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Antonio Felice Uricchio

MANUALE DI
DIRITTO TRIBUTARIO
Cacucci Editore Bari, 2020
INDICE

PARTE PRIMA
I PRINCIPI
CAPITOLO 1 2
CAPITOLO 2 4
CAPITOLO 3 7
CAPITOLO 4 11
CAPITOLO 5 15
CAPITOLO 6 17

PARTE SECONDA
IL SISTEMA DEI TRIBUTI
CAPITOLO 1 21
CAPITOLO 2 24
CAPITOLO 3 26
CAPITOLO 4 30
CAPITOLO 5 32
CAPITOLO 6 34
CAPITOLO 7 37
CAPITOLO 8 40
CAPITOLO 9 43
CAPITOLO 10 52

CAPITOLO 11 57
CAPITOLO 12 62
CAPITOLO 13 64
CAPITOLO 14 70

PARTE TERZA
PROCEDIMENTO, PROCESSO E SANZIONI
CAPITOLO 1 72
CAPITOLO 2 74
CAPITOLO 3 79
CAPITOLO 4 81
CAPITOLO 5 0

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PARTE PRIMA
I PRINCIPI

CAPITOLO 1: IL DIRITTO TRIBUTARIO, LE SUE PARTIZIONI E LE


PROSPETTIVE DI SVILUPPO

1. Le “parole” del diritto tributario


Il significato della parola tributo deriva dal latino “tributum”, inteso nel senso di ‘ripartire fra le tribù’; sin
dalle origini era del tutto chiara la funzione di equo riparto che la contribuzione obbligatoria dei cittadini
allo stato rivestiva, essendo dovuta in rapporto al censo e per tribù. Anche l’espressione ‘fisco’ deriva dal
latino ‘fiscus’, che rappresentava una ‘cesta’ nella quale era possibile raccogliere risorse da destinare alle
finanze dello Stato. La parola ‘finanza’ sembra trovare origine nell’espressione finansa con la quale
venivano identificati i mezzi di carattere patrimoniale, reddituale e creditizio con i quali perseguire i propri
fini, pubblici e privati. Essa peraltro viene adoperata sia con riferimento allo Stato (finanza pubblica) che
a imprese e famiglie (finanza privata), riguardando sia il profilo del reperimento dei mezzi finanziari
(imposizione e debito pubblico per lo Stato), sia quello dell’impiego delle risorse disponibili.

2. Diritto tributario e diritto alla finanza pubblica


Diritto ed economia, quando assumono come oggetto l’attività finanziaria pubblica, perseguono la
comune finalità di analizzare le regole e modalità di utilizzo e prelievo delle risorse pubbliche. L’esigenza
di approccio unitario del fenomeno finanziario è stata largamente avvertita nel corso del passato e
soprattutto è sempre stato un prezioso portato della tradizione della scuola italiana, e in particolare di
quella di Pavia ispirata da Benvenuto Griziotti.

3. Dal diritto tributario nazionale a quello sovranazionale, internazionale e globale


Nel diritto romano, il carattere primigenio dell’ordinamento non consentiva di distinguere l’aspetto
patrimoniale (proprietà) da quello politico (sovranità) anche per il contenuto complesso delle res fiscales
e della proprietà di Cesare, caratterizzata da diritti, poteri.
Attraverso poi la finzione giuridica del dominio eminente, in forza del quale allo Stato veniva attribuito,
accanto al potere sovrano, anche una sorta di diritto reale sul territorio, la tassazione fondiaria, si
atteggiava come una sorta di onere gravante la proprietà a vantaggio dell’intera nazione.
Solo con la formazione degli Stati nazionali, lo schema della sovranità (reale) si sgancia dalla proprietà e,
pur continuando a condividere con essa il carattere dell’esclusività, finisce per assumere un significato più
pieno e nuovo di potere rogatario non derivante da alcun potere superiore. La sovranità statale raccoglie
e assorbe, quindi, il potere impositivo.
In questo contesto, la sovranità impositiva viene gelosamente affermata e difesa dagli Stati nazionali
attraverso l’esercizio esclusivo dei propri poteri, mentre la proprietà riconosciuta e affermata come diritto
pieno e assoluto, diventa il materiale giuridico attorno al quale vengono costruite una serie di figure di
prelievo, come le imposizioni patrimoniali. Elemento centrale diviene il territorio, inteso sia come
elemento costitutivo della sovranità, sia come aspetto necessario della proprietà e quindi requisito
imminente dell’attività impositiva.
Il meccanismo impositivo, non potendo esaurirsi nell’aspetto materiale, considera la situazione dal punto
di vista complessivo, valorizzando elementi di collegamento tra soggetto, manifestazione di ricchezza
(reddito, consumo ecc.) e territorio nazionale (residenza, cittadinanza) a seconda della natura dei tributi
da applicare (reali, personali, sui redditi, sui consumi). S
e nella sua formazione il diritto tributario resta saldamente ancorato al territorio, in una fase successiva,
a seguito dell’intensificarsi delle relazioni tra stati e tra operatori economici, apprezza sempre più la
dimensione internazionale, soprattutto con riguardo alle questioni dei conflitti tra poteri impositivi
statuali. A seguito dell’infittirsi dei rapporti economici internazionali, si sviluppa il diritto tributario
internazionale, configurato soprattutto come diritto della transizione e della negoziazione internazionale.

4. Il diritto tributario regionale e locale


Nell’esperienza del nostro paese si sono alternati modelli di articolazione dei pubblici poteri
profondamente diversi tra loro che hanno riguardato anche l’esercizio del potere impositivo da parte degli
enti territoriali infrastatuali.
Nonostante pulsioni federaliste e qualche suggestione regionalista, l’unificazione attuata nel Risorgimento
è avvenuta, anche per il ruolo forte e propulsivo del Regno Sabaudo, secondo modalità che hanno
privilegiato le ragioni della ricostituzione della sovranità nazionale ispirate dalla legislazione francese,
impedendo il riconoscimento di condizioni di autonomia politica e finanziaria agli entri territoriali o sub
statali. La Costituzione repubblicana del 1948 delineò il modello dello Stato unitario delle autonomie,
attribuendo a ciascuna delle entità contemplate il diritto-potere di autodeterminare le proprie scelte,

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ciascuna secondo le proprie competenze (legislative, amministrative, finanziarie) nel rispetto dei principi
stabilità dalla legge dello Stato.
L’autonomia costituisce il modo di essere del pluralismo istituzionale, realizzando la divisione di poteri e di
funzioni tra i diversi livelli di governo che ne sono titolari in forza di norme superiori di ‘derivazione’ o di
‘attribuzione’.
L’ampiezza di tali poteri e funzioni consente di definire i contenuti dell’autonomia e persino di connotarla,
distinguendola da altri assetti organizzatori dei pubblici poteri, anche a seconda dell’ambito cui si riferisce
(politica, contabile, organizzatoria, amministrativa, tecnica). Attraverso tali previsioni costituzionali,
furono poste le basi per la costruzione del diritto tributario regionale e degli enti locali. Invero, il modello
del centralismo finanziario prescelto con la riforma fiscale (legge 825 del 1971) e con la stessa legge di
avvio delle nuove regioni (legge 281/1970) rese limitati gli spazi dell’autonomia tributaria di Regioni ed
enti territoriali. Dopo vari tentativi di riforma, assetti istituzionali e modelli di finanziamento sono stati
riportati
all’interno del progetto più generale di riforma costituzionale del 2001 con il quale il sistema plurale e
asimmetrico delineato già con la Costituzione repubblicana, è stato affermato con forza valorizzando
l’autonomia finanziaria e tributaria, intesa come diritto fondamentale dei territori.
Il nuovo titolo V approvato nel 2001 ha ridisegnato l’Italia delle autonomie, prevedendo l’equi ordinazione
tra Stato, Regioni, comuni, province e città metropolitane, rafforzando le competenze regionali sia
legislative che amministrative (artt. 117 e 118) e riconoscendo l’autonomia finanziaria di entrata e di
spesa di Regioni ed enti territoriali (art. 119).
L’odierna formulazione dell’art. 119 Cost. riconosce, infatti, l’autonomia dei Comuni, delle Province, delle
Città metropolitane e delle regioni sia in riferimento alle entrate che alle spese stabilendo che il suo
esercizio avvenga “in armonia” con la Costituzione, attraverso l’istituzione ed applicazione di “tributi ed
entrate proprie scendo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.

5. Diritto tributario e sistemi impositivi all’inizio del nuovo millennio


I tributi che oggi assicurano gran parte del gettito (imposta sul reddito delle persone fisiche, imposta sul
valore aggiunto, imposta sul reddito delle società, imposta regionale sulle attività produttive, imposta
comunale sugli immobili) sono stati introdotti da pochi anni (Irpef, Irpeg, iva) a seguito della legge
delega
n.825 del 1971.
Tributi che, invece, hanno rivestito notevole rilevanza nel passato (testatici, focatici) sono scomparsi del
tutto in quanto considerati iniqui, altri tributi sono stati profondamente modificati in conseguenza dei
mutamenti degli assetti economico-sociali.

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CAPITOLO 2: LE FATTISPECIE IMPONIBILI E IL PRINCIPIO DI CAPACITÀ
CONTRIBUTIVA

1. La fattispecie imponibile come situazione fattuale a cui viene collegato il prelievo


Con l’espressione fattispecie imponibile viene designata la situazione fattuale astrattamente prevista dalla
norma fiscale al verificarsi della quale viene collegato il prelievo.
Alcune fattispecie sono piuttosto ricorrenti nei diversi ordinamenti tributari (reddito, patrimonio,
consumo). Invero, la delimitazione delle fattispecie imponibili sia in senso soggettivo che oggettivo
risente inevitabilmente di confronti e conflitti di carattere sociale, politico, ideologico, e culturale oltre che
evidentemente di tensioni, pressioni di carattere economico e ragioni di natura finanziaria.
La dialettica tra poteri dello stato e diritti del cittadino, tra esigenze di redistribuzione della ricchezza e in
più in generale tra autorità e libertà, condiziona inevitabilmente le scelte nella ricerca e nell’individuazione
delle fattispecie imponibili.
Forse ancora più del passato, la profonda crisi in cui si dibattono molti Stati, aggravata dall’emergenza
sanitaria provocata dalla diffusione del virus cinese, induce a prevedere nuove misure di natura
finanziaria (sussidi, aiuti, ecc.) e tributaria tra cui i crediti d’imposta, agevolazioni e quelle di contrasto
all’evasione e all’elusione fiscale.
A questo fine, gli strumenti utilizzabili sono molteplici sia sul fronte delle entrate (tributarie, patrimoniali,
indebitamento), sia su quello della spesa pubblica (sociale, per lo sviluppo, per la sostenibilità ecc.).

2. Il principio di capacità contributiva e l’equo riparto


La selezione delle fattispecie imponibili, sebbene affidata all’apprezzamento politico dell’ente impositore,
non può essere del tutto arbitraria, dovendo sottostare a principi e regole di riparto, condivise e
consacrate in leggi e atti aventi forza di legge (art. 23 Cost.).
I tributi possono essere distinti a seconda dei criteri che ispirano la definizione delle situazioni da
assoggettare a prelievo:
- I tributi di captazione: in cui le finalità di gettito appaiono assorbenti, restando decisiva la scelta
discrezionale dello stato.
- I tributi commutativi e para commutativi: in cui il prelievo viene collegato ad un servizio reso, e
quelli contributivi in cui il prelievo colpisce un fatto economico oppure un fatto o un atto
(amministrativo o giurisdizionale) rivelatore di ricchezza.
Sotto l’influenza della dottrina tedesca (che aveva contribuito alla Costituzione di Weimar del 1919),
anche la dottrina italiana ha avvertito la necessità di un presidio costituzionale però orientare o limitare
l’individuazione delle situazioni di fatto da sottoporre a tassazione.
Nei lavori dell’assemblea costituente furono avanzate diverse opinioni intorno all’opportunità di porre
condizioni di carattere sostanziale al diritto da parte degli enti pubblici al prelevamento delle imposte; vi
era una decisa opposizione all’esplicitazione nel testo costituzionale del principio di capacità contributiva
in quanto formula giudicata inutile poiché immanente nel sistema dei valori costituzionali ed addirittura
insidiosa laddove avesse ingenerato il convincimento che tale potere impositivo potesse essere, imitato,
si sosteneva, infatti, che tale enunciazione fosse superflua, perché il diritto al prelevamento dei tributi
pare ovvio in quanto implicitamente compreso nell’affermazione della supremazia dello Stato.
Nonostante tali obiezioni, il principio di capacità contributiva ha trovato espressa collocazione nella Carta
costituzionale, non solo per assicurare che a situazioni uguali corrispondano tributi uguali, ma soprattutto
per rispondere all’esigenza di esprimere il fondamento, il limite e la misura dell’imposizione.
È stato infatti affermato che ‘ogni prelievo tributario deve avere causa giustificatrice in indici
concretamente rilevatori di ricchezza’. La Corte costituzionale ha collegato la capacità contributiva,
all’effettiva idoneità del soggetto al prelievo in forza di indici concretamente rivelatori di ricchezza. La
capacità contributiva, fungendo da criterio selettivo per la scelta della fattispecie imponibile, sia in senso
soggettivo che oggettivo, deve essere ricercata tra le inequivoche manifestazioni di ricchezza.
È di tutta evidenza che, se l’art. 53 Cost. esprime il nesso fra fattispecie e soggettività, non vi può essere
obbligo di contribuzione se la fattispecie riferibile al soggetto obbligato non esprima capacità contributiva;
se questa sussiste, il concorso dovrà variare in ragione di essa, tanto maggiore è la capacità, tanto più
elevato è il tributo che a tale soggetto può e deve essere richiesto; non è consentito richiedere al
soggetto un concorso alle spese pubbliche superiore a quella che è la capacità contributiva. Se, la un lato,
non possono ammettersi tributi confiscatori, non è nemmeno possibile sottoporre a tassazione il c.d.
minimo vitale, inteso come il limite minimo al di sotto del quale il prelievo colpirebbe qualche parte di
ricchezza destinata al soddisfacimento dei più elementari bisogni della vita, dovendo comunque essere
impedito che l’applicazione del tributo pregiudichi il diritto a una vita libera e dignitosa.
Nel determinare le fattispecie imponibili, il legislatore, oltre che agli indici che si atteggiano come
rivelatori di ricchezza, quali il reddito, il consumo patrimonio, incrementi patrimoniali, atti di scambio ecc.
può sottoporre a tassazione qualsiasi fatto a contenuto economico da cui sia razionalmente deducibile
l’idoneità soggettiva dell’obbligazione di imposta.
Secondo la Corte costituzionale, la capacità contributiva, quale idoneità all’obbligazione di imposta, va

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ravvisata in qualsiasi indice rilevatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il
controllo di costituzionalità sotto il profilo della arbitrarietà ed irrazionalità.
Fermo restando il criterio della ragionevolezza, va comunque richiamato il limite dell’eguaglianza, non
potendo situazioni eguali ricevere in trattamento differenziato. Sotto un profilo più ampio, la ricerca di
nuove fattispecie imponibili e di nuovi criteri di tassazione non solo non può essere arbitraria, ma deve
riflettere il criterio di idoneità alla contribuzione della fattispecie e del soggetto obbligato in funzione di
situazioni economicamente apprezzabili.
È di tutta evidenza che manifestazioni di ricchezza del tutto nuove rispetto a quelle tradizionalmente
assoggettate a tassazione ad offerte dalla new economy possono essere assunte come fattispecie
imponibili di nuove forme di prelievo, sia pure nel rispetto dei fondamentali principi di ragionevolezza e di
giusto riaperto che proprio dal principio di capacità contributiva discendono.

3. Il principio di ragionevolezza nell’esercizio della potestà di imposizione


L’espressione ‘ragionevolezza’ è entrata ormai da decenni nella giurisprudenza costituzionale italiana,
costituendo lo strumento che permette di valutare la coerenza tra astratte prescrizioni normative di rango
costituzionale e fattispecie disegnate dalle norme legislative che le assoggettano a tassazione.
Il sindacato attraverso il criterio di ragionevolezza diviene così lo strumento per attuare la mediazione e il
bilanciamento tra interesse al finanziamento della spesa pubblica e tutela dell’interesse dei singoli alla
salvaguardia della propria sfera economica. Non si può peraltro dimenticare che la stessa Corte
costituzionale ha rilevato che le leggi d’imposta smarriscono il sentiero della ragionevolezza nel momento
in cui si verifica uno scollamento tra fattispecie impositiva e capacità contributiva. Va comunque
sottolineato che la ragionevolezza delle scelte impositive non può essere disgiunta dalla stessa ragione
del prelievo che è e resta quella di assicurare il finanziamento della spesa pubblica, offrendo servizi
pubblici all’intera collettività, secondo standard qualitativi idonei al soddisfacimento dei bisogni e dei
diritti essenziali, redistribuendo la ricchezza, dando attuazione ai principi di solidarietà, di sussidiarietà e
di eguaglianza sostanziale. Sempre attuale sul punto è il pensiero di Luigi Einaudi secondo cui: ”gli uomini
vogliono istintivamente rendersi ragione del perché pagano; e se quella ragione non è spiegata
chiaramente, gridano all’ingiustizia”.
Meritano di essere poi richiamati i tributi cosiddetti di scopo (imposte di soggiorno o imposte sui cibi
dannosi), largamente utilizzati da altri Paesi. Tale categoria richiama peraltro la distinzione elaborata
dalla dottrina tedesca tra tributi causali, sorretti dal principio di capacità contributiva e tributi casuali che,
si caratterizzano anche per uno specifico beneficio o destinazione dell’entrata acquisita.
Per tale tipologia di tributi, la relazione del contribuente può consistere nella rimozione del tributo
conseguente alla correzione dei propri modelli comportamentali e, in tal caso, non verificandosi la
fattispecie, il tributo non può essere più prelevato.

4. Le fattispecie tributarie: possibili classificazioni


Con l’espressione fattispecie imponibili si intende la situazione fattuale al verificarsi della quale la norma
fiscale collega il prelievo. Secondo la dottrina tradizionale italiana (Giannini), fortemente influenzata da
quella tedesca (Hensel), il debito d’imposta nasce, infatti, ‘nel momento in cui si verifica quella particolare
situazione di fatto alla quale la legge ricollega ogni singola imposta e che viene genericamente indicata
come presupposto del tributo’.
Altra dottrina preferite porre in primi piano il principio di capacità contributiva, svalutando il concetto di
fattispecie tributaria ovvero contrapponendo ad essa, quale fonte dell’obbligazione tributaria, altre
categorie quali l’atto di accertamento, il ruolo ovvero il procedimento impositivo.
Maggiore rilevanza assume la distinzione, pure formulata dalla dottrina, tra fattispecie tributarie a
struttura chiusa e fattispecie tributarie a struttura aperta, in larga parte corrispondente a quella tra tributi
istantanei e tributi periodici. Le prime sono definite dal legislatore assumendo situazioni fattuali
temporalmente definite le quali si esauriscono nello stesso momento in cui si verificano, restando
irrilevanti tutte le circostanze fattuali che intervengono successivamente; le seconde assumono situazioni
in relazione ad un arco temporale nel corso del quale gli elementi che le compongono si producono,
concorrendo alla determinazione della loro dimensione quantitativa.
Possono essere richiamate quali fattispecie a struttura chiusa quelle assoggettate ad imposte di registro o
di bollo in cui l’atto giuridico deve essere assunto nel momento della sua formazione, non potendo la base
imponibile essere influenzata da incrementi o riduzione del valore del bene o diritto trasferito verificatisi
successivamente; tra le seconde quelle assoggettate ad imposte sul reddito o all’imposta sul valore
aggiunto (tributi periodici) in cui la fattispecie si forma nel periodo d’imposta e risente di vicende
intervenute nel corso dello stesso.
Si definiscono fattispecie a formazione progressiva quelle nelle quali la fattispecie è composta da più
elementi, alcuni di essi possono verificarsi per gradi e nel tempo. Le fattispecie sovrapposte che si
verificano quando la fattispecie imponibile viene adoperata come fattispecie di un tributo aggiuntivo, e le
fattispecie alternative che si configurano quando il legislatore definisce due o più fattispecie, accomunate
da uno o da più elementi, prevedendo, tuttavia, l’applicazione di un solo tributo.

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5. La fattispecie in senso soggettivo

A. La soggettività tributaria
Il rapporto d’imposta presuppone necessariamente l’esistenza di almeno due soggetti: il soggetto attivo,
cui la legge attribuisce determinati diritti o poteri, tra i quali quello di esigere la prestazione tributaria,
anche attraverso strumenti autoritativi; l’altro, sul soggetto passivo, cui la legge impone determinati
obblighi, sia di natura formale che sostanziale, tra i quali quello di adempiere la prestazione e di
rappresentare la fattispecie attraverso la dichiarazione e tributaria e altri strumenti di rilevazione
contabile. Ciò determina la naturale conseguenza dell’individuazione del soggetto attivo come creditore e
del soggetto passivo come debitore.
Dubbi sono emersi con riguardo al rapporto tra soggettività tributaria e capacità giuridica di diritto
privato. La questione, ampiamente dibattuta dalla dottrina, può trovare una più rigorosa soluzione con
riferimento all’art. 53 Cost.
In base al quale ‘tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva’.
All’opposto, la Carta repubblicana porta ad escludere che il termine tutti, contenuto nell’art. 53, possa
essere riferito in modo esclusivo alle persone fisiche. A conforto, va richiamata la normativa vigente:
l’art. 73 T.U.I.R stabilisce che tra i soggetti passivi dell’IRES (imposta sul reddito delle società) sono
compresi ‘oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, i consorzi e le altre organizzazioni
non appartenenti ad altri soggetti passivi nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifichi in
modo unitario ed autonomo’.

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B. La parasoggettività tributaria: sostituito e responsabile d’imposta
Il rapporto d’imposta, sebbene riguardi naturalmente un soggetto attivo (ente impositore) e un soggetto
passivo (contribuente- debitore), può coinvolgere anche soggetti terzi che a diverso titolo vengono in
contatto con la fattispecie.
L’espressione, adoperata per definire tali situazioni ‘parasoggettività tributaria’, esprime l’idea di una
soggettività impropria sotto certi aspetti similare a quella del contribuente in senso proprio.
Elemento differenziale, resta la manifestazione di capacità contributiva, riconducibile in modo diretto al
solo
soggetto passivo. Tra le diverse figure di parasoggettività, la più significativa è certamente la sostituzione
d’imposta nella quale un soggetto, in forza di disposizioni di legge, è obbligato al pagamento di imposte in
luogo d’altri, per fatti o situazioni a questi riferibili e all’esercizio della rivalsa, se non è diversamente
stabilito. Spesso confuso tra i soggetti passivi del rapporto giuridico d’imposta e considerato il debitore
del tributo, sostituto è chiamato a versare le ritenute in relazione ad un proprio obbligo, ma per fatti e
situazioni
riferibili ad un altro soggetto, il sostituito, che è e resta il vero e proprio contribuente. L’aderenza tra
fattispecie e capacità contributiva viene ristabilita attraverso la previsione dell’obbligo di rivalsa che il
sostituito ha l’obbligo di esercitare nei confronti del sostituito. Va poi considerato che, per le ritenute a
titolo d’acconto, il versamento da parte del sostituito non estingue il debito d’imposta, in quanto, anche
nel caso in cui la ritenuta corrisponda all’imposta dovuta dal contribuente, occorre che il periodo di
imposta si compia per determinare l’effetto satisfattivo; si deve, poi, aggiungere che tale effetto solo
raramente si produce in modo automatico, essendo, di regola, richiesta una formalità ulteriore, costituita
dalla compilazione e della trasmissione dell’ente impositore della dichiarazione dei redditi.

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CAPITOLO 3: ENTRATE PUBBLICHE, TRIBUTI E PRESTAZIONI PATRIMONIALI
IMPOSTE

1. La rappresentazione di entrate e spese pubbliche nel bilancio dello Stato


L’attività finanziaria pubblica consiste nel reperimento e nella destinazione di risorse finanziarie per il
perseguimento di fini pubblici. Al suo interno, fondamentale rilievo assume il bilancio quale strumento
giuridico contabile con il quale autorizzare l’acquisizione delle entrate e l’erogazione delle spese da parte
dello Stato.
La stretta correlazione tra entrare e spese pubbliche emerge appieno nell’art. 81 Cost. che disciplina la
formazione e gli affetti del bilancio dello Stato. Approvato dal Parlamento con legge ordinaria, il bilancio
esprime la rappresentazione contabile degli assetti economico finanziari predisposta dal Governo, in
forma di previsione (bilancio preventivo) o di risultato (rendiconto) con riguardo ad un determinato
periodo, denominato esercizio finanziario. Il bilancio ha anche un valore politico-gestionale, consentendo
agli elettori di avere conoscenza, consapevolezza e controllo delle scelte in materia finanziaria (principio
di responsabilità) e al decisore politico di programmare e valutare nel tempo le scelte da adottare anche
nel futuro (in particolare la c.d. manovra finanziaria con il bilancio pluriennale). Secondo la legge di
contabilità n.196 nel 2009, notificata dalla legge n.163 del 2016, nel bilancio dello Stato sono collocate
entrate e spese, classificate secondo criteri che ne valorizzano la natura, l’origine, la funzione.

In particolare, le entrate dello Stato sono ripartite in:


a. Titoli, a seconda che siano di natura tributaria, extratributaria o che provengano dall’alienazione e
dall’ammortamento di beni patrimoniali, dalla riscossione di crediti o dall’accensione di prestiti.
b. Ricorrenti e non ricorrenti, a seconda che si riferiscano a proventi la cui acquisizione sia prevista a
regime ovvero limitata ad uno o più esercizi.
c. Tipologie, ai fini dell’approvazione parlamentare e dell’accertamento dei cespiti.
d. Categorie, secondo la natura dei cespiti.
e. Unità elementari di bilancio, ai fini della gestione e della rendicontazione.

Le spese dello Stato sono, invece, ripartite in:


a. Missioni, come definite dall’art. 21 comma 2.
b. Programmi, ai fini dell’approvazione parlamentare.
c. Unità elementari di bilancio, ai fini della gestione e della rendicontazione.
Largamente diffusa, soprattutto nel passato, è stata la distinzione tra entrare iure imperii, ottenute
attraverso l’esercizio della potestà d’imperio e iure privatorum, ottenute nell’esercizio di attività negoziali
di natura privatistica.
Nel tempo, essa è poi sfociata in quella tra entrate di diritto privato ed entrate di diritto pubblico, le prime
sono dovute in base ad un atto di autonomia negoziale privata (locazione, trasporto ecc.), le seconde in
base all’esercizio di un potere coattivo da parte dello Stato e degli enti pubblici.
Va poi richiamata quella tra entrate originarie e derivate: le prime, derivanti dal godimento o dalla
cessione dei beni pubblici, patrimoniali o demaniali, ovvero dall’esercizio di attività economiche da parte
della Pubblica Amministrazione, le seconde prelevate da soggetti esterni alla P.A attraverso l’esercizio del
potere impositivo ovvero attraverso l’indebitamento (emissione dei titoli del debito pubblico o prestiti
forzosi).

2. La nozione di prestazioni patrimoniali imposte


Nella prospettiva giuridica, maggiore rilevanza assume la distinzione tra entrate tributarie ed entrate
extratributarie, incentrata sulla nozione di tributo, ovvero tra prestazioni patrimoniali imposte e
prestazioni patrimoniali non imposte che muove dal disposto di cui all’art. 23 Cost.
Invero, la categoria giuridica delle prestazioni dei privati alle pubbliche amministrazioni viene costruita
attraverso due requisiti fondamentali: la giuridicità dell’obbligo di eseguire la prestazione, posto a carico
del privato, e la mancanza di un preesistente rapporto al quale l’obbligo possa essere riferito.
Va evidenziato che la locuzione ‘prestazioni imposte’ si riferisce, oltre che ai tributi, a qualsiasi
prestazione personale o patrimoniale anche di natura non tributaria, purché pretesa in modo autoritario,
con l’effetto di comprimere l’autonomia negoziale privata e di dar luogo a una limitazione patrimoniale del
privato.
Come più volte evidenziato in materia da dottrina e giurisprudenza, la qualificazione giuridica delle
diverse prestazioni patrimoniali imposte deve essere condotta movendo dall’esame complessivo della
normativa. Ai fini di un corretto inquadramento della questione, occorre quindi analizzare la ‘causa’ che
ne giustifica la debenza e l’assetto ‘coattivo’ o non coattivo all’interno del quale la prestazione si
inserisce.
Ulteriore requisito è il carattere coattivo della prestazione come conseguenza della limitazione
dell’autonomia privata che subisce il soggetto debitore nel momento in cui sorge l’obbligazione.
Da quanto osservato discende che, all’interno della sfera applicativa dell’art. 23 Cost, oltre ai tributi che
hanno natura di obbligazioni ex lege e sempre incidono sulla sfera patrimoniale privata, vi sono
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prestazioni richieste per l’erogazione di servizi pubblici (sia da parte di autorità pubbliche, sia da parte di
enti economici o persino da privati concessionari del servizio) che si colcano all’interno di assetti di tipo
vincolato (anche negoziale) e che comportano comunque una limitazione della sfera economica privata.
Rientrano, infine, nella nozione di prestazioni patrimoniali imposte, sia gli atti di acquisizione di beni
temporanei (sequestri o requisizioni) o definitivi (esproprio o confische). Vanno invece escluse quelle che
non incidono sulla sfera patrimoniale privata e che quindi difettano dal requisito della patrimonialità.

3. La nozione di tributo
Sebbene l’art. 23 Cost abbia sostituito l’espressione ‘tributo’ contenuta nello Statuto Albertino con quella
più ampia di prestazione imposta, si rende comunque necessario esprimere una definizione di tale
concetto anche in considerazione del suo utilizzo ad altri fini (processo, sanzioni, privilegi, prescrizione,
accertamento, riscossione ecc.).
Per poter risalire alla natura della prestazione, particolare rilevanza assumono la verifica della fonte
dell’obbligazione e/o l’assetto giuridico all’interno del quale si collocano gli effetti nel rapporto tra le parti.
Invero, la mancanza di ‘autonomia contrattuale’ appare centrale, dovendo escludersi il carattere
tributario della prestazione qualora fonte dell’obbligazione sia la volontà negoziale delle parti (contratto).
La natura tributaria può farsi discendere della non configurabilità di un rapporto sinallagmatico tra le parti
e nel collegamento della prestazione al finanziamento della spesa pubblica in relazione a un presupposto
economicamente rilevante.
Elementi essenziali per poter riconoscere un tributo sono, quindi, la doverosità della prestazione, intesa
come prevalenza dell’obbligatorietà ex lege, il collegamento con la spesa pubblica, la decurtazione della
sfera patrimoniale privata. Può invece atteggiarsi diversamente la fattispecie in relazione alla quale si
rende dovuto il prelievo, potendo consistere in una manifestazione di capacità contributiva o nell’accesso
e nel godimento di un servizio pubblico, richiesto o offerto.
E proprio nel diverso modo di configurare la fattispecie che si fonda la distinzione tra le diverse tipologie
di tributo: le imposte, le tasse e i contributi. In questo senso, si veda la sentenza della Corte
costituzionale n. 304/2013, secondo la quale ‘gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre:
la disciplina legale che deve essere diretta a procurare una decurtazione patrimoniale a carico del
soggetto passivo, le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla
suddetta decurtazione, devono essere destinante a sovvenire alle pubbliche spese’.
Appare di tutta evidenza che sia i tributi che le altre entrate di natura non tributaria (prestazioni,
imposte, entrate patrimoniali, debito pubblico, ecc.) possono essere destinate alla copertura in tutto o in
parte del costo dell’attività finanziaria pubblica.

4. L’imposta e il finanziamento delle spese pubbliche secondo capacità contributiva


L’entrata pubblica più cospicua è rappresentata dall’imposta che la dottrina tradizionale configura come
‘la prestazione pecuniaria che n ente pubblico ha diritto di esigere in virtù della sua potestà d’imperio,
originaria o derivata, nei casi, nella misura e nei modi stabiliti dalla legge, allo scopo di conseguire
un’entrata’.
L’apprezzamento della fattispecie in termini di capacità contributiva costituisce elemento proprio e
identificativo dell’imposta. Come è noto, l’art. 53 della Carta repubblicana ha sancito l’obbligo di tutti di
‘concorrere alle spese pubbliche’ secondo ‘capacità contributiva’ vale a dire secondo un modello di riparto
dei carichi pubblici che risponda a criteri di ragionevolezza ed equità. Si può pertanto ritenere che
l’imposta costituisca una obligatio ex lege che si applica in relazione ad una manifestazione di capacità
contributiva che riguarda il soggetto obbligato.
La norma costituzionale peraltro riferisce il dovere contributivo a ‘tutti’, vale a dire a qualunque soggetto,
ovvero ad altre entità identificate dal legislatore a cui possa essere riferita la capacità contributiva.
Ciò induce a ritenere che la capacità contributiva assuma la funzione di nesso fra la soggettività giuridica
e il particolare obbligo alla contribuzione, divenendone parte essenziale. Essa inoltre rileva anche sotto il
profilo della sua realità, nel senso che essa deve fare riferimento a situazioni giuridiche attuali, anche
nell’ipotesi in cui la fattispecie sia verificata in un periodo d’imposta precedente, inoltre, occorre che
l’imposizione si fondi su circostanze effettive e non già astratte o meramente ipotetiche. Va evidenziato
come nell’immaginario comune le imposte sono percepite come una decurtazione della ricchezza dovuta
in forza della sovranità fiscale dello stato.
La dimensione del sacrificio e la coattività del prelievo tondono quindi a prevalere rispetto alla
destinazione del gettito (finanziamento della spesa pubblica), restando poco percepito il fine etico e
ridistribuivo del prelievo.

5. Gli elementi fondamentali dell’imposta. Il principio di progressività di cui all’art.


53, secondo comma
Considerando gli elementi di carattere strutturale che caratterizzano le imposte, su un piano generale,
possono essere richiamati:
- I soggetti attivi, intendendo con tale espressione i soggetti abilitati a pretendere la prestazione,
assumendo la qualità di creditori dell’obbligazione tributaria. Possono essere soggetti attivi lo

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Stato, le Regioni e gli enti locali territoriali, sono ugualmente abilitati ad applicare tributi anche gli
altri enti (pubblici non territoriali come ad es. le Camere di Commercio).
- I soggetti passivi, intendendo con tale espressione i soggetti tenuti a adempiere la prestazione
tributaria in relazione ad una manifestazione di capacità contributiva che li riguardi. Possono
assumere tale qualità le persone fisiche, i soggetti residenti e i soggetti non residenti, le persone
giuridiche sia pubbliche che private.
- La fattispecie imponibile, intesa come situazione di fatto o di carattere giuridico alla quale la
legge ricollega l’imposta.
- La base imponibile, rappresentata dalla misura in senso quantitativo della fattispecie alla quale
deve essere applicata l’imposta.
- Il tasso o aliquota, che, a sua volta, esprime il rapporto tra la base imponibile e la prestazione
dovuta dal soggetto obbligato.
Considerata la molteplicità delle forme di prelievo, possiamo distinguere, in primo luogo, le imposte
dirette e le imposte indirette, le prime (ID) colpiscono il reddito oppure il patrimonio e le seconde (II)
compiscono singoli atti di consumo o di scambio.
All’interno delle imposte sui redditi si delinea la distinzione fra imposte reali e imposte personali. Le prime
(IR) tengono conto della fattispecie tributaria nella sua oggettività, le seconde (IP) invece, integrano il
riferimento alla fattispecie imponibile (generalmente il reddito) con una serie di situazioni, alcune
personali, altre economiche che consentono la formazione di nuove e più complesse fattispecie imponibili.
Va, poi, ricordata la distinzione fra imposte proporzionali e imposte progressive. Le prime (I.PROP)
variano in misura costante in ragione della base imponibile, le seconde (I.PROG) aumentano in misura
più accentuata, rispetto all’incremento della base imponibile, per effetto della maggiorazione del tasso.
Possono esservi anche imposte graduali, con riguardo alle quali la progressione cresce, non in modo
uniforme, ma a scatti.
In proposito, è utile ricordare che l’art. 53 Cost. dopo aver enunciato nel primo comma, il dovere di
ciascuno di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, pone, al
secondo comma, la regola secondo cui il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente, l’inserimento di tale principio fu condiviso, al fine di
contemperare efficacemente i principi di uguaglianza e libertà.
In forza di tale principio il legislatore è chiamato a imprimere al sistema tributario nel suo complesso uno
sviluppo orientato nella direzione della progressività, individuandone le modalità attuative. La
progressività, come sostenuto dalla Corte costituzionale, va intesa ‘come svolgimento ulteriore, nello
specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli
economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di
solidarietà politica, economica e sociale.

6. La tassa
La nozione di tassa i colloca tra l’imposta e le prestazioni patrimoniali non aventi natura tributaria
(corrispettivi di diritto privato, obbligazioni di natura risarcitoria ecc.).
Sul piano giuridico, la tassa può essere configurata come una prestazione obbligatoria pagata allo Stato
in relazione ad un servizio pubblico che riguarda direttamente il soggetto obbligato.
Confrontando la tassa con l’imposta si può rilevare come entrambe abbiano la medesima struttura
giudica, dando vita ad una obligatio ex lege, la quale sorge non appena si verifica la situazione di fatto a
cui la legge la ricollega ed avendo per oggetto la prestazione di una somma di denaro nella misura
inderogabilmente fissata dalla legge stessa. Differente è, tuttavia, il presupposto dei due tributi:
‘l’imposta si ricollega ad una situazione di fatto che, intanto forma oggetto di imposizione, in quanto è
considerata manifestazione, diretta o indiretta, d’una certa capacità contributiva, una situazione, perciò,
che tocca esclusivamente la persona dell’obbligato e la sfera della sua attività; mentre il presupposto
della tassa consiste in una situazione di fatto che determina o necessariamente si riannoda
all’esplicazione di un’attività dell’ente pubblico nei riguardi dell’obbligato’.
La stessa consiste in una prestazione obbligatoria pagata allo stato da chi si trova in una situazione di
fatto che consiste nel richiedere o trarre vantaggio dall’esplicazione di un’attività economica o giuridica.
Per quanto riconducibili alla categoria dei tributi e incidenti sulla sfera economica del destinatario, tasse e
imposte non si sovrappongono, restando le prime sorrette dal principio del beneficio e le seconde dalla
capacità contributiva.
Si rende possibile distinguere le tasse fisse e le tasse variabili, a loro volta classificabili in proporzionali,
progressive e scalari, a seconda che il loro ammontare complessivo cresca proporzionalmente, più che
proporzionalmente o secondo una data scala con l’aumentare del numero delle unità del servizio
consumate.
A seconda dei casi, il legislatore può valorizzare situazioni rivelatrici di ricchezza (ad es. i parametri ISEE)
ovvero tenere conto dell’incidenza del costo del servizio anche in relazione a categorie di utenti. A questo
riguardo il legislatore può prevedere il principio dell’integrale copertura del costo del servizio.
Sul piano classificatorio, può essere utile menzionare le tasse c.d. industriali, dovute a fronte di attività
economiche della Pubblica amministrazione, tasse giudico amministrative tasse giudiziarie, tasse a fronte
di servizi culturali e di istruzione.

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7. Il contributo fiscale
Il contributo fiscale costituisce una prestazione di natura tributaria dovuta in relazione ad un servizio
pubblico che, sebbene non richiesto, ridonda a vantaggio del soggetto obbligato.
Affinità possono poi intravedersi tra imposte di scopo e contributi in considerazione del vantaggio che il
contribuente potrebbe trarre dall’attività amministrativa. Ciò nonostante, è opportuno distinguere le due
prestazioni imposte in natura tributaria in quanto mentre la prima colpisce un indice di capacità
contributiva, indipendentemente dal vantaggio conseguito dal contribuente, il secondo ha come
presupposto l’arricchimento che un soggetto trae da un’azione amministrativa destinata all’intera
collettività.

8. Il monopolio fiscale
Il monopolio fiscale costituisce un’entrata prelevata a seguito dell’avocazione da parte dello Stato della
produzione di un determinato bene oppure dell’erogazione di un particolare servizio e la fissazione
unilaterale del prezzo di venire del bene.

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CAPITOLO 4: LE FONTI DEL DIRITTO TRIBUTARIO E IL PRINCIPIO DI
LEGALITÀ DELL’IMPOSIZIONE

1. Riserva ‘relativa’ di legge e pluralismo delle fonti del diritto tributario


Il principio di legalità dell’imposizione attraversa la storia per essere consegnato alle costituzioni
ottocentesche dove viene coniugato alla sovranità degli Stati nazionali e ricondotto al principio della
divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario). Il principio trova collocazione per la prima volta
nel diritto positivo continentale con la Costituzione francese del 1789 ove viene riconosciuta l’inviolabilità
del diritto al consenso all’imposizione dei carichi pubblici, quale garanzia della libertà personale e
patrimoniale. Esso compare nell’art. 30 dello Statuto Albertino del 1848 in base al quale:” nessun tributo
piò essere imposto e riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal re”, per poi trovare
spazio nelle Costituzioni della quasi totalità degli Stati del mondo. A differenza dello Statuto Albertino, la
Carta repubblicana nell’art. 23 estende la sfera applicativa del principio non solo a qualunque tributo, ma
a tutte le prestazioni imposte di natura patrimoniale e personale, prevedendo testualmente:” nessuna
prestazione personale e patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. La norma affida a
previsioni normative di rango legislativo la definizione degli elementi tipizzanti della prestazione imposta
(soggetti, fattispecie, base imponibile, criterio di determinazione dell’entità del prelievo). La legge non è
l’unica fonte del diritto tributario, in quanto la norma istitutiva del prelievo non deve esaurire
necessariamente l’intera disciplina della materia, putendo demandare ad altri livelli normativi
l’integrazione dell’aspetto delle singole situazioni tributarie.
L’art. 23 Cost. Stabilisce infatti il principio della riserva di legge non in modo assoluto ma relativo. Il
tratto caratterizzante non è, quindi, nella possibilità che il quadro normativo primario venga completato
da disposizioni emanate da fonti gerarchicamente inferiori.

2. I decreti legislativi e i decreti-legge


La Carta costituzionale, dopo aver fissato i limiti e i modi entro i quali l’esercizio della funzione legislativa
viene delegata al Governo, dispone che questo “non può, senza delegazione delle Camere, emanare
decreti che abbiano valore di legge ordinaria” (art. 77 cost.).
La stessa norma aggiunge che “quando, in casi straordinari di necessità e urgenza, il Governo adotta,
sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli
per la
conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro
cinque giorni”. I decreti relativi “perdono efficacia fin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro 60
giorni dopo la loro pubblicazione”, mentre le Camere possono “regolare con legge i rapporti sorti sulla
base dei decreti non convertiti”.
Il diritto tributario costituisce uno dei settori nei quali gli istituti della decretazione legislativa e di quella
di urgenza hanno avuto più ampia diffusione ed incontrato, tuttavia, maggiori resistenza. In materia
tributaria, le principali riforme sono state attuate attraverso lo strumento della delega legislativa. Pur non
mancando motivi che ne giustificano il ricorso, la frequenza dell’impiego dei decreti-legge e le
conseguenze della loro reiterazione ovvero della loro mancata conversione determinano problemi
complessi non sempre facilmente risolubili, per l’incertezza che accompagna la fase successiva della
conversione o della mancata conversione dei singoli decreti e per la necessità di verificare i requisiti di
necessità e di urgenza previsti dalla Costituzione
La Corte costituzionale, pertanto, ha censurato l’abuso del decreto-legge in materia tributaria,
dichiarando l’illegittimità della reiterazione dei decreti-legge non convertiti e stabilendo che la mancanza
dei presupposti legittimanti il ricorso, vizia anche la legge di conversione.
L’art. 4 dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/2000) vieta l’adozione di decreti-legge che
istituiscano nuovi tributi o estendano l’ambito soggettivo di applicazione di quelli esistenti. Ciò
nonostante, deve ritenersi che la decretazione legislativa possa essere esercitata nel rispetto delle
condizioni poste sulla base dell’art. 76 della Cost., vale a dire di una legge delega approvata dal
Parlamento e che rechi i principi e i criteri direttivi, che definisca l’oggetto e che ponga un termine entro
cui la delega dee essere eseguita. La Corte costituzionale ha altresì riconosciuto costituzionalmente
legittima “l’attuazione solo parziale della delega, da tale circostanza potendo semmai derivare una
responsabilità politica del Governo verso il Parlamento quando la delega abbia carattere imperativo, ma
non anche la illegittimità costituzionale delle norme frattanto emanate, sempre che, per il loro contenuto,
non siano tali da porsi in contrasto con i principi e i fini della legge di delegazione”.

3. Le leggi regionali
La funzione legislativa, oltre che allo Stato, spetta anche alle Regioni, le quali sono chiamate ad
esercitarla nel rispetto di quanto sancito dal titolo V della Carta costituzionale.
Nella formulazione originaria del 1948, l’art. 119 Cost. Stabiliva che “le Regioni hanno autonomia
finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti dalle leggi della Repubblica, che la coordina con la finanza dello
Stato, delle Province e dei Comuni”. La potestà normativa delle regioni e degli altri enti locali in materia
tributaria trova nella riforma costituzionale nel 2001 un espresso riconoscimento anche alla luce dei

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criteri di riparto della funzione legislativa stabiliti dall’art. 117 Cost (che comprende tra le materie
riservate alla legislazione esclusiva dello stato, il ‘sistema tributario e contabile dello Stato e ‘la
perequazione delle risorse finanziarie’ e tra quelle di legislazione regionale concorrente ‘il coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario’) e soprattutto dalla nuova formulazione dell’art. 119 che
attribuisce alle Regioni, ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane “autonomia finanziaria di
entrata e di spesa”. In base alla stessa disposizione, le Regioni e gli altri enti territoriali ‘stabiliscono e
applicano tributi ed entrate proprie, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario’. La riforma del titolo V della Costituzione nel riferire
l’autonomia finanziaria, sia all’acquisizione delle risorse finanziarie, sia all’erogazione della spesa, segna
un sensibile rafforzamento dell’autonomia riconosciuta alle Regioni e agli altri enti territoriali.
A conforto può essere invocata l’eliminazione del richiamo alle ‘forme e ai limiti stabiliti dalla legge’ entro
cui l’autonomia finanziaria regionale poteva essere esercitata.
Ciò, peraltro, si pone in linea con il superamento della configurazione del rapporto tra Stato, regioni ed
enti locali in senso gerarchico e con l’affermazione del principio di equa ordinazione.
Dagli artt. 117 e 119 della Costituzione discende che compete alle Regioni una potestà legislativa di tipo
concorrente nell’ambito della quale possono essere adottate disposizioni attuative delle leggi statuali
ovvero istitutive di tributi ‘propri’ nel rispetto delle regole espresse dalla legge dello Stato e del principio
della necessaria relazione della fattispecie soggetta a tassazione con gli interessi sottesi alle materie di
competenza (principio di continenza).
L’ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia sono tutte
quelle che l’art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente e alcune riservate
dalla stessa norma alla competenza legislativa esclusiva dello Stato quali organizzazione della
giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Tra le materie concorrenti, alcune non possono essere integralmente trasferite alle Regioni quali in
particolare ‘il coordinamento della finanza pubblica’, per espressa disposizione dell’art. 119 Cost.

4. La potestà regolamentare degli enti pubblici


La potestà regolamentare degli enti locali in materia tributaria è stata notevolmente ridotta dalla legge
delega n.825 del 1971. Il potere regolamentare degli enti locali ha avuto comunque particolare
espansione a seguito dell’art. 52 d.lgs. n.446, che, nell’intento di ampliare gli spazi di autonomia degli
enti locali, consente a Comuni e Province di disciplinare, con regolamenti, le proprie entrate, anche
tributarie. La garanzia costituzionale dell’autonomia finanziaria dei Comuni e delle Province, sancita
dall’art. 119, primo comma, modificato dall’art. 5 della l. Cost. n. 3/2001, valorizza fortemente il potere
regolamentare degli enti locali. Sebbene il secondo comma dell’art. 119 attribuisca a tali Enti il potere di
‘stabilire’ e ‘applicare’ tributi, il potere normativo ivi previsto non comprende l’istituzione dei tributi
propri, in considerazione dei limiti dati dal principio di legalità dell’imposizione, oltre che dai ‘principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario’.

