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Grano antico fa buon glutine?

12 luglio2017
A mano a mano che cambiano le nostre abitudini alimentari forse dovremmo adattare i proverbi per
stare al passo coi tempi. “Gallina vecchia fa buon brodo” per esempio è ormai difficilmente
comprensibile dal consumatore moderno, che sempre più raramente prepara ancora il brodo a casa,
per non parlare della difficoltà oggi di reperire una gallina, per di più vecchia. Una versione adattata
al nuovo millennio potrebbe essere invece “Grano antico fa buon glutine”. Questo almeno è quanto
sempre più spesso si sente dire, in rete come in televisione o sui giornali, da produttori, agricoltori,
medici, panificatori, pizzaioli e persino qualche scienziato. Secondo questa vulgata i grani
“moderni” sono accusati di volta in volta di essere meno nutrienti di quelli “antichi”, oppure di
avere molto più glutine, o di un tipo più “tossico” (e fate attenzione a tutte le virgolette), e di aver
contribuito al diffondersi di varie malattie legate ai grani come la celiachia e così via.

Sarà vero? Ci sono evidenze scientifiche o è tutto frutto del passaparola che sul web corre
incontrollato? Cerchiamo di capirlo. Vi avviso subito però che l'articolo sarà lungo e dovrò
necessariamente entrare nei dettagli perché il tema è complicato, ma spero di non annoiarvi troppo.

Il dilemma del miglioratore genetico

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Dall’invenzione dell’agricoltura l’uomo ha iniziato a modificare i geni delle specie selvatiche per
adattarle ai nostri desideri, selezionando via via quei geni che corrispondevano a caratteristiche
interessanti: frutta più dolce, semi più grossi e produttivi, vegetali meno tossici e più gradevoli al
palato, o semplicemente più belli e così via. Il tutto sfruttando pesantemente le mutazioni genetiche
spontanee che apparivano –e ancora lo fanno– nei campi da un giorno all’altro senza preavviso.
Questo processo, chiamato “miglioramento genetico”, ha portato le piante coltivate a essere molto
diverse, geneticamente, dalle loro antenate selvatiche, al punto che quasi nulla di ciò che coltiviamo
riuscirebbe ora a sopravvivere allo stato selvatico senza le cure di un agricoltore.

Durante il processo millenario di mutazione genetica e selezione, chi ha migliorato le varietà


vegetali –oggi li chiamiamo breeders– ha eliminato anche alcuni geni portatori di caratteristiche
negative per la salute umana– perché per esempio producevano sostanze tossiche in grado di
proteggere la pianta dai parassiti– e ha aumentato le rese. Una domanda che gli scienziati hanno
iniziato a porsi vari anni fa è se per caso, nella corsa al miglioramento genetico, non si siano
inavvertitamente anche selezionati prodotti meno nutrienti o meno salubri o addirittura tossici.

Con l’aumento mondiale di malattie legate al consumo di grano questa domanda è diventata
pressante specialmente per quel che riguarda i vari tipi di grano “moderno” che noi consumiamo,
che sempre più spesso sono accusati di essere causa di molteplici patologie, a differenza dei “grani
antichi”.

Grani antichi. Sì ma quanto antichi?

Prima di continuare però dobbiamo metterci d’accordo su cosa intendiamo per “grani antichi”. Ogni
classificazione, ogni data specifica, ogni linea di demarcazione è necessariamente arbitraria dato
che il miglioramento genetico è iniziato con l’agricoltura stessa. Pensate che il grano tenero
selvatico non esiste neppure poiché questa specie è nata già domesticata per effetto di una fusione
genetica tra il farro coltivato e una graminacea spontanea. È però indubbio che nell’ultimo secolo il
miglioramento genetico abbia accelerato. Ecco quindi che nel parlare comune spesso convivono due
differenti –e contrapposte– definizioni di “grano antico”.
Nella prima si intendono per grani antichi quelle specie del genere Triticum (quelli che chiamiamo
grani) che erano consumate, appunto, dalle popolazioni dell’antichità. Sono quindi, potremmo dire,
“geneticamente antiche”. Il Farro monococco quindi, domesticato 10.000 anni fa è il più antico di
tutti. Come abbiamo raccontato nel libro Contronatura, il Farro monococco era geneticamente più
semplice, con 14 cromosomi, e con caratteristiche panificatorie inferiori a quello che lo avrebbe
soppiantato: il farro dicocco, che ancora oggi possiamo gustare in alcune parti d’Italia ma che è
ormai praticamente sconosciuto in molti paesi stranieri.

Il farro dicocco era il vero “grano dell’antichità”, consumato in gran quantità dai Romani. Perse
d’importanza quando, nel medioevo, il grano tenero prese il sopravvento in Italia. Ora è tornato di
moda e lo si trova ovunque. In zuppe, dove fortunatamente è rimasto in alcune zone d’Italia come la
Toscana, ma anche nei biscotti, nelle insalate e in tanti altri prodotti. Le aziende alimentari lo
adorano perché rimanda nel consumatore a un immaginario preindustriale, dove la vita era semplice
e tranquilla e il cibo non ancora corrotto dall’uomo. Le aziende non vendono biscotti al farro (che
per altro io acquisto perché mi piacciono) ma suggestioni. Mica per niente hanno inventato
l’immaginario del Mulino Bianco.

Le migliori capacità agronomiche e gastronomiche del farro sono dovute all’aggiunta di decine di
migliaia di geni sui 14 cromosomi donati da un’erba selvatica. Alcune mutazioni genetiche
porteranno poi al grano duro (Triticum durum) che usiamo principalmente per la pasta, mentre
un’ulteriore fusione genetica con geni provenienti da un’altra graminacea spontanea porterà, ultimi
arrivati, al Farro spelta e al Grano tenero (Triticum aestivum), un vero e proprio mostro genetico.

Di tutte le specie del genere Triticum che coltiviamo è proprio il grano tenero quella più diffusa, che
con più di 700 milioni di tonnellate/anno rappresenta il 95% dei grani coltivati. Buon secondo
abbiamo il grano duro con 40 milioni di tonnellate. A seguire le briciole con le varie specie di farro
e altri grani minori.

Secondo questa classificazione quindi il grano più “antico” è il farro monococco e a seguire il farro
dicocco. Il più “moderno” è il frumento tenero, con tutte le sue varietà che si sono create nei
millenni dopo la sua coltivazione che però differiscono geneticamente tra loro molto meno di
quanto questa specie differisca dalle altre, avendo una biodiversità molto ridotta.

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[Shewry, Peter R., and Sandra Hey. "Do “ancient” wheat species differ from modern bread wheat in
their contents of bioactive components?." Journal of Cereal Science 65 (2015): 236-243.]

Ecco quindi che Peter Shewry e Sandra Hey, ambedue scienziati del prestigioso Centro di Ricerche
Rothamstead, si chiedono “Le specie di grano “antico” differiscono dal grano tenero moderno nelle
loro componenti bioattive?”, dove Shewry e Hey usano appunto la definizione genetica di “antico”.

I due scienziati hanno studiato il contenuto nutrizionale di farro monococco, farro dicocco, farro
spelta, grano duro e grano tenero in cerca di differenze. Soprattutto andando a vedere il contenuto in
fibre, che hanno un effetto positivo sulla nostra salute, e sostanze fitochimiche di vario tipo (alcune
vitamine, steroli, acidi fenolici, alchilresorcinoli ecc.)

Ricordiamo peró che comunque il farro che mangiamo oggi non è comunque lo stesso dell’antichità
perché anche in un campo incolto senza alcun intervento dell’uomo nel corso dei millenni si
selezionano alcuni geni in favore di altri. L’evoluzione è sempre al lavoro.
Precisato questo, le conclusioni dei ricercatori sono che i grani “antichi” differiscono molto poco
dal frumento tenero moderno per quel che riguarda la maggior parte dei composti bioattivi,
contenendone quantità paragonabili, eccezion fatta per i carotenoidi, dato che alcuni grani, per
esempio quello duro, sono stati selezionati nei secoli per dare una colorazione più gialla alla sua
farina. Le fibre invece sono presenti in misura maggiore nei “moderni” grano tenero e grano duro
rispetto al farro monococco e altri grani più antichi. Questo per quel che riguarda le analisi dei
chicchi. C’è da dire che dal punto di vista del consumatore, la differenza nelle quantità di fibre che
ingeriamo la fa più la scelta di mangiare prodotti a base di farine integrali, o direttamente i semi (ma
quanto è buona la zuppa di Farro alla toscana?) che non la scelta del tipo di specie. Una farina
integrale può avere il 10-15% di fibre mentre in una farina 00 queste sono solo il 2-3%

Le conclusioni dei due scienziati sono che

“i dati disponibili mostrano che i grani antichi differiscono poco da quelli moderni nel contenuto
della maggior parte delle sostanze bioattive e possono forse contenere meno fibre. Queste analisi
non supportano l’ipotesi che i grani antichi siano in qualche modo ‘più sani’ di quelli moderni”

Antichi dell’altroieri

La seconda definizione di “grani antichi” fissa come spartiacque arbitrario, tra il prima e il dopo, la
prima o la seconda guerra mondiale, o comunque i primi decenni del ventesimo secolo. Nella
letteratura scientifica troviamo vari articoli che si pongono l’obiettivo di indagare se il grano –sia
duro che tenero– ottenuto nella seconda metà del 20° secolo sia in qualche modo diverso dai suoi
progenitori.

La classificazione come dicevo è abbastanza arbitraria, proprio perché le modificazioni genetiche si


sono accumulate e selezionate per millenni. E se per alcuni articoli un grano del 1960 è considerato
antico, per altri è senza dubbio moderno. È però indubbio che a partire da dopo la seconda guerra
mondiale il miglioramento genetico del grano, orientato soprattutto ad aumentare le rese, abbia
subito una accelerazione, e quindi è del tutto legittimo chiedersi se, per caso, questo non abbia
introdotto delle caratteristiche indesiderate nei “grani moderni”, soprattutto nel glutine.

Si vabbè ma il glutine?

Continuate a ripetere ossessivamente una cosa inventata e dopo un po’ sarà ritenuta “vera”. È quello
che è accaduto con l’affermazione che oggi i grani conterrebbero più glutine di quelli di una volta.
In realtà il miglioramento genetico non si è mai posto l’obiettivo di aumentare il contenuto di
glutine, ma più spesso di aumentare il contenuto di amido, direttamente collegato alle rese. Quindi,
casomai, il contenuto proteico totale, di cui il glutine è la frazione più importante, dovrebbe avere
avuto la tendenza a diminuire o a rimanere stabile. È così? Donald Kasarda, un ricercatore del
servizio di ricerche in agricoltura del ministero dell’agricoltura americano, ha cercato di fare
chiarezza.

kasarda
[Kasarda, D. D. (2013). Can an increase in celiac disease be attributed to an increase in the gluten
content of wheat as a consequence of wheat breeding?. Journal of agricultural and food chemistry,
61(6), 1155-1159.]

Prima di analizzare i dati di Kasarda mi permetto una piccola digressione gastronomica: per certi
prodotti, come torte e biscotti, serve della farina debole, con poco glutine. Diciamo 7%-11% di
proteine. A volte addirittura per certi prodotti da forno si riduce la percentuale di glutine
aggiungendo ulteriore amido. Per altri prodotti, come il pane o alcuni lievitati, servono percentuali
di proteine, e quindi di glutine, superiori, diciamo 12%-14%. Ed è SEMPRE stato così. Questo
significa che almeno dal Medioevo si è sempre cercato di avere farine da grani con un alto
contenuto di glutine e altre con un minor contenuto di glutine. Non ha nessun senso gastronomico
pensare che nell’ultimo secolo tutti siano impazziti cercando di sviluppare solo grani con un
contenuto di glutine che il mercato non ha mai richiesto. Quindi, se mi avessero chiesto di
scommettere, senza sapere nulla, se nell’ultimo secolo il glutine nel grano sia aumentato io avrei
detto di no perché non avrebbe avuto alcun senso.

Se andate a leggervi l’Artusi scoprirete che per alcune ricette di lievitati lui prescrive alcune
specifiche farine, dei climi freddi d’Ungheria.

Ok, Kasarda non me l’ha chiesto e quindi è andato a cercare i dati. E cos’ha scoperto? Analizzando i
tabulati annuali delle percentuali di proteine contenuti del grano coltivato nel Kansas dal 1949 al
2011 ha scoperto che le variazioni di proteine dipendono molto di più dalle condizioni
metereologiche di un determinato anno che dalla varietà di grano coltivato. La percentuale rimane
attorno al 11%-13% ma nel 1956 ha avuto un picco a 14,1% mentre nel 1961 è stato il minimo
storico con 10,7%. Nel Minnesota invece la percentuale del grano (da pane) coltivato negli anni
’20-’30 del secolo scorso era attorno al 13%-15%, ma nel 1938 ci fu un picco con una percentuale
di glutine altissima, il 18,8%, dovuta presumibilmente alla siccità. In generale quindi non c’è alcun
segno di un aumento di glutine nelle coltivazioni di grano a mano a mano che ci avviciniamo ai
nostri giorni e le medie sono rimaste costanti. Ma la cosa più corretta da dire, a mio parere, è che le
medie comunque dicono poco, perché ogni anno c’è sempre una richiesta di grano con poco glutine
e di grano con più glutine. Infatti ci sono dei grani “antichi” che hanno un quantitativo di glutine
molto alto. Il tanto decantato, e ora di moda, Senatore Cappelli per esempio, ha un contenuto di
glutine elevato.

Come dicevo prima, non c’è alcun bisogno di avere solo farine con un contenuto elevato di glutine.

Kasarda conclude con

“non ho trovato alcuna prova di un trend verso un aumento del contenuto proteico del grano tenero
dagli inizi del ventesimo secolo a oggi”

Quindi, nonostante quanto si sente spesso dire, il glutine non è affatto aumentato, e i grani antichi
non è affatto vero che possedessero meno glutine. Mi è capitato una volta di discutere con una
persona venuta a sentire una mia conferenza. Sosteneva che i grani di adesso avessero il triplo (!)
del glutine di una volta. A nulla sono valse le mie spiegazioni, e del fatto che fossero numeri privi di
senso. Le fonti? L’aveva letto su internet e quindi era per forza vero.

Ok, magari il grano non ha più glutine ma noi ne mangiamo di più. Potrebbe essere vero?

Kasarda si pone anche questa domanda, ma i dati mostrano altrimenti: all’inizio del 20° secolo negli
USA si mangiava molto più grano --principalmente attraverso il pane-- che nel resto del secolo. Il
consumo di grano è costantemente diminuito fino agli anni ’60, negli Stati Uniti, quasi
dimezzandosi, per poi riaumentare un pochino e diminuire di nuovo negli anni 2000.

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Non ho dati italiani ma mi stupirei di scoprire che oggi mangiamo più farina di 100 anni fa, quando
il pane era consumato in quantità molto più elevate che ora.
Ok, il glutine non è aumentato e ci sono sempre stati grani antichi, con tanto glutine, così come
grani, antichi e nuovi, con poco glutine. E non ne mangiamo di più.

Ma magari il glutine è un po’ cambiato?

Questa è un’altra cosa che si sente dire spesso. Se il glutine totale non è cambiato, forse potrebbe
essere cambiata la sua composizione. Alcuni dicono addirittura che il glutine dei “grani moderni”
sia addirittura “tossico”.

Il glutine è composto di due tipi di proteine: le gliadine (suddivise in alpha, beta, gamma e omega) e
le glutenine, che si dividono in leggere (LMW-GS Low Molecular Weight Gluten Subunit) e pesanti
(HMW-GS).

Queste proteine vengono spezzate con difficoltà dal nostro corpo e alcuni frammenti possono
sopravvivere alla digestione. In un articolo precedente vi avevo spiegato che nella parziale
digestione del glutine rimaneva addirittura un frammento di 33 amminoacidi che danneggiava
l’intestino del celiaco. Prima di continuare vi devo spiegare che cos’è un epitopo. (Vi avevo
avvisato che dovevo entrare nei dettagli).

In pratica un epitopo è un frammento di una proteina di pochi amminoacidi legati insieme. Ciò che
danneggia il celiaco non è tutto il frammento di 33 amminoacidi ma sono degli epitopi specifici più
corti contenuti in questo lungo frammento. Questo è quello più noto ma per i celiaci sono tossici
anche altri epitopi, più o meno lunghi e con tossicità diverse. Fino ad ora sono stati identificati e
classificati almeno 30 diversi epitopi tossici per il celiaco. La maggior parte di questi è presente
nelle gliadine (alpha-gliadina soprattutto), mentre solo una minoranza nelle glutenine.

Grani diversi possono quindi avere una tossicità diversa per i celiaci –posto che sono comunque
tutti tossici– perché contengono più o meno epitopi, e di tipo diverso.

Una domanda legittima è chiedersi se i grani moderni siano più tossici di quelli antichi perché
magari contengono più epitopi tossici. Ricordate comunque che stiamo parlando di tossicità per i
celiaci, non per le persone non affette dalla malattia.

L’allarme del 2010

hetty
[Van den Broeck, H. C., de Jong, H. C., Salentijn, E. M., Dekking, L., Bosch, D., Hamer, R. J., ... &
Smulders, M. J. (2010). Presence of celiac disease epitopes in modern and old hexaploid wheat
varieties: wheat breeding may have contributed to increased prevalence of celiac disease.
Theoretical and Applied Genetics, 121(8), 1527-1539.]

Nel 2010 Hetty van den Broeck e colleghi studiano la presenza di due epitopi tossici per i celiaci
(chiamati Glia-alpha9 e Glia-alpha20), entrambi sulla gliadina. Il primo, tossico per il 90% dei
celiaci, è presente nel famoso frammento di 33 amminoacidi non digeribile dagli enzimi digestivi.

I ricercatori analizzano 36 grani rilasciati principalmente negli anni ’80 e ’90. Sono 34 grani
tedeschi, uno polacco e uno britannico. Li confrontano poi con 50 grani antichi, o popolazioni, di un
po’ di tutto il mondo. Come il Noè e il famoso Akagomugi, il grano giapponese usato da Strampelli
per i suoi incroci. Vanno quindi a ricercare i due epitopi su tutti questi grani.
I risultati mostrano che sia nei vecchi che nei nuovi c’è una ampia variabilità della presenza dei due
epitopi, quindi esistono grani antichi più pericolosi per il celiaco e grani antichi meno pericolosi. E
la stessa cosa si può dire per quelli più recenti. I già citati “antichi” Akagomugi e Noè per esempio
risultano essere mediamente più tossici del grano Irakeno CGN08327, e sono quelli usati da
Strampelli nei primi decenni del XX secolo per produrre grani che ora in Italia vengono considerati
“antichi”. E anche Cadenza, il solo grano britannico moderno inserito nello studio, risulta molto
meno tossico per i celiaci sia di tutti i grani tedeschi moderni considerati, ma anche di molti grani
antichi.

Se considerati come un gruppo, nei grani più recenti l’epitopo Glia-alpha9 è presente in maggior
quantità, forse un risultato casuale della selezione genetica effettuata nei decenni, mentre ci sono 15
grani antichi su 50 che hanno una minor quantità di epitopi tossici. Il messaggio che i ricercatori
cercano di far passare nelle conclusioni non era quello di “tornare ai grani antichi”, che non sono
adatti alle richieste tecnologiche e agronomiche moderne, ma di usare la biodiversità esistente per
ottenere un numero maggiore di grani moderni meno tossici per i celiaci, attraverso il
miglioramento genetico usando quelle varietà antiche con meno epitopi tossici come materiale da
incrocio o addirittura usando le biotecnologie.

Il messaggio invece che è passato, a dire il vero un po’ strumentalizzato, è “il grano moderno è più
tossico di quello antico” mentre avrebbe dovuto essere “sia tra i grani antichi che tra quelli più
recenti si sono varietà più tossiche e varietà meno tossiche. L’epitopo tossico Glia-alpha9 è più
diffuso in quelli moderni ma reincrociandoli con materiale antico è possibile ridurlo”.

E di sicuro i ricercatori hanno giocato un po’ sporco, peccando di sensazionalismo nel titolo “wheat
breeding may have contributed to increased prevalence of celiac disease”, “Il miglioramento
genetico del frumento potrebbe aver contribuito all’incremento della celiachia”. L’anonimo revisore
che ha approvato l’articolo per la pubblicazione secondo me avrebbe dovuto richiedere come
minimo un cambio del titolo, perché nessuno ha mai dimostrato che ci sia un legame causale tra la
presenza di certi epitopi e l’aumento della celiachia e in questo articolo men che meno.

Succede purtroppo spesso che le ragioni del marketing, anche della scienza, prevalgono sui tempi
lunghi che richiede la ricerca scientifica.

Vi ho detto che gli epitopi tossici sono almeno 30 mentre qui ne hanno analizzati solo 2. E gli altri
28? E che dire dei grani “moderni” analizzati? Praticamente tutti tedeschi, e degli anni ’80-’90. Che
dite? Forse era una ricerca un po’ troppo ristretta per dipingerla come un match “I grani antichi vs I
grani moderni”?

Qualche epitopo in più

La scienza ha i suoi tempi, ed ecco che nel 2016 qualcuno fa una ricerca più ampia.

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[Ribeiro, M., Rodriguez-Quijano, M., Nunes, F. M., Carrillo, J. M., Branlard, G., & Igrejas, G.
(2016). New insights into wheat toxicity: breeding did not seem to contribute to a prevalence of
potential celiac disease’s immunostimulatory epitopes. Food Chemistry, 213, 8-18.]

Dopo aver notato che la ricerca del 2010 ha analizzato solo poche varietà di frumento e solo due
epitopi, i ricercatori illustrano il loro studio su 53 varietà moderne di frumento, 19 popolazioni
antiche non selezionate (chiamate “landraces”), 20 farri spelta, 15 duri moderni e 19 popolazioni
antiche non selezionate di grano duro. Ci sono 126 varietà e specie provenienti un po’ da tutto il
mondo (ma non dall’Italia). In più nello studio sono stati cercati e identificati 5 epitopi tossici
invece che solo due.

Uno degli aspetti meno convincenti delle conclusioni dell’articolo del 2010, fanno notare i
ricercatori, è che durante il miglioramento genetico del grano, scienziati e breeders hanno posto
l’accento principalmente sulle glutenine, poiché sono loro a conferire le caratteristiche
viscoelastiche all’impasto. Però sono le gliadine le proteine a dare più problemi ai celiaci perché la
maggior parte degli epitopi è presente lì.

Anche questi studiosi trovano, nei grani, una enorme variabilità di epitopi tossici ma

“le vecchie popolazioni di frumento tenero, non soggette a miglioramento genetico, mostrano un
contenuto di epitopi tossici più elevato delle varietà moderne. Possiamo quindi concludere che il
miglioramento genetico non ha contribuito alla prevalenza degli epitopi immunostimolanti per la
celiachia”

Certo, notano gli autori riferendosi al grano tenero, non hanno potuto analizzato tutti gli epitopi
tossici noti, ma non si stupiscono del risultato perché

“i programmi di miglioramento genetico si sono focalizzati sulle glutenine, mentre le gliadine, che
hanno rilevanza clinica, sono rimaste più o meno invariate.”

Passando al grano duro i ricercatori trovano la stessa quantità di epitopi tossici nelle vecchie e nelle
nuove varietà. E per curiosità il record della tossicità spetta, in questo studio, al farro spelta.

Concludono così:

“Poiché le varietà e popolazioni antiche presentano quantità uguali (grano duro) o superiori (grano
tenero) di epitopi tossici, possiamo dedurre che il miglioramento genetico non ha contribuito
all’incremento della celiachia durante la seconda metà del XX secolo”

Insomma, non solo non vi sono prove che il miglioramento genetico abbia contribuito all’aumento
della celiachia, ma addirittura le varietà e popolazioni di grani antichi analizzati presentano una
maggior quantità di epitopi tossici confrontate con le varietà moderne.

Ma magari il grano italiano è diverso

Va bene, niente epitopi più tossici nei grani moderni. Ma magari è cambiato qualche cos’altro nel
grano, no?

È quello che hanno cercato di capire dei ricercatori, quasi tutti italiani, esaminando il grano duro
italiano, vecchio e nuovo.

desantis1
[De Santis, M. A., Giuliani, M. M., Giuzio, L., De Vita, P., Lovegrove, A., Shewry, P. R., &
Flagella, Z. (2017). Differences in gluten protein composition between old and modern durum
wheat genotypes in relation to 20th century breeding in Italy. European Journal of Agronomy, 87,
19-29.]

In realtà quello che si sa essere cambiato negli anni non è la quantità di glutine dei frumenti ma
“l’indice di glutine”, il “Gluten Index”, che è legato alle proprietà reologiche del glutine. In pratica
si deposita del glutine umido su una griglia e, con una centrifugazione, si osserva quanta parte del
glutine fuoriesce dalla griglia. La quantità di glutine che rimane nella griglia della centrifuga in
rapporto al peso totale del glutine umido corrisponde all'Indice di Glutine.

Lo studio si è concentrato su 8 varietà moderne (Adamello, Simeto, Preco, Iride, Svevo, Claudio,
Saragolla, PR22D89) e 7 antiche (dal 1900 al 1949 Dauno III, vecchio Saragolla, Rusello, Timilia,
Capelli Garigliano, Grifoni 235) per investigare la diversa composizione del glutine.

tabellagraniantichi
Durante il 20° secolo il miglioramento genetico del grano duro è stato rivolto al rilascio di varietà
ad alta resa, bassa taglia, maturazione precoce, e al miglioramento della qualità pastificatorie. In
particolare, il maggior Indice di Glutine dei grani duri moderni è correlato con un aumento del
rapporto glutenine/gliadine, oltre che all’introduzione di alcuni geni sempre collegati alle glutenine.

Gli studiosi confermano che il glutine è cambiato negli anni, aumentando le glutenine a scapito
delle gliadine. I grani moderni hanno un rapporto gliadine/glutenine più basso degli antichi (1,7
contro 2,8 nella media) a conferma di lavori precedenti che dimostravano un miglioramento delle
qualità pastificatorie dei grani moderni, migliorando l’Indice di Glutine.

Anche questo studio, come il precedente, nota come siano principalmente le gliadine le proteine a
dare problemi sia per gli allergici che per i celiaci, e queste oltre a non essere state modificate dal
miglioramento genetico, nei grani moderni sono presenti in una proporzione minore.

“è noto come le gliadine alpha e gamma contengano molti epitopi tossici per i celiaci. In questo
studio non si è trovato un effetto significativo del miglioramento genetico sull’espressione di queste
proteine […]In più la gliadina omega-5, che dà particolari problemi agli allergici, è particolarmente
presente nei grani antichi.”

Concludono dicendo che

“non sono state trovate differenze significative tra varietà vecchie e nuove per quel che riguarda le
alpha e gamma gliadine, considerate le maggiori responsabili della tossicità per i celiaci. In più nei
grani moderni si è assistito a una riduzione della gliadina omega-5, un allergene importante.”

Quindi, non solo i grani antichi non sono “meglio” di quelli moderni da questo punto di vista, ma
rischiano anche di essere più allergenici. D’obbligo comunque rimarcare anche in questo caso il
piccolo numero di varietà studiate e di epitopi. È però interessante che alcune delle varietà antiche
studiate sono proprio quelle che ora vanno per la maggiore: Cappelli, Timilia, Russello, Saragolla.
Queste di sicuro non sono meglio.

Ultimo arrivato è lo studio, tutto parmense:

prandi1
[Prandi, B., Tedeschi, T., Folloni, S., Galaverna, G., & Sforza, S. (2017). Peptides from gluten
digestion: A comparison between old and modern wheat varieties. Food Research International, 91,
92-102.]

Il lavoro parte ricordando che gli articoli precedenti (citati qui sopra) hanno dimostrato che il
miglioramento genetico non ha alterato la composizione delle sostanze fitochimiche e che i grani
antichi non sono “più sani e salutari” di quelli moderni.
“secondo i dati pubblicati, le vecchie varietà di frumento, sebbene precedentemente creduti a bassa
tossicità per i celiaci, dovrebbero essere evitati dai celiaci e non dovrebbero essere considerati
“sicuri””

Tuttavia, le vecchie varietà, anche se pericolose per i celiaci, potrebbero in teoria produrre, durante
la digestione, meno peptidi immunotossici. Come vedete nella scienza si cerca di testare tutte le
ipotesi.

“In questo lavoro confrontiamo il profilo peptidico di specie e varietà diverse di grano generato
dopo una digestione gastrointestinale simulata in vitro”

In pratica ricostruiscono in provetta i liquidi presenti nel sistema digerente -- acidi, enzimi e
quant’altro--. Ovviamente non possono riprodurre completamente il processo e per migliorare
ulteriormente lo studio si dovrebbe prelevare del materiale dall’intestino di soggetti volontari.

Studiano specie diverse (grano tenero, grano duro, farro monococco, farro dicocco e farro spelta)
grani antichi (Grano del miracolo, Virgilio, Cappelli, Timilia) e alcuni nuovi. Sono state analizzate,
dal fluido di digestione, 9 epitopi.

prandi2
Quello che trovano i ricercatori è che, dopo la digestione in provetta, l’unico grano che si discosta
da tutti gli altri, vecchi e nuovi, è il farro monococco. E qui torniamo all’inizio dell’articolo, quando
ho spiegato che questo se vogliamo è l’unico vero “grano antico”. Geneticamente antico e diverso,
non avendo subito la fusione genetica con due graminacee in successione, che ne hanno però
migliorato le caratteristiche panificatorie.

