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IL CORONAVIRUS RACCONTATO DAI

CRONISTI TOSCANI

STORIE E OPINIONI DALLA


QUARANTENA
A TUTTI I BAMBINI,
A CUI VA DETTA LA «VERITÀ»,
PERCHÉ NON NE HANNO PAURA.

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LI OMINI BONI DESIDERANO SAPERE
PREMIO PER LA COMUNICAZIONE

PREMIO PER IL CRONISTA TOSCANO


«LEONARDO BERNI»

CONTRIBUTI E INTERVENTI
DEI VINCITORI E PREMIATI
2014-2019

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Prefazione e
ringraziamenti

L’inizio del 2020 ha dato a quest’anno una dimensione storica.


Quello che sta accadendo è Storia e finirà per essere studiato
così come adesso noi studiamo quello che è successo in altri
anni: il 1989, il 1945, il 1861. Aggiungete pure un anno in cui è
successo un evento di portata globale, degno di essere
ricordato.
Dentro questo 2020 ci siamo anche noi.
È per questo che ho voluto fissarlo tramite le impressioni di chi
è stato protagonista nella storia recente di Vinci nel Cuore e dei
suoi premi giornalistici, quello per la comunicazione dato a ‘Li
omini boni’ e quello per il Cronista Toscano intitolato a
‘Leonardo Berni’.
Ognuno di noi ha le proprie storie in merito alla Quarantena, le
proprie opinioni, le proprie visioni. Molte volte date dalle
proprie impressioni, tante volte così forti da farci costruire idee
sbagliate su qualcosa che non è nostro.
Con questa raccolta – ispirata alla lentezza, alla sedimentazione
dell’opinione, tant’è vero che adesso ce l’avete in mano, così
da poter consultarla quando volete – è possibile rendersi conto
di cosa sono stati questi primi mesi del 2020 per chi li ha
vissuti su un campo minato qual è il giornalismo, in un mondo
liquido, nel quale una verità è subito sovvertita da un’altra, e
così via.

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Ne hanno fatto parte Jacopo Storni, Stefano Brogioni, Viola
Centi, Guido Fiorini, Alessandro Bientinesi, Moira Falai, Sara
Bessi e Mauro Lubrani, a cui rinnovo pubblicamente il mio
ringraziamento personale e che si sono dimostrati disponibili
nel raccontare la “loro” Quarantena.
Ringrazio anche Mauro Banchini e Nicola Baronti, che hanno
accolto la mia proposta senza riserve, dandomi fiducia nel
portare avanti questo progetto e che hanno detto la loro in
merito a quanto leggerete su questo Quaderno.

L’intera serie è reperibile anche sul sito ufficiale


dell’associazione Vinci nel Cuore, liominiboni.it

Christian Santini

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La Cronaca come
flusso costante
della storia
Nicola Baronti, presidente di Vinci nel Cuore, presenta la
serie ‘Il coronavirus raccontato dai Cronisti Toscani’.

A costo di apparire banale devo rivolgere un iniziale sincero


ringraziamento ai Cronisti Toscani del premio intitolato al
concittadino Leonardo Berni per il loro contributo a questa
raccolta che consegniamo idealmente ai prossimi vincitori e,
perché no, ai posteri vinciani.
Un grazie anche a Christian Santini che l’ha ideata e curata con
grande passione e dedizione, secondo le finalità dello statuto
del premio giornalistico che, con varie manifestazioni, ormai
dura tutto l’anno, non soltanto nel momento conclusivo
novembrino.
La nostra associazione è nata nel 2011 con l’intento di creare
un archivio della gente. Nella ricerca e nella raccolta è stata
fondamentale la cronaca per ricostruire gli eventi e le storie del
paese spesso smarrite da una memoria distratta, anche dai
nuovi, forse più intuitivi e altrettanti effimeri, mezzi di
comunicazione. Con l’avvento d’internet, un enorme serbatoio
d’informazioni, tutti noi ci siamo imbattuti in una molteplicità
di post, commenti, didascalie a vecchie foto, di vario genere e
contenuto, magari lanciati da giornalisti d’occasione,
inconsapevoli incendiari di notizie e di ricordi per la
soddisfazione dell’approvazione (del like) dell’amico di turno.
In questo gioco mediatico si rischia, anche inconsapevolmente,

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di cadere nel tremendo inganno di perdere il senso, o meglio, la
direzione della storia. Lontani dalla celebre condanna di
Benedetto Croce per cui la cronaca sarebbe una sorta di
“cadavere” della storia, nella sua mera enunciazione di fatti,
eventi e date sulle quali soltanto lo storiografo può dare e fare
luce, la nostra appartenenza a una piccola comunità ci ha
permesso di optare incondizionatamente per la Cronaca come
flusso costante della storia. Per quel “giornalismo come scienza
della quotidianità e del contingente” come l’ha definito Sergio
Lepri, ultracentenario giornalista toscano (che peraltro, facendo
la cronaca delle celebrazioni leonardiane del 1952 ha dedicato
pagine bellissime alla gente di Vinci).
Ci ha spinto soprattutto la convinzione che l’evento, in
qualsiasi epoca, debba essere letto e interpretato
contestualizzandolo nel tempo, nel luogo, nella comunità di
riferimento. Non è un meteorite occasionale, ma fa parte
sempre di una costellazione di personaggi e di fatti. Dietro al
semplice documento o alla pagina di cronaca del quotidiano si
nascondono inevitabilmente le storie di tante persone, per lo
più sconosciute e tali forse rimarranno, in grado tuttavia di
colorare e dare un contorno alle mille sfaccettature e diverse
sensibilità dell’umana quotidianità. Storie per la penna (o il
tasto) del cronista in grado con la sua sintesi di condurle nella
direzione di una storia più concreta e coerente anche rispetto al
futuro passaggio dei tempi.
Mi piace così pensare a coloro che fra qualche anno leggeranno
e si confronteranno con la narrazione di questa pandemia che
improvvisamente si è abbattuta sul pianeta Terra, fino a
raggiungere i nostri affetti più vicini. Un vero evento anomico
che ha interrotto il corso ordinario dei giorni imponendo nuove
forme e modi di narrazione, anche in ragione degli odierni
mezzi di comunicazione. Lo dimostrano gli interventi di questo
piccolo Quaderno: non sono un’astratta cronistoria, bensì un
racconto filtrato attraverso le personali conoscenze e la

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sensibilità del cronista, compresa la preoccupazione per una
professione che dinanzi al cambiamento e all’innovazione degli
strumenti di comunicazione richiede nuove regole. Sono
approfondimenti che coinvolgono sia il soggetto della
narrazione sia l’autore, il giornalista. Mai come in questa
tragica occasione i margini temporali tra la cronaca e la storia
si sono ridotti così.

Lockdown a Vinci

Ricordo che l’Amministrazione Comunale di Vinci patrocina la


manifestazione dedicata al Cronista Toscano. Nel corso delle
edizioni si sono affiancati, per vari aspetti logistici, la Pro Loco
Vinci e l’Associazione Culturale Orizzonti. La Parrocchia di
Santa Croce ci ospita fin dalla costituzione. Alle istituzioni e
associazioni della Città di Vinci, ai soci e agli amici che in
questi mesi di lockdown hanno partecipato alle numerose
attività sociali e artistiche on-line dell’Associazione rivolgo il
saluto e l’invito a riflettere su di un fondamentale dato di
cronaca locale, esperienza di questi giorni: lavorando
“insieme” su condivisi obiettivi si superano anche le avversità
e si annullano le distanze.

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Mauro Banchini

L’ossigeno
dell’informazione
Il Presidente del Premio ‘Li omini boni’ e ‘L. Berni’,
presenta la serie ‘Il coronavirus raccontato dai Cronisti
Toscani’.