5. Direttive e circolari amministrative


Sebbene sotto certi aspetti affini ai regolamenti, le circolari amministrative trovano largo impiego in
materia tributaria. Per quanto riguarda l’efficacia, la dottrina inquadra le circolari fra le ‘norme interne’
all’amministrazione.
Trattandosi di un ‘documento contenente un’enunciazione discorsiva’ comunicata da un ufficio ad altri
uffici, è pacifico che la circolare sia vincolante sia per l’ufficio che emana che per gli uffici ai quali è
diretta. L’attuale articolazione dell’amministrazione finanziaria in agenzie fiscali, uffici fiscali e periferici,
comporta l’esigenza di assicurare, mediante istruzioni dettagliate, l’uniforme applicazione delle norme,
spesso d’incerto significato, da parte di funzionari, a volte sforniti di adeguata preparazione tecnico-
giuridica e operanti su tutto il territorio nazionale.
Per raggiungere risultati utili sembra opportuno indicare il contenuto delle circolari. Il primo tipo di
circolare può avere carattere organizzatorio, riguardando l’attività interna degli uffici, anche se, a volte,
con effetti esterni destinati a riflettersi sui contribuenti. In altri casi, le circolari contengono
l’interpretazione di alcune norme e le direttive per la loro attuazione. Con riguardo a queste ultime è
stato sollevato il problema della loro efficacia onde stabilire se, ed in quale misura, esse siano vincolanti
per i terzi estranei all’amministrazione finanziaria.
Esaminando la questione, non è possibile trascurare un elemento: e cioè che, se il corpo delle circolare è
così impostante per il diritto tributario, ciò può dipendere senza dubbio dalla volontà dell’amministrazione
centrale di offrire ai destinatari indirizzi interpretativi in modo da promuovere la compliance, ciò è
comunque sintomo delle difficoltà incontrate dal legislatore nel dettare un assetto chiaro e preciso, in
grado di soddisfare le molteplici e complesse esigenze della pratica giuridica e professionale.
Le norme tributarie disciplinano, infatti, situazioni giuridiche che, pur nella loro varietà, attengono sempre
all’amministrazione finanziaria che è tenuta ad applicare la legge o, quanto meno, a verificare
l’applicazione dei contribuenti. È quindi comprensibile che l’amministrazione stessa dia razionalità e
coerenza alla propria attività mediante un’interpretazione della legge che risulti uniforme e, quindi,
idonea ad assicurare un indirizzo costante nell’applicazione delle diverse norme. Le circolari, quindi, non
sono norme, ma comunque

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‘proposizioni giuridiche’, in quanto rappresentano il modo di essere delle stesse per gli uffici delle
imposte, determinando la formazione di una ‘prassi amministrativa’ che consente di prevedere in quale
modo la norma verrà applicata dagli stessi uffici, trasformandosi da espressione lessicale in realtà
concreta e divenendo, quindi, esperienza giuridica. Ciò non significa che l’attività esplicativa
dell’amministrazione possa sostituirsi alla funzione legislativa. La prassi amministrativa non può essere
confusa con la consuetudine (o uso normativo) in quanto la reiterazione di una condotta applicativa non
comporta né può essere considerata come espressione dell’opinio iuris et necessitatis, non potendo in
alcun modo rivestire la natura di fonte del diritto.
Occorre ricordare la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, 2/11/2007 secondo cui le circolari
non sono fonti del diritto; conseguentemente, ‘il contribuente resta pienamente libero di non adottare un
comportamento ad essa uniforme’. Non avendo natura di fonti del diritto, non possono imporre al
contribuente adempimenti non previsti dalla legge e meno che mai contemplare cause di revoca o
decadenza da trattamenti agevolati.
Quanto agli effetti, evidente è che il contribuente, come potrà invocare a proprio favore una circolare,
non potrà soccombere per effetto di una prassi ad esso sfavorevole. Pertanto, neppure il giudice al quale
sia devoluta la controversia è vincolato dalle circolari dell’amministrazione finanziaria.

6. L’efficacia della legge tributaria nello spazio


Alla legge tributaria viene riconosciuto un carattere strettamente territoriale, nel senso che gli effetti di
essa si estendono in tutto il territorio dello Stato e disciplinano atti, fatti o accadimenti che hanno
attinenza con l’esercizio del potere d’imposizione dello Stato o di altri enti siti nello stesso Stato. Che il
principio della territorialità sia immanente all’attività impositiva appare evidente. D’altra parte, neppure si
può trascurare che il territorio costituisce l’elemento materiale in grado di assicurare una base
dell’ordinamento giuridico. Ciò comporta, che l’efficacia spaziale della legge sia limitata al territorio dello
Stato, anche se non mancano restrizioni ed estensioni, dovute al fenomeno della c.d. extra-territorialità.
Si deve aggiungere che, nella rappresentazione della fattispecie, il legislatore accanto ai profili soggettivi
e oggettivi, la integra nella maggior parte dei casi con il riferimento al territorio, dovendo realizzarsi su di
esso. Nel caso cui tale circostanza non si verifichi, gli Stati emanano norme aventi ad oggetto i rapporti
tra i poteri impositivi coinvolti nel prelievo ovvero regolano i propri rapporti attraverso apposite
convenzioni. Quest’intreccio di situazioni si verifica in modo particolare nell’ambito delle attività
economiche e giuridiche: è quanto accade specialmente in materia di Iva, tanto che il legislatore, dopo
aver definito il concetto di territorialità, individua le cessioni all’esportazione e le operazioni ad esse
assimilate, nonché i servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali. Nonostante questa
disciplina, sono possibili duplicazioni d’imposta.
I criteri ai quali gli Stati possono fare ricorso per evitare la doppia imposizione sono:
a. Esenzione dei redditi prodotti in determinati Stati.
b. Deduzione dall’imposta della somma pagata allo Stato estero.
c. Deduzione della stessa somma dall’imponibile assoggettato ad imposta nello Stato nazionale.
d. Riduzione dell’aliquota applicabile ai redditi prodotti all’estero
L’ordinamento italiano prevede, nell’art.165 T.U.I.R,(testo unico delle imposte sui redditi) primo comma,
che “se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi
pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla
concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito
complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione”. Occorre
aggiungere che ”se concorrono redditi prodotti in più stati la detrazione si applica separatamente per
ciascuno Stato”.
Sorge un’altra e non meno delicata questione: vale a dire, l’esigenza di costituire un adeguato apparato
interpretativo mediante il quale verificare le analogie e le differenze tra imposte applicate in Italia e nello
Stato estero ma anche fra le definizioni ricorrenti nelle rispettive legislazioni.
È appena il caso di avvertire che gli accordi internazionali diventano fonte di diritto interno, in quanto
ratificati con legge ordinaria dello Stato.

7. L’efficacia della legge nel tempo


In base all’art. 73, ultimo comma, della Costituzione, “le leggi sono pubblicate subito dopo la
promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo a quello della loro pubblicazione,
salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso”. Per quanto riguarda l’efficacia nel tempo,
occorre anche tener conto dell’art.1 che, integrando l’art.10, stabilisce: ”la legge non dispone che per
l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
Non sono mancate, tuttavia, norme retroattive in materia tributaria, determinando l’insorgere di dubbi e
di contrasti.
In ogni caso, lo Statuto dei diritti del contribuente (l. n. 212 del 2000), contenente i principi generali
dell’ordinamento tributario, ha stabilito al comma1 dell’art. 3 che “le disposizioni tributarie non hanno
effetto retroattivo”. Ai fini della cessazione dell’efficacia, si deve distinguere l’ipotesi di una legge a

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termine da quella di una legge a tempo indeterminato. Nel primo caso (legge a termine) si tratta, in
genere, di provvedimenti, generalmente agevolati, previsti per un certo arco di tempo. Tra i
provvedimenti a termine vanno richiamati quella di natura emergenziale o per ragioni sanitarie.
Relativamente all’altra ipotesi (legge a tempo indeterminato) in cui la legge non prevede un termine di
scadenza, vale il principio generale, contenuto nell’art.15 delle preleggi, in base al quale “le leggi non
sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore o per incompatibilità tra le
nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge
anteriore.
L’ipotesi di abrogazione espressa non provoca alcuna incertezza, mentre le altre comportano, almeno in
materia tributaria, serie di difficoltà. Non è consentita l’abrogazione delle disposizioni tributarie attraverso
consultazione referendaria in considerazione del divieto espresso sancito dall’art.75, secondo comma,
Cost.
Con riguardo alla sfera applicativa di tale articolo, la Corte costituzionale ha più volte chiarito che
rientrano nella nozione di ‘leggi tributarie’ tutte quelle che hanno ad oggetto l’ablazione delle somme con
attribuzione delle stesse ad un ente pubblico e la loro destinazione allo scopo di apprestare mezzi per il
fabbisogno finanziario dell’ente impositore.

8. L’interpretazione delle leggi tributarie


Com’è noto, l’interpretazione consiste nell’attività intellettuale che consente di cogliere il significato e il
senso delle proposizioni normative al fine di consentirne l’applicazione. Come per qualunque altra norma,
anche quella tributaria resta soggetta al disposto di cui all’art. 12, preleggi al Codice civile in forza del
quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e della intenzione del legislatore. Non può
condividersi la tesi secondo lui la pretesa “odiosità” della norma tributaria consentirebbe solo
interpretazioni di natura restrittiva della stessa in quanto limitativa dei diritti proprietari e della libertà
personale.

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CAPITOLO 5: FINANZA PUBBLICA EUROPEA E SOVRANITÀ IMPOSITIVA
INTERNA

1. I vincoli europei in ordine al sistema delle fonti


Gli impegni assunti in ambito europeo con il Trattato istitutivo di Roma del 1957 e quelli adottati
successivamente (Maastricht, Lisbona, ecc.) hanno dato luogo a profonde conseguenze sia sotto il profilo
finanziario che tributario. Ordinamento giuridico dell’Unione Europea e ordinamenti nazionali appaiono
pertanto, profondamente integrati tra loro. In ogni caso, le limitazioni alla sovranità finanziaria e
impositiva trovano fondamento nelle Costituzioni nazionali degli Stati membri e, in particolare per quella
italiana, dall’art. 11 della Costituzione che consente “limitazioni alla propria sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”. La graduale erosione della sovranità
impositiva statuale da parte dell’ordinamento europeo ha fatto venire meno il monopolio della legge
statale presidiato da principio della riserva di legge consentendo a fonti sovranazionali di produrre effetti
e conseguenze sia in senso negativo (limitativo) che in senso positivo (conformativo).
Ciò ha determinato profondi condizionamenti anche sulla selezione delle fattispecie imponibili e agli
assetti impositivi (si pensi all’obbligo di introdurre determinati tributi, ad esempio quelli doganali e l’IVA).
Sistemi delle fonti e modelli di prelievo risultano quindi espressione di una piena integrazione tra
ordinamenti, garantito tuttavia dal primato del diritto unionale, riconosciuto dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia e della Corte costituzionale.
I vincoli posti agli ordinamenti interni per realizzare uno spazio economico unico, in cui merci, servizi,
persone e capitali possano circolare in un regime di libera concorrenza e senza ostacoli fiscali, sono
previsti in primo luogo dalle norme del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
L’art. 110 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea nella versione c.d. consolidata vigente
obbliga gli Stati membri a non applicare ‘direttamente o indirettamente ai prodotti degli altri Stati membri
imposizioni interne di qualsiasi natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai
prodotti nazionali similari’ (principio di non discriminazione).
Le scelte di politica tributaria degli Stati membri sono anche condizionate dagli atti con valore
direttamente o indirettamente precettivo dal diritto derivato dell’Unione europea costituito, ai sensi
dell’art. 288 del trattato UE, da regolamenti, direttive, decisioni (atti vincolanti), raccomandazioni e pareri
(atti non vincolanti). Le direttive europee, a differenza dei regolamenti, non hanno efficacia diretta negli
ordinamenti nazionali, essendo dirette agli organi legislativi dei singoli Stati. La diretta applicabilità delle
direttive deve essere, quindi, valutata, caso per caso, per verificare se la natura, lo spirito, e la lettera
della disposizione consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri ed i
singoli.
La disposizione contenuta in una direttiva non recepita o non puntualmente recepita nell’ordinamento
interno per la Corte di Giustizia “non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi
esser fatta valere in quanto tale nei suoi confronti”; tale principio è stato affermato anche dalla
giurisprudenza interna secondo cui gli Stati membri non possono invocare la diretta applicabilità delle
direttive comunitarie.
È stata così riconosciuta la diretta e immediata applicabilità delle norme comunitarie, anche senza la
mediazione di norme interne e la disapplicazione delle norme interne sia di rango legislativo che
regolamentare nel caso di contrasto con disposizioni di carattere comunitario.
È utile ricordare che l’attuale formulazione dell’art. 117, primo comma Cost; prevede che la potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali.

2. Il principio di equilibrio finanziario e la nuova governance finanziaria europea


L’esigenza di contenimento della spesa pubblica e debito pubblico ha pesantemente condizionato le scelte
in materia finanziaria degli ultimi anni imponendo interventi di varia natura, che hanno profondamente
ridisegnato assetti costituzionali e rapporti tra poteri dello Stato. In questo contesto, la legge
costituzionale 20 aprile 2012, n.1, ha elevato a rango costituzionale il principio dell’equilibrio finanziario,
impegnando sia il governo centrale che gli enti territoriali attraverso i nuovi artt. 81, 97 e 119 Cost.
Più precisamente, il nuovo comma 1 dell’art. 97 Cost. Richiede che tutte le amministrazioni pubbliche “in
coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del
debito pubblico”.
Il nuovo art. 119 cost. Riconosce agli enti territoriali l’autonomia di entrata e di spesa seppure ‘nel
rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci’ e nella ‘osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti
dall’ordinamento dell’unione europea’.
Oltre a richiamare il principio di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, la nuova
formulazione dell’art. 81, terzo comma, cost. prevede che ogni legge
con effetti finanziari, compresa la legge di bilancio, non possa più limitarsi a indicare i mezzi di copertura
delle spese, ma debba provvedervi direttamente.
Le disposizioni costituzionali richiamate si collocano all’interno della nuova governance economico
finanziaria che ha previsto vincoli di bilancio, strumenti di controllo dei conti nazionali e dei disavanzi e
debiti pubblici.
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Gli strumenti normativi adottati prevedono un complesso di misure tra le quali:
1. Obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo del pareggio di bilancio con un
miglioramento annuale dei saldi pari ad almeno lo 0,5%.
2. Obbligo per i Paesi il cui debito supera il 60% del PIL di adottare misure per ridurlo ad un ritmo
soddisfacente.
3. Obbligo di inserire nei propri ordinamenti interni, anche con norme di carattere costituzionale, il
principio del pareggio di bilancio e l’impegno a coordinare i piani di emissione del debito.
4. Nuove procedure semiautomatiche di irrogazione delle sanzioni per i Paesi che violano le regole
del Patto.
Sono stati adottati poi ulteriori norme per rafforzare la sorveglianza economica e di bilancio degli Stati
membri che affrontano o sono minacciati da serie di difficoltà per la propria stabilità finanziaria. Tra i
principali obblighi posti in capo agli Stati membri spiccano quelli di nominare un ente di controllo del
bilancio indipendente per il monitoraggio degli andamenti di bilancio nonché di pubblicare i propri
programmi di bilancio. Il nuovo modello di governo delle politiche di bilancio europee prende le mosse
dall’art. 119, paragrafo 3, del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) che richiede
politiche fiscali stabili e sostenibili. I successivi artt. 121 e 126 TFUE rappresentano altresì capisaldi della
governance economica europea in tema, rispettivamente, di sorveglianza multilaterale e di procedura per
i disavanzi eccessivi. L’art. 121, al terzo paragrafo, dispone misure di controllo multilivello finalizzate a
garantire un più stretto coordinamento delle politiche economiche e una convergenza duratura dei
risultati economici degli Stati membri. A tal fine il Consiglio sorveglia l’evoluzione economica in ciascuno
degli Stati membri e la coerenza delle politiche economiche. Tale controllo è basato sulla trasmissione alla
Commissione delle informazioni concernenti le misure di rilievo adottate nell’ambito della loro politica
economica. Da ultimo va richiamato il c.d. Meccanismo Europeo di stabilità (MES), denominato anche
Fondo salva-stati, istituito a seguito delle modifiche al Trattato di Lisbona (art. 136). Istituito come fondo
finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona euro, ha assunto successivamente la veste di
organizzazione intergovernativa dotata di un consiglio dei governatori (formato dai rappresentanti degli
stati membri) e un consiglio di amministrazione. Esso esercita poteri di governo economico e di
salvataggio a sostegno dei Paesi membri in difficoltà (anche in deroga all’art. 123 del trattato che invece
reca il divieto di ‘salvataggio’). Sul piano
procedimentale, i Paesi destinatari dei prestiti, sono tenuti a impegnarsi a adottare riforme strutturali,
piani di rientro e di contenimento di tagli al deficit/debito attraverso un memorandum d’intesa. Specifiche
misure di salvataggio possono essere adottate nei confronti delle banche di interesse per l’intera Unione
Europea. A seguito della crisi pandemica COVID 19, si è nuovamente ritenuto di accedere al MES, sia
pure con opportune riforme, attenuando o eliminando le regole di condizionalità ovvero di ricorrere
all’emissione di titoli di debito pubblico europeo.

3. Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto tributario


Nella convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU, le espressioni imposta, tassazione,
procedimento impositivo, processo tributario non compaiono in nessuna disposizione. Solo l’art. 1 del
Protocollo addizionale sancisce che “ogni persona fisica o giudica ha diritto al rispetto dei suoi beni”, il
secondo riconosce il “diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per
disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle
imposte o di altri
contributi o delle ammende”. Ne discende l’esigenza di contemperare, in piena armonia con il pensiero
liberale delle costituzioni ottocentesche, il diritto di proprietà inteso in senso pieno, con l’interesse
erariale all’imposizione e alla riscossione dei tributi. Nonostante il fato letterale e i principi ispiratori,
all’indomani del secondo conflitto mondiale, la disciplina tributaria è stata largamente interessata
all’applicazione delle disposizioni della convenzione stessa. Come emerge dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo, sono numerose le sentenze che affrontano questioni che assumono
rilevanza nel diritto tributario. Oltre alle sentenze che si occupano delle ingerenze del fisco nel diritto di
proprietà garantito dall’art.1 protocollo 1, citato, possono essere richiamate a titolo esemplificativo,
quelle in materia di proporzionalità, quelle in materia di non discriminazione, di diritto al silenzio e alla
non autoincriminazione. Tra i diversi ambiti della convenzione, le garanzie in materia di giusto processo
(durata ragionevole, imparzialità dell’organo giudicante, valutazione delle prove ecc.) sono state
particolarmente indagate
anche con riguardo al processo tributario dei vari Paesi europei.
Si può affermare che anche alle procedure in materia tributaria, che vertono in sostanza su ‘accuse in
materia penale’, si applicano tutte le garanzie previste dall’art. 6 CEDU.
I principi generali sono fissati nella sentenza ENGEL, nella quale la Corte ha stabilito tre criteri al fine di
valutare l’effettiva natura penale di procedimenti e di sanzioni:
a. La qualificazione giuridica della misura da parte del diritto interno.
b. La natura stessa di quest’ultima.
c. La natura e il grado di severità della sanzione.

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Tali criteri non sono cumulativi ma alternativi, non essendo sufficiente la presenza di uno solo dei tre per
definire come penale l’illecito in questione. Tuttavia, è possibile adottare un approccio cumulativo qualora
l’analisi separata dei criteri non permetta di giungere ad una conclusione chiara in merito all’esistenza di
un’accusa in materia penale.

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CAPITOLO 6: LO STATUTO DEI DIRITTI DEL CONTRIBUENTE. I PRINCIPI
GENERALI DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO

1. Lo statuto del contribuente: natura giuridica e superiorità assiologica dei principi


ivi previsti
A differenza di molte delle Carte dei diritti adottate in Europa che affermano e disciplinano talune
garanzie del contribuente durante la verifica fiscale, lo Statuto dei diritti del contribuente, approvato in
Italia con la legge del 27 luglio 2000, n.212, risponde all’intento, ben più ambizioso, di definire i principi
generali dell’ordinamento tributario.
Lo Statuto, sembra, quindi, atteggiarsi come una vera a propria legge fiscale generale, sia nel richiamare
principi contenuti nella Carta costituzionale (eguaglianza, legalità, capacità contributiva), sia ponendo le
regole che devono informare il rapporto tra amministrazioni fiscali e contribuenti.
In questo ambito, alcune garanzie già breviaste da tale disciplina, sono state potenziate e rafforzate (si
pensi all’obbligo della motivazione degli atti tributari o al principio di disapplicazione delle sanzioni per
errore incolpevole), mentre altre sono introdotte ex novo (il divieto di retroattività delle norme a
contenuto (impositivo).
Per quanto approvato con legge ordinaria, dubbi sono emersi in ordine alla natura dello Statuto e alla sua
collocazione nel sistema gerarchico delle fonti; ci si è chiesto se esso partecipi alla natura costituzionale
delle norme richiamate, se sia una legge rinforzata etc.
Sul punto, sembra d poter ritenere che esso non possa assurgere al rango costituzionale, né essere
considerata legge rinforzata, in considerazione del carattere rigido della Costituzione repubblicana.
La stessa Corte costituzionale ha, peraltro, espressamente escluso che i principi dello Statuto abbiano
natura di norme interposte tra le fonti di natura costituzionale e le norme ordinarie, non potendo
assurgere a parametri idonei a fondare il giudizio di legittimità costituzionale, dovendo invece il giudice
valutare la possibilità di un’interpretazione adeguata della norma.
Come affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, pur non collocandosi in una posizione più
elevata nella gerarchia delle fonti, le disposizioni dello Statuto conservano una superiorità assiologica in
considerazione di quanto previsto dall’art. 12 delle preleggi del Codice civile, secondo cui “se una
controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe, se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi
generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
La valenza dei principi generali delle disposizioni dello Statuto ne consente l’utilizzazione in funzione
integrativa delle lacune dell’ordinamento.
La legge delega n.23/2014 e i relativi decreti attuativi, sono intervenuti direttamente sullo Statuto dei
diritti del contribuente, modificando e innovando istituti già esistenti e introducendo ex novo la disciplina
generale in tema di abuso del diritto.
Ne consegue che il legislatore, attraverso le clausole della derogabilità o modificabilità delle disposizioni
dello Statuto intende porre precise condizioni la cui inosservanza paralizza l’efficacia delle norme adottate
in spregio ad esse.

2. Le disposizioni dello Statuto riguardanti l’esercizio della funzione legislativa


L’art. 1, al fine di frenare l’eccessivo ricorso alle norme interpretative, stabilisce che ‘l’adozione di norme
interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria,
qualificando come ’tali le disposizioni di interpretazione autentica’.
La norma, nel recepire l’orientamento della Corte costituzionale secondo cui l’emanazione di disposizioni
di interpretazione autentica si giustifica solo nel caso di oscurità del testo normativo, di incertezze in
ordine al significato o di contrasti giurisprudenziali particolarmente accentuati, subordina l’emanazione di
norme interpretative a tre diverse condizioni:
1. L’eccezionalità del caso regolato.
2. La previsione con legge ordinaria.
3. L’espressa qualificazione della norma come di interpretazione autentica.
L’art. 2 impone l’osservanza di numerose regole riguardanti la tecnica redazionale delle norme tributarie,
quali la menzione, nel titolo della legge, dell’oggetto della stessa, l’indicazione, dell’oggetto delle singole
prescrizioni.
L’art. 3 dello Statuto statuisce che “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo” e che
“relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo di imposta
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono”.
Come ricordato, l’art. 4, l.212, vieta lo strumento del decreto-legge per istituire nuovi tributi o applicare
tributi esistenti ad altre categorie di soggetti. Non si tratta di un divieto assoluto, si ritiene consentito al
legislatore, ricorrendo dei requisiti di necessità e urgenza previsti dall’art. 77 Cost, l’utilizzo del decreto-
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legge per aumentare le aliquote dei tributi esistenti, ovvero per istituire tributi nuovi a condizione che
siano straordinari e temporanei.

3. Le disposizioni riguardanti le amministrazioni fiscali


Numerose sono le disposizioni dello Statuto che si rivolgono alle amministrazioni finanziarie e dispiegano i
propri effetti nei confronti del contribuente.
Analizzando le norme dello Statuto, si possono distinguere quelle che contemplano strumenti di
informazione e trasparenza dell’azione amministrativa, quelle che intendono favorire la collaborazione tra
fisco e contribuente e quelle che offrono la possibilità di estinguere mediante compensazione i debiti
tributari.
Le garanzie informative apprestate dallo Statuto operano su tre livelli: l’informazione del contribuente,
l’effettiva conoscenza degli atti a lui destinati e l’interpello. Il tutto si collega ai principi di collaborazione e
di buona fede che regolano il rapporto tra contribuente ed amministrazione.
L’art. 5 dello Statuto, rubricato ‘Informazione del contribuente’, prevede l’onere, posto a carico
dell’Amministrazione finanziaria, di assicurare una conoscenza ‘completa ed agevole’ delle disposizioni
legislative ed amministrative.
Particolare attenzione va riservata all’art. 7 della l. N.212/2000, intitolato ‘chiarezza e motivazione degli
atti’; la norma stabilisce che, ‘gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto
prescritto dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990 n.241, dovendo indicare i presupposti di fatto e le ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione’.
La motivazione degli atti tributari, dovendo esprimere i fatti e le ragioni che sono a fondamento della
pretesa creditoria vantata dall’amministrazione finanziaria (art. 2697 c.c.), pone il destinatario dell’atto
nella condizione di decidere se esercitare il diritto di agire giudizialmente. In questa prospettiva, l’obbligo
della motivazione, collegandosi all’esercizio del diritto di difesa, si estende a ‘tutti’ gli atti che sono
suscettibili di impugnativa davanti alle Commissioni tributarie, ivi compresi quelli emessi a seguito di
istanze di rimborso, di agevolazioni, dei rapporti tributari e più in generale su tutti i provvedimenti
adottati dall’ente impositore a seguito di atti di iniziativa del contribuente.
Passando all’art. 8, primo comma dello Statuto, va ricordato che la norma ammette espressamente
l’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione, e consente l’accollo del debito d’imposta
altrui, sia pure senza liberazione.

4. La nuova disciplina dell’abuso del diritto


Il d.lgs. n.190/2015, in attuazione della legge delega n.23/2014, ha introdotto nello Statuto l’art. 10 bis,
recante la disciplina “dell’abuso del diritto o elusione fiscale”. Sintomatica la collocazione scelta dal
legislatore che, per la prima volta, ha dettato una compiuta normativa di portata generale quale
specificazione dell’art. 10 recante il principio di collaborazione e buona fede tra contribuente ed
amministrazione finanziaria.
Configurano abuso del diritto, a norma dell’art. 10 bis, primo comma, una o più operazioni prive di
sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano vantaggi fiscali indebiti.
Non si considerano operazioni abusive quelle giustificate da valide ragioni extrafiscali non marginali,
finalizzate al miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o più in generale all’attività professionale
del contribuente. Non vengono altresì considerate condotte abusive le scelte di regimi opzionali fiscali
offerti dalla legge o tra operazioni comportanti diverso carico fiscale.
Per quanto attiene il procedimento di accertamento della condotta abusiva, l’amministrazione finanziaria
è tenuta ad inviare preliminarmente al contribuente chiarimenti che devono essere forniti entro 60 giorni
dall’avvenuta notifica.
La richiesta è considerata un atto chiave nel procedimento di accertamento dell’abuso: in mancanza,
l’atto di accertamento è affetto da nullità; è prevista una specifica disciplina in tema di decadenza degli
atti per il rispetto del termine dei 60 giorni a tutela del contribuente.
Particolari garanzie sono previste a tutela del contribuente: a pena di nullità l’amministrazione finanziaria
deve indicare la condotta abusiva, le norme o i principi tributari elusi, gli indebiti vantaggi fiscali
realizzati, tenendo anche conto degli eventuali chiarimenti forniti dal soggetto destinatario.
L’onere di provare la condotta abusiva incombe sull’amministrazione finanziaria e non è rilevabile
d’ufficio, il contribuente può fornire la prova contraria relativamente alle ragioni extrafiscali.
In ogni caso l’abuso del diritto non determina l’applicazione di sanzioni tributarie penali ma di quelle
tributarie amministrative.

5. L’interpello ordinario e i nuovi interpelli


L’interpello ordinario costituisce una delle più significative innovazioni introdotte dallo Statuto tra gli
strumenti di collaborazione tra fisco e contribuente. La fortuna dell’istituto, largamente utilizzato, ha

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indotto il legislatore a potenziarlo con la legge delega n.23/2014, “allo scopo di garantire una maggiore
omogeneità, anche ai fini della tutela giurisdizionale di una maggiore tempestività nella redazione dei
pareri, procedendo in tale contesto all’eliminazione delle forme di interpello obbligatorio nei casi in cui
non
producano benefici ma solo aggravi per i contribuenti e per l’amministrazione”.
Nel dare attuazione a tale legge, il d.lgs. n.190/2015 ha completamente rivisto la disciplina affiancando
all’interpello ordinario, tre nuove forme di interpello: probatorio, antiabuso e disapplicativo.
L’interpello ordinario trova applicazione per le questioni riguardanti qualunque tributo che presentino
obbiettive condizioni di incertezza sulla corretta applicazione delle disposizioni tributarie da applicare a
casi concreti e personali.
L’interpello probatorio riguarda la sussistenza delle condizioni e la valutazione dell’idoneità degli elementi
probatori richiesti dalla legge per usufruire di particolari regimi fiscali espressamente previsti; quello
antiabuso concerne le potenziali condotte integranti l’abuso del diritto dello Statuto; l’interpello
disapplicativo riguarda, infine, la disapplicazione di norme tributarie contenenti deduzioni, detrazioni e
crediti d’imposta al fine di contrastare fenomeni elusivi attraverso la dimostrazione da parte del
contribuente dell’impossibilità di realizzazione di tali effetti al proprio caso concreto.
Sul piano procedimentale, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a rispondere nel termine di 90 giorni per
l’interpello ordinario e di 120 giorni per le altre forme dall’avvenuta notificazione dell’istanza, attraverso
una risposta scritta e motivata che vincola l’ufficio e contribuente esclusivamente per il caso
concreto. In caso di soluzione fornita dal contribuente, il silenzio oltre il termine previsto equivale ad
assenso. L’istanza deve essere presentata alla Direzione regionale dell’Agenzia delle entrate competente
in relazione al domicilio fiscale del contribuente.
Analizzando il contenuto dell’istanza, va evidenziato che, ai sensi dell’art. 3 del DM n.209 del 26 aprile
2001, essa deve contenere:
a. I dati identificativi del contribuente e, eventualmente, del suo legale rappresentante.
b. La specifica descrizione del caso concreto e personale da trattare ai fini tributari sul quale
sussistono concrete condizioni di incertezza.
c. L’indicazione del domicilio del contribuente.
d. La sottoscrizione del contribuente o dell’uso legale rappresentante.
I requisiti appena richiamati sono previsti a pena di inammissibilità. Va, inoltre, segnalato che l’istanza
deve contenere anche l’indicazione del comportamento che il contribuente intende assumere e che reputa
conforme alle disposizioni applicabili.
Nell’ambito del regime delle inammissibilità disposto dal D.M n.209/2001, va segnalato che l’art. 3,
comma 5, nella parte in cui esclude la ricorrenza delle obbiettive condizioni di incertezza sulla corretta
interpretazione delle disposizioni tributarie quando, sia espressa la prassi amministrativa con una
circolare, una risoluzione o una istruzione, portata a conoscenza del contribuente.
La stessa disposizione stabilisce, inoltre, che l’amministrazione finanziaria deve avvertire il contribuente
circa le cause d’inammissibilità dell’istanza.

6. Principi di collaborazione, buona fede, affidamento e contraddittorio. Diritti al


contribuente nella verifica fiscale
Con la legge 241 del 1990 è stata operata una profonda trasformazione della P.A, passando da un
modello culturale e organizzativo che potremmo definire ‘burocratico’ ad un modello spiccatamente
‘collaborativo, orientato al raggiungimento degli obiettivi. È avvenuto un cambiamento epocale, da
un’amministrazione di tipo autoritario, ad una trasparente, collaborativa. Al cittadino/utente è
riconosciuto il diritto di partecipare al processo decisionale della volontà pubblica, in modo diretto e anche
attraverso il coinvolgimento e il controllo nelle fasi procedimentali che lo riguardano.
Nel settore tributario questo lungo e complesso percorso è approdato nell’art.10, comma 1 dello Statuto
dei diritti del contribuente secondo cui ‘i rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono
improntati al principio della collaborazione e della buona fede’. L’amministrazione finanziaria non è un
qualsiasi soggetto giuridico, ma è una Pubblica amministrazione. Tale veste le attribuisce speciali diritti
funzionali che assicurino nella maniera più ampia e spedita il perseguimento delle sue finalità
nell’interesse collettivo, così per la stessa ragione la obbliga all’osservanza di particolari doveri primo fra
tutti quello dell’imparzialità espressamente sancito dall’art. 97 Cost.
L’amministrazione finanziaria ora è chiamata a nuovi doveri, tra i quali quello di correttezza e di buona
fede, strettamente connessi e complementari con quello di collaborazione.
In capo all’Amministrazione finanziaria sussiste, pertanto, non la facoltà o l’onere di collaborare ma il
dovere di collaborazione che peraltro incombe anche in capo al contribuente. In tal senso si è espressa
chiaramente la Corte di Cassazione con la sentenza 17576 del 2002 secondo cui il concetto di buona fede,

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se riferito all’amministrazione finanziaria, coincide con i significati attribuiti al termine ‘collaborazione’ e
che il medesimo termine, se riferito al contribuente, allude ad un generico dovere di ‘correttezza’.
Il secondo comma dell’art. 10 dello Statuto enuncia il principio della tutela dell’affidamento del
contribuente.
In relazione alla tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giudica, la Corte
costituzionale ha inteso il principio dell’affidamento quale ‘elemento essenziale dello stato di diritto’.
Il principio dell’affidamento è stato recepito dallo Stato italiano per tutelare il contribuente che ripone
fiducia negli atti e nei comportamenti dell’Amministrazione finanziaria. La definizione dell’affidamento
racchiude significativamente la portata di tale principio volto a creare un clima di certezza dei rapporti
giudici, presupposto per la collaborazione e, quindi, per lo sviluppo sociale.
Per poter rendere concretamente operante i principi di collaborazione, buona fede ed affidamento è
necessario che l’Amministrazione finanziaria enti in contatto diretto con il contribuente con modalità
snelle, dinamiche ed efficaci che consentano un confronto potesti alla rappresentazione delle proprie
ragioni
prima di giungere alla notifica di un provvedimento formale (c.d. partecipazione difensiva). La modalità
più idonea è il dialogo preventivo diretto tra amministrazione finanziaria e contribuente vale a dire il
contraddittorio endo-procedimentale.
L’art. 12 pone ulteriori condizioni al cui verificarsi sono subordinate le attività di accesso e di ispezione,
stabilendo una serie di obblighi a carico dei verificatori fiscali. In particolare, accessi, ispezioni e verifiche
possono essere effettuati solo nei casi di effettive esigenze di indagine e controllo sul luogo, per una
durata massima di 30 giorni lavorativi e con tempi e modalità prestabiliti; inoltre, quando inizia la
verifica, il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto
che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato dinanzi alle Commissioni
tributarie, nonché dei diritti e degli obblighi del contribuente nell’ambito della stessa verifica.
Nel rispetto del principio di cooperazione con l’Amministrazione finanziaria, il contribuente, nei 60 giorni
successivi al rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di
controllo, può comunicare osservazioni e richieste che devono essere oggetto di valutazione da parte
degli uffici finanziari.

7. Il garante del contribuente


Completa il sistema delle garanzie, la disciplina riguardante l’istituzione e le funzioni del Garante del
contribuente, contenuta nell’art.13 dello Statuto. A differenza di altri organi di garanzia, l’ufficio del
Garante del contribuente non opera a livello unico nazionale, avendo la propria sede in ogni regione,
presso le sedi della Direzione regionale delle entrate.
Dal 1° gennaio 2012, il Garante del contribuente è organo monocratico scelto e nominato dal Presidente
della Commissione tributaria regionale tra gli appartenenti alle categorie di magistrati, avvocati, notai,
professori universitari in materie giuridiche ed economiche etc. L’incarico ha durata quinquennale ed è
rinnovabile tenendo presenti professionalità, produttività ed attività già svolta. Passando ai poteri
attribuiti all’ufficio, va evidenziato che, per effetto dell’art. 13, comma 6, il Garante svolge una funzione
di controllo e di stimolo sull’operato degli uffici finanziari.
Il Garante del contribuente non può tuttavia irrogare santoni, nemmeno nei casi di accertate violazioni
delle disposizioni dello Statuto. Con relazione annuale, il Garante fornisce al Governo ed al Parlamento
dati e notizie sullo stato dei rapporti tra fisco e contribuenti nel campo della politica fiscale.
In altri termini, il Garante esercita una funzione di vigilanza esterna sulle attività degli organi di verifica e
di accertamento.

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PARTE SECONDA
IL SISTEMA DEI TRIBUTI

CAPITOLO 1: L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA FISCALE E L’INTRODUZIONE DELLE


IMPOSTE SUL REDDITO

1. Dai tentativi di codificazione alla riforma tributaria degli anni ‘70


Avvenuta l’unificazione politica del nostro Paese, fu avvertita l’esigenza di riordinare il sistema tributario e
gli assetti dell’amministrazione finanziaria.
Nonostante l’ampio dibattito sviluppatosi sia nelle aule parlamentari che nella dottrina finanziaria, non si
giunse all’adozione di un’imposta generale sul reddito. Com’è noto, prevalse l’idea di istituire l’imposta
sulla ricchezza mobile, destinata a colpire i redditi non fondiari, sia derivanti da capitale che dà lavoro,
dapprima secondo il metodo del contingente e, successivamente, con l’introduzione del sistema della
quotità.
Dopo una serie di modifiche piò o meno profonde, si pervenne ad una sistemazione abbastanza definitiva
del tributo con il Testo Unico 24 agosto 1877, n.4021.
Nella fase successiva al primo conflitto mondiale, l’onorevole Meda, nell’ambito d’un vasto progetto di
riforma del sistema tributario, avvertì l’esigenza di procedere alla compilazione di un testo unico delle
numerose leggi tributarie in tema di imposte dirette.
Con la riforma del 30 dicembre 1923, fu introdotta l’imposta complementare sul reddito (progressivo) e
riordinate le imposte sul reddito. Con l’art. 47, d.l. 7 agosto 1936, modificato con il d.l. 27 ottobre 1937,
il Governo fu autorizzato “a coordinare e riunire in testi unici le disposizioni delle leggi riguardanti le
imposte dirette”. La Commissione incaricata di predisporre il lavoro fu nominata nel 1950, allo scopo
d’inquadrare le leggi di imposizione ‘entro un geniale, armonico sistema tributario’.
Nel 1942, la Commissione di studio
formulò il testo delle norme generali del diritto tributario, composto da 88 articoli, suddiviso in quattro
titoli, riguardanti la norma tributaria, l’ordinamento dell’Amministrazione finanziaria dello Stato, i soggetti
passivi, l’obbligazione del tributo.
Nell’ Assemblea costituente, la Commissione economica, definito il principio di capacità contributiva,
ripropose l’idea, poi abbandonata, di un ‘codice o di una legge fondamentale dei tributi contenente le
regole e i principi generali sulla dichiarazione e l’accertamento, sulla messa in riscossione, sul rimborso
dei tributi’. Nel periodo successivo, il progetto fu ripreso dalla Commissione ministeriale presieduta da
Gaetano Azzariti. La strada percorsa fu quella del coordinamento delle disposizioni tributarie disperse
nelle diverse leggi di imposta e dell’elaborazione di principi comuni alle imposte sui redditi.
Costituita una nuova commissione, si giunse all’elaborazione del T.U 29 gennaio 1958, n.645, che
coordinò norme disperse in numerose leggi, alcune delle quali risalenti all’unificazione, introducendo poi
la dichiarazione dei redditi obbligatoria.
Con la l. 9 ottobre 1971, n.825, il Governo della Repubblica fu delegato ad attuare le “riforme del sistema
tributario”, secondo i principi di capacità contributiva e progressività, adottando numerosi decreti
legislativi riferiti ai singoli tributi.
L’aspirazione alla “certezza” del diritto, che è stata alla base del movimento delle codificazioni
ottocentesche e di quelle della seconda metà del ventesimo secolo, è stata assecondata da una costante
espansione della produzione legislativa, resa ancora più accentuata dalla convinzione che solo una
maggiore articolazione del quadro normativo avrebbe potuto scongiurare il pericolo di costose
controversie tra contribuenti e amministrazione finanziaria.
Percorsa la strada di una legislazione per casi, si è assistito ad una crescita del grado di analiticità delle
disposizioni tributarie, molte delle quali destinate a regolare situazioni di dettaglio, anche per porre rimedi
a lacune segnalate dalla prassi amministrativa o dalla giurisprudenza.
Proprio l’eccessiva frammentazione della legislazione tributaria ha fatto esplodere le incongruenze e le
incoerenze del metodo casistico, sollecitando il recupero di quello della legislazione per principi che ha
ispirato l’adozione dello Statuto dei diritti del contribuente approvato con l. n.212 del 2000.
In questo ambito, l’art. 2 della legge delega n.80 del 2003 aveva affidato al ‘codice’ il compito di ‘ordinare
il sistema fiscale’ sulla base di taluni principi fondanti.
Com’è noto, la delega è rimasta inattuata sicché ancora oggi la strada verso la codificazione tributaria
appare lunga e difficile. Anche la legge n.23/2014, rubricata “Delega al governo recante disposizioni per
un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita”, si è rivelata inidonea a riprendere tale
processo, restando anch’essa inattuata.

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2. Riforma e controriforma tributaria: dalla legge delega n.825 del 1971 alla legge
delega n.80 del 2003
La l. Delega 9 ottobre 1971, n.825, e i successivi decreti delegati attuativi, nel riformare in modo
profondo il sistema tributario, introdussero Irpef, Irpeg, e Ilor e poi Iva e le altre imposte indirette,
disciplinando accertamento e riscossione dei tributi. Nonostante l’intento del legislatore di assicurare una
qualche stabilità legislativa, la normativa successiva è intervenuta ripetutamente anche con norme di
dettaglio, contribuendo a rendere più confuso il quadro normativo.
Si è fatta strada una sorta di ‘riforma della riforma’, spesso lontana dai principi che l’avevano ispirata.
Nell’intento di “modernizzare la fiscalità in funzione dei mutamenti intergovernativi nell’economia e nel
mondo”, l.7 aprile 2003, n.80, recava la delega a adottare uno o più decreti per riordinare il sistema
fiscale statale in 5 imposte: imposta sul reddito (IRE), imposta sul reddito delle società (IRES), imposta
sul valore aggiunto, imposta sui servizi, accise.

3. L’imposta sul reddito delle persone fisiche: natura e requisiti


Introdotta nel nostro sistema tributario dalla legge delega n.825 del 1971, l’IRPEF ha trovato il proprio
assetto nominativo nel T.U n.917 del 1986 e nelle numerose leggi successive di integrazione e
modificazione.
Nel passare da un sistema di imposte reali (imposte fondiarie, imposta di ricchezza mobile), nel quale il
prelievo era graduato in ragione della natura del reddito, a un sistema di tipo personale, nell’ambito del
quale assume rilevanza il soggetto a cui imputare il reddito complessivo prodotto, il legislatore attenua la
rilevanza del riferimento alla fonte produttiva del reddito, per attribuire significato alla diversa qualità dei
soggetti (persone fisiche o giuridiche).
L’Irpef presenta carattere personale, globale e progressivo, trovando applicazione, a differenza della
complementare, in modo diretto e immediato sul complesso dei redditi affluenti al soggetto.

4. I soggetti passivi dell’imposta sul reddito alle persone fisiche


L’art. 2 del T.U.I.R definisce soggetti passivi dell’imposta ‘le persone fisiche residenti e non residenti nel
territorio dello Stato’. Per i soggetti residenti, trova applicazione il principio dell’imposizione su base
mondiale per effetto del quale sono attratti a tassazione nello Stato i redditi ovunque prodotti, per i
soggetti
non residenti, vige, invece, il principio opposto della territorialità, restando soggetti a tassazione nello
Stato solo i redditi ivi prodotti.
Il capoverso dell’art. 2 T.U.I.R, stabilisce che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le
persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione
residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”.
La disposizione è stata integrata dall’art. 10, primo comma, l.23 dicembre 1998, n.448; che, nell’intento
di contrastare il fenomeno, sempre più diffuso, dello spostamento della residenza nei c.d. paradisi fiscali,
considera residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione
residente ed emigrate in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato.
Prima della l. n.244/2007, che ha modificato l’art. 2, comma 2 bis, T.U.I.R, i paradisi fiscali erano
individuati attraverso una lista definita ‘black list’ approvata con apposito decreto del Ministero
dell’economia e delle finanze, recante l’elenco dei paesi considerati a regime fiscale privilegiato;
dall’approvazione della novella, il decreto ministeriale ribalta il criterio individuando in una ‘White list’
l’elenco degli Stati a fiscalità ordinaria. Spetta, quindi, al contribuente trovare l’effettività del
trasferimento e il conseguente cambio di residenza; indici presi in considerazione sono, tra gli altri,
l’acquisto o la locazione di immobili adibiti a residenza all’estero, la presenza di rapporti lavorativi
continuativi nell’altro stato.

5. Le fattispecie imponibili e le categorie del reddito


L’art. 3 T.U.I.R, stabilisce che l’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato per i
residenti da tutti i redditi posseduti e per i non residenti da quelli prodotti nel territorio dello Stato.
Questa norma considera presupposto dell’imposta “il possesso di redditi in denaro o in natura”.
Integrando l’art.1 T.U.I.R, l’art. 6 dello stesso Testo Unico stabilisce quindi, che i singoli redditi sono
classificati nelle seguenti categorie:
a. Redditi fondiari.
b. Redditi di capitale.
c. Redditi di lavoro dipendente.
d. Redditi di lavoro autonomo.
e. Redditi d’impresa.

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f. Redditi diversi.

6. Concetto legislativo di reddito


L’art. 1 del T.U.I.R individua i redditi assoggettati ad Irpef attraverso il rinvio alle categorie “indicate
nell’art. 6”. La relazione governativa, ricordano come il previgente art. 1 del d.p.r. n.597/1973 non
avesse risolto, il problema della definizione del reddito, osservava che “il fiscale è uno dei campi in cui
massimamente deve tendersi alla certezza del diritto, anche ai fini dell’auspicato miglioramento selettivo
dell’azione amministrativa di accertamento”.
Attraverso l’enumerazione tassativa delle diverse fattispecie reddituali da sottoporre a tassazione, il
legislatore ha, quindi, inteso impedire la ricerca, spesso difficile e defaticante, di redditi non nominati.
Come è noto, il reddito costituisce una categoria giuridica, sia perché costruita attraverso “materiali quali
i diritti soggettivi e reali”, sia perché assunta dal legislatore attraverso il rinvio a categorie parcellizzate.
Ai fini della tassazione, non assume rilevanza la liceità avendo il legislatore sancito la tassazione dei
redditi di fonte illecita.
La norma trova applicazione quale che sia la natura dell’illecito (civile, penale o amministrativo) con
l’unico limite dell’eventuale venire meno del possesso del reddito per sequestro o confisca.

7. Il periodo d’imposta
Il legislatore tributario, nell’assumere ad oggetto dell’imposizione una fattispecie che si forma avendo
riguardo a componenti tendenzialmente riproducibili e continuativi, delimita l’intervallo temporale al quale
avere riguardo per la sua determinazione.
L’imposta sul reddito delle persone fisiche è dovuta per archi temporali, denominati periodi d’imposta, a
ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma.
Va poi evidenziato che l’imputazione dei redditi al periodo d’imposta è regolata dalle norme relative alla
categoria nella quale rientrano (principio di cassa, applicabile ai redditi di lavoro e di capitale, principio di
competenza, applicabile ai redditi d’impresa).

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CAPITOLO 2: I REDDITI FONDIARI

1. I redditi fondiari e il catasto


Il legislatore tributario non esprime una nozione giuridica del reddito, prevedendo l’assoggettamento a
tassazione dei redditi rientranti nelle categorie indicate nell’art.6 T.U.I.R (Testo unico delle imposte sui
redditi) (redditi fondiari, redditi di capitale, redditi di lavoro dipendente, redditi di lavoro autonomo etc.),
secondo un “metodo casistico”. Per redditi fondiari si intendono i redditi inerenti ai terreni e ai fabbricati
situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto
dei terreni. I redditi fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, “a formare il reddito
complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto, o altro
diritto reale”. Se il possesso dell’immobile è stato trasferito, in tutto o in parte, nel corso del periodo
d’imposta, “il reddito fondiario concorre a formare il reddito complessivo di ciascun soggetto
proporzionalmente alla durata del suo possesso”. La L. 1° marzo 1886 (c.d. Legge Messedaglia) stabiliva
che tutti i comuni italiani
dovessero uniformarsi alle regole del “nuovo catasto geometrico particellare”.
Secondo il modello prescelto, il catasto doveva essere e restare nazionale, con caratteristiche di
uniformità ed omogeneità su tutto il territorio dello Stato. Con la riforma tributaria del 1971, tale assetto
di poteri e di funzioni non è stato modificato. Nel dare attuazione alla delega, il d.P.R. 26 ottobre 1972,
n.650 adottò disposizioni per “il perfezionamento e la revisione del sistema catastale”, apportando alcune
innovazioni, senza tuttavia disconoscerne l’impianto.

