editorialista? Hanno
importanza le persone di potere che sono citate: il potere ha delle sue
regole, dei suoi nomi, ci sono delle appartenenze, devo saper riconoscere
le amicizie e così via. È qualcosa che impari a fare con il tempo e con
l’esperienza.
Sei entrata in parlamento a 30 anni, l’anno di Berlusconi presidente del
consiglio. Che clima si respirava nei confronti di una giovane cronista. Un
po’ di maschilismo fra parlamentari e colleghi?
Sinceramente no, io su questo tema forse vado un po’ controcorrente.
Nella mia esperienza non mi è mai capitato di trovarmi in difficoltà o di
subire qualche tipo di discriminazione perché sono donna. Forse perché
all’inizio appartenevo a un’altra “categoria generale”, ero semplicemente
nella categoria di “quelli che cominciavano”, giovani erano i ragazzi e le
ragazze.
Magari qualche differenza si avverte nel trattamento economico, anche
se nelle nostre redazioni vi sono carriere costruite da donne retribuite
come gli uomini. Parlo soltanto del nostro campo, perché in altri settori,
lo sappiamo, è molto forte il tema della differenza di genere.
A proposito di Berlusconi, credo di essermi riuscita a inserire nel
giornalismo politico anche perché c’è stata la grande rottura dell’arrivo di
Berlusconi e della fine di una classe di una classe politica con la quale
sarebbe stato difficile avere rapporti per me che cominciavo da zero. È
successo di nuovo al tempo del primo successo dei Cinque Stelle: tanti
colleghi che avrebbero avuto un accesso difficile al giornalismo politico
hanno trovato meno difficoltà quando sono arrivati i Cinque Stelle;
nessuno conosceva questi nuovo parlamentari, e quindi tutti si son dovuti
creare da zero le fonti, anche i vecchi cronisti. E avere le fonti delle notizie
è l’elemento fondamentale. Quando arrivò Beppe Grillo, lo conoscevano i
colleghi degli spettacoli, non i cronisti parlamentari, che, così, finirono per
ritrovarsi tutti alla pari.
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E adesso? Nel frattempo, sei stata la prima donna presidente dei
giornalisti parlamentari. Giornalisti uomini e politici (uomini e donne)
hanno un atteggiamento di sufficienza nei confronti delle donne?
No, onestamente no. Subivo un atteggiamento di sufficienza quando
lavoravo al telegiornale di Videomusic. C’erano questi politici (maschi e
femmine) che dicevano ‘’ma che devo fare, devo cantare?’’ No, è un
telegiornale, non devi cantare manco per niente.
Ti si ammira, durante le maratone tv condotte dal tuo direttore Mentana,
mentre guardi il telefonino e leggi notizie esclusive che ti confidano in
diretta i protagonisti di quell’evento politico. Quale è il percorso? Come le
ottieni?
È una sfida con sé stessi. Come sapete il bravo giornalista non è soltanto
quello che dà la notizia ma è anche quello che la dà prima degli altri. La
cosa importante è immaginare il compito del giornalista durante la diretta
radio-televisiva come il compito di qualcuno che in ogni collegamento
dice una cosa in più che scova da solo. Questo significa che devi (ancora
una volta) fare un lavoro sulle fonti (cioè sapere a chi telefonare). È un
processo preparato da tutto quello che hai costruito in precedenza (ad
esempio nei servizi per i telegiornali), dai rapporti che hai costruito con i
politici, e non necessariamente direttamente con i politici, anche con i
loro staff o con persone delle loro aree culturali di appartenenza.
Un esempio concreto. Ai tempi della nascita del governo Draghi feci in
diretta un piccolo scoop: diedi la prima di tutti la lista dei ministri. Avevo
avuto questi nomi non da una fonte politica, ma da una persona che era
vicina al mondo di Draghi, che avevo chiamato una settimana prima per
chiedere: ‘’secondo lei che aria tira, secondo lei potrebbero essere questi
i ministri?’’. Alla prima telefonata non rispose, alla seconda ebbi i nomi
giusti.
Mi sono fidata perché sapevo quanto questa persona fosse vicina a
Draghi, naturalmente sino alla lettura ufficiale della lista ho avuto un gran
batticuore…Un colpo di fortuna, ma preparato attraverso il lavoro.
Un ragionamento di fondo: se sei lontano dai politici non hai le notizie, se
sei troppo “pappa e ciccia” non sei più credibile e sei solo un loro
strumento.
È il cuore del problema. Quanto devo temere la contiguità con il potere
politico e con i politici, da giornalista? Perché tutti noi dobbiamo
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conservare il bene più prezioso che è la nostra autonomia e obiettività,
aldilà del fatto che poi tutti abbiamo delle opinioni.
Serve un incrocio delle fonti. Serve da una parte il rispetto; ovvero, io
devo rispettare anche un politico di cui non condivido le idee e da tutti i
politici devo farmi rispettare. Devo concedere rispetto e nello stesso
tempo non devo fidarmi. Mi faccio rispettare quanto più non sono servile
nei suoi confronti. Il politico capisce se tu punti a ottenere qualcosa da lui
magari per fare carriera o magari per un pizzico di visibilità in più.
Se ti dice una cosa un politico vicino a Giorgia Meloni, devi sentire anche
uno dell’opposizione che si occupa di quell’argomento: incroci e vai a
verificare.
Altro punto fondamentale: devi tentare di saperne di più del politico al
quale chiedi qualcosa, anche una semplice dichiarazione volante al
microfono, vecchia scuola anglosassone. Se io devo fare una domanda
sull’immigrazione e l’Albania, devo sapere come funziona il patto con
Tirana, altrimenti mi possono far credere quello che vogliono.
Certamente posso anche cercare di essere simpatica e gradevole, di