Non è un caso che papa Francesco, nel Rosario di fine maggio


recitato davanti alla grotta di Lourdes riprodotta nei Giardini
Vaticani e in collegamento con i più noti santuari mariani nel
mondo, abbia voluto che fra i lettori ci fosse anche una
giornalista: per la precisione Vania De Luca, vaticanista di
RaiNews24 nonché presidente della associazione italiana che
riunisce tanti giornalisti cattolici.
È stato un bel segnale. Per sottolineare il ruolo svolto, nel
trimestre di pandemia, anche dai giornalisti. A leggere le poste
del Rosario sono state infatti chiamate rappresentanze di
medici e infermieri, uomini e donne di altre categorie
professionali, famiglie che hanno avuto morti da coronavirus e
ammalati che dal coronavirus sono guariti, sacerdoti e
religiosi/e che hanno svolto la loro missione in un periodo così
difficile. E, appunto, giornalisti: professionisti di una
informazione che in un periodo così drammatico ha confermato
il suo essenziale ruolo di servizio pubblico.
Mai un giorno l’informazione giornalistica è stata sospesa.
Bene o male (questo è davvero un altro discorso), con punti di
vista assai diversi (anche questo è fondamentale, il pluralismo

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delle fonti è ossatura irrinunciabile in una democrazia) i
giornalisti hanno continuato il loro lavoro: nell’emittenza
radiotelevisiva, nella carta stampata, sul web.
Un lavoro ancora più necessario se solo si pensa alle ondata di
fake che si sono abbattute, in rete e non solo, su ciascuno di
noi. Fake spesso “innocenti” perché fin troppo scopertamente
ridicole, ma altrettanto spesso pericolosissime perché
sapientemente provocate e utilizzate in modi anche oscuri e
con finalità anche ignote. Su tale scenario di emergenza
sanitaria, che non esclude autentiche “guerre” internazionali di
manipolazione mediatica, si conferma il valore di una
mediazione giornalistica basata sulla qualità.
I giornalisti – quelli famosi e ben pagati (tutto sommato poche
centinaia) ma anche quelli oscuri e molto spesso malpagati,
sfruttati, privi di contratti e garanzie (la grande maggioranza,
oggi) lo sanno bene: sanno bene come importante sia il loro
lavoro, i loro racconti, i loro commenti.
Fra i tanti che a Covid-19 non si sono arresi, neppure quando
sarebbe stato comprensibile farlo, ci sono anche quelli che
Covid-19 lo hanno raccontato in prima linea. Con il premio
giornalistico “Gli omini boni desiderano conoscere” (quanto è
importante questo assunto, specie in tempi di grande
emergenza!) e con il premio “Leonardo Berni” al cronista
toscano, si intende proprio favorire la riflessione sul valore,
costituzionalmente protetto, dell’informazione e della libertà di
pensiero.
Troppo spesso, in Italia e altrove, non ce ne rendiamo conto:
pensiamo sia scontato, come l’ossigeno. Ma scontato non è. È
allora, come quando manca l’ossigeno, che si può rischiare.
Perfino la morte.

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Jacopo Storni

«Senza lavoro a
causa del virus.
Ora faccio la coda
tra i poveri»1
«È la prima volta che vengo alla Caritas, è frustrante, è
umiliante, non avrei pensato di ridurmi così». Jacopo Storni
racconta il coronavirus.

Jacopo Storni è stato Cronista Toscano nel 20162, premiato


grazie alle sue inchieste giornalistiche sul caporalato e per
“L’Italia siamo noi”3, il libro che ha scritto nello stesso anno,
dove ha raccontato storie di immigrati che hanno avuto
successo.
Jacopo ha deciso di contribuire a questa serie condividendo un
articolo pubblicato sul Corriere Fiorentino il 3 aprile scorso.
Racconta la storia di Massimiliano, fiorentino, 51 anni,
catapultato in un mondo che non è mai stato suo, con cui ha
dovuto improvvisamente fare i conti dopo la perdita del lavoro
a causa dell’emergenza sanitaria degli ultimi mesi.
La storia di Massimiliano è la storia di tanti altri che loro
malgrado sono stati costretti a convivere con una realtà

1
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Fiorentino, venerdì 3 aprile
2020
(https://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/20_aprile_03/se
nza-lavoro-causa-virus-ora-faccio-coda-poveri-36e69e66-758b-11ea-a82c-
6778108ccec1.shtml)
2
https://www.liominiboni.it/edizione-2016/
3
http://www.castelvecchieditore.com/prodotto/litalia-siamo-noi/

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estranea, fin quando non ci hanno sbattuto violentemente
contro.

Massimiliano ha 51 anni, gli occhiali da sole, la mascherina su


naso e bocca. Indossa un bomber grigio e un paio di pantaloni
neri strappati. Ha i capelli brizzolati. Esce dalla mensa della
Caritas di via Baracca con quattro buste in mano. Guarda fisso
a terra, evita lo sguardo. Lo raggiungiamo, lui si volta e dice:
«È la prima volta che vengo alla Caritas, è frustrante, è
umiliante, non avrei pensato di ridurmi in queste condizioni».
Massimiliano è fiorentino, abita a Peretola, è arrivato fino alla
mensa di via Baracca in bicicletta. «Mi hanno fermato i vigili e
mi hanno chiesto dove stessi andando. Gli ho detto che stavo
andando a buttare via la spazzatura, mi vergognavo a dire che
andavo a prendere da mangiare alla Caritas».

Il Coronavirus fa anche altri tipi di vittime. Massimiliano è una


di queste. È ridotto sul lastrico. Ha lavorato tutta la vita, ma
adesso si ritrova senza cibo. Addetto alle pulizie con contratto
a chiamata, improvvisamente il lavoro è cominciato a
diminuire. Prima lentamente, poi sempre più vistosamente. Gli
uffici hanno chiuso, le pulizie non erano più una necessità. E
così a febbraio, l’azienda per cui lavorava, ha interrotto il suo
contratto di lavoro. Massimiliano si è ritrovato disoccupato, da
un giorno all’altro. «È stato incredibile. Ho provato ad andare
ai centri per l’impiego, ma trovare lavoro adesso è come
trovare un ago in un pagliaio». Prima arrotondava facendo il
falegname, qualche trasloco di tanto in tanto, ma adesso non si
può uscire di casa. Figuriamoci lavorare.

Massimiliano continua a guardare a terra, racconta di avere una


moglie e due figli gemelli di 10 anni. Mentre lo dice, è quasi
imbarazzato. «I miei bambini sono molto in gamba, hanno
capito che il loro padre ha perso il lavoro e cercano di farmi

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forza, sono la mia salvezza». Ma non è facile nutrirli tutti i
giorni. «Qualche volta vado al supermercato, si meritano
prodotti di qualità, ma quei prodotti costano e finisce che mi
ritrovo senza soldi sul conto». E allora, non resta che andare
alla Caritas. Per Massimiliano però, è quasi surreale. «Mi
ritrovo in fila con migranti africani, senzatetto...». Sul piazzale
di fronte all’ingresso qualcuno sta al sole sulle panchine,
parlano e mangiano. I vestiti logori, le scarpe bucate. È così
tutti i giorni, ma per Massimiliano è la prima volta. Non si
sente parte di quel mondo ai margini ma deve conviverci. E
allora si mette pazientemente in fila, a distanza debita l’uno
dall’altro. «Meglio così, almeno non parlo con nessuno».