2. I redditi dominicali e i redditi agrari


Il legislatore tributario classifica i redditi fondiari in tre distinte sottocategorie: i redditi dominicali, i
redditi agrari e dei fabbricati. Il reddito dominicale “è costituito dalla parte dominicale del reddito medio
ordinario ritraibile dal terreno attraverso l’esercizio delle attività agricole di cui all’art.32”. La definizione
normativa s’inquadra nella concezione tradizionale risalente al Messedaglia, secondo cui il reddito dei
terreni è costituito da quattro parti, attribuite, rispettivamente, alla terra nel suo stato ordinario e
naturale, al capitale di miglioramento che vi si investe, al capitale di esercizio, al lavoro. La categoria dei
redditi dominicali comprende non l’intero prodotto agrario ma “quella parte di esso che dicesi rendita”.
Le operazioni di stima, consistenti nella qualificazione e nella classificazione, interessano più direttamente
l’applicazione dell’imposta, in quanto consentono di valutare economicamente il terreno e di attribuire
adesso il corrispondente reddito imponibile. Nel corso di tali operazioni, i periti catastali raccolgono le
notizie, i dati e gli elementi che dovranno servire per la formazione delle tariffe e per le successive
operazioni di classamento. Il reddito determinato catastalmente presenta tre requisiti fondamentali: è
medio, in quanto non indica il prodotto effettivo d’una determinata particella, ma tiene conto dei caratteri
d’una particolare zona censuaria; è ordinario, nel senso che assume gli indici medi della zona, ed è,
infine, continuativo, in relazione al fatto che i valori determinati sono considerati costanti nel tempo.
Variazioni del reddito dominicale possono verificarsi in caso di sostituzione della qualità di coltura allibrata
in catasto con altre di maggiore o minore reddito, di diminuzione della capacità produttiva del terreno per
naturale esaurimento o per altra causa, o per eventi fitopatologici o entomologici interessanti le
piantagioni.
Nel caso in cui si verifichi la perdita, per eventi naturali, di almeno il 30% del prodotto ordinario del fondo
rustico, il reddito dominicale, per l’anno in cui si è verificata la perdita, si considera inesistente. L’evento
dannoso deve essere denunciato dal possessore danneggiato entro tre mesi dalla data in cui si è
verificato. La denuncia deve essere presentata all’ufficio tecnico erariale, che provvede all’accertamento
della diminuzione del prodotto. Se l’evento dannoso interessa una pluralità di fondi rustici, gli uffici tecnici
erariali, provvedono alla delimitazione delle zone danneggiate e all’accertamento della diminuzione dei
prodotti e trasmettono agli uffici delle entrate, indicando le ditte catastali comprese nella zona ed il
reddito dominicale relativo a ciascuna di esse. Il reddito agrario, anch’esso determinato secondo l’estimo
censuario, è costituito “dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabili al capitale d’esercizio
e al lavoro di organizzazione impiegati, nei limiti della potenzialità del terreno, nell’esercizio di attività
agricole su di esso”. Sono considerate agricole dalla legislazione tributaria:
a. Le attività dirette alla coltivazione del terreno.
b. L’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno e le attività
dirette alla produzione di vegetali.
c. Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione e valorizzazione di prodotti
ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo.
Da ultimo, il D.M del 13 febbraio 2015 ha individuato tra gli altri, quali beni che possono essere oggetto
delle attività agricole, produzione di carni e prodotti della loro macellazione, di paste alimentari fresche e
secche, pesce, crostacei etc. Pur essendo riconducibili all’esercizio di un’attività di impresa, il reddito

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agrario partecipa, quindi, della natura fondiaria, sia per il sistema di accertamento censuario, sia in
quanto reddito medio-ordinario del terreno imputabile al capitale di esercizio e al lavoro di organizzazione
impiegati nei limiti della potenzialità del terreno. Fermo restando il principio generale in base al quale i
redditi fondiari concorrono a formare il reddito complessivo di coloro che possiedono l’immobile a titolo di
proprietà o altro diritto reale, l’art. 33 T.U.I.R contiene una deroga, stabilendo che, nei casi di affittanza
per uso agricolo, il reddito agrario concorre a formare il reddito complessivo dell’affittuario anziché del
possessore, a partire dalla data in cui ha effettuato il contratto.

3. Il reddito dei fabbricati e la cedolare secca sugli affitti


Il reddito dei fabbricati è costituito dal reddito medio ordinario ritraibile da ciascuna unità immobiliare
urbana, intendendosi per unità immobiliare urbane i fabbricati e le altre costruzioni stabili o le loro pozioni
suscettibili di reddito autonomo; conseguentemente “le aree occupate dalle costruzioni e quelle che ne
costituiscono pertinenze si considerano parti integranti delle unità immobiliari”.
Coerentemente con il carattere fondiario, il reddito delle unità immobiliari “è determinato mediante
l’applicazione delle tariffe d’estimo stabilite secondo le norme della legge catastale per ciascuna categoria
e classe ovvero, per i fabbricati a destinazione speciale o particolare, mediante stima diretta”.
Il reddito delle unità immobiliari non ancora iscritte in catastò è determinato, fino all’iscrizione,
comparativamente a quello delle unità immobiliari già iscritte. Nel corso degli anni il legislatore è
intervento più volte operando la rivalutazione degli estimi, dettando poi regole specifiche a seconda che il
fabbricato consista in unità abitative locate, non locate o adibite ad abitazione principale del contribuente.
Il reddito effettivo netto si determina riducendo il canone annuo contrattuale di locazione nella misura del
5% a titolo di spese forfettarie. La disciplina richiamata trova applicazione solo se il reddito da fabbricati
deriva da contratti di locazione in libro mercato ovvero a canone libero. Per i beni immobiliari locati ad
equo canone ai sensi della l.n.392/1978, il reddito da assoggettare all’imposta sul reddito è sempre
quello derivante dal
canone annuo di locazione ridotto del 15%. Per i beni oggetto di contratto di locazione a canone
concordato, il reddito da assoggettare ad Irpef è determinato nello stesso modo previsto per i fabbricati
locati ad uso abitativo in libero mercato, ridotto ulteriormente del 30% se il fabbricato è situato in uno dei
comuni ad alta densità abitativa. Nell’ipotesi di sublocazione, i redditi percepiti dal sublocatore rientrano
tra i redditi diversi. Le unità immobiliari non locate sono assoggettate ad un regime impositivo più
gravoso, essendo il reddito dei fabbricati aumentato nella misura di un terzo della rendita catastale.
Le unità adibite ad abitazione principale beneficiano di un regime fiscale di favor, consistente nella
deduzione dal reddito complessivo della rendita catastale dell’unità immobiliare e delle relative
pertinenze, rapportata al periodo dell’anno durante il quale sussiste tale destinazione ed in proporzione
alla quota in possesso della medesima unità immobiliare. Si intende per abitazione principale quella nella
quale la persona fisica, che la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale, o i suoi familiari dimorano
abitualmente. Inoltre, il d.lgs. n.23/2011 ha introdotto la c.d. “cedolare secca”, consistente in un’imposta
sostitutiva con l’aliquota del 21%, sui contratti di locazione a canone di mercato, e del 10% su quelli a
canone concordato. Tale regime fiscale opzionale sostituisce una pluralità di tributi, dovuti in relazione
alle locazioni immobiliari (Irpef e relative addizioni, imposta di registro e di bollo etc.), in modo da
operare un sistema di tassazione separata, funzionale a sottrarre tali redditi alla progressività
dell’imposizione.
In mancanza dell’esercizio dell’opzione ad opera del contribuente, troverà applicazione il regime fiscale
ordinario.

4. I redditi fondiari e l’imposizione personale. La riforma del catasto e la delega


(quasi del tutto) inattuata
Il trattamento tributario dei redditi fondiari è stato ed è tuttora oggetto di particolare attenzione da parte
della dottrina finanziaria. Nonostante l’asimmetria tra tassazione fondiaria di carattere catastale e
tassazione personale, la prima resta fondamentale anche all’interno dell’imposta personale. In questa
prospettiva, particolare rilevanza assume il decentramento delle funzioni catastali in favore degli enti
locali ai quali la legge attribuisce il compito di delimitare le zone agrarie interessate da eventi calamitosi
comprendendovi anche le zone inquinate. Ciò consentirebbe, oltre ad una maggiore efficacia delle attività
di contrasto dell’evasione, l’individuazione delle vocazioni di aree aventi caratteri omogenei, in modo da
assicurare la qualità dei prodotti e la loro conformità ai requisiti previsti dagli organi di tutela e di
controllo. L’intervento normativo, nell’intento di apportare una revisione organica alla struttura del
catasto dei fabbricati, ha focalizzato, l’attenzione sulle nuove funzioni statistiche e sui moderni algoritmi
di stima delle rendite catastali e dei valori patrimoniali. Il terzo comma dell’art. 2, l.n. 23/2014, delega il
Governo ad emanare norme volte a ridefinire le competenze e il funzionamento delle commissioni
censuarie provinciali e della commissione censuaria centrale e introducendo procedure deflative del

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contenzioso, in funzione delle nuove competenze attribuite, assicurando la presenza in essere di
rappresentanti dell’Agenzia delle entrate, di rappresentanti degli enti locali.
In questa luce, ulteriore obiettivo perseguito è quello di assicurare la cooperazione tra l’Agenzia delle
entrate e i comuni, con particolare riferimento alla raccolta e allo scambio delle informazioni necessarie
all’elaborazione dei valori patrimoniali e delle rendite.

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CAPITOLO 3: I REDDITI DI CAPITALE

1. Definizione della categoria: gli interessi


Pur se compresi nelle categorie reddituali dell’Irpef, i redditi di capitale presentano peculiarità che li
rendono in qualche modo autonomi, sfuggendo in larga parte alla tassazione progressiva in quanto non
riconducibili al reddito complessivo.
Come le altre fonti produttive (lavoro, impresa), anche il capitale non produce redditi compresi in
un’unica categoria, permanendo la dicotomia tra redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria.
La disciplina dei redditi di capitale stabilita dagli artt. 44 e seg. del T.U.I.R, non contiene una definizione
unitaria comprensiva, contemplando separatamente le diverse fattispecie. Tra le diverse fattispecie quella
di maggiore rilievo è riportata nella lettera a) dell’art. 44 T.U.I.R, relativa agli interessi e agli altri
proventi derivanti da mutui, depositi e conti correnti. Se l’art. 1282 c.c., stabilisce il principio secondo cui
i crediti liquidi ed esigibili producono interessi di pieno diritto, pur facendo salve le eventuali deroghe, gli
artt. 1813 e 1814 c.c. configurano il mutuo come contratto reale, recando la presunzione di redditività.
Coerentemente con tale assetto, il comma 2 dell’art. 45 T.U.I.R, dispone che “per i capitali dati a mutuo
gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per
iscritto”. Fondamentale è, dunque, l’esistenza del titolo, il quale deve contenere tutti gli elementi che
regolano il rapporto di mutuo. La disposizione prevede, altresì, che “se le scadenza non sono stabilite per
iscritto, gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta”. Nella stessa
categoria rientrano anche gli interessi derivanti dai rapporti di deposito e di conto corrente. Con riguardo
al primo, l’art. 1834 c.c., stabilisce che “nei depositi di una somma di denaro presso una banca, questa
ne acquista la proprietà ed è obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria, alla scadenza del
termine convento ovvero a richiesta del depositante, con l’osservanza del periodo di preavviso stabilito
dalle parti o degli usi”. Il secondo rapporto è disciplinato, a sua volta, dall’art. 1823 c.c., che definisce il
conto corrente come “il contratto col quale le parti si obbligano ad annotare in un conto i crediti derivanti
da reciproche rimesse, considerandoli inesigibili e indisponibili fino alla chiusura del conto”. In forza di
tale rapporto, le partite contrapposte sono produttive di interessi attivi e passivi, che hanno, per
l’ordinamento tributario, eguale rilevanza, anche se differente qualificazione: mentre, infatti, gli interessi
percepiti dalla banca sono ricavi che concorrono alla formazione del reddito d’impresa, quelli corrisposti
dalla banca stessa sono redditi per i risparmiatori.

2. Gli utili derivanti dalla partecipazione in società ed enti soggetti ad Ires


L’art. 44, primo comma lettera c), comprende fra i redditi di capitale gli utili derivati dalla partecipazione
al capitale o al patrimonio di società ed enti soggetti ad Ires. Esistenza ed ammontare degli utili
dipendono dalla gestione aziendale, che espone il partecipante anche al rischio di perdite.
Ciò nonostante, la disciplina tributaria sancisce il principio della tassazione dei redditi di capitale al lordo
del loro ammontare e conseguentemente l’irrilevanza fiscale delle perdite subite. La tassazione dei
dividendi societari in capo al socio ha avuto luogo con modalità diverse. Il c.d. “metodo dell’imputazione”
contemplava la tassazione in via definitiva in capo ai soci dell’utile societario in base alle loro aliquote
progressive. Tale modello era stato completato nel 1977 con l’introduzione del credito d’imposta che
consentiva il recupero da parte del socio della quota d’imposta sulle società insistente sul dividendo
percepito. Con l’abolizione del credito d’imposta disposta con l’entrata in vigore del d.lgs. n.344/2003, è
stato introdotto il c.d. regime dell’esenzione, in forza del quale i dividendi erogati dalla società soggetta
ad Ires sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o di imposta sostitutiva. Gli utili percepiti da
società di capitali e dagli altri soggetti Ires vengono tassati nella misura del 5%. Sugli utili percepiti da
soggetti esenti o esclusi da Ires, è prevista l’applicazione di una ritenuta d’imposta del 26%. La
tassazione, limitata al 5% dell’ammontare percepito, si applica anche ai dividenti esteri, ad eccezione di
quelli distribuiti da società residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata.
In caso di aumento del capitale sociale mediante passaggio di riserve o altri fondi a capitale, le azioni
gratuite di nuova emissione e l’aumento gratuito del valore nominale delle azioni o quote già emesse non
costituiscono utili per i soci (art. 47, comma 6, T.U.I.R). Il principio incontra, tuttavia, un limite, in
quanto la stessa norma prevede che esso sia applicabile soltanto se e nella misura in cui l’aumento sia
avvenuto mediante passaggio a capitale di riserve o fondi indicati nel comma 5.

3. Interessi e altri proventi delle obbligazioni e titoli similari e degli altri titoli diversi
dalle azioni e titoli similari
La lettera b) del comma 1 dell’art. 44 T.U.I.R, comprende tra i redditi di capitale gli interessi e gli altri
proventi delle obbligazioni e titoli similari. La norma comprende sia i proventi dei titoli tipici che sei titoli
atipici. Si considerano similari alle azioni i titoli e gli strumenti finanziari emessi da società ed enti, la

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cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società
emittente. Le partecipazioni al capitale o al patrimonio, nonché i titoli e gli strumenti finanziari, emessi da
società ed enti, si considerano similari alle azioni a condizione che la relativa remunerazione sia
totalmente indeducibile nella determinazione del reddito nello Stato estero di residenza del soggetto
emittente. Il legislatore, nel disciplinare la ‘similarità’ alle azioni ed obbligazioni, utilizza diversi criteri
distintivi: per gli strumenti finanziari assimilati alle azioni, la natura delle remunerazioni, consistente nella
partecipazione ai risultati economici; per gli strumenti finanziari assimilati alle obbligazioni, la natura del
rapporto e le caratteristiche del titolo. I titoli ‘di massa’ sono normalmente assimilati alle obbligazioni,
non attribuendo alcun diritto di partecipazione diretta o indiretta alla gestione dell’impresa emittente.
Tra le obbligazioni soggette a particolari adempimenti, la dottrina individua alcune particolari figure. Nelle
obbligazioni senza cedole, mancando la corresponsione periodica degli interessi, il rendimento è costituito
dalla differenza fra il prezzo pagato all’emissione e il valore nominale rimborsato, trattandosi di un tipo di
finanziamento a lungo termine. Più complessa e articolata è, invece, la figura delle obbligazioni con
Warrant che consistono in presiti obbligazionari, contenenti un buono, che può servire per sottoscrivere
azioni della medesima oppure di altre società; carattere peculiare del Warrant è l’autonomia rispetto al
titolo originario.

4. Utili derivanti dai contratti di associazione in partecipazione


Il comma 1, lettera f) art. 44 T.U.I.R, comprende tra i redditi di capitale gli utili derivanti da associazione
in partecipazione e dai contratti di cointeressenza indicati nel primo comma dell’art. 2554 c.c. (secondo
cui le disposizioni degli artt. 2551 (diritti ed obbligazioni di terzi) e 2552 (diritti dell’associante e
dell’associato) del c.c. si applicano anche al contratto di cointeressenza agli utili di un’impresa senza
partecipazione alle perdite ed al contratto con il quale un contraente attribuisce la partecipazione agli utili
e alle perdite della sua impresa. Definendo la figura corrispondente, l’art. 2549 c.c., stabilisce che “con il
contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli
utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto”.
L’associazione in partecipazione si presta anche al finanziamento di opere che, per l’ampia dimensione, si
avvalgono di titoli atipici. I certificati rappresentativi dell’associazione in partecipazione consentono, il
frazionamento del capitale occorrente assicurando la circolazione mediante la girata anche in bianco.
Pertanto, per i contratti di associazione in partecipazione e cointeressenza, in presenza di apporti di
capitale o misti, il precettore subirà l’imposizione per cassa, secondo la disciplina disposta per i dividendi,
con applicazione della ritenuta a titolo di imposta del 26% indipendentemente dal valore della
partecipazione.

5. Utili corrisposti a mandanti o fiducianti da società o enti che hanno per oggetto la
gestione di masse patrimoniali
La lettera g) dell’art. 44 T.U.I.R, comprende, fra i redditi di capitale, i proventi derivanti dalla gestione,
nell’interesse collettivo di pluralità di soggetti, di masse patrimoniali costituite con somme di denaro e
beni affidati da terzi o provenienti dai relativi investimenti. Nota come “negotiorum gestio”, questa figura
si differenzia dalle altre indicate per la personalità del rapporto e per la mancanza di un patrimonio
comune. La norma comprende tra le altre anche la gestione collettiva di masse patrimoniali da parte degli
organismi
d’investimento collettivo del risparmio (O.I.C.R Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio).
Maggiori difficoltà presenta il mandato per la gestione di un patrimonio, se vi è erogazione di un
corrispettivo periodico, si parlerà di reddito, mentre, se la differenza di valore è corrisposta una tantum,
alla conclusione dell’affare, avremo una vera e propria plusvalenza, tassabile in modo differenziato, a
seconda che il soggetto al quale è corrisposta abbia o meno la qualifica di imprenditore. Per quanto
concerne la disciplina degli Organismi di Investimento, l’art. 26 del d.p.r. n.600 del 1973 disciplina le
modalità di tassazione in capo ai partecipanti dei redditi di capitale derivanti dalla partecipazione a OICR
italiani, rientrando in tale categoria: - i proventi distribuiti in costanza di partecipazione all’OICR; - i
proventi conseguiti in sede di riscatto, cessione o liquidazione delle quote.
Ai sensi del citato art.26, sui redditi di capitale di cui all’art. 44 T.U.I.R, derivanti dalla partecipazione
all’OICR, è applicata una ritenuta alla fonte del 26%, che va tuttavia applicata ad una base imponibile
“ridotta”.
Secondo le norme richiamate, l’intero provento del partecipante per la cessione di quote degli OICR
costituisce esclusivamente reddito di capitale; la differenza eventualmente negativa determinata in sede
di operazioni di riscatto, cessione o liquidazione delle quote o azioni costituisce, invece, una minusvalenza
rilevante fiscalmente secondo le regole proprie dei redditi diversi di natura finanziaria. L’utilizzo dei valori
effettivi di acquisto o cessione nella determinazione dei redditi di capitale nelle operazioni di riscatto,
cessione o liquidazione di quote o azioni, comporta l’impossibilità di rilevare una plusvalenza nell’ambito

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dei redditi diversi, residuando soltanto l’emersione di eventuali minusvalenze in presenza di una
differenza negativa nelle dette operazioni, deducibili sulla base delle regole ordinarie.
L’impossibilità di compensare i risultati negativi di un OICR con i risultati positivi dello stesso, o di altri
organismi, costituisce una grave inefficienza fiscale, che viene meno solo nell’ipotesi in cui le quote di
OICR siano inserite in una gestione patrimoniale individuale per la quale sia stata esercitata l’opzione per
il regime del risparmio gestito. Per gli OICR immobiliari, invece, i proventi derivanti dalla cessione delle
quote o azioni costituiscono redditi diversi, senza alcuna deduzione dei redditi di capitale.

6. Altri proventi:
a) Proventi derivanti da riporti e pronti contro termine su titoli e valute.
b) Proventi derivanti dal mutuo di titoli garantito.
La lettera g) dell’art. 44 T.U.I.R include fra i redditi di capitale i proventi derivanti dalle operazioni di
riporto e di pronti contro termine su titoli e valute, qualunque sia la natura del titolo scambiato (titoli
rappresentativi di quote o di fondo comuni di investimento, titoli atipici, certificati di deposito ecc.). La
norma comprende, inoltre, i proventi rivenienti dalle operazioni di riporto mediante le quali una parte
(riportato) trasferisce all’altra (riportatore) titoli di crediti di una determinata specie, per un determinato
prezzo, con l’impegno di retrocedere, alla scadenza del termine stabilito, la proprietà di altrettanti titoli
della stessa specie, verso rimborso del prezzo che può essere aumentato o diminuito nella misura
convenuta. Costituiscono redditi di capitale anche i proventi rivenienti dalle operazioni di pronti contro
termine di valute: a questa categoria si possono ricondurre i c.d. currency swaps mediante i quali le parti
effettuano scambi di capitali, espressi in diverse valute, corrispondendo somme aggiuntive determinate
sulla base dei tassi di rendimento delle valute. Per quanto riguarda la determinazione del reddito da
sottoporre a imposizione, l’art. 45 T.U.I.R assume la differenza positiva tra i corrispettivi globali di
trasferimento dei titoli e delle valute dalla quale si scomputano gli interessi e gli altri proventi dei titoli,
non rappresentativi di partecipazioni.
La leggera g) dell’art. 44 T.U.I.R comprende tra i redditi di capitale i proventi derivanti dal mutuo di titoli
garantito.

7. Guadagni differenziali
L’art. 45 comma 1 T.U.I.R, comprende tra i redditi di capitale i guadagni differenziali (differenza tra la
somma percepita o il valore normale dei beni ricevuti alla scadenza e il prezzo di emissione o la somma
impiegata, apportata o affidata in gestione). La qualificazione di queste ‘differenze’ come redditi di
capitale, imponibili in quanto tali, trae fondamento dalla considerazione che esse sono direttamente e
automaticamente inerenti al contratto o al titolo e alla relativa vicenda giudica tipica. L’ampliamento della
categoria rende possibile includere anche i valori differenziali tra la somma trasferita e quella percepita
alla scadenza del rapporto, i quali perdono il carattere di plusvalenza, divenendo veri e propri redditi.

8. Compensi per prestazioni di fideiussioni o di altre garanzie


La lettera d) dell’art. 44 T.U.I.R, indica tra i redditi di capitale “i compensi per prestazioni di fideiussione o
di altra garanzia”. Il legislatore individua non la figura, ma la qualifica del soggetto, definendo
“fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisca l’adempimento di
”un’obbligazione altrui”.
Indipendentemente dalla natura della garanzia, sorge il problema del titolo dell’imposizione,
correlativamente all’esistenza di una base imponibile. Poiché la fideiussione e le altre forme di garanzia
non implicano un impiego diretto di capitale, c’è da chiedere se è corretto l’inquadramento di tali
compensi nella
categoria dei redditi di capitale, ovvero nella categoria dei redditi occasionali.
Un’analisi più ampia consente di porre in evidenza, come la garanzia, pur senza trasferire a terzi un
determinato capitale, ne vincola in qualche modo la disponibilità. In sostanza, il carattere di sussidiarietà,
invocato per escludere l’imposizione della garanzia, fornisce un valido motivo a favore della qualificazione
dei proventi relativi come redditi di capitale, poiché la garanzia, coprendo l’area del debito, ne condivide
la natura.

9. Rendite perpetue e altre prestazioni periodiche


La lettera c) dell’art. 44 T.U.I.R, comprende tra i redditi di capitale le rendite perpetue e le prestazioni
annue perpetue di cui agli artt. 1861 e 1869 c.c.
Art. 1861 c.c., in base al quale, “col contratto di rendita perpetua una parte conferisce all’altra il diritto di
esigere in perpetuo la prestazione periodica di una somma di denaro o di una certa quantità di altre cose
fungibili, quale corrispettivo dell’alienazione di un immobile e della cessione di un capitale”. Le rendite

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perpetue sono caratterizzate, quindi, dal carattere della fonte, costituita da un immobile oppure da un
capitale, anche se il fondamento non è individuabile in un dominio diretto sulla cosa. Nell’ambito della
categoria della rendita perpetua, il Codice civile stabilisce, tuttavia, una distinzione tra la rendita
fondiaria, costituita mediante alienazione di un immobile, e la rendita semplice costituita mediante
cessione di un capitale. Gli artt. 1864 c.c. (garanzie per la rendita semplice), 1865 e 1866 c.c. (diritto di
riscatto della rendita perpetua ed esercizio del riscatto), 1867 c.c. (riscatto forzoso) e 1868 c.c. (riscatto
per insolvenza del debitore), “si applicano ad ogni altra annua prestazione perpetua costituita a qualsiasi
titolo, anche per atto di ultima volontà. Da ciò discende l’equiparazione, ai fini tributari, di queste
prestazioni alla rendita perpetua.

10. Altri proventi in misura definita derivanti dall’impiego di capitale


La lettera h), comma 1, art. 44 T.U.I.R, include fra i redditi di capitale “gli interessi e gli altri proventi
derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale”. Essa comprende, pertanto,
qualunque reddito derivante dall’impiego di capitale, restano peraltro esclusi i proventi che, pur derivando
dall’impiego di capitale, abbiano natura aleatoria. Coerentemente con questo principio, l’art. 48 T.U.I.R,
stabilisce che “non costituiscono redditi di capitale gli interessi, gli utili e gli altri proventi di cui ai
precedenti articoli conseguiti dalle società ed enti soggetti all’Ires”.

11. Determinazione del reddito


Il comma 1 dell’art. 45 T.U.I.R, stabilisce che “il reddito di capitale è costituito dall’ammontare degli
interessi, utili o altri proventi percepiti nel periodo d’imposta, senza alcuna deduzione”. Il riferimento alla
“percezione” viene inteso come elemento che individua il momento in cui il reddito è imponibile: vale a
dire, quando la somma da corrispondere entra nella sfera giuridica del contribuente, non essendo
sufficiente l’esistenza del puro e semplice diritto alla prestazione relativa.

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CAPITOLO 4: I REDDITI DI LAVORO DIPENDENTE

1. Il lavoro nell’imposizione sul reddito


Il lavoro tende ad atteggiarsi sia come un’attività che consente di ottenere i mezzi economici per far
fronte ai propri bisogni personali o familiari, sia come strumento essenziale di autorealizzazione,
soddisfacendo, non solo economicamente, colui che lo svolge. Nucleo centrale del rapporto di lavoro
restano l’obbligazione di prestare il lavoro e quella retributiva, ruotando attorno ad esse una serie di
diritti, poteri, doveri ed oneri.
Dal punto di vista tributario, la condotta umana che costituisce oggetto dell’obbligazione di lavoro assume
rilevanza in quanto, assicurando a chi la presta il diritto alla retribuzione o ad altre utilità economiche, da
luogo alla produzione di nuova ricchezza suscettibile di essere sottoposta all’imposizione reddituale.
Conseguentemente, per qualificare correttamente il reddito derivante dalla fonte-lavoro occorre ave
riguardo alle modalità di esecuzione in via fattuale del rapporto avendo ad oggetto la prestazione di
lavoro. Nella vigente disciplina delle imposte sul reddito, la componente “lavoro” è considerata ai fini della
definizione normativa dei redditi di lavoro dipendente e di quelli di lavoro autonomo. Danno, invece,
luogo a redditi diversi quelli derivanti da attività di lavoro occasionale ovvero dall’assunzione di obblighi di
fare.

2. L’identificazione della categoria dei redditi di lavoro dipendente


Dalle disposizioni del testo unico emerge lo stretto collegamento tra la qualificazione tributaria del reddito
di lavoro, dipendente o autonomo, al concreto esplicarsi dell’attività lavorativa: l’art. 49, primo comma,
stabilisce che “sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la
prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione altrui, compreso il lavoro
a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme sulla legislazione del lavoro”.
L’art.53, primo comma, considera, invece, redditi di lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio
per professione abituale, d’arti e professioni diverse da quelle che danno luogo a reddito d’impresa.
Ai fini della qualificazione del reddito, non rilevano, invece, il tipo o la natura del lavoro prestato; ciò in
quanto, qualunque attività umana che si traduca nell’impiego di energie fisiche o psichiche che è
astrattamente suscettibile di produrre redditi riconducibili alle categorie del lavoro dipendente, del lavoro
autonomo, dipendono da qualificazione della stessa da elementi strutturali e funzionali.
Occorre sottolineare che, nel lavoro dipendente, il prestatore d’opera non assume alcuna iniziativa
economica, mettendo a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative. L’assenza di
iniziativa economica si collega alla mancanza di controllo degli strumenti necessari allo svolgimento
dell’attività. Logica conseguenza è l’assoggettamento del lavoratore dipendente al potere direttivo,
organizzativo e disciplinare di colui che ha la proprietà, la disponibilità o la responsabilità di tali strumenti.
La subordinazione presenta, quindi, un duplice contenuto: uno negativo ed uno positivo; il primo consiste
nell’assenza di qualsiasi componente di carattere patrimoniale (c.d. valore capitale negoziabile); il
secondo nella soggezione tecnica e funzionale della prestazione al potere di determinazione del datore di
lavoro. Sul piano applicativo, anche altri elementi, come l’osservanza di un orario di lavoro, l’inserimento
nell’organizzazione produttiva del datore di lavoro, la predeterminazione della retribuzione, ecc. sono
stati considerati connotati tipici del lavoro dipendente. Analogamente ai redditi di capitale, anche i redditi
di
lavoro dipendente sono redditi puri, in quanto traggono origine da una sola fonte: l’attività personale del
soggetto, senza che abbia rilevanza l’impiego di capitale. Costruiscono, inoltre, redditi di lavoro
dipendente altri proventi che, sono comunque ricollegabili ad essa, come avviene per le pensioni di ogni
genere e per gli assegni ad esse equiparati.

3. Redditi assimilai a quelli di lavoro dipendente


L’art 50, reca, invero, un’elencazione confusa di fattispecie reddituali accumunate tra loro, oltre che dalla
non immediata riconoscibilità alle altre categorie tipiche, da una qualche contiguità con il rapporto di
lavoro
Dipendente:
- Compensi percepiti da soci di cooperative di produzione e lavoro, di servizi agricoli ecc. (lettera
a).
- Indennità e compensi a carico di terzi percepiti da prestarmi di lavoro dipendente (lettera b).
- Borse di studio, premi o sussidi per fini di studio o di addestramento professionale (lettera c).
- Redditi derivanti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (lettera c-bis).
- Remunerazioni e congrue dei sacerdoti (lettera d).
- Attività di libero professionale intramuraria (lettera e).
- Indennità ed altri compensi per l’esercizio di pubbliche funzioni (lettera f).
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- Le rendite vitalizie e le rendite a tempo determinato (lettera h).
- Prestazione pensionistiche complementari (lettera h-bis).
- Altri assegni periodici alla cui produzione non concorrono attualmente il capitale o il lavoro
(lettera i).
- Il reddito dei lavoratori socialmente utili (lettera l).
4. La determinazione del reddito di lavoro dipendente
L’art. 51 T.U.I.R stabilisce che il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in
genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, in relazione al rapporto di lavoro.
Coerentemente con prassi amministrativa e parte della giurisprudenza (c.d. retribuzione globale), il
legislatore tributario ha allargato la base imponibile fiscale.
In base al comma 2, non concorrono a formare reddito i contributi previdenziali e assistenziali versati dal
datore di lavoro o:
a. Lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge; i contributi di assistenza sanitaria versati dal
datore di lavoro o dal lavoratore a enti o casse aventi esclusivamente fine assistenziale.
b. Soppressa B.
c. Le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro o in mense organizzate direttamente dal
datore di lavoro oppure gestite da terzi.
d. Le prestazioni di servizi di trasporto collettivo alla generalità o a categorie di dipendenti, anche se
affidate a terzi, ivi compresi gli esercenti servizi pubblici.
d-bis. Le somme erogate o rimborsate alla generalità o a categorie di dipendenti dal datore di lavoro o
le spese da quest’ultimo direttamente sostenute volontariamente o in base ad accordi aziendali
per l’acquisto di abbonamenti al trasporto pubblico.
e. I compensi reversibili di cui alla lettera f) (indennità per lo svolgimento di pubbliche funzioni).
A differenza della precedente formulazione, secondo cui i compensi in natura “concorrono a formare il
reddito in misura pari al costo specifico sostenuto dal datore di lavoro”, quella attuale prevede la
tassazione dei valori dei beni ceduti e dei servizi prestati al coniuge del dipendente o a familiari indicati
nell’art. 12, o il diritto di ottenerli da terzi.

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CAPITOLO 5: I REDDITI DI LAVORO AUTONOMO

1. Nozione di reddito di lavoro autonomo


La tradizionale contrapposizione tra locatio operis e locatio operarum tende a riproporsi nella legislazione
più recente attraverso il confronto duale tra lavoro dipendente e lavoro autonomo o professionale. La
disciplina tributaria è contenuta nell’art. 53, primo comma, T.U.I.R, in base al quale i “redditi di lavoro
autonomo sono definiti come quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni”, “per esercizio di arti e
professioni si intende l’esercizio per processione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro
autonomo diverse da quelle considerate nel capo VI (redditi di impresa). L’attività di lavoro autonomo
viene individuata attraverso il riferimento ai requisiti adoperati anche per definire il reddito impresa
(professionalità, abitualità, organizzazione). Mentre, infatti, l’attività produttiva formante oggetto
dell’impresa si manifesta attraverso il mercato, quella di lavoro autonomo trova il suo paradigma nel
rapporto fiduciario con il professionista e nella professionalità comprovata dall’iscrizione in appositi albi o
elenchi.
Va evidenziato che l’espressione “esercizi di arti e professioni” sta a significare lo svolgimento di
un’attività umana di natura professionale o creativa, di ingegno ovvero più in generale che implica abilità
o che presuppone conoscenze o tecniche acquisite con una specifica preparazione. L’ampiezza della
formula adoperata dal legislatore induce a considerare produttive di reddito di lavoro autonomo anche le
attività artistiche o professionali prestate in modo irregolare o illecito. Conforta tale conclusione l’art. 14,
commi 4 e 4-bis, della l. n. 537/1993 per effetto del quale nelle categorie di reddito di cui all’art. 6,
comma 1, T.U.I.R devono intendersi compresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come
illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. La stessa
disposizione aggiunge che i redditi di fonte illecita devono essere determinati con le stesse regole stabilite
per i corrispondenti redditi di fonte lecita.
Deve ritenersi che lo schema giuridico attorno al quale ruota la definizione del lavoro autonomo sia il
contratto d’opera, inteso come il contratto in forza del quale “una persona si obbliga a compiere verso un
corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione
nei confronti del committente”.

2. Determinazione del reddito


Il reddito di lavoro autonomo si determina al netto delle spese deducibili, essendo costituto dalla
differenza fra componenti positivi e negativi (come per i redditi d’impresa) inerenti all’attività svolta,
rilevati attraverso strumenti di carattere contabile. Ai fini della determinazione del reddito, si rende
operante il principio di cassa di cui al primo comma dell’art. 54, T.U.I.R, dovendo aversi riguardo ai
compensi in denaro o in natura, anche sotto forma di partecipazione agli utili, percepiti nel periodo
d’imposta, al netto dei contributi previdenziali e assistenziali a carico del soggetto obbligato, e le spese
sostenute nel periodo stesso. La natura del reddito prodotto del lavoro autonomo incontra, tuttavia,
alcune eccezioni, dovendo aversi riguardo anche alle plusvalenze e minusvalenze rivenienti dalla cessione
a titolo oneroso dei beni strumentali, escluse le opere d’arte o di antiquariato.
In base al comma 3 dell’art. 54 T.U.I.R, le spese relative all’acquisto di beni mobili, adibiti
promiscuamente all’esercizio dell’arte o professione e all’uso personale o familiare del contribuente sono
ammortizzabili o deducibili, nella misura del 50%. Per gli immobili utilizzati promiscuamente è deducibile
una somma parti al 50% della rendita catastale, anche se utilizzati in base a contratto di locazione
finanziaria, ovvero una somma pari al 50% del canone di locazione.
Il comma 5 dell’art. 54 T.U.I.R, introduce limiti per le spese relative a prestazioni alberghiere, deducibili
nella misura del 75% e, in ogni caso, per un importo complessivamente non superiore al 2%
dell’ammontare dei compensi percepiti nel periodo di imposta. Le spese di partecipazione a convegni,
congressi e simili o a corsi di formazione, master e aggiornamento professionale, incluse quelle del
viaggio e soggiorno, sono integralmente deducibili entro il limite annuo di dieci mila euro.

3. I redditi equiparati a quelli di lavoro autonomi

A. Redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno


Il meccanismo dell’assimilazione, oltre che per i redditi di lavoro dipendente, ricorre anche per quelli di
lavoro autonomo e precisamente per talune fattispecie. L’elencazione dei redditi equiparati a quelli di
lavoro autonomo si è via via arricchita, a seguito dell’art. 34 l.342 del 2000. La lettera b) comma 2
dell’art. 53 T.U.I.R, disciplina i redditi derivanti dall’utilizzazione economica, da parte dell’autore o
inventore di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad
esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell’esercizio

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di imprese commerciali. Il quadro normativo è integrato dall’art. 54, comma 8, T.U.I.R, il quale prevede
l’assoggettamento a tassazione nella misura del 75% dell’ammontare dei proventi in denaro o in natura
percepiti nel periodo d’imposta anche sotto forma di partecipazioni agli utili (ridotto al 60% se percepiti
da soggetti di età inferiore a 35 anni).

B. I redditi erogati all’associato in partecipazione con apporto di solo lavoro


Tra le diverse fattispecie di redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo particolare attenzione va
riservata al contratto di associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro. Attraverso tale
contratto un imprenditore chiamato “associante” attribuisce ad un altro soggetto detto “associato”, una
partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo del suo apporto
costituito, appunto, da una prestazione di carattere lavorativo. L’art. 53 del d.lgs. n.81/2015 in base al
quale, nel caso di associato persona fisica, l’apporto da lui reso per ottenere da parte dell’associante una
partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari, non può consistere in una prestazione di
lavoro. Resta ferma la possibilità di stipulare contratti di associazione in partecipazione con soggetti
giuridici non persone fisiche.

C. Le indennità per la cessazione dei rapporti di agenzia


Sebbene il reddito dell’agente di commercio si inquadri tra quelli di impresa, l’art. 53, comma 2, lettera e)
T.U.I.R, con una soluzione che non brilla di coerenza, colloca le indennità dovute per la cessazione dei
rapporti di agenzia, tra i redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo.

D. I redditi derivanti dalla levata dei protesti esercitata dai segretari comunali
L’art. 53, comma 2, lettera f) T.U.I.R, derogando al principio della tassazione onnicomprensiva che
informa la disciplina in materia di lavoro dipendente, assimila ai redditi di lavoro autunno, o i redditi
percepiti per la levata dei protesti dai segretari comunali, sebbene rivestano la qualità di lavoratori.

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CAPITOLO 6: I REDDITI D’IMPRESA

1. L’impresa e i redditi di impresa nella legislazione tributaria


Nel riordinare la disciplina delle imposte sui redditi, il d.lgs. 344 del 2003, ha scomposto la disciplina del
reddito d’impresa tra Irpef e Ires, collocando all’interno di quest’ultima le norme riguardanti componenti
positivi e negativi e le norme generali sulle valutazioni.
Delimitando la categoria, l’art. 55 T.U.I.R, definisce redditi d’impresa quelli che “derivano dall’esercizio di
imprese commerciali” intendendo con tale formula “l’esercizio per professione abituale, ancorché non
esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c.” (imprenditori soggetti a registrazione).

2. I redditi derivanti dallo sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi,


stagni e altre acque interne. Le altre attività agricole
L’art. 55, comma 2, lettera b) comprende tra i redditi d’impresa anche quelli “derivanti dallo sfruttamento
delle miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne”.
Da taluni ritenuta scontata, la disposizione appare opportuna riconoscendo la commercialità di un’attività
avente per oggetto l’utilizzazione di beni immobili e recuperando la categoria, delle imprese c.d. civili,
nella quale confluivano imprese diverse da quelle commerciali e agricole.
Per le attività connesse dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, valorizzazione e
commercializzazione di prodotti diversi da quelli indicati nell’art. 32 T.U.I.R, ottenuti prevalentemente
dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, l’art. 56 bis T.U.I.R stabilisce che “il
reddito è determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle operazioni registrate o soggette a
registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, conseguiti con tali attività, il coefficiente di
redditività del 15%”.
La norma riguarda gli imprenditori agricoli professionali; tale qualifica, pur essendo prevista per le
persone fisiche, si applica alle società di persone, cooperative e di capitale, anche a scopo consortile.

3. Disposizioni applicabili alle imprese individuali


Disposizioni specifiche sono dettate per i redditi d’impresa delle persone fisiche, (applicabili anche alle
società semplici e agli enti non commerciali):
- Ricavi: l’art. 54 T.U.I.R comprende, fra i ricavi, anche il valore normale dei beni e delle
prestazioni di servizi, alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa, destinati
al consumo personale o familiare dell’imprenditore.
- Plusvalenze: derivanti dalla cessione di aziende non si applicano le disposizioni relative alla
formazione del reddito complessivo, quando ne è richiesta la tassazione separata. Non costituisce
realizzo di plusvalenze il trasferimento dell’azienda per causa o morte o a titolo gratuito. Tali
criteri si applicano anche qualora, a seguito dello scioglimento, entro cinque anni dall’apertura
della successione, della società esistente tra gli eredi, l’azienda resti acquisita da uno solo di essi.
Le plusvalenze di cui all’art. 87 non concorrono alla formazione del reddito imponibile in quanto
esenti, limitatamente al 60% del loro ammontare.
- Dividendi: gli utili relativi alla partecipazione al capitale o al patrimonio delle società e degli enti
di cui all’art. 73 T.U.I.R, nonché quelli relativi ai titoli e agli strumenti finanziari e le
remunerazioni relative ai contratti di associazione con apporto diverso da quello di opere e servizi
concorrono alla formazione del reddito complessivo nella misura del 40% del loro ammontare,
nell’esercizio in cui sono percepiti.
- Spese per prestazioni di lavoro: non sono ammessi in deduzione a titolo di compenso del
lavoro prestato o dell’opera svolta dall’imprenditore, dal coniuge, dai figli, nonché dai familiari
partecipanti all’impresa. L’espressione “non sono ammessi in deduzione a titolo di compenso del
lavoro prestato o dell’opera svolta” non fa comprendere, infatti, se i compensi in questione
possano essere dedotti ad altro titolo, oppure siano indeducibili.
Gli interessi passivi inerenti all’esercizio d’impresa sono deducibili per la parte corrispondente al
rapporto tra l’ammontare dei ricavi e altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa
o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi.

4. Determinazione del reddito e “doppio binario”


Quale che sia il tributo applicabile (Irpef o Ires), la determinazione del reddito d’impresa avviene
considerando “gli utili netti conseguiti nel periodo d’imposta, determinati in base alle risultanze del conto
dei profitti e delle perdite”.
L’assunzione come base imponibile fiscale delle risultanze civilistiche, pur con le necessarie variazioni
fiscali, sembra dare consistenza al principio del c.d. doppio binario che, pur non richiedendo due bilanci

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(uno ai fini civili e uno ai fini fiscali), comporta che le norme dettate per la determinazione del reddito
d’impresa rilevino solo ai fini del prelievo del tributo sul reddito (ove dispiegassero effetti fiscali si
verificherebbe il c.d. “inquinamento fiscale”).
Il criterio del reddito netto contabile implica necessariamente un complesso di attività e di valutazioni
orientate alla determinazione del risultato economico di esercizio ed ispirate dai criteri di effettività,
analiticità e certezza che devono combinarsi con esigenze di contrasto all’elusione e all’evasione.
È noto, peraltro, che bilancio di esercizio e rilevazioni contabili rispondono a più esigenze “fiscali, di
rappresentazione del patrimonio della società e di determinazione degli utili distribuibili in dividendi”.
Non può sfuggire che, mentre la disciplina civilistica offre strumenti per attuare politiche di bilancio,
anche al fine di ampliare o ridurre l’utile distribuibile, le norme fiscali sono protese ad esprimere una base
imponibile certa e resistente rispetto a possibili compressioni che abbattono il tributo, violando il principio
di capacità contributiva.
Ciò non significa che le norme fiscali riflettano sempre e comunque le esigenze di massimizzazione del
prelievo, essendo ammissibili norme di tipo promozionale che consentano variazione in diminuzione della
base imponibile fiscale al fine di promuovere e sostenere apparati produttivi o aree più deboli del paese.
Per le persone fisiche e gli enti non commerciali, l’eventuale perdita, al netto dei proventi esenti
dall’imposta per la parte del loro ammontare, che eccede i componenti negativi non dedotti, è computata
in diminuzione dal reddito complessivo a norma dell’art. 8 T.U.I.R: vale a dire, sottraendo dal reddito
complessivo le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali; la perdita, quindi, non afferisce al
reddito particolare, ma all’insieme dei redditi.
Alla formazione del reddito non concorrono i proventi dei cespiti che fruiscono di esenzione dall’imposta e
quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o a imposta sostitutiva, le indennità per la
cessazione di rapporti di agenzia delle persone fisiche e delle società di persone e le plusvalenze
realizzate mediante cessione a titolo oneroso di aziende possedute da più di cinque anni.
Per le somme attribuite o il valore normale dei beni assegnati ai soci delle società di persone nel caso di
recesso, elusione o riduzione del capitale, può essere richiesta la tassazione separata, a norma dell’art.
17, comma 2, T.U.I.R.

5. Beni relativi all’impresa


Per le imprese individuali, ai fini delle imposte sui redditi, si considerano relativi all’impresa quelli
strumentali per l’esercizio dell’impresa e i crediti acquisiti nell’esercizio dell’impresa stessa, i beni
appartenenti all’imprenditore indicati tra le attività relative all’impresa nell’inventario redatto e vidimato a
norma dell’art. 2217 c.c.
In base all’art. 2217 c.c., “l’inventario deve redigersi all’inizio dell’esercizio dell’impresa e
successivamente ogni anno e deve contenere l’indicazione delle attività e delle passività relative
all’impresa, nonché delle attività estranee alla medesima”.
Ne deriva una netta distinzione fra i beni destinati all’esercizio dell’impresa (il suo complesso costituisce
l’azienda disciplinata dall’art. 2555 c.c.) e i beni personali dell’imprenditore.
Il vigente art. 65 T.U.I.R apprezza la differente funzione fra i beni produttivi di ricavi e beni strumentali
all’esercizio della stessa impresa, suscettibili pertanto di utilizzazione ripetuta.
Per le società in nome collettivo, il comma 2 dell’art. 65 T.U.I.R, stabilisce che “si considerano relativi
all’impresa tutti i beni and esse appartenenti”.
Il terzo comma della stessa disposizione prevede che per le società di fatto si considerano relativi
all’impresa i beni indicati dal comma 1 dell’art. 85 T.U.I.R, i crediti acquisti nell’esercizio dell’impresa e i
beni strumentali per l’esercizio dell’impresa, compresi quelli iscritti in Pubblici registri a nome dei soci,
utilizzati esclusivamente come strumentali per l’esercizio dell’impresa.