stabilire un rapporto; questo perché comunque una relazione di lavoro si
basa anche su un contatto umano. Ma entrambi dobbiamo sapere che se
il politico ti dice una stupidaggine io lo dirò, se una legge ha un elemento
sbagliato io lo dirò; e lui deve saperlo.
Sempre alle prese col potere. Hai capito se il potere vero risieda nel
mondo della politica o in quello dell’economia, o altrove?
Non c’è una risposta univoca. Ci sono vari livelli di potere: c’è il potere che
sta sul palcoscenico e il potere che sta dietro le quinte. Un potere che
risponde in modo evidente ed è più responsabile, e un altro che sta sotto,
meno identificabile.
Sicuramente la politica e i politici, intesi come il Parlamento, hanno perso
potere negli ultimi anni e lo hanno perso per varie ragioni: per l’impatto
sull’opinione pubblica e per l’azione di alcune forze populiste antisistema.
Si è diffusa nell’opinione pubblica l’antipolitica, e ciò ha ridimensionato il
ruolo del Parlamento.
Si è affermata la personalizzazione delle leadership. Oggi non pensi più al
partito “Fratelli d’Italia; ormai li chiamiamo i “Meloniani”, ad esempio,
chiamavamo “Grillini” il Movimento Cinque Stelle. La personalizzazione
della politica ha indebolito i partiti e ha indebolito anche i gruppi
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parlamentari, in virtù della legge elettorale che consegna ai leader di
partito il grande potere di selezionare la classe dirigente e le liste
elettorali.
Poi ci sono i poteri che stanno sotto: sono molto forti. Per esempio, la
Ragioneria regionale dello Stato. Sapete come si chiama il Ragioniere
generale dello Stato? (silenzio in aula ndr).
Si chiama Biagio Mazzotta, è un signore molto potente; se Giorgia Meloni
gli chiede di spendere un sacco di soldi attraverso una legge, se i non
tornano i conti, lui dirà: “No, non te la ‘bollino’. Non metto nessun
timbro, non si può fare”.
E rimane molto rilevante anche il potere della magistratura.
La comunicazione dei politici è cambiata radicalmente, anche in parallelo
ai tempi e alla loro statura, direi. Da relazioni complesse e articolate
(punti politici di partenza e di arrivo) a una pioggia quotidiana di
esternazioni sui social media.
La politica ha perso la radice contenutistica forte che le davano le
ideologie, nel bene e nel male. C’era una visione di futuro che era legata a
una destra, a una sinistra, al socialismo, al marxismo, all’idea cattolica,
alla cultura liberale.
Le ideologie tenevano insieme i partiti, i quali dovevano elaborare poi le
loro politiche facendo riferimento anche a questa cornice di idee. Era
un’elaborazione anche intellettuale molto più forte, ed era difficile ai
tempi della prima Repubblica “saperne più di un politico” perché quella
era una classe politica composta essenzialmente da giuristi, da professori,
oggi non è più così.
Oggi c'è una tendenza alla semplificazione di tutto, al bianco e nero, al
vero e falso. E, in parallelo, è cambiato il modo di giornali e giornalisti di
raccontare questo diverso modo di comunicare.
Centro-destra e centro-sinistra. C’è una differenza “genetica” nel loro
modo di rapportarsi con la stampa?
Genetica no, perché poi alla fine tutti rompono le scatole, sulle stesse
cose. L'ufficio stampa di un partito vuole che tu inviti in quel programma
la persona che dicono loro, destra-sinistra, tutto è uguale. C'è una
tendenza degli uffici stampa a scavalcare il cronista, a parlare
direttamente con il direttore, a romperti le scatole su quello che hai
scritto in un articolo. Da sempre è così. Ci sono non differenze fra destra e
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sinistra, ma di singoli portavoce. Tra l'altro oggi c'è un fenomeno che era
sconosciuto ai nostri tempi; prima il portavoce di un partito nasceva e
moriva dentro quel partito. Oggi invece trasmigrano, c'è una inedita
professionalizzazione “apartitica” del ruolo di portavoce e degli staff.
Berlusconi, Prodi, Renzi, Conte, mondi agli antipodi, ma poi così tanto nel
rapporto con la stampa?
Con Berlusconi era difficile perché voleva dirigere. Magari mostrava
un’apparente bonomia, però a me per esempio è capitato (ed è una delle
cose per la verità di cui vado anche fiera) che il suo portavoce storico
chiamasse uno dei direttori con i quali ho lavorato, che ora non c'è più,
Giulio Giustiniani, per chiedergli di rimuovermi.
Io seguivo Palazzo Chigi, ero la cosiddetta “chigista”, Berlusconi non
voleva che lo seguissi perché gli davano fastidio in conferenza stampa le
domande che io facevo e altri non facevano. Non gliene importava niente
poi di quello che io scrivevo su tele Monte Carlo, ma lo infastidiva quando
la domanda andava in onda in un altro telegiornale più seguito. Sono
rimasta al mio posto, ne vado fiera.
Prodi non aveva questo stile assolutamente, aveva degli uffici stampa un
po' lenti, però sicuramente con cui era più facile ragionare, era più dura
con D’Alema.
Renzi si era formato dentro un partito, con successivi innesti di populismo
e di leadership personale.
Conte era arrivato un po’ per caso e aveva come portavoce Rocco
Casalino e con lui era complicato.
Monti e Draghi (pur diversi fra loro) sono stati diversi anche per noi
giornalisti, meglio i tecnici o i politici?
Per certi versi meglio i governi tecnici perché potevano essere un po'
meno politici, però i loro uffici stampa avevano un modo di comunicare
più lineare, più essenziale.
Nel caso di Draghi, per esempio, le conferenze stampa erano rapide,
rispondeva a tutte le domande ed erano risposte brevi anche perché non
aveva il problema di presentarsi alle elezioni, quindi, ci risparmiava la
parte della propaganda.