Avete mai provato a fare del pane o della pizza solo con il Farro monococco? Non c’è dubbio che
sia molto diverso dal frumento tenero, e infatti non stupisce che sia stato abbandonato nell’età del
Bronzo (3.500 a.C. - 1.200 a.C.) prima in favore del farro e poi di tutti gli altri a seguire. Se ora
facciamo pane, pizza e torte con il grano tenero un motivo c’è ;) Il farro monococco non è
comunque da considerare “sicuro” per i celiaci perché ha la concentrazione più alta di un peptide
tossico.

L’analisi mostra come, nonostante in futuro sarà necessario prelevare campioni da soggetti umani
per meglio supportare i nostri risultati

“è notevole che si trovino peptidi tossici e immunogenici in tutte le varietà e specie di triticum,
quindi nessuno dei triticum analizzati è da considerare sicuro per un celiaco”.

Una sequenza tossica è particolarmente presente e persistente nei grani antichi esaminati come
Cappelli e Timilia.

“vi è la credenza che le vecchie varietà di grano siano “più sicure” e “più salutari” confrontate con i
grani moderni. Al contrario in questo studio mostriamo che le vecchie varietà generano una quantità
più elevata di peptidi immunogenici e tossici.”

“è improbabile che le varietà moderne di grano siano responsabili dell’aumento della


celiachia”,anzi, “le vecchie varietà producono una quantità più elevata di peptidi con sequenze
immunotossiche, dopo la digestione, dei grani moderni e quindi non sono da considerare “sicuri”
per chi è predisposto verso la celiachia”.
Concludono che

“le vecchie varietà analizzate producono una quantità superiore di peptidi contenenti sequenze
immunogeniche e tossiche dei grani moderni. Quindi le varietà antiche non sono da considerare
“sicure” per soggetti che sono predisposti alla celiachia”

Epilogo

Insomma, campane a morto per l’ipotesi che i “grani moderni”, qualsiasi definizione vogliate dare
al termine, siano in qualche modo causa dell’aumento della celiachia o dei vari malanni attribuiti al
frumento. O che siano in qualche modo “peggiori”, “meno sani”, “veleno” o qualsiasi altra
attribuzione la pubblicistica dell’industria del salutismo militante e i suoi guru in servizio
permanente effettivo gli abbiano attribuito negli ultimi anni.

Intendiamoci, chi mi conosce sa che io sono superfavorevolissimo a qualsiasi ampliamento della


base di alimenti e colture disponibili recuperando vegetali dimenticati. Se vi ricordate sono stato
uno dei primi a parlare in Italia delle dimenticate carote viola, per esempio, e sono sempre attratto al
supermercato quando vedo qualche ortaggio o frutto che non conoscevo. Quindi ben vengano, dal
punto di vista gastronomico, le coltivazioni di nicchia di grani che erano stati abbandonati. In più so
benissimo come possano anche rappresentare una risorsa per alcuni agricoltori: le vecchie varietà
possono essere più adatte a condizioni agroclimatiche locali e rappresentare quindi una risorsa per
le comunità locali dove le varietà moderne non sono coltivabili o lo sono con difficoltà. E anche dal
punto di vista della differenziazione commerciale l’uso di varietà non comuni può permettere di
dare un segno di riconoscimento anche a fronte di caratteristiche tecnologiche inferiori (il grano
Cappelli per esempio trovo che abbia una tenuta in cottura non al pari delle varietà moderne). Per lo
meno fino a quando rimangono di nicchia.

Quindi amici panificatori e pizzaioli, se volete usare qualche grano particolare perché ha un aroma
diverso, perché produce un impasto che vi piace, perché ha un sapore gradevole, continuate così,
sono il primo ad apprezzare la diversità nel cibo e delle vostre pizze. Che noia altrimenti. Ma non
cadete preda delle sirene del nutrizionismo markettaro che cerca di vendere questo o quell’alimento
in base a suggestioni che non sono dimostrate dalla ricerca scientifica.

Agli amici giornalisti e scrittori di cibo raccomanderei invece, d’ora in poi, non solo di citare
l’articolo del 2010, quello dell’“allarme”, ma anche i successivi, perché nella scienza funziona così:
nessuno studio è mai “definitivo”.

La storia sicuramente non finisce qui, ma in attesa di qualche capovolgimento di fronte per favore
smettiamola di fare affermazioni non supportate dalla ricerca scientifica sui grani antichi e moderni.
Ci sono i grani. Punto. Tutto il resto è marketing.

Dario Bressanini

P.S. Sergio Pistoi, che ringrazio, precisa su Facebook che "dal punto di vista immunologico si
definisce epitopo qualunque determinante antigenico, quasi sempre ma non necessariamente
aminoacidico. Alcuni glicolipidi ad esempio sono riconosciuti come epitopi. Quindi non solo
proteine, come sembra suggerire la frase"

Scritto in Agricoltura, Farina, Genetica, Grano, Nutrizione, Pasta, Produzione | 493 Commenti »
La cottura della pasta
7 febbraio2017
Parlare di cottura della pasta in Italia è più pericoloso che parlare male della mamma o della sorella.
Molti sono i riti irrinunciabili, le convinzioni adamantine, gli imperativi più o meno assoluti, i “non
si fa” definitivi e le scomuniche velocissime. Consapevole di camminare sui gusci d’uova, mi metto
lo scolapasta (!) in testa per ripararmi da eventuali flame e andiamo a incominciare.

“Il processo con cui il cibo è più comunemente preparato per la tavola -la bollitura- è così familiare
a chiunque, e i suoi effetti così uniformi, e apparentemente così semplici, che pochi, io credo, si
sono presi la briga di indagare come o in che modo questi effetti vengono prodotti”.

pasta-food-oil-63244
Così scriveva nel 1799 Benjamin Thompson, più conosciuto come Conte Rumford –uno dei
fondatori della termodinamica– in un saggio in cui analizzava scientificamente i processi di cottura,
stupendosi di come fossero così poco compresi, anche e soprattutto dai cuochi, che li avevano sotto
gli occhi tutti i giorni. Ancora oggi un atto così semplice e quasi quotidiano come far bollire l’acqua
per la pasta è spesso fonte di molte discussioni. Quanta acqua usare? Si deve usare o meno il
coperchio? Quando si deve aggiungere il sale? Una volta gettata la pasta si può abbassare il fuoco?
Questa volta ci concentriamo sulla temperatura dell’acqua.

Acqua a bollore o no?

Molte persone pensano che l’ebollizione dell’acqua sia una condizione assolutamente necessaria per
poter cuocere la pasta, ma già Thompson intuì che questo non è vero. La cottura del cibo infatti
dipende solo dalla temperatura raggiunta, e non dal fatto che l’acqua stia bollendo o meno. La
temperatura di ebollizione dell’acqua dipende dalla pressione atmosferica e questa diminuisce con
l’altitudine. Degli spaghetti immersi in acqua a bollore a Sestriere, a circa 2000 metri di altitudine,
cuociono a circa 93 °C, rispetto ai 100 °C che si raggiungono a livello del mare. Ciò significa che si
possono usare quelle temperature anche ad altitudini più basse, senza però far bollire l’acqua.
Perché, scrive Thompson

“tutto il combustibile che viene utilizzato nel farla bollire vigorosamente è sprecato, senza
aggiungere un singolo grado al calore dell’acqua, né velocizzare o accorciare il processo della
cottura di un solo secondo. Poiché è dal calore, dalla sua intensità e della sua durata che il cibo
viene cotto, e non dall’ebollizione dell’acqua che non ha alcun ruolo in quell’operazione.”.

Thompson non parlava di pasta ma di carne e verdure ma il principio è del tutto generale: ciò che
conta è la temperatura raggiunta e non il fatto che l’acqua stia bollendo.

fusillicottura
La cottura della pasta è governata principalmente da tre fattori: la velocità di penetrazione
dell’acqua all’interno dell’impasto, la gelatinizzazione dell’amido e la denaturazione e conseguente
coagulazione del glutine. Tutti questi fenomeni dipendono dalla temperatura.
L’acqua penetra nella pasta anche a basse temperature, persino in acqua fredda, ma più la
temperatura aumenta e più velocemente entra nell’impasto. La gelatinizzazione dell’amido è quel
fenomeno in cui i granuli di amido assorbono acqua e formano un gel. L’amido di frumento
gelatinizza tra i 60 °C e i 70 °C. Il glutine denatura e coagula tra i 70 °C e gli 80 °C. Notate che
sono tutte temperature molto al di sotto delle temperature di ebollizione comuni nelle nostre cucine.
Questo significa che è possibile cuocere la pasta anche tenendo l’acqua a 80 °C, mettendoci solo un
pochino di più perché l’acqua idrata l’impasto un po’ più lentamente.
Ogni tanto qualche cuoco riscopre questo fatto e ripropone una sua versione di quello che
Thompson già nel ‘700 aveva descritto, dando delle regole su quando spegnere il fuoco dopo aver
gettato la pasta. Non si tratta però di un nuovo metodo di cottura della pasta, e non merita un nome
specifico perché, lo ribadisco, ciò che conta è solo la temperatura raggiunta e non se l’acqua stia
bollendo o meno.

L'esperimento

Se non ci credete fate questo esperimento: mettete due litri d’acqua in una pentola. Portatela
all'ebollizione col coperchio (risparmierete sui tempi e sul gas). Una volta all'ebollizione aggiungete
il sale e un etto di pasta corta. Mescolate una ventina di secondi per evitare che la pasta si attacchi,
spegnete il gas, coprite e preparate il vostro sugo preferito. Le mie penne dopo 12 minuti, uno in più
dell’indicazione della confezione, erano pronte, con l’acqua ancora a 86 °C, al di sopra della
temperatura di gelatinizzazione dell’amido e di coagulazione delle proteine. Pronto il sugo, ho
scolato, condito e mangiato con gusto. L’acqua di cottura forse (forse, dovrei fare un confronto
diretto) era un poco più limpida del solito, segno che potrebbe (potrebbe) essere fuoriuscito meno
amido, ma in ogni caso niente di rilevante dal punto di vista nutrizionale.

cotturapasta1
Ma perché fermarsi qui? È possibile buttare la pasta anche prima che l’acqua arrivi all'ebollizione:
ho provato a buttare pasta e sale dopo 8 minuti, con l’acqua a 80 °C. Ho poi continuato a scaldare,
col coperchio, sino all'ebollizione per poi spegnere il gas. Sette minuti dopo la pasta era pronta.
Trovate la combinazione di tempi e temperature che meglio si adatta alla vostra pasta per non avere
il maccherone stracotto fuori e crudo dentro. Vi può sembrare inutile, ma pensate a quanta energia
viene sprecata ogni giorno per far bollire acqua che poi verrà gettata nel lavandino. Gas e soldi
letteralmente buttati. Nel mio primo esperimento ho impiegato 11 minuti per portare l’acqua
all'ebollizione, e ne avrei impiegati altri 11 per la cottura. Lo so che siete diffidenti ma se non vi
fidate potete sempre iniziare a spegnere il fuoco qualche minuto prima di togliere la pasta.
Risparmierete comunque.

Dato che vi sarete già scandalizzati troppo, della cottura della pasta al microonde vi parlo una
prossima volta ;)

Alla prossima

Dario Bressanini

P.S. se volete potete trovarmi anche sul mio canale YouTube e sulla mia pagina Facebook

Letture consigliate

Sicignano, A., Di Monaco, R., Masi, P., & Cavella, S. (2015). From raw material to dish: pasta
quality step by step. Journal of the Science of Food and Agriculture, 95(13), 2579-2587.

Scritto in Acqua, Cottura, Esperimento, Pasta | 223 Commenti »

Quel mostro genetico chiamato frumento


24 marzo2016
Quando si parla di biotecnologie in campo agrario, uno degli aspetti che più ne ostacola
l’accettazione, almeno a livello psicologico, è la capacità di trasferire geni tra specie diverse
creando incroci ritenuti “impossibili” in natura. “Contro natura”. Non tutti sanno però che è proprio
grazie ad un meccanismo simile se possiamo avere il nostro pane quotidiano, per non parlare della
pasta. Dovete sapere infatti che il grano tenero con cui facciamo il pane e il grano duro con cui
produciamo la pasta, ma anche molti grani «minori» che si trovano quasi solo nei supermercati del
"naturale", sono parte di un unico albero genealogico, nipoti odierni di un’evoluzione genetica
iniziata più di 300.000 anni fa che, partendo da un progenitore selvatico, ha mescolato e aggiunto
via via interi genomi appartenenti a specie diverse, generandone di nuove.

frumento01
La “mezzaluna fertile” è la regione che comprende, al giorno d’oggi, Israele, la Giordania, il
Libano, la Siria occidentale, parte della Turchia e si estende, tra il Tigri e l’Eufrate, in Iraq e
nell’Ovest dell’Iran. Qui, 12.000 anni fa, un piccolo gruppo di uomini ha iniziato a domesticare
specie vegetali selvatiche.

Questo processo, relativamente breve, di selezione artificiale ha trasformato il pianeta in un enorme


esperimento evoluzionistico di adattamento, selezione e speciazione. Ma ha anche reso le piante
dipendenti dall’uomo, capaci di sopravvivere solo se coltivate in condizioni controllate. La
domesticazione infatti è uno dei primi atti «contro natura» che la nostra specie abbia compiuto.
Domesticare piante e animali selvatici significa privilegiare i caratteri utili all’uomo (come, per
esempio, la grandezza di semi e frutti nelle piante o la docilità nel caso degli animali) eliminando
quei caratteri che permettono loro di vivere allo stato selvatico. Domesticare, di fatto, vuol dire
appiattire la variabilità genetica: per esempio nei vegetali si sono privilegiati i caratteri, e quindi i
geni, legati al sapore che l’uomo ritiene gradevole, eliminando i geni responsabili della produzione
di sostanze sgradevoli o tossiche che però spesso avevano la funzione di allontanare i parassiti e gli
insetti in una sorta di guerra chimica «naturale». Una pianta che non riesce più a sopravvivere in
natura è “naturale”?

La famiglia dei grani

La storia dei grani, molte specie diverse del genere Triticum, è affascinante. Tutto ha inizio nella
zona montuosa del Karacadag, nel sudest della Turchia con due specie selvatiche, il Triticum
boeoticum e il Triticum urartu.

Circa 10.000 anni, i nostri avi domesticarono il T. boeoticum dando vita alla specie che è tornata in
auge negli ultimi anni tra gli appassionati di panificazione: il T. monococcum chiamato
comunemente farro monococco.

monococco
Ben prima dell’invenzione dell’agricoltura, tra i 300.000 e i 500.000 anni fa, l’altra componente
selvatica della famiglia dei Triticum, il T.urartu, subiva un evento genetico che, se pensiamo
semplicisticamente alle specie viventi come entità immutabili, non sarebbe mai potuto avvenire. Il
suo intero genoma si è fuso con quello di una graminacea, un'erbaccia, la Aegilops speltoides, per
generare il Triticum dicoccoides o farro selvatico: una nuova specie selvatica che conteneva tutti i
geni di entrambi i donatori e il doppio dei loro cromosomi. Questo farro selvatico cresce ancora
spontaneo in Israele, Turchia e altri paesi.

La loro è stata una fusione «contro natura», inusuale per due motivi: il primo è che coinvolge
membri non solo di due specie diverse, ma addirittura di due generi differenti – come se fosse un
incrocio tra un gatto e un cavallo – il secondo è perché A. speltoides dona interamente il suo
genoma a T. urartu e non solamente la metà, come in un comune incrocio sessuale tra membri della
stessa specie. Dall’unione nasce il farro selvatico o T. dicoccoides, una nuova specie con il doppio
dei cromosomi dei genitori. Loro avevano due copie per ogni cromosoma, proprio come noi esseri
umani, erano cioè diploidi, mentre lui di copie ne ha quattro per ogni cromosoma, quindi è
"tetraploide". Anomalie nel numero di cromosomi negli animali portano generalmente alla morte o
allo sviluppo di gravissime malattie, mentre per le piante sono abbastanza comuni. Anzi, in natura
questo tipo di modifica genetica genera spesso nuove specie.

La selezione graduale del farro selvatico generò, circa 10.000 anni fa, il Triticum dicoccum, il farro
coltivato, il grano principale dell’agricoltura del neolitico. Usato per fare pane e birra, questo farro
era il grano dei faraoni e degli antichi romani. Una serie di mutazioni genetiche casuali seguite da
selezioni hanno trasformato il farro in altre specie tra cui la più importante per noi italiani è
sicuramente il grano duro, il Triticum durum con cui produciamo la pasta.

La nascita di una nuova specie

Circa 8000/9.000 anni fa, nella regione compresa tra l’Armenia e il Sudovest del mar Caspio,
avvenne un secondo evento genetico “impossibile”: il T.dicoccum inglobò completamente il
genoma di un’altra pianta erbacea, l’Aegilops tauschii, per generare il Triticum spelta, o farro
spelta. In seguito, anche se i dettagli sono ancora da definire, una serie di ulteriori modifiche
genetiche ha portato al nostro amato Triticum aestivum: il grano tenero con cui facciamo il pane e la
pizza. È stato proprio il genoma donato da A.tauschii a migliorare le qualità panificatorie della
farina di frumento tenero, e ha anche permesso la coltivazione in climi più freddi e più a nord, tant’è
che ancora oggi il frumento tenero migliore arriva propri dai climi più freddi.

Il frumento tenero è un esaploide, ha cioè sei copie di ogni cromosoma, provenienti dalle tre specie
diverse che lo hanno generato.

mostro02
Provate a pensare a cosa voglia dire avere sei copie di ogni cromosoma, è come se noi (diploidi)
invece di averne 46 ne avessimo tre volte tanto, cioè 138: saremmo dei mostri. Mentre il grano
tenero non sembra soffrire particolarmente dell’anomalia genetica.

Il frumento tenero quindi, a differenza del frumento duro, non ha un corrispondente selvatico diretto
e per questo ha una biodiversità estremamente ridotta. Con i suoi 95.000 geni e il triplo del numero
dei cromosomi delle due specie selvatiche di Triticum da cui tutto era partito, è un vero e proprio
mostro genetico, certo simpatico come quelli di Monsters&Co, che nel corso della sua evoluzione
ha inglobato, con un atto «contro natura», interi genomi di piante non solo di specie diverse ma
anche di genere diverso.

Naturale o contro natura?

contronaturaNel libro Contro natura abbiamo raccontato questa storia, come molte altre, per
mostrare come il concetto di “naturale” sia solo una costruzione culturale. Rassicurante a volte,
certo, e per certi versi spesso comoda, ma pur sempre una costruzione umana che semplifica, a volte
troppo, la complessità dell’agricoltura. Queste storie servono anche a mostrare come la nostra
concezione delle piante che mangiamo sia profondamente semplicistica: siamo un po’ tutti
creazionisti e “fissisti” da questo punto di vista, immaginando specie viventi che rimangono fisse e
immutabili dal giorno della loro creazione. Le cose in realtà sono più complicate, e l’agricoltura
stessa è una storia di geni che girano, si scambiano, mutano, saltano specie, si fondono e così via.
monsterco
Non conosceremo mai i dettagli dell’unione che ha generato il frumento tenero, ma da qualche parte
vicino al Mar Caspio, a fianco di un campo coltivato a farro dicocco vi erano campi incolti dove tra
le erbe selvatiche cresceva A. tauschii. Forse questa unione contro natura era già avvenuta altrove in
precedenza, ma furono quegli ignoti coltivatori a notare alcune spighe diverse, a prendersene cura e
a riprodurle lentamente. Il fatto che in natura non esista il frumento tenero selvatico, che contenga
geni di tre specie diverse, e che sin dalla sua genesi sia il frutto dell’intervento umano, che ha poi
plasmato il suo genoma nel corso dei millenni per renderlo sempre più utile, ma incapace di
sopravvivere autonomamente, dovrebbe far riflettere sulla corsa al «cibo naturale», dove con questo
termine si intende, in modo un po’ confuso, un alimento che non ha subito manipolazioni o
interventi umani.
Alla prossima

Dario Bressanini

P.S. Questo articolo, così come il frumento, è nato da una fusione di un articolo apparso su Le
Scienze n. 552 di Agosto 2014 con il quarto cromosoma (a.k.a. "capitolo") del libro Contro natura,
nella cinquina finalista del prestigioso premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica ;)

telenovela
Scritto in Agricoltura, Cereali, Grano, Naturale | 397 Commenti »

Sapori di montagna: il pane di segale


18 agosto2015
Agosto. È tempo del mio quasi-rituale post gastronomico vacanziero. In questi giorni mi sto
mangiando il “pane più antico al mondo”, o quasi. Mi piace il suo sapore diverso. O forse mi piace
perché mi ricorda quando ero bambino e venivo in vacanza in questa valle e i miei genitori spesso
compravano il “Pane nero di Coimo”, così diverso dal pane a cui ero abituato a casa. Buono da solo
oppure (ancora meglio) con una fetta di pancetta di Trontano sopra. :-)

È un “pane antico” perché è fatto con la segale: un cereale che, insieme all’orzo, è stato raccolto
selvatico, mangiato, domesticato e coltivato prima dei grani.

La segale selvatica (Secale vavilovi) era già raccolta e utilizzata 12.000 anni fa, prima dei grani
quindi, che sarebbero stati utilizzati qualche millennio successivo. In seguito è stata domesticata
(Secale cereale) e coltivata ma tra le specie agricole nella mezzaluna fertile è sicuramente quella
che ha avuto la minore importanza. Probabilmente per le sue scarse proprietà panificatorie. Le
stesse che ora mettono a dura prova chi cerca di usare la sua farina in purezza per preparare pani e
pizze.

Anche l’orzo, come la segale, venne usato per preparare un pane rudimentale, e anche lui venne
sostituito dai frumenti, molto più adatti alla panificazione. Tuttavia, a differenza della segale, l’orzo
continuò a essere molto coltivato per produrre una bevanda fermentata alcolica che noi oggi
potremmo chiamare “birra” primordiale. Si hanno testimonianze di produzione della birra già
presso i Sumeri. Nell’Epopea di Gilgamesh Re di Ur (tavoletta II), il selvaggio Enkidu viene
“civilizzato” da una donna che gli insegna a mangiare il pane e a bere birra.

Proprio in Mesopotamia sembra sia nata la professione del birraio e testimonianze riportano che
parte della retribuzione dei lavoratori veniva corrisposta in birra. Due erano le principali tipologie
prodotte nelle case della birra: una birra d'orzo chiamata sikaru (pane liquido) e un'altra di farro
detta kurunnu. Quindi l’orzo, seppure indirettamente attraverso la produzione del “lievito di birra”,
continuò a rimanere importante nella produzione del pane.

La segale invece, con l’avvento dei frumenti, sopravvisse spesso mescolata nelle loro piantagioni
ma si perse l’interesse per la sua coltivazione, tranne nei casi in cui non si riusciva a coltivare altri
cereali. La segale infatti è una pianta molto rustica e che sopporta il freddo molto meglio dei
frumenti. Non è un caso quindi che tuttora il pane di segale sia un prodotto tipico dei paesi del Nord
d’Europa e, in Italia, di molte zone montane.

Coimo è un paesino della Val Vigezzo, nell’Ossola, e attualmente è rimasto un unico forno a
produrre il “Pane nero di Coimo”, due volte la settimana, che fornisce tutta la valle.

coimo1
È un pane rustico dalla crosta dura e di colore scuro, e dalla pasta bruna. Poco alveolato perché il
suo glutine non è di buona qualità non avendo un rapporto ottimale tra gliadine e glutenine, e per la
presenza di pentosani, carboidrati che gelificano insieme all’amido presente. Ha però il vantaggio di
rimanere umido più a lungo.

Un tempo veniva prodotto utilizzando la farina di grano saraceno, allora coltivato nella valli
dell’Ossola, successivamente sostituito dalla segale, coltivata in alternanza alle patate. Oggi la
segale non è più coltivata, ma il pane continua a essere prodotto.

coimo2
La ricetta moderna prevede

farina di segale integrale con una piccola aggiunta di frumento, acqua, sale e lievito madre naturale.

In passato la produzione di questo tipo di pane aveva una sua ovvia motivazione economica, dovuta
al fatto che la farina bianca di frumento, prodotta in pianura, con il suo costo trasformava in un
lusso per pochi il consumo di questo cibo.

In Vigezzo, come in altre zone di montagna, il pane veniva cotto solo un paio di volte all’anno nei
forni comunitari: ecco perché la giornata destinata alla panificazione era anche un momento carico
di significati rituali e augurali.

Ne esiste anche una versione “ricca e dolce”, più piccola, con noci e uvette, di cui sono altrettanto
ghiotto.

E voi, avete mai assaggiato il pane di segale?

Buone vacanze.

Dario Bressanini

Scritto in Birra, Consumi, Pane | 456 Commenti »

Vade retro glutine


8 maggio2015
pastinaglutinata2
L’idea della pasta al glutine era venuta a Giovanni Buitoni nel 1847. L’azienda cercava un prodotto
innovativo che fosse in grado di guadagnarsi una nicchia di mercato importante, quella degli
alimenti per diete particolari. Poco meno di quarant’anni dopo, la «pastina glutinata» entrava nelle
case degli italiani come «il miglior alimento per bambini, ammalati e convalescenti, prodotto di
regime per obesi, gottosi, uricemici e diabetici». Si trattava semplicemente di pasta alla quale era
stato aggiunto il 15% in peso di glutine secco. Negli anni a seguire furono messe in commercio
pastine «poliglutinate» e «iperglutinate» con concentrazioni di glutine crescenti, che arrivavano fino
al 30% del totale. Le pubblicità dell’epoca insistevano molto sul contenuto energetico della pastina,
consigliandone l’uso a bambini – «Il latte materno non basta più, ora ci vuole la pastina glutinata!»
–, studenti – «Il profitto a scuola dipende dalla buona salute. La buona salute si difende con la
pastina glutinata» –, lavoratori e anziani – «Pasto serale leggero e al mattino freschi e riposati».
A rivederle oggi, quelle pubblicità fanno sorridere. Ma fanno anche pensare a come il marketing
continui a cambiare rotta, inseguendo sempre le nuove possibilità di profitto che si profilano
all’orizzonte. Sugli scaffali dei nostri supermercati nessuna azienda alimentare oserebbe oggi
mettere in orgogliosa evidenza il contenuto di glutine. Anzi, gli scaffali sono ormai pieni zeppi di
prodotti gluten-free e non è difficile trovare paste «dietetiche prive di glutine». Da Gwyneth
Paltrow a Victoria Beckham a Russell Crowe, il numero delle star che scelgono di seguire
un’alimentazione gluten-free è in aumento e i libri che insegnano a dimagrire eliminando il glutine
spopolano. Complice la moda, il mercato globale dei prodotti gluten-free è in continua crescita. Nel
2013 si è assestato a 3,7 miliardi di dollari con una proiezione per il 2018 di 6,2 miliardi di dollari.

Il “senza glutine” impazza, anche se non molti sanno esattamente cos’è il glutine: provate a
chiederlo a qualche vostro amico che segue una dieta senza glutine: è probabile che riceviate delle
risposte vaghe e poco accurate (a meno che l’amico sia celiaco e allora sarà ferratissimo in materia,
ma ci arriveremo).

Addirittura ormai si vedono indicazioni che un alimento non contiene glutine anche in prodotti,
come il cioccolato fondente, che non lo hanno mai contenuto e non vi è motivo che lo contengano
[*].

Insomma, scrivere «con aggiunta di glutine» in un prodotto moderno sarebbe, dal punto di vista del
marketing, quasi come scrivere «con veleno aggiunto».

La sensibilità al glutine: forse esiste, ma forse no

Il glutine è da sempre il peggior nemico dei celiaci, ma la stragrande maggioranza delle persone che
seguono una dieta gluten-free non soffre di questa malattia. La celiachia, come vedremo meglio più
avanti, ha una base genetica e sintomi inequivocabili, mentre esiste una pletora di disturbi
raggruppati sotto al cappello delle «intolleranze al glutine» che sembrano affliggere una sempre
crescente fetta della popolazione. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

Oltre alla celiachia esistono almeno altre due condizioni che si collegano all’assunzione di
frumento, riconosciute dalla medicina: l’allergia al frumento e la sindrome del colon irritabile.