6. Le imprese minori
La dimensione dell’impresa non sembra indifferente rispetto alla stessa struttura delle basi imponibili.
Ponendo in relazione entità delle basi imponibili e dimensioni aziendali si evince chiaramente come la
formazione della ricchezza e le tecniche di controllo non possono dipendere dai modelli giuridici prescelti
ma possono essere influenzate da vari fattori rispetto ai quali il legislatore non può restare indifferente.
La dimensione dell’impresa torna ad assumere rilevanza ai fini dell’accertamento.
L’attuale formulazione dell’art. 66 T.U.I.R, stabilisce che il reddito d’impresa dei soggetti ammessi al
regime di contabilità semplificata che non abbiano optato per il regime ordinario è costituito dalla
differenza tra l’ammontare dei ricavi di cui all’art. 85 e degli altri proventi, derivanti da dividendi e
interessi (art. 89 T.U.I.R) e da redditi di immobili non costituenti beni strumentali per l’esercizio
dell’impresa.
L’art. 18 disciplina la contabilità semplificata per le imprese minori. La scelta della contabilità semplificata
non è vincolata, in quanto l’art. 66 T.U.I.R permette ai contribuenti di optare per il regime ordinario.

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L’attuale formulazione prevede ancora che le quote di ammortamento sono ammesse in deduzione
secondo il disposto degli artt. 64 e 102 (ammortamento dei beni materiali) e 103 (ammortamento dei
beni immateriali), in modo da recuperare queste poste alla disciplina ordinaria.
Sempre nell’intento di adeguare l’assetto dell’impresa minore a quello ordinario, la stessa norma prevede
che “le perdite di beni strumentali e le perdite su crediti sono deducibili a norma dell’art. 101” e, pur
escludendo le deduzioni “a titolo di accantonamento”, che “gli accantonamenti di cui all’art. 105 (di
quiescenza e previdenza) sono deducibili a condizione che risultino iscritti nei registri di cui all’art. 18 del
decreto indicato al comma 1”.
Particolare importanza riveste il comma 1 dell’art. 65 T.U.I.R, che riguarda in modo specifico le imprese
individuali, per le quali la norma prevede che, ai fini delle imposte sui redditi, si considerano relativi
all’impresa, oltre che i beni indicati alla lettera a) e b) del comma 1 dell’art. 85 T.U.I.R, costituenti
oggetto dell’attività dell’impresa, quelli strumentali per l’esercizio dell’impresa stessa e i crediti acquistati
nell’esercizio dell’impresa, i beni appartenenti all’imprenditore.
L’orientamento legislativo in materia di impresa minore svuota, quindi, il criterio basilare di un sistema
tributario fondato sulla rigidità delle scritture contabili, consentendo la determinazione del reddito
d’impresa su parametri a intonazione catastale.
Considerando la legislazione positiva, si può notare che i modelli normativi sono riconducibili ad uno
schema, se non unitario, quanto meno paradigmatico, che assume come punto di riferimento per la
determinazione del reddito l’ammontare dei ricavi, prevedendo regole differenziate per valutazione e
deduzione dei costi. Con queste finalità è stato istituito il c.d. regime forfettario introdotto dall’art. 1,
commi da 54 e 89, della legge 190/2014 e modificato dalla legge 145/2018 (legge di bilancio del 2019).
Quest’ultima ha esteso l’ambito applicativo del regime agli imprenditori individuali che hanno conseguito
nel periodo di imposta precedente ricavi inferiori a 65.000 euro.
Il suddetto meccanismo di prelievo prevede un’imposta sostitutiva dell’IRPEF, delle addizionali e
dell’IRAP, con aliquota pari al 15% da applicare ad un reddito determinato in base a coefficienti di
redditività differenziati a seconda del codice ATECO che contraddistinguono l’attività svolta, la già
menzionata aliquota viene ridotta al 5% nel caso di start up esercitate nei primi cinque anni.

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CAPITOLO 7: I REDDITI DIVERSI

1. Inquadramento della categoria


Il quadro D del Modello 730 è destinato ad accogliere alcune tipologie di redditi, come i redditi di capitale,
i redditi diversi e quelli soggetti a tassazione separata.
La categoria dei redditi diversi è una categoria residuale, rispetto a quelle individuate dall’art. 6 del TUIR,
in quanto comprende le tipologie reddituali che non trovano collocazione nelle altre categorie.
In particolare, l’art. 67 del TUIR elenca, in dettaglio, tutte le fattispecie che rientrano in questa categoria.

Il quadro D del Modello 730 deve essere utilizzato dal contribuente per dichiarare alcune specifiche
tipologie di redditi. Mi riferisco, in particolare ai seguenti:
- I redditi di capitale.
- I redditi diversi, ai sensi dell’articolo 67 del DPR n 917/86 (TUIR).
- Infine, i redditi soggetti a tassazione separata.

L’art. 67 del TUIR contiene l’elencazione tassativa dei redditi rientranti nella categoria dei redditi diversi.
Si tratta di una categoria residuale dei redditi imponibili IRPEF, prevista dall’art. 6 del TUIR.
L’elencazione dei redditi contenuti in questa categoria è individuata dall’art. 67 del TUIR che contiene le
seguenti tipologie:

- Plusvalenze da cessioni immobiliari.


- Plusvalenze da cessione di partecipazioni qualificate e non qualificate.
- Plusvalenze da cessione di titoli non partecipativi, valute, metalli preziosi.
- Plusvalenze da cessione di contratti a termine.
- Plusvalenze da cessione di contratti produttivi di redditi di capitale.
- Premi, vincite ed indennità.
- Redditi di natura fondiaria non determinabili catastalmente.
- Redditi da terreni dati in affitto per usi non agricoli.
- Redditi di beni immobili situati all’estero.
- Redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno, brevetti industria, processi,
formule.
- Redditi derivanti da usufrutto e sublocazione di beni immobili.
- Redditi derivanti dall’affitto, locazione e noleggio di beni mobili.
- Redditi derivanti dall’affitto e usufrutto di aziende.
- Plusvalenze realizzate dalla vendita delle aziende acquisite per causa di morte o per atto gratuito.
- Redditi da attività commerciali non esercitate abitualmente.
- Redditi da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente. Questi redditi sono soggetti a
ritenuta a titolo d’acconto nella misura del 20%.
- Redditi dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere.
- Indennità e rimborsi derivanti da attività sportive dilettantistiche.
- Plusvalenza a seguito di trasformazione eterogenea.

I redditi ai fini IRPEF possono essere imputati seguendo il criterio di cassa (presi cioè in considerazione
nel periodo d’imposta in cui sono stati percepiti) o il criterio di competenza (prendendoli in considerazione
nel periodo d’imposta in cui sono maturati, indipendentemente dal momento della loro riscossione).
I redditi precedentemente indicati devono essere dichiarati seguendo il criterio di cassa.

2. Redditi derivanti da attività commerciali o di lavoro autonomo esercitate in


maniera occasionale

A. Le plusvalenze
L’art. 67 T.U.I.R, elenca i proventi compresi nella categoria dei redditi diversi quando “non sono
conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in
accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente.”
Questa categoria comprende fattispecie che, pur essendo differenti tra loro, hanno in comune
l’occasionalità e la non riconducibilità alle attività di lavoro autonomo o d’impresa. Essa, inoltre, reca al
proprio interno i redditi finanziari diversi da quelli di capitale.

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Plusvalenze realizzate mediante la lottizzazione dei terreni:
La lettera a) disciplina le plusvalenze realizzate mediante la lottizzazione dei terreni o l’esecuzione di
opere intese a renderli edificabili e la successiva vendita dei terreni o degli edifici. Il termine lottizzazione
viene precisato nel senso che tale figura non si concreta nel mero frazionamento dei terreni, ma richiede
l’utilizzazione del suolo, anche attraverso il frazionamento e la realizzazione contemporanea o successiva
di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale, e la necessaria predisposizione di
opere di urbanizzazione occorrenti. Per i terreni, di cui alla lettera a), comma 1, acquistati oltre cinque
anni prima dell’inizio della lottizzazione o delle opere, si assume come prezzo di acquisto il valore normale
nel quinto anno anteriore.

Plusvalenze realizzate mediante la cessione a titolo oneroso infraquinquennale di immobili:


La lettera b) inserisce, fra i redditi diversi, “le plusvalenze realizzate mediante cessioni a titolo oneroso di
beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisti per successione e le
unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e
la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari”. La plusvalenza si
determina a norma dell’art. 68, comma 1, T.U.I.R, assumendo la differenza tra i corrispettivi percepiti nel
periodo d’imposta ed il costo di acquisto sostenuto dal donante.
Nell’ipotesi di consolidazione del diritto di nuda proprietà e del diritto di usufrutto per estinzione di
questo, in caso di rivendita del bene, ai fini dell’eventuale plusvalenza, assume rilievo il momento
dell’acquisto della nuda proprietà e non quello di estinzione dell’usufrutto, che comporta esclusivamente il
rispandersi di un diritto di proprietà già presente nel patrimonio del soggetto. Diverso rilievo assume, di
converso, l’acquisto a titolo oneroso dell’usufrutto da parte del nudo proprietario: in tale ultimo caso, in
sede di rivendita dell’immobile devono essere valutati distintamente la vicenda inerente alla nuda
proprietà e quella dell’usufrutto, in quanto diritti acquistati separatamente, e quindi diverso è il computo
del quinquennio ed il calcolo del plusvalore.
Costituiscono, inoltre, redditi diversi le plusvalenze realizzate a seguito della cessione di terreni
suscettibili di utilizzazione edificatoria e le plusvalenze derivanti dalla percezione di indennità dovute in
base a provvedimenti espropriativi. La cassazione ha più volte ribadito che non rientrano nella sfera
applicativa della norma in esame le cessioni aventi ad oggetto un terreno sul quale sorge un fabbricato e
quindi già edificato.

Cessioni di partecipazioni sociali:


Le lettere c) e c bis) dell’art. 67 T.U.I.R disciplinano le plusvalenze derivanti da cessione di partecipazioni.
In materia, la l. 205/2017, prevede la tassazione con l’aliquota del 26%, sia per le plusvalenze originate
dalle cessioni di partecipazione qualificate che per quelle non qualificate. In base all’art. 68, comma 6, la
plusvalenza (o la minusvalenza)è costituita dalla differenza tra il corrispettivo percepito ovvero il valore
normale dei beni rimborsati e il costo o il valore di acquisto, aumentato di ogni onere inerente, fatta
eccezione degli interessi passivi. L’adozione di tale criterio consente di poetare in deduzione le perdite
subite dalle plusvalenze della medesima categoria realizzate negli anni successivi, ma non oltre il quarto,
a condizione che esse siano state esposte nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in
cui la minusvalenza o la plusvalenza sono esposte.
Altre fattispecie sono previste nelle lettere c quater e c quinquies dell’art. 67 T.U.I.R, primo comma. La
prima riguarda i redditi differenziati da quelli indicati nelle altre lettere dello stesso articolo, comunque
realizzati, mediante rapporti da cui deriva il diritto o l’obbligo di cedere o acquistare a termine strumenti
finanziari, valute, metalli preziosi o merci.
La lettera c quinquies indica le plusvalenze e gli altri proventi, diversi da quelli precedentemente indicati,
realizzati mediante cessione a titolo oneroso ovvero chiusura di rapporti produttivi di redditi di capitale
ovvero rimborso di crediti pecuniari o strumenti finanziari.

Plusvalenze derivanti da cessioni a termine di valute estere e da contratti similari:


L’art. 67, primo comma, T.U.I.R, lettera c ter, assoggetta a tassazione le plusvalenze realizzate
mendante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso di titoli non rappresentatevi di merci, certificati di
massa, di valute estere, oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti, di metalli
preziosi e di quote di partecipazioni ad organismi d’investimento collettivo.
“Fra le plusvalenze di cui alla lettera c ter) si comprendono anche quelle di rimborso delle quote o azioni
di organismi di investimento collettivo del risparmio realizzate mediante conversione di quote o azioni”.

Plusvalenze realizzate a seguito di successiva cessione di aziende acquisite ai sensi dell’art. 58:

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L’art. 67 T.U.I.R, lettera h bis), qualifica come redditi diversi le plusvalenze derivanti dalla successiva
cessione, anche parziale, di aziende acquisite per causa di morte o per atto gratuito dai familiari ovvero
quelle acquisite da uno solo degli eredi a seguito di scioglimento, entro 5 anni dall’apertura della
successione.

Redditi diversi da concessione in godimento dei beni dell’impresa a soci, familiari


dell’imprenditore:
L’art. 2 del d.l. 13 agosto 2011 n.138, ha introdotto disposizioni volte ad arginare il fenomeno della
concessione in godimento di beni dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore per finalità private. Al
fine di evitare una doppia imposizione nei casi di imprenditore individuale e di socio tassato per
trasparenza, è previsto un meccanismo secondo il quale il reddito diverso diviene imponibile nella misura
eccedente la differenza tra il valore normale del diritto di godimento del bene ed il corrispettivo pagato o
il maggior reddito d’impresa dovuto all’indeducibilità dei costi, imputato all’imprenditore individuale o
attribuito pro-quota al socio per trasparenza.

3.
B. Altri redditi
Le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio ecc.:
Tra i redditi diversi rientrano le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse
organizzati per il pubblico. Anche le vincite conseguite per effetto della partecipazione a giochi on-line
organizzati su siti web rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 67, comma 1, lettera d) T.U.I.R.

Redditi di natura fondiaria non determinabili catastalmente:


La lettera e) comma 1, art. 67, T.U.I.R comprende i proventi di natura fondiaria non determinabili
catastalmente, compresi quelli di terreni dati in affitto per usi non agricoli e i redditi dei beni immobili
situati all’estero.

Redditi di natura fondiaria:


I redditi di natura fondiaria non determinabili catastalmente, ancorché consistenti in prodotti del fondo o
commisurati ad essi ed i redditi dei beni immobili situati nel territorio dello Stato, che non sono e non
devono essere iscritti in catasto con attribuzione di rendita, concorrono a formare il reddito complessivo.

Redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno ecc.:


La lettera g), comma 1, riguarda i redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno, di
brevetti industriali e di processi, relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o
scientifico.

Redditi derivanti dalla concessione in usufrutto e dalla sublocazione di beni immobili:


Rientrano nella disposizione i redditi derivanti dalla concessione in usufrutto e della sublocazione di beni
immobili, dall’affitto, locazione, noleggio o concessione in uso di veicoli, macchine e altri beni mobili.

Redditi occasionali di lavoro autonomo e d’impresa:


Sono comprese fra i redditi diversi, anche quelli derivanti da attività commerciali e da attività di lavoro
autonomo non esercitate abitualmente o dall’assunzione di obblighi di fare, non fare, le indennità di
trasferta, i rimborsi forfettari di spesa, i premi e i compensi erogati nell’ambito dell’esercizio diretto di
attività sportive dilettantistiche dal CONI, dalle federazioni sportive.

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CAPITOLO 8: IL REDDITO COMPLESSIVO AI FINI IRPEF E LA
DETERMINAZIONE DELL’IMPOSTA

1. La base imponibile
Ai sensi dell’art. 3 T.U.I.R, l’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato, per i
residenti, da tutti i redditi posseduti, al netto degli oneri deducibili indicati nell’art. 10 T.U.I.R e, per i non
residenti, da quelli prodotti nel territorio dello Stato.
Il reddito complessivo si determina sommando i redditi di ogni categoria (fondiari, di capitale, di lavoro
dipendente, di lavoro autonomo, di impresa e diversi) e sottraendo le perdite derivanti dall’esercizio
dell’imprese commerciali e di arti e professioni. Per effetto dell’art. 9, primo comma, T.U.I.R, i redditi e le
perdite che concorrono a formare il reddito complessivo sono determinati distintamente per ciascuna
categoria in base al risultato complessivo netto di tutti i cespiti che vi rientrano.
Nonostante la pluralità di regole di tassazione, conseguenza della stratificazione di diversi istituti tributari
(imposizione fondiaria, ricchezza mobile e complementare, reddito netto o lordo, imputazione per cassa o
per competenza, ecc.), il legislatore supera il rigido schematismo delle categorie reddituali, assumendo il
reddito complessivo, unitariamente considerato, e sottraendo da questo le .perdite derivanti dall’esercizio
di imprese e di arti e professioni.

2. Redditi esclusi dalla base imponibile. La tassazione separata


L’art. 3, comma 3, T.U.I.R, elenca i redditi che sono in ogni caso esclusi dalla base imponibile: i redditi
esenti, quelli soggetti ad imposte sostitutive o a ritenute a titolo d’imposta ovvero quelli soggetti a
tassazione separata.
Appare evidente che in alcuni casi, il prelievo non è dovuto, mentre in altri è assolto o determinato in
modo o in un momento diverso (ritenute a titolo d’imposta, imposte sostitutive, tassazione separata).
Sono altresì esclusi dalla base imponibile gli assegni periodici destinati al mantenimento dei figli, spettanti
al coniuge in conseguenza di separazione legale ed effettiva, o di annullamento, scioglimento o
cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Non concorrono alla formazione della base imponibile gli assegni familiari e l’assegno per il nucleo
familiare. Tra i redditi sottratti al regime progressivo dell’Irpef vanno richiamati quelli elencati nell’art. 17
T.U.I.R, percepiti una tantum ma prodotti con l’esplicazione di un’attività durata più anni, per i quali
l’imposta si applica separatamente in modo più aderente al grado di capacità contributiva del soggetto.
Tra di essi, il trattamento di fine rapporto previsto dall’art. 2120 c.c. e le indennità equipollenti comunque
denominate, commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipendente; gli emolumenti arretrati, relativi
ad anni precedenti, percepiti per prestazioni di lavoro dipendente, l’indennità di mobilità, le plusvalenze,
compreso il valore di avviamento, realizzate mediante cessione a titolo oneroso di aziende possedute da
più di 5 anni e i redditi conseguiti in dipendenza di liquidazione, di imprese commerciali esercitate da più
di 5 anni. Allo stesso trattamento sono sottoposte le plusvalenze conseguenti alla percezione di indennità
di esproprio o di somme percepite a seguito di cessioni volontarie nel corso di procedimenti espropriativi,
relativamente a terreni destinati a opere pubbliche o a infrastrutture.
Con riguardo al trattamento di fine rapporto, la l.n.190/2014 ha previsto (comma 26, art.1) la possibilità
per i lavoratori dipendenti del settore privato di ottenere mensilmente in busta paga un anticipo del
trattamento di fine rapporto maturato, secondo le modalità individuate dal regolamento attuativo
D.P.C.M. n.29 del 20 febbraio 2015.
L’opzione è operativa a partire dal mese successivo alla richiesta, salvo risoluzione del rapporto di lavoro
in via anticipata, durante tale periodo, la scelta non può essere revocata.
Relativamente al regime impositivo dell’emolumento, in caso di opzione di conferimento in busta paga del
TFR, lo stesso non sarà più assoggettato al regime di tassazione separata ma a tassazione ordinaria
confluendo nella base imponibile ai fini Irpef relativamente alla somma erogata in ogni periodo d’imposta.

3. Oneri deducibili e detrazioni di imposta


Dalla base imponibile sono sottratte determinate spese dei natura personale ritenute meritevoli o
socialmente utili a condizione che non siano state già dedotte ai fini della determinazione dei singoli
redditi. Il legislatore distingue gli oneri computabili dal reddito complessivo, quelli trasformati in
detrazioni dall’imposta e le detrazioni in senso proprio. I primi sono elencati nell’art. 10 T.U.I.R, i secondi
sono inseriti nell’art. 15 T.U.I.R e le terze negli artt. 12 e 13.
Anche se deduzioni e detrazioni concorrono entrambe all’alleggerimento del carico tributario, esse
operano in maniera profondamente diversa: le prime, in quanto scomputabili dal reddito complessivo,
consentono risparmi crescenti col crescere del reddito; le seconde essendo riferite all’imposta, assicurano,
a parità di oneri sostenuti, lo stesso risparmio di imposta, indipendentemente dall’ammontare del reddito
del contribuente.
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La disciplina è stata oggetto di continui interventi normativi, introducendo ulteriori deduzioni e ponendo
limiti quantitativi e qualitativi. Sono state, infatti, riordinate le detrazioni per carichi di famiglia, per spese
di produzioni di redditi di lavoro, per oneri e canoni di locazione, per interventi di recupero del patrimonio
edilizio, di riqualificazione energetica degli edifici e antisismici le quali, come chiarito, vanno scomputate
dall’imposta lorda, determinata applicando alla base imponibile, al netto degli oneri deducibili, le aliquote
d’imposta secondo gli scaglioni di cui all’art. 11.
In particolare, dal reddito complessivo si deducono, gli oneri sostenuti dal contribuente, quali i canoni ed
altri oneri gravanti sui redditi degli immobili nonché le spese mediche e quelle di assistenza specifica
necessarie nei casi di grave e permanente invalidità o menomazione. Tuttavia, ai fini della deduzione, la
spesa sanitaria relativa all’acquisto di medicinali deve essere certificata da fattura o da scontrino fiscale
contenente codice fiscale del destinatario e pagata con mezzi tracciabili. Ancora sono deducibili gli
assegni periodici corrisposti al coniuge in conseguenza di separazione legale ed effettiva e gli assegni
periodici corrisposti in forza di testamento o di donazione modale.
Può essere determinata l’imposta lorda, applicando al reddito complessivo, al netto degli oneri deducibili
dell’art. 10 come esaminato, le aliquote per scaglioni di reddito:
- 23% fino a 15.000 euro.
- 27% oltre 15.000 euro e fino a 28.000 euro.
- 38% oltre i 28.000 euro e fino a 55.000 euro.
- 41% oltre 55.000 e fino a 75.000 euro.
- 43% oltre 75.000 euro.
Da ciò si determina l’imposta netta operando sull’imposta lorda. L’art. 12 prevede che dall’imposta lorda
possano essere detestati specifici importi per carichi di famiglia in riferimento al coniuge non legalmente
ed effettivamente separato nonché per ciascun figlio. Ancora, dall’imposta lorda si può detrarre un
importo pari al 19% di particolari categorie di oneri, indicati nell’art. 15 e sostenuti dal contribuente.
Inoltre, ai soggetti titolari di contratti di locazione di unità immobiliari adibite ad abitazione principale
spetta una detrazione complessivamente pari a euro 300, se il reddito complessivo non supera euro
15.493,71 ed a euro 150 se il reddito complessivo supera quella soglia.

4. I redditi familiari
Con riguardo ai redditi familiari, la formulazione originaria dell’art. 4 d.P.R. n.597/1973, prevedeva il c.d.
cumulo dei redditi, imputando al soggetto passivo i redditi propri, quelli della moglie, dei figli minori non
emancipati.
Riconosciuta dalla Corte costituzionale l’illegittimità del cumulo dei redditi, la disciplina tributaria ha
sancito l’opposto principio del decumulo, prevedendo che i redditi che formano oggetto della comunione
legale sono imputati a ciascuno dei coniugi per metà del loro ammontare netto o per la diversa quota
stabilita ai sensi dell’art. 210 c.c., in virtù di tale norma, i coniugi possono, mediante convenzione,
stipulata a norma dell’art. 162 c.c., modificare il regime della comunione legale dei beni.
Analogamente, i redditi dei beni facenti parte del fondo patrimoniale sono imputati per metà del loro
ammontare netto a ciascuno dei coniugi.
Anche inediti dei beni dei figli minori soggetti all’usufrutto legale dai genitori sono imputati per metà del
loro ammontare netto a ciascun genitore.
Ampia è la discussione circa la revisione del principio dell’imputazione del reddito al soggetto che lo
produce, e la graduale adozione del cosiddetto ‘splitting’, ossia del metodo di calcolo dell’imposta basato
sulla scomposizione in quote della somma dei redditi prodotti dai membri della famiglia in tante parti
uguali quanti sono i familiari e, poi, dall’imputazione a ciascuno di essi della somma così ottenuta.
Va infine ricordato che la legge n. 76/2016 (Legge Cirinnà), nel disciplinare le unioni civili tra persone
dello stesso sesso, prevede, anche ai fini tributari, che le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e
quelle contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle leggi, si
applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

5. Redditi prodotti in forma associata


L’art. 5, comma 1, T.U.I.R stabilisce: “i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita
semplice residenti nel territorio dello Stato italiano sono imputati a ciascun socio, indipendentemente
dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”.
Il comma 2 aggiunge che le quote di partecipazione agli utili si presumono uguali se non risultano
determinate diversamente dall’atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata.
Il legislatore enuncia, altresì i seguenti criteri ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi:
a. Le società di armamento sono equiparate alle società in nome collettivo.
b. Le società di fatto sono equiparate alle società in nome collettivo o alle società semplici.

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c. Le associazioni senza personalità giuridica, costituite fra persone fisiche per l’esercizio di arti o
professioni sono equiparate alle società semplici.
d. Si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo
d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio
dello Stato.
Orientando l’indagine verso le imprese, di cui all’art. 230bis c.c., va avvertito che il legislatore tributario
si è limitato ad attrarre l’impresa familiare nella disciplina dei redditi prodotti in forma associata,
stabilendo, nel comma 4 dell’art. 5 T.U.I.R, che “i redditi delle imprese familiari, di cui all’art. 230 bis c.c.,
limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore
sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di
lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”.
La disposizione si applica a condizione che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente
da:
a. Atto pubblico o da scrittura privata autenticata.
b. La dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli
utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e
quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa.
c. Ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di avere prestato la sua attività di
lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
L’ultimo comma dell’art. 5 T.U.I.R stabilisce infine che si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui
redditi, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.

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CAPITOLO 9: IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETÀ

1. Dall’Irpeg all’Ires
Il legislatore istituì con R.D (regio decreto) 30 dicembre 1923, n.3062, l’imposta complementare su
reddito delle persone fisiche e con l. 6 agosto 1954, n.603, l’imposta sulle società.
L’ideologia personalistica posta alla base della riforma diede luogo ad un assetto zipolare al sistema che,
per un verso, riuniva le imposte dirette reali nell’imposta sul reddito delle persone fisiche, per un altro,
trasformava l’imposta sulle società in un nuovo tributo, fondato anch’esso sul dogma della personalità
giuridica, che assoggettava a tassazione, oltre le società, anche enti pubblici e privati diversi dalle
società, aventi l’esercizio di attività commerciali. Più volte sottoposte a modifiche normative, ispirate
dall’esigenza
di contrastare la doppia imposizione interna, l’Irpeg è stato sottoposto ad una profonda riforma con la
legge delega n.80/2003 e il successivo decreto attuativo n.344 del 2003 (art. 4).
Nell’intento di “modernizzare la fiscalità in funzione dei mutamenti intervenuti nell’economia e nel
mondo”, uniformando il modello di prelievo alla corporation tax prevista in molti Stati europei, la riforma
ha sostituito l’imposta sul reddito delle persone giuridiche con l’imposta sul reddito delle società (IRES).

2. I soggetti passivi del tributo


Già con la l. 6 agosto 1954, n.603 e poi con il T.U n.645/1958, il legislatore aveva esteso l’ambito di
applicazione dell’imposta sulle società alle persone giuridiche, anche se non aventi natura societaria,
tenute per legge alla formazione del bilancio e del rendiconto.
Il progetto di espansione della soggettività dell’imposta è stato poi completato con la riforma tributaria
del 1971 che ha delineato 4 categorie di soggetti passivi:
a. Società di capitali e società cooperative e di mutua assicurazione.
b. Enti commerciali.
c. Enti non commerciali.
d. Società ed enti di ogni tipo non residenti nel territorio dello Stato.
L’Irpeg ha trovato applicazione anche a formazioni sociali sfornite di personalità giuridica e comunque
diverse dalle società di capitali, quali le associazioni non riconosciute, i consorzi, le altre organizzazioni
non appartenenti ad altri soggetti passivi nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in
modo unitario ed autonomo.
La legge delega n.80 del 7 aprile 2003 interviene sui profili soggettivi dei tributi riformati, disponendo,
all’art. 3, l’inclusione tra i soggetti passivi dell’imposta sul reddito (IRE) e degli enti non commerciali, e
limitando l’applicazione dell’IRES alle società diverse da quelle personali residenti.
La riforma, nell’intento di semplificare i meccanismi di tassazione, rendendoli più efficienti, introduce, i
principi nella determinazione di un’unica base imponibile per i gruppi di imprese, sulla base di un’opzione
espressa dalle singole società partecipanti, e attribuiva alle società di capitali i cui soci sono a loro volta
società di capitali residenti, la facoltà di optare per il regime della trasparenza fiscale previsto per le
società personali.
Nel disciplinare l’imposta sul reddito delle società, il d.lgs. 344/2003 indica, nell’art. 73 T.U.I.R, i seguenti
soggetti passivi:
a. Le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata.
b. Gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato,
che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.
c. Gli enti pubblici e privati diversi dalle società, che non hanno per oggetto esclusivo o principale
l’esercizio di attività commerciali.
d. Le società e gli enti di ogni tipo, con o senza personalità giuridica, nonché i trust non residenti nel
territorio dello Stato.
L’art. 75 T.U.I.R , disciplinando la base imponibile dei soggetti elencati nell’art. 73, stabilisce criteri
diversi per le due categorie di enti: per le società e gli enti commerciali, compresi nella lettera a) e b), del
comma 1, l’imposta si applica sul reddito complessivo netto determinato secondo le disposizioni in
materia di reddito impresa; per i soggetti, di cui alla lettera c), del comma 1, l’imposta si applica sul
reddito complessivo netto, sommando i redditi delle diverse categorie.

3. Stato ed enti pubblici


La questione della soggettività passiva dello Stato nel rapporto tributario, ampiamente dibattuta in
dottrina, ha trovato soluzioni differenziate a seconda della natura del tributo; superata l’idea, secondo cui

45
lo Stato non può tassare le proprie articolazioni anche entificate, il legislatore ha limitato l’esclusione della
soggettività allo Stato-apparato, inteso come insieme degli organi e delle amministrazioni.
In questo senso, l’art. 74, T.U.I.R, stabilisce che gli organi e le amministrazioni dello Stato, compresi
quelli ad ordinamento autonomo, anche se dotati di personalità giuridica, i comuni, i consorzi tra enti
locali, le associazioni, le province e le regioni non sono soggetti all’imposta.
La norma trova fondamento nell’esigenza di escludere da tassazione organi e amministrazioni pubbliche
che svolgono funzioni pubbliche finanziate direttamente dallo Stato attraverso trasferimenti. Al di fuori di
tale previsione, rivestono la qualità di soggetti passivi tutti gli altri enti pubblici, commerciali e non
commerciali.
Disposizioni particolari sono invece dedicate a taluni enti pubblici non commerciali, per i quali l’art. 74,
secondo comma, dispone che non costituiscono esercizio di attività commerciali:
a. L’esercizio di funzioni statali da parte di enti pubblici.
b. L’esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie da parte di enti pubblici istituiti
esclusivamente a tal fine, comprese le aziende sanitarie locali, nonché l’esercizio di attività
previdenziali e assistenziali da parte di enti privati di previdenza obbligatoria.

4. La determinazione del tributo


L’Ires, a norma dell’art. 76, comma 1, T.U.I.R, è dovuta per periodi d’imposta, a ciascuno dei quali
corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma, salvo quanto stabilito negli artt. 80 (riporto o rimborso
dell’eccedenza) e 84 (riporto delle perdite) T.U.I.R
Sempre l’art. 76, comma 2, stabilisce che “il periodo d’imposta è costituto da ’’esercizio o periodo di
gestione della società o dell’ente, determinato dalla legge o dall’atto costitutivo”, con la precisazione che,
se la durata dell’esercizio o periodo di gestione non è determinata, il periodo d’imposta è costituito
dall’anno solare.
L’imposta è commisurata al reddito complessivo netto, con l’aliquota che, a decorrere dal 1° gennaio
2017, si applica nella misura del 24%. Ai fini Ires, il reddito complessivo di società e enti commerciali, di
cui alla lettera a) (società per azioni e in accomandita per azioni, società cooperative e di mutua
assicurazione, residenti nel territorio dello Stato) e b) (enti pubblici e privati diversi dalle società,
residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciali), da qualsiasi fonte proveniente, è considerato reddito di impresa ed è determinato secondo
le disposizioni dell’art. 81 T.U.I.R.
La norma non si limita a dichiarare applicabili al reddito complessivo le norme disciplinanti il reddito
d’impresa, ma segue un percorso unificato, stabilendo che, qualunque natura abbiano i proventi che
concorrono alla sua formazione, il reddito complessivo è qualificato “reddito di impresa”.

5. I componenti positivi del reddito d’impresa

A. Ricavi
Tra i componenti del reddito d’impresa particolare importanza rivestono i ricavi che le norme tributarie
disciplinano pur senza darne una definizione.
Nell’accezione aziendalistica, il ricavo consiste in un vantaggio, un evento positivo, connesso con la
cessione a terzi di beni merci e di servizi. Il comma 1 dell’art. 85 T.U.I.R lettera a) considera ricavi “i
corrispettivi delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi alla cui produzione o al cui scambio è
diretta l’attività dell’impresa” e la lettera b) della stessa norma comprende fra i ricavi “i corrispettivi delle
cessioni di materie prime e sussidiarie, di semilavorati e di altri beni mobili, esclusi quelli strumentali,
acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione”.
Costituiscono rivali anche “le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa,
per la perdita o il danneggiamento di beni” (lettera f, art. 85).
Sono considerati ricavi, infine, i corrispettivi delle cessioni di azioni, quote e strumenti finanziari similari
alle azioni ai sensi dell’art. 44 T.U.I.R, emessi da società ed enti di cui all’art. 73 T.U.I.R.

B. Variazione delle rimanenze e valutazione dei titoli


La cessione di beni, di materie prime e sussidiarie, di semilavorati, rientranti nell’attività dell’impresa non
sempre si verificano durante il periodo d’imposta nel corso del quale sono prodotti.
L’art. 92 precisa, tuttavia, che non le rimanenze in quanto tali ma le variazioni relative occorrono alla
formazione del reddito dell’esercizio. Definendo i criteri relativi, il comma 2, stabilisce: ”nel primo

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esercizio in cui si verificano, le rimanenze sono valutate attribuendo ad ogni unità il valore risultante dalla
divisione del costo complessivo dei beni prodotti e acquistati nell’esercizio stesso per la loro quantità”.
Pertanto, nel primo esercizio, i beni prodotti e acquistati sono valutati sulla base del costo unitario
effettivo. Il comma 3 stabilisce, a sua volta, che “negli esercizi successivi, se la quantità delle rimanenze
è aumentata rispetto all’esercizio precedente, le maggiori quantità, costituiscono voci distinte per esercizi
di formazione. Se la quantità è diminuita, la diminuzione si imputa agli incrementi formati nei precedenti
esercizi, a partire dal più recente”. La norma recepisce il metodo Li-Fo (last-in, first out - ultimo dentro,
primo fuori), il cui effetto sperimentato è di favorire i contribuenti che operino in regimi di costi crescenti,
consentendo un risparmio lecito di imposte. L’andamento a “scatti” delle variazioni consente di
mantenere costante il capitale circolante nel periodo di
tempo intercorrente fra le diverse variazioni. Sono comunque previsti altri metodi valutativi quale il
metodo Fi-Fo (first in, first out - primo dentro, primo fuori), preferibile in caso di costi decrescenti e il
metodo della media ponderata, che con riguardo alle imprese esercenti le attività di ricerca e coltivazione
di idrocarburi liquidi e gassosi, di raffinazione di petrolio etc., consente l’utilizzo del metodo della media
ponderata o del Fi-Fo. L’art. 93, comma 1, T.U.I.R, stabilisce che le variazioni delle rimanenze finali delle
opere, concorrono a formare il reddito dell’esercizio.

7.
C. Plusvalenze, sopravvenienze e altri proventi
L’art. 86 T.U.I.R indica le plusvalenze che concorrono a formare il reddito d’impresa, prevedendo in primo
luogo quelle conseguite “mediante cessione a titolo oneroso” dei beni relativi all’impresa (comma 1
lettera a).
Sono anche plusvalenze quelle “realizzate mediante il risarcimento, anche in forma assicurativa, per la
perdita o il danneggiamento dei beni”. La norma costituisce proiezione dei principi di cui al comma 2
dell’art. 6 T.U.I.R, in base al quale i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità
conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di
redditi, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.
In entrambi i casi, la plusvalenza è costituita “dalla differenza tra il corrispettivo o l’indennizzo
conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione e il costo non ammortizzato”. Per
plusvalenza realizzate con riguardo a beni posseduti da più di tre anni, il legislatore ne consente la
rateizzazione.
Non costituisce, infine, realizzo di plusvalenza la cessione dei beni a creditori in sede di concordato
preventivo. Le modifiche intervenute nei rapporti fra soci e società hanno comportato l’introduzione a
partire dal 1° gennaio 2018 del principio secondo cui gli utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi
denominazione della società o degli enti indicati nell’art. 73 T.U.I.R, vengono assoggettati alla ritenuta a
titolo di imposta del 26% sull’intero dividendo (legge 205/2017).
L’art. 87, T.U.I.R stabilisce che le plusvalenze di cui ai commi 1,2 e 3 dell’art.86, relativamente ad azioni
o quote di partecipazione in società di capitali ed enti commerciali, non concorrono alla formazione del
reddito in quanto esenti nella misura del 95% del loro ammontare.
La fattispecie riguarda azioni o quote di partecipazioni con i seguenti requisiti:
a. Ininterrotto possesso dal primo giorno del dodicesimo mese precedente quello dell’avvenuta
cessione.
b. Classificazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante
il periodo di possesso.
c. Residenza fiscale della società in uno Stato o territorio diverso da quelli a regime fiscale
privilegiato.
d. Esercizio da parte della società di un’impresa commerciale di cui all’art. 55 T.U.I.R.
L’art. 88 considera sopravvenienze attive i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdi o oneri
o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito in
precedenti esercizi.
La ratio della norma è evidente: tenuto conto che il reddito d’impresa matura in un arco di tempo definito
(il periodo d’imposta), può accedere che la correlazione “costi-ricavi” non si verifichi, in quanto i proventi
sono conseguiti in un momento diverso da quello nel quale sono stati sopportati i costi o le passività sono
state iscritte in bilancio. Si tratta, quindi, di uno strumento che consente di collegare partite maturate in
tempi diversi. Il legislatore annovera tra le sopravvenienze i proventi conseguiti a titolo di contributo o
liberalità, esclusi quelli per l’acquisto di beni ammortizzabili indipendentemente dal tipo di finanziamento
adottato, i quali concorrono a formare il reddito nell’esercizio.
In base al comma 4, non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a
fondo perduto o in conto capitale a favore delle società di capitali ed enti di cui all’art. 73 T.U.I.R

47
L’ultimo comma dell’art. 88 dispone:” in caso di cessione del contratto di locazione finanziaria, il valore
normale del bene costituisce sopravvenienza attiva”.
L’art. 90 dispone che i redditi degli immobili che non costituiscono beni strumentali per l’esercizio
dell’impresa, concorrono a formare il reddito nell’ammontare determinato secondo le disposizioni del capo
II (redditi fondiari) per gli immobili situati nel territorio dello Stato e a norma dell’art. 70 T.U.I.R per
quelli situati all’estero.
L’art. 43, del resto, non considera produttivi di reddito fondiario gli immobili relativi a imprese
commerciali e quelli che costituiscono beni strumentali per l’esercizio di arti e professioni, essendo questi
ricondotti a reddito d’impresa in forza del principio di attrazione.
Tra i componenti positivi, rientrano dividendi e interessi alle condizioni e con i limiti di cui all’art. 89
T.U.I.R
Non concorrono alla formazione del reddito, oltre ai proventi esenti, quelli soggetti a ritenuta alla fonte a
titolo d’imposta o imposta sostitutiva.
Tra gli altri proventi vanno richiamati quelli derivanti dalla partecipazione in società semplici, in nome
collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato, per i quali si applicano le
disposizioni dell’art. 5, che prevedono l’imputazione a ciascun socio della parte dei redditi della società,
proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. (c.d. trasparenza fiscale).
L’art. 89, comma 2 stabilisce che gli utili distribuiti “non concorrono a formare il reddito dell’esercizio in
cui sono percepiti in quanto esclusi dalla formazione del reddito della società o dell’ente ricevente per il
95% del loro ammontare”.
L’esclusione è prevista anche per la remunerazione relativa ai contratti di associazione in partecipazione e
a quelli di partecipazione agli utili e alle perdite e alla remunerazione dei finanziamenti eccedenti. In
deroga a tale disposizione, per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali,
gli utili distribuiti relativi ad azioni, quote e strumenti finanziari similari, concorrono per il loro intero
ammontare alla formazione del reddito nell’esercizio in cui soni percepiti.
La disciplina trova fondamento nell’esigenza di evitare la doppia tassazione del reddito delle società con
personalità giuridica, prima nei confronti dell’ente collettivo e, successivamente, a carico dei soci, sugli
utili distribuiti.

8. I componenti negativi di reddito

A. Spese per prestazioni di lavoro


Le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono
anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori. La deduzione
riguarda in particolare, le spese relative a opere o servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o da
particolari categorie di lavoratori dipendenti. Non sono deducibili alcune particolari spese, come i canoni
di locazione e le spese di vitto e alloggio sostenute dai lavoratori dipendenti per le trasferte effettuate.
La categoria dei tributi indeducibili comprende le imposte sui redditi, che, avendo carattere personale,
non afferiscono all’impresa, e le imposte per le quali è prevista la rivalsa, trattandosi di oneri che gravano
sul percipiente.

B. Oneri fiscali e contributivi


Nella seconda categoria rientrano i contributi ad associazioni sindacali e i categoria, che sono deducibili
nell’esercizio in cui sono corrisposti (art. 99, comma 3, T.U.I.R). La norma pone due condizioni: che i
contributi siano dovuti sulla base di una formale deliberazione dell’associazione e che siano
effettivamente corrisposti.

C. Oneri di utilità sociale


Tra i componenti negativi particolare rilievo assumono gli oneri di utilità sociale la cui deducibilità, pur
collegata alla responsabilità sociale dell’impresa, incontra diverse condizioni e modalità. Le spese relative
a opere e servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o da categorie di dipendenti, sostenute
volontariamente per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria
o culto, sono deducibili per ammontare non superiore al 5 per mille delle somme erogate per prestazioni
di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi.
La deduzione di tali spese richiede la presenza di tre condizioni:
- La prima, di carattere soggettivo, riguarda i destinatari.
- La seconda di carattere oggettivo, attiene alle finalità delle opere e dei servizi.
- L’ultima di carattere quantitativo, considera il rapporto fra l’ammontare delle spese per le
prestazioni di lavoro dipendente, quale risulta dalla dichiarazione dei redditi, e le somme erogate
per le opere e i servizi di utilità sociale.
48
9.
D. Accantonamenti e ammortamenti
Secondo la disciplina tributaria (comma 4 dell’art. 107), “non sono ammesse deduzioni per
accantonamenti diversi da quelli espressamente considerati delle disposizioni del presente capo”.
Ciò comporta l’ovvia conseguenza che accantonamenti prudenziali sono consentiti civilisticamente ma,
non essendo previsti dal T.U.I.R restano fiscalmente indeducibili.
Più precisamente, sono deducibili nei limiti delle quote maturate nell’esercizio, in conformità con le
disposizioni legislative e contrattuali che regolano il rapporto di lavoro dei singoli dipendenti, gli
accantonamenti ai fondi per le indennità di fine rapporto e ai fondi di previdenza del personale, per
l’importo non coperto da garanzia assicurativa, sono deducibili in ciascun esercizio nel limite dello 0.50%
del valore nominale o di acquisizione dei crediti stessi, sono inoltre deducibili altri accantonamenti per
lavoro ciclici o di manutenzione e revisione delle navi e degli aeromobili e per oneri derivanti da
operazioni e concorsi a premio. Del tutto diversi dagli accantonamenti sono gli ammortamenti.
Se i primi costituiscono somme destinate a far fronte a rischi o costi futuri, i secondi consentono di
ripartire un costo attuale per più esercizi futuri. L’ammortamento costituisce un procedimento tecnico che
risponde a più finalità, esso, da un lato, ricostituisce nel tempo il valore di un bene strumentale che via
via si riduce per effetto della naturale obsolescenza e del logorio fisico provocato dall’utilizzo nel processo
produttivo, e, dall’altro, assume quote annuali del costo di un bene utilizzato per più esercizi.
L’art. 102 stabilisce che “le quote di ammortamento del costo dei beni materiali strumentali per l’esercizio
dell’impresa sono deducibili a partire dall’esercizio di entrata in funzione del bene”.
L’art. 110 T.U.I.R, chiarisce che “la deduzione è ammessa in misura non superbire a quella risultante
dall’applicazione al costo dei beni dei coefficienti fissati con decreto del Ministro dell’economia e delle
finanze pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ridotti alla metà per il primo esercizio”.
In caso di eliminazione del complesso produttivo di beni non ancora ammortizzati, il costo residuo è
ammesso in deduzione, non potendo restare a carico dell’impresa la parte residua del costo.
Per l’ammortamento dei beni che, al termine del periodo di durata del rapporto di concessione, sono
gratuitamente devolvibili al concedente, il comma 1 dell’art. 104, consente la deduzione di quote costanti
di ammortamento finanziario. Pertanto, l’ammortamento finanziario, in precedenza ritenuto integrativo di
quello tecnico, è divenuto sostitutivo di quest’ultimo, pur restando condizionato alla durata della
concessione. L’art. 104 T.U.I.R stabilisce che “la quota di ammortamento finanziario deducibile è
determinata dividendo il costo dei beni, diminuito degli eventuali contributi del concedente, per il numero
degli anni di durata della concessione, considerando tali anche le frazioni”.

10.
E. Minusvalenze patrimoniali, sopravvenienze passive, perdite, interessi passivi
Sono ammesse in deduzione minusvalenze dei beni relativi all’impresa, diversi da quelli che producono
ricavi, sopravvenienze passive per mancato conseguimento di ricavi, il sostenimento di spese, perdite od
oneri a fonte di ricavi o altri proventi che hanno egualmente concorso a formare il reddito.
La perdite dei beni relativi all’impresa, diversi da quelli che producono ricavi, commisurate al costo non
ammortizzato degli stessi, e le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi; le
perdite su crediti sono deducibili in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali.
Ai fimi della disposizione in esame, il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla
data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta
amministrativa. Gli elementi certi e precisi sussistono in ogni caso quando il credito sia di modesta entità
e sia decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento del credito stesso. Il credito si
considera di modesta entità quando ammonta ad un importo non superbire a 5.000 euro per le imprese
di più rilevante dimensione e non superiore a 2.500 euro per le altre imprese.
Va ricordato che il legislatore tributario riserva capitale di debito e a capitale di rischio un differente
trattamento: il primo genera interessi passivi, suscettibili di essere portati in deduzione, il secondo è
remunerato attraverso i dividendi che non sono deducibili dal reddito societario.
L’asimmetria tra i due modelli di regolazione ha finito per stimolare l’indebitamento e scoraggiare la
capitalizzazione delle imprese. La consapevolezza dello squilibrio esistente tra indebitamento e
finanziamento con capitale proprio e l’esigenza di assumere, ai fini della tassazione, il reddito netto,
hanno indotto a soluzioni che hanno oscillato tra la graduale limitazione della deducibilità degli interessi
passivi e le agevolazioni per la capitalizzazione delle imprese.
La materia è stata recentemente oggetto di riforma ad opera del d.lgs. 142/2018, attuativo della direttiva
2016/1164/UE, in base al quale gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilarti, diversi da quelli
compresi nel costo dei beni ai sensi del comma 1, lettera b), dell’art. 110, possono essere dedotti in
ciascun periodo d’imposta fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati di

49
competenza. Qualora gli oneri finanziari siano superiori ai proventi finanziari, l’eccedenza è deducibile nel
limite del 30% del risultato operativo lordo (ROL). Invece, nel caso in cui siano i proventi finanziari ad
essere superiori agli oneri finanziari, questi ultimi sono interamente deducibili e la differenza (c.d.
eccedenza di plafond) potrà essere riportata nei successivi periodi di imposta senza alcun limite di tempo.
Ai fini della disposizione in esame, assumono rilevanza gli interessi passivi e gli interessi attivi, nonché
gli oneri e i proventi assimilati.