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La destra alla guida del governo. Come sono nei modi: arroganti, insicuri,
collaborativi?
Dipende dalle persone, anche se c'è uno stile sicuramente. A Palazzo
Chigi, nell'era Meloni, è reale un elemento da sindrome di
accerchiamento, di arroccamento. Una forma di chiusura del gruppo.
Qual è il vero discrimine fra i politici di una volta e quelli di oggi, fra prima
e seconda repubblica.
La vera grande differenza è che quelli di prima parlavano poco, quelli di
oggi parlano sempre. Prima tu stavi appostato ore all'aperto per
incrociare il politico X, perché sapevi che gli potevi fare la domanda solo
in quel momento; quindi, ci dovevi essere tu pronto lì col microfono
sguainato a fare questa domanda.
Oggi gli assalti dei giornalisti che si vedono in tv, spesso sono come dire
più una rappresentazione che un modo per avere delle notizie, perché
ahinoi, i politici comunicano continuamente.
Quando ho cominciato a lavorare al massimo c'era un comunicato, una
nota che usciva ogni tanto, adesso ci sono i tweet, il post, il video, il video
fabbricato. Prima serviva il giornalista per veicolare i contenuti; oggi i
politici ti scavalcano…Meloni col maglione che cammina nella galleria con
le foto dei presidenti. Lo fanno Renzi e Conte.
Abbiamo i telefonini intasati dai portavoce che ci mandano delle
dichiarazioni; accadeva anche in passato, ma non con questa frequenza.
La vera sfida sarebbe non riportare tutto il riciclato, ma solo quel che di
nuovo viene fuori.
La cosa più buffa che ti sia capitata sul lavoro.
Che sono stata salvata. Mi cadde, mentre ero in diretta tv, una specie di
paravento addosso; c'era Zaia, allora era un parlamentare della Lega, oggi
è il governatore del Veneto, che mi salvò tirando su il paravento, una
scena abbastanza improbabile.
L’errore che più ti ha pesato.
Trasmissione in diretta. Io collegata dal Quirinale. Un ospite in studio dice
che il governo vuole spostare la Ragioneria dal ministero dell’Economia
alla presidenza del Consiglio. Io dico, “ma no non è possibile”, e sviluppo
tutto un ragionamento. Non se ne fece nulla, ma aveva ragione l’ospite in
merito alle intenzioni del governo.