Il frumento è un alimento complesso. Solo in prima approssimazione lo possiamo considerare


composto da amido e glutine. In realtà contiene migliaia di molecole diverse che possono interagire
con il nostro corpo. Oltre a gliadina e glutenina, il frumento contiene molte altre proteine che,
insieme al glutine, possono causare reazioni allergiche in alcuni soggetti. L’allergia al frumento è
una classica allergia alimentare. Esiste poi la sindrome del colon irritabile, che colpisce 10 persone
su 100, con intensità variabile, ed è caratterizzata da dolori addominali, gonfiore e produzione di
gas. In Italia è chiamata colloquialmente «colite». Sebbene la sua origine sia ancora piuttosto
oscura, è ormai assodato che chi ne soffre trae giovamento da una dieta priva di una gamma di
molecole che è raggruppata sotto l’acronimo FODMAP, che sta per «Oligosaccaridi, Disaccaridi,
Monosaccaridi e Polioli Fermentabili». Insomma, carboidrati difficili da digerire presenti nei
cereali, ma anche in alimenti come il latte, le mele, le cipolle e molti altri. Questi carboidrati
diventano il banchetto per la loro flora intestinale, con conseguente fermentazione, produzione di
gas e di acidi grassi. Una dieta che escluda questi carboidrati, sviluppata per la prima volta [1] nel
2008, riesce ad alleviare i sintomi di chi soffre di sindrome del colon irritabile, cosa che invece non
può fare totalmente una dieta senza glutine perché non esclude altre possibili fonti che scatenano la
reazione.

Negli ultimi anni, però, sono aumentate sempre più le persone che lamentano sintomi simili a quelli
della celiachia, senza però averne la predisposizione genetica e nonostante siano risultati negativi ai
test classici. Di questa sfuggente e misteriosa condizione, gli addetti ai lavori discutono da tempo e
solo nel 2011 si sono messi d’accordo per coniare un nome condiviso e i criteri per diagnosticarlo.
È stata chiamata Non-Celiac Gluten Sensitivity (NCGS) o «sensibilità al glutine». A parte il nome,
però, la confusione regna sovrana. Abbiamo chiesto a Gino Roberto Corazza, gastroenterologo
dell’IRCCS ospedale Policlinico San Matteo di Pavia e tra i massimi esperti italiani di celiachia, di
spiegarci le differenze:

«La celiachia è definita dalla presenza di lesioni intestinali provocate dall’attacco autoimmune
dell’organismo in risposta all’assunzione di glutine e, quindi, dalla presenza di determinati anticorpi
nel sangue. I sintomi possono anche non esserci o essere molto lievi, ma se ci sono le lesioni e gli
anticorpi siamo sicuri di essere di fronte a un soggetto celiaco. Nelle sensibilità al glutine, invece, è
tutto il contrario: la definizione la si fa solo sulla base dei sintomi, mentre non c’è predisposizione
genetica, né sono presenti le lesioni intestinali tipiche della celiachia».

Quindi, se non siete celiaci ma avete sintomi simili e vi sentite molto meglio se seguite una dieta
senza glutine, allora potreste essere etichettati come «sensibili al glutine». Tuttavia, a parte un
nuovo nome nel vocabolario medico, siamo ancora al palo. Questo è il campo minato delle
intolleranze alimentari che, a fianco di quelle scientificamente confermate, come quella al lattosio,
sembrano avere avuto un’esplosione in anni recenti, spesso in base ad autodiagnosi o a test senza
validazione scientifica. Continua Corazza:

«I pazienti molte volte si autoconvincono di essere intolleranti a una determinata tipologia di


alimenti, ma non sempre hanno ragione. Il glutine, per esempio, è una molecola difficile da digerire,
fermentando produce gas nell’intestino e quindi, in soggetti particolarmente sensibili, potrebbe dar
problemi di tipo funzionale, come il gonfiore».

Quindi è tutta una bufala? Esiste davvero una patologia chiamata «sensibilità al glutine»? Non è
chiaro. Per alcuni scienziati sembrerebbe di sì, anche se i dati a disposizione sono ancora troppo
pochi per avere risposte certe. Uno dei problemi è che se un paziente ha un miglioramento, anche
parziale, a seguito di una dieta senza glutine, non è necessariamente detto che il problema sia
proprio il glutine, dato che nel frumento sono presenti molte altre sostanze. Concentrarsi troppo sul
glutine e accusarlo definitivamente in questa fase ancora esplorativa potrebbe essere
controproducente, ma se la ricerca scientifica ha i suoi tempi, in questo regno di incertezza il
marketing alimentare è invece entrato a gamba tesa, grazie agli enormi interessi economici in gioco.

Nel 2011, un gruppo di ricercatori guidato da Peter Gibson, della Monash University di Melbourne
in Australia – gli stessi che hanno sviluppato la dieta senza FODMAP pensata per chi soffre di
colon irritabile – ha sottoposto a un esperimento 34 pazienti che presentavano sintomi ascrivibili
alla sensibilità al glutine.[2] I soggetti, che seguivano autonomamente una dieta senza glutine, sono
stati divisi in due gruppi omogenei ed è stata data loro l’indicazione di mangiare ogni giorno un
muffin e due fette di pane forniti dai ricercatori. A un gruppo sono stati consegnati muffin e pane
contenenti in totale 16 grammi di glutine, all’altro gruppo invece sono stati consegnati muffin e
pane gluten-free. Lo scopo dei ricercatori era quello di misurare eventuali differenze tra i due gruppi
e, per essere sicuri di eliminare ogni inganno possibile, hanno condotto l’esperimento in «doppio
cieco», cioè né i pazienti né i ricercatori erano in grado di sapere fino alla fine dell’esperimento
quali alimenti somministrati contenessero glutine e quali no. Questa è la metodologia standard
utilizzata nelle ricerche biomediche: lo scopo è evitare che la persona sottoposta al test e quella che
la esamina possano essere influenzate. Sapendo di assumere glutine alcune persone convinte di
essere sensibili potrebbero infatti avere una reazione di origine puramente psicosomatica che
andrebbe a invalidare le conclusioni dello studio.

Prima di allora nessuno aveva effettuato uno studio in doppio cieco per indagare questa presunta
patologia. L’esperimento è durato sei settimane, durante le quali 9 pazienti, statisticamente
distribuiti tra i due gruppi, hanno abbandonato per il manifestarsi di sintomi troppo gravi. Nei
rimanenti 25, i ricercatori hanno visto una differenza fra gli appartenenti ai due gruppi. Chi aveva
assunto glutine stava peggio di chi non l’aveva assunto e questo è bastato al gruppo australiano per
affermare che la sensibilità al glutine esisteva senza ombra di dubbio.

In realtà i dubbi c’erano, perché i pazienti inclusi nell’esperimento di Gibson e colleghi erano
troppo pochi, soprattutto avendo a che fare con un disturbo che può essere in buona parte
psicologico o che potrebbe essere provocato da altre sostanze presenti nei prodotti contenenti
glutine. Infatti, una delle critiche principali al lavoro di Gibson è proprio quella di aver scelto di
somministrare prodotti complessi, come i muffin o il pane. In più la dieta dei pazienti non è stata
controllata, per cui non è stato possibile verificare che i sintomi non fossero invece causati da
qualche altro alimento.

Due anni dopo, il gruppo di Peter Gibson è tornato sullo stesso problema correggendo un po’ il tiro.
[3] Altri 37 pazienti con sintomi da sensibilità al glutine sono stati sottoposti a una dieta priva di
glutine, questa volta controllata dai ricercatori e, a differenza dello studio precedente, anche priva
dei FODMAP che ormai sappiamo essere tra i presunti responsabili della sindrome del colon
irritabile.

Questa volta i gruppi erano tre: dopo una settimana di dieta uguale per tutti, ai tre gruppi sono state
somministrate per due settimane quantità differenti di glutine: molto, poco o un placebo.[4] Tutti i
partecipanti hanno tratto vantaggio dalla dieta priva di glutine e FODMAP, ma solo 3 di loro, l’8%,
ha mostrato sintomi specifici in seguito all’assunzione di glutine. La posizione finale di Gibson è
chiara: le conclusioni dello studio precedente erano affrettate e, molto probabilmente, chiamiamo
«sensibilità al glutine» qualcosa che, ammesso che esista davvero, col glutine ha poco a che fare. In
questo studio è emerso che molte persone che sostengono di essere sensibili al glutine soffrono di
effetto «nocebo»:[5] chi è convinto di mangiare qualcosa di dannoso per il suo organismo sta male
davvero, anche se nell’esperimento gli è stato somministrato solo il placebo.

Insomma, in soli due anni la sensibilità al glutine è stata declassata ed è rientrata nel limbo?
Secondo il gruppo del professor Gibson, sì. O, per lo meno, i loro esperimenti sembrano scagionare
il glutine, anche se lasciano la porta aperta ad altre sostanze che potrebbero scatenare una risposta:

La riluttanza nell’accettare altre componenti del frumento, come i fruttosani, altre proteine oltre a
quelle del glutine, e le agglutinine del germe di grano, come potenziali fattori patogeni ha spesso
impedito la corretta interpretazione delle osservazioni cliniche.

E ancora:
L’assunzione che una risposta a una dieta senza glutine, oppure una esacerbazione dei sintomi
dovuti a cibi contenenti glutine, rifletta effetti specifici del glutine dovrebbe essere abbandonata, e
lasciare spazio a considerazioni sugli altri componenti dei cibi a base di frumento che possono
causare sintomi gastrointestinali.

Secondo Gibson, l’effetto nocebo è talmente forte che maschera, caso mai ci fosse, la sensibilità al
glutine di quella piccola percentuale di persone che potrebbe esserne affetta. Gibson suggerisce
quindi agli esperimenti futuri di considerare solo soggetti che, pur soffrendo di quei sintomi, non
abbiano mai sperimentato una dieta senza glutine.

L’ultimo studio, in ordine cronologico, che cerca di indagare questa patologia è proprio di
Corazza[6] e collaboratori, uscito nei primi mesi del 2015. «Abbiamo ripetuto lo studio in doppio
cieco anche noi,» ci anticipa il professor Corazza «ma abbiamo scelto di liberare il campo da ogni
possibile dubbio, somministrando ai nostri due gruppi pillole contenenti glutine o placebo. Vedendo
così se quei dati si possono confermare.»

Analizzando i dati relativi ai 59 soggetti che hanno portato a termine lo studio, gli autori
concludono che «l’assunzione di glutine aumenta in modo significativo tutti i sintomi, confrontati
con quelli del placebo». Quindi sembrerebbe confermare l’esistenza della sensibilità al glutine.
Tuttavia gli autori notano che i risultati sono stati fortemente influenzati dalle reazioni al glutine di
soli tre pazienti, il 5%. È sempre bene ricordare che le risposte della statistica si prestano a essere
male interpretate se non si fa più che attenzione. Come il famoso pollo di Trilussa: se siamo in due
mangiamo in media un pollo a testa, se tu ne mangi due io non ne mangio neanche uno.

In altre parole, forse la sensibilità al glutine esiste, e riguarda una piccola percentuale di persone,
mentre il 95% dei soggetti che sostengono di essere sensibili sono probabilmente vittime
dell’effetto nocebo. La maggior parte dei pazienti, infatti, mostra gli stessi sintomi sia assumendo il
glutine sia il placebo, che nel caso specifico era amido di riso.

Insomma, nessuno per ora ha dimostrato senza ombra di dubbio che la sensibilità al glutine esista
veramente. D’altra parte nessuno ha però neanche escluso che possa esistere, almeno per una parte
di chi soffre di quei sintomi, come sembra mostrare lo studio di Corazza e dei suoi collaboratori.
Quello che è certo è che molte delle persone che sostengono di avere problemi con il glutine e di
trarre sollievo dalle diete senza glutine – che se fatte in modo casereccio e senza una guida medica
possono portare a carenze nutrizionali – non hanno alcun problema reale con il glutine: gli
esperimenti in doppio cieco non mentono. Questo ovviamente non esclude che possano avere
problemi dovuti ad altre componenti, ma non lo scopriranno mai solo seguendo i consigli delle star
del cinema. Purtroppo, le dichiarazioni di Gwyneth Paltrow raggiungono il grande pubblico più di
quelle di Corazza o di Gibson ed è paradossale che mentre la maggior parte dei celiaci non ancora
diagnosticati rischia di riportare danni da osteoporosi, anemia, e persino alcuni tipi di cancro, là
fuori ci sono milioni di persone che aderiscono a diete gluten-free senza averne alcun motivo.

E Corazza rincara la dose:

«La dieta gluten-free indiscriminata è proprio una cavolata. Il glutine è difficile da digerire, magari
può dare qualche disturbo, come per esempio la produzione di gas, ma è niente in confronto
all’infiammazione intestinale che hanno i celiaci. Anche nelle persone sensibili al glutine
l'infiammazione nell’intestino non c’è, quindi figuriamoci nella popolazione generale. Non solo, ci
sono risvolti molto importanti e pericolosi. Se una persona con sintomi da celiachia viene a farsi
visitare, noi siamo in grado di andare a trovare i segni del passaggio del glutine. Ma se questa stessa
persona si autoprescrive una dieta senza glutine prima di venire a farsi visitare, noi non saremo più
in grado di trovare i segni dell’infiammazione. Capite che questo è molto pericoloso? Perché là
fuori ci sono dei celiaci che non sanno di esserlo e che si autocurano alla buona rischiando
conseguenze anche molto gravi».

------

contronaturaQuello che avete appena letto è un estratto del primo capitolo di “Contro Natura”, il
libro scritto a quattro mani con Beatrice Mautino, che tiene il blog qui a fianco. È uno dei quattro
capitoli dedicati ai grani e al glutine, dove esploriamo e indaghiamo se sia vero che la celiachia è
aumentata negli ultimi anni, se davvero i grani cosiddetti “antichi” hanno meno glutine e sono da
preferire, da dove è nata la leggenda che il grano Creso sia il responsabile di un presunto aumento
di intolleranze e tanto altro.

Ma nel libro si parla anche di un sacco di cose oltre ai frumenti: di mele ogm italiane amiche
dell’ambiente che non vedremo mai, del fatto che quando comprate una scatola di riso Arborio in
realtà state comprando un altro riso. Legalmente. Ma anche con il Carnaroli non è detto che sia
quello. Dei brevetti sulle mele che comprate al supermercato. E che dire del fatto che più del 30%
del riso coltivato in italia è stato modificato geneticamente per resistere a un diserbante brevettato,
venduto da una multinazionale venduto in kit, contiene un gene brevettato e gli agricoltori devono
firmare un contratto? E come è possibile che alcuni girasoli oggi producano olio con un alto
contenuto di acido oleico, anche più delle olive? E quanti produttori di riso venere biologico pensate
che esistano? E il riso bio, esiste veramente? E poi carote, soia, e tante altre storie di cibo che
portiamo sulla tavola ogni giorno.

A presto

Dario Bressanini

p.s. Appena riesco metto qualche link in più. Sono in viaggio a Vico Equense, poi faccio un salto al
Festival della Scienza Medica a Bologna, e settimana prossima al salone del libro di Torino, dove il
sabato con Gianluca Fusto parleremo di pasticceria, e la domenica avremo nientepopodimenoche il
Direttore in persona, Marco Cattaneo, a presentare noi e il nostro Contro natura :)

[*] Nota esplicativa aggiunta: se non come eventuale contaminazione. Cosa che può essere di aiuto
per un celiaco (vedi capitoli successivi), ma nella grande maggioranza dei casi viene aggiunta a
scopo di marketing per raggiungere il gruppo molto più grande delle persone che ritengono di
essere "intolleranti" al glutine. Vedi dopo.
[1] Shepherd, Susan J., et al., Dietary Triggers of Abdominal Symptoms in Patients With Irritable
Bowel Syndrome: Randomized Placebo-Controlled Evidence, in «Clinical Gastroenterology and
Hepatology», 6.7, 2008, pp. 765-771.

[2] Biesiekierski, Jessica R., et al, Gluten Causes Gastrointestinal Symptoms in Subjects Without
Celiac Disease: A Double-Blind Randomized Placebo-Controlled Trial, «The American Journal of
Gastroenterology», 106.3, 2011, pp. 508-514.

[3] Biesiekierski, Jessica R., et al., No Effects of Gluten in Patients With Self-Reported Non-Celiac
Gluten Sensitivity After Dietary Reduction of Fermentable, Poorly Absorbed, Short-Chain
Carbohydrates, «Gastroenterology», 145.2, 2013, pp. 320-328.

[4] In un esperimento di questo tipo per placebo si intende un alimento contenente una sostanza
inerte che non possa essere distinto da quello contenente glutine, in modo che la persona sottoposta
al test non abbia alcun modo di sapere in anticipo se stia assumendo glutine o meno.
[5] Così chiamato in contrapposizione all’effetto placebo dove le persone hanno una reazione
positiva pensando di assumere qualche cosa di benefico per il loro organismo, che è il meccanismo
alla base dei preparati omeopatici per esempio, la maggior parte dei quali non contengono nessun
tipo di principio attivo ma solo zuccheri sotto forma di palline o granuli.

[6] Di Sabatino, Antonio, et al. Small Amounts of Gluten in Subjects with Suspected Nonceliac
Gluten Sensitivity: a Randomized, Double-Blind, Placebo-Controlled, Cross-Over Trial, «Clinical
Gastroenterology and Hepatology», 2015.

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Caccia alla specie (registrata®)


7 agosto2013
Tempo fa ho ho raccontato la storia del Kamut e di come sia il marchio registrato di una varietà di
Triticum turgidum spp. turanicum. Non vi dovrebbe più stupire quindi apprendere che quella
strategia di marketing ha fatto scuola, e si cominciano a vedere altri marchi® associati a specie
viventi o a loro varietà, specialmente di cereali.

Parliamo di farro ad esempio. Con questo nome generico in Italia spesso si confondono tre specie
geneticamente distinte del genere Triticum: il farro monococco (chiamato anche farro piccolo,
Triticum monococcum), il primo grano coltivato dall'uomo poi in gran parte soppiantato dal farro
dicocco (o farro medio, o semplicemente farro, Triticum dicoccum) ancora oggi coltivato in alcune
zone d'Italia come la Toscana, e alla base dell'alimentazione degli antichi Romani. Vi è poi il farro
spelta (o farro grande, Triticum spelta) poco diffuso in Italia. La loro storia genetica, e la relazione
tra queste specie e i frumenti tenero e duro che oggi consumiamo è molto affascinante. Ma il
racconto di come specie diverse si siano incrociate "innaturalmente", inglobando interi genomi, per
darci le moderne farine per il pane, la pasta e la pizza la rimandiamo ad un'altra volta. Oggi volevo
solo dirvi che se trovate in giro dei prodotti a base di Enkir®, o comprate questa farina, state
comprando del semplice farro monococco. Il nome commerciale, di proprietà del Mulino Marino,
forse è stato scelto per assonanza col nome inglese e tedesco di questo Triticum: Einkorn.

E' un "grano antico"? Sì, se per antico intendiamo che è stato il primo ad essere stato domesticato
dai parenti selvatici. Se invece intendiamo che quello che coltiviamo oggi è identico a quello
coltivato 10.000 anni fa molto probabilmente no, perché per il solo fatto di coltivare una specie
questa viene pian piano modificata, selezionando alcuni geni, eliminandone altri, accumulando
mutazioni genetiche casuali e così via.

Perché dovrebbe essere "meglio", come alcuni sostengono, mangiare del "grano antico" non è
chiaro, ma è indubbio che un certo tipo di marketing stia sfruttando questa idea.

Rimaniamo tra i grani e passiamo ad un grano duro di cui ci siamo già occupati: il Senatore
Cappelli, di origine tunisina e selezionato dal nostro genetista agrario Nazareno Strampelli. Se vi
capita di vedere dei prodotti a base di Akrux® si tratta semplicemente del Senatore Cappelli. A
quanto pare la K "tira" molto nel marketing :lol:

Con una strategia di marketing ormai collaudata sul sito si magnificano le proprietà dei "grani
antichi". Tra l'altro su questo sito trovo una intervista al Prof. Luciano Pecchiai che (senza uno
straccio di prova scientifica) accusa il grano Creso di essere il responsabile dell'aumento della
celiachia. E' la traccia più vecchia che ho trovato delle accuse verso il grano Creso. Nella letteratura
scientifica non si trova traccia di questa ipotesi. Deduco che sia stato Pecchiai a dare inizio a questa
leggenda ormai diffusa in migliaia di siti web italiani. (Se qualcuno invece ha una fonte precedente
sarei interessato a saperlo).

Le aziende registrano anche i batteri, non solo i vegetali. Avete mai comprato uno yogurt Activia
della Danone? Sì, quello contenente il famoso Bifidus actiregularis, un batterio probiotico. Ma
anche qui ci vuole la ® perchè questo nome, che suona scientifico, in realtà è completamente
inventato, come dice anche il sito della Activia

ActiRegularis è il nome che Danone ha scelto per nominare, con modalità facilmente pronunciabili
per i consumatori, il fermento Bifidobacterium Lactis (DN -173010) utilizzato per la preparazione
di Activia.

Activia, infatti, utilizza un ceppo particolare di Bifidobacterium Lactis, sviluppato dal gruppo
Danone e di sua esclusiva proprietà, che è identificato ai fini della procedura internazionale in
materia di brevetti dalla sigla DN - 173010.

specieregistrate03
Secondo wikipedia e il sito whatisbifidusregularis.org il nome cambia a seconda del paese di
commercializzazione: regularis, digestivum, essensis e così via. E sempre di Danone è anche il
batterio brevettato Lactobacillus casei immunitas (ora chiamato L. casei Danone).

Ora tocca a voi: conoscete altri esempi di specie viventi a cui abbiano appiccicato un nome e un
marchio registrato?

Arrivederci Dario Bressanini

DISCLAIMER: l'autore di questo articolo non ha alcun rapporto con le aziende citate, e non
esprime alcun giudizio sulla qualità o sulle caratteristiche dei prodotti citati.

Scritto in Cereali, Genetica, Grano, Kamut, Pubblicità, Yogurt | 232 Commenti »

232 commenti RSS


massi 27 agosto 2013 alle 16:11
Alberto

Sono d'accordo, come nessuno mi vieta di prendere del khorasan e commercializzarlo come
utkam®, ma chi me lo compra?

Zeb 27 agosto 2013 alle 16:54


La gente compra al volo qualsiasi novità, se la sai spacciare bene.
Quanto alla psicotropicità della canapa, basta scrivere chiaro in etichetta "Questo prodotto è
psicotropo" e la questione è chiusa (oltre che successo di vendite assicurato).
E' contro la Legge? Ma le Leggi si cambiano, cambiano pure quelle divine, figuriamoci quelle
proibizioniste che han funzionato sempre e solo a favore dei delinquenti, organizzati o borderline
che siano... :mrgreen:

Dario Bressanini
Come ho già avuto modo di dire, La stimo come persona e come scienziato.
Purtroppo a volte in questo splendido blog si formano correnti tese a zittire, anche in malo modo,
chi non la pensa come qualche personaggio, bravo ma invadente, che si scaglia specialmente contro
alcune donne definite ''amazzoni''.
Invece il mio intento era, o sarebbe stato, quello di invitare il dott. Guidorzi a interessarsi di un
problema gravissimo e cioè del disastro della Banca del Germoplasma di Bari.
''La Banca del Germoplasma del CNR di Bari, fondata nel 1970, si trova in una condizione di
altissimo rischio. È l’unica in Italia, la seconda in Europa e tra le prime dieci nel mondo su un totale
di 1470. Conserva 84.000 accessioni (campioni) di germoplasma, appartenenti a più di 60 generi e
più di 600 specie di piante coltivate e specie selvatiche affini (parenti strette di quelle coltivate),
minacciate da erosione genetica e/o estinzione. Lo scopo di questa lettera è di evidenziare
l’importanza del germoplasma per l’agricoltura, l’alimentazione e l’ambiente, e conseguentemente
di far comprendere perché sono nate le banche del germoplasma, perché la Banca del Germoplasma
di Bari è ad altissimo rischio e perché bisogna intervenire per salvarla.''

Ho diversi amici in questo ambiente e molti conoscono e stimano la Sua persona.


Mi domando perchè, in un blog di alto livello come il Suo, debbano presentarsi accanimenti di parte
senza costrutto e senza rispetto di chi non si allinea al pensiero di una sola logorroica persona.

Chiedo scusa, a Lei, se ho esagerato, ma ogni tanto qualcuno deve pur difendersi da attacchi scemi e
prendere le parti di coloro che vengono zittiti senza scampo
Con grande stima e cordialità

massi 27 agosto 2013 alle 18:14


zeb

"La gente compra al volo qualsiasi novità, se la sai spacciare bene."

Non è del tutto vero. Chiedilo alla Danone (mi pare), che nonostante la sua macchina commerciale
ha visto il flop dei suoi "yogurt alla verdura". Come dare torto ai consumatori? :-)

Alberto Guidorzi 27 agosto 2013 alle 18:31


Veramente ho appena parlato di germoplasma con Massi e sono stato il primo ad imputare al
fenomeno Monsanto la perdita di germoplasma, ma con che coraggio parli di germoplasma con me.

Per le amazzoni e per te vale sempre la regola di non leggermi, io, che ti piaccia o non ti piaccia,
scrivo quello che mi pare e lungo quanto mi pare, del tuo esistere me ne frego, ti considero come
l'innominato.

guidorzi,
Invece di alludere al tuo discorso con Massi cerca di rispondere alla domanda che ho posto, senza
alludere all'innominato oppure al ''coraggio di affrontare questi argomenti''.

guidorzi

P.S. Quanto al ''me ne frego'' per caso eri un giovane Balilla nel periodo del ''ventennio?

Alberto Guidorzi 27 agosto 2013 alle 19:58


Ti ho già risposto da un pezzo considero la conservazione del germoplasma il solo ed unico modo
per poter assicurare progresso genetico, senza queste fonti non vi sono biotecnologie che tengono.

Certo non tocca a me preoccuparmi praticamente del germoplasma di Bari tocca alle strutture
pubblico, a cui io ho contribuito a fornire mezzi tramite le mie tasse pagate fino all'ultimo
centesimo.

Zeb 27 agosto 2013 alle 21:03


Danone non deve aver trovato i professori olistici giusti per creare un mercato per quella sua roba lì
che dici tu, Massi, probabilmente non c'ha creduto molto neppure lei, per quanto chissà: una nicchia
- magari come ingrediente di "cucina creativa" - potrebbe pure esserci: un prodotto rifiutato oggi un
domani potrebbe diventare (per un po', almeno) un "must" del mercato... :mrgreen:

demetrio 28 agosto 2013 alle 10:08


Torno dalle ferie e subito mi vi voglia di mandare al diavolo quel rompiballe di troll!
Quindi di salutare tutti, a partire da Alberto, nonché di sottolineare la sensatezza delle affermazioni
di Zeb (che faccio mie) riguardo l'inefficacia del proibizionismo.

Guidorzi, Zeb e Demetrio Alludete ai troll di Henry Potter, a quelli della tradizione scandinava o
semplicemente a quelli che rompono gli zebedei (Zeb ne sai qualcosa?) sul web?
Ditemi chi è più troll, se io o voi che insultate ovunque e chiunque.
Avete formato un piccolo gruppetto di persone moooolto intelligenti (quinta o terza?)
Anche lei Demetrio si associato al gruppetto.
Non si può partecipare a questi Blog, ormai di parte e soprattutto pieni di ignorante arroganza.
Vi sono temi di enorme importanza, ma preferite disquisire su cazzate ormai trite e ritrite.
Perciò con tutta la stima nei confronti del Dott Bressanini, ritengo che abbiate avvelenato il blog
rendendolo impraticabile per un sereno dibattito.
Buon divertimento!
Personalmente Vi lascio divertire in pace, co…ni!

Alberto Guidorzi 28 agosto 2013 alle 12:20


Demetrio

Ne sono convinto anch'io che non è il proibizionismo che limita l'uso di sostanze psicotrope, ma ti
assicuro che in base alla mia esperienza siamo di fronte ad un muro. E' un peccato non poter
sfruttare una coltivazione che permetterebbe di fare agricoltura molto più sostenibile.

massi 28 agosto 2013 alle 12:51


zeb, chino

Forse ai cavoletti di bruxelles no, ma di sicuro c'era qualcosa come "lattuga, carota e rapanello".

Non era Danone ma un "produttoreitalianotaldeitali" che, troppo sicuro della bontà della
formulazione del suo prodotto, non prese in considerazione la valutazione di un panel di
assaggiatori professionisti: lo yogurt, pur essendo accettabile dal punto di vista gustativo, si
discostava troppo dalle "aspettative che il consumatore medio ha nei confronti di uno yogurt".

Venne proposto al produttore di effettuare una piccola modifica alla formulazione, per rendere il
prodotto più appetibile. Il produttore invece decise di ripetere il test tra i dipendenti della sua
azienda (sai che oggettività!), ebbe un risultato positivo e commercializzò lo yogurt.

Risultato? Flop del prodotto.

Io stesso non ho mai visto il fantomatico yogurt alla verdura: tutta la vicenda mi è stata raccontata
da una persona che ebbe un ruolo attivo all'interno del gruppo di assaggiatori.