11. I principi di competenza e inerenza


A differenza dei redditi da lavoro autonomo e di capitale per i quali opera il principio di cassa,
valorizzando il momento della percezione per le entrate o dell’esborso per le spese, i redditi soggetti a
Ires e quelli delle imprese soggetti a Irpef sono imputati per competenza, assumendo il momento
giuridico in cui si considerano verificati i fatti gestionali.
L’adozione di tale principio appare coerente con la derivazione del reddito d’impresa dall’utile netto
determinato civilisticamente, come integrato dai criteri sanciti dalla tecnica aziendale.
Il comma 1, art. 109, stabilisce che i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, concorrono
a formare il reddito nell’esercizio di competenza; la stessa norma aggiunge che i ricavi, le spese e gli altri
componenti, di cui non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare,
concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni.
Per il legislatore assume rilevanza l’esistenza giuridica della voce, apprezzata sotto diverse prospettive ai
fini dell’individuazione dell’esercizio di competenza:
a. I corrispettivi delle cessioni si considerano conseguiti e le spese di acquisizione dei beni si
considerano sostenute, alla data della consegna o spedizione per i beni mobili e della stipulazione
dell’atto per gli immobili.
b. I corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti e le spese di acquisizione dei
servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate ovvero, per quelle
dipendenti da contratti di locazione, mutui, assicurazione, alla data di maturazione dei
corrispettivi. In sostanza il legislatore prescinde totalmente dal fatto del conseguimento dei ricavi,
come pure dall’effettivo sostenimento del costo, per considerare esclusivamente il momento in cui
la fattispecie giuridica si realizza.
Ai fini della deducibilità, il legislatore richiede che le spese e altri componenti negativi, diversi dagli
interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e utilità sociale, “sono deducibili se e nella misura in
cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivino ricavi o altri proventi che concorrono a formare il
reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi” (art. 109, comma 5, T.U.I.R).
Tale regola generale di deducibilità dei componenti negativi di reddito, definita di inerenza, appare
conseguenza necessaria della regola della tassazione del reddito netto. Il requisito del rapporto fra la
spesa e l’attività che forma l’oggetto dell’impresa va peraltro riferito alla relazione causale tra di essi
valutata nella fisiologia dell’attività svolta, apprezzabile sotto il profilo della ragionevolezza. Non può
tuttavia sfuggire che spesso costi sproporzionati non giustificabili sotto il profilo economico possono
rivelarsi fittizi con la conseguenza naturale di dover essere disconosciuti.
Come avvertito dalla giurisprudenza, l’inerenza configura “una relazione tra due concetti, la spesa e
l’impresa, che implica un accostamento concettuale tra due circostanze per cui il costo assume rilevanza
ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad
una precisa componente del reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente
idonea a produrre utili”.
Va, infine, ricordato che il legislatore identifica alcune tipologie di spese ad inerenza attenuata come ad
esempio le spese relative a prestazioni alberghiere e a somministrazioni di alimenti e bevande, deducibili
nella misura del 75%.

12. Opzione per la trasparenza fiscale


Tra gli strumenti volti a contrastare la doppia imposizione, il d.lgs. n.344/2000 consente l’opzione per
trasparenza ai soggetti di cui all’art. 73, al cui capitale partecipano esclusivamente società rientranti nella
stessa disposizione, ove ciascuna società socia abbia una percentuale del diritto di voto esercitabile
nell’assemblea generale e di partecipazione agli utili non inferiori al 10% e non superiore al 50%.
L’esercizio dell’opzione determina l’imputazione del reddito a ciascun socio, indipendentemente
dall’effettiva percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, restando precluso
nel caso in cui i soci partecipanti fruiscano della riduzione dell’aliquota dell’Ires (art. 115, comma 1,
T.U.I.R), ovvero nel caso di opzione per la tassazione di gruppo di imprese controllate residenti e per la
determinazione dell’unica base imponibile per il gruppo di imprese non residenti.
L’opzione deve essere esercitata da tutte le società e comunicata all’Amministrazione finanziaria.

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Essa è irrevocabile per tre esercizi sociali della società partecipata e si intende tacitamente rinnovata al
termine del triennio per un altro triennio, salvo revoca da esercitare con le modalità previste.
La società partecipata è solidamente responsabile con ciascun socio per l’imposta, le sezioni e gli interessi
conseguiti all’obbligo di imputazione del reddito.
L’opzione per la trasparenza fiscale è consentita anche alle società a ristretta base proprietaria: vale a
dire, società a responsabilità limitata, il cui volume di ricavi non supera la soglia prevista per
l’applicazione degli studi di settore e con una compagine sociale composta esclusivamente da persone
fisiche in numero non superiore a 10 o a 20, nel caso di società cooperative.
Le perdite fiscali della società partecipata, relative a periodi in cui è efficace l’opzione è imputata ai soci in
proporzione alle rispettive quote di partecipazione ed entro il limite della propria quota del patrimonio
netto contabile della società partecipata.

13. Il consolidato nazionale


Nell’intento di “incrementare la competitività del sistema produttivo, adottando un modello fiscale
omogeneo a quelli più efficienti in essere nei Paesi membri dell’Unione Europea” la riforma dell’IRES del
2003 ha introdotto alcune opzioni pluriennali che permetto ai soggetti elencati all’art. 73 T.U.I.R di
accedere alla tassazione di gruppo delle imprese controllate residenti (c.d. consolidato nazionale) e non
residenti (c.d. consolidato mondiale), regolato dagli artt. 130-142 T.U.I.R.
Nel tentativo di eliminare le conseguenze della doppia imposizione economica sui dividendi, il legislatore
ha previsto la tassazione consolidata di gruppo.
Le norme, ispirate in larga misura da finalità antielusive o di semplificazione fiscale, sono state
completate da una disciplina che ammette le società o l’ente controllante e ciascuna società controllata,
soggette ad IRES fra i quali sussiste il rapporto di controllo.
Al riguardo, la norma civilistica considera “società controllate le società in cui un’altra società dispone
della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria”.
Definendo analiticamente questo requisito, la legge tributaria dispone che si considerano controllate le
società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, al cui capitale sociale e utile di
bilancio la società o l’ente controllante partecipa direttamente o indirettamente per una percentuale
superiore al 50%. Il requisito del controllo
deve esistere sin dall’inizio di ogni esercizio relativamente al quale la società o ente controllante e la
società controllata si avvalgono dell’esercizio dell’opzione.
Nei confronti delle società e degli enti di ogni tipo, con o senza personalità giuridica, non residenti nel
territorio dello Stato, la norma è più restrittiva, stabilendo che possono esercitare l’opzione solo in qualità
di controllanti e a condizione, di essere residenti in paesi con i quali è in vigore un accordo per evitare la
doppia imposizione, di esercitare nel territorio dello Stato un’attività d’impresa, mediante una stabile
organizzazione, definita dall’art. 162, che assume la qualifica di consolidante. L’opzione dura per tre
esercizi sociali ed è irrevocabile.
L’opzione può essere esercitata da ciascuna entità legale solo in qualità di controllante o solo in qualità di
controllata e la sua efficacia è subordinata al verificarsi delle seguenti condizioni:
a. Identità dell’esercizio sociale di ciascuna società controllata con quello della società o ente
controllante.
b. Esercizio congiunto dell’opzione da parte di ciascuna controllata e dell’ente o società controllante.
c. Elezione di domicilio da parte ci ciascuna controllata presso la società o ente controllante.
d. L’avvenuto esercizio congiunto dell’opzione deve essere comunicato all’Agenzia delle entrate con
la dichiarazione presentata nel periodo d’imposta a decorrere dal quale si intende esercitare
l’opzione.

14. Il consolidato mondiale


Il consolidato mondiale è riservato a società ed enti i cui titoli siano negoziati nei mercati regolamentati,
ovvero a società ed enti che siano controllati ai sensi dell’art. 2359 del c.c. esclusivamente dallo Stato o
da altri enti pubblici o da persone fisiche residenti.
L’acceso a questo regime fiscale appare complesso, avendo il legislatore previsto la necessità del
consolidamento di tutte le controllate, della revisione dei bilanci del soggetto controllante residente e
delle controllare residenti da parte dei soggetti iscritti all’albo Consob.
Nel caso in cui la partecipazione in una controllata non residente sia detenuta, per il tramite di una o più
controllate e ciascuna delle controllate residenti, per la validità dell’opzione è necessario che la società
controllante e ciascuna delle controllate esercitino l’opzione, in tal caso la quota di reddito della
controllata non residente da includere nella base imponibile del gruppo corrisponde alla somma delle
quote di partecipazione di ciascuna società residente (art. 131 T.U.I.R
L’esercizio dell’opzione è consentito alle società e agli enti:
51
a. I cui titoli sono negoziati nei mercati regolamentati.
b. Controllati ai sensi dell’art. 2359 c.c.
Ai fini della verifica di questa condizione, le partecipazioni possedute dai familiari di cui all’art. 5 comma
5, si cumulano fra loro. La società controllante non può, quale controllata, esercitare anche l’opzione per
il consolidato nazionale, risultando evidente l’incompatibilità delle due opzioni.
Permanendo il requisito del controllo, l’opzione è irrevocabile per un periodo non inferiore a 5 esercizi del
soggetto controllante, mentre i successivi rinnovi hanno un’efficacia non inferiore a 3 esercizi. L’esercizio
dell’opzione è comunicato telematicamente all’Agenzia delle entrate, secondo le modalità previste dal
decreto di cui all’art. 142 T.U.I.R.
La società controllante può proporre interpello all’Agenzia delle entrate, al fine di verificare la sussistenza
dei requisiti dell’opzione, dall’istanza dovrà risultare la qualificazione del soggetto controllante, la
descrizione della struttura societaria estera del gruppo con l’indicazione di tutte le società controllate, la
denominazione, la sede sociale, l’attività svolta, l’ultimo bilancio, nonché la quota di partecipazione agli
utili.
L’esercizio dell’opzione consente di imputare al soggetto controllante i redditi e le perdite prodotti dalle
controllate non residenti, per la parte corrispondente alla quota di partecipazione agli utili dello stesso
soggetto controllante e delle società controllate.
La società controllante, effettuando la somma algebrica del proprio imponibile e di quelli delle controllate
estere, determina il reddito imponibile complessivo, ai fini del calcolo dell’imposta corrispondente.
Dall’imposta così determinata, oltre alle detrazioni, alle ritenute ed ai crediti di imposta relativi al
soggetto controllante, sono ammesse in detrazioni le imposte sul reddito pagate all’estero a titolo
definitivo secondo i criteri di cui all’art. 165, commi da 3 a 6, T.U.I.R.

15. Enti non commerciali


L’art. 73 T.U.I.R comprende tra i soggetti passivi dell’Ires anche gli enti pubblici o privati, diversi dalle
società che non hanno come oggetto principale o esclusivo l’esercizio di attività commerciali.
All’interno di tale categoria rientrano quindi diverse tipologie di soggetti (enti pubblici istituzionali,
previdenziali, assistenziali di ricerca, fondazioni, associazioni), accomunate ai fini dell’assoggettamento
all’Ires.
La creazione di nuove figure giuridiche (cooperative social, Onlus, imprese sociali) e la frammentarietà
delle disposizioni adottate nel tempo hanno reso necessaria la riforma del c.d. terzo settore, approvato
con d.lgs. 3 luglio 2017 n.112 e n.117.
Il c.d. Codice del terzo settore, nel prevedere per tutti gli Enti senza scopo di lucro l’iscrizione del Registro
unico nazionale del terzo settore, assume il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale, mediante lo svolgimento in via esclusiva o principale di attività di interesse generale.
Passando alla determinazione del reddito complessivo, va ricordato che esso è formato dai redditi
fondiari, di capitale, di impresa e diversi, ovunque prodotti e quale ne sia la destinazione, ad esclusione di
quelli esenti da imposta, soggetti a ritenuta a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva (art. 143).
I redditi e le perdite che concorrono a formare il reddito complessivo sono determinati distintamente, per
ciascuna categoria, in base al risultato complessivo di tutti i cespiti che vi rientrano.
Per la eventuale e residuale attività commerciale esercitata, gli enti non commerciali hanno l’obbligo di
tenere la contabilità separata. La seconda parte dell’art. 143 stabilisce che non si considerano attività
commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c., rese in conformità alle finalità
istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i
costi di diretta imputazione. In merito al primo requisito, anche per le somme ricevute, occorre verificare
che le prestazioni di servizi siano rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente previste dall’atto
costitutivo o dallo statuto e che riflettano una tendenziale copertura dei costi.
Una risoluzione, sia pure risalente nel tempo, ha chiarito che i compensi devono remunerare soltanto i
costi di diretta imputazione, opportunamente distinti e rilevanti, come sostenuti per lo svolgimento delle
prestazioni, senza inglobare una quota di utile.
Va comunque ricordato che, in caso di perdita della qualifica di ente non commerciale, dovuta all’esercizio
prevalente di attività commerciale per un intero periodo d’imposta e indipendentemente dalle previsioni
statuarie, si rende inettamente operante la disciplina Ires contenuta negli articoli 81, con la conseguenza
che tutto il reddito prodotto è considerato reddito d’impresa.
Ai fini della qualificazione commerciale, si tiene conto anche dei seguenti parametri:
a. Prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, al netto degli ammortamenti,
rispetto alle restanti attività.
b. Prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore norma delle cessioni o
prestazioni afferenti alle attività istituzionali.
c. Prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali, rispetto alle entrate istituzionali.

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d. Prevalenza delle componenti negative inerenti alle attività commerciali, rispetto alle restanti
spese.

16. Società ed enti non residenti


Ai fini delle imposte sui redditi, si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del
periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio
dello Stato.
Si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato gli organismi di investimento collettivo del
risparmio istituti in Italia. Per le società e gli enti non residenti, il reddito è sottoposto a tassazione
secondo il principio di territorialità e non su base globale, secondo i criteri di cui agli artt. 23 e 24 T.U.I.R.
A questo fine, si rende comunque necessario distinguere società ed enti commerciali non residenti, e
all’interno di tale categoria quelli aventi o meno una stabile organizzazione, e quindi gli enti non
commerciali non residenti.
Per le società e gli enti commerciali con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, il reddito
complessivo è determinato secondo le disposizioni della Sez. I del Capo II del Titolo II (determinazione
della base imponibile delle società e degli enti).

17. La tonnage tax


Tra i regimi impositivi speciali, azionabili in forza di opzione, particolare importanza riveste la Tonnage
Tax, applicabile alle società che svolgono attività nel settore marittimo ( artt. Da 155 a 161) a condizione
che le navi siano:
a. Iscritte nel registro internazionale.
b. Utilizzate in traffico internazionale.
c. Di tonnellaggio superiore alle cento tonnellate di stazza netta.
d. Destinate a determinate attività di trasporto.
e. Armate direttamente, oppure noleggiate dall’impresa marittima, a condizione che il tonnellaggio
delle navi prese a noleggio non sia superbire al 50% di quello complessivamente utilizzato.
Qualora la nave perda anche uno solo di tali requisiti, il reddito derivante dal suo utilizzo dovrà essere
determinato in via analitica, a parte dal giorno in cui si è verificato l’evento che ha comportato la perdita
del requisito. L’opzione si perfeziona con la trasmissione in via telematica, all’Agenzia delle entrate, di
un’apposita comunicazione.
L’opzione è irrevocabile per dieci esercizi sociali e può essere rinnovata. Il reddito imponibile delle navi in
Tonnage tax è calcolato forfettariamente, applicando determinati coefficienti al tonnellaggio netto di
ciascuna nave.
Tra i costi e le spese inerenti alle attività agevolate vanno compresi anche i componenti negativi di
reddito di natura finanziaria strettamente connessi all’utilizzo delle navi ammesse al regime della Tonnage
Tax, quali, ad esempio, gli interessi passivi su mutui ipotecari contratti per l’acquisto di navi, utili o
perdite.

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CAPITOLO 10: L’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO

1. Istituzione dell’Iva. Natura e inquadramento del tributo


Istituita con il d.P.R. 633 del 1972 per adeguare la legislazione italiana al Trattato UE e alle direttive
comunitarie, l’Iva ha sostituito la previgente imposta generale sulle entrate (IGE). La sua introduzione ha
comunque corrisposto all’intento di consolidare e promuovere il mercato interno attraverso un sistema
comune di imposte sulla cifra d’affari che, in quanto neutrali, non turbassero la concorrenza e non
ostacolassero la libera circolazione delle merci e dei servizi.
Per effetto del principio di neutralità che rende indifferente il tributo rispetto alla pluralità degli atti che
precedono il consumo e alle modalità organizzative e gestire, il “valore aggiunto” nell’IVA non è ‘aggiunto’
rispetto all’utilizzo di determinati fattori produttivi, bensì rispetto alle precedenti applicazioni del
medesimo tributo. Il fornitore, se imprenditore o professionista, deve addebitare al cliente il tributo,
proporzionale al corrispettivo contrattuale, e versarlo all’erario, al netto dell’IVA da lui stesso corrisposta
ai propri fornitori; i soggetti IVA possono, detrarre l’imposta dovuta ai loro fornitori dall’IVA sulle
operazioni attive, col diritto di rimborso di eventuali eccedenze.
In quanto modo, l’IVA giunge a colpire il consumo finale, mostrandosi neutrale nei passaggi intermedi di
beni e servizi tra produttori, commerciali e professionisti.
Particolare importanza assume il c.d. scorrimento del tributo, vale a dire la sua capacità di muoversi
lungo le diverse fasi della produzione e della commercializzazione senza produrre effetti a cascata.

2. Il requisito soggettivo
L’art. 12, comma 1, d.P.R. n.633, stabilisce che l’IVA è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di
beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario cumulativamente per tutte le
operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista dall’art. 19, nei modi e nei termini stabiliti nel
titolo secondo. Secondo l’art. 9 della direttiva 112/2006, “si considera soggetto passivo chiunque
esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica indipendentemente dallo scopo
o dai risultati di detta attività”.
L’art. 1 d.P.R. n.633, definisce la fattispecie prevedendo che sono soggette al tributo le cessioni di beni o
le prestazioni di servizi, operate nel territorio dello Stato, ed effettuate nell’esercizio di imprese o
nell’esercizio di arti e professioni, nonché le importazioni da chiunque effettuate. In assenza dei requisiti
oggettivo, soggettivo e territoriale, l’operazione diviene “esclusa dal tributo”.
Costituiscono, invece, operazioni esenti quelle che, pur presentando i tre requisiti richiamati, sono
sottratte al tributo in forza di finalità agevolative apprezzate come meritorie. Si considerano in ogni caso
effettuate nell’esercizio dell’impresa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da società
commerciali, da società cooperative e di mutua assicurazione oppure da società estere (art. 2507 c.c.) e
dalle società di fatto ovvero quelle fatte da altri enti pubblici e privati, compresi i consorzi, le associazioni
o altre organizzazioni senza personalità giuridica e dalle società semplici, che abbiano per oggetto
esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole.
Sono considerate in ogni caso commerciali:
a. Cessioni di beni nuovi prodotti per la vendita.
b. Erogazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione, gas, energia elettrica e vapore.
c. Gestione di fiere ed esposizioni a carattere commerciale.
d. Gestione di spacci aziendali, gestione di mense e somministrazione di pasti.
e. Trasporto di persone.
f. Organizzazioni di viaggi e soggiorni turistici, prestazioni alberghiere o di alloggio.
Non sono invece considerate attività commerciali le operazioni effettuate dello Stato, dalle regioni, dalle
province, dai comuni e dagli altri enti di diritti pubblico nell’ambito di attività di pubblica autorità.
L’art. 5 stabilisce, sempre in ordine al requisito soggettivo che, “per esercizio di arti e professioni si
intende l’esercizio, per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro
autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o di associazioni senza
personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse”.

3. Il requisito oggettivo: cessioni di beni e prestazioni di servizi


Le modalità applicative del tributo seguono criteri diversi a seconda che l’operazione si inquadri tra le
cessioni di beni o tra le prestazioni di servizi.
La distinzione evoca quella tra obbligazione di dare e facere. Sebbene non sempre agevole, essa riflette
un regime diverso con riguardo al momento impositivo, ad obblighi formali e profili intracomunitari.
Con l’espressione cessione di beni, si intende qualunque atto oneroso che importa il trasferimento della
proprietà ovvero la costituzione o il trasferimento dei diritti reali di godimento su beni di ogni genere.
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Onerosità del titolo ed effetto traslativo o costitutivo di diritti reali di godimento su beni d’ogni genere
costituiscono gli elementi identificativi della nozione in esame.
L’art. 2, d.P.R. n.633, dopo aver definito nel primo comma le cessioni di beni, elenca, nel secondo, una
serie di operazioni assimilabili: si tratta di operazioni per le quali i due requisiti richiamati non sempre
ricorrono o, almeno, anche quando ricorrono, non rientrano nella tipicità.
L’utilizzo dell’avverbio “inoltre” sta a significare una sorta di assimilazione che allarga la fattispecie allo
scopo di comprendervi situazioni dubbie; incerte oppure anomale che potrebbero fomentare controversie
interpretative.
Costituiscono altresì cessioni di beni:
1. Le vendite con riserva di proprietà.
2. I passaggi dal committente al commissionario o dal commissionario al committente di beni
venduti o acquistati in esecuzione di contratti di commissione.
3. Le cessioni gratuite di beni ad esclusione di quelli la cui produzione o il cui commercio non rientra
nell’attività propria dell’impresa. Si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che
non si trovano nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività, comprese le sedi
secondarie, le filiali, succursali, stabilimenti, negozi o depositi dell’impresa, salvo che sia
dimostrato che i beni stessi siano stati utilizzati per la produzione, perduti o distrutti.
L’art. 2, stabilisce che non sono considerate in ogni caso cessioni di beni: le cessioni che hanno per
oggetto denaro o crediti in denaro; le cessioni e i conferimenti in società o altri enti; le cessioni che
hanno per oggetto terreni non suscettibili di utilizzazione edificatoria, le cessioni di campioni gratuiti di
modico valore appositamente contrassegnati.
A differenza dell’art. 24 della direttiva UE n.112, che definisce le prestazioni di servizi come “ogni
operazione che non costituisce una cessione di beni”, la norma interna, menziona diverse tipologie
negoziali, prevedendo che rientrano tra le prestazioni di servizi quelle “verso corrispettivo dipendenti di
contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da
obbligazione di fare, non fare e id permettere, qualunque ne sia la fonte”.
Sono assimilate alle prestazioni di servizi se effettuate verso corrispettivo: le cessioni di beni in locazione,
affitto, noleggio esimili; le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti d’autore, quelle relative
ad intenzioni industriali, modelli, disegni etc.

4. L’elemento della territorialità


La fattispecie è completata dalla territorialità, definita dall’art. 7. Il primo comma precisa che per “Stato”
o “territorio dello Stato” si intende il Territorio della Repubblica Italiana; inoltre, per “Comunità o
territorio della Comunità” si intende il territorio corrispondente al campo di applicazione del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea.
Le cessioni si considerano effettuate nel territorio dello Stato se hanno per oggetto beni immobili ovvero
beni mobili nazionali, installati, montati o assemblati nel territorio dello Stato del fornitore o per suo
conto. Si considerano altresì effettuate nel territorio dello Stato le cessioni di gas attraverso un sistema di
gas naturale situati nel territorio dell’Unione europea o una rete connessa a tale sistema, le cessioni di
energia elettrica etc.
Il legislatore, mentre ha ritenuto applicabile in modo naturale il principio della territorialità ai beni
immobili, per quanto riguarda i beni mobili collega il requisito alla situazione in cui essi versano rispetto
all’ordinamento nazionale.
Si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti passivi stabiliti nel
territorio dello Stato o quando sono rese a committenti non soggetti passivi da soggetti passivi stabiliti
nel territorio dello Stato. Si considerano soggetti passivi per le prestazioni di servizi ad essi rese: i
soggetti esercenti attività d’impresa, arti o professioni; le persone fisiche si considerano soggetti passivi
limitatamente alle prestazioni ricevute quando agiscono nell’esercizio di tali attività; gli enti, le
associazioni e le altre organizzazioni, anche quando agiscono al di fuori delle attività commerciali o
agricole; gli enti le associazioni e le altre organizzazioni, non soggetti passivi, identificati ai fini
dell’imposta sul valore aggiunto.
Il legislatore ha stabilito all’art. 7 quater del d.P.R. n.633/1972 che, in ogni caso, si considerano
effettuate nel territorio dello Stato:
a. Le prestazioni di servizi relativi a beni immobili, comprese le perizie, le prestazioni di agenzia. La
connessione di diritti di utilizzazione di beni immobili e le prestazioni inerenti alla preparazione e
al coordinamento dell’esecuzione dei lavori immobiliari, quando l’immobile è situato nel territorio
dello Stato.
b. Le prestazioni di trasporto di passeggeri, in proporzione alla distanza percorsa nel territorio dello
Stato.

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c. Le prestazioni di servizi di locazione, anche finanziaria, soleggio e simili, a breve termine, di
mezzi di trasporto quando gli stessi sono messi a disposizione del destinatario nel territorio dello
Stato e sempre che siano utilizzate all’interno del territorio della Comunità.
Particolari disposizioni sono state introdotte dall’art. 7 quinquies, in deroga alla disciplina comune,
relativamente alle prestazioni di servizi culturali, artistici, sportivi, scientifici, educativi, ricreativi e simili
rese a committenti non soggetti passivi del tributo, le quali si considerano effettuate nel territorio dello
stato quando le medesime attività sono ivi materialmente svolte.
Ulteriori deroghe sono stabilite dall’art. 7 sexies, si considerano effettuate nel territorio dello stato se rese
a committenti non soggetti passivi: le prestazioni di intermediazione in nome e per conto del cliente,
quando le operazioni oggetto dell’intermediazione si considerano effettuate nel territorio dello stato; le
prestazioni di lavorazione, nonché le perizie, relative ai beni mobili materiali; le prestazioni di servizi di
locazione, anche finanziaria, noleggio e simili.
L’art. 7 septies stabilisce che non si considerano effettuate nel territorio dello stato le prestazioni di
servizi rese a committenti non soggetti passivi domiciliati e residenti fuori dalla Comunità, quelle
pubblicitarie, di consulenza e assistenza tecnica o legale nonché quelle di elaborazione e fornitura dei dati
e simili; le operazioni bancarie e finanziarie ed assicurative, le prestazioni derivanti da contratti di
locazione, anche finanziaria.
Il d.P.R. n.633/1972 stabilisce che non si considerano effettuate nel territorio dello stato le cessioni
all’esportazione di cui all’art. 8, le operazioni assimilate accessioni di esportazione e i servizi internazionali
o connessi agli scambi internazionali di cui all’art. 9: operazioni che, pur avendo luogo sul territorio
nazionale, si attraggono al principio stesso.

5. Le importazioni e le operazioni intracomunitarie


A differenza delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, assoggettate ad imposta soltanto se
rientranti nell’esercizio di imprese oppure di arti e professioni, le importazioni costituiscono una
fattispecie tributaria generale.
Stabilisce, infatti, l’art. 1 del d.P.R. n.633/1972 che sono soggette ad IVA le “importazioni da chiunque
effettuate”. La norma trova fondamento nell’esigenza di assicurare la parità di trattamento tra prodotti
esteri e interni, facendo ricadere il tributo sul consumatore finale nazionale.
Nel definire il concetto di importazioni, l’art. 67 considera le operazioni evento per oggetto beni introdotti
nel territorio dello Stato originari da Paesi o territori non compresi nel territorio della Comunità.
Sono altresì soggette all’imposta le operazioni di reimportazione a scarico di esportazione temporanea
fuori dall’Unione e quelle di reintroduzione di beni precedentemente esportati fuori dalla stessa.
Dalle importazioni devono essere distinte le operazioni intracomunitarie. La configurazione del territorio
comunitario come spazio senza frontiere e la natura europea del tributo hanno indotto gli Stati membri a
prevedere un’apposita disciplina dell’IVA per le operazioni tra soggetti IVA di paesi diversi dell’Unione.
Con l’abolizione delle frontiere doganali (1993), profonde innovazioni sono state apportate al regime Iva
delle operazioni imponibili intracomunitarie, intendendo per tali quelle realizzate da un soggetto passivo
Iva residente in uno Stato membro dell’Unione Europea nei confronti di un soggetto passivo Iva residente
in un altro Stato membro. Nel definire le modalità di tassazione intracomunitaria, il legislatore ha
introdotto il principio generale dell’applicazione dell’Iva nel Paese di destinazione del bene o del servizio.
L’esigenza di evitare distorsioni nell’applicazione dell’imposta in relazione agli scambi internazionali ha
determinato la necessità di prevedere un istituto, che assicurasse la neutralità dell’imposta negli scambi
internazionali precedenti il consumo finale. Le operazioni INTRAUE sono soggette a differenti regole di
fatturazione, registrazione, variazione e dichiarazione rispetto a quelle interne; è previsto un obbligo di
compilazione dei modelli INTRASTAT e l’iscrizione ad apposito archivio comunitario denominato VIES.

6. Il momento impositivo
Al verificarsi dei diversi requisiti (soggettivo, oggettivo, territoriale) l’operazione si rende imponibile,
assumendo rilevanza ai fini dell’applicazione del tributo nel c.d. momento impositivo individuato dal
legislatore secondo le regole di imputazioni temporale, differenziate in regione della natura dell’atto o del
bene che ne costituisce oggetto.
Fondamentale è individuare il momento in cui l’operazione imponibile si considera perfezionata ai fini Iva,
valorizzando alcuni elementi di volta in volta individuati (data dell’atto, consegna del bene, pagamento
del prezzo ecc.).
A questo riguardo, l’art. 6 stabilisce che le cessioni di beni si considerano effettuate nel momento della
stipulazione se riguardano beni immobili e nel momento della consegna o spedizione se riguardano beni
mobili. Tuttavia, le cessioni i cui effetti traslativi o costitutivi si producono posteriormente, si considerano
effettuate nel momento in cui si producono tali effetti. Le prestazioni di servizi si considerano effettuate
all’atto del pagamento del corrispettivo.

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In base al 4 comma dell’art. 6, se anteriormente al verificarsi degli eventi indicati, o indipendentemente
da essi, sia emessa fattura o sia pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l’operazione si considera
effettuata, limitatamente all’importo fatturato o pagato, alla data della fattura o a quella del pagamento.
Per molte delle operazioni con enti pubblici è anche previsto il c.d. split payment in forza del quale
l’imposta è dovuta direttamente dal soggetto pubblico erogante, il quale trattiene la quota del tributo e la
versa all’erario. In deroga al terzo e al quarto comma dell’art. 6 del d.P.R. n.633/1972, le prestazioni di
servizi rese da un soggetto passivo non stabilito nel territorio dello Stato ad un soggetto passivo ivi
stabilito, si considerano effettuate nel momento in cui sono ultimate, ovvero, se di carattere periodico o
continuativo, alla data della maturazione dei corrispettivi.

7. Dall’operazione imponibile al volume d’affari. La neutralità del tributo. Rivalsa e


detrazione
L’IVA è commisurata ad una base imponibile costituita dai corrispettivi contrattuali e a volume d’affari
ruspante dal loro ammontare globale determinato nell’anno solare; nei casi di corrispettivo mancante
ovvero espresso in natura occorre procedere alla determinazione dell’imponibile in base al valore
normale.
Non fanno parte del corrispettivo alcune somme erogate al fornitore a diverso titolo, prima di tutti i
rimborsi di anticipazioni sostenute in nome e per conto della controparte, a condizione che siano
“debitamente documentate”, ovvero le somme corrisposte a titolo di penalità, nonché gli interessi
moratori.
Non concorrono alla formazione del volume d’affari i corrispettivi delle cessioni di beni ammortizzabili,
compresi quelli indicati nell’art. 2424 c.c.
L’imposta dovuta è versata, insieme ai corrispettivi, dai soggetti ai quali sono stati ceduti i beni o che
hanno fruito dei servizi.
Determinata la base imponibile, l’imposta dovuta si calcola applicando le aliquote vigenti al momento i cui
l’operazione si considera effettuata. L’aliquota ordinaria è fissata al 22%, sono previste poi aliquote
ridotte del 10 e del 4% per beni o servizi ritenuti meritevoli, mentre non sono ammesse aliquote zero,
essendo contemplate operazioni esenti ed escluse.
Nel meccanismo applicativo del tributo, si rende necessario confrontare masse di operazioni attive e
passive, ovvero l’imposta a valle con quella a monte, e, attraverso rivalsa e detrazione, determinate
l’imposta dovuta. Tale disciplina è coerente con il modello di tributo, in forza del quale il soggetto che
effettua l’operazione imponibile è obbligato ad addebitare l’imposta relativa e ha il diritto di portare in
detrazione l’Iva addebitata; il tributo, scorrendo fra i soggetti che partecipano alle operazioni imponibili,
perviene allo Stato, in modo neutrale.
Dal tutto peculiare rispetto al meccanismo del tributo è il c.d. reverse charge o inversione contabile,
introdotto soprattutto per contrastare l’evasione e l’elusione in taluni settori produttivi più esposti a tali
rischi (ad esempio l’edilizia), consistente nell’applicazione del tributo da parte dell’acquirente di beni o del
committente di servizi, se soggetto passivo nel territorio dello Stato.
Il diritto di detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in
cui l’imposta diviene esigibile e può essere esercitato con la dichiarazione relativa al secondo anno
successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto e alle condizioni esistenti al momento della
nascita del diritto medesimo. Tale diritto subisce due limiti, uno relativo al rapporto tra l’acquisto e
l’esercizio dell’impresa (una sorta di inerenza), ed uno relativo a quello tra l’acquisto e le operazioni non
soggette a tributo, per le quali opera il c.d. pro-rata. In base a tale regola, la detrazione dell’imposta
sugli acquisti è proporzionale al rapporto tra l’insieme delle operazioni attive che danno diritto a
detrazione e lo stesso ammontare, aumentato delle operazioni esenti.
Questa percentuale sarà applicata all’IVA sugli acquisti, ottenendo così l’ammontare dell’iva detraibile.
Nell’analisi offerta in sede europea, detrazione e rivalsa costituiscono gli strumenti attraverso i quali il
principio di neutralità legale, competitiva ed economica, trova piena attuazione. Per neutralità legale si
intende il carattere normativo e strutturale dell’imposta, consistente nell’applicazione di aliquote sul
prezzo di vendita che risulta identica per prodotti identici. In quest’ottica, l’imposta neutrale, dal punto di
vista giuridico, assume la stessa valenza, qualora non determini una distorsione competitiva tra operatori
diversi.

8. Versamento del tributo e obblighi formali: fatturazione, dichiarazione. Tenuta e


conservazione di registri e documenti
Come evidenziato, l’iva è dovuta dai soggetti che effettuano operazioni imponibili, i quali devono versarla
all’erario cumulativamente per tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista
nell’art.19. nella determinazione dell’imposta dovuta o dell’eccedenza, dall’ammontare dell’imposta
relativa alle operazioni effettuate è detraibile quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o
a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni importati o acquistati e ai servizi richiesti
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nell’esercizio dell’impresa, arte o professione. Il concorso dei requisiti soggettivi, oggettivi e territoriali
determinano un obbligo formale: “per ciascuna operazione imponibile il soggetto che effettua la cessione
del bene o la prestazione del servizio emette fattura anche sotto forma di nota, conto, parcella e simili o,
fermo restando la sua responsabilità, assicura che la stessa sia emessa, per suo conto, dal cessionario o
dal committente ovvero da un terzo”. (art. 21 d.P.R. n.633/1972).
La fattura, originariamente emessa in modalità cartacea, poi consentita anche in forma elettronica, a
partire dal 1° gennaio 2019, deve essere emessa obbligatoriamente in forma elettronica anche nei
confronti dei soggetti non aventi partita Iva. Per fatta elettronica si intende la fattura redatta con
computer o tablet e trasmessa telematicamente tramite apposito sistema di interscambio, all’Agenzia
delle entrate. La trasmissione telematica è effettuata entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello
della data del documento emesso ovvero a quello della data di ricezione del documento comprovante
l’operazione. Per data di ricezione si intende quella di registrazione dell’operazione ai fini della
liquidazione dell’IVA. La fattura deve contenere tutti gli elementi di cui all’art. 21.
Essa deve essere datata e numerata in ordine progressivo e deve contenere le seguenti indicazioni:
a. Data di emissione.
b. Numero progressivo che la identifica in modo univoco.
c. Città, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio del soggetto
cedente o prestatore.
d. Numero di partita IVA del soggetto cedente o prestatore.
e. Ditta, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio del soggetto
cessionario o committente.
f. Numero di partita Iva del soggetto cessionario o committente.
g. Natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione.
h. Corrispettivi ed altri dati necessari per la determinazione della base imponibile.
i. Corrispettivi relativi agli altri beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono.
j. Aliquota, ammontare dell’imposta e dell’imponibile con arrotondamento al centesimo di euro.
Per le operazioni effettuate nello stesso giorno nei confronti di un medesimo soggetto può essere emessa
un’unica fattura. Il soggetto passivo assicura l’autenticità dell’origine, l’integrità del contenuto e la
leggibilità della fattura dal momento della sua emissione fino al termine del suo periodo di conservazione.
Diversamente dal legislatore civilistico, che indica la fattura, senza darne una definizione, quello tributario
ne precisa i requisiti e il tempo di emissione, consentendo che la fattura possa essere emessa “anche
sotto forma di nota, conto, parcella o simili”. Essa, pertanto, costituisce un documento rappresentativo
dell’operazione svoltasi tra le parti.
A conferma, il primo comma dell’art. 21, stabilisce che “la fattura si ha per emessa all’atto della sua
consegna, spedizione, trasmissione o messa a disposizione del cessionario o committente”. Va poi
ricordato il settimo comma dell’art. 21 in forza del quale se viene emessa fattura per operazioni
inesistenti ovvero se nella stessa i corrispettivi o le imposte relative sono indicate in misura superiore a
quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della
fattura.
L’emissione della fattura non è obbligatoria, invece, per il commercio al minuto e le attività assimilate “se
non è richiesta dal cliente non oltre il momento di effettuazione delle operazioni”.
Tuttavia, “gli imprenditori che acquistano beni che formano oggetto dell’attività propria dell’impresa da
commercianti al minuto ai quali è consentita l’emissione della fattura sono obbligati a richiederla”.
Oltre alla fattura, particolare rilievo assumono gli obblighi di tenuta dei registri IVA delle fatture emesse,
degli acquisti e dei corrispettivi, oltre che i bollettari di cui all’art. 32, i quali devono essere numerati e
bollati. Gli obblighi di registrazione sono alleggeriti con la fatturazione elettronica, restando comunque
vigenti ai fini delle imposte sui redditi anche in funzione dei controlli degli uffici fiscali.
I soggetti che intraprendono l’esercizio di un’impresa devono, entro 30 giorni, farne dichiarazione
all’ufficio, in duplice esemplare e in conformità ad apposito modello approvato con decreto del Ministro
per l’economia e finanze. L’ufficio attribuisce al contribuente un numero di partita IVA, che resterà
invariato anche nelle ipotesi di variazioni di domicilio fiscale fino al momento della cessazione dell’attività
e che deve essere indicato nella dichiarazioni, nella home-page dell’eventuale sito web.

9. I regimi speciali dell’IVA


Accanto al meccanismo ordinario, basato sull’interazione tra detrazione e rivalsa, sono previsti regimi
speciali per settori particolari, i quali trovano fondamento nelle difficoltà ad applicare il regime ordinario.
Alcuni regimi speciali previsti dall’art. 74 del d.P.R. sono accumunati dall’applicazione dell’IVA in capo al
soggetto che si trova “a monte” nella catena produttiva e distributiva, escludendo dall’imposta i
successivi passaggi e, per essi, il meccanismo delle detrazioni e delle rivalse; l’IVA diventa così, in tali

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ipotesi, una sorta di imposta “monofase”, applicata cioè ad un solo stadio della produzione o
commercializzazione.
Tra i setoli interessati l’editoria e il commercio di riviste, giornali e quotidiani, nel quale l’IVA è corrisposta
una volta per tutte dall’editore sul numero di copie vendute ovvero su quelle consegnate o spedite.
Tra i regimi speciali, il più diffuso è quello previsto per l’agricoltura e in particolare per le cessioni dei
prodotti agricoli compresi nella tabella A allegata al decreto IVA.

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CAPITOLO 11: LE IMPOSTE SULL’ATTIVITÀ GIURIDICA: REGISTRO, BOLLO,
SUCCESSIONI, IPOTECARIE E CATASTALI

1. L’imposta di registro

A. Atti soggetti a registrazione


La legge del registro è stata oggetto di particolare attenzione dalla dottrina. Originariamente concepito
come tassa, essendo dovuto in relazione al servizio pubblico della registrazione degli atti al fine di
consentirne gli effetti, con l’evoluzione della normativa, il tributo ha assunto successivamente la natura di
‘imposta’, essendo applicata in misura differenziata a seconda della manifestazione di ricchezza racchiusa
nell’atto da registrare.
Il tributo presenta tanto i caratteri dell’imposta, atteso il riferimento alla capacità contributiva misurata
attraverso l’applicazione proporzionale al valore dell’atto registrato, quanto quelli della tassa, essendo in
altri casi applicato in misura fissa ed essendo comunque collegato agli effetti della registrazione.
Pertanto, l’imposta di registro si presenta come tributo d’atto, facendo sorgere in capo al contribuente, da
un lato, l’obbligo di assoggettare alla formalità della registrazione gli atti scritti di natura negoziale,
amministrativa e giudiziaria, idonei a prodotti effetti giuridici, e dall’altro, l’obbligo di pagare il tributo
liquidato dall’Ufficio cui compete la registrazione degli atti e la riscossione dell’imposta dovuta.
L’attuale disciplina (T.U 30/4/1986 n.131) assoggetta a tassazione agli atti giuridici, prevedendo le
modalità della registrazione obbligatoria, a sua volta distinte in termine fisso o in caso d’uso, e
registrazione volontaria. Sono soggetti a registrazione in termine fisso gli atti traslativi a titolo oneroso
della proprietà di beni immobili, traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento, di atti
traslativi a titolo oneroso di beni diversi da questi, nonché atti di natura dichiarativa relativi a beni e
rapporti di qualsiasi natura. Sono inoltre soggetti a registrazione con la stessa modalità i contratti verbali
di locazione o affitto di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato e relative cessioni, risoluzioni e
proroghe anche tacite, e di costruzione o trasferimento di diritti reali di godimento sulle stesse e relative
cessioni, risoluzioni e proroghe.
Sono invece soggetti a registrazione solo in caso d’uso i contratti di locazione e di affitto di beni immobili
non formati per atto pubblico o scrittura privata autenticata di durata non superiore a 30 giorni
complessivi nell’anno. Per i contratti di affitto di fondi rustici non formati per atto pubblico o scrittura
privata autenticata, l’obbligo della registrazione può essere assolto presentando all’ufficio delle entrate,
una denuncia in doppio organare relativa ai contratti in essere nell’anno precedente.
Sono, infine, assoggettate a registrazione le operazioni delle società ed enti esteri indicate nell’art. 4 della
legge e gli atti formati all’estero, comprese le sentenze pronunciate dai consoli italiani, che importano il
trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di altri diritti reali su beni immobili
esistenti nel territorio dello Stato.
Si ha caso d’uso quando un atto si deposita per essere acquisito agli atti presso le cancellerie giudiziarie
nell’esplicazione di attività amministrative o presso le Amministrazioni dello Stato. Tra gli atti assoggettati
a registrazione in caso d’uso rientrano i contratti di lavoro autonomo, le scritture private non autenticate
contenenti operazioni sottoposte ad imposta sul valore aggiunto.
La registrazione deve essere richiesta, secondo le disposizioni dell’art. 10 della legge:
1. Dalle parti contraenti per le scritture private non autenticate, per i contratti verbali e per gli atti
pubblici e privati formati all’estero.
2. Dai notai, dagli ufficiali giudiziari, dai segretari o delegati della pubblica amministrazione.
3. Dagli impiegati dell’amministrazione finanziaria e dagli appartenenti al corpo della Guardia di
Finanza per gli atti da registrare d’ufficio.
4. Dagli agenti di affari in mediazione per le scritture private non autenticate di natura negoziale
stipulate a seguito della loro attività per la conclusione degli affari.
La registrazione degli atti soggetti in termine fisso deve essere richiesta entro 20 giorni dalla data, se
formati in Italia, entro 60, se formati all’estero. Per gaio atti giurisdizionali, i cancellieri devono richiedere
la registrazione decorsi 10 giorni ed entro 30 giorni dalla data di pubblicazione o di emanazione del
provvedimento, purché dagli atti del procedimento siano desumibili il dominio e la residenza anagrafica
delle parti; in mancanza di tali elementi, la registrazione deve essere richiesta entro 30 giorni dalla data
di acquisizione degli stessi. In mancanza di richiesta da parte dei soggetti indicati nell’art.10, la
registrazione è eseguita d’ufficio, previa riscossione dell’imposta dovuta.

B. Criteri per l’applicazione dell’imposta


In base all’art. 20, T.U n.131 del 1986, intitolato “interpretazione degli atti”, “l’imposta è applicata
secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi
corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dell’atto medesimo,
prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati”, ha rilevanza, pertanto, la finalità
giuridica concretamente perseguita dalle parti. Per effetto delle modifiche apportate dalla Legge di

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Bilancio 2018, con la previsione del divieto di utilizzo di elementi estranei all’atto ai fini
dell’interpretazione del medesimo, è stata chiarita la portata applicativa della norma, restituendo al
tributo di registro la configurazione di “imposta d’atto”.
In questa luce, l’art. 20 T.U n.131 del 1986 non può più costituire strumento per risolvere le discrepanze
tra gli effetti negoziali e quelli sostanziali dell’atto da registrare: la natura dell’atto da assoggettare ad
imposizione va determinata, in via esclusiva, sulla base degli elementi contenuti nell’atto stesso. Vi è però
un eccezione: il richiamo effettuato all’art. 10-bis della legge n.212/2000 legittima l’amministrazione
finanziaria a riqualificare l’operazione, anche avvalendosi di atti collegati o di elementi extra testuali, ove
sia configurabile un’ipotesi di abuso del diritto.
Il T.U n.131 stabilisce dei criteri particolari con riguardo a fattispecie più complesse o a fini antielusivi: se
un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente le une dalle altre, ciascuna di esse è
soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto; se una disposizione ha per oggetto più beni o più
diritti, per i quali sono previste aliquote diverse, si applica l’aliquota più elevata. Un atto in parte gratuito
e in parte oneroso è soggetto all’imposta prevista dal T.U 131 per la parte a titolo oneroso, salva
l’applicazione dell’imposta sulle successioni o donazioni per la parte a titolo gratuito. Se in un atto sono
enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati e posti in essere fra le
stesse parti intervenute nell’atto che contiene l’enunciazione, l’imposta si applica anche alle disposizioni
enunciate (art.22).
I trasferimenti immobiliari posti in essere fra parenti in linea retta si presumono donazioni se la relativa
imposta risulti inferiore a quella dovuta in caso di trasferimento a titolo gratuito.
Con sentenza del 25 febbraio 1999, n.41, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma
per contrasto con i principi di uguaglianza e capacità contributiva.
Gli atti sottoposti a condizione sospensiva sono registrati con il pagamento dell’imposta in misura fissa,
quando la condizione si verifica, o l’atto produce comunque i suoi effetti, è riscossa la differenza fra
l’imposta pagata in sede di registrazione e quella dovuta secondo le norme vigenti al momento della
formazione dell’atto.
La risoluzione del contratto è soggetta all’imposta in misura fissa, se dipende da condizione risolutiva
espressa contenta nel contratto stesso ovvero se è attuata mediante atto pubblico o scrittura privata
autenticata. La ratifica, la convalida e la conferma sono soggette all’imposta in misura fissa, salvo il
disposto dell’art. 22, in ordine all’enunciazione degli atti non registrati.
Per i contratti a tempo indeterminato, l’imposta è applicata in base alla durata dichiarata dalla parte che
ne richiede la registrazione. La nullità o l’annullabilità dell’atto non dispensa dall’obbligo di chiedere la
registrazione e di pagare la relativa imposta.
Per gli atti relativi ad operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, si rende applicabile il principio
dell’alternatività, di cui all’art. 40 T.U n.131 del 1986, in forza del quale l’imposta di registro si applica in
misura fissa quando l’iva è dovuta.

C. Liquidazione e riscossione: il frazionamento dell’imposta


L’imposta, quando non è dovuta in misura fissa, è determinata mediante l’applicazione dell’aliquota
indicata nella tariffa sulla base imponibile, secondo le disposizioni degli articoli 43 e seguenti.
È principale l’imposta liquidata all’atto della registrazione e quella diretta a correggere errori o omissioni
effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione in via
telematica, suppletiva a quella applicata successivamente per correggere errori od omissioni dell’ufficio in
sede di liquidazione.
In quest’ultima fattispecie rientrano le ipotesi in cui l’imposta è applicata dopo la registrazione a causa
della mancanza di elementi utili a determinare l’effettivo importo del tributo o della sospensione della
liquidazione per effetto di disposizioni di legge.
All’atto della richiesta di registrazione, il richiedente deve pagare e, se la liquidazione è rinviata, deve
depositare la somma che ritiene corrispondente all’imposta dovuta.
Quando la registrazione deve essere eseguita d’ufficio, l’ufficio del registro notifica apposito avviso al
soggetto o ad uno dei soggetti obbligati a chiedere la registrazione, con invito ad effettuare, entro un
termine non superiore a 60 giorni, il pagamento dell’imposta e della pena pecuniaria per omessa
registrazione.
Oltre ai pubblici ufficiali che hanno redatto l’atto ed ai soggetti nel cui interesse è stata richiesta la
registrazione, sono solidamente obbligati al pagamento dell’imposta le parti contraenti, le parti in causa.
Gli agenti immobiliari, obbligati a richiedere la registrazione ai sensi dell’art. 10comma 1 del T.U n.131
nel 1986, sono solidamente tenuti al pagamento dell’imposta per le scritture private non autenticate di
natura negoziale stipulate a seguito della loro attività di mediazione.
Del pari, anche l’utilizzatore dell’immobile concesso in locazione finanziaria è solidamente obbligato al
pagamento del tributo per l’immobile, anche da costruire o in corso di costruzione, acquisito dal locatore
per la conclusione del contratto. La responsabilità dei pubblici ufficiali non si estende al pagamento delle
imposte complementari e suppletive.