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Mi ha sempre seccato un po' questo fatto, non avevo capito, e mi capita
così tutte le volte che non ho capito qualcosa.
Un consiglio a una ragazza o a un ragazzo che voglia fare il giornalista, in
generale, e nel tuo settore.
Leggere, leggere tanto, leggere i giornali, leggere i libri, leggere anche i
documen�. Avete un'opportunità incredibile che quando ho cominciato io
non c'era, che è quella di poter avere sempre a disposizione in rete i
documen� ufficiali. Conoscete anche le lingue sicuramente meglio della
mia generazione, quindi imparate ad andare a leggere quello che c'è
scrito nei documen� della Commissione Europea, nei si� del Parlamento.
E anche il resto, ovviamente.

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XI.4 Lazzaro Pappagallo
29 novembre 2023
Lazzaro pappagallo alla Sapienza. Lazzaro Pappagallo è un giornalista
della Rai. Lavora per la Testata giornalistica regionale (Tgr) nella sede
del Lazio. È un dirigente nazionale della Federazione nazionale della
stampa (Fnsi) il sindacato dei giornalisti; è stato segretario della sua
struttura regionale del Lazio, l’Associazione stampa romana (Asr).

Dario Laruffa.
Oggi parliamo di intelligenza artificiale (AI in inglese) nel suo impatto con
il mondo del giornalismo.
Ricordiamo assieme qualche termine. Chatbot: da Chat (conversare) e Bot
diminutivo di robot. ChatGpt: Generative Pre-trained Trasformer;
letteralmente, Generatore trasformativo pre-addestrato, è una forma di
intelligenza artificiale generativa ad apprendimento automatico (machine
learning).
La domanda di base alla quale tenteremo di rispondere è: è veramente
possibile che l’intelligenza artificiale si sostituisca del tutto alle persone?
Giornali fatti da macchine e non da umani?
Prima di tutto, chi comanda il gioco: quali sono le grandi multinazionali
che hanno in mano oggi l’IA. Negli Stati Uniti: OpenAi, Microsoft, Google,
Meta, Amazon, Tesla, Apple, Nvidia. In Cina Baidu con il suo ErnieBot.
Lazzaro Pappagallo.
Viviamo la più grande crisi del giornalismo organizzato nella storia del
nostro Paese. Viviamo un tempo molto particolare: non c’è mai stato un
così grande afflusso di informazioni, soprattutto in formato digitale, e, in
contemporanea, mai, dal dopoguerra in poi, la nostra professione è stata
così povera.

