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Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Simone


S.p.A.
(art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30)

Di particolare interesse per i lettori di questo volume segnaliamo:


13 - Contabilità di Stato e degli enti pubblici
25 - Diritto degli enti locali
25/4 - Contabilità e finanza degli enti locali
171 - Il nuovo ordinamento degli enti locali
271 - Elementi di contabilità di Stato e degli enti pubblici
E/10 - Testo Unico degli enti locali esplicato
328/1 - Collaboratore professionale e istruttore negli enti locali (area
amministrativa)
328/2 - Istruttore direttivo e funzionario negli enti locali (area
amministrativa)

Il catalogo aggiornato è consultabile sul sito internet: www.simone.it


ove è possibile anche scaricare alcune pagine saggio dei testi pubblicati

Volume a cura di Giuseppe Milano

Finito di stampare nel mese di settembre 2015


per conto della SIMONE S.p.A. - Via F. Russo, 33/D - 80123 - Napoli
Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno
PREMESSA

Il volume affronta in modo sintetico ma esaustivo i principali aspetti


riguardanti l’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, materia che
negli ultimi anni è stata oggetto di due importanti riforme ispirate,
rispettivamente, ai principi del federalismo fiscale e alla necessità di
armonizzare i sistemi contabili degli enti territoriali, al fine di assicurare loro
un’effettiva autonomia finanziaria e di facilitare il confronto e il consolidamento
dei dati di bilancio dell’intero settore pubblico.
Ampio spazio è dedicato, inoltre, ad argomenti di grande interesse quali, ad
esempio, il patto di stabilità interno, il vincolo del pareggio di bilancio e le
procedure di risanamento dell’ente in deficit o in dissesto.

Tutti gli argomenti sono analizzati alla luce delle più recenti novità legislative,
fra le quali:

il D.L. 78/2015 (cd. decreto enti locali 2015), conv. in L. 125/2015,


che ha, fra le altre cose, modificato la disciplina del patto di stabilità
interno e prorogato i termini per il riaccertamento straordinario dei

residui;
il D.L. 192/2014 (cd. decreto milleproroghe 2015), conv. in L. 11/2015,

che ha rinviato al 2016 l’adozione dell’imposta municipale secondaria e


introdotto novità in tema di riequilibrio finanziario degli enti locali;
la L. 190/2014 (legge di stabilità 2015), che ha definito la disciplina del

patto di stabilità interno per il triennio 2015-2018 e dettato norme volte a


facilitare l’avvio del processo di armonizzazione contabile degli enti
territoriali;
il D.Lgs. 126/2014, che ha definito le modalità di realizzazione del
processo di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio

degli enti locali, indicando nel 2015 l’anno della definitiva entrata in vigore
del nuovo regime.

Il testo si caratterizza per la chiarezza espositiva e per la presenza di brevi


glossari e di risposte ai quesiti più ricorrenti in sede di esame o di
concorso, risultando uno strumento utile per coloro che devono sostenere
esami universitari o partecipare a concorsi banditi dagli enti locali nell’area
economico-finanziaria.
CAPITOLO 1
L’AUTONOMIA FINANZIARIA, LA POTESTÀ REGOLAMENTARE E IL
PATTO DI STABILITÀ

SOMMARIO

1 L’autonomia finanziaria di Comuni e Province. 2 La potestà


regolamentare. 3 Il patto di stabilità interno.

1 L’AUTONOMIA FINANZIARIA DI COMUNI E PROVINCE

A) La Costituzione: le modifiche all’art. 119

Prima della riforma operata con la L. cost. 3/2001, la Costituzione non


riconosceva espressamente autonomia finanziaria e tributaria a Comuni e
Province: l’art. 119, affermando l’autonomia finanziaria delle Regioni, si limitava
a stabilire che le leggi della Repubblica coordinavano la finanza regionale con la
finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni.
Ora, il nuovo testo dell’art. 119 Cost. attribuisce a Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni una piena e completa autonomia finanziaria in tema
di entrate e di spese, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e
concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici finanziari derivanti
dall’ordinamento dell’Unione europea (comma 1). Il riferimento all’equilibrio dei
bilanci è stato recentemente introdotto dalla L. cost. 20 aprile 2012, n. 1,
che ha introdotto nella Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio per lo
Stato, al fine di porre un freno alla crescita del debito pubblico e di arginare gli
effetti della grave crisi economica e finanziaria che sta interessando in questi
ultimi anni l’intera economia mondiale.