D. Prescrizione e decadenza

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L’imposta sugli atti soggetti a registrazione in termine fisso e non presentati per la registrazione deve
essere richiesta dall’Amministrazione finanzia a pena di decadenza, nel termine di cinque anni dal giorno
in cui, a norma degli artt. 13,14,15, avrebbe dovuto essere richiesta la registrazione o si è verificato il
fatto che legittima la registrazione d’ufficio.
L’avviso di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta di cui all’art.52, devono essere notificati
entro il termine di decadenza di due anni dal pagamento dell’imposta principale.
Per gli atti presentati per la registrazione, l’imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, entro il
termine di tre anni decorrenti:
1. Alla richiesta di registrazione, se si tratta di imposta principale.
2. Dalla data in cui l’accertamento di maggior valore è divenuto definitivo.
3. Dalla data di registrazione dell’atto ovvero dalla data di presentazione della denuncia di cui all’art.
19.
La richiesta dell’ufficio, contenente l’indicazione dell’ammontare dell’imposta liquidata, deve essere
notificata al contribuente nei modi stabiliti nel secondo comma dell’art. 52. Le sanzioni devono essere
irrogate, a pena di decadenza, nel termine stabilito per chiedere l’imposta a cui si riferiscono. Il diritto a
riscuotere l’imposta definitivamente accertata si prescrive in dieci anni. Il rimborso del tributo e dei suoi
accessori deve essere richiesto dal contribuente, a pena di decadenza, entro tre anni dal giorno del
pagamento.

2. L’imposta di bollo
L’imposta di bollo riveste natura giuridica di imposta d’atto. In forza dell’art. 1 d.P.R. 26 ottobre 1972
n.642, sono soggetti all’imposta di bollo gli atti, i documenti e i registri indicati nell’annessa tariffa. La
norma chiarisce che le disposizioni contenute nello stesso decreto “non si applicano agli atti legislativi e,
se non espressamente previsti nella tariffa, agli atti amministrativi dello Stato, delle regioni, delle
province, dei comuni e loro consorzi”.
L’imposta di bollo è dovuta fin dall’origine per gli atti, i documenti e i registri indicati nella parte I della
tariffa, se formati nello Stato, e in caso d’uso per quelli indicati nella parte II. Anche in questi casi, il
legislatore non ha qualificatole due categorie di atti, documenti e registri, limitandosi a classificarli
distintamente. Se nella prima, la tassazione è connessa con l’esistenza stessa dell’atto, documento o
registro, nella seconda, occorre stabilire quando ricorra il caso d’uso: a differenza del tributo di registro,
questa condizione si verifica quanto un atto, un documento o un registro è presentato all’ufficio fiscale
per la registrazione.
L’imposta di bollo si corrisponde secondo le indicazioni della tariffa allegata al d.P.R. n.642/1972:
a. Mediante il pagamento ad un intermediario convenzionato con l’Agenzia delle entrate.
b. In modo virtuale, mediante pagamento all’ufo dell’Agenzia delle entrate.
Una modalità, oramai in disuso, di pagamento del tributo è costituita dall’impiego dell’apposita carta
filigrana e bollata, recante impresso il relativo valore. Esclusa quella per le cambiali, la carta bollata deve
essere marinata e contenere cento linee per ogni foglio; con apposito decreto del Ministro delle finanze
sono determinate la forma, il valore e gli altri caratteri distintivi della carta bollata, delle marche da bollo
e dei bolli a punzone. Il foglio si intende composto da quattro facciate, l’imposta è dovuta per ogni
facciata effettivamente utilizzata.
L’imposta di bollo si corrisponde anche in modo straordinario, mediante marche da bollo, visto per bollo o
bollo a punzone; per gli atti soggetti a bollo sin dall’origine, l’applicazione delle marche da bollo deve
precedere l’eventuale sottoscrizione. L’annullamento delle marche deve avvenire mediante perforazione o
applicazione della sottoscrizione di una delle parti o della data di un timbro.
Per determinate categorie di atti e documenti, per i quali è previsto esclusivamente l’uso della carta
bollata, piò essere consentito, su richiesta dell’interessato, il pagamento dell’imposta in modo
straordinario. Per determinate categorie di atti o documenti, la Direzione regionale può, su richiesta degli
interessati, consentire che il pagamento dell’imposta, anziché in modo ordinario o straordinario, avvenga
in modo virtuale.
Il testo unico concernente l’imposta di bollo non individua, per ciascuna tipologia di atto, il soggetto
passivo, limitandosi a prevedere che l’obbligo di corrisponde il tributo grava, in maniera solidale, a carico
di chi partecipa o ha interesse all’atto e di chi, in qualsiasi momento, accetta o fa uso del medesimo.
Le sanzioni possono essere irrogate per inosservanza di nome formali, violazione delle disposizioni
concernenti il consumo, l’uso di valori bollati o il pagamento in maniera virtuale, violazioni concernenti il
monopolio di produzione e vendita dei valori bollati. Solo queste ultime infrazioni danno luogo a
fattispecie penalmente rilevanti, essendo le prime due canzoni di carattere amministrativo.

3. Il contributo unificato per gli atti giudiziari


Le esigenze di semplificazione del sistema di tassazione dell’attività giudiziaria, caratterizzata dalla
convivenza di forme di prelievo di natura tributaria ed extratributaria (i c.d. diritti casuali), sono stati in
larga misura soddisfatte con l’introduzione del contributo unificato sugli atti giudiziari il quale ha assorbito

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le imposte di bollo sugli atti giudiziari, la tassa di iscrizione a ruolo, i diritti di cancelleria e i diritti di
chiamata in causa dell’ufficiale giudiziario.
Alla luce dell’attuale aspetto normativo, imposta di registro e contributo unificato costituiscono le
principali forme di prelievo sull’attività giudiziaria, mentre l’applicazione dell’imposta di bollo è limitata e
residuale. Ben altri scenari sembravano dischiudersi a seguito dell’approvazione della legge delega n.80
del 2003 di riforma del sistema tributario nell’ambito della quale era prevista l’istituzione di un’imposta
sui servizi destinata a sostituire imposta di registro, di bollo, ipotecarie e catastali, di assicurazione, sugli
intrattenimenti.
L’inutile decorso dei termini per l’attuazione della delega sembra avere fatto tramontare l’idea di
concentrare in un unico tributo forme di prelievo di natura diversa riguardati l’attività giudica. La nuova
contribuzione unificata ha così aperto la via ad un nuovo corso dell’imposizione sui “servizi di giustizia” la
cui tassazione diventa, in un certo senso, “una tantum”.
Attraverso tale prelievo, non a caso definito unificato, i vari tributi e diritti giudiziari sono accorpati,
semplificando gli adempimento ed evitando l’appesantimento formale dell’apposizione delle arche sugli
atti giudiziari anche in considerazione dell’evidente incompatibilità con la trasmissione degli atti per via
telematica.
Ai sensi dell’art. 9 del T.U, il contributo unificato è dovuto, per ciascun grado di giudizio, sia nell’ambito
del processo civile che del processo amministrativo e tributario come pure, se viene esercitata l’azione
civile nel processo penale e viene chiesta, anche in via provvisionale, la condanna al pagamento di una
somma di una somma a titolo di risarcimento del danno, e, da ultimo per gli atti del processo tributario.
Le controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, nonché quelle individuali di lavoro o
concernenti rapporti di pubblico impiego in origine esentate dal contributo unificato, per effetto delle
modifiche apportate dal d.l. 6 luglio 2011, n.98, sono soggette a tale forma di prelievo, ad eccezione dei
processi dinanzi alla Corte di cassazione.
Non mancano, tuttavia, casi di esenzione, specificamente indicati dal legislatore in un apposito elenco. Si
pensi, ad esempio, alle cause in materia di contratti agrari, già esenti, in passato, dall’imposta di bollo e
da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie o natura.
Coerentemente all’indirizzo espresso dalla Corte costituzionale, è stabilita l’esenzione per tutte le azioni
riguardanti la prole, fra le quali quelle in materia di assegni di mantenimento, sia nella fase di
accertamento di merito, che in quella cautelare, i giudizi relativi ai rapporti familiari e alle persone, i
processi di interdizione e inabilitazione, di dichiarazione di assenza e di morte presunta.
Il rilievo costituzionale che ha assunto il principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost) ha
indotti il legislatore a disporre l’esenzione del contributo unificato anche delle azioni diretta a ottenere
“l’equa riparazione” ai sensi della legge c.d. Pinto (l.n.89 del 2001).
Per quanto concerne la determinazione delle prestazione, il legislatore ha previsto due criteri distinti, uno
collegato al valore della causa, l’altro alla natura della controversie dedotta in giudizio.
L’art. 13 del T.U prevede sette scaglioni di valore delle cause a cui corrispondono altrettanti importi del
contributo unificato; la stessa disposizione detta, poi, regole particolari a seconda del tipo di giudizio.
L’art. 14 del T.U, nell’individuare il soggetto obbligato al pagamento del contributo, enuncia il principio
c.d. dell’anticipazione, per effetto del quale la parte che per prima si costituisce in giudizio, che deposita il
ricorso introduttivo ovvero che, nel processi esecutivi di espropriazione forzata, fa istanza per
l’assegnazione o la vendita dei beni pignorati, è tenuta al pagamento contestuale del contributo.
Appare comunque chiaro che, per effetto della regola della soccombenza nel pagamento delle spese
processuali, la parte che abbia anticipato il contributo può comunque recuperare la somma pagata, nel
caso di esito favorevole del giudizio e di condanna della parte avversa al pagamento delle spese di lite.
La liquidazione e l’adempimento del contributo hanno forme e tempi diversi nell’ambito del processo
civile, amministrativo, tributario e in quello penale.
In ogni caso, mentre nel processo penale, la liquidazione è operata all’esito della decisione e corrisponde
all’ammontare del risarcimento stabilito dalla sentenza, nel processo civile e amministrativo, va eseguito
con la proporzione della domanda, secondo il valore determinato sulla base della stessa.
In quanto correlato alla domanda processuale, il contributo compete alla parte che assume l’iniziativa
processuale, non intendendosi, per questa, la parte attrice, quanto piuttosto quella che da impulso al
processo.
Se il valore della controversia aumenta a causa della proposizione di nuove domande, l’obbligo di
pagamento del maggiore contributo ricade sulla parte attrice se ha ampliato la domanda, al convenuto se
ha spiegato la domanda riconvenzionale, alla parte intervenuta che abbia proposto, a sua volta, una
domanda ampliativa.
Per quanto concerne le modalità di controllo, in base all’art. 15 del T.U, il funzionario detto all’ufficio
verifica l’esistenza della dichiarazione in ordine al valore della causa e della ricevuta di versamento e la
corrispondenza del valore dichiarato ai criteri normativamente stabiliti.
La contestazione dell’omesso o insufficiente versamento del contributo deve essere portata a conoscenza
della parte con il mezzo della notificazione, ai sensi dell’art. 137 c.p.c.
Sebbene l’art. 248 del T.U definisca tale atto “invito al pagamento”, deve ritenersi che esso presenti un
contenuto ben più complesso rispetto alla semplice indicazione dell’importo da pagare. In altri termini,
l’avviso deve essere formato in modo da consentire al destinatario di conoscere le ragioni dell’atto e gli
elementi su cui si fonda la pretesa, anche al fine di valutare se esercitare o meno il diritto di difesa.

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Decorsi 40 giorni dalla notifica dell’invito di pagamento, l’ufficio procede all’iscrizione a ruolo dell’importo
del contributo, maggiorato degli interessi legali.

4. L’imposta sulle successioni e donazioni


Concepita originariamente come integrazione e coordinamento del tributo di registro, l’imposta sulle
successioni e donazioni veniva applicata ai trasferimenti di beni e diritti dipendenti da successioni per
causa di morte e ai trasferimenti a titolo gratuito di beni e diritti per atti tra vivi.
L’imposta era dovuta in relazione al valore di tutti i beni e diritti trasferiti. La disciplina del tributo,
contenuta nel Testo unico 31 ottobre 1990, n.346, ha subito nel corso del tempo varie modifiche
normative.
Dapprima, la l. n.342/2000 ridusse notevolmente le aliquote e abolì la quota d’imposta parametrica al
valore globale dell’asse ereditario, fissando una franchigia di esenzione. Con la l. 18 ottobre 2001, n.383,
l’imposta sulle successioni e donazioni fu soppressa. I trasferimenti di beni e dritti per donazione o per
altra liberalità tra vivi, compresa la rinuncia pure e semplice agli stessi, fatti a favore di soggetti diversi
dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti fino al quarto grado, venivano così assoggettate
alle imposte sui trasferimenti, nel caso di valore della quota spettante a ciascun beneficiario superiore
all’importo di 180.759.91 euro.
Con d.l. 2 ottobre 2006, n.262 è stata fatta rivivere l’imposta sulle successioni e donazioni, sui
trasferimenti dei beni e diritti per causa di morte, per donazione, o a titolo gratuito. Riprendo così vigore
le disposizioni del T.U di cui al d.lgs. del 31 ottobre 1990 n.346. in particolare, per effetto dell’art. 1 del
d.lgs. n.346/1990, l’imposta sulle successioni e donazioni si applica ai trasferimenti di beni o diritti per
successione a causa di morte, per donazione o altre liberalità tra vivi.
Dal punto di vista territoriale, l’imposta è dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, anche sei si
trovano al di fuori del territorio dello stato; se il defunto o il donante risiedeva all’estero al momento
dell’apertura della successione o della donazione, l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e diritti
esistenti in Italia. La fattispecie imponibile si realizza in momenti diversi: nelle successioni coincide con il
momento di apertura della successione, nelle donazioni, nella stipula dell’atto, nella dichiarazione di
morte presunta, nell’immissione nel possesso dei beni o, nella dichiarazione di assenza, infine, coincide
con l’immissione nel possesso temporaneo.
I soggetti passivi sono individuati dall’art. 5, d.lgs. n.346/1990: chiamati all’eredità, legatari, immessi nel
possesso temporaneo dei beni dell’assente e coloro che succedono a seguito della dichiarazione di morte
presunta, in ordine alle successioni; donatari, ed altri beneficiari.
Nonostante le modifiche normative, la base imponibile dell’imposta delle successioni è rimasta pressoché
invariata, fatta eccezione per la franchigia, consistendo nel valore delle quote ereditaria o dei legati,
calcolato al momento dell’apertura della successione: essa risulta dalla differenza tra le attività e le
passività ereditarie, ammesse in deduzione. Il valore così calcolato è ridotto di una franchigia pari ad euro
1.000.000.00 per il coniuge ed i parenti in linea retta, ad euro 100.000 per i fratelli e le sorelle e ad euro
1.500.000.000 per i beneficiari portatori di grave handicap. Alla base imponibile così calcolata, vanno
applicate le aliquote, che variano dal 4 all’8 %.
Lo stesso discorso può farsi con rifermento all’imposta sulle donazioni, la cui base imponibile è
rappresentata dal valore globale dei beni o diritti oggetto della liberalità, dedotti gli oneri gravanti sul
donatario. I soggetti passivi dell’imposta sulle successioni, unitamente agli altri che intervengono nella
vicenda successoria (esecutori testamentari, curatori dell’eredità giacente), sono obbligati, in via solidale,
alla presentazione della dichiarazione di successione, all’Ufficio della Direzione provinciale dell’agenzia
delle entrate competente per territorio, nel termine di 12 mesi, decorrenti dall’apertura della successione.

5. Le imposte ipotecarie e catastali


Le formalità di trascrizione, iscrizione, rinnovazione, cancellazione e annegamento eseguite nei pubblici
registri immobiliari sono soggette alle imposte ipotecarie e catastali, dovute in misura proporzionale o
fissa ai sensi del d.P.R. 31 ottobre 1990 n.347. l’imposta di trascrizione è commisurata all’imponibile
determinato ai fini dell’imposta di registro o dell’imposta sulle successioni e donazioni. Per la trascrizione
dei contratti preliminari l’imposta è dovuta in misura fissa.
L’imposta di trascrizione e rinnovazione, invece, è commisurata all’ammontare del capitale e degli
accessori per cui l’ipoteca è iscritta o rinnovata. Sono tenuti al pagamento in via solidale, coloro nel cui
interesse è stata fatta la richiesta e i debitori contro i quali è stata iscritta o rinnovata l’ipoteca.
L’unica eccezione concerne la formalità di annotazione e surrogazione relativa alla portabilità del mutuo,
in cui il contribuente è tenuto a versare la sola tassa ipotecaria, in luogo dell’imposta ipotecaria e di
quella di bollo. L’esecuzione delle volture catastali, relative al trasferimento dei beni iscritti in catasto, è
soggetta all’imposta del 10 per mille sul valore dei beni immobili, per gli atti di trasferimenti immobiliari
soggetti all’imposta sul valore aggiunto, l’imposta è dovuta nella misura fissa di euro 200. Per quanto
concerne, invece, le sanzioni, si applica l’art. 4 del d.lgs. 18 dicembre 1997 n.473.

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CAPITOLO 12: I TRIBUTI DOGANALI

1. La fattispecie imponibile e la soggettività


I tributi doganali rientrano tra le forme di prelievo più risalenti nel tempo. Istituita come organo di
controllo dell’importazione o dell’esportazione delle merci per ragioni strategiche, monopolistiche,
sanitarie, la Dogana esercita funzioni fiscali in considerazione dell’assoggettamento a tassazione delle
merci in entrata e di quelli in uscita dal territorio doganale.
In forza del nuovo codice doganale dell’Unione Europea entrato in vigore il 1° maggio del 2016, il
territorio doganale dello Stato italiano è stato assorbito da quello dell’Unione europea. Prelevati dalle
Autorità fiscali nazionali, i tributi doganali sono devoluti al netto degli aggi in riscossione, all’Unione
europea, comprendendo oltre a quelli dovuti per l’introduzione nel territorio dello Stato di merci non
unionali, ogni prelievo effettuato in sede di importazione.
I dazi doganali non colpiscono le merci che transitato all’interno dei paesi dell’UE, piche in base all’Art. 28
delle versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, gli Stati membri hanno
previsto un’unione doganale che comporta il divieto di mantenere o istituite dazi doganali all’importazione
o all’esportazione, nonché tasse di effetto equivalente.
Il presupposto dei tributi doganali è costituito
dall’introduzione di merci non unionali soggette a dazi all’importazione nel territorio dell’UE per
l’immissione in libera pratica; l’espressione idi capacità contributiva colpita è costituita dal valore della
merce reso liberamente commerciabile in un mercato diverso da quello di origine, esterno al territorio
doganale.
Le merci, possono essere immesse nel territorio dell’UE non soltanto in regime di importazione definitiva,
ma anche in regimi sospensivi che trovano la loro ragion d’essere nel fatto che le merci sono destinate
successivamente ad essere trasferite all’estero e non quindi al consumo nel mercato interno.
Soggetto passivo dell’obbligazione doganale all’importazione è il dichiarante e, in caso di rappresentanza
indiretta, il soggetto per conto del quale la dichiarazione viene effettuata.
I tributi doganali sono stati storicamente applicati in relazione alla quantità e alla qualità delle merci; tale
metodo, applicato soprattutto alle merci che hanno quotazioni uniformi di mercato, è stato
progressivamente sostituito, anche in virtù degli accordi internazionali, dal valore delle merci.
Particolare rilevanza assumono in materia i c.d. dazi antidumping, introdotti e utilizzati per contrastare
pratiche commerciali sleali e scorrette, consistenti nell’immettere sui mercati esteri beni o servizi ad un
prezzo inferiore a quello praticato nel paese di origine o in quello di destinazione. L’introduzione di tali
dazi consente di proteggere le merci interne, aumentando il tributo in misura tale da azzerare la
differenza fra il prezzo del prodotto sul mercato interno e quello sul mercato estero.

2. Determinazione del tributo e dichiarazione doganale


La determinazione del tributo doganale dipende dal valore della merce, dalla sua classificazione e origine.
Ai sensi dell’art. 158 CDU (Codice doganale dell’Unione), quando la merce giunge in Dogana,
l’importatore deve presentare una dichiarazione che deve contenere tutte le indicazioni necessarie per
permettere la verifica del rispetto della normativa doganale.
La dichiarazione deve indicare le generalità del proprietario delle merci e dei soggetti che intervengono
nell’operazione, i luoghi di origine e provenienza delle merci, le caratteristiche fisiche dei beni e la ragione
del trasporto, il regime doganale prescelto, l’Autorità fiscale che, sulla base di tale dichiarazione, liquida i
tributi doganali.
La base imponibile è costituita prioritariamente dal “valore di transazione”, cioè dal prezzo effettivamente
pagato o da pagare per le merci dal compratore quando esse sono immesse nel territorio doganale
dell’Unione. Una volta accettata la dichiarazione, si apre la fase dell’accertamento; se quindi viene
attestata la conformato delle merci a quelle descritte in dichiarazione, si procede alla liquidazione dei
diritti dovuti sulla base della tariffa comunitaria.
Alfine di velocizzare quanto più possibile i trasporti e di agevolare i traffici legittimi, il legislatore unionale
ha previsto con gli artt. 172 CDU e 194 CDU, che, quando siano soddisfatte le condizioni per il vincolo
delle merci al regime dichiarato, le autorità doganali debbano procedere allo svincolo delle stese non
appena le indicazioni contenute nella dichiarazione in dogana siano state accettate senza verificata.
I controlli della dogana sono improntati ad un utilizzo massivo delle procedure informatiche al fine di
indirizzare le attività di verifica: per tutte le operazioni doganali, all’atto della presentazione della
dichiarazione di immissione in libera pratica della merce, la dogana individua quelle che possono essere
svincolate immediatamente attraverso il Sistema informatico di gestione del rischio.
L’accertamento definitivo può comunque essere sottoposto a revisione dall’Ufficio doganale, d’ufficio o su
istanza di parte, entro tre anni dalla data della sua definitività, sia a sanno che a favore del contribuente.
Le autorità doganali possono riconoscere la qualifica di Operatore Economico Autorizzato all’operatore che
non abbia commesso violazioni gravi e ripetute e dimostri un alto libello di controllo sulle operazioni e una
comprovata solvibilità finanziaria.
L’operatore economico autorizzato beneficia di un trattamento più favorevole rispetto agli altri per quanto
attiene i controlli doganali o in materia di sicurezza nei traffici; lo status in questione è valido in tutti gli

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Stati membri dell’Unione europea e non ha limiti di tempo, salva la possibilità di sospensione revoca da
parte delle autorità doganali a fronte di violazioni commesse o del riesame dei requisiti previsti.
Particolare rilevanza presentato i “depositi doganali”, intesi come luoghi autorizzati all’autorità doganale e
sottoposti al suo controllo in cui le merci possono essere immagazzinate senza essere soggette ai dazi
all’importazione.
Il deposito doganale si distingue in “deposito pubblico” e in “deposito privato”.
Il primo è quello in cui l’immagazzinamento delle merci può essere effettuato da qualsiasi persona,
mentre il secondo è destinato unicamente ad immagazzinare merci del soggetto autorizzato alla gestione
del deposito doganale.

L’introduzione nel territorio doganale dell’Unione europea di merci provenienti da territori o paesi terzi
può essere a carattere definitivo, accedendo al regime doganale di “immissione in linea pratica” o a
carattere temporaneo, accedendo ai regimi doganali “sospensivi” di “perfezionamento attivo” e di
“ammissione temporanea”.
L’immissione in libera pratica è quel regime doganale attraverso cui merci provenienti da territori o paesi
terzi introdotte nel territorio doganale dell’Unione Europea acquisiscono definitivamente la qualifica di
merce “unionale”. Essa, attribuendo la posizione doganale di merce unionale ad una merce proveniente
da paesi terzi, implica l’applicazione delle misure di politica commerciale, l’espletamento delle altre
formalità previste per l’importazione di una merce, nonché l’applicazione dei dazi legalmente dovuti.
L’importatore può vincolare le merci non unionali, all’atto della loro introduzione nel territorio doganale
dell’Unione europea, a regimi doganali, quali quelli di “perfezionamento attivo” e di “ammissione
temporanea”, sospensivi del pagamento dei dazi, in quanto le merci sono destinate ad essere riesportate
al di fuori del territorio doganale, con l’effetto che le stesse non acquisiscono la qualifica di merci unionali.
Il regime di “perfezionamento attivo” consente di sottoporre a lavorazione o trasformazione nel territorio
doganale dell’unione europea merci non comunitarie, destinate ad essere riesportate fuori dal territorio
europeo sotto forma di “prodotti trasformati”, senza essere soggette ai dazi all’importazione né a misure
di politica commerciale.
Introdotto per agevolare le attività delle industrie dell’Unione che lavorano prodotti da esportare, esso
può operare secondo due modelli:
1. Il “sistema della sospensione”, dal pagamento dei dazi, dell’IVA e delle accise sulle merci
temporaneamente importate, finché il regime non viene appurato ed i prodotti compensatori
vengono esportati o destinati ad altro regime.
2. Il “sistema del rimborso”, che consiste nell’immissione in libera pratica delle merci con il
pagamento dei dazi e dell’importa sul valore aggiunto e che consente di ottenere il rimborso dei
diritti pagati al momento dell’importazione delle merci lavorate.

3. Rimedi giustiziali e giurisdizionali


Come ricordato, alla presentazione della dichiarazione doganale da parte del proprietario della merce
ovvero da un suo rappresentato fa seguito l’accettazione della stessa da parte della dogana mediante
sottoscrizione da parte dell’operatore il quale si limita alla verifica della sola regolarità formale.
Solo a seguito della registrazione della dichiarazione possono essere effettuati i controlli di merito
preordinati alla verifica della qualificazione, del valore, dell’origine della merce dichiarata ovvero il regime
di tara o il trattamento degli imballaggi e qualunque altro elemento utile per l’applicazione della tariffa.
Le contestazioni da parte degli uffici doganali possono essere definite in via amministrativa o in via
giurisdizionale. L’attribuzione della giurisdizione in materia doganale alle Commissioni tributarie, sancita
dall’art. 12, comma2, della legge del 28 dicembre 2001, n.448, non ha determinato l’eliminazione del
rimedio amministrativo, nel caso di esperimento di tale procedimento, il contribuente potrà comunque
impugnare dinanzi alle Commissioni tributarie la determinazione che definisce l’accertamento doganale
entro il termine di 60 giorni dalla notificazione della stessa.
Deve comunque ritenersi che, i rimedi amministrativi si atteggiano come una sorta di istanza di
autotutela. Sono comunque impugnabili dinanzi alle Commissioni tributarie, gli inviti al pagamento che si
atteggiano come atti di accertamento, pure in assenza di qualunque formalità doganale da parte del
contribuente.
Non è, invece, impugnabile la bolletta doganale, la quale consiste nella registrazione della dichiarazione
doganale accettata, non assumendo la natura né di atto di accertamento, né tantomeno di liquidazione.

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CAPITOLO 13: I TRIBUTI DELLE REGIONI E DEGLI ENTI LOCALI

1. La fiscalità degli enti locali dalla Costituzione alla legge delega n.42/2009
La costituzione italiana, nel riaffermare l’unità e l’indivisibilità delle Repubblica, operò un pieno
riconoscimento delle autonomie locali insieme al decentramento amministrativo, assicurando autonomia
finanziaria alle Regioni, pur se nei limiti e nelle forme stabilite dalla legge dello Stato. Tuttavia, proprio
quando le regioni furono istituite, la riforma fiscale (l. n.825 del 1971), fece la scelta di forte centralismo
finanziario, eliminando la quasi totalità dei tributi comunali e locali preesistenti e adottando un modello di
finanza derivata di trasferimento (l.n.281/1970). La riforma degli anni 70 introduceva nuovi tributi per
loro natura erariali (imposte sul reddito, Iva, ecc.), e disponeva l’abolizione dell’imposta di famiglia, delle
imposte comunali di consumo e dell’imposta sul valore locativo ecc., sostituendoli con trasferimenti
erariali.
Aumento della spesa pubblica locale deresponsabilizzazione degli amministratori locali e rivendicazione di
spazi di autonomia impositiva da parte dei Comuni indussero il legislatore a rivedere il modello delineato
dalla riforma tributaria degli anni 70, dapprima sperimentando nuovi tributi locali (si pensi alla
sovrimposta comunale sui fabbricati), e poi introducendo muovi tributi comunali e locali (in primo luogo
l’imposta comunale sugli immobili), quindi riformando alcuni dei tributi locali preesistenti (d.lgs. n.507 del
1993 recante la nuova disciplina dell’imposta di pubblicità, della tassa per l’occupazione di spazi e aree
pubbliche e della tassa sui rifiuti). Con la l.8 giugno 1990, n.142 fu poi espressamente attribuita a
Comuni e a Province autonomia finanziaria fondata su certezza di risorse proprie. Con la legge delega n.
662 del 1996, seguita dai decreti attuativi fu poi introdotta l’Irap in favore delle regioni e rafforzata
l’autonomia regolamentare degli enti territoriali.
Dopo circa 50 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, il modello dello “Stato unitario delle
autonomie” veniva riformato con la legge costituzionale n.3 del 2001, rafforzando l’autonomia politica e
finanziaria di questi ultimi con il nuovo art. 119 della Cost. Nell’interpretare le disposizioni del nuovo
Titolo V, la Corte Costituzionale ha affermato la statuale competenza legislativa nella determinazione dei
“principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario”, con l’ulteriore conseguenza che, fino a
quando l’indicata legge statale non sarà emanata, è vietato alle Regioni di istituire e disciplinare tributi
propri aventi gli stessi presupposti dei tributi dello Stato o di legiferare sui tributi esistenti istituiti e
regolati da leggi statali.
Solo dopo otto anni dalla riforma costituzionale del Titolo V, il legislatore con legge delega n.42/2009 reca
i principi generali di coordinamento. Tra le tante accezioni proposte, l’espressione “federalismo fiscale”
viene soprattutto adoperata per indicare una modifica dei criteri di riparto del carico fiscale. Il federalismo
fiscale si colloca all’interno degli assetti della finanza degli enti locali, esprimendo l’esigenza di
allargamento degli spazi di autonomia di questi ultimi nei confronti dello Stato centrale e di
responsabilizzazione dei livelli di prelievo e di spesa. Così inteso, il federalismo diviene modalità attuativa
del principio di equilibrio finanziario tra spese ed entrata pubbliche.
Nel dare attuazione ai principi costituzionali del titolo V, la legge delega n.42/2009 dispone “la graduale
sostituzione, per tutti i livelli di governo, del criterio della spesa storica” al fine di “garantire la massima
responsabilizzazione e l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti”.
L’abbandono del criterio della spesa storica e l’introduzione di quello del costo standard vengono
considerati indispensabili per una razionalizzazione della spesa pubblica locale e per impedire la
formazione di disavanzi destinati ad essere coperti dalla fiscalità generale.
L’attribuzione di un’autonomia più ampia a ciascun ente territoriale nello svolgimento dei compiti affidati
e conseguentemente l’intreccio istituzionale trai diversi livelli di governo devono consentire sia la
perequazione finanziaria che l’erogazione di risorse pubbliche nella misura idonea ad assicurare la
copertura delle spese per le funzioni essenziali (art. 117 e 119 Cost.) Allo stesso tempo, il nuovo assetto
normativo deve garantire il rispetto del principio dell’uguaglianza dei cittadini dovunque risiedano.

2. Le entrate regionali tra tributi, compartecipazione al gettito di tributi erariali,


quote del fondo perequativo, risorse aggiunte e interventi speciali
Secondo il modello delineato dall’art. 119 Cost, le fonti di entrata delle Regioni possono essere distinte in
diverse categorie:
1. Tributi regionali, propri e derivati.
2. Entrate extratributarie.
3. Quote di compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili, al proprio territorio.
4. Quote del fondo perequativo.
5. Risorse aggiuntive e interventi speciali. Tale norma costituzionale si innesta sulla disciplina
delineata dal d.lgs. 18 febbraio 2000 n. 56, recante “disposizioni in materia di federalismo fiscale,
a norma dell’art. 10 della legge 13 maggio 1999, n.133” che, all’art. 1, dispone la soppressione
dei trasferimenti erariali alle Regioni a statuto ordinario, la compartecipazione regionale al gettito
dell’IVA e l’assegnazione alle Regioni di quote a titolo di fondo perequativo.
I criteri previsti dagli art. 5, ai fini della determinazione delle quote di compartecipazione ai tributi erariali
e delle aliquote dell’addizionale regionale Irpef, art. 6 con riguardo alla rideterminazione delle aliquote

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per il finanziamento delle funzioni conferite, e art. 7 (fondo perequativo nazionale) hanno dato luogo a
serie difficoltà di ordine applicativo anche per le rilevanti diseguaglianze tra diverse aree del Paese e la
forte disomogeneità nella distribuzione territoriale del gettito dei tributi partecipati dalle Regioni.
In materia, la l. n. 42/2009 ridefinisce i criteri con cui vengono assonare le entrate agli enti territoriali, le
funzioni e le spese corrispondenti; nell’ambito di queste ultime, la spesa storica è stata superata a favore
di standard di spesa definita, garantiti dallo Stato per tutto il territorio nazionale. Le eventuali ulteriori
spese di ciascun livello di governo, invece, vengono finanziate da tributi propri o da tributi propri derivati
fissati ad aliquote superiori a quella valevole su tutto il territorio nazionale, e infine da perequazioni
regressive.
Nel nuovo asserto delle risorse regionali, particolare rilevanza assume il concetto di tributo regionale,
intendendo con tale espressione l’entrata tributaria il cui gettito affluire al bilancio delle Regioni, ordinarie
o speciali, e che tende a colpire una manifestazione di ricchezza localizzata o localizzabile all’interno del
territorio regionale.
Accanto ai tributi regionali qualificabili come propri in quanto stabiliti e applicati alle Regioni, ve ne sono
altri che potremmo dire “impropri” in quanto istituiti e disciplinati con legge dello Stato ma destinati a far
fronte alle esigenze finanziare della Regione sul cui territorio il prelievo viene operato. In questo senso, si
è espressa la Corte costituzionale la quale, nell’escludere che per tributo proprio possa intendersi
qualunque tributo il cui gettito sia devoluto all’ente regionale, riconosce il carattere di tributo proprio solo
nel caso di istituzione e di regolamentazione con legge regionale.
La distinzione tra tributi regionali propri e tributi regionali impropri trova conferma nella giurisprudenza
della Corte costituzionale, la quale già nel passato aveva chiarito che la devoluzione del gettito al bilancio
regionale, se rileva ai fini della qualificazione del tributo come regionale, è condizione necessaria ma non
sufficiente perché il tributi possa essere considerato come proprio.

3. L’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP)


Istituita con d.lgs. 446/1997 al fine di assicurare adeguate risorse tributarie alle Regioni, l’IRAP colpisce
l’esercizio di un’attività autonomamente organizzata, diretta alla produzione e allo scambio di beni e
servizi ovvero alla prestazione di servizi, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato.
L’art. 3 elenca i soggetti passivi dell’IRAP:
a. Società di capitali ed enti commerciali.
b. Società in nome collettivo e in accomandita semplice e quelle a esse equiparate, nonché le
persone fisiche esercenti attività commerciali.
c. Persone fisiche, società semplici e associazioni tra artisti e professionisti.
d. (Abrogata).
e. Enti privati non aventi per oggetto principale o esclusivo l’esercizio di attività commerciali, nonché
le società di ogni tipo e gli enti non residenti.
f. Le amministrazioni pubbliche, nonché le amministrazioni della Camera dei deputati, del Senato,
della Corte costituzionale, della Presidenza della Repubblica e gli organi legislativi delle regioni a
statuto speciale. A decorrere dall’anno d’imposta 2016 non sono più soggetti passivi quelli
precedentemente individuati dalla lettera d) ovverosia i produttori agricoli titolari di reddito
agrario.
L’Irap si intende applicabile nei confronti di coloro che rientrino nelle categorie soggettive di cui all’art.3
ed esercitino in modo abituale un’attività “autonomamente organizzata”, ancorché tale attività non abbia
carattere commerciale. Risultano, quindi, esclusi dall’ambito soggettivo di applicazione dell’IRAP i
lavoratori dipendenti e i parasubordinati, coloro i quali esercitino attività che danno luogo a redditi di
natura occasionale ovvero a redditi di lavoro autonomo.
La sentenza n.156 del 21 maggio 2001 della Corte costituzionale conclude che l’attività di lavoro
autonomo è esclusa dall’IRAP quando difetta dall’organizzazione di capitali o di lavoro altrui. Tuttavia, in
assenza di specifiche disposizioni per distinguere la presenza o l’assenza degli indispensabili elementi
dell’autonoma organizzazione, aggiunge la Corte, l’accertamento dell’esercizio di un’attività professionale
non dotata di autonoma organizzazione costituisce questione di mero fatto.
L’IRAP si atteggia come imposta a carattere reale che colpisce il valore della produzione netta derivante
dall’attività esercitata nel territorio regionale. La riferibilità al territorio regionale è desunta
dall’ammontare delle retribuzioni corrisposte al personale, a qualunque titolo utilizzato con continuità,
addetto a stabilimenti, cantieri ecc. La base imponibile corrisponde alla somma delle remunerazioni dei
fattori produttivi impiegati: vale a dire i profitti, gli interessi, il costo del lavoro ecc.
Essa è calcolata sulla base del metodo della “sottrazione”, applicato alle risultanze di bilancio. Stabilisce,
infatti, l’art. 5, primo comma, come modificato dall’art. 1, legge finanziaria 2008, che, per i soggetti
esercenti attività commerciali, la base imponibile è data dalla differenza tra il valore e i costi della
produzione.
Restano imponibile le somme corrisposte per prestazioni di lavoro dipendente (salvo, dal 2015, i costi per
i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato), per rapporti di collaborazione coordinata e continuativa,
gli utili erogati agli associati in partecipazione e gli oneri finanziari. Per le pubbliche amministrazioni trova
applicazione il metodo retributivo, insistendo il tributo sull’ammontare dei redditi di lavoro dipendente,
coordinato e continuativo o occasionale.

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Analogamente alle imposte sul reddito, l’IRAP è dovuta per periodi d’imposta, a ciascuno dei quali
corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma. Il tributo è determinato applicando al valore della
produzione netta l’aliquota del 3.9%. Nei confronti delle Amministrazioni pubbliche e degli enti pubblici di
cui al d.lgs. n.165/2001, nonché delle Amministrazioni della Camera dei deputati, del Senato, della Corte
costituzionale e degli organi legislativi delle regioni a statuto speciale, l’imposta si applica con l’aliquota
dell’8,5% relativamente al valore prodotto nell’esercizio di attività non commerciali. Per motivi di
semplificazione, i soggetti passivi dell’Irap devono osservare gli obblighi documentali e contabili ai quali
sono tenuti in base alle disposizioni riguardanti l’imposta sul valore aggiunto. Al fine di consentire alle
Regioni l’esercizio dei poteri di controllo, l’Amministrazione finanziaria trasmette a ciascun ente, con
sistemi telematici, le informazioni relative alle dichiarazioni presentate dai soggetti passivi d’imposta.

4. Gli altri tributi regionali


Diversi sono i tributi regionali istituiti con legge statale ed affidati alle Regioni: l’imposta sulle concessioni
statali dei beni del demanio marittimo, l’imposta regionale sulle concessioni statali per l’occupazione e
l’uso dei beni del patrimonio indisponibile, la tassa regionale per il dritto allo studio universitario, la tassa
per l’occupazione di spazi e aree pubbliche regionali, la tassa automobilistica etc.
Invero, la costruzione del sistema dei tributi regionali è avvenuta per gradi: un primo gruppo di tributi è
stato istituito con la l. n.281/1970 che, nel definire compiutamente fattispecie e base imponibile,
soggettività passiva, metodi di accertamento e modalità di riscossione, rimetteva alle singole regioni solo
la scelta di esprimere l’aliquota applicabile. Dopo qualche intervento di minore rilevanza, l’assetto dei
tributi regionali è stato riordinato ed integrato dalle leggi delega 14 giugno 1990, n.158 e dalla legge
delega 23 ottobre 1992 n.421e dai relativi decreti attuativi per effetto delle quali è stata modificata la
disciplina delle tasse automobilistiche, è stata prevista l’istituzione di ulteriori forme di prelievo.
Occorre ricordare due strumenti a carattere impositivo aventi diversa natura (rispettivamente imposta e
tassa), dovuti in relazione a concessioni amministrative: l’imposta sulle concessioni statali dei beni del
demanio e del patrimonio indisponibile e la tassa sulle concessioni regionali. La prima si applica alle
concessioni per l’occupazione e l’uso dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello stato
ubicati nel territorio della Regione. Il tributo, si applica fino alla misura massima di un triplo del canone di
concessione determinato dallo Stato ed è riscossa con le stesse modalità del canone di concessione. La
tassa sulle concessioni regionali è dovuta, invece, in relazione agli atti ed ai provvedimenti adottati dalla
Regione nell’esercizio delle proprie funzioni e corrispondenti a quelli già di competenza dello Stato indicati
in un’apposita tariffa.
Istituito con la l.n 549 del 1995, il tributo speciale per il conferimento dei rifiuti nelle discariche,
assoggettando a tassazione il deposito in discarica dei rifiuti solidi, è dovuto dai gestori delle imprese di
stoccaggio dei rifiuti con obbligo di rivalsa nei confronti del soggetto che effettua il conferimento. Il
tributo colpisce lo smaltimento in discarica dei rifiuti solidi. Non rientrano, invece, nella nozione di rifiuto i
materiali riutilizzabili, ovvero stoccati temporaneamente. Sono obbligati al pagamento i gestori di impianti
di stoccaggio definitivo dei rifiuti, ovvero “chiunque eserciti, ancorché in via non esclusiva, l’attività di
ricarica abusiva e chiunque abbandona, scarica o effettua deposito incontrollati di rifiuti e, in solido,
l’utilizzatore a qualsiasi titolo, o, in mancanza, il proprietario dei terreni sui quali insiste la discarica
abusiva”.
La base imponibile corrisponde alla quantità dei rifiuti conferiti in discarica nel periodo d’imposta. Per
quanto concerne l’aliquota, essa è definita dal Legislatore regionale entro il 31 luglio di ogni anno, a
valere per il successivo anno d’imposta.

5. I tributi comunali

A. L’imposta municipale propria


Per i tributi comunali e provinciali si intendono i prelievi destinati al finanziamento, rispettivamente, dei
Comuni e delle Province, che si rendono dovuti in relazione ad una manifestazione di ricchezza localizzata
o localizzabile all’interno del territorio dell’ente locale o a servizi pubblici prestati dagli stessi enti.
Più delicata appare la questione della rilevanza, ai fini della connotazione di un tributo come locale del
riconoscimento della potestà normativa secondaria in capo all’ente impositore. Tale problematica si
collega, più in generale, a quella degli ambiti e dei contenuti dell’autonomia normativa e finanziaria
riservanti all’ente locale. Invero, i tributi locali possono essere espressione della potestà normativa
secondaria (potere regolamentare) riconosciuta all’ente ovvero possono essere oggetto di una disciplina
di rango primario interamente o parzialmente etero imposta. Gli spazi demandati al potere normativo
degli enti locali sono stati, in alcuni periodi, fortemente compressi o quasi del tutto azzerati, in altri,
ampliati e rafforzati, a seconda delle scelte espresse dalla legislazione vigente con riguardo ai modelli di
finanziamento degli enti territoriali
Il sistema dei tributi comunali si caratterizza per una pluralità di forme di prelievo di diversa natura;
accanto a talune imposte (come Imu), non mancano tributi di carattere para commutativo dovuti in
relazione a servizi pubblici o a attività giuridico-amministrative che concernono direttamente il soggetto
obbligato (tassa rifiuti). Va poi segnalato il potere rimesso ai regolamenti comunali di istituire canoni. Il

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sistema è poi completato con addizionali (si pensi quella sull’imposta delle persone fisiche o
all’addizionale all’accisa sull’energia elettrica), abolita a partire dal 1° gennaio 2012 e sovrimposte (come,
ad esempio la soppressa sovrimposta comunale sugli immobili).
Tra i tributi comunali, quelli insistenti sugli immobili sono sicuramente i più significativi anche in termini di
gettito. Con la legge di stabilità per il 2020, il legislatore ha tentato di dare un nuovo assetto alla materia,
abrogando a decorrere dall’anno 2020 l’imposta unica comunale (IUC) e la TASI, e mantenendo in vita
l’imposta municipale propria (IMU) e la tassa sui rifiuti (TARI). Il legislatore definisce il presupposto del
tributo nel possesso dei fabbricati, ad eccezione dell’abitazione principale, aree fabbricabili e terreni
agricoli, siti nel territorio dello stato, a qualsiasi uso destinati.
La fattispecie si caratterizza per tre requisiti che devono essere presenti insieme:
1. Elemento soggettivo: consistente nel possesso (art. 1140 c.c.).
2. Elemento oggettivo: deve trattarsi di beni immobili.
3. Elemento territoriale: gli immobili devono essere situati in territorio italiano e iscritti in catasto.
Si considerano, invece, non fabbricabili i terreni posseduti e condotti da coltivatori diretti o da
imprenditori agricoli professionali, comprese le società agricole. L’Imu non si applica al possesso
dell’abitazione principale vale a dire l’immobile, iscritto o ascrivibile nel catasto edilizio urbano come unica
unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente. Soggetti passivi dell’imposta sono i proprietari degli immobili ovvero i titolari del diritto
di usufrutto, uso, e i locatari, nell’ipotesi di concessione del bene in locazione finanziaria. Il tributo, che
ha natura patrimoniale, si applica sul valore del bene. La base imponibile è costituita per i fabbricati del
valore che risulta applicando alle rendite catastali rivalutate del 5% i moltiplicatori suddivisi in relazione
alle diverse categorie catastali stabilite dalla norma.
Alla base imponibile, così determinata, si applica l’aliquota stabilita che, per gli immobili diversi
dall’abitazione principale e fattispecie ad essa assimilate è pari allo 0,86%, per i terreni agricoli è dello
0,76%. I comuni possono aumentare l’aliquota fino all’1,06% o diminuirla fino all’azzeramento.

B. La tassa sui rifiuti


A fronte del servizio pubblico di raccolta, trasporto, smaltimento e riciclaggio dei rifiuti solidi urbani, il
legislatore tributario ha da tempo previsto l’applicazione di forme di prelievo di diversa natura destinate a
finanziare i costi sopportati dal Comune in relazione a detto servizio. Il tributo è denominato TARI ed è
dovuto da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o le aree anche scoperte suscettibili di
produrre rifiuti urbani o a questi assimilati. Nell’attuale disciplina (art. 1 commi 639 e ss., l.n.147/2013),
il
prelievo, avente natura di tassa, si applica in relazione ai rifiuti urbani e deve essere commisurato in
modo da assicurare la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio. Ai
sensi dell’art. 1, comma 668 della l.147/2013 i comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione
puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico possono prevedere l’applicazione di una
tariffa avente natura corrispettiva in luogo della TARI.
Nelle zone in cui non è effettuata la racconta dei rifiuti, la TARI è dovuta in misura non superiore al 40%
della tariffa da determinare, in relazione alla distanza dal più vicino punto di raccolta rientrante nella zona
perimetrata. La TARI è dovuta nella misura massima del 20% della tariffa, in cado di mancato
svolgimento del servizio di gestione dei rifiuti.
La prestazione dovuta in relazione al servizio di raccolta e gestione dei rifiuti è determinata in base alle
tariffe deliberate dai Comuni. Sul piano procedimentale, i comuni, con proprio regolamento adottato
secondo le modalità indicate, possono potenziare le attività di controllo anche mediante l’utilizzo di
sistemi informativi, introdurre l’accertamento con adesione ecc.