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Perché i professionisti vengono pagati di meno, perché calano i posti di
lavoro stabili e i produttori di contenuti fanno fatica a piazzare contenuti
rilevanti ben pagati. Non è una considerazione da semplice sindacalista,
uno degli effetti dell’esplodere dell’intelligenza artificiale nel nostro
settore sarà l’ulteriore moltiplicazione dei contenuti in parallelo al tema
della sua sostenibilità economica.
Non si tratta (per ora) di macchine che si alimentano da sole. Servono
ancora degli umani che inseriscono nella macchina i dati. Ma umani
pagati molto spesso mezzo dollaro al giorno nei Paesi africani.
I pionieri della rete sognavano a metà degli anni Novanta, un’Internet
democratica, “una nuova casa della mente”.
ChatGpt è dentro la “casa” OpenAi. Progetto partito nel 2015 come
laboratorio di ricerca no-profit. Molti “tecno inventori” hanno uno spirito
che naviga tra il liberismo più sfrenato, l’eccentricità a volte patologica e
la vocazione al bene. Spirito pionieristico, molto californiano, nato dalla
controcultura americana di fine anni Sessanta-Settanta, qualche volta
sfociato in esperienze collettive, altre volte in spiccato individualismo,
sempre in direzione assolutamente contraria a qualsiasi tipo di intervento
statuale.
Nel tempo OpenAi (che era partita col sostegno di Elon Musk) ha fatto
nascere una sub-società che invece al profitto tiene, eccome, e nel suo
capitale è entrata Microsoft.
Ho avuto la possibilità di fare un giro all’interno di start up italiane di
intelligenza artificiale. Per loro il punto più avanzato di frontiera è già
l’interazione tra il nostro sistema nervoso e le macchine. Un’idea di cosa
potrebbe riservarci il futuro in termini di casa della mente.
Certo fa pensare la vicenda di Sam Altman, co-fondatore di OpenAi, prima
espulso e poi tornato alla guida della società nonostante profonde
divisioni ai vertici. Divisioni generate da dubbi profondi sul progetto Q*, su
sviluppi tecnologici che potrebbero portare a una intelligenza artificiale
fuori controllo. Hanno vinto i tecno-ottimisti che non disdegnano certo il
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profitto? Hanno perso i tecno-prudenti seguaci dell’ “Altruismo efficace”?
Non si sa bene, tutto è stato gestito in modo non trasparente. Così, il tema
è: quanto è democratica oggi ChatGpt, quanto è accessibile la sua
tecnologia di base?
Oggi il processo non è trasparente. Quando nacque, OpenAi sembrava
volesse creare una specie di software universale che sarebbe poi stato
ceduto in licenza e poi ogni società, che, a sua volta, lo avrebbe adattato
alle proprie esigenze.
Ora sta emergendo altro (pare) e alla base della lotta di potere ai vertici di
OpenAi ci sarebbe il progetto di un’intelligenza che non è più di solo di
auto apprendimento e non è neanche solo generativa, ma sarebbe
addirittura un’intelligenza nascente.
Ci sono due Altman: c’è Sam e c’è Altman. Sam va in giro dicendo “ci
vogliono regole di carattere generale”. Poi c’è Altman che chiede “ma
fatemi andare avanti”.
Andare avanti, fare utili perché il mercato lo chiede e lo permette.
Le techno-corporation americane sono imbattibili perché hanno legato la
conquista di territorio all’utilità. Il rinascimento digitale, chiamiamolo
così, si fonda proprio sul fatto che è il portato di processi utili. È saltata
l’idea che i cambiamenti e le spinte in avanti fossero il portato di processi
politici; che importa se vince il comunismo o il capitalismo (ha vinto il
capitalismo in modo spaziale), quel che conta è: cosa porta da A a B?”,
cosa mi aiuta a fare questo o quello? Chiaramente, nel momento in cui tu
cedi competenze e cedi fiducia ai sistemi di carattere digitale, non
riuscirai più ad esempio ad avvitare un bullone: se lo fa meglio la
macchina, non mi ricorderò più come lo faccio io.
Chatgpt potrebbe compiere un crimine?
Non attraverso una ricerca diretta (Come faccio a distruggere il mondo?)
Però, dipende dalle domande: se il sistema viene forzato, alla fine, molto
probabilmente, se una cosa te la vuoi far dire, la macchina te la dice.