Quasi un’ora di coda, poi è il suo turno. L’addetto alla Caritas


spruzza nelle mani il gel disinfettante, Massimiliano strofina
poi ritira il pranzo da asporto. Ma chiede altro, gli serve il latte
per i figli, le uova per la famiglia, la pasta, i legumi. Alla
Caritas chiudono un occhio, in questi giorni difficili. Non serve
la tessera dei servizi sociali, si va sulla fiducia. E Massimiliano
ringrazia, esce con le sue buste e ripete grazie. «Menomale che
c’è la Caritas, chi l’avrebbe mai detto».

Poi si avvia verso casa. «Mia moglie sarà felice di vedermi


tornare con queste buste». Ma la situazione, in famiglia, non è
facile. «Siamo reclusi in casa, in queste ore tutti i nodi vengono
al pettine, ci mancano le sigarette e non possiamo comprarle, a
volte ci innervosiamo, a volte litighiamo. Da una parte è bello
stare tutto il giorno in casa con la propria famiglia, ma quando
le cose girano male rischia di diventare logorante». Un
equilibrio fragile, per chi già vive nella precarietà. «Ci
mancano perfino i soldi per la ricarica del cellulare»». E queste
ricariche, alle mense Caritas, non si trovano. Figuriamoci le
bollette, figuriamoci l’affitto. «Non siamo in grado di pagare
nulla, mi auguro con tutto il cuore che qualcuno possa chiudere

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un occhio, altrimenti soccombiamo». E poi ci sarebbero i
parenti, quelli che magari qualche risparmio ce l’hanno. «Ma
no — dice Massimiliano — Abbiamo una dignità e dobbiamo
cavarcela da soli. Anche stavolta, ce la faremo, ne sono sicuro.
Anzi, se conoscete qualcuno che ha bisogno di un lavoratore, io
so fare tutto».

Jacopo Storni, giornalista del Corriere Fiorentino


Cronista Toscano 2016
3 aprile 2020

Unità di Strada – Progetto Arca, marzo 2020

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Stefano Brogioni

Il distanziamento
dalla notizia
Noi cronisti abbiamo il dovere di ricostruire cos’è successo
nelle RSA, a persone che per le loro condizioni di fragilità
dovevano essere protette.

Lockdown, isolamento, distanziamento sociale.


Sono i termini di cui si è riempito il nostro vocabolario da
quando abbiamo conosciuto l’emergenza coronavirus. Ma essi,
anche se ormai di uso comune fin nelle famiglie e argomento
principale del lavoro quotidiano del cronista, stanno agli
antipodi del giornalismo. Le regole della convivenza civile
dell’era Covid-19 hanno messo a dura prova la professione del
raccontare. Informare bene è una necessità, più che mai nella
giungla di fake news che nei giorni del blocco e della paura si
sono addirittura intensificate. Ma proprio i provvedimenti
disposti dal Governo per limitare i contagi, indispensabili per
impedire che la catastrofe assumesse dimensioni immani, non
sono stati alleati del giornalista.
Premessa: l’informazione non ha mai chiuso i battenti,
ottenendo – ovviamente a braccetto con la sua filiera – la
patente di servizio essenziale. Questo ruolo ce lo siamo visti
riconoscere anche dal pubblico di lettori e utenti, che hanno
riscoperto oltre al ruolo fondamentale dell’informazione, anche
la sicurezza delle notizie verificate e, perché no, la compagnia
della lettura in giornate meno frenetiche. Oltre ai numeri delle

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vendite (a cui fa però da contraltare l’inevitabile calo del
fatturato pubblicitario) e l’esplosione di contatti on line, i
giornali sono tornati ad assumere quel ruolo di faro nella
comunità.
Personalmente, dallo ‘smartworking’ a cui ci siamo adattati,
l’ho misurato dalle lettere – in gran parte in forma ovviamente
di e-mail – che sono tornate a pullulare nelle nostre caselle,
avente ad oggetto i temi più disparati ma sempre con il comune
denominatore del Covid-19, o dai messaggi giunti ai “nuovi” e
immediati canali social, Facebook o WhatsApp.
Tutto bene, quindi? No. Le misure antipandemia fanno a pugni
con l’essenza del giornalismo. Snaturano il mestiere di uno
degli aspetti più belli e al tempo stesso irrinunciabili della
professione: quello del vedere, dell’incontrare, del verificare
con i propri occhi. E un decreto che autorizza la ”libera”
circolazione sul territorio non è certo sufficiente a garantire la
buona e vera informazione.
Fortunatamente non mi sono mai trovato nella condizione di
dover giustificare uno spostamento per incontrare una fonte che
non avrei voluto far comparire in nessun modo: cosa avrei
detto a un inflessibile guardiano dei Dpcm che chiedeva ove mi
stessi recando?
C’è stato un momento, nell’allerta che ha segnato le vite di
tutti, in cui non è stato materialmente possibile neanche
approfondire i numeri sul coronavirus che ogni giorno la
protezione civile (a livello centrale), le Regioni e le Ausl a
livello locale, trasmettevano ai media. Anche per questo, la
stagione che forse ci stiamo per lasciare alle spalle, dovrà
essere ancora al centro della nostra attenzione. Si è detto tanto,
ma c’è ancora molto da scrivere.
Reputo che non sia un caso che uno dei più grossi drammi, nel
dramma dell’epidemia, si sia consumato proprio dove ci sia
stata una chiusura totale (doverosa, sia chiaro), al mondo
esterno. Le residenze sanitarie assistenziali si sono rivelate la

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maggior falla di un sistema che si è trovato a far fronte a uno
tsunami incalcolato. E noi cronisti, abbiamo il dovere di
ricostruire cos’è successo là dentro, a persone che per le loro
condizioni di fragilità dovevano obbligatoriamente essere
protette. I numeri dicono che non lo sono state, ma anch’essi –
come quelli dei tamponi positivi di chi non c’è più – non
possono restare statistiche crude. All’informazione, al
giornalismo, l’onore e l’onere di raccontare i dati di una guerra,
le storie degli eroi, dei caduti, e dei sopravvissuti. Ma anche
quello di sorvegliare, domandare e verificare. Come sempre,
ma ora ancora di più. Se tutti ci aspettiamo un mondo diverso
dal dopo coronavirus, è lecito attendersi anche un ulteriore
salto di qualità dai media. Sarà l’occasione per dare una
spallata al magma che zampilla di telefonino in telefonino,
senza alcun certificato di provenienza, e riappropriarsi
stabilmente del ruolo che la democrazia richiede.

Stefano Brogioni, giornalista de La Nazione


Cronista Toscano 2019
9 maggio 2020

Stefano Brogioni ha curato per LA NAZIONE gli aggiornamenti


quotidiani sull’epidemia in Toscana, in smart working, sui canali
social del quotidiano.

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Viola Centi

50 metri

Per 50 metri, in un umido giorno di aprile, non è esistito


niente. Un momento sospeso, la fatica di non capire più
qual è la realtà.

Per un attimo, era tutto scomparso.


Aprire la porta e non vedere nessuno. Fare due passi fuori di
casa, per arrivare a comprare le sigarette, senza vedere
nessuno. La mascherina, un vezzo.
Non è mai successo.
50 metri in cui tutto è sparito. L’isolamento, i contagi, le
mascherine, i camion dell’esercito che lasciano Bergamo
carichi di salme da cremare, in una notte di aprile. Non è
esistito niente, non è morto nessuno.
50 metri con la sensazione di dover togliere la mascherina per
non sembrare pazza al primo incontro. Quel rito di mettere e
togliere le scarpe all’ingresso di casa, disinfettarsi le mani
prima e dopo aver prelevato i soldi al bancomat della piazza,
dopo aver preso il pacchetto di sigarette dalla tabaccaia – unica
persona in carne ed ossa per un dialogo in due mesi – è tutto
nella testa, tutto un’immaginazione, un’allucinazione.