Modificando l’art. 81 della Costituzione, la legge costituzionale


menzionata prevede, infatti, che lo Stato deve assicurare
l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo
conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo
economico, e che il ricorso all’indebitamento è consentito solo al
fine di considerare gli effetti del ciclo economico e al verificarsi di
eventi eccezionali (previa autorizzazione delle Camere da adottarsi
a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti). Tale vincolo è
stato quindi esteso, attraverso la modifica dell’art. 119, anche alle
Regioni e agli enti locali. Si noti, tuttavia, che le modifiche
introdotte dalla L. cost. 1/2012 si applicano solo a decorrere
dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014.

Per finanziare le funzioni pubbliche che sono loro attribuite (comma 4), gli enti
citati dispongono di proprie risorse, stabiliscono e applicano tributi ed altre
forme di entrate proprie, ed inoltre dispongono di compartecipazioni al gettito di
tributi erariali che provengono dal loro territorio (comma 2). Quanto detto è
previsto compatibilmente con i principi costituzionali, con i principi di
coordinamento della finanza pubblica e col sistema tributario nazionale. Tale
riserva costituzionale, si noti, mira a dettare un minimo di coordinamento
indispensabile per la disciplina delle grandi linee dell’attività di entrata e di
spesa delle autonomie locali, soprattutto in un contesto in cui il sistema Paese
deve sempre più rapportarsi alla dimensione europea ed evitare squilibri e
scompensi nella gestione del debito pubblico.
L’intervento riequilibratore centrale è comunque assicurato, in quanto per singoli
specifici obiettivi lo Stato può destinare risorse aggiuntive ed interventi speciali
in favore di singoli enti (comma 5). Inoltre, lo Stato prevede e finanzia un fondo
perequativo per le necessità degli enti con minore capacità contributiva
(fiscale) per abitante; detto fondo è utilizzabile con margini di manovra
abbastanza liberi per lo Stato, in quanto non è sottoposto ad alcun vincolo di
destinazione (comma 3).
Le risorse degli enti locali, comunque, possono derivare anche dalla gestione e
dallo sfruttamento del loro patrimonio, attribuito secondo i principi generali
fissati con legge dello Stato, nonché dal ricorso all’indebitamento, che tuttavia è
possibile solo per finanziare le spese di investimento, e che va effettuato senza
garanzie dello Stato sui prestiti stipulati (comma 6).

La citata L. cost. 1/2012, modificando anche il sesto comma


dell’art. 119, dispone, tuttavia, che il ricorso all’indebitamento
debba avvenire con la contestuale definizione di piani di
ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di
ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio, secondo
modalità che dovranno essere definite, entro il 28 febbraio 2013,
con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di
ciascuna Camera. Anche tale disposizione si applica a decorrere
dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014.

La riforma così delineata vorrebbe istituire un sistema di federalismo


cooperativo o solidale che riprende e perfeziona la riforma iniziata col D.Lgs.
267/2000 e che, se da un lato promuove una maggiore autonomia di Regioni ed
enti locali (responsabilizzandoli in tale compito), non li abbandona a se stessi,
soprattutto per consentire alle comunità locali di poter usufruire di uno
standard di servizi uniforme su tutto il territorio nazionale, pur con le dovute
differenze e nel rispetto delle autonomie riconosciute.

B) La L. 5 maggio 2009, n. 42

Come anticipato, l’art. 119 Cost., nella nuova formulazione introdotta dalla L.
cost. 3/2001, attribuisce a Regioni ed enti locali autonomia finanziaria di entrata
e di spesa, partendo dal presupposto che, in un sistema pubblico articolato, ogni
livello di governo deve poter disporre di risorse finanziarie sottoposte al proprio
autonomo controllo e necessarie allo svolgimento delle funzioni che sono di sua
esclusiva competenza (cosiddetto principio del parallelismo tra le funzioni
esercitate dall’ente e le risorse di cui dispone per esercitare tali funzioni).
Al fine di favorire la piena attuazione di tali principi, con L. 5 maggio 2009,
n. 42, il Parlamento ha delegato il Governo ad adottare una serie di decreti
legislativi in materia di federalismo fiscale, indicando nel contempo i principi
fondamentali a cui tali decreti devono attenersi.

In tale ottica, la L. 42/2009 introduce un’importante novità stabilendo (art. 11)


che il finanziamento delle spese relative alle funzioni fondamentali degli enti
locali deve essere assicurato:

dai tributi propri;

da compartecipazioni al gettito di tributi erariali e regionali e da

addizionali a tali tributi;

dal fondo perequativo.

Conseguentemente, è prevista la soppressione dei trasferimenti statali


diretti al finanziamento di tali spese, ad eccezione degli stanziamenti destinati
ai fondi perequativi. Il medesimo articolo prevede, inoltre, che nella definizione
delle spese relative a tali funzioni il criterio della spesa storica venga sostituito
dal criterio del fabbisogno standard (in pratica, per ogni servizio erogato dagli
enti locali verrà stabilito un costo standard), al fine di eliminare il meccanismo
perverso che finora, facendo riferimento alla spesa storica, finiva con il
premiare con maggiori risorse gli enti che spendevano di più.
Un primo passo in tale direzione è stato compiuto con l’approvazione del
D.Lgs. 26 novembre 2010, n. 216, recante disposizioni in materia di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città
metropolitane e Province.