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Come funziona Chatgpt, da dove prende i dati per rispondere alle
domande che pone un suo utente.
Li trova in rete. La rete è come il vapore per la locomotiva: tutto ciò che
c’è in rete è in teoria utilizzabile e tutto è potenzialmente utilizzato.
Sottolineo “in teoria” e “potenzialmente” perché c’è un leggerissimo
(enorme) problema di diritto d’autore, sul quale loro sanno
perfettamente che hanno qualche leggerissimo (enorme) problema.
Che cosa può fare nel nostro settore? Può coprire alcune funzioni
giornalistiche, che continuano oggi a svolgere le redazioni; che hanno un
valore testimoniale pari a zero, e hanno invece un alto valore di archivio.
Mi vengono in mente le notizie brevi di sport con solo i risultati; le brevi di
Borsa; le fa meglio un grandissimo calcolatore piuttosto che un normale
essere umano.
Cosa manca alla intelligenza artificiale per sostituirsi al giornalista?
Non può fare testimonianza, e qui arriviamo proprio al cuore del
giornalismo. Il giornalismo, cos’è? È un ricercatore universitario? È uno
che scrive in bella copia, o, testi complessi in forma di divulgazione? È un
analista finanziario? È un biologo molecolare?
Il giornalista potrebbe essere un pezzo di tutte queste cose, ma prima di
tutto, è certamente, ancora oggi, un testimone di fatti. Dalla più banale
conferenza stampa di un piccolo consiglio comunale al collegamento in
diretta mentre a Washington fanno l’assalto a Capitol Hill. Uno che sta lì,
guarda, vede, scrive, racconta, e articola, e argomenta, nei migliori dei
casi.
I sistemi di intelligenza artificiale, per come li conosciamo in questo
momento, non hanno questa capacità, non sono fatti di mani, nervi, ossa,
occhi, bocca che vanno per strada e ti raccontano i fatti.
Se noi pensiamo che il nostro mestiere sia stare dietro un terminale,
scorrere continuamente le agenzie e farne un sunto, il nostro posto di
lavoro è in pericolo. Se, invece, il tuo mestiere è “vado sui posti, fatico,
prendo freddo, prendo il caldo a 50 gradi, faccio l’intervista”, si traduce in
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una centralità dell’essere umano che non è sostituibile. Detto questo,
andrebbe un attimo nobilitata anche la funzione di stare dietro il
computer e guardare le agenzie di stampa, per dare dignità a chi la
svolge, e non solo perché è la funzione più facilmente aggredibile dalle
macchine.
Non ci sono solo utilità e quantità. Ci sono anche qualità e pluralismo.
Ragioniamo sulla capacità che noi abbiamo, e che le macchine per il
momento non hanno, di sviluppare una visione laterale, di enfatizzare le
differenze, di proporre quello che non è necessariamente programmabile
perché non già predefinito. Le macchine lavorano sul già fatto, noi
tendiamo anche, nei limiti del possibile, a guardare un attimo in avanti. Il
web è riproduzione enorme di contenuti, ma sono contenuti già più o
meno definiti.
Alcune critiche a ChatGpt si sono centrate sul fatto che oggi risponda
ricorrendo a materiale non aggiornato, datato di qualche mese.
Non credo sia questo il problema, in prospettiva, perché una struttura così
complessa e oggetto di investimenti così significativi, entro breve tempo
utilizzerà testi e notizie di un giorno prima, di un’ora prima, di 5 minuti
prima. È solo questione di tempo, è solo questione di investimenti, è solo
questione di migliorare un meccanismo che già esiste.
Il problema è un altro: anche quando avremo la macchina super
aggiornata, ipercompetitiva, che fine farà “lo sguardo in avanti?”.
Quello del giornalista che osserva, interpreta, magari solo racconta, ma
sempre con la maggiore onestà possibile. E qui entra in campo il concetto
di verità.
Un tempo la “casta” dei giornalisti selezionava le notizie e le portava
all’attenzione dei cittadini. Non è più così. Oggi troviamo quasi qualsiasi
cosa in rete. La troviamo già con gli strumenti tradizionali (motori di
ricerca, eventuali abbonamenti a quotidiani) e immaginiamo con quale
moltiplicazione di contenuti attraverso l’intelligenza artificiale.

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Ma l’intelligenza artificiale si autoafferma, non ti dirà mai “ho scritto il
falso”. Qualche nostro collega sostiene che potrebbe nascere la figura del
prompt journalist: il giornalista (suggeritore) che non scrive un articolo,
ma pone le domande a ChatGpt per arrivare alla migliore definizione
possibile di un testo corretto.
Possibile, ma rimaniamo sempre siamo noi a dover controllare che sia
vero quello che risponde l’intelligenza artificiale. E qui entra in gioco il
“pericolo post-verità”: la diffusione di contenuti falsi, sia sulla carta
stampata, sia nel versante audio-video.
Si spalancano porte incredibili, si può scrivere un articolo e pubblicarlo in
venticinque lingue grazie all’intelligenza artificiale che ti assiste. Ma
queste porte che si spalancano possono nascondere anche notevoli
insidie, perché non ci vuole niente a forzare una parola, a forzare un tono
di voce.
Controllo dei poteri, ricerca della novità, verifica delle notizie. Il cuore del
mestiere rimane saldamente in mano umana?
È il caso di dire: “tocca a voi ragazzi”. Tocca alle giovani generazioni. Vi
serve un mondo delle verità o preferirete un mondo di verosimiglianza o
di post-verità? Vedo in rete un video di Salvini che parla in cinese (frutto
di intelligenza artificiale), mi gratto la testa dubbioso, ma mi diverto,
metto un pollice all’insù, e passo avanti.
Oppure, scelgo un giornalismo fatto da esseri umani? Perché ci sono delle
cose che possiamo fare solamente noi esseri umani, e le possiamo fare
perché siamo stati artigiani della verità. E parlo non della Verità con la v
maiuscola, quanto di una realistica e onesta approssimazione ai fatti. Nei
limiti del possibile, con tutte le nostre pecche, con tutte le nostre
incapacità, abbiamo creduto e crediamo a questa funzione di
testimonianza e racconto, che è fondamentale per la democrazia.
A proposito di democrazia. Uno sguardo a come i maggiori poli geo-
politici si comportano in tema di Ai: Stati Uniti, Europa, Cina.

