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Lezione 32 Sessione 2

Esempi di discriminazione

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La continuazione del discorso sui diritti umani delle persone transgender
L’identità di genere è uno degli aspetti più importanti della vita.
I diritti umani delle persone transgender sono stati a lungo ignorati. Le persone
transgender vanno incontro a discriminazioni, intolleranza e, talvolta anche,
violenza diretta. I loro diritti umani di base vengono violati, incluso il diritto alla
vita, il diritto all’integrità fisica a il diritto alla salute.
Per comprendere il concetto di “identità di genere” è importante distinguere le
nozioni di “sesso” e “genere”.
Il sesso fa riferimento alle caratteristiche biologiche e fisiologiche con cui si
nasce.
Il genere si riferisce ad una serie di aspettative, comportamenti ed attività
socialmente costruiti di uomini e donne.
Con identità di genere ci riferiamo al genere a cui le persone sentono di
appartenere, che può essere o non essere uguale al sesso che è stato loro
assegnato alla nascita.
L’identità di genere viene definita dai Princìpi di
Yogyakarta come “l’esperienza interna e individuale del genere, che può
corrispondere o meno al sesso assegnato alla nascita, e che comprende il
senso personale del corpo (che può comportare, se scelto liberamente, la
modificazione dell’aspetto o della funzione corporea con mezzi medici,
chirurgici o di altro tipo) e altre espressioni del genere, compresi
l’abbigliamento, il linguaggio ed i modi di fare”.

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Transgender (trans «al di là» e gender «genere sessuale») generalmente si
riferisce a coloro che si identificano con un genere diverso da quello assegnato
alla nascita in modo transitorio o continuativo.
L’orientamento sessuale è l’attrazione emozionale e sessuale di una persona
verso individui di sesso opposto, dello stesso sesso, di entrambi i sessi o di
nessuno dei due.
LGBT è un acronimo di origine anglosassone che sta per “lesbiche, gay,
bisessuali, transgender”. Talvolta si utilizza anche LGBTQI, comprendendo in
tal caso anche le persone che vivono una condizione intersessuale; il termine
queer significa strano, insolito.
La parità di genere è un fondamentale diritto umano, eppure la discriminazione
basata sul sesso, l’identità di genere e l’orientamento sessuale è diffusa in tutto
il mondo.
Dal Paper di Thomas Hammarberg, Commissario del Consiglio d’Europa per i
Diritti Umani, del 2011 (I Diritti Umani e l’Identità di Genere) emergeva che la
legislazione della maggior parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa non
copre esplicitamente la discriminazione basata sull’identità di genere. Molti
Stati membri dell’UE trattano la discriminazione per motivi correlati all’identità
di genere come una forma di discriminazione sessuale, altri la considerano
come discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale e altri Stati
ancora non la trattano né in un modo né nell’altro.
A distanza di più di 10 anni da questo Report, in Europa, nonostante ci sia stata
in molti paesi un’apertura ai diritti LGBTI, la situazione rimane ancora critica a

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causa del persistere di pregiudizi, discriminazione e violenza motivati dall’odio
omofobico.

Le discriminazioni in base al sesso


Su questo tipo di discriminazioni si è sviluppata una cospicua giurisprudenza
nazionale. La giurisprudenza ha colpito le discriminazioni sul lavoro, ad
esempio, quando ha affermato che le tutele riconosciute alla madre lavoratrice
devono essere riconosciute anche al padre lavoratore, perché nella società
contemporanea il ruolo familiare del padre e della madre tende a essere
sempre più assimilabile. Un altro ambito di intervento è stato quello relativo ai
criteri di accesso a un impiego. La giurisprudenza ha dichiarato che fosse
illegittimo prevedere per gli uomini e per le donne il medesimo requisito di
altezza minima per l’accesso a un impiego, perché così si determinerebbe
“un’irragionevole sottoposizione a un trattamento giuridico uniforme di
categorie di persone caratterizzate, in base ai dati desumibili da una media
statistica, da stature differenti”.

Stereotipi di genere e violenza sessuale


Con la decisione del 27 maggio 2021, nella causa J.L. c. Italia (ricorso n.
5671/16), la Corte europea dei diritti ha condannato l'Italia per violazione
dell'articolo 8 della Convenzione EDU (diritto alla vita privata e all'integrità
personale).
La causa riguardava un procedimento penale nei confronti di sette uomini
accusati di violenza sessuale di gruppo e poi assolti dai giudici italiani. In
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particolare, la Corte europea ha rilevato che nel procedimento penale non
erano stati adeguatamente tutelati i diritti della presunta vittima di violenza,
esposta a vittimizzazione secondaria dalla stessa Corte d'appello di Firenze
che, nel pronunciare sentenza di assoluzione, aveva formulato osservazioni
sulla bisessualità della presunta vittima e ricordato i rapporti sessuali affettivi e
occasionali del ricorrente prima dei fatti.
La ricorrente lamentava di avere subìto una discriminazione fondata sul sesso,
affermando che l’assoluzione dei suoi aggressori e l’atteggiamento negativo
delle autorità nazionali durante il procedimento penale derivassero da
pregiudizi sessisti. La stessa invocava l’articolo 14 della Convenzione così
formulato: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella (...)
Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in
particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le
opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale,
l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni
altra condizione», in combinato disposto con l’articolo 8, secondo cui «Ogni
persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare».
La Corte di Strasburgo ha ritenuto che il linguaggio e gli argomenti utilizzati
dalla corte italiana configurassero in effetti dei pregiudizi sul ruolo delle donne,
pregiudizi che rischiano di ostacolare la protezione efficace dei diritti delle
vittime della violenza di genere.
Il presupposto per cui l’Italia venne condannata era che gli stereotipi di
genere consentono la legittimazione della violenza e, se riproposti anche

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dalle autorità giudiziarie, determinano una forte sfiducia e diffidenza nei
confronti della giustizia penale da parte delle vittime.
Una preoccupazione in questo senso era stata manifestata anche
dal GREVIO (il Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti
delle donne e la violenza domestica, organismo indipendente del Consiglio
d'Europa) che sottolineava l’inquietante presenza di stereotipi persistenti
nelle decisioni dei Tribunali sui casi di violenza.

Le discriminazioni in base alla religione


Da tempo la Corte costituzionale ha richiamato il “principio supremo della laicità
dello Stato”. La laicità, in Italia, è intesa in senso “positivo”, perché non implica
“indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni”, bensì “garanzia dello Stato per
la salvaguardia della libertà di religione”, in un regime di “pluralismo
confessionale e culturale”. La laicità comporta l’esigenza di un eguale
trattamento di tutte le confessioni religiose e la imparzialità della legislazione
rispetto a tutte le confessioni religiose.
Eppure l’affermazione del principio di eguaglianza tra le confessioni religiose è
stato faticoso.
Lo dimostra, ad esempio, la vicenda giurisprudenziale relativa alle norme di
legge sulla bestemmia. La Corte costituzionale aveva giustificato la disparità di
trattamento tra religione cattolica e altri culti insita in una repressione penale
ben più severa delle offese al sentimento religioso dei cattolici sul presupposto
che un trattamento diverso tra le varie confessioni religiose sarebbe legittimo
in ragione del numero degli aderenti. Solo nel 1988 la Corte rigettò l’incongruo
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criterio numerico e affermò di ritenere “ormai inaccettabile ogni tipo di
discriminazione che si basasse soltanto sul maggiore o minore numero degli
appartenenti alle varie confessioni religiose”.

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