Zeb 28 agosto 2013 alle 14:56


Oggi ho trovato in frigo uno scatolotto, presumibilmente doppio, che dichiarava SQUAQUERONE
E PESCA, comprato da mio fratello alla Cop poiché scontato del 50%.
Io ho quasi vomitato solo alla vista (prima di colazione, comprenderete), ma m'informerò...
Gent. Dott. Bressanini,
il mio ultimo intervento nel Suo blog, può essere tranquillamente cancellato!
Non riesco veramente a capire come una persona della Sua intelligenza e preparazione accetti
interventi improntati a cafonaggine e offensive dichiarazioni prive di seria preparazione.
Qualcuno, senza far nomi, sforna imbecillità e cattiverie,
Che succede?
Davvero preferisce che un vecchio arnese senza una seria preparazione scientifica possa
''passeggiare'' nel Suo Blog dichiarando che potrà scrivere ciò che vuole e quando vorrà?
Se così preferisce, vorrà dire che la mia delusione non sarà la sola e che alla fine nel blog resteranno
i soliti noti rendendo impossibile il confronto corretto e intelligente che Lei merita.
Cordialmente!

sara 28 agosto 2013 alle 19:17


redhawk,

lasciali perdere come ho fatto io........non c'è niente da fare..........il BRANCO è fattò così, non lo
puoi cambiare...............alla fine se la raccontano, se la cantano e se la ballano da soli

Landolfi 28 agosto 2013 alle 19:35


L'estate sta finendo, le temperature sono scese un po', c'è un bel sole... Insomma, due passi, un po'
d'aria fresca, si porta a spasso il cane o si va a prendere l'aperitivo con gli amici. Anche un buon
libro può far passare dei bei momenti, se uno ha tempo a disposizione. No?

Alberto Guidorzi 28 agosto 2013 alle 19:46


L'amazzone è resuscitata, ma resta anonima così con quella bocca può dire ciò che vuole.

Marina Chinotti 28 agosto 2013 alle 23:14


Eccetto i toni degli ultimi post, il blog è molto interessante. Complimenti a tutti. Un appunto però
ve lo faccio: lo sapete che la verità sta sempre nel mezzo? Si ha sempre un po' ragione, senza
alterarsi però. Questo è un blog. La verità assoluta lasciamola al mago Otelma.

zoomx 29 agosto 2013 alle 07:59


Mi raccomando, non alimentate i Troll. Il loro scopo principale è portare zizzania. Fingono di voler
contribuire. Capita in tutti i blog di successo che non possono essere moderati in maniera pesante.

Con i Troll non si tratta o si discute, li si ignora e basta.

sara 29 agosto 2013 alle 08:12


guidorzi, nemmeno le rispondo, mi ha già offesa più di una volta, ci sono abituata.

Questo è il mondo immaginato dalla BELLA COMPAGNIA

http://vimeo.com/57126054

Zeb 29 agosto 2013 alle 08:59


La trebbiatrice da polli non l'avevo ancora vista, bellissima! :mrgreen:
Comunque Sara, rassegnati pure: al punto in cui siamo, o così o l'atomica per radere al suolo le
megalopoli (l'ideale sarebbe quella al neutrone, che non lascia radiazioni letali, se no siamo da capo
a quindici in quanto a limitatezza dei territori).
Oppure una bella epidemia, ma seria però, qualcosa da qualche miliardo di morti, mica qualche
milione che ormai sarebber bazzecole, dato che di controllo delle nascite non se ne vuol sentir
parlare, per alti motivi morali naturalmente...
E non è detto che da quel tipo di posti lì prima o poi non ne partano una mezza dozzina di virulente,
se i cinesini e gli altri non fan le cose a modino... :D

Roberto 29 agosto 2013 alle 11:45


@Zeb

Ciascun italiano mangia, mediamente, 206 uova ogni anno (dato 2011). Ovviamente comprese le
uova necessarie per preparare la pasta, i dolci e ogni altro prodotto alimentare. Occorre quindi
produrre circa 13.000.000.000 di uova ogni anno. La soluzione di dimezzare gli italiani mi sembre
politicamente scorretta. (:

Alberto Guidorzi 29 agosto 2013 alle 12:37


MI pare che abbiate un concetto molto relativo di offese....certo per chi ha la coda di paglia ogni
parola profferita è offesa, Non sapete cosa voglia dire rispondere pan per focaccia.

Io le mie idee le ho sempre messe in discussione solo per il fatto di esprimerle in un blog pubblico,
siete voi che non condividendole le attaccate con veemenza e se fosse per voi non avrei diritto di
parola io invece vi ho risposto sullo stesso tono, ma argomento, voi non lo fate.

"Quello della marca di pistola" mi ha dato del grossolano ma mica mi offendo dato che l'aggettivo è
connaturato con "bifolco", qualifica a cui aspiro.

Con questo ho chiuso con i trolls

Zeb 29 agosto 2013 alle 14:05


Quella posteriore all'ultima guerra di cui faccio parte, Alberto, è una generazione di rammolliti, cui
ne sta seguendo una di smidollati, poi questo anomalo periodo di pace finirà, tornerà la fame e con
essa la sobrietà, e tanta suscettibilità in meno, speriamo almeno quella... :mrgreen:

Zeb 29 agosto 2013 alle 15:15


Effettivamente, che si sappia non c'è altra razza di animali altrettanto permalosi oltre la nostra, che
si sappia... ;)

Roberto 29 agosto 2013 alle 18:58


Quello che non mi sarei mai aspettato: i "babà napoletani" sono un marchio registrato:
http://www.babanapoletani.it/chisiamo.php

Alberto Guidorzi 29 agosto 2013 alle 19:52


Roberto,

In questo caso, a rigore nessuno può vendere quel tipo di dolci sotto il nome di Babà Napoletani, ma
lo deve fare sotto altro nome, non solo ma se io vado a chiedere un Babà napoletani e quelli me ne
danno non di quella marca sono passibili di contravvenzioni?

Chino 29 agosto 2013 alle 20:06


Alberto, puoi tranquillamente vendere: Babà alla napoletana, Babà Napolitani, Minibabà
Napoletani, Babà Sorrentini - Salernitani - Aversani - Avellinesi - Nolani - Di Cardito - Di
Frattaminore etc. etc.
Quindi, come vedi, fatta la legge, trovato l'inganno. Nnamo và, maggnamoce o'bbabbà!
granmarfone 29 agosto 2013 alle 20:23
A ben vedere Babà Napolitani sembrerebbe il nome della ditta e non del prodotto (autodefinizione
sul sito: "Babà Napoletani ® di Mario Verde è un'azienda dolciaria…", non scrivono "è il nome del
nostro prodotto…").
Sarebbe davvero possibile registrare un nome generico, comunemente usato nella tradizione da
decenni o secoli?
Allora sarebbe possibile registrare, da parte di un privato, "caciucco livornese", "baccalà alla
vicentina", "risotto monzese", "grappa veneta" per poi pretendere diritti?
Mi sembrerebbe inverosimile.
Anche Ferrero ha registrato il nome "Nutella" e non il termine generico "cioccolata".

Zeb 29 agosto 2013 alle 21:01


Te vuoi far piangere quelli che starnazzano un giorno sì e l'altro pure sui miliardi "perduti"
dall'agroitalia a causa dell' "italian sounding", Chino...

Diego 29 agosto 2013 alle 22:17


La "caricapolli" consente di eliminare una fatica terrificante quella del carico a mano. Io ho sempre
l'abitudine di provare il lavoro che pretendo si faccia in allevamento. Ho caricato personalmente
maiali, conigli, tori e polli (non tutti assieme naturalmente) e vi assicuro che una macchina del
genere ha provocato sogni bagnati in molti allevatori. :) ed inoltre strapazza gli animali molto meno
di quanto farebbe un uomo dopo 2 ore di lavoro.

sara 30 agosto 2013 alle 10:48


Per essere più efficienti avrebbero dovuto associare alla "Trebbiatrice di polli" questa macchina

https://www.facebook.com/video/video.php?v=1455717032975

Diego 30 agosto 2013 alle 11:12


E allora? Cosa vorresti dire che quella pasta rosa serve a fare degli hamburger? E la cheratina delle
piume e le interiora ancora presenti cosa ci stanno a fare? Molto probabilmente è la macchina per
l'eliminazione delle ovaiole fine carriera con produzione di farina di carne, quando si poteva
utilizzare nella mangimistica.

Guidorzi esperto in lingue,


Mia nonna, insegnante in pensione di lingua francese e inglese mi ha confermato che in francese
(che tu dovresti conoscere perchè hai spesso detto di essere stato in Francia), la parola ''grossier''
significa grossolano e maleducato mentre cafone, che effettivamente, in francese non riveste alcun
significato negativo,si traduce in ''Ruste''
Che dirti ....i trolls sono un problema?

Zeb 30 agosto 2013 alle 11:26


Comunque se il sapore è buono e l'impasto non è nocivo, ben venga: qua da me si mangia tutto di
tutto, senza preclusioni o schifiltosie di sorta... :mrgreen:

Diego 30 agosto 2013 alle 11:44


Zeb esiste la Carne separata meccanicamente (CSM), in pratica le carcasse di pollo sono spremute
per recuperare la carne ancora attaccata alle ossa. Il prodotto che si ottiene è una polpa rosa ricca in
tessuti connettivali, quindi meno pregiata dal punto di visto nutritivo, utilizzata per gli hamburger, i
wurstel, i preparati semi pronti, ripieno per paste e tortellini ecc. Quello che mi fa arrabbiare è che
la vendano ad un prezzo troppo elevato. Dal punto di vista tecnologico è una lotta agli sprechi, e poi
non dimentichiamo il detto contadino "quello che non strozza, ingrassa"
Diego 30 agosto 2013 alle 11:46
Dimenticavo, questa tecnologia si utilizza anche nel maiale e deve essere riportata in etichetta.

Roberto 30 agosto 2013 alle 11:52


Io parlo il franco-canadese, magari mi sbaglio, ma si dice "rustre" e se ci fidiamo del Larousse il
rustre si riferisce a "qui est grossier".
http://www.larousse.fr/dictionnaires/francais/rustre/70308

massi 30 agosto 2013 alle 13:10


Zoomx

Redhawk non è un troll: ha portato contributi al blog in ambito culinario, ma probabilmente non
capisce il punto.

Redhawk

Cosa farebbe un astronomo in un blog se fosse puntualmente attaccato da persone che sostengono e
sono convinti in maniera fideistica che il sole giri intorno alla terra? Probabilmente alla lunga si
incazzerebbe, no?

A Guidorzi succede lo stesso in ambito agronomico-biologico.

Pan per focaccia: rispondere a tesi ben argomentate con tesi alternative altrettanto ben argomentate,
ovvero rispondere nel merito dell'argomento in considerazione e non mettersi a fare le vittime per i
modi un po' rudi del "relatore" di turno.

demetrio 30 agosto 2013 alle 13:14


OT
Nonostante siano ormai anni che frequento il blog, non sono diventato più intelligente giacché non
riesco a trovare il post dove si propongono nuovi argomenti, dunque mi permetto di fare un paio di
domande qui:
Il sale è sempre sale, no? A parte quello iodato, dico, dove viene aggiunto lo iodio o quelli colorati
dove sono presenti delle impurità, giusto?
Ecco allora le mie due domande: un amico mi dice di percepire grande differenza nella capacità di
salare a seconda della marca e che, comunque, quello di salina sala più del salgemma. E siccome
'sto amico è bravo a cucinare penso che non si sbagli...
Qualcuno sa darmene una spiegazione?

massi 30 agosto 2013 alle 13:38


Demetrio

Forse perché quello da salina è sempre rafinato, con un titolo in Nacl superiore al 99,5%, mentre
quello da miniera può essere prodotto anche per semplice frantumazione della Halite, e quindi
contenere impurità che ne abbassano il "potere salante".

demetrio 30 agosto 2013 alle 13:52


@massi
Grazie. Però allora vorrei chiederti: quanta impurità in percentuale immagini possa esserci nella
Hialite (che sempre Nacl è, no?) e di che tipo? Domanda difficile, forse sto esagerando...

demetrio 30 agosto 2013 alle 13:54


ps
Ho appena letto su Wikipedia: "Molto spesso, però, il cloruro di sodio è disponibile allo stato solido
mischiato con forti quantità di composti estranei, soprattutto argille, sali di magnesio e altri."

massi 30 agosto 2013 alle 15:23


Demetrio

Non saprei... forse composti analoghi come cloruro di potassio o ioduro di sodio, ma non so.

Anche perché (l'ho letto or ora) sembra che spesso il salgemma commerciale abbia un titolo in
cloruro di sodio maggiore rispetto a quello da salina. Quindi forse è solo una "fissa" del tuo
amico :-)

demetrio 30 agosto 2013 alle 15:35


Mmh... gli ho promesso che gli avrei proposto una spiegazione scientifica, mica posso dirgli che ha
una fissa! :-( Vabe', vuol dire che prenderò tempo parlandogli di cloruro, ioduro e potassio finché
non dovrà tornare in cucina prima che gli si bruci tutto! ;-)

Roberto, hai perfettamente ragione!


Con l'iPad a volte succede che una parola venga scritta male.
E' RUSTRE e non ruste.
Grazie per la precisazione.

Alberto Guidorzi 30 agosto 2013 alle 16:48


La salinità media del mare è di 350, pari a 35 gr/l, e corrisponde a circa tre cucchiai abbondanti di
sale in un litro di acqua. Circa il 270, è costituito da cloruro di sodio NaCl, il resto da sali di
magnesio, calcio e potassio.

Il sale che si ricava dall'acqua marina nelle saline è poi raffinato e quindi si concentra i cloruro di
sodio. Il salgemma invece è venduto così e commercialmente si gioca sul fatto che contiene più
micro o oligoelementi, ma che sala è il cloruro di sodio e nel sale marine commerciale raffinato ve
ne è di più (si arriva al 96,6%)

Credo che la spiegazione sia questa..

enrico 31 agosto 2013 alle 14:14


sorry, ma dopo questi due ultimi commenti inqualificabili la lettura del blog diventa difficile e
spiacevole. Confido in un intervento del blogmaster

sara 31 agosto 2013 alle 16:07


ovviamente "fare pulizia" significa eliminare i post che criticano quello che ha scritto bressanini e
lasciare tutti gli altri, anche se raccontano panzane..............discussione come al solito taroccata!

Zeb 31 agosto 2013 alle 16:52


Riesci a indicare l'ultimo tuo intervento in thread con l'argomento del post (registrazione
commerciale delle specie), Sara? Non importa se intelligente o meno, l'ultimo tuo, Sara, che magari
riprendiamo da lì...

Brevemente: sul sale c'è un topic apposito (anzi, più di uno)

La macchina dei polli è quella che serve per eliminare in modo indolore per i polli (vengono
addormentati) e rapidamente le ovaiole alla fine del loro ciclo produttivo. Su facebook e su qualche
blog girano sempre storie che dicono che poi ci producono gli hamburger: stupidaggini, ma molti si
sentono in *dovere* di condividere e mantenere la bufala.

Per tutti: solitamente non censuro, ma cerco di tenere sotto controllo e guidare la discussione.
Questo non accade ad agosto quando sono in meritata vacanza, per cui mi spiace di aver lasciato
degenerare.
Qui, cara Sara, le ARGOMENTAZIONI sono sempre lette con attenzione. Ma non mi pare di
averne viste molte. Qualcuna, ma troppo rumore. I critici sono i benvenuti, ma cercate di discutere
delle varie tesi, e non delle persone. Ho sfoltito un po' di cose inutili e pure offensive.

Dario,
non sono un esperto, ma ricordo che a casa mia e probabilmente ovunque, i polli si ammazzavano
senza alcuna forma di eutanasia:
Torcere il collo, tagliar la loro testa mentre continuavano a correre, insomma cose da terzo
mondo ...ma sai bene che erano la norma.
Vorrei moltissimo crederti quando parli di polli addormentati prima di essere ''spolpettati'!
Posso però dissentire?
in un mondo industrialmente votato alla velocità, pensi che i poveri polli abbiano trattamenti di
favore?
Ho trovato questi filmato e spero che non siano veri!
Chick Pulp - Macchina industriale per macellare polli vivi

http://www.youtube.com/watch?v=fkfoMwpNEDc

http://www.youtube.com/watch?v=dQq1RmI-oDo

Landolfi 31 agosto 2013 alle 23:29


OT: c'è un bel post della bravissima Lisa Signorile che tenta di spiegare perché siamo così incivili
dietro la tastiera: http://lorologiaiomiope-national-geographic.blogautore.espresso.repubblica.it/
2013/08/11/la-devoluzione-della-scimmia/

Onore a Dario per la pazienza: mi sembra che sia un po' come avere decine di figli che si
accapigliano e poi vanno dal papà a dire "E' stato lui!" :)

birulardo 1 settembre 2013 alle 02:04


@ Alberto, grazie mille!
Risposta esauriente come sempre.

PS
Ho quasi finito il tuo interessantissimo libro :-)

Roberto 1 settembre 2013 alle 09:09


Vedo un gran interesse per i metodi di macellazione degli animali. Commento in Quesiti di
agricoltura per non essere troppo O.T.

Dimenticavo di aggiungere che sono certo che in Italia le grosse aziende utilizzano metodi corretti
per eliminare i polli da scarto.
Quello che però si dimentica è, ad es. la mattanza dei tonni, la macellazione di suini mentre intorno
si fa festa e quelle povere bestie urlano come bambini, la macellazione dei cavalli con dei terribiii
''sparachiodi'' nel cranio mentre mostrano occhi terrorizzati, perchè sono animali sensibilissimi e
sentono l'odore degli altri cavalli morti, le ''mazzate'' con martelli pesanti sul cranio dei bovini...
Ecco perchè dico che, al di fuori di aziende organizzate e serie, non credo sinceramente in certi
trattamenti privilegiati nei confronti dei polli.
Inoltre quelle schifose macchine, se non sono riprese per fornire spettacoli taroccati, potrebbero
servire a formare (penne, zampe e interiora comprese) non degli hamburger folli, ma forse pastoni
per allevamenti di pesci.
Scusatemi se vado fuori dai principali temi qui dibattuti, ma tutto sommato, anche se penso che
ormai internet sia una grossa fogna in cui confluisce tutto, comprese le informazioni ''farlocche'',
qualche parola vada spesa in proposito.

Sergio Salvi 1 settembre 2013 alle 11:42


A proposito di marchio registrato nei cereali, ho trovato menzione del Mais ottofile di Antignano® e
della Saragolla®.
Nel caso della Saragolla® esiste una situazione interessante: da un lato c'è un'azienda in provincia
di Teramo che nel 2007 ha registrato la Saragolla turchesco®, dall'altro lato il nome Saragolla® è
stato assegnato ad una varietà di grano duro iscritta nel 2004 nel Registro nazionale specie agrarie
dalla Società Produttori Sementi di Bologna, la quale ha legalmente potuto utilizzare un nome
storico in quanto esso non è né iscritto né descritto in alcun albo pubblico (fonte: Notiziario Rete
Semi Rurali n. 06, dicembre 2012). Da notare che il termine Saragolla è utilizzato da tempo
immemorabile per indicare non una specifica varietà, ma addirittura una "popolazione" di frumenti
duri che si ritrovano, con questo nome, in varie parti d'Italia.

Max 1 settembre 2013 alle 16:45


Per tornare all'argomento dell'articolo, ecco una pagina dove si fa menzione del marchio "di origine
laziale", che per la verità sarebbe relativo ad un insieme di prodotti caratterizzati dalla comune
origine laziale:

http://labottegadelgusto.wordpress.com/page/2/

interessante il fatto che il punto vendita in questione vada controcorrente per quanto riguarda la sua
localizzazione cittadina, ossia in un quartiere popolare come Centocelle, e non in zone a maggiore
reddito pro-capite

Titolai 1 settembre 2013 alle 17:48


FUORI ARGOMENTO

Sono finito su questo blog per caso solo recentemente, cercando nel web sull'argomento
"surgelazione albumi" ed annessi e connessi, e devo dire che lo trovo assai interessante.

Tuttavia, mi sembra che l'eccessiva libertà lasciata ai commentatori di divagare assai sia rispetto al
tema principale (Scienza in cucina) sia ai singoli argomenti (per non parlare poi degli scambi di
reciproche ... adulazioni) renda assai faticoso seguire i commenti specifici.

Non intendo con ciò significare che molte divagazioni non siano interessanti o competenti.
Intendo solo dire l'eccessiva presenza di contributi "FUORI ARGOMENTO" (incluso questo) è un
vero peccato, dato che spinge ad una lettura veloce e superficiale, col rischio di saltare commenti
che, sia pure con qualche divagazione, rendono il tema proposto ancora più esaustivo ed
interessante.

E dato che mi sembra di intuire che la maggiorparte dei commentatori sembrano grandicelli, troll o
non troll vorrei suggerire che il Sig. Dario Bressanini (o chi per lui) "moderi" i contributi e lasci
passare quei commenti che sono palesemente fuori dell'argomento "Scienza in cucina" e filtri quelli
che si allargano alla "Scienza nella fabbrica, nella cantina, nell'orto, nella stalla, nel laboratio, nel
campo, nel deserto, nello spazio, nell'oceano, nella storia, nella letteratura, etc.", a meno che non
afferiscano specificamente e direttamente alla preparzione di cibi a scopo alimentare umano.

Faccio notare che non intendo suggerire di filtrare i commenti che sono in accordo o quelli contro
l'articolo commentato, ma solo di applicare il metodo scientifico riduzionista ai contributi, inteso
come cercare di limitare i commenti/contributi all'ambito del cucinare (anche oltre il casalingo) o al
più alla preparazione di oggetti edibili, limitando al minimo le divagazioni sulla acquisizione,
produzione, conservazione, gestione, distribuzione, composizione, tossicità, storia, etc. degli
alimenti (anche perché per ognuno di questi argomenti esistono vari siti, blogs e forum).

Altrimenti il rischio è di aumentare a dismisura le connessioni, coinvolgendo entità molto lontane


dal tema per le quali l'impatto sul tema stesso può diventare opinabile o fideistico.

Quantomeno, se qualcuno vuol dare un contributo "a latere" potrebbe segnalate chiaramente e
subito "FUORI ARGOMENTO", e offrire un link di approfondimento dove eventualmente
continuare il dibattito.

P.S.
Per l'eventuale moderatore: mi va anche bene se sono il primo a finire nel tritacarne!

Zeb 1 settembre 2013 alle 21:51


Sa cos'è, egregio Titolai? E' che Dario non lo fa per mestiere di tenere questo Blog, né noi pagati per
commentare, competentemente o meno.
Si è qui per rilassarsi - magari indignandosi, che un po' fa sempre bene - per informarsi quando
capita e per dare una mano quando possibile, soprattutto una certa comunità di buontemponi che
molti ormai pare impersonifichino esclusivamente nelle ampie schiere guidorziane, ma siamo in
effetti una eterogenea armata Brancaleone di benintenzionati in sintonia col padrone di casa.
Spesso, quando c'è, non deve usar la frusta se non del sarcasmo, ma ora siamo tutti qui in
spasimante attesa delle ultime Notitiae Viatorum vacanziere, sarà questo che crea un po' di
inquietudine e nervosismo? :mrgreen:
E proprio mo' lei ci viene a parlar di filtri e di meccanismi vari, o esimio Titolai? Titolai Titolai... ;)

enciclopivo 4 settembre 2013 alle 03:48


Dopo aver letto con molto ritardo anche tutti i commenti, vorrei dire che siamo sempre alle solite.
C'è una parte delle persone, che anche qui intervengono, che non sa accettare il metodo scientifico.
Qualcuno sopra ha commentato che la verità sta nel mezzo: mai sentita castroneria più eclatante se
si parla di scienza. La verità, o meglio, le affermazione che si fanno, e che oggettivamente sono del
momento, (domani potranno verificarsi nuove scoperte, anche se il più delle volte ampliano gli
spazi conoscitivi, inglobando quanto detto precedentemente) sono quelle che portano prove,
ricerche, esperimenti e teoria, che è verificabile anche da altri, ecc. ecc. Tutto il resto è fuffa. E la
scienza non è nemmeno democratica. Se io, e solamente io, dico e faccio delle affermazioni che
però hanno alle spalle tutta una serie di prove sperimentali che le confermano, sono io che ho
ragione, anche se sono in milioni a contestarmi senza supporto scientifico. I possibilisti, come le
due nostre "amazzoni" ed altri dello stesso calibro, non fanno parte del mondo scientifico, ma del
mondo della cattiva filosofia. Questo è un blog scientifico: i commentatori si devono adeguare al
metodo scientifico, altrimenti vadano su quei blog che io chiamo "degli alternativi", cioè dei
cacciaballi travestiti da scienziati non "compresi" ed "osteggiati" dai poteri forti.

albè 5 settembre 2013 alle 14:48


@enciclopivo: meno male che esistono sacri depositari del metodo scientifico par tuo che sono
capaci con i loro esperimenti galileiani (mai condotti in prima persona ipotizzerei) di definire
rigorosamente il concetto biologico di "specie" e conoscono benissimo le suddivisioni tassonomiche
inferiori,
forse.

Vedi gli scienziati "seri", di solito parlano del ramo in cui sono specializzati (e nel quale per essere
considerati scienziati e non semplici professori o divulgatori dell' opera altrui, bisogna aver dato un
contributo non irrisorio alla crescita delle conoscenze nel settore)
ed in genere più sono bravi più espongono le loro idee con precisione ed umiltà
senza parlare dei massimi sistemi
ed evitando di spacciare per scientifiche le proprie opinioni su argomenti di tipo NON scientifico (il
marketing, i brevetti, l' economia etc etc).

@Dario: complimenti per la simpatica invenzione del concetto di specie "dal punto di vista del
consumatore";
potrebbe essere un meme utilizzabile da qualche “genio” del marketing :lol:

Ah, per i saputoni da blog, in inglese Bobby è il diminutivo di Robert ed Alby di Albert e così mi
chiamava tempo fa un affabile cliente australiano conosciuto come Bobby da tutti i suoi colleghi.

enciclopivo 8 settembre 2013 alle 11:07


@albè: Strano concetto, il suo. Secondo lei non dovrebbero esserci nè divulgatori scientifici nè
professori che insegnano quanto studiato. Vede, albè, se fosse successo quello che lei auspica,
probabilmente nè io nè lei oggi saremmo qui a scrivere, ma probabilmente non esisteremmo
nemmeno, perchè i nostri genitori, o i nostri nonni sarebbero probabilmente morti o per
denutrizione o per malattie. Infatti, meno male che c'è chi divulga, altrimenti ogni nuova scoperta
rimarrebbe chiusa nel recinto di qualche laboratorio. Glielo dico sinceramente: lei non crede, o non
ha fiducia nel metodo scientifico? Mi dica, allora, perchè è qui, cosa guadagna dal leggere quello in
cui non crede? Non c'è un metodo scientifico buono ed uno cattivo, c'è il metodo o non c'è. Le sue
argomentazioni sono del tutto opinabili (ed uso questo termine per non usare termini offensivi, ma
forse maggiormente calzanti). E non faccia nemmeno la fatica di rispondere: non aprirò più questa
pagina perchè passo alle successive.

giulielmo 8 settembre 2013 alle 18:55


NON toccate Galileo che prima di dire qualcosa la SPERIMENTAVA! (logicamente non ha potuto
portarsi in laboratorio i satelliti di giove che infatti non esistono)... ;-)

albè 9 settembre 2013 alle 11:31


Ammappate i saputoni da blog quante ne sparano!
ed è proprio per questo che a volte mi diverto a mettere qualche puntino sulle "i" a diverse
affermazioni (soprattutto a quelle spacciate indebitamente per scientifiche quando non lo sono
affatto) di qualche divulgatore da blog.

@Enciclopivo: guarda che la scienza non si basa su "credenze", se non in minima (ed ineliminabile,
almeno secondo Popper) parte ed i nostri antenati si sono diffusi per tutto il pianeta per più di
100mila anni prima non solo che nascesse la scienza (moderna od antica) ma pure la civiltà stessa
(sorta 3-4 millenni prima della scienza tra l' altro).
Altro che bubbole del tipo non saremmo qua od i bla-bla sul metodo scientifico che chissà perchè
non si trovano quasi mai negli scritti (pure quelli divulgativi) dei grandi scienziati.

@guglielmo: nessuno può toccare il grande Galileo dato che è morto da quel dì;
è che prima di citarlo a casaccio bisognerebbe conoscere un poco di più il suo straordinario lavoro,
basato su pochissime sperimentazioni pratiche e su eccezionali meriti teorici prima di pavoneggiarsi
citando il "metodo".
Ad esempio sarebbe utile ricordare ai saputoni da blog che anche il grande Galileo prese dei granchi
scientifici colossali, tipo quello di considerare (e sostenere pervicacemente contro Keplero ed altri
scienziati con idee più corrette delle sue nell' interpretazione specifica) le maree come una prova
empirica della rotazione terrestre!

giulielmo 9 settembre 2013 alle 12:49


albè
Galileo è morto? non sapevo nemmeno che stesse male... ;-) concordo con quasi tutte le tue idee,
ma galileo, pur con i suoi rari errori, ha lanciato il metodo scentifico, e qesto IMHO è meritevole di
Grande Ammirazione.

giulielmo 9 settembre 2013 alle 13:35


albè
Cioè, tu dici che se io uso g (circa 9.81) e non me lo sono mai ricercato da solo tiro a casaccio?
Se uso la legge di ohm (R=V/I) e non me la sono scoperta da me, non ho il diritto di
pavoneggiarmi?
Se assumo che l'acqua bolla a 100°C, non chiamandomi Celsius, sto commettendo un sopruso?
Dobbiamo bruciare tutti i libri ed ogni giorno ricominciare da capo? Non credo che tu abbia inteso
questo, leggendo con più attenzione la tua delle ore11:31 sembra di sì.
Spiegati meglio e spara meno a zero, grazie
Giulio

Roberto 11 settembre 2013 alle 15:53


La ditta Aboca ha un prodotto con marchio registrato, il Policaptil Gel Retard, che è costituito di,
testuale, "macromolecole polisaccaridiche". Fantastico, sublime. Leggendo la descrizione sembra
proprio crusca di avena. Se torno a nascere faccio il fitoterapeuta.
http://www.aboca.com/it/i-nostri-prodotti/fitomagra-libramed

Marina Chinotti 18 settembre 2013 alle 13:46


Proprio oggi ho mangiato il pane INTEGRALBIANCO (con la r cerchiata alla fine), costa più di 4
euro al Kg. e dovrebbe essere "pur avendo l'aspetto di un tradizionale pane bianco" :
FONTE DI FIBRA (solubile) 3.2 gr./100 gr
PRIVO DI LIGNINA E CELLULOSA
BIODISPONIBILITA' TOTALE DELLA FIBRA SOLUBILE (pentosani e arabinoxiliani) superiore
al 20% rispetto all'integrale convenzionale, con effetti pre-biotici
POLIFENOLI E ACIDO FERULICO presenti in misura superiore al 30% rispetto al pane tipo 00
ASSENZA DI ACIDO FITICO che impedisce l'assorbimento di calcio e ferro.
A parte due o tre nomi che conosco, gli altri sono per me "ostrogoto".
Vale la pena spendere il doppio dei soldi per mangiare questo pane al posto di quello integrale?