Tale decreto detta i principi per la determinazione dei fabbisogni


standard, delineando un iter piuttosto articolato e complesso che
prevedeva una lunga fase transitoria prima della definitiva entrata
a regime del nuovo sistema, prevista per il 2014 (art. 2). In
particolare il decreto prevede la definizione:

entro il 31 marzo 2013 (termine così fissato dal D.L.


216/2011, conv. in L. 14/2012) dei fabbisogni standard relativi

ad almeno due terzi delle funzioni fondamentali dei Comuni e


delle Province;

entro il 31 dicembre 2013 dei fabbisogni standard relativi alle

restanti funzioni fondamentali.

Si noti, tuttavia, che tali scadenze non sono state del tutto
rispettate e che ad oggi solo in alcuni casi si è giunti
all’approvazione e alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei
relativi decreti.

L’art. 12 della L. 42/2009 indica i principi e i criteri a cui i decreti delegati


dovranno uniformarsi in tema di coordinamento e di autonomia tributaria degli
enti locali. In particolare, è stabilito che dovrà essere la legge statale a
individuare i tributi propri di Comuni e Province, definendo nel dettaglio i relativi
presupposti, i soggetti passivi, le basi imponibili e le aliquote di riferimento. È
prevista, inoltre, la possibilità per gli Enti locali di modificare, nei limiti fissati
dalla legge, le aliquote dei tributi loro attribuiti, nonchè di introdurre
agevolazioni e di variare le modalità di calcolo delle basi imponibili (si rinvia al
Cap. 2 per l’analisi del decreto legislativo che ha riformato il sistema
impositivo dei Comuni, in attuazione della L. 42/2009).
Un ulteriore elemento di novità in tema di autonomia riguarda la possibilità per
le Regioni di istituire, nell’ambito dei propri poteri legislativi in materia fiscale,
nuovi tributi comunali, provinciali e metropolitani, chiarendo gli ambiti di
autonomia riconosciuti all’ente locale; inoltre, Comuni e Province dovranno
disporre anche di piena autonomia nella fissazione delle tariffe per prestazioni o
servizi offerti anche su richiesta di singoli cittadini.
Viene, inoltre, prevista (art. 13) l’istituzione di due fondi perequativi (uno a
favore dei Comuni, l’altro a favore di Province e Città metropolitane), inseriti
nel bilancio regionale ma finanziati dallo Stato, a titolo di concorso per il
finanziamento delle funzioni svolte dagli enti locali.

Quanti e quali decreti attuativi della L. 42/2009 sono stati approvati


fino ad ora?

Finora sono stati approvati otto decreti legislativi attuativi della L. 42/2009:

il D.Lgs. 28 maggio 2010, n. 85 (Attribuzione a Comuni, Province, Città

metropolitane e Regioni di un proprio patrimonio);


il D.Lgs. 17 settembre 2010, n. 156 (Disposizioni in materia di
ordinamento transitorio di Roma capitale);

il D.Lgs. 26 novembre 2010, n. 216 (Disposizioni in materia di


determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città

metropolitane e Province);
il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo
fiscale municipale);

il D. Lgs. 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di


entrata delle Regioni a Statuto ordinario e delle Province, nonché di

determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario);


il D.Lgs. 31 maggio 2011, n. 88 (Disposizioni in materia di risorse
aggiuntive e di interventi speciali per la rimozioni di squilibri economici e
sociali);
il D.Lgs. 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di

armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle


Regioni, degli enti locali e dei loro organismi);

il D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 149 (Meccanismi sanzionatori e premiali


relativi a Regioni, Province e Comuni);

il D.Lgs. 18 aprile 2012, n. 61 (Ulteriori disposizioni in materia di

ordinamento di Roma capitale);


il D.Lgs. 26 aprile 2013, n. 51 (Modifiche ed integrazioni al D.Lgs.

61/2012).

C) Il T.U.E.L.

È interessante notare che molti dei principi ispiratori della legge sul federalismo
fiscale erano già contenuti nel D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico Enti Locali, d’ora in
poi T.U.E.L.). L’art. 149 T.U.E.L., infatti, riconosce a Comuni e Province,
nell’ambito della finanza pubblica, autonomia finanziaria fondata su certezza di
risorse proprie e trasferite. Inoltre, la legge assicura agli enti locali potestà
impositiva autonoma nel campo delle imposte, delle tasse e delle tariffe, con
conseguente adeguamento della legislazione tributaria vigente. Lo stesso
articolo afferma che la finanza dei Comuni e delle Province è costituita da:

imposte proprie;

addizionali e compartecipazioni ad imposte erariali o regionali;

trasferimenti erariali;
trasferimenti regionali;
tasse e diritti per servizi pubblici;
altre entrate proprie, anche patrimoniali;
risorse per investimenti;
altre entrate.