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Per 50 metri, in un umido giorno di aprile, non è esistito niente.
Un momento sospeso, la fatica di non capire più qual è la
realtà.
Lo squarcio lo crea lo sguardo di scorcio alla piazza appena
dietro l’angolo. La gente in fila, con le mascherine, gli occhi
della paura oltre al ferretto sul naso, sempre più evidente passo
dopo passo.Tornare al vecchio rito di ‘chi è l’ultimo?’ come
quando dal medico del paese non esistevano gli appuntamenti,
e si andava a far le file e a gara a chi aveva più beghe. Con la
differenza che, adesso, la gara la vince chi sta bene, chi ‘tutti
bene’, che ‘l’importante è la salute’.
Quei 50 metri senza respiro, sentendo le gambe tremare, la
mente vacillare, il silenzio invadere la testa. Come nelle notti
senza auto per la via, senza il rumore del treno in lontananza
oltre la statale, senza una scia in cielo. Solo il cinguettio degli
uccellini la mattina presto. I merli che hanno da sempre rotto il
silenzio nell’alba di paese, diventati il rumore della vita. Un
cinguettio come un monito alla fermezza, un ‘se ti muovi sei
morto’. Un ricatto. La civetta, di notte; l’assiuolo, con il suo
verso da allarme cadenzato ogni 9 secondi, sempre dalle 21 in
poi.
50 metri e 60 passi annullano tutto. Ogni sensazione, ogni
suono, ogni profumo, ogni pensiero, ogni preoccupazione.
Per 50 metri, sono sola nel mondo, sono sola a sapere, sola ad
immaginare, che possa essere la fine del mondo.

Viola Centi
Cronista Toscano 2017
22 maggio 2020

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Alessandro
Bientinesi

Un giornalismo
“altro” è possibile
Scovare, intercettare, raccogliere materiale, accumulare
fonti stando sempre dietro a uno schermo e seduti a una
scrivania è compito tutt’altro che semplice.

Ho raccontato l’esperienza di un ingegnere toscano impegnato


nel progettare un’astronave che, entro il 2050, porterà 1
milione di persone su Marte. Ho intervistato una leggenda della
nazionale di calcio, Marco Tardelli, per capire come stava
vivendo la quarantena alla quale ci ha costretto l’emergenza
coronavirus e analizzare con lui l’eventuale ripartenza della
Serie A. Ho raccolto l’esperienza negli ospedali e nelle Rsa
della Lombardia di un medico pisano in prima linea nella lotta
al Covid-19. Ho studiato il progetto di un giovane ingegnere di
Casciana Terme che in smart working ha terminato la
progettazione di un ospedale in Danimarca la cui superficie è
superiore a quella del paese in cui è nato e cresciuto. E come
dimenticare i tre inventori pontederesi che hanno brevettato
una mascherina in grado non solo di proteggere dal virus, ma di
farlo permettendo di inserire in sicurezza una cannuccia per
bere senza doverla sfilare?
Sono soltanto una minima parte delle storie che ho raccolto e
trasformato in articoli, quasi tutti per il quotidiano Il Tirreno,
non muovendomi da casa mia per oltre tre mesi. Dovessi
provare a fare una sintesi di cosa la pandemia è stata per me,

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giornalista e imprenditore del mondo della comunicazione,
partirei proprio da queste storie. Vero, ci sono stati colleghi
giornalisti in prima linea. A mostrare il dramma che si stava
vivendo negli ospedali e il lavoro instancabile di medici e
infermieri. Altri colleghi pronti a descrivere i drammi di
imprenditori e lavoratori sprofondati in una serie di problemi
familiari ed economici senza precedenti. Molti giornalisti sono
stati sul campo, come fossero inviati di guerra. In una guerra
strana e storica allo stesso tempo.
Come ho provato a dimostrare con la “lista” iniziale,
concentrata in meno di tre mesi di lavoro e senza mettere mai
la testa fuori di casa, credo che fare giornalismo di qualità sia
possibile anche in smart working. Non voglio attaccare la cara
e vecchia regola del “consumarsi le suole delle scarpe”. Mi
sono formato seguendo questo credo e, da grande, ho vinto
premi giornalistici andando direttamente sul campo a verificare
quanto mi veniva segnalato o raccontato dalle mie fonti. So
come si fa il lavoro sporco e questo continuerà a essere
decisivo anche in futuro. Ma un giornalismo “altro” è possibile.
È meno faticoso? Personalmente lo è stato molto di più. Primo
per ragioni familiari: ho vissuto a stretto contatto, come mai
prima d’ora, con la mia compagna e mio figlio di poco più di
un anno. Pianificare e organizzare interviste e servizi
giornalistici tra una pappa, un pannolino sporco e i gioiosi
schiamazzi di un bambino è più difficile di quanto si pensi
(anche se fare il papà è il miglior viaggio che un uomo possa
desiderare nella vita).
Tralasciando questo aspetto personale, scovare, intercettare,
raccogliere materiale, accumulare le fonti stando sempre dietro
a uno schermo e seduti a una scrivania è compito tutt’altro che
semplice. A differenza di medici e infermieri, evidentemente in
prima linea nella guerra contro il virus, la professione di chi fa
informazione ha un duplice livello. Chi, ovviamente, ha il
compito di descrivere ciò che sta accadendo nel Paese. E di

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farlo proprio sul campo. E poi c’è chi si occupa di raccontare,
come accaduto a me, gli aspetti collaterali alla vita ai tempi del
coronavirus. Collaterali ma non secondari, basti pensare a
un’azienda di liquori di Forcoli, in provincia di Pisa, della
quale ho descritto l’incredibile riconversione industriale. Dopo
100 anni a produrre grappe e distillati, il lockdown ha spinto
l’azienda, a gestione familiare, a creare un gel a base alcolica
con poteri disinfettanti. Quando tutti andavano a caccia
dell’Amuchina nei supermercati trovando solo scaffali vuoti,
aver raccontato questa nuova possibilità in una fase di crisi è
stato sicuramente utile.
In generale capire la portata di un evento tragicamente storico
come quello vissuto durante l’emergenza coronavirus
richiederà tempo. Il giornalismo può raccontare, descrivere,
testimoniare, dare risposte ai lettori mentre i fatti avvengono.
Le analisi, però, hanno solitamente tempi più dilatati per essere
ben centrate e corrette. Lavorando anche nella gestione di
community di lettori sui vari forum dei siti di informazione, sia
nazionali che locali, una cosa è certa: il bisogno di
informazione è letteralmente esploso. I commenti dei lettori,
per la mia esperienza personale, sono aumentati di una
percentuale variabile tra il 40 e il 60% ogni mese. Così come
gli abbonamenti digitali. Una sete di informazione senza
precedenti da quando internet, e ancora di più i social, hanno
stravolto il ruolo dell’informazione tradizionale, carta stampata
in primis.
I due aspetti, fare giornalismo di qualità anche da remoto e il
crescente bisogno di storie, racconti e notizie sui siti di
informazione, sono i due aspetti che, per chi fa il mio mestiere,
devono essere le sfide del futuro. E, come spesso accade, sono
proprio le crisi a fornire le migliori opportunità.