C. L’imposizione municipale sulla pubblicità


Con il termine pubblicità si intende comunemente quella forma di comunicazione, generalmente resa a
pagamento, avendo ad oggetto idee, beni o servizi, attuata attraverso specifici supporti, al fine di
rientrare l’interesse del pubblico verso un prodotto.
I mezzi pubblicitari possono essere classificati in tre categorie:
a. Strumenti di pubblicità diretta (volantini, cataloghi e, più in generale, tutto ciò che viene
consegnato a mano, inviato per posta etc.).
b. Strumenti di pubblicità esterna (affissioni, insegne cartelloni ecc.).
c. strumenti di comunicazione di massa (radio, televisione, internet).
La distinzione dei diversi mezzi pubblicitari rileva ai fini fiscali, essendo sottoposta ad imposizione soltanto
la pubblicità esterna e quella diretta, effettuata mediante distribuzione di manifestini o altro materiale
pubblicitario. Non è invece soggetta a tassazione la pubblicità radio televisiva e quella effettuata a mezzo
stampa quotidiana o periodica

70
Ai sensi dell’art. 5 comma 2, sono tassabili solo “i messaggi pubblicitari diffusi nell’esercizio di un’attività
economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi ovvero finalizzati a migliorare
l’immagine del soggetto pubblicizzato”.
L’art. 6 comma 1 del d.lgs. n.507/1993, stabilisce che è soggetto passivo dell’imposta, tenuto al
pagamento in via principale, colui che dispone a qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio
pubblicitario viene diffuso. Il secondo comma prevede, inoltre, che colui che produce o venda la merce o
fornisce i servizi oggetto della pubblicità è solidamente obbligato al pagamento dell’imposta. Sono invece,
estranei rispetto al tributo, mancando qualsiasi collegamento con il relativo elemento oggettivo, coloro
che materialmente eseguono le operazioni di affissione e qualunque altro intermediario. L’imposta sulla
pubblicità è determinata in base alle tariffe stabilite dagli artt. 12,13,14,15 del d.lgs. n.507/1993 in
relazione alla natura ed alle dimissioni del mezzo pubblicitario utilizzato ed in relazione alla consistenza
demografica del Comune in cui il messaggio è diffuso. Prima di iniziare la pubblicità, il soggetto che
detiene a qualsiasi titolo i mezzi pubblicitari è tenuto a presentare all’ufficio comunale competente
apposita dichiarazione tributaria, anche cumulativa per più affissioni. La dichiarazione, redatta sui modelli
predisposti dai Comuni e messi a disposizione degli interessati, deve contenere l’indicazione dei diversi
elementi che rilevano ai fini dell’applicazione del tributo.

D. Il canone unico e la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche


La tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche trova applicazione nei confronti delle occupazioni di
qualsiasi natura effettuate, anche senza titolo, sulle strade, nei corsi, nelle piazze o comunque sul suolo o
sottosuolo del demanio o del patrimonio indisponibile dei comuni e delle province.
La tassa è dovuta al comune o alla provincia dal titolare dell’atto di concessione o di autorizzazione, in
proporzione alla superficie effettivamente sottratta all’uso pubblico del rispettivo territorio. Oltre che in
base al bene oggetto di occupazione, il tributo segue criteri diversi di applicazione in ragione della durata
dell’occupazione. Più precisamente, le occupazioni permanenti sono quelle di carattere stabile, effettuata
a seguito del rilascio di un atto di concessione aventi una durata non inferiore all’anno mentre quelle
temporanee sono le occupazioni di durata inferiore ad un anno. La tassa, si applica in ragione della
superficie occupata espressa in metri quadrati o in metri lineari.
A decorrere dall’anno d’imposta 2021 anche la tassa dovrebbe confluire nel canone unico: quest’ultimo,
infatti, sostituisce la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, l’imposta comunale sulla
pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni.
Il canone si basa su due presupposti impositivi: uno relativo all’occupazione, anche abusiva, e l’altro
relativo alla diffusione di messaggi pubblicitari, anche abusiva.

E. L’imposta di scopo
L’imposta di scopo (ISCOP), regolata con l’art. 1 comma 146 della l. 27 dicembre 2006, n.296, rientra tra
i tributi che gli enti locali hanno la facoltà e non l’obbligo di adottare. Ai Comuni è, quindi, concessa la
possibilità di istituire attraverso un regolamento comunale l’imposta in esame che, in realtà, costituisce
una sorta di addizionale all’imposizione immobiliare. Va quindi respinta la ricostruzione di una parte della
dottrina, secondo cui la prestazione in esame costituirebbe una sorta di mutuo sia pure generale e
coattivo.
L’accensione di un mutuo o il ricorso al c.d. project financing potrebbero essere, invece, adoperati al fine
di ottenere la liquidità sufficiente a coprire le spese destinate alla realizzazione dell’opera pubblica non
coperte dal provento fiscale. Il ricorso a capitale di terzi per coprire tali costi sembrerebbe essere più
oneroso rispetto alla gestione “in proprio” del tributo di scopo a causa degli interessi e delle commissioni
richieste dagli operatori economici del mercato finanziario.
Rimane, tuttavia, il principale ostacolo che ha impedito un largo utilizzo del tributo: l’obbligo di
restituzione del tributo nel caso di mancato inizio dell’opera entro due anni dalla data prevista dal
progetto esecutivo. L’elemento peculiare dell’imposta di scopo è il vincolo di destinazione gravante sul
gettito del tributo per cui esso dovrà essere esclusivamente utilizzato al dine di coprire le spese per la
realizzazione delle opere pubbliche. Si tratta di opere per il trasporto pubblico urbano, opere viarie, con
l’esclusione della manutenzione straordinaria ed ordinarie delle opere esistenti, di risistemazione di aree
dedicate a parchi e giardini etc.
Il vincolo di destinazione gravante sui proventi dell’imposta di scopo è, inoltre, rafforzato dall’obbligo di
restituzione del tributo in caso di mancato inizio dei lavori relativi all’opera. La norma prevede, infatti,
l’obbligo di rimborso del tributo (senza interessi) qualora i lavori non si avviino entro i due anni successivi
alla data prevista dal progetto esecutivo. Parrebbe, inoltre, che il Comune debba restituire il tributo anche
qualora i lavori non si avviino a causa delle restrizioni di finanza pubblica. Si tratta, a titolo
esemplificativo, del caso in cui l’ente locale una volta incassato il gettito dell’imposta di scopo non possa
utilizzarlo per il pagamento dell’opera pubblica per non superare i limiti imposti dal patto di stabilità
interno.

F. Imposta di soggiorno e imposta di sbarco

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L’imposta di soggiorno è un tributo largamente diffuso in Europa, presente in passato anche in Italia, poi
abolito nel 1989 e nuovamente introdotto come tributo comunale di natura facoltativa dall’art. 4 d.lgs. 15
marzo 2011 n.23. in base a tale disposizione, i Comuni capoluogo di provincia, le unioni di comuni, i
Comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche e delle città d’arte possono istituire o meno il
tributo, adottando un regolamento istitutivo.
L’imposta colpisce coloro che alloggiano nelle strutture ricettive situate sul territorio comunale e si applica
in proporzione al prezzo corrisposto, sino a cinque entro per notte di soggiorno. Il relativo gettito è
destinato a finanziare interventi in materia di turismo. In alternativa all’imposta di soggiorno, la l.26
aprile 2012, n.44 consente di introdurre il contributo di sbarco. Possono avvalersi di tale facoltà i comuni
che hanno sede nelle isole minori e quelli nel cui territorio insistono isole minori possono istituire, con
regolamento, il tributo di sbarco da applicare fino ad un massimo di euro 2.50. il vettore è responsabile
del pagamento dell’imposta, con diritto di rivalsa sui soggetti passivi, della presentazione delle
dichiarazione e degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dal regolamento comunale. L’imposta
non è dovuta dai soggetti residenti nel comune, dai lavoratori, dagli studenti pendolari, nonché dai
componenti dei nuclei familiari dei soggetti che risultino aver pagato l’imposta municipale propria e che
non parificati ai residenti.

6. I tributi delle province e delle città metropolitane


Se confrontata con la fiscalità comunale, quella provinciale appare sicuramente meno significativa sia sul
piano del gettito che delle forme di prelievo attualmente applicabili. Le province, sono, infatti, configurate
come enti territoriali di area vasta ovverosia enti di secondo livello i cui organi (presidente della provincia,
consiglio provinciale ed assemblea dei sindaci) sono eletti dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni
insistenti nel territorio provinciale. La legge individua le funzioni fondamentali che saranno esercitate
dalle province “nei limiti e secondo le modalità stabilite dalla legislazione statale e regionale di settore”.
Anche le città metropolitane sono configurate come enti territoriali di area vasta il cui territorio coincide
con quello della Provincia omonima. La città metropolitana, oltre a perseguire specifiche finalità
istituzionali generali, svolle le funzioni fondamentali delle Province nonché quelle attribuite dalla legge
nell’ambito della riorganizzazione delle funzioni. Tra i tributi provinciali appare opportuno fare riferimento
al tributo provinciale per l’esercizio delle funzioni di tutela e protezione dell’ambiente e all’imposta
provinciale di trascrizione iscrizione ed annotazione dei veicoli richieste al Pubblico Registro
Automobilistico. Istituito per effetto dell’art. 19, d.lgs. n.504/1992, a fronte dell’esercizio delle specifiche
competenze in materia di organizzazione dello smaltimento dei rifiuti, di tutela, di difesa e di
valorizzazione del suolo, pur qualificato come tributo, esso appariva in realtà un’ addizionale alla tassa
rifiuti, sia perché corrisposta dagli stessi soggetti passivi, sia perché commisurata alla superficie
assoggettata a tassazione dai Comuni. La misura del tributo doveva essere determinata dalle province,
con delibera di giunta, da un minimo dell’1% ad un massimo del 5%.
Per quanto concerne la seconda, occorre ricordare che l’art. 56 d.lgs. n.446 del 1997, attribuiva alle
Province la facoltà di istituire l’imposta sulle formalità di trascrizione iscrizione e annotazione dei veicoli
richieste al pubblico registro automobilistico avente competenza nel proprio territorio. L’imposta era
determinata sulla base di un’apposita tariffa ministeriale su cui le Province hanno facoltà di deliberare un
aumento fino ad un massimo del 30%.

7. Prospettive di riforma della fiscalità locale


Una riforma fiscale è una modifica apportata da un paese, o un territorio, in termini di legislazione fiscale.
Attraverso la riforma vengono modificate le diverse norme stabilite dal sistema tributario, con l'obiettivo
di stabilire un nuovo assetto del sistema.
La riforma fiscale è, in altre parole, il processo attraverso il quale si attua una modifica, un cambiamento,
delle regole fiscali che un territorio possiede. Attraverso questa riforma, e dopo aver compiuto i passi
necessari, si modifica la legislazione fiscale di un Paese o territorio. Lo scopo è quello di istituire un nuovo
sistema fiscale, a seconda dell'obiettivo per il quale è stata chiesta la riforma. Per questo, la norma deve
essere modificata attraverso il Potere Legislativo. Tuttavia, le modifiche introdotte devono essere
promulgate dal Potere Esecutivo.
Inoltre, la riforma tributaria è solitamente strettamente legata alle modifiche giudiziarie, poiché sia le
imposte che le sanzioni stabilite sono stabilite dalla legge e ogni imposta deve essere riscossa e
specificata nella normativa vigente.
La riforma fiscale entra in vigore a seguito delle modifiche normative introdotte dalla legge di Bilancio
2022 entrano in vigore il 1° gennaio 2022 e si applicano, quindi, a decorrere dal periodo d'imposta 2022
(modello 730/2023 o Redditi PF 2023).
Per effetto delle novità previste dalla Legge di Bilancio 2022, la riforma fiscale prevede quattro aliquote
IRPEF e gli scaglioni di reddito. Dal punto di vista operativo, quindi, sono cambiate le modalità di calcolo
dell'IRPEF, con la riduzione da cinque a quattro aliquote e la ridefinizione degli scaglioni.

72
CAPITOLO 14: I NUOVI TRIBUTI

1. Premessa
Il tributo è una prestazione obbligatoria, generalmente richiesta dallo Stato, da ente pubblico o da
pubblica amministrazione, esercizio della potestà di un ente sovrano. All'interno dei tributi si possono
distinguere imposte, tasse e contributi.
I tributi possono essere suddivisi e classificati in tre grandi categorie di prestazioni: Imposte, Tasse e
Contributi.
I tributi locali sono istituiti dallo Stato e sono disciplinati da legge statale, salvo quanto espressamente
rimesso all'autonomia dei Comuni.
I tributi devono essere approvati dal comune entro il termine fissato dalle norme statali per la
deliberazione del bilancio di previsione, come previsto per la generalità dei tributi locali dall'art. 1, comma
169, della legge 27 dicembre 2006.
Pagare i tributi serve per soddisfare i bisogni pubblici di tutti i cittadini. Il contributo di ogni cittadino
permette di accrescere il benessere di tutta la comunità in cui si vive. La condivisione, mediante le tasse,
di parte della nostra ricchezza si definisce solidarietà sociale.
In caso di mancato pagamento dei tributi, il Comune, può richiedere l'esecuzione forzata per il
soddisfacimento del diritto del creditore nei confronti del debitore e ciò può far sì che il tribunale disponga
il pignoramento dei beni del debitore.

2. La fiscalità alimentare e la Sugar tax


L’introduzione di nuovi tributi aderisce all’esigenza di orientare l’imposizione verso manifestazioni di
ricchezza rimaste incassate.
Nella più recente esperienza, il legislatore ha avvertito l’esigenza di promuovere corretti stili alimentari,
anche attraverso strumenti di carattere fiscale sulla base della loro capacità condizionante dei
comportamenti degli individui e dei gruppi sociali. La funzione “extrafiscale” della tassazione dei cibi
poggia su evidenza scientifiche in ordine agli effetti esterni positivi o negativi che il consumo dei cibi
dannosi possano avere per la salute. È noto che gli interventi fiscali possono consentire di aumentare il
prezzo del prodotto, inducendo i consumatori a ridurre i loro acquisti ovvero l’industria a produrre
alimenti mio dannosi. Affinché il prelievo impositivo abbia un reale effetto disincentivante è necessario
che il tributo sia traslato sul consumatore finale che dovrà, quindi, sostenere l’onere fiscale.
Gli stessi risultati possono essere comunque conseguiti mediante incremento delle aliquote IVA applicabili
ad alcuni cibi grassi o dannosi.
Con la legge di stabilità del 2020 è stata istituita la nuova tassa sulle bevande ad alto contenuto
zuccherino, nella misura di 10 euro per ettolitro. Analizzando la struttura della fattispecie, particolare
rilevanza ha la definizione di bevanda edulcorante, rientrando nella sfera applicativa del tributo quei
prodotti finiti e quelli predisposti per l’utilizzazione previa diluizione.
Per edulcorante si intende qualunque sostanza naturale o sintetica idonea a conferire sapore dolce alle
bevande. In ogni caso, il potere edulcorante di ciascuna sostanza è stabilito convenzionalmente, per
ciascun prodotto, con decreto interdirettoriale del Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero
della salute.
L’obbligazione tributaria sorge e diventa esigibile: all’atto della cessione, anche a titolo gratuito, delle
bevande edulcorate imponibili, da parte del fabbricante nazionale. Sono obbligati al pagamento: il
fabbricante nazionale ovvero il soggetto nazionale che provvede al condizionamento, nel primo caso;
l’acquirente, nel secondo caso, ovvero l’importatore. Tali soggetti dovranno registrarsi presso l’Agenzia
delle dogane e dei monopoli, la quale li doterà di un codice identificativo, entro il mese successivo alle
cessioni effettuate, dovranno presentare una dichiarazione mensile e versare l’imposta dovuta entro il
mese successivo a quello cui la dichiarazione si riferisce.

3. Il tributo sul consumo dei manufatti di plastica con singolo impiego


Il comma 634 dell’art. 1 della l.160/2019 ha istituito l’imposta nota come “plastic tax”, con la finalità
dichiarata di “arginare la crescente produzione di imballaggi e contenitori monouso di materie plastiche e
la conseguente dispersione degli stessi nell’ambiente”.
L’introduzione della c.d. plastic tax da parte dello Stato italiano aderisce a questo modello anche per
orientare consumi e produzioni, reperendo risorse dare impiegare preferibilmente per fini ambientali.
L’entità del prelievo appare dettata dall’esigenza di sperimentare “una buona pratica di fiscalità
ambientale e comportamentale”, senza un grosso impatto economico sul settore.
La norma disegna la fattispecie in modo particolarmente estero anche in considerazione dell’ampiezza
della nozione di plastica. Essa, inoltre, valorizza la destinazione “monouso”, attraendo nella fattispecie i
prodotti plastici caratterizzati da un ciclo vitale estremamente limitato, inidoneo al riutilizzo o ad un
successivo trasferimento.
Il comma 635 dell’art. 1 comprende nella sfera applicativa anche i dispositivi realizzati, anche
parzialmente, in materiale plastico.

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Il tributo non si applica sui prodotti di plastica monouso di natura medica o destinati a contenere o
proteggere preparati medicinali classificati dalla Commissione unica sui dispositivi medici, istituita ai sensi
dell’art. 57 della legge 27 dicembre 2002, n.289 in cui le finalità di protezione della salute appaiono
preminenti. In forza dell’art. 1 comma 637 i soggetti passivi sono individuati distinguendo a seconda
dell’ordine nazionale, europea o extra europea dei prodotti sottoposti a tassazione e precisamente: il
fabbricante, per quelli realizzati nel territorio nazionale, il soggetto che acquista i beni nell’esercizio della
propria attività economica ovvero il cedente qualora i MACSI siano acquistati da un consumatore privato.
Il tributo si caratterizza per una fattispecie a formazione progressiva nel senso che i prodotti in plastica
monouso sono assoggettati ad esso al momento della fabbricazione o dell’importazione divenendo
esigibile al momento dell’immissione in consumo, secondo le norme in vigore al momento della
produzione.

4. La web tax
L’esigenza di introdurre strumenti di prelievo della ricchezza prodotti attraverso la rete è stata oggetto di
studio da parte della Commissione UE la quale ha proposto, sia pure una soluzione provvisoria, un
sistema comune d’imposta sui ricavi derivanti dalla fornitura di alcuni servizi digitali. La proposta si
incentra sul concetto di “creazione di valore” da parte degli utenti. La “soluzione provvisoria” appare
reiterata sui modelli d’impresa e-business nei quali il contributo degli utenti alla creazione di valore è “più
significativo”. L’ISD è un’imposta sui ricavi generati dalla fornitura di determinati servizi digitali,
caratterizzati dal contributo fondamentale della partecipazione dell’utenza all’attività digitale. Vengono,
quindi, assoggettati a tassazione i ricavi generati dalla fornitura di servizi puntualmente indicati dalla
proposta, prodotti col contributo degli utenti. I “servizi imponibili” sono indicati nell’art. 3 comma 1 e
sono catalogabili in servizi pubblicati, servizi di intermediazione e servizi di trasmissione dei dati raccolti
sugli utenti. In merito al meccanismo di applicazione del tributo, L’ISD diviene esigibile nello Stato
membro il giorno lavorativo successivo alla fine del periodo d’imposta, nella misura proposta del 3%. Il
soggetto passivo è tenuto a dichiarare, per ciascuno stato membro, l’importo totale dei ricavi imponibili
che si considerano ottenuti in quello stato, nonché liquidare l’ISD dovuta. L’aliquota proporzionale
stabilita è unica, nella misura del 3% del corrispettivo dovuto, al netto dell’IVA per singola prestazione.
L’imposta si applica soltanto nei confronti del soggetto prestatore, residente o meno, che effettua nel
corso di un anno solare un numero complessivo di transazioni superiore a 3.000 unità.
L’imposta è costruita secondo il modello dell’imposizione indiretta con affinità rispetto all’IVA ed ancor più
all’abrogata IGE: il meccanismo impositivo è infatti strutturato in modo da colpire una manifestazione di
capacità contributiva consistente non solo nel consumo ma nella vendita o nella fornitura di un servizio a
contenuto “elettronico” o “digitale” ad altro operatore economico, restando escluse le prestazioni business
to consumer. Presupposto dell’imposizione è il compimento di “transazioni digitali” relative a prestazioni
di servizi effettuate tramite mezzi elettronici.

5. Le tasse e i diritti marittimi


Il D.P.R 28 maggio 2009, n.107, reca una parziale revisione della disciplina generale delle tasse e dei
diritti marittimi contenuta nelle Legge 9 febbraio 1963 n.82, al fine di migliorare e rendere più efficace la
gestione dei porti, mantenendo, però, pienamente operativo il sistema delle tasse e dei diritti marittimi
applicabili in precedenza, con riferimento a navi, merci e passeggeri.
Il Regolamento abroga la soprattassa di ancoraggio, prevedendone l’accorpamento con la tassa di
ancoraggio e quella portuale, e la tassa erariale sulle merci. Alla tassa di ancoraggio sono soggette per
ogni tonnellata di stazza netta, decorrente dal giorno dell’approdo le navi nazionali, le navi estere
equiparate alle nazionali in virtù di trattati, nonché le navi esercitate da compagne di navigazione di Stati
con i quali l’Unione europea abbia stipulato accordi.
La misura della tassa varia in funzione della stazza netta totale della nave e si applica per scaglioni di
stazza: per le navi aventi una stazza netta non superiore a 200 tonnellate, è dovuta una tassa di euro
0.09 per ogni tonnellata superiore alle prime 50; per le navi aventi una stazza netta superiore a 200 e
fino a 350 tonnellate o, se avendo una stazza superiore a 350 tonnellate, navigano esclusivamente tra i
porti dello Stato, è dovuta una tassa di euro 0.4 per ogni tonnellata etc.
Le navi estere non equiparate a quelle nazionali sono soggette al pagamento della tassa d’ancoraggio,
nella misura del doppio di quella prevista per le navi nazionali e non hanno diritto all’abbonamento. Sono
esenti dalla tassa d’ancoraggio le navi di stazza netta inferiore a 50 tonnellate; le navi da guerra; le navi
da diporto di qualunque bandiera riconosciute tali dai rispettivi governi; le navi ospedale, le navi nazionali
che esercitano la pesca e che siano adibite esclusivamente al trasporto del pescato etc.
Quando la nave imbarca o sbarca passeggeri ha la facoltà di pagare, invece della tassa d’ancoraggio, un
diritto fisso per ogni passeggero imbarcato o sbarcato, indipendentemente dalla tassa ridotta che sia
dovuta per le merci imbarcate o sbarcate.
La tassa sulle unità di diporto, si applica in caso di possesso di unità da diporto da parte di soggetti
residenti. Soggetti passivi del tributo sono “i proprietari, gli usufruttuari, gli acquirenti residenti nel
territorio dello stato che posseggano, o ai quali sia attribuibile il possesso di unità da diporto”. Il tributo
non è dovuto per “le unità che costituiscono beni strumentali di aziende di locazione e noleggio, deve

74
ritenersi che anche per le unità da diporto utilizzate per lo svolgimento delle altre attività commerciali
individuate dall’art. 2 del d.lgs. n. 171 del 2005, la tassa non è dovuta”.

PARTE TERZA
PROCEDIMENTO, PROCESSO E SANZIONI

CAPITOLO 1: LA DICHIARAZIONE TRIBUTARIA

1. Strumenti di partecipazione delle conoscenze e dichiarazioni tributarie


Nell’esperienza giuridica, la partecipazione della conoscenza, intesa come attività attraverso cui un
soggetto trasmette ad altri soggetti, la notizia di un fatto o un atto (normativo, amministrativo o
processuale) avviene attraverso strumenti, tecniche e modelli diversi.
Le “misure” di partecipazione della conoscenza possono essere distinte in relazione agli effetti che ne
discendono, alla qualità dei soggetti che le attuano ovvero dei loro destinatati.
È di tutta evidenza che il legislatore tributario, nel disciplinare le modalità attuative del tributo, pone a
carico dell’amministrazione finanziaria una serie di doveri informativi protesi a promuovere la compliance,
vale a dire il corretto adempimento dei doveri fiscali, anche attraverso gli atti recettizi a contenuto
impositivo (avvisi di accertamento).
Doversi altrettanto intensi possono essere posti a carico del contribuente nell’ambito della collaborazione
con il fisco nell’attività istruttoria o in quella accertativi degli uffici finanziari. Si possono, così, distinguere
strumenti di merda informazione e strumenti di conoscenza “qualificata” e “garantita”; i primi hanno
carattere essenzialmente divulgativo, essendo preordinati alla diffusione di elementi informativi e
rivolgendosi ad una massa indistinta di soggetti, i secondo appaiono, invece, caratterizzati dal rispetto di
garanzie di ordine formale e della predeterminazione del contenuto, generalmente più circoscritto, ovvero
di modalità e luogo di esecuzione (comunicazioni e notificazioni).
Particolare rilevanza assumono le dichiarazioni tributarie, le quali recano indicazioni ed elementi
conoscitivi rilevanti per l’attività di controllo, recando un vero e proprio riconoscimento del debito
(d’imposta) da parte del contribuente.

2. Requisiti e contenuto delle dichiarazioni


La dichiarazione tributaria appare oggi strumento giuridico a valenza sostanzialmente generale, essendo
utilizzata dall’ordinamento tributario per la quasi totalità delle imposte. La fiscalità di massa e il
necessario coinvolgimento del contribuente nelle modalità attuative del prelievo (c.d. autotassazione)
hanno indotto il legislatore a estendere lo strumento, configurandolo come doveroso e necessario,
prevedendo conseguenze sanzionatorie nel caso di inosservanza.
Introdotta per le imposte sui redditi con la riforma Vanoni, la dichiarazione ha trovato applicazione anche
per l’IVA e per i tributi indiretti e quelli locali (IRAP, IMU), pur con le peculiarità prevista dalle singole
leggi d’imposta.
La dichiarazione deve contenere tutti gli elementi utili ai fini della determinazione della prestazione
tributaria, deve essere sottoscritta, a pena di nullità, dal contribuente o da chi ne ha la rappresentanza
legale o negoziale e da chi ne ha l’amministrazione anche di fatto. La nullità è sanata se il contribuente
provvede alla sottoscrizione entro 30 giorni dal ricevimento dell’invito da parte dell’ufficio dell’Agenzia
delle entrate territorialmente competente.
Per i modelli di dichiarazione in formato elettronico e di presentazione in via telematica, la sottoscrizione
va apposta sulla copia cartacea che i dichiaranti devono conservare. La dichiarazione deve essere
inoltrata all’Amministrazione finanziaria per il tramite di una banca o di un ufficio delle Poste, secondo le
scadenza temporali annualmente stabilite.
Si considera presentata nel giorno in cui è consegnata dal contribuente alla banca o all’ufficio postale
ovvero è trasmessa all’Agenzia delle entrate mediante procedere telematiche. La dichiarazione dei redditi
delle persone fisiche deve indicare i dati e gli elementi necessari per l’individuazione del contribuente,
perla determinazione dei redditi e delle imposte dovute.
Anche i soggetti che corrispondono somme o valori sottoposti a ritenuta alla fonte devenni presentare
annualmente apposita dichiarazione. La dichiarazione del sostituto d’imposta deve indicare i dati e gli
elementi necessari per l’identificazione del dichiarante, la determinazione dell’ammontare dei compensi,
delle ritenute, dei contributi e dei premi. I sostituti d’imposta devono, inoltre, rilasciare un’apposita
certificazione unica sia ai fini fiscali che contributivi, attestare l’ammontare complessivo delle somme e
valori erogati.
Il d.lgs. 21 novembre 2014 n.175, ha introdotto nel nostro ordinamento il nuovo istituto della
dichiarazione precompilata. Il nuovo istituto consente di promuovere la compliance, alleggerendo gli

75
adempimento a cui è tenuto il contribuente. Quest’ultimo piò accettare o modificare la dichiarazione,
resta disponibile direttamente al contribuente mediante i servizi telematici dell’Agenzia delle entrate o,
conferendo apposita delega, tramite il proprio sostituto d’imposta ovvero tramite un centro di assistenza
fiscale.

3. Natura giuridica delle dichiarazioni tributarie


La dottrina tradizionale configura la dichiarazione dei redditi come una “confessione stragiudiziale”,
dovendo il contribuente rappresentare situazioni cui si collega il tributo dovuto. Diffusa è la tesi che
insiste nel considerare la dichiarazione “atto dovuto o atto obbligato”, valorizzando l’esistenza dell’obbligo
giuridico e la previsione di specifiche sanzioni in caso di omissione.
Pur non potendo il contribuente sottrarsi all’attività giuridica in esame, va evidenziato che la dimensione
della doverosità coglie solo un aspetto della stessa, come quella della prestazione tributaria di cui all’art.
23 Cost.
La dichiarazione dei redditi si atteggia come un atto negoziale a contenuto misto, in parte illustrativo e
rappresentativo di situazioni fattuali, in parte recante una vera a propria qualificazione giuridica degli
stessi. In quanto atto giuridico unilaterale recettizio recante un vero e proprio riconoscimento di un
debito, la dichiarazione deve essere portata a conoscenza dell’amministrazione finanziaria che è chiamata
ad esercitare il potere di controllo.

4. La retrattabilità delle dichiarazioni


Particolarmente dibattuta, sia in dottrina che in giurisprudenza, è la questione della retrattabilità delle
dichiarazioni tributarie.
Secondo un primo indirizzo, la dichiarazione, in quanto disciplinata da norme di rango pubblicistico, è
insuscettibile di essere corretta o rettificata; al contribuente sarebbe solo consentito esercitare l’azione di
rimborso nel caso di errore materiale, duplicazione o inesistenza parziale o totale dell’obbligo di
versamento.
A diverse conclusioni giunge un secondo orientamento che, pur muovendo da diverse premesse, si è
espresso in senso favorevole alla correzione degli errori commessi in dichiarazione.
La Corte di Cassazione a Sezioni unite ha più volte riconosciuto che “in linea di principio, è emendabile e
ritrattabile ogni dichiarazione dei redditi che risulti, comunque frutto di un errore del dichiarante nella
relativa redazione, quando da esso possa derivare l’assoggettamento del dichiarante medesimo ad oneri
contributivi diversi e più gravosi, di quelli che per legge devono restare a suo carico” (sentenza n.15063
2002).
La più recente ordinanza della Suprema Corte n.1862/2020 secondo la quale “la dichiarazione dei redditi
del contribuente, affetta da errore sia esso di fatto che di diritto commesso dal dichiarante nella sua
redazione, è emendabile e ritrattabile anche in sede contenziosa, quando dalla medesima possa derivare
l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della
legge, devono restare a suo carico.
Del resto, una interpretazione giurisprudenziale che non consentisse la correzione della dichiarazione
darebbe luogo a un prelievo fiscale indebito, incompatibile con i principi costituzionali della capacità
contributiva di cui all’art. 53 Cost.

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CAPITOLO 2: L’ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

1. Introduzione
Nel linguaggio comune, l’espressione accertamenti viene adoperata assumendo la prospettiva finalistica
di ricercare fatti e assicurare certezza agli stessi. Tra le soluzioni prospettate, preferibile è quella che,
considera l’accertamento come una sequenza di atti a composizione variabile orientata all’esatta
determinazione del tributo attraverso l’apprezzamento della fattispecie nella sua dimensione qualitativa e
quantitativa, assicurando così applicazione alla normativa tributaria. L’attività accertativa si sviluppa in
fasi
distinte (investigativa, partecipativa, decisoria ecc.), anche queste diversamente cambiate tra loro, e
sfocia in uno o più atti anche autonomi. Essa compete naturalmente all’amministrazione finanziaria o ad
altro ente impositore cui è demandato il controllo delle dichiarazioni fiscali e degli altri adempimenti dei
contribuenti. L’attuale disciplina risente, della dialettica tra diritti e garanzie del contribuente, resi più
solidi dopo l’approvazione della l. n. 212 del 2000 (Statuto dei diritti del contribuente) e poteri
investigativi delle autorità fiscali, divenuti ancora più intensi per l’esigenza du contrastare fenomeni
elusivi ed evasivi. Il legislatore, pur avvertendo le finalità di deterrenza sottese alla disciplina dei controlli,
ne coglie i limiti e vi reagisce, promuovendo e potenziando gli strumenti di “cooperative compliance” tra
fiscoe contribuente e lo scambio di informazioni tra le autorità fiscali. Per restituire centralità alla
compliance, particolare rilevanza assume il ruolo dell’amministrazione chiamata a semplificare procedure,
informare e ascoltare il contribuente, operando in modo trasparente e leale.

2. Attribuzioni degli uffici dell’Agenzia delle entrate


Con il d.lgs. 30 luglio 1999 n.300 è stata operata una profonda ristrutturazione degli assetti delle
amministrazioni finanziarie chiamate a esercitare i poteri accettativi.
In base a tale disciplina, sono state istituite quattro Agenzie, aventi personalità giuridica di diritto
pubblico ed ampia autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e
finanziaria:
1. Agenzia delle entrate.
2. Agenzia delle dogane.
3. Agenzia del territorio.
4. Agenzia del demanio.
In forza dell’art. 31 d.P.R. n.600/1973, i controlli fiscali spettano all’ufficio dell’agenzia delle entrate nella
cui circoscrizione è il domicilio fiscale del soggetto obbligato alla dichiarazione. Durante il controllo, gli
uffici territoriali ne rilevano l’eventuale omissione e provvedono alla liquidazione e all’accertamento delle
imposte o maggiori imposte dovute

3. I poteri istruttori degli uffici fiscali: accessi, ispezioni, verifiche


L’attività istruttoria degli uffici finanziari si compone in una pluralità di strumenti via via rafforzati sia pet
rendere più efficace la lotta all’evasione, sia per promuovere la partecipazione collaborativa dei
contribuenti.
Alla luce delle disposizioni, in materia di imposte sui redditi e in materia di Iva, i poteri degli
uffici possono essere distinti in due categorie:
1. Poteri protesi all’acquisizione di informazioni e notizie direttamente dai contribuenti oppure da
terzi.
2. Poteri coattivi e invasivi della sfera giuridica ed economica dei destinatari.
Tra i primi vanno ricordati i questionari “relativi a dati e notizie di carattere specifico” e le richieste di
acquisizione di informazioni o documenti specifici. Pur essendo accumunati dall’obbligatorietà, comunque
presidiata da sanzione, essi possono avere contenuto sia partecipativo che difensivo. Gli inviti e le
richieste devono essere notificati; dalla data di notifica decorre il tempo fissato dall’ufficio per
l’adempimento. Il questionario completato deve essere firmato e restituito all’amministrazione finanziaria,
anche telematicamente; nel caso di mancata restituzione del questionario entro il termine indicato o di
restituzione incompleta o con dati non veritieri, può essere applicata la sanzione pecuniaria.
Con riguardo agli effetti dell’inottemperanza dell’invito a rispondere ai questionari ovvero a fornire i
documenti richiesti l’art. 31 d.P.R. 600, recita “le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri
ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in
considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa.
Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta”.

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Meglio scandagliati dalla dottrina e della giurisprudenza appaiono i poteri di procedere all’esecuzione di
accessi, ispezioni e verifiche, ugualmente suscettibili di comprimere talune garanzie fondamentali oggetto
di tutela (libertà di domicilio, segreto professionale, libera iniziativa economica privata).
Nel bilanciamento tra interesse fiscale e diritti di libertà del contribuente l’art. 12 dello Statuto del
contribuente stabilisce che accessi, ispezioni, e verifiche possono essere effettuati solo nei casi di effettive
esigenze di indagine e controllo sul luogo, per una durata massima e con tempi e modalità prestabiliti,
inoltre, quando inizia la verifica, il contribuente ha dritto ad essere informato delle ragioni che l’abbiano
giustificata, dell’oggetto che la riguarda e della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato
dinanzi alle Commissioni tributarie.
Sulla base delle disposizioni vigenti è possibile individuare più tipi di accesso. Per l’accesso ai locali adibiti
ad abitazione, il legislatore prevede la preventiva “autorizzazione del Procuratore della Repubblica”. In
ogni caso è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della repubblica o dell’autorità giudiziaria più
vicina per procedere, durante l’accesso, a perquisizioni personali. Per l’accesso negli studi professionali,
l’autorizzazione del procuratore della repubblica è richiesta solo qualora il professionista eccepisca il
segreto professionale, a tutela di determinate documenti o a salvaguardia di particolari notizie.
La guardia di finanzia coopera con gli Uffici fiscali per l’acquisizione e il reperimento degli elementi utili ai
fini dell’accertamento dei redditi e per la repressione delle violazioni delle leggi sulle imposte dirette. Al
riguardo, occorre notare che titolare esclusivo dell’azione accertatrice è l’ente impositore, mentre il ruolo
della Polizia tributaria si esaurisce alla fase istruttoria, con l’esercizio dei poteri di collaborazione e
indagine per l’acquisizione di elementi utili per l’accertamento.
L’ispezione può svolgersi seguendo più livello di indagine: quella documentale, finalizzata all’esame di
libri, registri, scritture e documenti la cui tenuta e conservazione sono obbligatorie, al fine di appurare il
grado di coerenza interno del sistema contabile.
Stabilisce infine l’art. 52 del d.P.R. n.633 che “di ogni accesso deve essere redatto processo verbale da
cui risultino le rilevazioni e le ispezioni eseguite, le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta e
le risposte ricevute”. Il verbale deve essere sottoscritto dal contribuente o da chi lo assiste; il
contribuente ha diritto di averne copia. Il processo verbale di constatazione (PVC), quale atto endo
procedimentale mirante a descrivere fattualmente le attività compiute, i rilievi effettuati e le risultanze
delle indagini, ai sensi dell’art. 2700 c.c., fa piena prova fino a querela di falso con riguardo a fatti e
accadimenti materiali. Esso non è autonomamente impugnabile dinanzi alle
Commissioni tributarie perché privo della natura tipica provvedimentale. Deve tuttavia, riconoscersi che,
proprio in funzione del suo contenuto, le Autorità fiscali, ricorrendone le condizioni di legge, possono
chiedere l’applicazione di misure cautelari sui beni del contribuente (sequestro conservativo).

4. Liquidazione delle imposte dovute in base alle dichiarazioni e controllo formale


Attraverso la liquidazione, l’Amministrazione finanziaria, sulla base dei dati direttamente desumibili delle
dichiarazioni del contribuente e dei sostituti d’imposta, provvede alla correzione degli errori materiali e di
calcolo commessi nella determinazione degli imponibili, delle imposte, dei contributi e premi, nonché nel
riporto di eccedenze di deduzioni e crediti d’imposta.
Si tratta di un’attività di accertamento automatica (e automatizzata), relativamente semplice. Il
contribuente o il sostituto d’imposta, ove a seguito della comunicazione rilevino eventuali dati o elementi
non considerati o valutati erroneamente nella liquidazione dei tributi, possono fornire i chiarimenti
necessari all’amministrazione finanziaria entro i 30 giorni successivi, ottenendone, se dal caso, lo sgravio
ovvero esercitando il proprio diritto di difesa in sede giurisdizionale.
Mediante il controllo formale, gli uffici periferici dell’Amministrazione finanziaria possono:
- Escludere, in tutto o in parte, lo scomputo delle ritenute d’acconto non risultanti dalle
dichiarazioni dei sostituti d’imposta.
- Escludere, in tutto o in parte, le detrazioni d’imposta non spettanti in base ai documenti richiesti
ai contribuenti.
- Escludere, in tutto o in parte le deduzioni dal reddito non spettanti in base ai documenti richiesti
ai contribuenti o agli elenchi menzionati alla lettera precedente.
- Determinare i crediti d’imposta spettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai
documenti richiesti al contribuente.
- Correggere gli errori materiali e di calcolo commessi nelle dichiarazioni dei sostituti d’imposta.
L’esito del controllo è comunicato al contribuente o al sostituto d’imposta con l’indicazione dei motivi che
hanno dato luogo alla rettifica degli imponibili, delle imposte, delle ritenute alla fonte, per consentire
anche la segnalazione di eventuali dati ed elementi non considerati o valutati erroneamente in sede di
controllo formale entro i 30 giorni successivi al ricevimento della comunicazione.

5. I termini di decadenza della funzione accertativa


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A norma dell’art. 37 del d.P.R. n.600/1973 gli uffici procedono al controllo delle dichiarazioni, sulla base
di criteri selettivi fissati annualmente attraverso apposito decreto. La maggiore complessità delle attività
di controllo discende dall’ampiezza del solo oggetto, dalla necessità di verificare la condotta complessiva
del contribuente in riferimento a differenti tributi e adempimenti, dalla necessità di ricercare l’eventuale
occultamento della materia imponibile o l’utilizzo abusivo di istituti giuridici. Ciò richiede termini congrui
rispetto alle concrete capacità operative degli uffici. Fino all’esercizio d’imposta 2016, la notifica degli
avvisi di accertamento sarebbe dovuta avvenire “a pena di decadenza” entro il 31 dicembre del quarto
anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione ovvero entro il 31 dicembre del 5 anno
successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata nei casi di omissione o
nullità. L’articolo 37, comma 24, del d.l. 4 luglio 2006 n.223, ha poi modificato l’art. 43 d.P.R.
n.600/1973, introducendo il raddoppio dei termini per l’accertamento in caso di violazione che
comportasse obbligo di denuncia per uno dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000 n.74.
La norma è stata poi riformulata dalla legge di Bilancio per il 2016 (l.208/2015),anche per rimuovere i
sospetti di incompatibilità dell’osservata regola del raddoppio del termine accertativo nell’ipotesi di rilievo
penale della condotta del contribuente. Nel sistema attuale, con riferimento ai periodi d’imposta
successivi a quelli in corso al 31.12.2016, gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di
decadenza, entro il 31 dicembre del 5 anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.
Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla, l’avviso di
accertamento può essere notificato entro il 31 dicembre del 7 anno successivo a quello in cui la
dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.

6. L’accertamento in rettifica. L’accertamento analitico, sintetico e induttivo


Le complessità delle fattispecie imponibili e la pluralità dei criteri giuridici di determinazione del reddito
hanno indotto il legislatore tributario a rinunciare all’idea dell’unica metodologia accertativa prevedendo
invece la molteplicità dei metodi accertativi.
Pur non potendo essere considerato pregiudiziale, il metodo analitico (artt. 38, commi 1,2, e 3, per i
contribuenti non tenuti alle scritture contabili ed art. 39, comma 1, per quelli che vi sono tenuti) aderisce
alla ricostruzione naturale e fisiologica del reddito dichiarato, ripercorrendone il procedimento logico e
giuridico. Di contro, i metodi sintetico o extracontabile, rispettivamente disciplinati dagli art. 38 comma 4
e ss. E 39 comma 2, seguono una (medesima) logica nella ricostruzione del reddito, assegnando alla
sfera logico-deduttiva le conclusioni che non potrebbero ricavarsi dall’esame di un apparato documentale
non attendibile. In altri termini, non è rimesso all’arbitrio del responsabile del procedimento la scelta di
uno tra i percorsi possibili, dovendo comunque tale opzione e discendere da elementi obiettivi ovvero
dalle informazioni ed elementi di cui l’Ufficio dispone o ritiene di poter disporre. Del resto, dalla scelta del
metodo dipende la selezione del criterio di riparto dell’onere della prova, con conseguenze per il
contribuente che non possono essere svalutate sul piano giuridico.
L’ufficio procede alla rettifica delle dichiarazioni presentate dalle persone fisiche quando il reddito
complessivo dichiarato risulta inferiore a quello effettivo o non sussistono o non spettano, in tutto o in
parte, le deduzioni dal reddito o le detrazioni d’imposta indicate nella dichiarazione. L’incompletezza, la
falsità e l’inesattezza dei dati indicati dalla dichiarazione, possono essere desunte dalla dichiarazione
stessa e dai relativi allegati, dal confronto con le dichiarazioni relative ad anni precedenti. Se la
determinazione analitica dei redditi, in sede accertativa, non pone particolari problemi sul versante del
contribuente, dovendosi questo difendere in ordine alla correttezza e con la documentazione delle proprie
dichiarazioni o rilevazioni contabili, maggiori problemi potrebbe porre la necessità di offrire la prova per
contrastare le presunzioni dell’ufficio. Conviene muovere, in questo caso, dall’art. 38 che, al quarto
comma, ammette il ricorso all’accertamento sintetico qualora il reddito ufficiosamente ricostruito “ecceda
di almeno un quinto quello dichiarato”. La determinazione sintetica del reddito complessivo può anche
fondarsi sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva (c.d. redditometro)
individuati mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del
nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza. L’ufficio che procede alla determinazione
sistematica del reddito complessivo ha l’obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per
mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento e di avviare il
procedimento di accertamento.
Con riguardo alla rettifica extra-contabile dei redditi d’impresa, l’art. 39 comma 2, prevede che l’ufficio
delle imposte possa determinare il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti
o venuti e sua conoscenza, con facoltà di prescindere dalle risultanze del bilancio e dalla scritture
contabili e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza:
- Quando il reddito dell’impresa non sia stato indicato nella dichiarazione.
- Quando dal verbale di ispezione redatto risulti che il contribuente non abbia tenuto o abbia
comunque sottratto all’ispezione una o più delle scritture contabili ovvero quando le scritture
medesime non siano disponibili per causa di forza maggiore.

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- Quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate e le irregolarità formali delle
scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione siano così gravi, numerose e ripetute da
rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse.
- Quando il contribuente non abbia dato seguito agli inviti disposti dagli uffici.
L’art. 39 comma 1, lettera d) prevede, inoltre, un metodo di accertamento intermedio, così detto
analitico-induttivo, che trova applicazione nell’ipotesi in cui l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli
elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risputino dall’ispezione delle scritture contabili e
dalle altre verifiche di cui all’art. 33. In questa ipotesi, l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza
di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi,
precise e concordanti. Queste disposizioni valgono, in quanto applicabili, anche per i redditi delle imprese
minori e per quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni

7. Accertamento d’ufficio
L’art. 41 del d.P.R. n.600/73 prevede l’accertamento d’ufficio nel caso di omissione o nullità della
dichiarazione, potendo in questo caso determinare il reddito complessivo del contribuente sulla base dei
dati e delle notizie, comunque, raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di
presunzioni. Anche per l’accertamento d’ufficio vale il principio della indeducibilità degli oneri.

8. Accertamento in base agli studi di settore e indicatori sintetici di affidabilità


Per i soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, il riferimento all’impianto contabile ai fini
dell’accertamento e la previsione di di condizioni tassative legittimanti l’accertamento induttivo rendevano
particolarmente difficile l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria, soprattutto nei confronti di
piccole e medie imprese e dei lavoratori autonomi. Negli ultimi anni, numerose disposizioni sono state
adottate per queste categorie di soggetti, introducendo meccanismi variamente denominati (coefficienti
presuntivi del reddito), attraverso cui determinare un reddito “attendibile”, da assumere ai fini della
tassazione, ferma restando la possibilità del contribuente di fornire prova contraria.
Questi indicatori, avvalendosi di un metodo statistico-economico, misuravano dati e informazioni relativi a
più periodi d’imposta. A tal fine, quindi, gli stessi uffici identificavano campioni significativi di contribuenti
appartenenti ai medesimi settori da sottoporre a controllo allo scopo di individuare elementi
caratterizzanti l’attività esercitata. Gli studi di settore venivano approvati con decreti del Ministro delle
finanze ed erano periodicamente soggetti a revisione.
Anteriormente alla notificazione dell’avviso di accertamento, l’ufficio tributario doveva invitare il
contribuente a comparire al fine di definire il contraddittorio ed esprimere rilievi ed elementi sulla
fondatezza e sui motivi dello scostamento tra gli importi dichiarati e quelli ottenuti attraverso lo studio
dello scostamento tra gli importi dichiarati e quelli ottenuti attraverso lo studio.
In materia, il d.l. 22 ottobre 2016, n.193 ha previsto la graduale introduzione e sostituzione degli studi di
settore a favore dei cosiddetti indici di affidabilità che affiancano alla predeterminazione normativa un
controverso meccanismo di misurazione della compliance del contribuente, ritenuto utile a valorizzare i
comportamenti fiscali collaborativi anche in ragione delle nuove forme di assistenza fiscali, quali gli avvisi
e le comunicazioni che l’Agenzia delle entrate invierà in prossimità delle scadenze fiscali. Anche in questo
caso, l’ambito soggettivo di applicazione è riferito agli esercenti di attività di impresa, arti o professioni.

9. Accertamento parziale e integrativo


Superando il principio dell’unicità e della globalità dell’accertamento di cui all’art. 40, d.P.R. 600/1973,
l’art.41 bis stabilisce che gli uffici delle imposte possono effettuare accertamenti parziali sulla base delle
segnalazioni effettuate dalla Direzione centrale accertamento, da una Direzione regionale ovvero da un
ufficio della medesima Agenzia ovvero di altre Agenzie fiscali.
Accertamenti parziali possono essere effettuati anche ai fini Iva. Presupposti dell’accertamento parziale
sono, quindi, l’esistenza di elementi indicativi di materia imponibile non dichiarata (reddito non dichiarato
o maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato che avrebbe dovuto concorre a formare il
reddito imponibile), e l’impulso ad agire (c.d. fonte di innesco) proveniente da determinati organi
dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche.
Dall’accertamento parziale va distinto l’accertamento integrativo, per effetto del quale l’amministrazione
finanziaria, fino alla scadenza dei termini di decadenza, piò integrare o modificare l’accertamento
mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. Nel
caso di utilizzo di questa procedura, nell’avviso di accertamento devono essere specificamente indicati, a
pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti venuti a conoscenza dall’ufficio delle imposte.