Laura 11 novembre 2014 alle 23:12


non darei la colpa alla pubblicità ma alla disinformazione dilagante che permette al marketing di
strumentalizzare le scelte...
Anche a livelli elevati talvolta non c'è chiarezza.. addirittura la Dir. (CE) 78/2007 in merito agli
allergeni citava il "Kamut", e successivamente anche il Reg. (UE) 1169/2011 (che abroga la Dir.
vigente ed entra in vigore a Dicembre), l'errore kamut corretto con Khorasan è avvenuto solo
quest'anno con il Reg. (UE) 78/2014 (che modifica il Reg. precedente).. in tutti questi anni nessun
legislatore se n'è accorto?
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Un addendum sul Kamut®


1 luglio2013
Ho parlato poche settimane fa del Kamut®, proponendovi un estratto da "Le bugie nel carrello".
Durante la stesura del libro ho contattato la Kamut International, proprietaria del marchio registrato
Kamut®, per avere alcuni chiarimenti. Molto gentilmente hanno risposto alle mie domande e,
poiché solo una parte delle informazioni ricevute è stata utilizzata nel libro, ho pensato di
pubblicare qui, senza miei commenti, le domande fatte e le risposte ricevute (in inglese. La
traduzione è mia). Come si dice in questi casi, le affermazioni della Kamut International sono sotto
la sua responsabilità, e le riporto qui senza verifica. Mi riprometto per quelle di tipo
medico/salutistico di fare una indagine di approfondimento.

1) è ancora vero, nel 2012, che l'intera produzione del Kamut arriva dagli USA (Montana) e dal
Canada?

Sì, il 99% di tutto il KAMUT® è coltivato in questa regione. In Canada nelle regioni dell’Alberta e
del Saskatchewan.

2) sul sito della Kamut International è scritto che gli esperimenti di coltivazione del Kamut in altri
paesi non sono andati a buon fine, per questioni di clima, malattie etc. Mi chiedevo, visto che il
Khosaran è originario dell’Anatolia e tuttora coltivato in altre regioni come l'Egitto e l'Iran, se
abbiate mai fatto degli esperimenti di coltivazione della vostra varietà in quei luoghi

Sì, abbiamo effettuato prove di produzione in molte regioni senza successo. Il problema principale
in Egitto è stata la bassa resa potenziale di questo grano. Così quando viene coltivato con sistemi
moderni di irrigazione che oggi predominano in Egitto, visto che sono tecniche ad alta richiesta di
input e richiedono alte rese per ripagare le spese, le basse rese rispetto al grano moderno non
permettono che questo grano antico possa essere conveniente economicamente.

3) Quanti sono gli agricoltori che coltivano Kamut ogni anno e su quanti ettari?

Nel 2012 abbiamo lavorato su 60.000 acri [24.000 ettari] con più di 150 agricoltori.

4) La lista di attesa di coloro che vorrebbero coltivarlo è molto lunga?

Sì, normalmente abbiamo una lista di attesa di molti agricoltori.

5) Ho letto che tutto il Kamut che arriva in Europa viene spedito in Belgio e commercializzato da
una unica società, che poi lo rivende agli acquirenti autorizzati nelle varie nazioni. È così? Può
illustrarmi un po' meglio la struttura commerciale Italiana?

Da circa 20 anni KEE [Kamut Enterprises of Europe, una filiale della Kamut International]
collabora con Ostara in Belgio, l’importatore esclusivo del marchio Kamut® grano khorasan in
Europa. Questo accordo ha funzionato bene per diverse ragioni incluso il fatto che il grano entra nel
mercato attraverso un solo punto d’ingresso rendendo possibile per KEE garantire che la qualità e
l'integrità del grano venduto sia la stessa.
6) Ho letto su una newsletter della Kamut International che l'Italia assorbe più del 50% della
produzione di Kamut. è corretto? O il 50% è riferito alla sola esportazione escluso le vendite in
USA e Canada?

L’Italia è di gran lunga il più grande mercato mondiale per il Kamut® e oggi questa cifra supera il
50 per cento della produzione globale.

7) è possibile sapere in quali altre nazioni europee, dopo l'Italia, il kamut è così apprezzato?

Dopo l’Italia l’interesse maggiore è in Germania e in Francia. Tuttavia abbiamo interessi


significativi in tutta l’Europa occidentale.

8 ) Mi incuriosisce tra le specifiche per la certificazione il contenuto minimo di selenio di 400 ppb.
Poichè il selenio assorbito dai cereali è diretta funzione del selenio contenuto nel terreno, terreni
poveri di selenio, come alcuni in Europa, sono automaticamente esclusi dalla possibilità di coltivare
Kamut certificato. Potrebbe sembrare che questa richiesta sia fatta appositamente per escludere la
coltivazione in Europa. Come commentate questa ipotesi?

Questo requisito è stato adottato molti anni fa, quando si stabilì che questo potresse essere
mantenuto come una qualità costante, così come quando è cresciuta la nostra consapevolezza circa i
benefici del selenio. Alla quantità di 400 ppb, se si mangiano tre porzioni al giorno di questo cereale
questo fornisce quasi il 100% del normale fabbisogno giornaliero di selenio nella dieta umana, e
questo per noi è un obiettivo importante da mantenere. È vero che questo requisito può escludere
alcune aree dalla produzione, ma non vi era l’intenzione di prevenire la produzione in alcune aree
come l'Europa, che non hanno avuto successo per altre ragioni.

9) La Kamut International ha sostenuto che i moderni programmi di miglioramento genetico del


grano hanno modificato a tal punto il grano moderno che alcune persone non sono più in grado di
digerirlo. Le sarei molto grato se poteste fornirmi i riferimenti ad articoli e pubblicazioni
scientifiche che dimostrano questo legame, argomento a mio parere molto interessante e da
approfondire.

10) Voi stessi suggerite di consumare Kamut ai soggetti affetti da ipersensibilità al frumento. Anche
in questo caso gradirei avere dei riferimenti scientifici precisi in modo da poter leggere lo studio.

9+10: Sembra esserci sicuramente una differenza tra il grano antico e il grano moderno, che è il
risultato di programmi di miglioramento genetico intenso che si sono concentrati solo su come
aumentare le rese, aumentare il volume delle pagnotte di pane, migliorarne il colore o prendere in
considerazione la produzione di pasta. Per alcune persone che mangiano questo grano sembrano
esserci conseguenze negative non volute. Noi non avevamo idea di questo e siamo rimasti sorpresi
quando alcune persone ci hanno detto che trovavano differenze mangiando il nostro grano antico.
Questo effetto ci è stato segnalato quando 25 anni fa abbiamo iniziato a mettere sul mercato questo
grano. Alcuni clienti che non potevano mangiare grano moderno senza provare qualche tipo di
disagio o avere problemi di salute ci hanno detto che quando mangiavano il grano a marchio
Kamut® si sentivano bene e, in alcuni casi, la loro salute è migliorata.

Anni dopo abbiamo scoperto che medici naturopati in tutta Italia stavano prescrivendo come
sostituto per i loro pazienti che avevano problemi a mangiare grano moderno il nostro grano antico
e, come risultato, vedevano il grande successo di questo trattamento. Anche questa è stata una
sorpresa perché non avevamo alcun contatto con questi medici naturopati. Più di recente abbiamo
avuto segnalazioni di intere squadre di calcio passate a mangiare questo grano dicendo di trarre più
energia da esso e avere tempi di recupero più rapidi da sessioni di allenamento pesanti. Ancora una
volta questo effetto è stato scoperto inizialmente da medici delle squadre in modo indipendente da
noi. Per capire cosa sta succedendo abbiamo messo insieme un team di scienziati presso l'Università
di Bologna e l’Ospedale Universitario di Firenze per studiare le differenze di risposta degli
organismi viventi quando mangiano grano moderno rispetto a mangiare il grano antico venduto
sotto il marchio KAMUT®

Abbiamo iniziato con un esperimento sui ratti studiando prima la capacità antiossidante, poiché
sospettavamo che avrebbe mostrato una differenza visto che studi precedentemente pubblicati
avevano trovato una differenza positiva tra grano antico e grano moderno. Con il nostro studio, non
solo abbiamo osservato una differenza positiva nella capacità antiossidante, con il grano antico che
mostra un vantaggio significativo, ma abbiamo anche visto un risultato del tutto inaspettato: il grano
antico ha anche mostrato proprietà anti-infiammatorie che quello moderno non aveva. Due articoli
che descrivono questo studio sono già stati pubblicati e possono essere trovati sul nostro sito web
nella sezione ricerca, mentre un terzo è in preparazione per la pubblicazione. Dopo questo risultato
è stato effettuato uno studio su soggetti umani sani e sono stati trovati gli stessi risultati. Questo
lavoro è stato presentato per la pubblicazione. Diversi altri articoli, ora pronti per la pubblicazione,
forniscono una maggiore comprensione all'osservazione che alcune persone sostengono di poter
digerire questo grano più facilmente e hanno meno problemi a mangialo rispetto al grano moderno.
Abbiamo intenzione in un prossimo futuro di studiare le persone con malattie cardiache, poiché le
capacità antiossidanti e anti-infiammatore sono fondamentali nel trattamento di questa grave
malattia.

Ulteriori riferimenti: http://www.kamut.com/it/research.html

11) Il contratto stipulato dagli acquirenti del grano Kamut comprende il pagamento di una royalty
per l'uso del marchio? Una quota percentuale del fatturato?

No, la royalty è fissata ad un piccolo importo fisso per unità di peso che non cambia anche se il
prezzo del grano cambia di volta in volta. È riscossa solo una volta al punto di prima vendita dal
primo acquirente. Non viene riscossa dagli agricoltori. Come informazione aggiuntiva viene
utilizzata per garantire che il marchio "KAMUT" sia significativo e utile come modo per preservare
e promuovere questo grano antico con tutte le garanzie che sono importanti per noi come l'equità
nella determinazione dei prezzi e i rapporti con gli agricoltori e consumatori, il sostegno
dell'agricoltura biologica e del cibo sano e di buona qualità. Le royalty sono anche usate per
sostenere i nostri sforzi di ricerca, che sono ormai abbastanza consistenti.

Alcune risposte sono molto interessanti, ad esempio quelle che riguardano le presunte differenze tra
"grani moderni" e "grani antichi", ammesso che la differenza sia definibile in modo sensato e netto.
Nel libro ho spiegato, dando i riferimenti scientifici, di come il Kamut non sia adatto ai celiaci o
agli allergici, ma altri aspetti richiedono, almeno da parte mia, un supplemento di inchiesta, per cui
rimando i miei commenti ad un prossimo articolo.

Arrivederci a presto

Dario Bressanini

Scritto in Grano, Kamut | 279 Commenti

Che ne sai tu di un campo di Kamut®


20 maggio2013
Sapevate che il Kamut® è un marchio registrato? E che forse avete già mangiato una bistecca da un
figlio di un manzo clonato? Siete sicuri che le patate al selenio siano davvero utili per la vostra
salute? Le pratiche esoteriche della biodinamica hanno un qualche effetto sul vino prodotto da uve
biodinamiche?

E' finalmente in libreria il mio nuovo libro "Le bugie nel carrello" dove racconto queste e altre
storie.

le-bugie-nel-carrello_bressanini
Per l'occasione ho pensato di offrirvi un estratto del primo capitolo, dove racconto la storia del
Kamut, le proprietà nutrizionali e le leggende errate diffuse sul web che sostengono sia adatto a
celiaci e allergici al grano.

Il Kamut, il grano dei faraoni del Montana

Di recente l’industria alimentare ha rispolverato i cosiddetti «grani antichi», particolari varietà o


specie di grano che da decenni o secoli erano state abbandonate dal punto di vista commerciale
perché poco remunerative. Alcuni agricoltori le hanno reintrodotte perché, nonostante abbiano rese
più basse rispetto al frumento, possono essere coltivate in modo biologico in aree marginali e
vendute a un prezzo superiore grazie al favore che incontrano presso i consumatori. Questi
mostrano di apprezzare i grani antichi perché li percepiscono come «più naturali» e con interessanti
proprietà nutrizionali. Dal canto loro, le aziende alimentari ne sono attratte perché consentono loro
di diversificare la produzione in base alle esigenze dei consumatori. I grissini che acquisto io sono
disponibili anche nella versione al frumento tradizionale, che costa meno ma piace meno in casa.
Pasta e nuovi prodotti da forno (pane, biscotti, piadine, grissini ecc.) che contengono miscele di
farine si trovano in gran quantità anche nei negozi specializzati in alimenti biologici e «naturali». Di
sicuro, il cereale che riscuote più successo di tutti è il Kamut.

La leggenda racconta che, subito dopo la seconda guerra mondiale, un pilota militare americano
abbia trovato in un’antica tomba vicino a Dashare, in Egitto, una manciata di semi vecchi di
quattromila anni. Nel 1949 regalò trentasei chicchi a un amico, Earl Deadman, che li spedì a suo
padre, un agricoltore del Montana. Quei semi vennero piantati e, miracolosamente, trentadue di essi
germinarono, consentendo l’avvio di una piccola produzione. Portato in giro per le fiere agricole
del Montana negli anni Sessanta come curiosità, quel cereale con i suoi chicchi grandi (il doppio
rispetto al frumento comune) venne soprannominato «grano del faraone Tut». Nel giro di poco
tempo la novità scemò e quel grano venne dimenticato.[i]

Nel 1977, i Quinn, una famiglia di agricoltori di Big Sandy nel Montana, recuperarono nello
scantinato di un amico una scatola contenente quei semi, li seminarono e li moltiplicarono. Nel
1987 Bob Quinn, il più giovane della famiglia, con un dottorato in patologia vegetale e una buona
propensione per gli affari, decise di usare un nome egizio per dare un’identità riconoscibile a quel
grano e commercializzarlo. Consultando un dizionario dei geroglifici egizi nella biblioteca locale,
accanto alla descrizione di grano e pane trovò la parola «kamut». Il 3 aprile 1989 Quinn registrò il
nome Kamut e fondò la Kamut International.[ii] Non a caso nel marchio della società, presente su
ogni confezione di prodotti di questo tipo, compare una piramide egizia. Kamut quindi non è il
nome di una specie vegetale, ma un marchio registrato (da qui l’uso obbligatorio del simbolo ® su
tutti i prodotti che lo contengono) che sfrutta a fini pubblicitari le sue supposte origini egizie, il fatto
di essere un «grano antico» e, come vedremo, le sue presunte qualità nutrizionali.

Una leggenda accattivante


La farina di Kamut dei miei grissini è quindi la stessa che utilizzavano gli antichi egizi, arrivata a
noi grazie a quel ritrovamento archeologico? No. La leggenda, sicuramente accattivante, è molto
probabilmente inventata. È estremamente improbabile che dei semi possano germinare ancora dopo
quattromila anni e, in più, pare che gli antichi egizi coltivassero farro e orzo. Il frumento si sarebbe
diffuso in Egitto solo durante il periodo Tolemaico (332-330 a.C.).[iii]

Quando i biologi parlano di frumento, intendono più correttamente il «genere» Triticum, che
comprende molte centinaia di specie diverse. Alcune le conoscete sicuramente: oltre al frumento
duro (Triticum durum) con cui facciamo la pasta, e quello tenero (Triticum aestivum), più usato per
il pane e la pasticceria,[iv] troviamo per esempio anche il farro (Triticum dicoccum). Nel corso dei
secoli sono state coltivate in giro per il mondo, anche se non in modo così diffuso, altre specie di
Triticum geneticamente simili al grano duro come il Triticum turgidum, specialmente le sottospecie
polonicum e turanicum. Quest’ultimo è anche chiamato «grano orientale» o grano Khorasan, dal
nome della provincia dell’Iran dove ancora oggi si coltiva. Ecco quindi spiegata l’origine di quel
nome, Khorasan, sull’etichetta dei miei grissini.

Questo grano è stato descritto per la prima volta nella letteratura scientifica nel 1921,[v] ma alcuni
accenni si trovano già nel secolo precedente. Pare che abbia avuto origine nella regione turca
dell’Anatolia e sia stato coltivato, sebbene mai in modo intensivo, in zone marginali dell’Asia e
dell’Africa settentrionale come l’Egitto, dove è ancora possibile trovarlo al mercato. Da lì,
probabilmente, una manciata di semi è finita nel Montana. Non era quindi necessario vestire i panni
di Indiana Jones e scavare nelle tombe egizie per scovare i semi del grano Khorasan: bastava andare
al mercato, come probabilmente è successo. L’ipotesi più accreditata è che il Kamut sia una
selezione relativamente moderna del grano orientale, e neppure la Kamut International spinge o
diffonde più la storia del ritrovamento nella tomba, anche perché ormai non ce n’è più bisogno, data
la popolarità ormai raggiunta da questo cereale.

La sua classificazione botanica precisa, così come la sua origine, è tuttora oggetto di dibattito, e
studiosi diversi lo classificano e lo chiamano in modi diversi. Ciò è abbastanza comune nel caso del
grano, poiché spesso specie differenti possono occasionalmente incrociarsi tra loro o scambiarsi
materiale genetico, generando nuove specie o varianti delle originali, che a loro volta si possono
incrociare, dando luogo a una rete intricata di rapporti di parentela. Ci sono scienziati che hanno
dedicato la loro vita scientifica alla ricostruzione dell’albero genealogico del grano e, sebbene con
le moderne analisi del dna si siano fatti enormi passi avanti, il quadro non è ancora del tutto chiaro.
[vi] In ogni caso è comunque un parente geneticamente stretto del grano duro.

Uno studio dell’Università di Teramo e dell’Istituto sperimentale dei cereali ha dimostrato che le
rese produttive del Khorasan sono tipicamente più basse e hanno una scarsa capacità di adattamento
ai cambiamenti ambientali rispetto ad altre tipologie di grano.[vii] In generale, a confronto con le
moderne varietà, le caratteristiche agronomiche dei grani antichi paiono inferiori essendo
scarsamente resistenti a varie malattie e funghi, aspetti molto importanti per l’agricoltore. D’altra
parte questi grani sembrano più adatti a essere coltivati in zone dove piove poco e l’irrigazione è
scarsa. Una caratteristica peculiare dei chicchi di Kamut è che sono molto grossi, anche il doppio
dei normali chicchi di grano, con un buon contenuto di glutine e di proteine. In generale le sue
caratteristiche nutrizionali non sono molto diverse da molte varietà di grano duro, ma il sapore è
diverso: come ho detto, i miei figli preferiscono nettamente i grissini di Kamut a quelli di frumento
normale della stessa azienda.

Un marchio registrato

Il mondo dell’alimentazione è pieno di marchi aziendali, per cui non c’è nulla da stupirsi. La cosa
più unica che rara in questo caso è che un’abile strategia di marketing ha indotto il grande pubblico
ad associare il nome Kamut al grano Khosaran, e poiché il nome è un marchio registrato, nessuno lo
può usare se non alle condizioni della Kamut International. Qualsiasi agricoltore, anche in Italia,
può seminare il grano Khorasan, ma non lo può chiamare Kamut. Il valore commerciale del suo
raccolto finisce così per essere talmente basso da non ripagare gli svantaggi della coltivazione, tra
cui principalmente le basse rese.

Nel 1990 Bob Quinn ha chiesto e ottenuto la protezione di quella varietà vegetale registrandola
all’USDA (il ministero dell’Agricoltura statunitense) con il nome ufficiale di QK-77.[viii] A tutti gli
effetti ne è diventato il «proprietario», perché un «certificato di protezione» è una specie di brevetto
e conferisce a chi lo detiene quasi gli stessi diritti di proprietà intellettuale. In particolare, una volta
diventata «proprietaria» della varietà QK-77, la Kamut International era l’unica titolata a
commercializzarla. Se un agricoltore avesse voluto seminare quei semi e vendere il prodotto, non
avrebbe potuto farlo senza l’autorizzazione della società e il relativo pagamento delle royalties.

Solo le aziende autorizzate possono acquistare, commercializzare e macinare questo cereale. La


produzione del Kamut è regolata in modo molto rigoroso e sotto lo stretto controllo dalla Kamut
International: deve avvenire in modo biologico certificato e rispettare una serie di norme.[ix] È
coltivato quasi esclusivamente nel Montana e negli stati canadesi dell’Alberta e del Saskatchewan.
La Kamut International afferma che sono stati fatti tentativi sperimentali di coltivazione del grano
orientale in Europa (e anche in Italia), ma con poco successo sino a ora.[x]

Gli agricoltori che coltivano il Kamut sono scelti in base alle esigenze del mercato dalla Kamut
International, che vende loro i semi e rileva il raccolto a un prezzo prestabilito, solitamente
superiore a quello del grano duro, in modo da garantire sicurezza e stabilità di prezzi ai produttori.
La società sostiene di mantenere il controllo dei semi solo per esigenze di qualità, poiché li vende
agli agricoltori allo stesso prezzo che ha pagato loro per il raccolto l’anno precedente.

Ancora una volta non c’è nulla di strano: nonostante sia un fatto poco noto al grande pubblico, è da
tempo che i vegetali si brevettano o si registrano, almeno nei paesi occidentali, il che conferisce al
titolare una serie di diritti esclusivi per un periodo limitato, solitamente inferiore ai vent’anni. Ora la
protezione del QK-77 è scaduta e la varietà è di pubblico dominio, un po’ come il riso Carnaroli,
che ormai tutti possono coltivare. Ma associando quel tipo di grano a un marchio registrato, che non
scade mai, Quinn si è garantito a tutti gli effetti un monopolio perenne. Chiunque può coltivare del
grano orientale, basta che si rivolga a una delle banche dei semi presenti in varie parti del mondo. Il
problema è che nessuno vuole comprare dei grissini di grano orientale. Tutti vogliono quelli di
Kamut.

Dal 1992 la richiesta del mercato è in continua crescita, con incrementi annui spettacolari che
superano il 70 per cento. Nel 2012 il Kamut è stato coltivato da circa 150 agricoltori su 25.000
ettari[xi]. La Kamut International vende il suo prodotto, oltre che negli Stati Uniti e in Canada,
anche in Australia, in Giappone e soprattutto in Europa. Nel 2010 ne ha esportate 12.000 tonnellate.
Tutto il Kamut spedito in Europa arriva in Belgio e viene commercializzato da un’unica società, la
Ostara, che a sua volta lo rivende agli acquirenti autorizzati nelle varie nazioni.

È interessante notare come l’Italia sia il più grande mercato per il Kamut, con addirittura la metà
delle vendite globali,[xii] seguita dalla Germania. Insomma, gli italiani lo adorano. Fin qui niente di
strano: anche buona parte del grano duro che usiamo per produrre la nostra amata pasta proviene
dall’estero, specialmente dagli Stati Uniti e dal Canada. La cosa che però stride un po’, almeno per
me, è vedere il Kamut colonizzare tutti i negozi specializzati in cibi biologici ed ecosostenibili,
naturali e a km 0. È vero che è coltivato secondo i dettami dell’agricoltura biologica, ma per
arrivare nel negozio di nicchia italiano quel cereale ha dovuto attraversare l’oceano! Non è certo un
prodotto «locale». Il cacao e il caffè presenti sugli scaffali arrivano anch’essi d’oltremare, spesso
attraverso il circuito equo e solidale, ma si tratta di prodotti che non possono essere coltivati qui da
noi, a differenza del grano. Per questo motivo negli ultimi tempi il Kamut è finito nel mirino
proprio di quelle associazioni che hanno una visione etica molto rigorosa del cibo e della sua
produzione e sostenibilità, e che sono sempre più critiche nei confronti di questo marchio. Che
invece è sbarcato in grande stile nella grande distribuzione organizzata e nei prodotti di largo
consumo. Nel mio supermercato un pacco di farina di Kamut costa 4,39 euro, più del quadruplo del
suo equivalente di grano duro.

Il resto lo trovate nel libro ;)

A presto

Dario Bressanini

Note Bibliografiche
[i] Si veda il sito della Kamut International http://www.kamut.com/en/history.html).

[ii] R. M. Quinn, Kamut®, ancient grain, new cereal http://www.hort.purdue.edu/newcrop/proce...).

[iii] D. M. Dixon, A note on cereals in ancient Egypt, in P. J. Ucko, G. W. Dimbleby (a cura di), The
domestication and exploitation of plants and animals, Transactions Publishers, New Brunswick,
2008, pp. 131-42.

[iv] Anche il frumento duro si usa in pasticceria e in panificazione, ma meno frequentemente. Ad


esempio il pane di Altamura è preparato con il grano duro.

[v] J. Percival, The wheat plant, Duckworth, London 1921.

[vi] Dopo una prima classificazione che identificava il Kamut come la sottospecie polonicum del
Triticum turgidum, la maggior parte degli studiosi ora lo identifica come la sottospecie turanicum.
Tuttavia un’analisi del dna pubblicata nel 2006 suggerisce che il Khorasan possa forse essere un
ibrido originato nel vicino Oriente tra il Triticum polonicum e il Triticum durum, il comune grano
duro.

[vii] F. Stagnari, P. Codianni, M. Pisante, Agronomic and kernel quality of ancient wheats grown in
central and Southern Italy, «Cereal Research Communications», n. 36, 2008, pp. 313-26.

[viii] Certificato di protezione di varietà vegetale numero 8900108


http://wheat.pw.usda.gov/ggpages/gopher/...).

[ix] Il prodotto deve avere un quantitativo minimo di selenio e di proteine. Anche l’utilizzo ha una
serie di regole molto rigide: per esempio, non è possibile fregiarsi del marchio Kamut per una pasta
che lo contenga in miscela con il grano duro. Per il pane invece la percentuale di frumento non deve
superare il 50 per cento e deve essere segnalata in etichetta.

[x] http://web.archive.org/web/2006032410554....

[xi] Comunicazione privata all’autore della Kamut International.

[xii] http://www.kamut.com/press/Press-Release...

Scritto in Cereali, Farina, Genetica, Grano, Libri e Fumetti | 169 Commenti »


Le ricette scientifiche: la cacio e pepe
13 maggio2013
A volte ricette apparentemente semplici e poco elaborate nascondono difficoltà inaspettate. È il caso
di un classico piatto della tradizione romana: la “cacio e pepe”. (e con questo terzo “episodio”, dopo
la carbonara, con la sua origine incerta, e l’amatriciana, finiamo trilogia romana). La lista degli
ingredienti è cortissima: pasta, pecorino romano e pepe. La pasta, solitamente un formato lungo (ma
io preferisco maccheroni o rigatoni), viene cotta al dente, scolata, spolverata di pecorino romano e
rapidamente mescolata. La fase cruciale della ricetta è il mescolamento, dove il pecorino deve
parzialmente sciogliersi e formare una crema liscia e senza grumi che avvolge la pasta. Si aggiunge
poi abbondante pepe macinato al momento. A volte invece di ottenere una crema liscia il pecorino si
rapprende e dei grumi fusi si separano da un liquido biancastro. Questo è un problema tipico delle
ricette che prevedono la formazione di una crema di formaggio fuso: pensate ad una fonduta. Per
porre rimedio al problema abbiamo bisogno di comprendere il comportamento del formaggio fuso.

I formaggi sono formati da un reticolo proteico, principalmente caseine, che al suo interno
intrappolano grassi e acqua. La percentuale relativa dei componenti determina in gran parte
l’attitudine di un formaggio a sciogliersi in modo uniforme (come la fontina), di filare (come la
mozzarella), oppure di mantenere parzialmente la struttura (come il parmigiano reggiano).
Cominciando a scaldare un formaggio il grasso comincia a sciogliersi. Contemporaneamente il
reticolo proteico si allenta sino a che le proteine possono scorrere nella miscela di acqua e grasso.
Formaggi con una percentuale di acqua più alta si fondono meglio, mentre formaggi stagionati a
lungo hanno bisogno di temperature più alte per rompere i legami tra le proteine. Se scaldiamo
troppo le proteine coagulano tra loro formando dei grumi ed espellendo l’acqua.