Alessandro Bientinesi, giornalista de Il Tirreno


Cronista Toscano 2018
28 maggio 2020
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Guido Fiorini

Il giornalismo
ritrovato e
migliore
Una cosa, questo difficile periodo ce l’ha insegnata: la gente
ha voglia di informazione di qualità, di leggere cose di cui sa
di potersi fidare.
Grosseto. La solitudine del lockdown e i quadri di Edward
Hopper, pittore realista newyorkese vissuto fra il XIX e XX
secolo, le aziende toscane del vino alle prese con il crollo degli
ordini e una difficile ripartenza, il turismo, da Capalbio a Forte
dei Marmi, dal confine con il Lazio a quello con la Liguria, e la
gestione, difficilissima, delle spiagge libere, una rubrica
settimanale sulle serie Tv in arrivo, piccolo passatempo per le
persone “recluse”, argomenti così diversi fra loro, ma seguiti
grazie al tempo passato in casa, dove puoi approfondire,
riflettere, farti venire idee senza l’assillo degli orari, degli
spostamenti, del tempo perso guidando. Stai nelle tue stanze e
scopri un modo diverso di lavorare, meno frenetico e forse più
produttivo.
Alcuni dei tanti esperti che hanno capito tutto, o in qualche
caso anche nulla, del coronavirus, sostengono che dalla
Lombardia, dove il virus è “sbarcato” in Italia dalla Cina, si sia
poi diffuso nel resto d’Italia a causa delle tante fiere di settore
che, fra gennaio e febbraio, si tengono a Milano. Migliaia di
persone giunte (e poi ripartite) da tutta Italia negli stessi
capannoni, strette di mano, inconsapevole e normalissima
convivialità: insomma, un incubatore perfetto. E io, in una

23
delle più grandi fiere di Milano, la BIT (Borsa Italiana del
Turismo), ci sono stato il 9 e il 10 febbraio, per un progetto sul
turismo curato dal Tirreno, il mio giornale. Allora tutto pareva
ancora così lontano: pensavamo che “il problema” sarebbe
rimasto confinato a Wuhan e che, al massimo, in Italia sarebbe
arrivata una fastidiosa influenza.
Invece, alle prime avvisaglie di cosa sarebbe poi successo, già
dai primi di marzo, d’accordo con la direzione del giornale la
mia sede di lavoro si è spostata. Non più il grande open-space
della storica sede di viale Alfieri a Livorno, ma la cucina della
mia casa nel centro storico di Grosseto, dentro alle Mura
medicee. Non più colleghi urlanti al telefono nella scrivania
attaccata alla mia e lunghe riunioni a confrontarsi sugli
argomenti del giorno, ma, nel silenzio, una libreria, due
schermi, una piattaforma video per parlare con gli altri, peraltro
uno dopo l’altro anche loro “confinati” nel soggiorno o nello
studio delle loro abitazioni.
Fa strano lavorare da casa, quando la condivisione degli spazi e
delle opinioni ti ha accompagnato per quasi trent’anni di questo
mestiere. E fa ancora più strano doversi rapportare con i tuoi
interlocutori solo con la voce o, al massimo, guardando un
piccolo volto in un riquadro del cellulare. Un giornalista, prima
di tutto, tiene buoni rapporti e, soprattutto, consuma le suole
delle scarpe per vedere dal vivo quello che deve descrivere con
la penna. Fra scrivere quello che ti raccontano e scrivere quello
che vedi la differenza è tanta. E i lettori se ne accorgono.
Però poi ti abitui. E magari scopri che, nel bozzolo, la creatività
può anche migliorare. All’inizio, quando ero uno dei pochi a
fare smart-working, parevo un privilegiato. In fondo smart
significa intelligente, facile, ma anche piccolo, quasi che da
casa si possa lavorare meno. Non è così. Complice il
lockdown, quella chiave girata nella serratura che ha chiuso le
porte delle nostre case, forse andrebbe ribattezzato large-
working. Perché se non perdi la dimensione dello spazio, vedi

24
sempre i soliti angoli di casa tua, perdi la dimensione del tempo
e la giornata di lavoro inizia dopo colazione e termina quando
vai a letto.
Più tempo, più approfondimento, contenuti (su carta, su web)
migliori e ben verificati: una semplice equazione di cui, quando
questo tsunami pandemico sarà passato, dovremo tener conto
per una nuova organizzazione del lavoro, figlia degli
insegnamenti e dell’esperienza positiva e non dell’emergenza.
Perché una cosa, dall’osservatorio di un giornale regionale e
capillare sui territori come il mio, Il Tirreno, questo difficile
periodo ce l’ha insegnata: la gente ha voglia di informazione di
qualità, di leggere cose di cui sa di potersi fidare.
Nell’era delle fake-news, delle notizie mezze vere e mezze
false, o forse del tutto inventate, che sembrano reali a forza di
rimbalzare come palline di un flipper da una condivisione
all’altra, il lavoro di chi fa il nostro mestiere seguendo regole e
deontologia, trova consensi. Abbiamo scelto un hashtag, noi
del Tirreno, #impegnoecoraggio, che ci è sembrato tenere
insieme tutto. La diffusione è cresciuta, alle edicole abbiamo
visto anche le persone in fila, distanziate ma in attesa di
comprare un quotidiano. Ormai basta un cellulare per
improvvisarsi cronisti, ma fra i campioni dei social e chi prima
di scrivere verifica e riflette, la differenza si nota. E i lettori,
ancora una volta, se ne accorgono.
Non so se tutto questo sia “merito” del coronavirus, ma il
livello generale della stampa italiana è cresciuto in questi mesi,
almeno in quelle testate che hanno avuto l’intelligenza di
raccontare senza farsi trainare da qualche appartenenza o
vicinanza politica, senza fare il tifo per nessuno. Essere stato
una piccola tessera di questo grande mosaico mi rende
orgoglioso. E sono certo che non potremo più tornare indietro.

Guido Fiorini, vice caporedattore de Il Tirreno


Premio ‘Li omini boni’ per la comunicazione 2015
25 maggio 2020
25
Moira Falai

Il pandemonio
durante la
pandemia
È evidente che la pandemia è uno spartiacque fra un “prima”
e un “dopo”. Siamo cambiati noi, il modo di lavorare, il modo
di vivere le città e le relazioni.

E d’improvviso tutto è cambiato.


“Andrà tutto bene, saremo migliori”… Questo il mantra che –
animati da patriottico orgoglio – ci siamo ripetuti da balconi e
finestre per almeno due mesi, da quando il nuovo coronavirus
(Sars-Cov-2) è entrato di prepotenza nelle nostre vite,
cogliendoci impreparati ad affrontarlo.
Di fronte all’emergenza sanitaria che ha paralizzato il mondo,
l’unica cosa che ci era richiesta era restare a casa o, per meglio
dire, “in” casa, in modo da non prestare le nostre gambe al
virus che non ce l’ha e quindi impedirne il più possibile la
diffusione.
È che, così facendo, hanno dovuto fermarsi tante attività (a
parte quella encomiabile del personale sanitario negli ospedali,
quella giornalistica ritenuta altrettanto fondamentale e poche
altre indispensabili).
Chi doveva muoversi, poteva farlo solo per seri motivi
segnalati su un’autocertificazione, dotato di guanti e
mascherina, evitando di entrare in contatto con chicchessia.
Poche, semplici regole, dettate più dal buon senso e dalla
buona prassi che non da improbabili volontà dittatoriali dei

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nostri governanti. Eppure c’è chi ha gridato allo scandalo, al
sequestro di persona, all’inettitudine di chi comanda.
E per fare cosa?
Per correre nei parchi e sfoggiare la smagliante forma al primo
aperitivo con gli amici, con l’unico conseguente rischio di
nuocere a sé e agli altri.
Oppure: possibile che non possiamo andare a pescare o a
piantare i pomodori nell’orto? Cosa vuoi che sia se ci troviamo
in famiglia, fra congiunti di sesto grado, per una braciata al
barbecue?
E che diamine! Possiamo rinunciare a tutto ciò mentre, non
lontano da noi, si muore a centinaia al giorno e non c’è posto
per le sepolture?
Ma sai, occhio non vede, cuore non duole… Qui siamo stati
lontani anni luce dall’epicentro della pandemia e il benché
minimo sacrificio è parso fin troppo insopportabile.
Altro che migliori. A me pare che l’uomo abbia dimostrato
anche in questo frangente il lato peggiore di sé. Ognuno a
escogitare un cavillo per poter fare a modo suo, perché le
restrizioni fanno male a tutti – si sa – ma c’è sempre quello che
vuole distinguersi, che crede di poter eludere le regole, non si
sa bene per quale ragione superiore.
In tutto questo hanno avuto peso e responsabilità le grosse
indecisioni della politica e del famigerato comitato tecnico-
scientifico, che hanno sfornato una dietro l’altra misure di
contenimento a dir poco contraddittorie, accompagnate spesso
da lacune in termini di comunicazione. Sì, perché le indicazioni
della task force adottate dal Governo, non possono essere
diktat, poiché in ballo c’è niente meno che la democrazia.
“Dovete indossare i dispositivi di protezione individuale“. Ma
non si trovano. Oppure ti arrivano a casa le mascherine
gentilmente offerte dalla Regione, ma c’è scritto sopra che non
sono dispositivi di protezione individuale. Cosa fare?