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La posizione della Cina è chiara: utilizza l'intelligenza artificiale (anche
nell'informazione) a fini di controllo politico e a fini di efficienza
economica; punto, finito il discorso.
L'Europa è (escluse le start up) clamorosamente indietro, sul fronte dei
giganti che stanno gestendo l'intelligenza artificiale. L’approccio è
regolatorio, un classico dell'Unione Europea, regole ancora da definire.
Gli Stati Uniti sono in un certo senso a metà del guado. Il presidente Biden
ha emesso un ordine esecutivo, importante perché è immediatamente
operativo. Esecutivo ma vago: basato su un principio (non scontato negli
Stati Uniti) di tutela dei cittadini attraverso un controllo. Ma questo
controllo si esercita con un’ampia delega ai giganti del tech, ai quali non si
chiede di rendere trasparenti i meccanismi base degli algoritmi che
governano i robot.
Visto che si viaggia a livello di giganti, tornando a noi, noi giornalisti
siamo disarmati? Cosa può fare il sindacato, ad esempio?
Possiamo fare qualcosa. Per cominciare, c’è una nostra proposta adesso
accettata anche dagli editori: esplicitare se nello scrivere il tuo articolo ti
sei fatto aiutare dall’intelligenza artificiale. Un modo per rispettare i
cittadini lettori, per far sapere loro quello che hanno di fronte.
In termini di organizzazione del lavoro, poi, si può adattare all’uso della AI
un articolo del contratto nazionale dei giornalisti. Pensato per i quotidiani
cartacei degli anni Novanta (ma si dimostra molto lungimirante) l’articolo
42 recita che il sindacato deve sempre essere convocato ogni qualvolta
viene toccato il sistema editoriale.
Vale ancora oggi: ogni volta che nelle aziende arriva l'intelligenza
artificiale, il direttore deve chiamare il comitato di redazione e dire:
“colleghi noi vogliamo introdurre questo sistema, voi che dite?”
Io non sono un luddista, tener fuori le macchine è impensabile, quindi
non sono un “apocalittico”, ma non sono neanche un “integrato” del tipo
“ci dobbiamo arrendere, la macchina farà il nostro lavoro, prendiamo una

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buonuscita e andiamocene tutti in vacanza”, no, si può e si deve
contrattare.
In quell’articolo 42, c’è anche scritto che, quando si innova
tecnologicamente, si deve garantire il pluralismo. Se l’innovazione
restringe il mio arco intellettuale, comprime la mia libertà, comprime la
mia professione.
A questa libertà dobbiamo rimanere attaccati come Dracula a una
giugulare.
Per chiudere, torniamo alla domanda di base e poniamola a ChatGpt:
l’intelligenza artificiale potrà sostituire i giornalisti? Giornali scritti da
macchine e non da persone?
(Risponde la macchina in pochi secondi ndr) “In sintesi, mentre l'IA può
essere uno strumento utile per i giornalisti, il ruolo umano nel giornalismo
rimane cruciale per garantire un'analisi critica, la comprensione del
contesto e l'etica giornalistica. L'integrazione di tecnologie intelligenti può
migliorare l'efficienza e consentire nuove forme di reportage, ma la
presenza umana è fondamentale per mantenere l'integrità e la qualità nel
giornalismo, cogliere le sfumature culturali e le emozioni che spesso sono
parte integrante delle storie".
L’intelligenza artificiale ha imparato, a essere diplomatica.

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La notizia: quella grande avventura