Il pecorino romano è un formaggio che scaldato dolcemente può formare una crema. Più è
stagionato, minore la percentuale d’acqua, e più è facile che si formino dei grumi. È quindi
fondamentale, per ottenere una bella cremina, che il pecorino sia mescolato all’acqua e portato alla
temperatura ottimale. Per i miei esperimenti ho utilizzato per comodità del pecorino romano DOP
già grattugiato venduto in busta al supermercato che contiene il 37.5 per cento di grassi e il 31.9 per
cento di proteine. A naso non era molto stagionato. Ho preso 20 grammi, a temperatura ambiente, e
li ho messi in una ciotolina, a cui ho aggiunto 25 grammi di acqua portata all’ebollizione in un
pentolino, mescolando bene per emulsionare la miscela.

cacioepepe00
Per la consistenza che mi piace servono 20-25 grammi di acqua ogni 20 grammi di pecorino. Dopo
il mescolamento con acqua bollente la temperatura della miscela era di 40 °C, una temperatura non
sufficiente per sciogliere bene il grasso del pecorino. Vedete infatti dalla foto che sono presenti
grumi di formaggio non sciolto.

cacioepepe01
Molte ricette prevedono di scolare la pasta, spolverarla con del pecorino grattugiato e di mescolare
velocemente. Se la temperatura non è sufficiente e se non c’è abbastanza acqua il pecorino non
formerà una crema e rimarranno dei grumi.

Posiziono la ciotolina dentro il pentolino, a fuoco spento, per scaldare ulteriormente a bagnomaria il
pecorino. A 55 °C arriva ad una consistenza cremosa ideale poiché il grasso si è completamente
sciolto e ben emulsionato con l’acqua.

cacioepepe02
Se continuiamo a scaldare sino ad arrivare a 65 °C il grasso comincia a separarsi e le proteine si
rapprendono in grumi

cacioepepe03
Il vostro pecorino, più o meno stagionato, si comporta così? Fate un esperimento! Molte persone mi
fanno domande a cui potrebbero rispondere semplicemente facendo una prova di pochi minuti. Non
abbiate paura di sperimentare: è la cucina.

Per preparare la cacio e pepe mentre la pasta cuoce sciolgo il pecorino in acqua bollente con le
proporzioni viste prima e pongo la ciotolina a bagnomaria mescolando sino a quando ottengo una
cremina.

cacioepepe04
Scolo la pasta, la metto in una zuppiera e ci verso sopra la cremina. Non aggiungo il pecorino nella
pentola e niente ripassata in padella perché rischierei di coagulare le proteine e separare i grassi.

cacioepepe05
Una bella spolverata di pepe, ed ecco il piatto pronto.

cacioepepe06
Ho usato più di una pentola ma, oh, lava la lavastoviglie!

I cuochi capitolini usano un trucco per impedire o ritardare la formazione dei grumi nella crema:
stemperano il pecorino con l’acqua di cottura della pasta. Come abbiamo visto non è strettamente
necessario, ma se il pecorino è abbastanza stagionato questa procedura può aiutare. Non sempre il
trucco funziona però. Come mai? Durante la cottura la pasta rilascia amido. Questo, aggiunto al
pecorino, con le sue lunghe catene di glucosio interferisce con la tendenza delle proteine a
coagulare, impedendo o ritardando la formazione dei grumi.

La quantità di amido presente nell’acqua di cottura però dipende dal tipo di pasta, dalla quantità di
acqua impiegata e da altri fattori. Un accorgimento per avere acqua ricca di amido alla fine della
cottura è di usarne meno della solita quantità, avendo però l’accortezza di mescolare periodicamente
per evitare che la pasta si attacchi. Io uso mezzo litro di acqua per 100 grammi di rigatoni. Grattugio
30 grammi di pecorino per persona e lo metto in una ciotola. Quando la pasta è al dente aggiungo
un po’ di acqua di cottura al pecorino e mescolo velocemente, fino alla formazione della crema della
viscosità desiderata come visto prima ed eventualmente scaldandola come visto prima. Scolo la
pasta in una zuppiera e la condisco con la crema preparata, aggiungendo ancora un po’ di acqua di
cottura se necessario.

L’uso dell’amido per impedire la formazione di grumi nel formaggio fuso è presente anche in altre
ricette. Nella classica fonduta per esempio, si mescolano Gruyère ed Emmental, si stempera un po’
di amido nel vino bianco e si usa la miscela per sciogliere a caldo il formaggio. In questo caso oltre
all’amido è anche l’acidità del vino a impedire la coagulazione del formaggio. La salsa Mornay è un
terzo esempio: derivata dalla salsa besciamella, si aggiunge un tuorlo d’uovo e del parmigiano
grattugiato. La farina della besciamella permetterà al parmigiano di sciogliersi in una crema,
altrimenti impossibile da ottenere.

A presto
Dario Bressanini

Scritto in Emulsioni, Formaggio, Pasta, Ricetta | 107 Commenti »

L'origine della Carbonara. Il commissario Rebaudengo indaga


3
dicembre
2012
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C’è un mistero irrisolto nella gastronomia italiana: quando è nata esattamente la carbonara? E
perché si chiama così? Il commissario Rebaudengo ha già svolto un’indagine preliminare da cui era
emerso che le varie ipotesi di una origine molto antica di quel piatto non erano corroborate da solide
prove. Così come la suggestione che il nome potesse derivare da un piatto che i carbonai avrebbero
preparato durante il soggiorno in Appennino a far carbone di legna.

Il commissario, dopo aver consultato “La cucina romana” di Ada Boni, pubblicato nel 1930, e “Il
talismano della felicità” anteguerra, e non avendo trovato alcuna traccia di un piatto chiamato
“carbonara” o con gli ingredienti che ora gli attribuiamo (uova, pancetta o guanciale, pecorino e
pepe) concludeva che il delitto era successivo.

Prende corpo allora la teoria più affascinante, che spiegherebbe l’assenza di tracce nella tradizione
popolare, facendo risalire la carbonara al periodo della liberazione di Roma da parte degli alleati.
Così descrive questa ipotesi l’enciclopedia della gastronomia di Marco Guarnaschelli Gotti:

“quando Roma venne liberata, la penuria alimentare era estrema, e una delle poche risorse erano le
razioni militari, distribuire dalle truppe alleate; di queste facevano parte uova (in polvere) e bacon
(pancetta affumicata), che qualche genio ignoto avrebbe avuto l’idea di mescolare condendo la
pasta.”

Stimolato da una recente visita ad Arcangelo Dandini, uno dei moderni “profeti” della carbonara in
particolare e della riscoperta e riscrittura della tradizione gastronomica romana in generale, il
commissario Rebaudengo ha deciso di fare un supplemento d’indagine, sfruttando i nuovi mezzi
tecnologici ora a sua disposizione.

L’ipotesi più antica sul nome “carbonara” che il commissario nella sua indagine è riuscito a trovare
risale al 1958, sulla rivista argentina Dinamica social fondata nel 1950 dall’ex segretario del partito
nazionale fascista Carlo Scorza, fuggito in Argentina nel 1949. In un articolo che descrive i piatti
tipici delle varie regioni d’Italia, troviamo scritto

Per cominciare, mangiare spaghetti a Roma è quasi un rito, come gettare la monetina nella Fontana
di Trevi. Delle ventisei maniere di prepararli citeremo quella alla “carbonara”.

Questi spaghetti si chiamano così perché in origine figurava, fra gli ingredienti, in nero delle seppie,
tanto che il piatto quando giungeva in tavola “somigliava alla faccia di un carbonaio”. Ora il nero di
seppia non si usa più. Si usa invece il tuorlo d’uovo sugli spaghetti fumanti.
È la prima volta che il commissario sente questa ipotesi ed è un po’ perplesso. Scritta per di più in
italiano ma su una rivista scritta in Argentina. Che si siano inventati la storia? Manca poi la
descrizione degli altri ingredienti. E poi "ventisei modi"? Il commissario diligente prende nota ma
non crede molto a questa testimonianza.

È sicuro comunque che nel 1958 la carbonara fosse un piatto riconosciuto. Ricordiamoci però che
bastano pochi anni per rendere popolare e noto un piatto. Il commissario si ricorda di un altro caso,
ormai risolto, che coinvolgeva il tiramisù, un dolce al cucchiaio che dagli anni ’70, quando fu
inventato a Treviso, in pochi anni divenne stranoto non solo in Italia ma anche nel mondo. E anche
su quello si sono inventate leggende a posteriori che retrodatavano la sua nascita.

In un supplemento d’indagine cercando tra le guide ai ristoranti il commissario scopre, del 1957,
“Eating in Italy: a pocket guide to Italian food and restaurants”. La guida, ad uso e consumo dei
turisti americani in Italia, rivela fatti interessanti. La Carbonara è citata più volte, e come ingredienti
riporta le uova, il formaggio (non specificato) il bacon (l’ingrediente americano più simile al
guanciale o la pancetta),

carbonara-new-03

ma alternativamente anche il prosciutto. E non si menziona il pepe. Se veniva aggiunto non era
sicuramente un ingrediente caratterizzante come oggi. Un po’ come l’aggiunta del sale: non si
indica nemmeno.

carbonara-new-01

A volte nella preparazione è indicato il burro, oltre al guanciale. Curioso vero? Il commissario
conosce dei gastrotalebani moderni che strillerebbero per una aggiunta simile, a loro parere non
filologica. In realtà questo farebbe pensare che all’epoca la ricetta non fosse ancora “cristallizzata”,
come dimostra l’uso anche del prosciutto alternativo al guanciale o alla pancetta

carbonara-new-05

Era ancora una ricetta molto “fluida”, tanto che vari ristoranti in quel periodo cercavano di offrire
quel piatto, non ancora codificato e di fresca origine, personalizzandolo e variandolo un po’.

Questo piatto doveva già essere molto popolare perché due anni prima, nel 1955, fece una comparsa
addirittura in Racconti Romani di Alberto Moravia

“Lui prese la carta come se fosse stata una dichiarazione di guerra e la guardò, brutto, un lungo
momento, senza decidersi. Poi ordinò per se stesso tutta roba sostanziosa; spaghetti alla carbonara,
abbacchio con patate, puntarelle e alici. Lei, invece, roba leggera, gentile. Scrissi le ordinazioni sul
taccuino e e mi avviai verso la cucina.”

Il commissario trova la prova esplicita che in quegli anni il piatto era già considerato un piatto della
regione addirittura in un rapporto del 1954 dei servizi di informazione della Presidenza del
Consiglio dei Ministri

carbonara-new-02

Il commissario ricapitola tra sé e sé il caso: prima della seconda guerra mondiale nessuno aveva mai
usato il termine “carbonara” e un piatto del genere, con quegli ingredienti, non era noto come piatto
tipico. Negli anni ’50 invece lo era anche se gli ingredienti potevano un po' variare. Rebaudengo
trova un indizio curioso: nel 1952 un ristorante di Chicago ha nel menù proprio la carbonara, con
taglierini, mezzina (pancetta), uova e parmigiano. Anche qui niente pepe (da Vittles and vice: an
extraordinary guide to what's cooking on Chicago's Near North Side, Patricia Bronte).

carbonara-new-04

Come è finita la carbonara nel 1952 a Chicago? Forse un soldato l’ha assaggiata a Roma
nell’immediato dopoguerra e l’ha portata in patria? Chissà. Ma l’indagine del nostro commissario
non è finita.

La citazione più antica trovata dal commissario, almeno per ora, è nella “Lunga vita di Trilussa”,
del 1951, dove si ricorda che il poeta, morto nel 1950, non amava molto gli spaghetti alla carbonara
e preferiva la bistecca.

"E' difficile che il nostro poeta muova all'assalto degli spaghetti "alla carbonara" o "alla carettiera"
se non ha di scorta due o tre forchette ottime come la sua. Davanti alla bistecca sembrava meglio
disposto a improvvisare l'epigramma (mangiava dal bolognese a p.zza del popolo).”

Il commissario Rebaudengo è ancora in cerca della prova schiacciante, e non demorderà sino alla
risoluzione del caso. Ha però all’ultimo momento trovato un indizio molto molto interessante. Un
servizio del New York Times del 12 luglio 1954 dal suo corrispondente romano dal titolo “When in
Rome you eat magnificent meals in simple restaurants”:

“C’è un’altra ricetta segreta per gli spaghetti a Roma che ha goduto di una certa fama dalla Guerra.
La si può trovare alla Trattoria al Moro, nascosta nel vicolo dietro la Galleria Colonna. Gli
“Spaghetti al Moro”, in realtà, sono una variante della nuova moda tra i sughi per gli spaghetti-
spaghetti alla carbonara. Non sono proprio nuovi ma c’è una specie di moda ora, una salsa la cui
peculiarità è il bacon a pezzettini, per non citare i soliti uova, burro e formaggio. Per i migliori
spaghetti alla carbonara o almeno tanto buoni quanto si riesce a trovarli, uno può andare da un altro
Alfredo, quello nella meravigliosa vecchia piazza vicino al Vaticano, nella parte antica di Roma,
Piazza di Santa Maria in Trastevere.”

Gli “spaghetti al Moro” sono una variante della carbonara con un poco di peperoncino invece del
pepe nero. Questo a dimostrare ancora una volta che agli inizi degli anni ’50 la ricetta era ancora
fluida, per nulla definitiva. Notate anche qui l’uso del burro, anche se non viene specificato se
l’utilizzo fosse solo per soffriggere il bacon oppure veniva aggiunto crudo alla salsa. E ancora una
volta il pepe in quantità non è citato.

L’articolo è molto interessante perché conferma che questo piatto ha iniziato ad avere una certa
fama dalla guerra, e che nel 1954 era diventata “una nuova moda”, anche se appunto il piatto non
era nuovo, visto che erano ormai passati dieci anni dalla liberazione di Roma da parte degli alleati.
E la peculiarità di questo piatto era l'aggiunta del bacon, rispetto ai "soliti" uova, burro e formaggio!

carbonara-new-06

Il commissario Rebaudengo è ancora in cerca della “pistola fumante”, ma è convinto che con gli
indizi raccolti si possa definitivamente chiudere con le ipotesi dei carbonai sull’Appennino, o altre
suggestive ma improbabili origini che risalgano a prima della seconda guerra mondiale o che
spiegano il nome con l'utilizzo di una robusta spolverata di pepe. Una vera e propria “invenzione
della tradizione”, che serve anche ai puristi della tradizione gastronomica per scomunicare
variazioni della ricetta rispetto alla presunta versione “originaria”, che come ho dimostrato non
esiste proprio. Io panna o burro non li metto nella carbonara, e tantomeno il prosciutto, ma se lo fate
perché vi piace e qualche amico gastropurista vi rimprovera per non essere filologici, fategli leggere
questo articolo

Saluti gastronomici dalla Sardegna: sa fregula


20
settembre
2010
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Quest’anno siamo stati in vacanza in Sardegna, a Costa Rei, sopra Villasimius. Tra le innumerevoli
sagre enogastronomiche (anche le più assurde, senza un minimo di legame con le tradizioni locali)
che ormai costellano il nostro paese, sono capitato in quella dedicata alla fregola.

La fregola è una pasta tipica sarda preparata artigianalmente in forma di piccole palline. Mi piace
molto specialmente con le arselle.

Si prepara in un recipiente solitamente di coccio unendo a della semola di grano duro dell’acqua
salata e mescolando velocemente la miscela con una mano. La procedura è molto simile a quella
utilizzata per preparare il cus cus che però, a differenza della fregola, si lascia in granuli molto più
piccoli.

Si parte con un poco di semola grossa

fregola1-400

Si unisce un poco di acqua salata e con il movimento veloce della mano si formano le prime palline.

fregola2-400fregola3-400

A questo punto, per far crescere le palline, si inizia ad unire la semola più fine.

fregola4-400

Un poco alla volta, aggiungendo sempre poca acqua salata e ingrandendo le palline con il
movimento della mano.

fregola5-580

fregola6-580

fregola7-580

Ho notato che la granulometria della fregola è diversa a seconda delle zone della Sardegna. Al nord
spesso l’ho trovata più piccola che al sud. Una volta raggiunta la grandezza desiderata si deve far
asciugare all’aria

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fregola9-400

Ovviamente ho fatto la scorta. Già che c’ero anche di malloreddus :-)

fregola10-580

Alle sagre solitamente si mangia, e ovviamente non potevo esimermi :P

fregola11-580

Qui il menù era unico: "Fregola con ragù e bevanda": 3 euro.

fregola12-580

La fregola va cotta come se fosse della normale pasta, in abbondante acqua salata. Possono servire
anche venti minuti o più per ultimare la cottura.

Il piatto era abbondante e con 12 euro ho sfamato la famiglia! La sera dopo ho “investito” il denaro
risparmiato in quattro menù degustazione in un ristorante non tipico, Bresca Dorada, per uscire un
po’ dalla monotonia del ristorante/agriturismo tipico con maialetto, malloreddus, culurgiones, capra
bollita ecc. e sebadas finale con miele di corbezzolo. Per carità, li adoro, ma ogni tanto uno vuole
cambiare.

La cucina creativa del ristorante (in realtà una azienda che produce mirto e altri prodotti) fatta tutta
con prodotti locali ma rielaborati in modi inaspettati è stata molto apprezzata anche dai figli, e
mangiare all’aperto tra ulivi e corbezzoli ha aggiunto piacevolezza alla cena. Certo, 200 euro contro
i 12 della sera prima … ;-)

A presto

Dario Bressanini

p.s. ovviamente una sagra della fregola in Sardegna è da benedire. A quali sagre invece avete avuto
modo di partecipare che non avevano nessun senso nel contesto in cui erano inserite?

Il Senatore Cappelli e gli altri grani di Nazareno Strampelli


22
marzo
2010

Forse a qualcuno di voi sarà capitato di trovare, in un cesto gastronomico natalizio da gourmet, dei
pacchi di pasta prodotta con un grano duro dal nome curioso: Senatore Cappelli. Sappiate che avete
tra le mani la testimonianza del lavoro di uno dei più grandi genetisti agrari che il nostro paese
abbia mai avuto, Nazareno Strampelli, e che purtroppo ancora in pochi, in Italia e nel mondo,
conoscono.

Nato il 29 maggio 1866 a Crispiero, frazione del comune di Castelraimondo, in provincia di


Macerata, e laureatosi in agraria a Pisa, cominciò agli inizi del ‘900, senza conoscere le scoperte di
Mendel, a studiare il frumento con l’obiettivo di migliorarne sia la qualità sia la produttività.
Strampelli si concentrò soprattutto sul miglioramento genetico del grano tenero attraverso incroci
(“ibridismo”) con semi provenienti da ogni parte del mondo, contrariamente all’opinione dei suoi
oppositori, come Francesco Todaro, che sostenevano il “selezionismo” suggerendo invece una lenta
selezione dei frumenti autoctoni scegliendo di volta in volta le piante migliori per le caratteristiche
desiderate. Todaro considerava l’apparizione degli ibridi una “moda” destinata a passare. La storia
gli avrebbe dato torto.

Il grano Rieti Originario


wheat-usda-300Sin dalla metà del XIX secolo il grano Rieti Originario, coltivato da tempo
immemorabile nel capoluogo sabino, era molto apprezzato in tutta Italia, tanto che nel 1879 veniva
venduto a 50 lire il quintale contro le 24-32 lire degli altri grani. Tutti in Italia lo volevano seminare.
Scriveva il Comizio agrario di Cremona:

…S’è visto infatti che gli stessi appezzamenti di terreno seminati parte a grano rietino, e parte a
grano nostrano somministrano prodotti per qualità e quantità differentissimi, avendo i primi
superato sotto ogni rapporto, di gran lunga questi ultimi…

Era talmente desiderato che la produzione non riusciva a soddisfare tutte le richieste, e molte erano
le frodi in commercio, con altri grani meno pregiati spacciati per Rieti.

Il Rieti ha il grosso pregio di resistere ad una malattia, la ruggine, ma ha il difetto di essere soggetto
all’”allettamento”, cioè al ripiegamento fino a terra della pianta a seguito di vento o pioggia.

Strampelli, che nel 1903 vinse la “Cattedra ambulante di agricoltura” a Rieti, era molto incuriosito
dalle qualità del Rieti:

“Naturalmente, trovandomi a Rieti, i miei lavori dovevano cominciare dal frumento Rieti il quale,
coltivato da tempo immemorabile in quella vallata fredda in inverno, calda-umida in estate, in
ambiente estremamente favorevole allo sviluppo delle ruggini, è andato selezionandosi attraverso i
secoli, acquistando rusticità e divenendo assai resistente agli attacchi dei detti parassiti.“

Scriveva al ministro dell’agricoltura

"Eccellenza, le buone qualità del grano da seme di Rieti son dovute esclusivamente alle speciali
condizioni del clima e di questo suolo l’uomo non ha fatto mai nulla per cercare di aumentarne i
pregi mentre con accurata selezione fisiologica e metodica si potrebbe arrivare a fare del grano di
Rieti il migliore dei frumenti da seme con grande vantaggio di tutta la granicoltura nazionale."

In uno scritto del 1932 Strampelli spiega che il metodo “selezionista” in voga all’epoca fosse inutile
su grani, come il Rieti, le cui caratteristiche genetiche forgiate dall’ambiente e dal clima erano
rimaste immutate per secoli. Volendo inserire delle nuove caratteristiche era necessario “prenderle”
da altre varietà (Strampelli sarebbe sicuramente stato entusiasta delle moderne tecniche
biotecnologiche che permettono di inserire geni provenienti da varietà e specie diverse per donare le
caratteristiche volute).

Ecco allora che Strampelli inizia a raccogliere grani dai quattro angoli del globo -ne collezionò più
di 250- per cercare di inserire delle nuove caratteristiche nel Rieti tramite incroci.

Strampelli aveva già effettuato degli incroci, per fecondazione artificiale, a Camerino, come
descrive lui stesso:
“A Camerino, sin dal 1900, praticai l’ibridazione del frumento Noè con il Rieti. Mi prefiggevo di
ottenere un frumento resistente contemporaneamente all’allettamento ed alla ruggine, per avere una
varietà adatta ai terreni del Camerinese […] ove per elevata fertilità il Rieti corica sempre, ed il
Noè, che non corica, a causa delle abbondanti nebbie, è fortemente danneggiato dalla ruggine”

Il Noè era una selezione francese di un grano russo.

L’Ardito e la “battaglia del grano”


ardito1-250Uno dei primi grandi successi di Strampelli fu il grano Ardito, ottenuto incrociando il
Rieti Originario, che resisteva alla ruggine nera, con il Wilhelmina Tarwe, varietà olandese ad alta
produttività, e successivamente incrociando il risultato con l’Akakomugi, un frumento giapponese
di scarsa importanza agronomica ma caratterizzato dalla taglia bassa e maturazione precoce. A sua
volta il Wilhelmina era un incrocio tra una varietà locale olandese (Zeeuwse Witte) e una inglese
(Squarehead).

L’Ardito maturava 15-20 giorni prima del Rieti, era alto 80-100 cm, resisteva al freddo e alla
ruggine, ed era molto produttivo.

Fu grazie all’Ardito e agli altri grani di Strampelli che il regime fascista, in quella che venne
chiamata retoricamente “la battaglia del grano”, riuscì ad aumentare la produzione italiana di
frumento dai 44 milioni di quintali prodotti in Italia nel 1922 agli 80 milioni di quintali del 1933,
senza quasi aumentare la superficie coltivata.

Solamente grazie agli sviluppo della biologia molecolare è stato possibile identificare i geni
responsabili delle caratteristiche introdotte da Strampelli in quasi tutti i suoi grani a partire
dall’Ardito. Il primo gene (chiamato Rht8) è responsabile della taglia ridotta del fusto delle piante
di grano, caratteristica che le aiuta a non piegarsi sino a terra per effetto del vento. Il secondo gene
(Pdp-D1), ingannando in qualche modo l’orologio “interno” della pianta, le permette di venire a
maturazione prima, rendendola insensibile al fotoperiodo (alterando cioè la capacità della pianta di
reagire alle variazioni di luminosità dovute al susseguirsi dei mesi). Questi due geni erano presenti
nell’Akakomugi e grazie a Strampelli si diffusero in quasi tutti i grani d’Italia e in molti altri
d’Europa e del mondo.

Strampelli effettuò e descrisse l’incrocio di più di ottocento frumenti, molti dei quali utilizzando il
“Rieti originario” come “padre” o “madre”.

Una conseguenza inaspettata dell’introduzione dei grani di Strampelli fu la riduzione del rischio,
per i contadini, di contrarre la malaria. In precedenza nelle zone paludose ancora infestate dalla
malaria il grano giungeva a maturazione nel picco di diffusione delle zanzare malariche. Potendo
anticipare la mietitura i contadini migliorarono anche le loro condizioni sanitarie schivando le
zanzare.

Il grano duro Senatore Cappelli


strampelli1-200Nel 1907 il deputato del Regno Raffaele Cappelli, permise a Strampelli di effettuare
delle semine sperimentali su dei campi di sua proprietà vicino a Foggia, essendo lui stesso
interessato all’agricoltura. Come già aveva fatto per il grano tenero, Strampelli selezionò e incrociò
sia grani duri autoctoni del sud d’Italia e delle isole sia provenienti da altri paesi del mediterraneo.
Nel 1915 selezionò una varietà autunnale con buone qualità di adattabilità e adatta alla
pastificazione, ottenuto della varietà locale tunisina Jeanh Rhetifah. È il grano che nel 1923 verrà
rilasciato omaggiando con il nome Raffaele Cappelli, nel frattempo divenuto senatore. Strampelli
rilascia altre varietà di grano duro come il Milazzo e il Tripolino, ma è il Senatore Cappelli che
diventa un successo tra gli agricoltori italiani, nonostante fosse alto e suscettibile all’allettamento.
Era infatti molto più produttivo dei grani duri utilizzati in precedenza. Le rese passarono dalle 0,9
tonnellate per ettaro del 1920 a 1,2 della fine degli anni ’30.

L’oblio di molti grani locali


Il Senatore Cappelli sostituì molti grani duri autoctoni sino a raggiungere, nei decenni successivi,
un’estensione pari al 60 per cento della superfice italiana coltivata a grano duro. La stessa sorte era
toccata a molte varietà di frumento tenero spazzate via dall’arrivo dei semi di Strampelli, che presto
coprirono più dell’80% della produzione italiana. Per questo motivo sino all’inizio della “battaglia
del grano”, nel 1925, i frumenti ad alta resa (per l’epoca) di Strampelli in alcune zone d’Italia
furono visti con molto sospetto se non con aperta ostilità perché contrastavano con l’uso
tradizionale dei grani locali.

Scrive Gian Tommaso Scarascia Mugnozza:

Fino agli anni ’20, "conservatorismo" e "localismo", atteggiamenti politici per la difesa della qualità
della tradizione tipica delle varietà di frumento locale, si opposero all’ introduzione delle varietà di
Strampelli e all'applicazione delle scoperte della genetica.

Questo accadeva nonostante la situazione critica dell’economia italiana fosse gravata dal peso
dell’importazione di 2.5 milioni di tonnellate di grano ogni anno.

Sembra che le cose non siano cambiate a un secolo di distanza, per quanto riguarda l’ingegneria
genetica come metodo avanzato per produrre nuove varietà vegetali.

Strampelli, che arrivò a Rieti con l’obiettivo di migliorare quel grano, ne decretò l’oblio, proprio
grazie al successo dei suoi incroci. Scrive Roberto Lorenzetti nel suo volume “La scienza del
grano”:

Negli anni ’20 le varietà di frumento basse e precoci di N. Strampelli furono molto contrastate,
tanto che la loro coltivazione venne bandita dai soci dell’“Unione produttori Grano da Seme”
fondata dallo stesso Strampelli nel 1906. E la stampa locale nel 1924 si affrettò a tessere il
panegirico della vecchia varietà Rieti, affermando che “Il Rieti originario è il più ambito grano da
seme e, nonostante le novità di questi ultimi anni, resta e resterà sempre vittorioso per la sua
resistenza alla ruggine”

I nipoti dei grani di Strampelli


Negli anni ’60 a loro volta le varietà di Strampelli furono sostituite da altre più produttive ottenute
però, quasi sempre, da mutazioni o da incroci a partire dalle varietà del genetista di Castelraimondo,
primo fra tutti il famoso grano Creso ottenuto irradiando con radiazioni nucleari il Cappelli di cui
abbiamo parlato tempo fa.

Strampelli non si arricchì mai con i suoi frumenti, scegliendo di non richiedere royalties per lo
sfruttamento commerciale dei semi da lui distribuiti. Purtroppo è ancora scarsamente conosciuto, sia
in Italia che all’estero, perché malauguratamente la prolificità nell’ottenere nuovi incroci andò
invece di pari passo con la scarsità di pubblicazioni scientifiche che il genetista decise di scrivere,
quasi che tutto il tempo a sua disposizione dovesse essere impiegato nel lavoro nei campi e in
laboratorio e non allo scrittoio. I grani erano le sue “pubblicazioni”. La conseguenza però fu che nel
giro di pochi decenni dalla sua morte avvenuta nel 1942, complice forse anche il suo
coinvolgimento con il partito fascista, a cui si iscrisse nel 1925 (venne nominato senatore nel 1929),
l’Italia e il mondo si dimenticarono di Strampelli.
Strampelli fu senza dubbio un precursore dell’agronomo Norman Borlaug, l’artefice della
rivoluzione verde e premio Nobel per la pace nel 1970, ignaro dell’operato dell’italiano. Come ci
ricorda Sergio Salvi, nel suo libro “viaggio nella Genetica di Nazareno Strampelli”, una lapide
all’esterno della casa di Strampelli a Crispiero reca la scritta “dove cresceva una spiga di grano ne
fece crescere due”.