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Era troppo difficile spiegare chiaramente che le mascherine
chirurgiche proteggono gli altri e non te stesso, ma che tenere il
naso fuori non vale? Che i DPI sono le cosiddette FFP2 e
FFP3, strettamente necessarie in certi ambienti di lavoro e non
nella vita di tutti i giorni?
“Dovete stare almeno a distanza di un metro“. Ma in Toscana
serve a un metro e 80, tuttavia un metro e mezzo va bene.
Purché sulla spiaggia siano almeno cinque e in classe (quando
riapriranno le scuole) non ci siano più di dieci bambini per
volta.
Al ristorante poi, guai a sedersi di fronte al marito col quale,
peraltro, non hai mai smesso di andare a letto. E così via, salvo
rimodulare a ogni pie’ sospinto le misure appena enunciate.
Arginare le fake news è stata un’altra impresa titanica, perché è
più facile credere a chi si è laureato all’Università della Vita,
piuttosto che agli scienziati impegnati nello studio della
pandemia.
Così il virus è stato creato appositamente in un laboratorio
cinese per favorire le multinazionali del farmaco e avvelenarci
con i vaccini, secondo un complotto mondiale di cui –
ovviamente – certi poteri occulti vogliono tenerci all’oscuro.
E ora che il virus fa meno male e che sembra “addomesticato”
(vuoi per l’affinamento delle terapie sui malati, che grazie ai
comportamenti virtuosi di chi ha applicato coscienziosamente
le direttive nazionali, regionali e locali), ebbene in pochi
credono a quegli stessi scienziati che continuano a dire di non
abbassare la guardia perché il coronavirus non ha perso la sua
virulenza, ma tornerà a colpire se troverà la strada spianata
dalla nostra superficiale disattenzione.
Le prime settimane della Fase 2 lanciano segnali incoraggianti,
ma il pericolo di tornare in emergenza è dietro l’angolo.
Tuttavia è chiaro a tutti che la pandemia è uno spartiacque fra
un “prima” e un “dopo”.

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Siamo cambiati noi, il modo di lavorare, il modo di vivere le
città e le relazioni.
Ora serve uno scatto d’ingegno per rendere il mondo un posto
migliore di come lo abbiamo conosciuto finora.
La Natura – tanto cara a Leonardo da Vinci – ci ha dimostrato
che senza le attività dell’uomo il pianeta Terra vive meglio;
flora e fauna hanno riconquistato i loro spazi. Ci ha inviato un
segnale che dobbiamo cogliere in tutti i modi, approfittando
della drammatica esperienza del lockdown per reinventare un
modello di sviluppo rispettoso dell’ambiente.
Il mio timore – come dicevo all’inizio – è che invece non
siamo diventati affatto migliori e che le nuove povertà inflitte
da una crisi economica senza precedenti possano mietere tante
altre vittime in questo pandemonio.

Moira Falai
Premio speciale ‘Vinci nel Cuore’ per la comunicazione 2016
28 maggio 2020

La mascherina, nuovo accessorio in tempo di pandemia

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Mauro Lubrani

Pensieri sulla
pandemia
Rimane il pensiero che all’improvviso la nostra vita può
essere sconvolta da qualcosa di inimmaginabile e che bisogna
apprezzare anche le cose più semplici.

Tutto è successo all’improvviso. Sembrava un problema


lontano, limitato solo alla Cina. Poi, quella che veniva descritta
come una sorta di “leggera influenza” è arrivata anche in Italia.
Ci sono stati i primi contagi e i primi morti, poi le zone rosse e,
infine, la chiusura di tutta l’Italia.
Guardavo indietro e pensavo che solo pochi giorni prima, il 6
marzo, insieme ad altri membri di una commissione, avevo
incontrato diversi studenti delle scuole superiori pistoiesi per i
colloqui per un prestigioso premio. Ci avevano raccomandato
di mantenere le distanze di sicurezza, ma quella sembrava
l’unica precauzione da tenere.
Il film dei ricordi si riavvolge. Nei giorni precedenti a quel
venerdì, ero stato in campagna per seguire la potatura degli
olivi, niente faceva pensare che poi, per circa due mesi, non vi
avrei più rimesso piede, perché le disposizioni del Governo non
mi permettevano di spostarmi da un comune all’altro. Non ho
potuto nemmeno assistere all’atteso ritorno delle rondini, che
ogni anno arrivano puntuali nei primi giorni di marzo e
cominciano a svolazzare festose a caccia di insetti. Le attendo

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sempre con un po’ di trepidazione perché temo che possano
cambiare destinazione.
E ancora, sempre guardando indietro, il 24 febbraio avevo
partecipato a una conferenza di un’associazione. Eravamo una
sessantina di persone in una sala, tutte molto vicine. Ho saputo
dopo che un medico, poi impegnato in un reparto Covid, aveva
sconsigliato quell’incontro, che invece si era regolarmente
svolto. Tra l’altro, uno dei presenti era tornato recentemente
dalla Corea del Sud.
Nel tempo “sospeso”, dove ho avuto modo di riflettere a lungo,
ho pensato che sono e siamo stati fortunati. Solo qualche
giorno prima, un gruppo di una quarantina di amici si era
ritrovato, come ogni anno, in un ristorante della Lucchesia:
dieci di loro sono rimasti contagiati e uno ha perso la vita.

Insomma il coronavirus era davvero arrivato tra noi, che


dovevamo rimanere chiusi in casa e uscire solo “per motivi di
necessità” accompagnati da tanto di autocertificazione e
documento. Ho scelto di uscire solo due volte al giorno per fare
una passeggiata con il cane: Poldo, questo il suo nome, non
avrebbe mai potuto capire perché era costretto a cambiare
radicalmente le sue abitudini. Anzi era felice di condividere
tante ore in più con me e mia moglie.
Intanto, le condizioni meteo sembravano voler infierire sulla
nostra condizione di reclusi: mai visti prima un marzo e un
aprile con giornate di pieno sole. Quando siamo tornati più
liberi, il cielo è cambiato… naturalmente in peggio.
Ho imparato a gestire meglio il maggior tempo a disposizione
cercando di viverlo in un modo più lento, quasi sorseggiandolo
piano piano come fosse una specie di dono. Ho scoperto che
c’erano tante cose rimaste in sospeso, che avrei voluto fare ma
che rimandavo continuamente. Ho iniziato a mettere in ordine
il mio archivio: quante carte e ritagli di articoli messi da parte
alla rinfusa per anni! E poi quelle centinaia di foto relegate in