10. Accertamento con adesione

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Il legislatore tributario, nell’intento di contenere il contenzioso tributario, ha nuovamente introdotto
strumenti di definizione consensuale del rapporto tributario. Dopo le prime esperienze, l’art. 1, d.lgs. 19
giugno 1997, n.218, ha regolato il c.d. “accertamento con adesione”, consentendo la definizione del
rapporto d’imposta in contraddittorii e con adesione del contribuente.
L’accertamento definito con adesione non è soggetto ad alcuna impugnazione, ne è innegabile o
modificabile da parte dell’ufficio. La definizione non esclude l’esercizio dell’ulteriore azione accertatrice,
sia pure entro i termini previsti, a pena di decadenza, se sopravviene la conoscenza di nuovi elementi. A
seguito della definizione, le sanzioni per le violazioni concernenti i tributi oggetto dell’adesione commesse
nel periodo d’imposta, si applicano nella misura di un terzo del minimo previsto dalla legge.
Secondo quando stabilità dal d.lgs. n.218/97, il procedimento può essere attivato direttamente dall’ufficio
impositore ovvero dal contribuente. Nella prima ipotesi, l’ufficio invia un apposito invito a comparire,
indicato i periodi biposta suscettibili di accertamento, il giorno e il luogo della comparizione per definire
l’accertamento. Nella seconda, il contribuente può presentare istanza quando nei suoi confronti siano stati
effettuati accessi, ispezioni o verifiche ovvero quando abbia ricevuto la notifica di un avviso di
accertamento.
A conclusione del contraddittorio, viene redatto l’atto finale in duplice esemplare, sottoscritto dal
contribuente e dal capo dell’ufficio o da un suo delegato: nel caso di esito positivo del procedimento,
l’atto deve indicare l’importo definito e, separatamente per ciascuna voce, gli elementi e le motivazioni su
cui la definizione si fonda.

11. Avviso di accertamento


La pluralità dei metodi accertativi viene meno nel momento in cui il procedimento si conclude, state
l’unicità della funzione accertativi: il primo comma dell’art. 42 d.P.R. n.600/1973, stabilisce, infatti che i
risultati dell’attività svolta soni portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di appositi
avvisi, sottoscritti dal capo dell’ufficio. L’avviso di accertamento si configura come atto unilaterale
recettizio, concorrendo ad esprimere l’assetto normativo di interessi cui si collega il maggior tributo
dovuto. Dal punto di vista sostanziale, l’avviso deve recare l’indicazione dell’imponibile o degli imponibili
accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate.
L’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate ai fini delle imposte sui redditi e il connesso
provvedimento di irrogazione delle sanzioni devono contenere anche l’intimazione a adempiere, entro il
termine di presentazione del ricorso, all’obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati.
Gli atti divengono esecutivi decorsi 60 giorni dalla notifica: decorsi 30 giorni dal termine ultimo per il
pagamento, la riscossione delle somme richieste è direttamente affidata in carico agli agenti della
riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata.
Tra i requisiti formali dell’atto, particolare importanza riveste il requisito della motivazione. Prevista a
pena di nullità per tutti gli atti dell’amministrazione finanziaria, sia di accertamento, sia di liquidazione,
sia di riscossione, la motivazione pone il destinatario dell’atto nella condizione di venire a conoscenza dei
presupposti fattuali e giuridici dell’atto e valutare se esercitare o meno il diritto di agire giudizialmente.

12. Autotutela tributaria


Il termine autotutela design il potere della Pubblica Amministrazione di tutelare le proprie ragioni in modo
autonomo ed unilaterale, senza intervento dell’autorità giudiziaria o di organi estranei alla propria
organizzazione. La prima accezione comprende il potere di annullamento d’ufficio e di revoca dei propri
atti al fine di ripristinare la legalità violata. Nel potere di annullamento o di revoca deve intendersi
compreso anche il potere di disporre la sospensione degli effetti dell’atto che appaia illegittimo o
infondato. Espressamente prevista, per la prima volta, dall’art. 68, d.P.R. 27 marzo 1992, n.287,
l’autotutela è stata regolata dalla l. 30 novembre 1994 n.656, e quindi dal d.m. 11 febbraio 1997 n.37,
recante l’indicazione degli organi dell’amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio di
annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o di non impugnabilità o di definitività,
degli atti illegittimi o infondati e delle fattispecie in cui il potere può essere esercitato:
- Errore di persona.
- Evidente errore logico o di calcolo.
- Errore sul presupposto dell’imposta.
- Doppia imposizione.
- Mancata considerazione di pagamenti di imposta, regolarmente eseguiti.

81
CAPITOLO 3: LA RISCOSSIONE

1. Le forme della riscossione tributaria

A. Le ritenute
Nella sequenza delle fasi attuative del tributo, la riscossione costituisce l’attività attraverso la quale il
tributo viene preteso e acquisito direttamente o per conto dell’ente impositore nei confronti del
contribuente. Regolata in larga parte dalla legge (d.P.R. 602 1973).
Il ricorso è sempre più spinto dei sistemi di autotassazione consente di distringere tra riscossione
spontanea e riscossione coattiva: la prima consiste nel versamento del tributo, totale o parziale, da parte
del soggetto obbligato, la seconda viene realizzata attraverso atti autoritativi del soggetto incaricato l’art.
1 d.P.R. 602 stabilisce: ”le imposte sui redditi sono riscosse mediante: a) ritenuta diretta; b) versamenti
diretti del contribuente al cessionario e alle sezioni di tesoreria provinciale dello Stato; c) iscrizione nei
ruoli”.
Il primo strumento è largamente adoperato sia per una più rapida acquisizione dello stesso bilancio dello
stato, sia per prevenire e contrastare l’evasione fiscale. Le ritenute sono prelevate e versate da parte di
colui che paga il reddito nel momento di erogazione.
Esse ricevono una differente disciplina a seconda della natura dei proventi sui quali viene operata, della
natura dei soggetti coinvolti e soprattutto degli effetti che ne conseguono. Sono tenuti ad operare le
ritenute cono obbligo di rivalsa, rivestendo la qualità di sostituti di imposta, gli enti e le società soggetti
ad Ires, le società di persone e le associazioni indicate nell’art. 5, le persone fisiche che esercitino attività
commerciali, agricole o arti e professioni.
Il fondamento della sostituzione appare facilmente identificabile nell’esigenza di rendere più rapida e
sicura l’attuazione della pretesa tributaria, ponendo a carico del soggetto che eroga il reddito l’obbligo di
trattenere nel momento del pagamento la somma relativa, per versarla successivamente all’ente
impositore nei modi previsti.
Si verifica una forma di trasferimento (cessione) di una parte del credito del percipiente verso colui che
eroga il reddito, in conseguenza della quale colui che era debitore nei confronti del soggetto privato
diviene, in quanto sostituto d’imposta, debitore verso l’ente pubblico.
A differenza della ritenuta diretta, nella quale lo stato riscuote direttamente la somma corrispondente
all’imposta dovuta dal percipiente, nella sostituzione, un altro soggetto s’interpone nel rapporto tra il
contribuente e l’ente impositore. Mentre la ritenuta diretta determina l’estinzione del debito d’imposta per
confusione, riunendosi nello Stato le qualità di debitore e creditore, la sostituzione di inquadra fra le
cessioni legali del credito.

B. Versamento diretto
Sono riscosse mediante versamento diretto “le ritenute alla fonte effettuate a norma degli artt. 23, 24,
25, 25-bis e 28 d.P.R. n.600”. Sono riscosse mediante versamento diretto alle sezioni di tesoriera
provinciale dello Stato le ritenute operate dalle amministrazioni della Camera dei deputati, Senato, della
Corte costituzionale e della Presidenza della repubblica e le ritenute alla fonte sui redditi. Oltre alle
ritenute, costituiscono oggetto di versamento diretto le somme dovute a titolo di acconto o di conguaglio
in base all’autoliquidazione effettuata con le dichiarazioni tributarie.
L’art. 17 del d.lgs. 241/1997 in base al quale i contribuenti eseguono versamenti diretti delle imposte sui
redditi, Iva, Irap nonché i contributi previdenziali.
Tali versamenti devono “effettuarsi alle sezioni di tesoriera provinciale dello Stato mediante delega
irrevocabile del contribuente ad una delle aziende di credito”.
In alternativa al versamento diretto, il contribuente può operare la “compensazione”.
Tale fattispecie estintiva, caratterizzata dalla reciproca elisione di poter attive e passive fino all’importo
corrispondente, può assumere due diverse declinazioni: compensazione verticale, ove i reciproci debiti e
crediti siano riferiti allo stesso tributo; compensazione orizzontale, ove gli stessi siano relativi a tributi
diversi.

C. Iscrizione delle imposte nei ruoli


L’iscrizione nei ruoli costituisce la principale modalità coattiva in passato necessaria e addirittura
identificata come fonte dell’obbligazione tributaria, essa è divenuta “forma residuale di riscossione”,
vedendo sensibilmente ridotto il proprio campo di applicazione, per effetto della dilatazione dei
versamenti diretti, meglio aderente ad un sistema fiscale di massa.

82
L’espressione “ruolo” identifica l’elenco dei debitori e delle somme dagli stessi dovute a titolo di imposte,
sanzioni ed interessi; esso è formato dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo dei concessionario.
Sono iscritte nei ruoli a titolo definitivo:
- Le imposte e le ritenute alla fonte liquidate.
- Le imposte, le maggiori imposte e le ritenute alla fonte liquidate in base ad accertamenti
definitivi.
- I redditi dominicali dei terreni e i redditi agrari.
- I relativi interessi, soprattasse e pene pecuniarie.
L’ufficio competente forma ruoli distinti per ciascuno degli ambiti territoriali in cui i concessionari
operano; in ciascun ruolo sono iscritte tutte le somme dovute dai contribuente che hanno il domicilio
fiscale nei comuni compresi nell’ambito territoriale cui il ruolo si riferisce. Con la sottoscrizione, il ruolo
diviene esecutivo nei termini previsti dalla legge. L’agente delle riscossione forma la cartella di
pagamento che viene poi notificata al contribuente dagli ufficiali della riscossione, dagli altri soggetti
abilitati ovvero dai messi comunali e dagli agenti della polizia municipale; la notifica, oltre che “in mani
proprie”, può essere eseguita mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento.
Nel caso di mancato versamento del tributo dovuto nel termine di 60 giorni dalla notifica della cartella di
pagamento ha luogo l’esecuzione forzata. Ove non si dia inizio alla procedura esecutiva entro un anno
dalla notifica della cartella di pagamento, è necessario che la stessa sia preceduta dalla notifica di un
avviso contenente l’intimazione a adempiere l’obbligo risultante dal ruolo nei 5 giorni successivi

4. La riforma della riscossione coattiva


Con i decreti legislativi 22 febbraio 1999 n.37 e 13 aprile 1999 n.112, è stata riordinata la disciplina della
riscossione coattiva. L’art. 3 d.lgs. n.46 distingue i ruoli in ordinari e straordinari: i primi sono formati
dall’amministrazione finanziaria quando non sussiste un fondato pericolo per la riscossione, le imposte, gli
interessi e le sanzioni sono iscritte per l’intero importo risultante dall’avviso di accertamento, anche se
non definitivo e, dunque, prescindendo dall’eventuale impugnazione dinanzi alle Commissioni tributarie.
Oltre che a titolo definitivo, le iscrizioni a ruolo possono avvenire a titolo provvisorio. Nei ruoli provvisori,
sono iscritte le imposte fatte valere per il tramite degli accertamenti non definitivi per un ammontare
parti ad 1/3 degli imponibili o dei maggiori importi accertati: si tratta, in particolare, delle imposte, dei
contributi e dei premi corrispondenti agli imponibili accertati dall’ufficio ma non ancora definitivi.
Consegnato il ruolo, il soggetto incaricato per la riscossione provvede della notifica della cartella di
pagamento entro i termini stabiliti a pena di decadenza. La cartella di pagamento, redatta in conformità
all’apposito modello approvato con decreto ministeriale, deve recare la motivazione secondo le
disposizioni dello Statuto dei diritti del contribuente, il responsabile del procedimento, la data di
emissione e degli “oneri di riscossione”, l’intimazione a adempiere l’obbligo risultante nel ruolo entro 60
giorni dalla sua notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, sarà avviata l’esecuzione forzata.

5. Il sistema della riscossione dei tributi


Il sistema di esazione dei tributi è stato più volte modificato negli ultimi decenni. Aboliti i vecchi esattori,
la riscossione fu affidata a concessionari privati di natura societaria ed esperienza bancaria.
Lo scarso successo di tale modello ha spinto il legislatore a statalizzare il servizio, seppure attraverso la
costituzione di una grande società per azioni pubblica.

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CAPITOLO 4: Le sanzioni tributarie penali e amministrative

1. Il potere punitivo nel sistema tributario


Il potere punitivo è inteso come complesso di attribuzioni aventi per oggetto la previsione di illeciti e
sanzioni. Il potere impositivo va considerato sia come potere normativo tributario che come potere di
attuazione della pretesa tributaria anche sul piano sanzionatorio.
Potere punitivo e potere impositivo spesso si intrecciano tra loro essendo accomunati dalla loro natura di
poteri autoritativi e dal principio di legalità che li presidia.
Legge penale e legge tributaria possono così concorre alla definizione di misure sanzionatorie sia al fine di
prevenire e reprimere l’evasione fiscale, sia in funzione intimidatoria e deterrente.
La sanzione penale, sebbene più grave, non costituisce l’unica forma di reazione dell’ordinamento nel
caso di inosservanza delle norme tributarie.
Il legislatore ha, da sempre, fatto largo uso di sanzioni di natura amministrativa, sia pecuniaria che
interdittiva, oltre che di sanzioni di carattere civile a tutela del credito erariale.
Gli illeciti fiscali possono, assumere diversa natura a seconda che la violazione della norma tributaria
configuri un reato, punito con una delle pene previste dal Codice penale, un illecito amministrativo, punito
con una sanzione amministrativa pecuniaria interdittiva o un illecito civile, in stretta connessione con
l’obbligazione.
Sanzioni penali e sanzioni amministrative hanno subito nel tempo un’evoluzione normativa che ne ha
divaricato la disciplina. Non mancano principi comuni e manifestazioni del diritto punitivo come del potere
impositivo.
Con l’art. 8, l. Del 23/2014, il Governo è stato delegato a riformare il Sistema sanzionatorio penale
tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei
comportamenti, prevedendo l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione
fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie.
La delega è stata attuata dal legislatore con i decreti legislativi n.128/2015 e n.158/2015.

2. La disciplina delle sanzioni penale tributarie


Un primo intervento organico in materia si ebbe con la legge del 7 gennaio 1929, n.4, che delineò i
principi fondamentali del sistema sanzionatorio tributario.
Particolare rilevanza assumeva la regola della c.d. “pregiudiziale tributaria”, una specie di “autorizzazione
a procedere che l’Amministrazione finanziaria concedeva agli organi dell’accusa”, per effetto della quale
l’azione penale poteva aver corso solo dopo che fosse divenuto definitivo l’accertamento tributario, a
seguito di mancata impugnazione ovvero di passaggio in giudicato della pronuncia degli organi di
giurisdizione tributaria.
Ragioni di economia processuale e di effettività della misura sanzionatoria hanno indotto il legislatore
tributario ad abbandonare la regola della pregiudiziale per introdurre quella del c.d “doppio binario”,
secondo la quale il processo penale poteva avere inizio senza attendere gli esiti del contenzioso tributario.
Era così consacrato il principio dell’autonomia e della separazione delle giurisdizioni. Invero, il giudicato
penale avrebbe potuto avere autorità nel processo tributario per quanto riguarda “i fatti materiali che
sono stati oggetto del giudizio penale”.
In base ai “fatti materiali” gli uffici fiscali potevano procedere ad accertamenti ed integrare, modificare o
revocare le pene pecuniarie previste per i fatti stessi dalle disposizioni in materia di imposte sui redditi e
sul valore aggiunto.
Il d.lgs. 10 marzo 2000, ha rafforzato l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario,
vietando all’art.20 la sospensione del procedimento amministrativo di accertamento ovvero del processo
tributario anche quando abbiano per “oggetto i medesimi atti o fatti dal cui accertamento dipenda la
relativa definizione”, e abbandonando lo schema del reato c.d. prodromico (risalente al 1982).
La riforma muoveva dall’intento di alleggerire il carico di lavoro degli uffici giudiziari, limitando l’impiego
della sanzione penale a situazioni di evasione di maggiore gravità.
Passando ad analizzare la fattispecie di reato previste dal d.lgs. n.74/2000, va evidenziato che si tratta di
fattispecie delittuose punibili esclusivamente a titolo di “dolo specifico”, vale a dire ispirati dal fine
specifico dell’evasione, in base al quale “il fine di evadere le imposte” e “il fine di consentire a terzi
l’evasione”, si intendono comprensivi, rispettivamente, anche del fine di conseguire un indebito rimborso
o il riconoscimento di un inesistente credito d’imposta. Conseguenza è che l’elemento del “dolo specifico”
richiesto dalla norma incriminatrice esclude la rilevanza penale di ogni altro fine diverso perseguito,
ancorché illecito. Tra i reati tributari, particolare rilevanza presentano quelli in “materia di dichiarazione”,
segnatamente la “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti”, la “dichiarazione infedele” e “la omessa dichiarazione”. Sono inoltre perseguibili penalmente i
delitti “in materia di documenti”, “emissioni di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”.

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Sono contemplate ulteriori fattispecie delittuose sempre “in materia di pagamento delle imposte”, ovvero
sia: ”omesso versamento di ritenute dichiarate o certificate”, “omesso versamento di iva”, e “indebita
compensazione”, delitti per la cui configurazione è invece richiesto quale elemento soggettivo il “dolo
generico”.
Allo scopo di limitare l’intervento penale ai soli casi maggiormente offensivi per gli interessi dell’erario, il
legislatore tributario ha subordinato la concreta punibilità per i “delitti in materia di dichiararne” al
superamento di determinate soglie di punibilità, riferite all’imposta evasa e/o agli “elementi attivi”
sottratti all’imposizione.
Per imposta evasa si intende la “differenza tra l’imposta effettivamente e quella indicata in dichiarazione,
ovverosia l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal
contribuente”.
Non si considera “imposta evasa” quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a “una rettifica in
diminuzione di perdite dell’esercizio”, “perdite pregresse spettanti e utilizzabili”. Ne consegue che
l’imposta evasa non è più quella teorica derivante dalla violazione accertata, ma quella effettiva dopo il
computo delle perdite stesse. Ai fini della determinazione degli “elementi attivi” sottratti all’imposizione
fiscale, per “elementi attivi” si intendono tutte le componenti comunque costituite o denominate, che
concorrono in sensi positivo (ricavi e compensi, plusvalenze, sopravvenienze attive, dividendi e interessi
ecc.).
Per elementi passivi fittizi il decreto di riforma non lascia spazio a dubbi prevedendo che la parola “fittizi”
sia ora sostituita con “inesistenti”. Ne consegue che nessun costo realmente sostenuto potrà alimentare
l’imposta evasa ai fini penali.
Sempre nella prospettiva della riduzione dell’area dell’intervento penale, si colloca l’innalzamento delle
soglie di punibilità del delitti di “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”, di “dichiarazione
infedele” e di “omessa dichiarazione”; la riforma del d.lgs. n.158/2015 ha anche rafforzato la componente
“riscossiva” del modello di tutela penale vigente.
In particolare, il riformato art.13, in luogo dell’originaria “circostanza attenuante” del pagamento del
debito tributario, prevede, ora, una “causa di non punibilità” in relazione sia ai diletti di omesso sia in
relazione ai delitti di “dichiarazione infedele” e di “omessa dichiarazione”, consistente nel pagamento del
debito d’imposta unitamente alle sanzioni amministrative e agli interessi dovuti. In ultimo la novella ha
introdotto il nuovo art. 18-bis, relativo alla custodia giudiziale dei beni oggetto di sequestro, nell’ambito
dei procedimenti penali relativi ai delitti tributari, “se diversi dal senato e dalle disponibilità finanziarie,
possono essere affidati dall’Autorità giudiziaria in custodia giudiziale, agli organi dell’Amministrazione
finanziaria che ne facciano richiesta per le proprie esigenze operative”.

3. La dichiarazione fraudolenta
La dichiarazione fraudolenta è quella redatta sulla base di un impianto contabile artificioso atto a sviare la
successiva attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria o comunque ad avvalorare
“l’inveritiera prospettazione dei dati in essa racchiusa”. Il legislatore ha individuato due fattispecie di
reato: la “dichiarazione fraudolenta su fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti” e la
“dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”. La prima fattispecie punisce “con la reclusione da 4 a 8
anni chiunque,
al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni relative alle
suddette imposte, elementi passivi fittizi”.
La novella del 2000 ha introdotto la nuova nozione di “frode fiscale” riferita alla dichiarazione fraudolenta
fondata su falsa documentazione, idonea a fornire una falsa rappresentazione contabile della situazione
fiscale del contribuente. Il secondo comma dell’art. 2 in esame, precisa, che il fatto si considera
commesso avvalendosi di “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”.
A norma dell’art.9 lett. b) del richiamato dettato normativo “chi si avvale di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto
dall’art.8”.
Con l’art. 39 del d.lgs. 158, il legislatore, con riferimento alla fattispecie penale di dichiarazione
fraudolenta, eleva la pena edittale a 4 anni nel minimo e 8 anni nel massimo.
Invero, non essendo prevista alcuna soglia di rilevanza penale, la suindicata fattispecie delittuosa può
essere integrata anche da condotte evasive di ridotta entità: tuttavia se “l’ammontare degli elementi
passivi fittizi (inesistenti) è inferire a centomila euro” trova applicazione una pena inferiore rispetto a
quella prevista per il reato base, pari ad un anno e sei mesi nel minimo e a sei anni nel massimo.
Siffatto irrigidimento sanzionatorio viene temperato dall’applicabilità della causa di non punibilità di cui
all’art. 13, comma 2, in caso di pagamento del debito tributario.

4. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici

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La seconda fattispecie delittuosa prevista dall’art. 3, rubricata “dichiarazione fraudolenta mediante altri
artifici”, sanziona penalmente chiunque, “compiendo operazioni simulate oggettivamente o
soggettivamente, ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare
l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni
relativa a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo”.
La fattispecie delittuosa richiamata conferisce rilevanza penale a quelle condotte di “frode fiscale”.
Particolare rilevanza anche per la gravità del fenomeno è quello delle “frodi carosello” che si configura
quando un soggetto, residente in un Paese UE, effettua, solo formalmente, cessioni di beni non imponibili
ad un soggetto residente in un altro Stato comunitario, provvedendo, tuttavia, alla spedizione o consegna
dei medesimi ad un soggetto diverso: il rivenditore (c.d. broker).
Quest’ultimo immette i prodotti sul mercato cedendoli o ad un operatore nazionale ovvero ad uno
comunitario, conseguendo in quest’ultimo caso un credito Iva generato da inesistenti acquisti effettuati.
Il d.lgs. n.158/2015 ha integralmente modificato il delitto in parola, semplificando la struttura dell’illecito
tramite l’eliminazione dell’elemento della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie”.
Invero, dal punto di vista soggettivo, il delitto si trasforma da “reato proprio”, in reato che può essere
commesso da qualunque soggetto tenuto a presentare una dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi o
sul valore aggiunto.
Dal punto di vista oggettivo, è stato espunto uno degli elementi imprescindibili della condotta, ovverosia
la “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie”.
L’elemento che contraddistingue questa ipotesi di reato da quella di dichiarazione infedele è la presenza
di una condotta insidiosa derivante dall’impiego di “artifici idonei ad ostacolare l’attività di accertamento e
a indurre in errore l’amministrazione finanziaria”, quali:
a. Operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente.
b. Altri mezzi fraudolenti idonei.
c. Documenti falsi; il nuovo comma 2 dell’art.3 del d.lgs. n.74/2000 precisa che “il fatto si considera
commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle scritture
contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione
finanziaria”.
La novella ha riformato la parte dedicata alla riscossione delle imposte non versate dal contribuente e le
modalità per aggredire il relativo patrimonio in capo alla persona fisica, attraverso il sequestro preventivo
funzionale alle “confisca per equivalente” e dell’ente collettivo per mezzo del sequestro preventivo
funzionale alla “confisca diretta”. La pena edittale è adatta elevata a 3 anni nel minimo e 8 anno nel
massimo.

5. La dichiarazione infedele
L’art. 4 del d.lgs. 74, rubricato “dichiarazione infedele”, sanziona penalmente chiunque “al fine di evadere
le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette
imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo”.
Con la riforma del 2015 sono state innalzate le soglie di punibilità; l’imposta evasa da 50 mila euro è
stata incrementata a 150 mila euro; mentre il valore assoluto della base imponibile sottratta
all’imposizione è stata anch’essa aumentata da due milioni a tre milioni di euro.
Con la novella del 2019, la pena edittale per la dichiarazione infedele passa a due anni nel minimo e
quattro anni e sei mesi nel massimo. La disciplina del 2019 ha abbassato notevolmente le soglie di
rilevanza penale, aventi oggetto il valore dell’imposta evasa e l’ammontare complessivo degli elementi
attivi sottratti all’imposizione.
Con il comma 1-ter dell’art. 4 che disciplina le valutazioni non punibili, non dando luogo “a fatti punibili le
valutazioni che differiscono in misura inferiore al10 per cento da quelle corrette, se considerate
complessivamente, e non più singolarmente”.

6. L’omessa dichiarazione
L’art. 5, d.lgs. n.74 del 2000, rappresenta l’unico reato “omissivo proprio”, punendo la condotta dei
contribuenti tenuti alla presentazione della dichiarazione annuale relativa alle imposte sui redditi,
all’imposta sul valore aggiunto o di sostituto d’imposta, i quali abbiano omesso tale adempimento al fine
di evadere il tributo.
Con la riforma del 2019, la pena edittale è stata elevata a 2 anni nel minimo e a cinque anni nel
massimo, nei confronti di chiunque “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non
presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte.

7. Regole comuni in materia sanzionatoria penale tributaria

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Nel derogare in via generale all’art. 56 Codice penale in tema di tentativo, l’art. 6 del d.lgs. n.74/2000,
stabilisce che le condotte di utilizzazione di fatture o documenti per operazioni inesistenti definite dall’art.
2 “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” e le altre
condotte descritte dagli artt. 3 “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” e 4 “dichiarazione
infedele”, non sono punibili a titolo di tentativo. L’emittente di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti e
chi concorre con il medesimo non sono punibili, a titolo di concorso, con l’utilizzatore della medesima
documentazione fittizia e chi concorre con quest’ultimo non è punibile a titolo di concorso nel reato
previsto dall’art. 8 del medesimo decreto.
Inoltre, le fattispecie delittuose di cui agli artt. 2, 3, 4 e 5 “non sono punibili se i debiti tributari,
comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti”.
A seguito dell’ultima modifica normativa, l’estinzione del debito tributario esclude la punibilità non
soltanto dei reati di omesso versamento delle imposte e di quelli di infedele ed omessa dichiarazione, ma
anche dei reati dichiarativi fraudolenti.
Per quanto attiene al rapporto tra sanzione penale tributaria e sanzione amministrativa, va segnalato il
principio di specialità, che comporta l’abolizione di quello del cumulo. Invero, “quando uno stesso fatto è
punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione
amministrativa si applica la disposizione speciale”; la norma, non chiarisce quale sia la sanzione speciale,
né quella amministrativa. Sembra pertanto che la specialità va individuata caso per caso.

8. Le sanzioni tributarie non penali


Con l’art. 3 comma 133, legge 22 dicembre 1996 n.662, il Governo è stato delegato a emanare uno o più
decreti legislativi recanti disposizioni per la revisione organica e il completamento della disciplina delle
sanzioni tributarie non penali. La disciplina richiamata è stata profondamente modificata dal d.lgs.
n.158/2015.
Nell’ambito delle disposizioni generali, ex art 2 decreto legislativo n.472/1997, è stato previsto un solo
tipo di sanzione amministrativa, consistente nel pagamento di una domma di denaro, in luogo di
soprattasse e pene pecuniarie.
Invero, la sanzione irrogata è determinata in misura variabile tra un minimo e un massimo ovvero in
misura proporzionale al tributo evaso. A tal riguardo, l’Amministrazione finanziaria deve tener conto della
gravità della violazione, desunta anche dalla condotta dell’agente.
Nel caso di recidiva, è invece consentita la maggiorazione della sanzione fino alla metà.
Particolare rilevanza ha il rafforzamento del principio di responsabilità personale del soggetto agente,
tenendo anche conto della riferibilità della sanzione alla persona fisica autrice della violazione; è stabilita,
inoltre, l’intrasmissibilità della sanzione agli eredi in caso di morte del contribuente, la previsione di
alcune cause di non punibilità come l’errore incolpevole, la forza maggiore e l’obiettiva incertezza della
legge, la disciplina del concorso di persone.
Secondo l’originaria impostazione, la sanzione amministrativa doveva essere applicata alla persona fisica
che ha commesso o concorso a commettere la violazione.
La l.24 novembre 2003, ha modificato questa impostazione, prevedendo che “le sanzioni amministrative
relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico
della persona giuridica”, per cui in tali casi la responsabilità non è più di tipo personale ma viene
attribuita all’ente collettivo.
Alla sanzione amministrativa principale, di tipo pecuniario, si aggiungono sanzioni accessorie, a contenuto
interdittivo, nei casi espressamente previsti dalla legge, art. 21 “l’interdizione, per una durata massima di
6 mesi, delle cariche di amministratore, sindaco o revisore di società di capitali e di anti con personalità
giuridica, pubblici o privati; l’interdizione dal conseguimento di licenze, concessioni o autorizzazioni
amministrative per l’esercizio delle imprese o di attività di lavoro autonomo e la loro sospensione, perla
durata massima di 6 mesi; la sospensione, per la durata massima di 6 mesi, dall’esercizio di attività di
lavoro autonomo o di impresa”. L’istituto del “ravvedimento” è previsto dall’art. 13 del d.lgs. n.472/1997.
Le finalità del ravvedimento sono quelle di permettere all’autore e ai soggetti solidamente obbligati di
rimediare spontaneamente alle omissioni e alle irregolarità commesse, beneficiando così di una
consistente riduzione delle sanzioni amministrative. Da un lato, quindi, il contribuente provvede
spontaneamente alla regolarizzazione delle violazioni commesse, dall’altro ottiene uno “sconto” delle
sanzioni.
Il ravvedimento operoso può trovare applicazione con riguardo a tutte le violazioni di tutti i tributi. Prima
delle modifiche introdotte dalla citata legge n.190 del 2014, la regolarizzazione dell’inadempimento
poteva avvenire, a pena di nullità, entro termini rigorosi e, soprattutto, prima che la violazione fosse
contestata o accertata o fossero iniziate attività di controllo.
La novella ha previsto l’applicazione del ravvedimento a prescindere dalla circostanza che la violazione sia
già stata oggetto di accertamento ovvero che siano iniziati accessi, ispezioni verifiche o altre attività di

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accertamento. È necessario, in ogni caos, che il contribuente non abbia ricevuto la notifica di un atto di
liquidazione o di accertamento. L’omesso o insufficiente pagamento dei tributi “deve essere seguito
contestualmente alla regolarizzazione del pagamento del tributo o della differenza, quando dovuti,
nonché al pagamento degli interessi moratori calcolati al tasso legale con maturazione giorno per giorno”.
Quando la liquidazione deve essere eseguita, invece, dall’ufficio “il ravvedimento si perfeziona con
l’esecuzione dei pagamenti nel termine di 60 giorni dalla notificazione dell’avviso di liquidazione”. Possono
essere regolarizzate: le imposte dovute a titolo di acconto o di saldo in base alla dichiarazione dei redditi
(Irpef, Ires, Irap); le ritenute alla fonte operate dal sostituto d’imposta, l’imposta sul valore aggiunto
(IVA); l’imposta di registro, l’imposta ipotecaria, l’imposta catastale.
La sanzione è ridotta: ad un decimo del minimo nei casi di mancato pagamento del tributo o di un
acconto, se esso viene eseguito nel termine di 30 giorni dalla data della sua commissione, ad un nono del
minimo se la regolarizzazione degli errori avviene entro 90 giorni dalla data dell’omissione o dell’errore.
Per sanare gli omessi o tardivi versamenti dei tributi, i contribuenti dispongono di diversi tipi di “perdono”
che possono ridurre la sanzione del 30% che, per i versamenti fatti con ritardo non superiore a 90 giorni
è del 15%.

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CAPITOLO 5: IL PROCESSO TRIBUTARIO

1. Gli organi della giurisdizione tributaria


Sorte come organi amministrativi investite di funzioni di accertamento di secondo grado, le Commissioni
tributarie solo col tempo hanno assunto la natura di organi giurisdizionali.
Le commissioni comunali e quelle provinciali erano composte da membri designati dai consigli comunali o
consorziali consigli provinciali, dalle camere di commercio e dal Prefetto. Le commissioni di prima istanza
furono spogliate del potere di accertamento del reddito, definitivamente attribuito all’agente finanziario.
Le pronunce del giudice delle leggi indussero, tuttavia, il legislatore a riformare la struttura e il rito del
giudizio tributario con la legge delega n. 825 del 1971.
Sia con la riforma degli anni 70 e finalmente con i decreti legislativi n.545 e 546 del 1992, gli organi del
contenzioni tributario hanno finalmente assunto piena natura giurisdizionale. In questo senso si esprime
l’art. 1, primo comma del d.lgs. 546, in base al quale “la giurisdizione in materia tributaria è esercitata
dalle Commissioni tributarie provinciali e dalle Commissioni tributarie regionali di cui all’art. 1, d.lgs.
n.545”.

2. Il riordino delle giustizia tributaria nelle più recenti proposte


La Corte costituzionale ha chiarito che il legislatore ordinario non è vincolato a mantenere immutato
l’assetto delle Commissioni tributarie, ben potendo trasformare o riordinare i giudici speciali anche in
modo graduale o “ristrutturarli nuovamente anche nel funzionamento e nella procedura”. La stessa Corte
non ha escluso un ulteriore riordino e, afferma che “è assolutamente indispensabile, al fine di evitare
gravi conseguenze, che il legislatore intervenga onde adeguare il processo tributario all’art. 101 della
Costituzione, correttamente interpretato”.
L’impianto della nuova struttura giurisdizione, non più incardinata nel Ministero dell’economia e delle
finanze ma nella Presidenza del Consiglio dei ministri, dovrebbe essere ordinato in tre gradi di giudizio:
Tribunali tributari, Corti d’Appello tributarie e una sezione speciale tributaria della Cassazione, prevista in
ultima istanza.
Il progetto di riforma è completato con l’istituzione di un giudice onorario per le controversie di minimo
valore (non superiore ai 3 mila euro). La proposta di istituzione di un giudice tributario professionale full
time è stata nel tempo avanzata dalla dottrina tributaria in quanto ritenuta più aderente ai principi e alle
garanzie del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.
Tra le proposte più autorevoli, particolare attenzione merita quella del Consiglio di Presidenza della Corte
dei conti che auspica la concentrazione nella stessa Magistratura contabile “la salvaguardia degli interessi
dell’Erario e del fisco, in una visione di miglior sviluppo funzionale dei rapporti esterni tra i terzi
contribuenti”.
La proposta, criticata da più parti, è stata ritenuta di dubbia costituzionalità sia con riguardo ai principi
che governano l’imposizione (capacità contributiva), sia quelli in materia di processo.
Da ultimo lo stesso Presidente del Consiglio ha lanciato l’idea di intervenire sull’assetto della giustizia
tributaria riducendo un grado di giudizio, al fine di contrarre i tempi, peraltro nemmeno lunghi, del
processo tributario.
Lo scorso 5 marzo 2020 è stata infine presentata la proposta “di ricondurre il giudice speciale tributario
nell’alveo della giurisdizione ordinaria per riconoscere piena dignità al processo tributario, accelerando la
sua parificazione con quello civile, nel comune interesse del fisco e del contribuente. “Più precisamente
viene proposta la devoluzione delle controversie tributarie a sezioni socializzate in materia tributaria in
primo grado, presso i Tribunali e in secondo presso la Corte di appello.

3. Rapporto tra processo tributario e processo civile. Il rinvio recettizio alle


disposizioni del Codice di procedura civile
Il rinvio alle norme del Codice di procedura civile appare subordinato a due condizioni:
1. Nessuna delle norme del d.lgs. n.546 disciplini compiutamente la fattispecie sia pure mediante
interpretazione estensiva.
2. La norma processual civilistica sia compatibile con quella del decreto legislativo medesimo.

4. La giurisdizione delle Commissioni tributarie


La riforma del 1992 attribuiva alle commissioni tributarie le controversie in materia di imposte sui redditi,
imposta sul valore aggiunto, imposta comunale, imposta di registro, imposta sulle successioni e
donazioni, imposte ipotecarie e catastali.

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L’art. 12, comma 2 della l.28 dicembre 2001 n.448 ha esteso la sfera di cognizione delle Commissioni
tributarie a tutte le controversie aventi ad oggetto “i tributi di ogni genere e specie comunque
denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario
nazionale, le sovrimposte e le addizionali, le relative sanzioni nonché gli interessi e ogni altro accessorio”.
La giurisdizione della Commissioni tributarie tende così ad atteggiarsi come giurisdizione a carattere
generale ed esclusiva, comprendente qualunque rapporto di carattere tributario, con la sola esclusione
delle controversie relative agli atti dell’esecuzione forzata. Sono invece ricopribili davanti al giudice
amministrativo, a condizione che siano lesivi di un interesse legittimo di cui sia portatore il ricorrente, i
regolamenti e gli atti amministrativi generali in materia catastale, quali, ad esempio quelli recanti la
revisione delle stesse tariffe d’estimo, ovvero quelli adottati dalle Commissioni censuarie territoriali e
centrale.

5. Atti impugnabili e giudizio dinanzi la Commissione tributaria provinciale


Sebbene il processo tributario venga introdotto attraverso l’impugnazione di un atto dell’amministrazione
finanziaria, del concessionario per la riscossione delle imposte, dell’ente locale o dell’ente pubblico che
abbia adottato l’atto stesso, esso ha sicuramente per oggetto situazioni di diritto soggettivo riconducibili a
rapporti di tipo obbligatorio. Il giudizio tributario si configura come giudizio di impugnazione-merito, in
quanto esso resta preordinato all’accertamento del rapporto sostanziale d’imposta, vale a dire dell’an e
del quantum. Il ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale costituisce, pertanto, soltanto il
veicolo d’accesso al giudizio, il giudice, verificata l’ammissibilità dello stesso e la legittimità dell’atto
impugnato, orienta la propria attività verso i profili sostanziali del rapporto tributario, dovendo conoscere
le situazioni giuridiche soggettive di natura creditoria o debitoria dedotte nel processo. Il petitum
consiste, infatti, nell’accertamento della sussistenza o meno del diritto di credito vantato
dall’amministrazione finanziaria con l’atto impugnato. Ciò significa che il giudice tributario non possa
prescindere dal thema decidendum che resta definito nel suo perimetro dalla motivazione dell’atto
impugnato e dai motivi del ricorso. Orientando l’analisi verso gli atti impugnabili, è utile ricordare che
l’elencazione contenuta nell’art. 19, d.lgs. 546/1922 individua diverse tipologie di atti, distinte per natura
e funzione.
Per effetto della norma richiamata può essere presentato ricorso alle commissioni tributarie avverso
uno dei seguenti atti:
1. Avviso di accertamento.
2. Avviso di liquidazione delle imposte.
3. Provvedimento che irroga le sanzioni.
4. Il ruolo e la cartella di pagamento.
5. L’avviso di mora.
6. L’iscrizione di ipoteca sugli immobili.
7. Il fermo di beni mobili registrati.
8. Gli atti relativi alle operazioni catastali.
9. Il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi.
10. Il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata dei rapporti
tributari.
11. Ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità.
Il ricorso alla commissione tributaria provinciale deve contenere l’indicazione dell’organo adito, delle
generalità del ricorrente e del suo legale rappresentante, dell’ufficio contro cui è proposto, dell’atto
impugnato, dell’oggetto della domanda e dei motivi di impugnazione.
Il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore e contenere l’indicazione:
a. Della categoria di cui all’art. 12 alla quale appartiene il difensore.
b. Dell’incarico a norma dell’art.12,comma 7.
c. Dell’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore.
La mancata indicazione o l’assoluta incertezza di uno di tali elementi ovvero la mancata sottoscrizione da
parte del difensore abilitato incaricato rendono inammissibile il ricorso. Entro 30 giorni dalla proposizione
di tale atto, il ricorrente è tenuto, a pena di inammissibilità, rilevabile in ogni stato e grado di giudizio, a
costituirsi in giudizio, mediante deposito del ricorso nella segreteria della Commissione tributaria.
Del tutto nuova è la fase, immediatamente successiva a quella introduttiva, dell’esame preliminare del
giudizio, prevista al fine di sgomberare il contenzioso dei ricorsi palesemente inammissibili che in passato
ero proposti per motivi dilatori. Tale fase viene affidata al Presidente della sezione il quale, scarti i termini
per la costituzione in giudizio delle parti, vi provvede con decreto.
Nel corso dell’udienza di trattazione, la commissione tributaria può ritenere istruita la controversia e
quindi, deliberare la decisione nel segreto della camera di consiglio. Il collegio giudicante può

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eventualmente ritenere opportuno avvalersi dei poteri istruttori di accesso, ispezione e verifica previsto
dalle leggi d’imposta (iva e redditi).
La fase decisoria si completa con l’adozione della sentenza, la quale viene resa pubblica, nel testo
integrale originale, mediante deposito nella segreteria della commissione tributaria entro 30 giorni dalla
deliberazione. l’art. 36 d.lgs. 546/1992, intitolato “contenuto della sentenza”, stabilisce, infatti, che essa
debba contenere l’indicazione della composizione del collegio, delle parti e dei loro difensori abilitati.
Tra le novità più significative del d.lgs. 546/1992 va segnalata la previsione dell’obbligo dell’assistenza
tecnica per le controversie di valore superiore a 3 mila euro.
Superando il principio della gratuità del processo che aveva caratterizzato il sistema precedente, la
riforma del 1992 introduce la condanna alle spese in caso di soccombenza o per responsabilità
processuale aggravata.

6. Tutela cautelare e conciliazione giudiziale


L’art. 47 d.lgs. 546 del 1992 attribuisce alle commissioni tributarie il potere di sospendere l0esecuzione
dell’atto impugnato, ove derivi al ricorrente un danno grave e irreparabile. L’istanza di sospensione,
adeguatamente motivata, può essere richiesta nel ricorso introduttivo o con istanza separata, notificata
alle altre parti e depositata in segreteria. La commissione, sentite le parti, deliberato il merito e valutato il
periculum in mora, provvede, con ordinanza motivata, in camera di consiglio.
La l. 106/2011, in sede di conversione del d.l. n.70/2011, ha introdotto la sospensione ope legis
dell’esecuzione forzata per un periodo di 180 giorni dall’affidamento degli atti in carico agli agenti della
riscossione e ai sensi dell’art. 47 comma 5-bis, che listata di sospensione debba essere decisa entro
180 giorni dalla data di presentazione della stessa.
Fanno eccezione, due casi:
1. Nel corso dei 180 gironi di blocco delle esecuzioni, l’agente della ritorsione potrà ugualmente
procedere alle azioni cautelari conservative (ipoteche, fermi amministrativi).
2. La sospensione non opera in caso di fondato pericolo per la riscossione.
Il contribuente può comunque chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da questa può
derivargli un danno grave e irreparabile.
In caso di eccezionale urgenza il presidente, previa deliberazione del merito, può disporre con decreto
motivato la sospensione dell’esecutività della sentenza fino alla pronuncia del collegio. Il collegio, sentite
le parti in camera di consiglio e deliberato il merito, provvede con ordinanza motivata non impugnabile.
La sospensione può essere subordinata alla prestazione della garanzia.
Per il giudizio di Cassazione, è stato introdotto l’art. 62 bis che prevede un procedimento del tutto
analogo: la parte che ha proposto il ricorso per cassazione può chiedere alla commissione che aha
pronunciato la sentenza impugnata di sospendere in tutto o in parte l’esecutività allo scopo di evitare un
danno grave e irreparabile.
In particolare, l’organo giudicante non potrà pronunciarsi sulla richiesta di sospensione se la parte istante
non dimostra di avere depositato il ricorso per cassazione contro la sentenza.
Più complesso appare il procedimento conciliativo. Sono previste diverse ipotesi: la conciliazione fuori
dall’udienza e quella in udienza. Nel primo caso, se in pendenza del giudizio le parti raggiungono un
accodo conciliativo, presentano istanza congiunta sottoscritta personalmente o dai difensori per la
definizione totale o parziale della controversia. Se la data di trattazione è già fissata e sussistono le
condizioni di ammissibilità, la commissione pronuncia sentenza di cessazione della materia da
contendere; se invece l’accordo conciliativo è parziale, la commissione dichiara con ordinanza la
cessazione parziale della materia del contendere e procede alla ulteriore trattazione della causa.
La conciliazione fuori udienza si perfeziona con la sottoscrizione dell’accordo, nel quale sono indicate le
somme dovute con i termini e le modalità di pagamento. L’accordo costituisce titolo per la riscossione
delle somme dovute al contribuente. Nel caso della conciliazione in udienza, l’accordo conciliativo viene
raggiunto in udienza. La conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale, sottoscritto
dalle parti, oltre che dal presidente del collegio e dal segretario della commissione, nel quale sono
indicate le somme dovute coni termini e le modalità di pagamento; tale processo verbale costituisce titolo
per la riscossione delle somme dovute al contribuente. La commissione dichiara con sentenza l’estinzione
del giudizio per cessazione della materia del contendere.
Attraverso la conciliazione il contribuente accede ad incentivi premiali: le sanzioni amministrative si
applicano nella misura del 40% del minimo previsto dalla legge, in caso di perfezionamento della
conciliazione del corso del rimo grado di giudizio e nella misura del 50% del minimo previsto dalla legge,
in caso di perfezionamento nel corso del secondo grado di giudizio.

7. Reclamo e mediazione

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L’art. 39 comma 9 del d.l. 6 luglio 2011 ha introdotto l’art. 17 bis relativo all’istituto del reclamo
obbligatorio, con la finalità di rendere più spedite le controversie c.d. minori, vale a dire quelle di valore
non superiore a 50 mila euro. La norma pone quale condizione di procedibilità del ricorso, la
presentazione di un reclamo presso l’amministrazione finanziaria da cui promana l’accertamento da
impugnare.
Il reclamo va presentato entro il termine temporale previsto per la preposizione del ricorso giurisdizionale
presso la Direzione provinciale o la Direzione regionale che ha emanato l’atto. La fase successiva è
affidata ad apposite strutture diverse ed autonome. Anche per il reclamo la legge fissa gli elementi
basilari. Esso deve contenere le ragioni di fatto e di diritto per cui si ritiene che l’atto impositivo sia
illegittimo e, in via facoltativa, può contenere una motivata proposta di mediazione. La procedura del
reclamo si deve concludere entro il termine di 90 giorni dalla sua presentazione all’ufficio competente.
All’esito sono possibili diverse soluzioni: in primo luogo il reclamo può essere accolto, con conseguente
annullamento (totale o parziale) in autotutela dell’atto impositivo emesso o adesione alla proposta di
mediazione formulata dal contribuente. Nel caso in cui le pretese del contribuente siano reputate
infondate, non è necessario manifestare espresso provvedimento di diniego poiché il silenzio equivale al
rifiuto dell’istanza.
Col decorso del termine di 90 giorni senza alcun esito per l’instaurata procedura, il reclamo produce gli
effetti del ricorso.
Nelle controversie avanti ad oggetto un atto impositivo o di riscossione, la mediazione si perfeziona con il
versamento entro il termine di 20 giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo tra le parti, delle somme
dovute; nelle controversi aventi ad oggetto la restituzione di somme, la mediazione si perfeziona con la
sottoscrizione di un accordo nel quale sono indicate le somme dovute con i termini e le modalità di
pagamento.

8. Le impugnazioni e l’esecuzione della sentenza


Per quanto concerne i mezzi di impugnazione, l’art. 50 d.lgs. n.546/1992 ammette l’appello, il ricorso per
Cassazione e la revocazione.
Le sentenze della commissioni tributarie possono essere impugnate entro il termine breve di 60 giorni
dalla notificazione della sentenza a istanza di parte o, in mancanza, nel termine lungo di 6 mesi dalla
pubblicazione della stessa. In tale giudizio, non possono proporsi domande nuove e, se proposte, devono
dichiararsi inammissibili d’ufficio e non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili d’ufficio.
Il giudice d’appello inoltre non può disporre nuove prove a meo che non le ritenga necessarie ai fini della
decisione.

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