È curioso che il grano Cappelli, ora diventato un simbolo della “pasta da gourmet”, fosse una volta
il comune grano della pasta di tutti i giorni, e che venga da alcuni considerato “autoctono” quando
in realtà è una varietà tunisina. Per non parlare degli altri grani di Strampelli che tutto sono fuorché
“autoctoni”. Scorre sangue (pardon, DNA) straniero nei grani d’Italia ;-)

La tradizione è solo una innovazione riuscita, e a quasi un secolo dalla sua creazione è ironico che
ora sia proprio il Senatore Cappelli ad essere considerato “tradizionale” e si cerchi di ridiffonderlo
dopo che varietà più produttive, anche se non sempre di migliore qualità, lo hanno sostituito quasi
totalmente.

Nonostante il grande successo del Cappelli, Strampelli non gli attribuì mai troppa importanza. È
possibile che per il genetista quel grano tunisino, non ancora “ibridato” con altre varietà, fosse solo
il primo passo per ottenere dei frumenti duri di qualità ancora migliore e con proprietà desiderate,
ad esempio la taglia bassa, esattamente come aveva fatto per il frumento tenero. Fu solo con l’uso
delle mutazioni indotte dalle radiazioni che la taglia bassa venne introdotta nei “nipoti” del senatore
Cappelli che quindi lo sostituirono nei campi italiani.

La prossima volta che gustate una pasta Senatore Cappelli ricordatevi di Strampelli, lo scienziato
che con la genetica ha migliorato una coltura tradizionale italiana.

Radiazioni nucleari nell’orto


29
settembre
2008
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radioationsign-100.jpgMi piace andare per fiere ed esposizioni gastronomiche. Si assaggia e si


scopre sempre qualche cosa di interessante e di dimenticato. Tempo fa ero ad una manifestazione
gastronomica nel Monferrato: "la disfida della polenta". Prima della mangiata obbligatoria con
antipasti, bagna cauda, polente varie e i mitici Krumiri Rossi con lo zabaglione (se passate da
Casale Monferrato fate un salto a comperare i veri Krumiri), ho fatto un giro tra gli stand ad
assaggiare vari prodotti, soprattutto biologici. Facevano mostra di sé, orgogliosamente presentati,
molti "mais autoctoni", accanto a grossi cartelli con scritto "OGM no grazie". Mi veniva da
sorridere al pensiero del "mais autoctono". In Piemonte! Un po' come la noce di cocco autoctona
della Lombardia :lol: . Ma parleremo un'altra volta del mais, che come credo saprete è "autoctono"
del Messico e non certo delle Langhe o del Monferrato.

In un piccolo stand, dopo un buon assaggio di nebbiolo, noto una agricoltrice biologica che
mostrava tutta orgogliosa le sue patate viola. Bellissime. Sì, dalla polpa completamente violacea.
“Cresciute rigorosamente in modo biologico”, la gentile signorina si affretta a spiegarmi. Le ha
portate più che altro come curiosità. "Belle", le rispondo sorridendo. Non voglio certo fare il
guastafeste instillando il dubbio che quelle bellissime patate biologiche potrebbero essere state
"modificate" da scienziati in camice bianco, al pari degli ogm tanto avversati dagli agricoltori
biologici. Guardate che meraviglia queste patate (tra l'altro molto ricercate dai cuochi
"postmoderni" per le loro caratteristiche cromatiche)

patate-viola.jpg
Esistono delle particolari varietà di patate che sono colorate naturalmente, di viola, rosso, arancione
e altri colori, ma altre hanno avuto il loro genoma alterato da scienziati in camice bianco, come
vedremo.

E guardate questi cavolfiori. Belli vero?

1311-cauliflower-large.jpg
Ogni anno arrivano sul mercato tantissime nuove varietà, frutto di selezioni mirate assistite da
tecniche biotecnologiche, magari ottenute da agricoltori High-Tech, ma anche di vere e proprie
manipolazioni genetiche (e non sto parlando di ogm), di prove di laboratorio, di scienziati in camice
bianco e mascherina... e di radiazioni nucleari. Raggi gamma, sì, avete presente quelli che hanno
trasformato Bruce Banner in Hulk?
hulk-original.gif
Ma anche raggi X, raggi alfa, raggi beta e fasci di neutroni lenti. Di certo sembrano più
l'armamentario di Mazinga e di Goldrake che strumenti dell’agricoltura.

Pazzi questi scienziati, vero? Ma di certo coloro che già ci “proteggono” dall’invasione degli ogm
non permetteranno mai che arrivino sulle nostre tavole alimenti ottenuti con mezzi così "artificiali",
in “spregio” alla natura. Non possiamo mangiare qualcosa se prima non sono stati effettuati decenni
e decenni di prove. Dove lo mettiamo il tanto declamato "principio di precauzione" ? Come
facciamo ad essere sicuri che questi prodotti non facciano male? E poi non possiamo "contaminare"
il nostro ambiente! Una volta liberati questi semi mutanti, non si potrà più tornare indietro. E come
hanno ripetuto per anni ministri di destra e di sinistra (ed ora il ministro leghista Zaia) riguardo agli
ogm, l'Italia non ha certo bisogno di utilizzare colture mutanti. Ottenute dalle perfide radiazioni
nucleari poi.... Noi dobbiamo valorizzare i prodotti tipici e l’agricoltura di qualità, pofforbacco. Nel
mondo non siamo certo famosi per le patate viola o arancioni, perdindirindina. Noi siamo famosi
per la pasta, fatta con il grano duro:
Spaghetti.
Maccheroni.
Fusilli.
Mezze penne rigate.
Bucatini...

pasta-300.jpgPotete star certi che gli stessi "paladini" che ci difendono dall'”invasione” degli ogm
non ci penserebbero un minuto a difendere la nostra salute e l'ambiente dall'ennesimo prodotto di
una scienza ormai lontana dalle capacità di comprensione dell'uomo comune. Ci potremmo
sicuramente aspettare interpellanze di qualche parlamentare. Qualche messa in scena di
Greenpeace. Sicuramente qualche oscura ricercatrice russa dichiarerà che dei topi nutriti con semi
mutanti hanno mostrato delle degenerazioni fisiologiche. La trasmissione Report indagherà,
chiamerà qualche "esperto" (come quando parlavano delle inesistenti Fragole-Pesce, ricordate?),
Slow Food non mancherebbe di stigmatizzare questi prodotti lontani dalla tipicità italiana, qualche
associazione dei consumatori chiederebbe il sequestro immediato di tutti i prodotti e Coop
ripeterebbe la cantilena, mentre spingete il carrello “Plin Plon, noi non usiamo prodotti modificati
da radiazioni nucleari”.

O no?
Se vi dico che da almeno trent'anni questi prodotti sono tranquillamente sulle nostre tavole che cosa
pensate? No, non è uno scoop. Queste sono tutte cose note. A me, agli ambientalisti, a Greenpeace,
a Slow Food, alla Coop, a Report, a Vandana Shiva e così via. E se cercate su qualche sito web
ambientalista una qualche "lista nera" di prodotti ottenuti da semi mutati da radiazioni nucleari
dubito la troverete. Ma potete cominciarla voi. Iniziate a scrivere:
Spaghetti
Maccheroni
Fusilli
Mezze penne rigate
Bucatini
...

Specie diverse

La vita sulla terra si è evoluta tutta da qualche cellula primordiale, da qualche batterio. I pomodori
che abbiamo oggi non esistevano una volta, così come non esistevano le zucchine, i rinoceronti, gli
abeti, gli uomini e le volpi. Tutte le diverse forme di vita che osserviamo oggi sono il risultato
dell'evoluzione e dei suoi meccanismi. Una delle barriere psicologiche più forti che impediscono
l'accettazione degli ogm è il fatto che molte persone pensano, detto semplicisticamente, che i
pomodori sono sempre esistiti, e sempre esisteranno. Che sono sempre stati diversi dai peperoni e
sempre lo saranno. Ma la verità è che uomini, peperoni, topi e pomodori hanno una moltitudine di
geni in comune, perché abbiamo una unica origine, per quanto per alcuni questo sia difficile da
accettare. Forse non è un caso che alcuni esponenti anti-ogm siano anche oppositori di Darwin e
della teoria dell'Evoluzione. Per costoro il pomodoro e il peperone sono stati creati diversi, e quindi
vedono come “innaturale” o addirittura “immorale” intervenire nei piani di Dio.

Tutti gli esseri viventi, a seconda del loro grado di parentela, hanno la maggior parte dei loro geni in
comune. Questi sono prima di tutto i geni fondamentali della vita, evoluti centinaia di milioni di
anni fa, e che sono necessari ad ogni cellula, per la produzione di aminoacidi, di zuccheri, di grassi
e proteine. Geni che regolano il metabolismo, la crescita, la moltiplicazione e così via. Specie
imparentate condividono la maggior parte del genoma di un antenato comune da cui si sono separati
magari decine o centinaia di milioni di anni fa. Uomini e topi ad esempio condividono più del 90%
del proprio DNA. Vi sentite per il 90% topi? Vi sentite topi un giorno sì e nove no?

Moltissime persone hanno un'idea quasi Platonica del concetto di “specie vivente”. Come se i
diversi individui di una specie, il rinoceronte ad esempio, non fossero altro che "realizzazioni di
un'essenza", di una rinocerontitudine che esisterebbe immutabile ed eterna nel mondo delle idee.
Questa visione è completamente sbagliata, ma è indubbio che sia molto radicata, a livello quasi
inconscio, in una larga fetta della popolazione e porta a ritenere sbagliati e "innaturali" degli scambi
genetici tra specie attualmente diverse. Ad essere sbagliata però è proprio questa idea di
immutabilità di una specie. E’ per questo che la battaglia per l’accettazione delle biotecnologie è
anche una battaglia culturale, intimamente connessa alla battaglia per l’accettazione e comprensione
diffusa dell’evoluzionismo. Una battaglia che gli scienziati non si possono permettere di perdere.

Irradiate irradiate, qualche cosa muterà

mendel.jpgLe mutazioni spontanee sono uno dei motori dell'evoluzione. Ogni tanto qualche gene
viene modificato casualmente da un errore di trascrizione durante la riproduzione. Oppure viene
alterato chimicamente da qualche agente mutageno, o dalle radiazioni. La stragrande maggioranza
delle mutazioni "naturali" è mortale oppure ininfluente. Se il gene modificato era importante per il
metabolismo della specie vivente, una modifica casuale ne porterà quasi sicuramente alla morte,
perché ad esempio la proteina codificata da quel gene si ripiega nel modo sbagliato e non può più
funzionare. Può succedere invece che il gene non fosse molto importante, ad esempio la codifica del
colore degli occhi. Solo rarissimamente viene modificato un gene che altera, senza conseguenze
mortali, una caratteristica fondamentale di una specie.

Un altro motore dell'evoluzione naturale sono i processi con cui vengono fusi due genomi di specie
diverse, per crearne una terza nuova di zecca, oppure i processi in cui porzioni del DNA di una
specie si integrano in una seconda specie, e da questo punto di vista gli organismi transgenici non
fanno altro che copiare quanto già avviene in natura.

Nel corso di milioni di anni questi meccanismi hanno agito e hanno trasformato i primi organismi
monocellulari, composti da una sola cellula, in pomodori, uomini, peperoni, rinoceronti e volpi.
Hanno creato il buonissimo fungo porcino e la mortale amanita Phalloide. Hanno prodotto i batteri
con cui fermentiamo lo Yogurt, ma anche il botulino e il colera.

Nel 1865 Gregor Mendel descriveva i meccanismi dell'ereditarietà, e poche decine di anni dopo
cominciavano le indagini sulle modifiche genetiche indotte. Nel 1927 Muller mostrò come fosse
possibile, mediante i raggi X (quelli con cui vi fate le lastre) modificare geneticamente il moscerino
della frutta (la Drosophila melanogaster). L'anno successivo Stadler compie i primi esperimenti con
i cereali cercando di modificarli geneticamente con radiazioni nucleari. Stadler cercava in questo
modo di ottenere piante con caratteristiche migliorate. Non ebbe molto successo, ma ormai la via
era aperta. Dopo la seconda guerra mondiale iniziarono i cosiddetti "usi pacifici dell'energia
atomica". Molti giovani ricercatori nelle nazioni sviluppate ed in quelle in via di sviluppo
cominciarono ad utilizzare le radiazioni nucleari con l'obiettivo di modificare le caratteristiche delle
piante esistenti. All'inizio i risultati furono piuttosto modesti. Si capì che le radiazioni nucleari erano
troppo devastanti, e la stragrande maggioranza delle piante mutate non sopravviveva. Furono
scoperte anche delle sostanze chimiche che inducevano mutazioni, come la colchicina. Piano piano
si imparò a domare la potenza distruttiva delle radiazioni alfa, beta e gamma, a controllare i
neutroni, a dosare i raggi X e l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica15-mut2.jpg (IAEA) e
la FAO finanziarono e sponsorizzarono una serie di ricerche sulle mutazioni indotte allo scopo di
migliorare le caratteristiche di prodotti agricoli.

Nel laboratorio che vedete si usa del Cesio 137 radioattivo per irraggiare con raggi gamma in basse
dosi piante e semi riposti nei ripiani degli armadietti.

Gli esperimenti su larga scala però vengono effettuati in campo aperto, in quello che viene chiamato
un Gamma Field, un Campo Gamma, di cui potete vedere una foto aerea.

Al centro del cerchio viene messa la sorgente radioattiva, e nei vari settori del cerchio, a varie
distanze, vengono piantati i semi delle piantine che si desidera mutare geneticamente. L'esposizione
diminuisce all'aumentare della distanza e quindi in questo modo è più facile trovare la dose di
radiazioni che genera dei mutanti senza uccidere immediatamente.

15-mut1.jpg
Un "campo gamma"
Come oggi la FAO sostiene l’uso delle biotecnologie agrarie, così negli anni '70 non ebbe paura di
sostenere l'utilizzo dell'energia atomica per migliorare cereali e altre piante. Un articolo della
Divisione di Tecniche Nucleari in Agricoltura, della FAO/IEAE descrive varie colture mutate ormai
diffuse e commercialmente affermate. Ve ne descrivo qualcuna.

Frutta
Il database FAO/IAEA segnala almeno 48 tipi di frutta: mele, banane, albicocche, pesche, pere,
melograno... Ma la varietà commercialmente di maggiore successo è sicuramente una varietà di
pompelmo che tutti voi conoscete: lo Star Ruby dalla polpa rosata. No, il pompelmo rosa non è
sempre esistito! La prima varietà commerciale di pompelmo dalla carne rosata è stato il Ruby Red,
derivato da una mutazione spontanea scoperta in Texas nel 1929. Tuttavia il colore rosso sbiadiva
all'avanzare della stagione, e il succo non aveva un colore gradevole. Furono utilizzati dei fasci di
neutroni lenti per irradiare dei semi di pompelmo, e nel 1970 venne introdotta in commercio la
varietà Star Ruby, senza semi e dalla polpa rossastra. Ulteriormente irradiato con neutroni lenti, la
Star Ruby generò nel 1984 la varietà Rio Red, con rese migliorate. I frutti di entrambe le varietà
mutanti, vendute con il nome di Rio Star, coprono il 75% della produzione Texana di Pompelmo.

pompelmo-500.jpg

Orzo per la birra

I primi esperimenti di mutazione indotta di Stadler, nel 1928, riguardavano l'orzo. Quaranta anni più
tardi due varietà di orzo geneticamente modificate con raggi gamma, il Diamant e il Golden
Promise avranno un impatto profondo sull'industria della birra e del Whisky in molti paesi
d'Europa. La varietà Diamant fu rilasciata per la prima volta in Cecoslovacchia nel 1965. Le
piantine erano 15 cm più basse della varietà da cui derivavano e avevano una resa per ettaro
aumentata del 12%. Nel 1972 il 43% della superficie di orzo era dedicata al Diamant, e il gene
mutato si è diffuso ad altre 150 varietà di orzo attraverso incroci convenzionali. In Scozia fu la
varietà Golden Promise, anche lei ottenuta mediante irraggiamento gamma, a diffondersi
nell'industria della birra e del Whisky. Ancora oggi, dopo più di 30 anni dalla sua creazione, questa
cultivar è ancora molto diffusa.

Grano duro

Alla fine degli anni '60 nei laboratori del CNEN (Comitato Nazionale Energia Nucleare, poi
trasformato in ENEA), al Centro Studi Nucleari della Casaccia il gruppo del Prof. Scarascia
Mugnozza irraggia con raggi X una gloriosa varietà di grano duro, il Cappelli. (La storia di questo
grano, protagonista della cosiddetta "battaglia del grano" nel ventennio fascista, andrebbe
raccontata in tutti i particolari con tutti i personaggi: dal Senatore Cappelli, da cui prende il nome, al
genetista agrario Nazareno Strampelli, anticipatore di decenni della rivoluzione verde). Come al
solito, la stragrande maggioranza dei semi irradiati muore, o produce piante abnormi. Ma una
pianticella sopravvive e mostra caratteristiche interessanti. E' più bassa, più resistente e con rese
maggiori del Cappelli. Quel mutante viene incrociato con altre varietà di grano, per trasferire le
caratteristiche interessanti, e nel 1974 viene registrato il Creso (i costitutori sono i Dott. Bozzini e
Mosconi). Nel giro di pochi anni diventa il grano duro d'elezione, e tutti voi ne avete mangiato a
quintali sotto forma di spaghetti, penne, rigatoni, maccheroni etc. Nel 1984 il Creso occupava il
53.3% del mercato italiano di semi certificati di grano, ed era coltivato su 430.000 ettari.

Pasta Radioattiva?

Nel 2000 l'IEAE/FAO pubblicizza il sito web con il suo database e descrive in un articolo gli
sviluppi degli ultimi 70 anni del campo della mutagenesi indotta sulle piante in agricoltura. Nel
maggio del 2001 un giornalista di un quotidiano tedesco (la Frankfurter Allgemeine Zeitung)
pubblica un articolo descrivendo il rapporto. E cita, come ho fatto io, i casi del Pompelmo Texano,
della Birra, del Whisky e altri esempi presi dall'articolo dell’IAEA. Cita, come è giusto, anche il
grande successo del Creso, dicendo correttamente che la maggior parte della produzione italiana di
pasta dipende da questo grano e dai suoi derivati, figli dell'Era Atomica.
Apriti cielo! Quando un'agenzia di stampa rilancia in Italia la notizia, nelle redazioni dei giornali,
opera di giornalisti troppo spesso a digiuno di scienza, esplode la febbre degli spaghetti radioattivi.
Qualche giornalista, senza prendersi la briga di telefonare ad un Istituto di Agraria delle nostre
Università per chiedere spiegazioni, sente la parola "radiazioni", la accosta agli spaghetti ed ecco
servita la pasta radioattiva. Il Ministro dell'Agricoltura dell’epoca, Onorevole Pecoraro Scanio
minaccia di denunciare l'ignaro giornalista tedesco, dimostrando ancora una volta la legge per cui
spesso i ministri non sono competenti in materia: "non subiremo senza reagire questa offensiva
contro il made in Italy. Ho incaricato l'ufficio legale di provvedere a tutelare gli interessi dei nostri
produttori. La pasta italiana è sicura al cento per cento".

La pasta ovviamente non è radioattiva, ma nessuno lo aveva mai messo in dubbio. Le radiazioni,
come vi ho spiegato, sono solo servite per indurre una mutazione nella prima pianticella.

Ma quante sono le piante Hulk?

bio-hulk.jpg
Negli ultimi 70 anni sono state prodotte più di 2200 varietà mutanti. Di queste il 60% è stato
prodotto, immesso nell'ambiente, e seminato nei vostri orti dopo il 1985. Così come avviene con gli
ogm, alcune di queste piante mutanti sono state incrociate con altre varietà, per trasferire le
caratteristiche acquisite.
Nella lista ci sono specie importantissime quali grano, riso, girasoli, orzo, piselli, cotone, fagioli,
pere, pompelmi e così via (e anche qualche patata con dei colori simili alle patate di cui ho parlato
all’inizio). Se vi prendete la briga di scorrere la lista troverete tantissime varietà, anche sviluppate
interamente in Italia. Il riso Fulgente ad esempio. Il già citato grano Creso, e i suoi parenti Castel
del Monte, Augusto, Castelfusano, Castelporziano, Febo, Giano, Peleo, Ulisse e altri.

Le ciliegie Burlat C1, o la varieta' Nero II C1. I piselli Esedra, Navona, Trevi, Paride, Priamo e
Pirro. Il fagiolo Montalbano e il Mogano. La melanzana Floralba e Picentia, la patata Desital
Vi rimando alla lista completa. Avrete molte sorprese... (e tralascio i fiori ornamentali. Come
credete che li generino i tulipani blu?)

Ma gli ogm?

Non ho parlato di ogm, ma forse, forse, qualcuno di voi da oggi li vedrà sotto una nuova luce,
perché ha qualche informazione in più su cosa è realmente l'agricoltura moderna.
E forse avrete anche attenuato la vostra fiducia in coloro che vi "difendono" dagli organismi
transgenici, visto che un minimo di onestà intellettuale imporrebbe che le stesse battaglie fatte
contro gli ogm vengano fatte, per gli stessi motivi, anche contro i semi e le piante mutate dalle
radiazioni. Ma non vengono fatte. Perché?

Non vorrei avervi dato l'impressione che io ritenga pericolose le piante generate per mutazione.
Come ho detto più volte su questo blog, non è il modo con cui è stata ottenuta una pianta che
importa nella sua valutazione. Non è l’essere ogm che porta una pianta ad essere benefica o cattiva
così come non è l’origine “nucleare” delle mutazioni a rendere queste varietà buone o cattive. A mio
parere chi insiste nel generalizzare o è ignorante in materia o è in malafede e vi vuole abbindolare
(o entrambe le cose).

E' però indubbio come gli ogm siano molto più controllati e sottoposti a verifiche delle piante
prodotte per irraggiamento, per cui non serve nessuna autorizzazione specifica per la coltivazione.
Le mutazioni avvengono ovviamente alla cieca, casualmente. Non è possibile sapere cosa succederà
alla pianta, e a mutazione avvenuta non ci si preoccupa di indagare a livello molecolare se le
mutazioni abbiamo modificato in qualche modo non evidente il metabolismo della pianta.
Un articolo apparso di recente ha confrontato un riso ogm con un riso mutato da radiazioni,
trovando che il riso mutato aveva subito molte più alterazioni genetiche del riso ogm.

Sul web c’è qualcuno che accusa il grano creso e i suoi derivati di essere responsabile dell’aumento
della celiachia (intolleranza al glutine) degli ultimi decenni, ma da quello che ne so sono accuse
prive di fondamento e non supportate da ricerche scientifiche.

Ipocrisia

Mi dicono: "si è solo accelerato un pochetto la natura". Siiiii, buonanotte! Volendo essere coerenti, e
non avere contatti con varietà inventate da scienziati in camice bianco e mascherina, chi vuole
bandire gli ogm dovrebbe comportarsi nella stessa maniera nei confronti dei semi mutati con
radiazioni (ad esempio COOP, comportandosi coerentemente, non dovrebbe venderli. Niente più
pompelmi rosa o spaghetti di grano duro Creso)

Ecco cosa ha dichiarato all'epoca del presunto scandalo Ermete Realacci di Legambiente, ora
esponente e ministro ombra dell’ambiente del Partito Democratico.

"La notizia diffusa dalla stampa tedesca risulta alquanto strumentale. Non esiste nel nostro paese la
possibilità di coltivare grano duro transgenico. L'allarme si basa esclusivamente sulla confusione
generata dall'informazione non corretta relativa da alcuni procedimenti utilizzati da molti anni per
assicurare certe caratteristiche qualitative delle pasta, che niente hanno a che vedere con la
produzione di alimenti transgenici. Un conto è intervenire tecnicamente, altro è manipolare
geneticamente un ingrediente vegetale"

Ma chi mai ha parlato di grano transgenico? E che diavolo significa "Un conto è intervenire
tecnicamente, altro è manipolare geneticamente un ingrediente vegetale" ? E' un tentativo di
nascondere la scarsa conoscenza in materia o c'è il desiderio di sviare dal fatto ovvio che sia per gli
OGM sia per i mutanti da radiazioni nucleari l'intervento umano c'è ed è molto pesante, e quindi si
usano due pesi e due misure?

Ancora più bella questa frase, tratta da un'intervista a Repubblica del 11/5/2001, sempre di Realacci
(riportata a pagina 26 del rapporto dell'osservatorio di Pavia su come i media italiano hanno trattato
le agrobiotecnologie, rapporto di cui consiglio la lettura perché possiate capire come spesso i media
manipolino la realtà. Non lo dico io, lo dice l'osservatorio di Pavia, che ha chiamato
provocatoriamente OGM Organismi Giornalisticamente Modificati)

"L'ingegneria genetica permette di saltare i confini tra una specie e l'altra, e perfino tra regno
vegetale e regno animale. Invece trattando con i raggi un seme si accelera la produzione di individui
mutanti: è un processo naturale"

Naturale, quindi non pericoloso, nella logica semplice e ingenua di chi ha una visione “disneyana”
della natura benigna.

Sulla stessa lunghezza d'onda Slow Food:

"Il grano Creso è un ibrido ottenuto accelerando un processo di mutazione naturale, si tratta di
incroci di varietà diverse di grano: ben diverso dal mais con dentro il gene di un batterio o di uno
scorpione"

dice Carlo Petrini, fondatore di SlowFood.


Potete notare la voglia di rassicurare sul grano e contrapporlo ai “cattivi” ogm con lo scorpione
dentro (sic!). Non una parola sulle radiazioni, non una parola sul fatto che scienziati hanno irradiato
dei semi con raggi gamma e neutroni lenti per ottenere dei mutanti. Viene invece ancora una volta
usato a sproposito l'aggettivo "naturale", come se in questo contesto avesse qualche significato.

Ma soprattutto notate anche che non c'è il minimo tentativo di spiegare se queste piante ottenute da
irraggiamento nucleare siano o meno pericolose. L'importante è distanziarle dagli ogm.

E' comunque curioso che nel caso degli ogm si faccia leva sull'"innaturalità" del processo di
generazione di nuove varietà, contrapposta alla "naturalità" dell'evoluzione lasciata a se stante
mentre nel caso della mutagenesi da radiazioni la stessa argomentazione viene usata a favore
dell'intervento umano. Ci sarebbe una modificazione genetica cattiva (quella degli ogm) perché
effettuata in modo mirato dall'uomo, e una modificazione genetica buona (quella delle radiazioni),
perché casuale e non sotto il controllo dell'uomo.

E le zanzare?

Così come si possono mutare i vegetali, allo stesso modo si può intervenire sugli animali. Ecco
dunque la Zanzara mutante, come ci racconta Anna Meldolesi su Il Riformista. A quanto pare al
"Centro Agricoltura Ambiente Giorgio Nicoli" è in corso un esperimento per sviluppare un sistema
di lotta contro la zanzara mediante maschi resi sterili dalle radiazioni.

Mentre i villeggianti della riviera romagnola cercano di proteggersi con gli spray repellenti,a un
centinaio di chilometri di distanza il Centro Agricoltura e Ambiente sta liberando centinaia di
migliaia di giovani zanzare. Non si tratta di Anopheles, come negli esperimenti annunciati da
Crisanti, ma di Aedes albopictus. Questa specie è nota a tutti come zanzara tigre e può veicolare
alcuni virus patogeni per l’uomo, da chikungunya a dengue. L’entomologo responsabile del
progetto, Romeo Bellini, ha cominciato in aprile a rilasciarne 40.000 alla settimana spartendole in
egual misura tra due piccole località della regione (Boschi di Baricella in provincia di Bologna e
Budrio di Correggio in provincia di Reggio Emilia) e andrà avanti fino a settembre. Non si tratta di
esperimenti in serre confinate,come per Crisanti, ma di veri e propri rilasci in aperta campagna. Il
bello è che non è la prima volta – negli anni passati è toccato a Desenzano, Rimini e Santa Monica
di Misano - e non ha dovuto chiedere il permesso a nessuno. I suoi insetti infatti godono di una
sostanziale deregulation perché non risultano Ogm davanti alla legge. Il buonsenso però dice che
sono anch’essi geneticamente modificati,perché sono stati irraggiati con radiazioni gamma che
hanno messo a soqquadro il loro genoma al punto da renderli sterili al 99%. E nessuno sa quali
mutazioni si porti a spasso quell’1% che sterile non è e potrebbe contenere anche qualche sparuto
esemplare di sesso femminile.

La cosa paradossale è che non solo non si è sentito alcun lamento da parte degli ambientalisti e di
attivisti di Greenpeace mascherati da Zanzara neppure l'ombra, ma addirittura alcune organizzazioni
ferocemente contrarie agli OGM sono tra gli sponsor di questo progetto. Ad esempio il WWF e
Coldiretti. Curioso vero?