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un cassetto: ho cominciato a sistemarle e, sfogliandole, talvolta
le ho ricollegate a ricordi di persone e di vicende lontane che
avevo vissuto nei tanti anni trascorsi nella redazione di un
giornale.
Non sono mancate le occasioni di impegno grazie alle nuove
tecnologie. Ad esempio, i colloqui del concorso dedicato ai
migliori studenti maturandi delle scuole della provincia di
Pistoia – sospesi con gli incontri di persona da quel 6 marzo –
sono proseguiti con Zoom, una piattaforma ormai diventata
conosciutissima, e anche la cerimonia finale di premiazione,
quest’anno ristretta solo ai dirigenti scolastici, è avvenuta con
lo stesso sistema. Così ho potuto partecipare comodamente da
casa a molte altre riunioni.
Inoltre, è diventato per me familiare l’appuntamento
bisettimanale con la diretta Facebook dello scrittore e
giornalista Mario Calabresi (ex-direttore de La Stampa e di
Repubblica), che, grazie ai collegamenti con altri giornalisti
impegnati in varie parti del mondo, ci faceva avere una
documentata situazione del contagio in vari Paesi. E ogni volta
chiudeva l’appuntamento con Maurizio Blatto, definito “uno
spacciatore di vinili”, in realtà non solo titolare di un noto
negozio a Torino, ma un coinvolgente critico musicale capace
di rasserenare l’appuntamento con una canzone “speciale”.

Il tempo “sospeso” consentiva buone letture. Ho tolto dalla


biblioteca alcuni libri comprati ma rimasti da leggere e ho
scoperto che due di questi autori sono tra i finalisti del
prossimo premio Strega. Ho letto tanto altro – il tempo c’era –
cercando notizie rassicuranti nei giornali o nei social, ma
spesso non facevano altro che aumentare timori e paure al pari
dell’appuntamento delle 18 con i drammatici dati forniti dalla
Protezione civile o le immagini delle tante bare portate via sui
camion militari. Era inevitabile pensare a tutte quelle persone

32
che se ne andavano senza ricevere l’ultimo abbraccio dei propri
cari. Un’immensa tristezza.
Così, ho deciso di dare vita ad una newsletter – non a caso
intitolata “Le parole della domenica al tempo del virus” – che,
una volta alla settimana, raccoglie (continua ancora oggi anche
se il virus sembra affievolito) pensieri presi un po’ qua e là sui
giornali e nei social che facciano riflettere su questa nostra
nuova condizione di persone alle prese con il Covid-19.
L’intento è di trovare parole che diano messaggi di fiducia e di
speranza.
Poi, non contento, ho aggiunto una diretta Facebook – sempre
settimanale – chiamata il “Salotto del sabato”, dove vari
personaggi, che avevano fatto della libertà di viaggiare una loro
ragione di vita e di lavoro, hanno raccontato come sono stati
costretti a cambiare le abitudini a causa del lockdown. Il
“salotto” ha ospitato un fotografo famoso per i suoi viaggi di
esploratore in luoghi bellissimi e lontani, un’artista impegnata
in progetti a favore della pace e contro le violenze sulle donne,
un sindaco alle prese con una città in piena crisi economica per
il Covid, tre esperti di turismo, settore messo in ginocchio dal
virus, e, infine, un primario di un reparto di rianimazione che
ha raccontato i tre mesi più difficili della sua lunga carriera
professionale.
«A gestire le sofferenze – ha detto il dottor Leandro Barontini
dell’ospedale S. Jacopo di Pistoia – e a comunicare i decessi o
improvvise perdite non ci si abitua mai, anche dopo 30 anni di
lavoro in una rianimazione. Nessuno di noi era preparato ad
affrontare una battaglia come quella contro il coronavirus.
Siamo stati chiamati eroi, ma in realtà portavamo a casa i
segni del vostro e del nostro dolore sul viso e nel cuore».

Ora che la tempesta sembra superata, almeno con la violenza e


la tragicità dei primi tempi, cosa ha lasciato in me? Rimane il
pensiero che all’improvviso la nostra vita può essere sconvolta

33
da qualcosa di inimmaginabile e che bisogna saper apprezzare
anche le cose più semplici che talvolta possono apparire
scontate. Ma soprattutto penso di fare tesoro di alcuni consigli
che ci hanno dato per evitare che ci possa essere una nuova
emergenza. Ritengo che quello che facciamo per prudenza non
vale solo per la nostra sicurezza, ma serve alla salute di tutti.

Mauro Lubrani
Premio speciale ‘Vinci nel Cuore’ per la comunicazione 2017
16 giugno 2020

L’infermiera esausta al termine del lungo turno di lavoro, immagine


simbolo di questa tragica epidemia

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Sara Bessi

Incroci di anime
Sara Bessi narra la “sua” quarantena attraverso tre racconti,
uno per ogni mese toccato duramente dall’emergenza
coronavirus.

Un pensiero per ogni mese dell’emergenza coronavirus.


Per me scrivere è stata una forma di evasione dal susseguirsi di
giornate intense di lavoro, che hanno richiesto una
professionalità unita sempre alla umanità, una voce schietta e
misurata senza cedere ad allarmismi fuorvianti oppure a
minimizzazioni urlate altrettanto rischiose. Un piccolo rifugio
alla Decameron da una cronaca spesso impietosa di vite
spezzate, vite stravolte da un evento di portata epocale.
Abbiamo lanciato il cuore oltre l’ostacolo ogni giorno per
raccontare al meglio le cronache delle nostre città. Un cuore
spesso appesantito da quei numeri giornalieri che parlavano di
uomini e donne portati via con le loro storie, le loro esistenze, i
loro affetti, senza neppure la consolazione di avere vicini i
propri cari. Ci siamo appellati con più forza alle regole di un
mestiere per evitare di cadere nelle logiche dello storytelling,
tenendo presente il senso di responsabilità verso chi ci legge. E
mai come in questo anno, il messaggio di papa Francesco in

35
occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali
è potuto essere bussola per muoversi nel nostro lavoro:
“Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria (Esodo
10,2). La vita si fa storia“. Parole che nei mesi della pandemia
sono risultate utili per muoversi in una narrazione dell’Uomo,
colto nella sua estrema fragilità, per raccontare la vita che si fa
storia.

12 marzo 2020
Il vialetto degli incroci di anime è avvolto in un silenzio
surreale, che amplifica ancora di più i pensieri. Fa da tasto
rewind nella memoria e fa emergere con forza volti, sentimenti
e valori che diventano àncore in un momento di fragilità mai
vissuta prima, ma solo intuita in tanti racconti. No, non è come
gli anni dell’Austerity, quando per il risparmio energetico le
macchine non potevano circolare di domenica. La sospensione
dei rumori, della vita cittadina che scorre, oggi ha un sapore
diverso. Le domeniche di quei primi anni Settanta, per chi era
ancora piccolo, erano gioia, divertimento. Il nastro di asfalto
non aveva limiti: diventava una prateria dove scorrazzare senza
timori di essere investiti. Un’Austerity che fece togliere a tanti
di noi le ruotine ed imparare finalmente a pedalare sulle
biciclette senza paura di cadere a terra. Domeniche che
sapevano di libertà per chi non aveva l’età per capire quale
fosse il reale problema al di là di quelle strade vuote. Il rumore
dei pattini a rotelle, le ruote consumate dall’asfalto sconnesso, i
ruzzoloni a terra, le risate. Oggi non è così. Il nastro del
vialetto si riavvolge ancora più indietro sulla linea del tempo.
Fermata: Kiev, anno XXI dell’era fascista. Le lettere del nonno
da quel campo di battaglia: il freddo, la mancanza di cibo, il
poco dormire. La guerra, il nemico e la solidarietà di quel
popolo pronto a dividere e condividere il poco cibo che aveva
con i militari italiani. Solidarietà, umanità, vicinanza. Le

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uniche notizie erano appese ad una lettera che dopo essere
passata dalle mani della censura, poteva finalmente giungere in
quelle della mia nonna. Muoviamoci al tempo del Coronavirus
riappropriandoci dei valori di allora con i mezzi di oggi, che ci
fanno essere connessi in men che non si dica con l’altra parte
del mondo. E per un po’ rientriamo in noi stessi: affacciati alla
finestra custodiamoci con l’occhio che va oltre la siepe e
attendiamo che il vialetto si ripopoli sotto i tiepidi raggi di un
sole primaverile. Si spera.