Viaggia, e arriva in redazione


La portano i redattori, sono i “segugi” sui terreni di loro competenza,
hanno il polso di quanto accaduto, sta accadendo e potrebbe accadere. A
volte sono i “superiori” che segnalano una agenzia o riferiscono di uno
spunto arrivato da un giro di telefonate. Saranno comunque sempre i
capiservizio e i caporedattori a decidere se trattare, verificare e
approfondire una notizia. L’ultima parola spetterà, quando necessario, ai
vicedirettori e al direttore.
Gli errori
La notizia è merce pregiata, perché selezionata nell’universo mondo degli
eventi quotidiani e, in seguito, riproposta anche molte volte ogni giorno
in radio, in televisione, nei siti on line. Merce delicata, nel maneggiarla il
giornalista può incorrere in gravi errori: dare una notizia falsa, o
gravemente incompleta, o radicalmente superata da eventi successivi.
Errori che si compiono per mille motivi. Per limiti professionali, per fretta,
per superficialità, per fiducia malriposta in una fonte.
Fonti dirette e intermedie
I giornalisti ricorrono tutti i giorni a fonti dirette e indirette.
Una fonte diretta può essere il protagonista o il testimone di un evento
che “fa” notizia; una persona con un ruolo istituzionale, scientifico o
professionale come un ministro, uno studioso universitario, un direttore
d’orchestra; l’ufficio stampa di un ministero o di un comune, di un partito
politico, di un sindacato, di un’azienda.
La principale fonte intermedia (intermedia perché fa da tramite fra una
fonte primaria e un utilizzatore finale) sono i prodotti di una agenzia di
stampa, le agenzie da tempo ormai offrono contributi audio-video e non
più solo lanci scritti.

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I giornalisti si tuffano anche nel mondo internet alla ricerca di notizie,
stimoli, curiosità, ovviamente i siti web certificati offrono maggiori
garanzie. Preziose possono essere le emittenti radio-tv, i quotidiani locali,
anche notizie date in esclusiva da organi di informazione concorrenti,
notizie che poi andranno sviluppate (citando, malvolentieri, la fonte).
Svariate sono le vie che ti legano alle fonti. Da percorrere dopo aver
guadagnato credibilità come giornalista nei confronti delle fonti dirette.
Con il tempo e la correttezza si impara a fidarsi reciprocamente. Nessuna
fonte ti regala qualcosa, ma si possono trovare terreni di comune
interesse nel pieno rispetto delle regole.
Il canale principe rimangono gli incontri diretti, di persona (soprattutto
agli inizi) e attraverso colloqui telefonici; l’applicazione WhatsApp è
utilissima, scandagliare i social media è ormai irrinunciabile. Audio e video
trasmessi su Twitter (X) o Instagram possono rivelarsi preziosi.
L’assillo dei tempi
Il processo per scovare e verificare una notizia e per confezionare un
servizio non è istantaneo. Serve tempo, è la risorsa necessaria ed è quella
che sembra sempre mancare. C’è sempre un’edizione che incalza o una
scadenza da non superare. Ciò contingenta i tempi di controllo e accresce
la possibilità di errore.
Smentita, rettifica, citazione delle fonti
La smentita va sempre tenuta in conto, pubblichi una notizia e un
soggetto che si ritiene danneggiato fornisce il suo punto di vista. Se non vi
è stato tempo o modo di riferire questo punto di vista già nella prima
versione del servizio, correttezza vuole che lo si faccia quanto prima.
La rettifica dopo un errore è obbligatoria, lo dice la legge, e qui parliamo
di errori conclamati che hanno danneggiato un soggetto. Andrebbe data
nelle stesse forme e dimensioni dell’articolo “condannato”.
Il giornalista ha il diritto (con alcune eccezioni) di non rivelare alla
magistratura una fonte riservata. Ovviamente deve dimostrare, prima di

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tutto al suo pubblico, di aver controllato che sia fondato quel che è
venuto a sapere dalla fonte che mantiene anonima.
Sono casi da giornalismo investigativo che, fortunatamente, esiste
ancora. Nella routine quotidiana, è opportuno citare la fonte di una
notizia, in modo da indicare a tutti la credibilità di quel che si riporta.
La citazione ovviamente non è obbligatoria se ad esempio si trae spunto
da un lancio di agenzia a disposizione di tutti che offre il semplice
resoconto di un evento.

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Qualche lettura che potrebbe essere utile

*Ecosistema Audio-Suono, Autori vari; Rai Libri 2022


*Cocaweb, Andrea Cangini; Minerva 2022
*Fare un giornale Diventare giornalisti, Giuseppe Tabasso; il bene comune
2022
*Storia della radio e della televisione in Italia, Franco Monteleone;
Marsilio 2019
*Il salvarticolo, F.Nanni-R.Ferrazza; Centro di documentazione
giornalistica 2010
*Il linguaggio delle news, Sandro Petrone; Etas 2004
*Notizie radio@ttive, Giuseppe Mazzei; Rai Eri 2001
*La scrittura giornalistica, Franco Franchini; Rai Eri 1997
*Manuale di linguaggio giornalistico, Autori vari; Etas 1977

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