Ma sono ogm o no?

Queste piante sono ogm? Dipende a chi fate questa domanda: dal punto di vista legale no, non sono
ogm. I burocrati di Bruxelles sono stati molto attenti nel definire ogm quegli organismi il cui
genoma è stato modificato secondo determinate tecniche ma non altre. Tuttavia, se non siete dei
legulei di Bruxelles e volete badare alla sostanza e non alla forma, sì, queste piante sono ogm, nel
senso che indubbiamente sono state “geneticamente modificate” dall'uomo. Certo, non in modo
preciso come con le tecniche per produrre gli organismi transgenici. Ma il DNA di queste piante è
stato modificato. In modo solitamente sconosciuto, tra l’altro.

Conclusioni

Se state leggendo questo articolo e avete letto i miei precedenti pezzi sugli ogm, probabilmente
conoscete a menadito tutte le obiezioni “standard” agli organismi transgenici. Provate a fare le
stesse obiezioni alle piante mutate: deve valere anche per loro il "principio di precauzione" ?
Dobbiamo aspettare di essere sicuri al 100% prima di utilizzarle? Come facciamo ad essere sicuri
che non facciano male? Possono essere dannose? Sappiamo dove è stato modificato il genoma di
una pianta bombardata con raggi Gamma o raggi X? Sono un pericolo per la biodiversità?

Vi basta la spiegazione un po' imbarazzata che "tanto le radiazioni sono naturali" ? Grazie tante.
Anche il colera.

La domanda che invece mi faccio è "perché da parte dei professionisti anti-OGM non vi è
opposizione a queste tecniche?" La risposta è banale: perché non c'è la “cattiva multinazionale
americana” da combattere, perché non si accresce il consenso politico, perché non è utilizzabile
come tecnica pubblicitaria e di marketing, perché non conviene, perchè non si attraggono fondi e
firme ai banchetti, e perché non ci si sente parte "della causa", e quindi non si genera quel senso di
autocompiacimento che è uno dei motori psicologici di un certo attivismo fine a se stesso.

Se questa opposizione ci fosse stata negli anni ’70 non avremmo avuto il creso, il pompelmo rosa e
forse neanche quella birra che vi piace tanto. Quante innovazioni in agricoltura stiamo impedendo
con l’opposizione irrazionale alle biotecnologie agroalimentari?

Ma soprattutto, credete ancora che le varie organizzazioni avversino gli ogm per proteggere la
vostra salute e quella dell'ambiente?

Norman Borlaug, l'uomo che ha nutrito il mondo


15
settembre
2009
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Si è spento sabato 12 settembre, all'età di 95 anni, Norman Borlaug, l'uomo che ha "nutrito il
mondo". Padre della Rivoluzione Verde e premio Nobel per la Pace nel 1970 (qui potete leggere la
sua bella lezione Nobel).

borlaug-young

Con l'aiuto della Fondazione Rockefeller le sue ricerche hanno portato a sviluppare nuove varietà di
grano, riso e altre colture ad alta produttività, in un momento storico in cui pareva che l'aumento
della popolazione mondiale avesse superato la capacità dell'agricoltura mondiale di produrre cibo.

Nel 1960 il messico produceva grano, 1400 kg per ettaro. Nel 1963 utilizzando la varietà nana che
Borlaug aveva sviluppato le rese passarono a 2700 kg per ettaro.
Ai critici (spesso bianchi e ben pasciuti) della rivoluzione verde Borlaug parlava così

Chiedo spesso ai critici della moderna tecnologia agricola: come sarebbe stato il mondo senza gli
avanzamenti tecnologici che sono accaduti? Coloro che professano delle preoccupazioni per
l'ambiente, considerino l'impatto positivo risultante dall'applicazione delle tecnologie fondate sulla
scienza. Se nel 1999 avessimo ancora avuto le rese mondiali di cereali del 1961 (1.531 kg per
ettaro), avremmo avuto bisogno di quasi 850 milioni di ettari di terreno in più, e della stessa qualità,
per produrre i 2.06 miliardi di tonnellate di cereali prodotti nel 1999.

È ovvio che quella terra non era disponibile, e certamente non nella popolosa Asia. Oltretutto, anche
se fosse stata disponibile, pensate all'erosione del suolo e alla perdita di foreste, praterie e fauna
selvatica che avremmo causato se avessimo cercato di produrre quella quantità di cereali con la
vecchia tecnologia a basse rese.

E poi

Alcuni critici hanno detto che la rivoluzione verde ha creato più problemi di quelli che ha risolto.
Questo non lo accetto, perché io credo sia molto meglio per l'umanità cercare di risolvere i nuovi
problemi causati dall'abbondanza piuttosto che avere a che fare con il vecchio problema della fame.

Non è una esagerazione dire che Norman Borlaug salvò centinaia di milioni di persone dalla fame, e
fu per questo che gli venne assegnato il premio Nobel per la pace.

Entro il 1970 ben 40 milioni di ettari di terra in tutto il mondo usavano le sue varietà nane di cereali,
soprattutto in Asia e in America Latina, ma un suo grande cruccio fu che l'Africa rimase
praticamente ai margini della rivoluzione verde.

Era ben consapevole che le sue ricerche avevano solo rallentato il problema ma non lo avevano
eliminato del tutto

La rivoluzione verde ha raggiunto il successo temporaneamente nella guerra dell'uomo contro la


fame e le privazioni; ha dato all'uomo un po' di respiro. Se pienamente implementata la rivoluzione
può fornire cibo a sufficienza per sostenerci nei prossimi trenta anni. Ma la potenza terrificante
della riproduzione umana deve essere piegata, altrimenti i successi della rivoluzione verde saranno
effimeri.

Per questi motivi Borlaug era un convinto e appassionato sostenitore delle biotecnologie agrarie. In
un suo articolo molto famoso, intitolato "Porre fine alla fame mondiale. La promessa delle
biotecnologie e la minaccia degli zeloti anti-scienza" si scaglia contro quelli che lui chiama
"estremisti ambientalisti" e i nostalgici dei bei tempi andati, di cui purtroppo abbiamo vari e
influenti rappresentanti anche qui in Italia. Coloro che, opponendosi alle nuove biotecnologie
agrarie, impediscono che i poveri del mondo ne possano beneficiare. Argomentava così Borlaug:

Il riso è l'unico cereale immune alla ruggine Puccinia sp. Immaginate i benefici se il gene che dona
l'immunità alla ruggine nel riso potesse essere trasferito in grano, orzo, avena, mais, miglio e sorgo.
Il mondo potrebbe finalmente liberarsi dal flagello della ruggine, che ha causato così tante carestie
nella storia dell'Umanità.

In un discorso tenuto nel 2000 a Oslo di commemorazione del Nobel ricevuto trenta anni prima,
Borlaug, ripercorrendo i successi della rivoluzione verde e guardando al futuro, ritorna sul tema
Io sostengo che il mondo ora ha la tecnologia – già disponibile o molto avanzata in fase di ricerca –
per nutrire in modo sostenibile una popolazione di 10 miliardi di persone. La domanda più
pertinente oggi è se agli agricoltori e agli allevatori sarà permesso utilizzare questa nuova
tecnologia.

Mentre le nazioni ricche possono certamente adottare posizioni favorevoli a rischi ultra bassi, e
pagare più per il cibo prodotto con il metodo cosiddetto “biologico”, un miliardo di persone
cronicamente sottonutrite dei paesi poveri non può farlo.

Ci sono voluti 10.000 anni per espandere la produzione di cibo ai livelli attuali di circa 5 miliardi di
tonnellate per anno. Entro il 2025 dovremo di nuovo raddoppiare la produzione attuale. Questo non
può essere fatto a meno che gli agricoltori nel mondo possano avere accesso ai metodi di
produzione attuali ad alte rese, oltre che ai miglioramenti biotecnologici che possono aumentare le
rese e la qualità nutrizionale delle nostre coltivazioni di base.

Vorrei chiudere con una sua esortazione:

"Abbiamo bisogno di introdurre un po' di buon senso nel dibattito sulla scienza e la tecnologia in
agricoltura, e prima si fa meglio è"

e ricordarlo con un grafico, il SUO grafico, che mostra l'aumento della produzione mondiale di
cereali, a fianco dell'andamento quasi costante delle superfici di terra utilizzate.

cereal-borlaug-580

Non riesco a pensare a nessun altro grafico che lo possa ricordare meglio. Ed è un grafico che in
molti farebbero bene a ripassarsi prima di parlare di "nuovi modi di produrre il cibo" su larga scala.

Dieci risposte a Carlo Petrini sugli OGM


12
febbraio
2010
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Ho letto i 10 punti di Carlo Petrini contro gli ogm.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-dico-no-dieci-volte/2120670/12

Vorrei rispondere punto per punto (anche se la visibilita’ che ho è diecimila volte inferiore a quella
di Carlo Petrini con un articolo su l’Espresso)

1. Contaminazione

Coltivare Ogm in sicurezza, in Italia, è impossibile; le aziende sono di piccole dimensioni e non ci
sono barriere naturali sufficienti a proteggere le coltivazioni biologiche e convenzionali.
L'agricoltura fa parte di un sistema vivente che comprende la fauna selvatica, il ciclo dell'acqua, il
vento e le reazioni dei microrganismi del terreno: una produzione Gm non potrà restare confinata
nella superficie del campo in cui viene coltivata.
FALSO: sono disponibili vari studi che dimostrano come la coesistenza sia perfettamente possibile.
Le distanze da tenere possono variare da pochi metri (come per il riso) a decine di metri (come il
mais) o addirittura non servire, in tutti quei casi dove le piante si autofecondano e non rilasciano
polline nell’ambiente. Oppure è il portainnesto (del melo o della vite) ad essere transgenico, per
proteggere da alcuni insetti, mentre fiori e frutti sarebbero completamente “ogm free”.

Vedi ad esempio questi documenti tra i tanti disponibili

http://www.gmo-compass.org/eng/regulation/coexistence/201.coexistence_is_possible.html

http://www.gmo-compass.org/eng/regulation/coexistence/
134.coexistence_agriculture_minimising_cross_pollination.html

http://www.pgeconomics.co.uk/pdf/Co-existence_maize_10october2006.pdf

2. Sovranità alimentare

Come potrebbero gli agricoltori biologici, biodinamici e convenzionali essere sicuri che i loro
prodotti non siano contaminati? Una diffusione, anche limitata, delle coltivazioni Ogm in campo
aperto, cambierebbe per sempre la qualità e la situazione attuale della nostra agricoltura, annullando
la nostra libertà di scegliere quel che mangiamo.

FALSO: le misure di coesistenza sono fatte apposta per non far perdere la certificazione biologica,
rimanendo sotto il livello legale dello 0,9% di commistione. Livello che gia’ si applica ora in italia
dove pure non si possono coltivare ogm. I semi che gli agricoltori biologici di mais comprano, ad
esempio, possono gia’ contenere tracce di mais ogm, e il prodotto finale può contenerne sino allo
0,9% senza perdere la certificazione. Gia’ oggi nei prodotti biologici si riscontrano tracce di ogm (o
di pesticidi) senza che venga persa la certificazione. Vedi ad esempio i risultati del piano nazionale
residui 2008 del ministero della salute
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1074_allegato.pdf

3. Salute

Ci possono essere problemi di salute per animali alimentati a Ogm.

FALSO: Tutti gli studi SERI in questo campo hanno smentito questo fatto. Sono stati pubblicati
articoli, i piu’ recenti di Seralini, dove rianalizzando con metodi statistici vecchi esperimenti si
sostiene che il mais ogm possa causare alterazioni fisiologiche. Varie istituzioni scientifiche hanno
piu’ volte smentito queste conclusioni bollando come “sballate” le tecniche statistiche usate da
Seralini. Purtroppo gli attivisti continuano a citare questi lavori senza citare le varie bocciature

http://www.efsa.europa.eu/en/events/event/gmo100127-m.pdf

http://www.foodstandards.gov.au/educationalmaterial/factsheets/factsheets2009/
fsanzresponsetoseral4647.cfm

http://www.salmone.org/wp-content/uploads/2010/02/hcbpress.pdf

In più, che non esistano rischi sanitari dagli ogm, oltre che innumerevoli rapporti scientifici e
l’EFSA, lo hanno ammesso anche gli oppositori agli OGM, tra cui Slow Food, nel loro rapporto “Le
ragioni di chi dice no” http://content.slowfood.it/upload/3E6E345B029d525A10lQj3FD7A86/files/
Dossier_OGM-in-Agricoltura_Le-ragioni-di-chi-dice-no.pdf

“i rischi delle attuali Piante Geneticamente Modificate sono molto bassi se non assenti”

Si puo' discutere se il mais sia o meno il cibo piu' adatto ai bovini (cfr. Il Dilemma dell'onnivoro,
Michael Pollan, Adelphi) ma questo esula dal fatto che il mais sia geneticamente modificato o
meno.

E' pero' un fatto, poco noto agli italiani, che il mais Bt resistente agli insetti e' piu' sano per l'uomo
perche' contiene meno tossine (fumonisine), che invece sono presenti in misura maggiore nel mais
italiano sia convenzionale che biologico e che possono raggiungere livelli preoccupanti, soprattutto
per le donne in gravidanza. E da quel mais possono passare al latte delle vacche e quindi al
formaggio, anche DOP come dimostrato da un'inchiesta de "Il Salvagente".

Sugli OGM sono stati fatti studi per vedere se la composizione del latte o della carne di animali
nutriti da OGM era in qualche modo diversa, e non è risultato nulla di anomalo. Una rassegna
completa recente in due parti è accessibile su

http://arjournals.annualreviews.org/doi/pdf/10.1146/annurev.arplant.58.032806.103840?
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http://arjournals.annualreviews.org/doi/pdf/10.1146/annurev.arplant.043008.092013

Perchè il cittadino italiano non ne è a conoscenza? Perchè la stampa preferisce intervistare Carlo
Petrini, Mario Capanna, Giulia Maria Crespi o il ministro Luca Zaia piuttosto che uno delle migliaia
di scienziati competenti che lavorano in questo campo, anche italiani.

4. Libertà

Le coltivazioni Ogm snaturano il ruolo dell'agricoltore che da sempre migliora e seleziona le


proprie sementi. Con le sementi Gm, invece, la multinazionale è la titolare del seme: ad essa
l'agricoltore deve rivolgersi ad ogni nuova semina (poiché, come tutti gli ibridi, in seconda
generazione gli Ogm non danno buoni risultati) ed è proibito tentare miglioramenti se non si pagano
costose royalties.

FATTO: non tutti gli OGM sono ibridi e non tutti sono prodotti da multinazionali

FATTO: la maggior parte degli agricoltori (convenzionali o biologici) acquista semi ogni anno, e mi
stupisce che Petrini non lo sappia. Sono ormai finiti i tempi, da quasi un secolo, in cui gli agricoltori
miglioravano le proprie sementi, perche’ ora si preferisce acquistare sementi certificate, prive di
virosi, e con germinazione e qualita’ molto elevata. Salvare i propri semi per l’anno successivo, a
parte casi specifici e su piccola scala, può portare ad una riduzione notevole della qualita’ del
raccolto. In piu’ le aziende produttrici di semi (che sono spesso le stesse che producono ogm)
svolgono ricerca e sviluppo e lanciano sul mercato sempre nuove colture. Ad esempio i semi dei
pomodori di Pachino (quelli famosi a grappolo) sono sviluppati da una azienda biotech israeliana, la
Hazera Genetics, non certo dagli agricoltori “che da sempre migliorano il seme”.
FATTO: gli ibridi esistono da quasi un secolo. I coltivatori di mais italiano comprano ibridi (non
ogm) ogni anno. Per molte altre colture sono stati sviluppati gli ibridi. Se gli agricoltori li usano
evidentemente gli conviene. Nessuno li obbliga. Lasciamoli liberi di scegliere.

FATTO: gli ogm sviluppati dalla ricerca pubblica, anche italiana, sarebbero disponibili per gli
agricoltori come qualsiasi altra coltura sviluppata nel secolo precedente. Ad esempio il grano
Senatore Cappelli, tanto decantato ultimamente, non è stato “selezionato dagli agricoltori”, ma è il
risultato del lavoro di un genetista agrario italiano, Nazareno Strampelli, che ha selezionato una
varieta’ tunisina di grano duro, adattata al clima italiano, e l’ha resa disponibile agli agricoltori.

FATTO: oltre ai maiscoltori, che hanno gia’ manifestato l’interesse a provare in campo gli ogm,
esistono anche altri agricoltori interessati. Ad esempio i risicoltori italiani, come dimostra questo
loro documento http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/files/2009/11/090924-
Senato-audizione-OGM.pdf

5. Economia e cultura

I prodotti Gm non hanno legami storici o culturali con un territorio. L'Italia basa buona parte della
sua economia agroalimentare sull'identità e sulla varietà dei prodotti locali: introdurre prodotti
senza storia indebolirebbe un sistema che ha anche un importante indotto turistico.

FATTO: se questi ragionamenti fossero stati fatti nei secoli scorsi in Italia non si sarebbe potuto
importare pomodori, patate, mais, zucchine, melanzane, per non parlare del recente Kiwi, e cosi’
via. Il patrimonio agroalimentare italiano e’ ricco proprio perche’ e’ stato in grado di adattare al
proprio territorio prodotti di altri paesi. Il gia’ citato grano Senatore Cappelli è una varieta’ tunisina,
senza “legami storici o culturali con un territorio”.

In piu’ esistono molti ogm completamente italiani, sviluppati dalla ricerca pubblica italiana.
Pomodoro, melanzana, melo… Lasciamo liberi gli agricoltori di scegliere.

6. Biodiversità

Le colture Gm impoveriscono la biodiversità perché hanno bisogno di grandi superfici e di un


sistema monocolturale intensivo. Se si coltiva un solo tipo di mais, si avrà una riduzione anche dei
sapori e dei saperi.

FALSO: gli ogm possono arricchire la biodiversita’, riportando in auge varietà vegetali che non si
possono piu’ coltivare per via di virosi, attacchi di insetti o altro. Non e’ affatto vero che gli ogm
abbiano bisogno di grandi superfici: dipende ovviamente dalle colture. Un esempio di piccola
coltura salvata dalle biotecnologie e’ la papaya delle Hawaii dove piccoli agricoltori ora possono
continuare a coltivarla http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2007/11/07/la-
papaya-ogm/

Ed essendo il risultato della ricerca pubblica gli agricoltori non hanno bisogno di pagare royalties o
di ricomperare i semi. Per quel che riguarda l’Italia qui potete scaricabile gratuitamente,
http://snipurl.com/u89gv un libro intitolato “Biotecnologie per la tutela dei prodotti tipici italiani”.
Ci sono esempi concreti, dal pomodoro San Marzano al Melo della Valle d’Aosta, come si dovrebbe
sempre fare discutendo di questi temi, e non fare discorsi astratti come purtroppo si sentono, troppo
spesso, in Italia.

FATTO: il gene desiderato si può inserire in ogni coltura. Non c’è “un solo tipo di mais”. Una volta
costruito un “evento” (questo è il termine tecnico) si può trasferire il gene con degli incroci
tradizionali ad altre varieta’. In Argentina ad esempio esistono centinaia di diverse’ varieta’ di soia
ogm, cosi’ come esistono molte varieta’ di mais, molte varieta’ di cotone. Quando si parla di “mais
ogm” non si intende che ne esista una sola varieta’. Come altro esempio si può prendere la patata
resistente alla dorifora, al virus dell’accartocciamento delle foglie e al virus Y. Queste resistenze
sono state inserite in alcune varieta’ di patata http://www.naturemark.com/ e nulla vieta che si
possano inserire in altre varieta’, come e' stato fatto recentemente in russia con una varieta' locale.
Avrebbero esattamente lo stesso sapore, le stesse proprieta’ organolettiche, ma sarebbero resistenti
ad insetti e virus, e quindi sarebbero più sane e di miglior qualita’ perché necessiterebbero di meno
agrofarmaci.

7. Ecocompatibilità

Le ricerche su Ogm indicano due "vantaggi": la resistenza ad un parassita del mais (la piralide) e a
un diserbante (il glifosate). Quindi, essi consentirebbero un minore impiego di chimica di sintesi;
ma la piralide del mais può essere combattuta seriamente solo con la rotazione colturale, e la
resistenza a un diserbante porta ad un uso più disinvolto del medesimo nei campi, dato che non
danneggia le piante coltivate ma solo le erbe indesiderate.

FATTO: esistono colture che resistono a vari erbicidi (non solo il glifosate), tra cui la soia, il mais,
la colza e la barbabietola da zucchero. Gli erbicidi, a meno di voler tornare ai tempi delle mondine,
sono largamente utilizzati in tutta l’agricoltura convenzionale. Gli erbicidi associati agli ogm sono
spesso meno tossici di quelli che vanno a sostituire.

FATTO: esistono colture resistenti ai virus (patata, papaya, zucchina) per i quali non esistono
soluzioni efficaci convenzionali.

FATTO: le colture ogm hanno gia’ portato ad una riduzione del consumo di insetticidi, nei paesi
dove le colture Bt, come il mais che si vorrebbe seminare in Italia, sono coltivabili.

In particolare in Asia le riduzioni di pesticidi utilizzati sono state spettacolari con grande
miglioramento della situazione sanitaria degli agricoltori e dell’ambiente

http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/11/02/un-ogm-buono-pulito-e-
giusto/

Impedire che questa tecnologia (che combatte non solo la piralide ma anche altri insetti, come la
diabrotica) venga utilizzata in Italia significa preferire che ogni anno vengano riversati nel nostro
territorio tonnellate e tonnellate di pesticidi che avremmo potuto tranquillamente evitare.

La rotazione non è un sistema applicabile in pratica nel nostro territorio (ci spieghi Petrini come mai
in pianura padana gli agricoltori sono cosi’ poco accorti da non usarla e invece preferiscono
spargere tonnellate di insetticidi ogni anno per combattere piralide e diabrotica)

8. Precauzione
A circa trent'anni dall'inizio dello studio sugli Ogm, i risultati in ambito agroalimentare riguardano
solo tre prodotti (mais, colza e soia). Le piante infatti mal sopportano le modificazioni genetiche e
questa scienza è ancora rudimentale e in parte affidata al caso. Vorremmo ci si attenesse ad
atteggiamenti di cautela e precauzione, come hanno fatto Germania e Francia, che hanno vietato
alcune coltivazioni di Ogm.

FALSO: che “Le piante infatti mal sopportano le modificazioni genetiche” è una stupidaggine
colossale che qualunque studente di biologia può smentire. Un gene e‘ un gene! Mi può Petrini
citare un lavoro serio dove si documenta che “Le piante infatti mal sopportano le modificazioni
genetiche” ?

FATTO:Che sia falso lo dimostra il fatto che sono stati sviluppati ormai centinaia di ogm diversi,
per rispondere a vari problemi agricoli. Dalla vite al pomodoro al riso al frumento. Solo che questi
ogm sono ancora nei cassetti delle universita’ dove sono stati sviluppati per via dell’avversione a
queste tecnologie. È intellettualmente disonesto quindi, dopo essersi opposti all’introduzione di altri
ogm, sostenere che ci sono solo pochi prodotti sul mercato. Anche in italia, nelle serre di molte
universita’, ci sono ogm pronti di vari tipi, dalla mela della valle d’aosta alla melanzana resistente al
pomodoro san marzano.

FATTO: sono in arrivo, nei prossimi cinque anni, centinaia di nuovi OGM, per la maggior parte
frutto della ricerca pubblica. Vedi questo documento del cento studi JRC della Commissione
Europea

http://ipts.jrc.ec.europa.eu/publications/pub.cfm?id=2420

FATTO: Francia e Germania hanno vietato il mais Ogm con motivazioni politiche, non scientifiche.
Nessuna delle passate decisioni di vietare le coltivazioni nella UE è stata poi supportata da un
parere scientifico favorevole e sono quindi da considerarsi decisioni dettate dalle esigenze politiche
interne ai due paesi dove l’opposizione agli OGM non è meno forte che da noi in Italia. In Spagna
invece se ne coltivano circa 80.000 ettari con grande soddisfazione degli agricoltori che lo
utilizzano che hanno rese piu' elevate e utilizzano meno pesticidi.

L’EFSA ha ribadito che il divieto applicato in Francia non è fondato scientificamente e alle stesse
conclusioni è arrivata la commissione centrale tedesca per la biosicurezza.

http://www.efsa.europa.eu/en/scdocs/doc/
gmo_op_ej850_French_safeguard_clause_on_MON810_maize_en.pdf

http://www.gmo-compass.org/eng/news/
455.no_new_evidence_environmental_risks_through_maize_mon810.html
FATTO: come ho detto oltre a mais, soia e colza esiste in commercio la papaya ogm, esiste la
Patata ogm (in Russia), esiste la barbabietola da zucchero (Canada e USA), e il riso sara’ sul
mercato in asia entro due anni. In Sud Africa esiste il mais ogm bianco, coltivato per consumo
umano.

9. Progresso

Gli Ogm sono figli di un modo miope e superficiale di intendere il progresso. È sempre più chiaro
per consumatori, governi e ricercatori, il ruolo dell'agricoltura di piccola scala nella protezione dei
territori, nella difesa del paesaggio e nel contrasto al riscaldamento globale. Invece di seguire le
sirene dei mercati, la ricerca dovrebbe affiancare l'agricoltura sostenibile e mettersi a disposizione
delle sue esigenze.

FATTO: per nutrire e soddisfare i bisogni di milioni di persone (in Italia) e miliardi (in tutto il
mondo) è ridicolo pensare di ritornare all’agricoltora su piccola scala. Adoro il Lardo di Colonnata,
mi piacciono le cipolle di Tropea, cucino le lenticchie di Castelluccio, ma quando cucino la pasta so
che questa è prodotta in italia usando Frumento in larga parte importato dall’estero e coltivato su
larga scala. Quando mangio il parmigiano so che questo è prodotto con latte di vacche alimentate
con soia (in larga parte OGM) coltivata su larga scala. La retorica della piccola produzione è,
appunto, solo retorica. Va benissimo per alcune nicchie, che tutti possiamo apprezzare, ma
generalizzarla è senza senso.

10. Fame

I relatori Onu dicono che l'agricoltura familiare difende le fasce di popolazione a rischio di
malnutrizione. Le multinazionali invece promettono che gli Ogm salveranno il mondo dalla fame:
eppure da quando è iniziata la commercializzazione (circa 15 anni fa) il numero degli affamati non
ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che li producono. In paesi come
l'Argentina o il Brasile la soia Gm ha spazzato via produzioni come patate, mais, grano e miglio su
cui si basa l'alimentazione.

FATTO: È ben documentato dalle agenzie internazionali come la FAO, l’ONU e la Banca Mondiale
come le biotecnologie siano gia’ state utili per combattere la poverta’, soprattutto attraverso l’unico
OGM per ora diffuso nei paesi poveri: il cotone Bt. Non si mangia, ma e' Buono, Pulito e Giusto.

La coltivazione convenzionale del cotone fa largo uso di pesticidi, con effetti spesso deleteri per
l’ambiente e per gli agricoltori. Il cotone Bt è usato ormai da più di 9 milioni di agricoltori,
soprattutto in India e in Cina, e il rapporto della Banca mondiale lo definisce «un OGM win-win-
win», ossia di successo su tre fronti:” Ha ridotto le perdite dei raccolti, ha aumentato i profitti dei
contadini e ha fortemente ridotto l’uso di pesticidi per milioni di piccoli agricoltori”

http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/11/02/un-ogm-buono-pulito-e-
giusto/

FAO: Rapporto FAO del 2004 sull’agricoltura biotech

Banca Mondiale: World Development Report 2008

JRC-IPTS: Economic Impact of Dominant GM Crops Worldwide: A Review

IFPRI: Measuring the Economic Impacts of Transgenic Crops in Developing Agriculture during the
First Decade

L’etica della scienza impone agli scienziati la ricerca della verità, attraverso l’indagine scientifica
rigorosa. Mal si adatta all’attivismo. Se i risultati della ricerca collidono con la propria visione del
mondo, con le proprie ideologie, con le proprie filosofie, lo scienziato vero rigetta queste ultime e le
cambia. L’attivista invece rigetta i fatti, non li vuole vedere e, anzi, si mette affannosamente a
ricercare solamente quelle osservazioni che collimano con il proprio punto di vista. Così si
spiegano, nella variegata galassia anti-ogm, le citazioni a tutti quei lavori, come quelli di Seralini,
che vorrebbero documentare presunti problemi associati agli ogm, ma mai una citazione alle
smentite successive. Così si comportano i creazionisti quando sono alla disperata ricerca di prove di
una idea che non ammette possibilità di smentita, nella loro fede, ma solo conferme.

C’è un diffuso disagio in molti nell’accettare le risposte della scienza, pur sempre temporanee, se
queste non collimano con le idee preconcette che ci si è costruiti.

Ma esiste un preciso dovere di uno scienziato nel continuare a seguire l’etica della ricerca della
verità, anche se questa non è condivisa dalla maggioranza delle persone.

In fondo non è da molto che la maggioranza si è convinta che la terra non è affatto piatta.

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