3 aprile 2020
Del vialetto di incroci di anime non si vede né l’inizio né la
fine. Lo sguardo abbraccia il tratto che si estende fra i due
punti spaziali. Nei giorni della quarantena forzata, lo spazio si
trasforma in tempo: l’inizio e la fine del percorso pedonale ora
sono come il prima e il dopo. E in quella grigia striscia

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d’asfalto ingentilita da una aiuola verde punteggiata da alberelli
dalle rare fronde c’è il durante. È il qui e ora fatto di assenze, di
pieni e di vuoti, di attese, di speranze e di delusioni. Nel
durante cadono le impalcature delle finzioni e le luci a energia
solare di notte fanno una luce calda che attutisce il dolore per le
scoperte spiacevoli, che costringono ad aprire gli occhi e
prendere atto di avere ragione. Nel durante si scoprono con
meraviglia il semplice ‘ciao come stai’ da chi mai avresti
pensato o con tristezza il trasformismo di chi da tanto si
professa vicino. Il durante è uno specchio in cui cercare riflessi
coloro che sono a fianco nel cammino e vogliono attraversare
insieme questa spera per raggiungere il dopo e proseguire
rafforzati. Ci sono immagini a tinte forti e decise, ci sono
quelle a tinte sbiadite per paura di essere troppo coinvolte nella
vita dell’altro e di sentire. Sentire, non con l’udito, ma con il
cuore che ha ritmi fatti di tenerezza, piccole attenzioni e cura
dell’altro. I care ancora di più.

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7 maggio 2020, 3.19 di notte
La Luna ha bussato alla finestra e mi ha costretta ad alzarmi da
letto per vedere riflessa sul pavimento la mia ombra. Sul
vialetto di incroci di anime si vede come fosse giorno: solo il
gracidare di rane poco distante e proiettate le figure di coloro
che agiscono nel buio nelle varie circostanze della vita. Ma
sono effimere e svaniscono mentre la Terra continua il suo giro
e la Luna completa la sua orbita. L’epidemia e la Luna rendono
più crudi il silenzio, la solitudine e la distanza.

Sara Bessi, giornalista de La Nazione


Cronista Toscana 2014
2 giugno 2020

39
PREMIO PER IL
CRONISTA TOSCANO
«LEONARDO BERNI»

Voglio ringraziare, a nome di tutta la mia famiglia, i


giornalisti “Vincitori delle edizioni del Premio per il cronista
toscano intitolato a mio padre, Leonardo Berni”, per avere
concretizzato la piccola ma significativa “idea” nata nella
nostra Associazione in tempo di Covid-19.
Ciascuno, a modo proprio, ha raccontato questo strano
periodo di pandemia, uno sconquasso che ha investito
improvvisamente la vita di tutti , evidenziando fatti e problemi,
senza usare filtri, senza il timore di mostrare le emozioni, di
confessare le difficoltà di chi fa cronaca, soprattutto in tempi
funesti e di grande crisi come quello che stiamo vivendo.
I“pezzi”, alcuni drammatici, altri più delicati e tutti
profondamente sinceri, rivelano l’eccellenza della scrittura e
sono lo specchio di un impegno che non finisce mai, che non
conosce sacrifici o impedimenti di sorta al solo scopo di fare
entrare nelle case della gente un mondo autentico,
un’informazione corretta e fidata.
Grazie di cuore per il contributo prezioso, un esempio da
seguire per coloro che, spinti dal medesimo spirito, si
accingono a percorrere la vostra stessa strada.

Vinci, 24 giugno 2020


Tiziana Berni

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La dottoressa con la mascherina che culla l’Italia, immagine simbolo

INDICE
Prefazione e ringraziamenti ...................................................... 4
La Cronaca come flusso costante della storia ........................... 6
L’ossigeno dell’informazione ................................................... 9
«Senza lavoro a causa del virus. Ora faccio la coda tra i poveri» ... 11
Il distanziamento dalla notizia ................................................ 15
50 metri ................................................................................... 18
Un giornalismo “altro” è possibile .......................................... 20
Il giornalismo ritrovato e migliore .......................................... 23
Il pandemonio durante la pandemia ........................................ 26
Pensieri sulla pandemia ........................................................... 30
Incroci di anime ...................................................................... 35

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SERATE E QUADERNI DI VINCI NEL CUORE

I Vinciani raccontano il paese di Leonardo

1. Paolo Santini, Origine e storia del Santuario della Santissima


Annunziata in Vinci Fiorentino (1612-2012). Note per un
studio, 2012
2. Francesco Cianchi, La «mia» Caterina non è di Cerreto.
Argomentazioni a sostegno dell’ipotesi di Caterina «schiava», madre
di Leonardo, 2014
3. Ilaria Morelli, Memoriali popolari della Grande Guerra. La
lapide marmorea della Chiesa di Santa Croce, 2014
4. Tiziana Berni, La Compagnia dello Spirito Santo. Note e
appunti di ricerca sulle origini e storia delle Compagnie Laicali
dedite alla «misericordia», 2015
5. Nicola Baronti, Il Miracolo del SS. Crocifisso di Vinci. Storie e
leggende sul «Volo di Cecco Santi» con documenti e un inedito
studio di Renzo Cianchi, 2015
6. Nicola Baronti, Il Natale a Vinci. Cultura e tradizioni della
festa, Prefazione di Mons. Renato Bellini, 2015
7. Arnold Henry Savage Landor, Sono arrivati gli inglesi. Ritratti
e storie dell’Inglese di Calappiano, tratti da Everywhere, the
Memoirs of an Explorer (1924), traduzione di Piero Fusi,
2017
8. AA.VV., Cronache Vinciane. Dalle Onoranze alle Celebrazioni
fino al «Giorno di Leonardo» (1919-1939), I, 2018
9. AA.VV., Cronache Vinciane. Dalle Onoranze alle Celebrazioni
fino al «Giorno di Leonardo» (1952-2018), II, 2018
10. Raffaello Santini - Nicola Baronti, I Fatti di S. Lucia. La
fenomenologia quotidiana della guerra. Vinci 27 luglio 1944. Tra
storia e poesia: le testimonianze e una suite teatrale., Prefazione
di Paolo Santini, 2018

42
11. Ilaria Morelli, Epistolario Gandi, un maestro elementare alla
Grande Guerra. Prefazione di Giovanni Maria Gandi e
Nicola Baronti, 2018
12. Ilaria Morelli, Voci dal fronte. I Vinciani alla Grande Guerra
dal racconto personale alla memoria collettiva , 2018
13. Christian Santini, Storie su due ruote. Da Leonardo al Giro
d’Italia, Prefazione e nota storica a cura di Nicola Baronti,
2019
14. AA.VV. Il coronavirus raccontato dai cronisti toscani. Contributi
dei vincitori del Premio Berni e Omini Boni (2014-2019).
Raccolta e prefazione a cura di Christian Santini, 2020

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Hanno collaborato alla realizzazione di questo Quaderno

La pubblicazione del Quaderno è a uso esclusivo


dei soci, amici e collaboratori dell’Associazione
Vinci nel Cuore! e delle Associazioni di partenariato
con scopi di divulgazione storica e scientifica

Finito di stampare nel mese di giugno 2020


da Eurografica – Vinci

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