2 LA POTESTÀ REGOLAMENTARE

In modo parallelo all’accresciuta autonomia finanziaria, è stata ampliata la


potestà statutaria e regolamentare degli enti locali. L’art. 117, comma 6, Cost.
riconosce a Comuni, Province e Città Metropolitane potestà regolamentare in
ordine alla disciplina delle funzioni loro attribuite. Potere normativo, attraverso i
regolamenti, è riconosciuto altresì alle Unioni di Comuni ed alle Comunità
Montane ed Isolane dall’art. 4 L. 131/2003 (cd. Legge La Loggia), secondo cui i
regolamenti disciplinano l’organizzazione, lo svolgimento e la gestione delle
funzioni dell’Ente, nel rispetto della legislazione dello Stato e della Regione.

Per quanto riguarda, in particolare, le finanze e la contabilità degli enti locali,


già con il D.Lgs. 446/1997 il legislatore ha dato facoltà (art. 52) a Comuni e
Province di disciplinare mediante regolamento le proprie entrate, comprese
quelle tributarie. Sono però riservati alla legislazione nazionale l’istituzione di
nuovi tributi (poiché l’art. 23 Cost. prevede una riserva di legge di materia) e gli
elementi fondamentali dei singoli tributi:

individuazione e definizione delle fattispecie imponibili;

soggetti passivi;
aliquota massima.

Per ogni altro aspetto non disciplinato dal regolamento, troveranno applicazione
le disposizioni di legge vigenti.
I regolamenti sono approvati con deliberazione (del Consiglio) entro il termine
di approvazione del bilancio di previsione ed hanno effetto dal 1° gennaio
dell’anno di riferimento (art. 53, comma 16, L. 388/2000).
Inoltre, devono essere comunicati, insieme alla relativa delibera, al Ministero
dell’Economia e delle Finanze entro 30 giorni dalla data in cui sono divenuti
esecutivi e devono essere resi pubblici mediante avviso nella Gazzetta Ufficiale.
Il Ministero può impugnare i regolamenti, per vizi di legittimità, davanti agli
organi della giustizia amministrativa (il TAR).

3 IL PATTO DI STABILITÀ INTERNO

L’accresciuta autonomia finanziaria ha comportato anche una maggiore


responsabilizzazione degli enti locali. A partire dalla Finanziaria 1999 (art. 28 L.
448/1998), le Regioni e gli enti locali sono stati chiamati a concorrere al
risanamento della finanza pubblica e al rispetto del Patto di stabilità e crescita
firmato in sede di Unione europea. In particolare, il cd. patto di stabilità
interno (le cui disposizioni costituiscono principi fondamentali del
coordinamento della finanza pubblica) ha il duplice obiettivo di:

ridurre il disavanzo finanziario;


concorrere alla riduzione del debito pubblico.

Dal 2007 (L. 296/2006), per il rispetto del patto di stabilità sono
imposti determinati risultati sui saldi finanziari corrispondenti alla
differenza tra entrate finali (primi quattro titoli di bilancio
dell’entrata) e uscite finali (primi due titoli di bilancio della
spesa); tali saldi devono essere calcolati in termini di
competenza mista, risultando pari alla somma algebrica degli
importi derivanti:

per la parte corrente, dalla differenza tra accertamenti di


entrata e impegni di spesa;

per la parte in conto capitale, dalla differenza tra incassi e


pagamenti.

Nel saldo non vanno considerate le entrate derivanti da riscossioni


di crediti e le spese relative alla concessione di crediti, mentre
rilevano gli stanziamenti di competenza del fondo crediti di dubbia
esigibilità (art. 31, comma 3, L. 183/2011, come modificato dalla
L. 190/2014).

La disciplina attuale del patto di stabilità è stata disegnata congiuntamente


dal D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010, e dalla L. 220/2010 (legge di stabilità
2011) ed è stata in seguito sottoposta ad una serie di modifiche e di
integrazioni principalmente ad opera del D.L. 98/2011, conv. in L. 111/2011, del
D.L. 138/2011, conv. in L. 148/2011, della L. 183/2011 (legge di stabilità 2012),
della L. 228/2012 (legge di stabilità 2013), della L. 147/2013 (legge di stabilità
2014) e, in ultimo, dalla L. 190/2014 (legge di stabilità 2015).

A) Enti assoggettati al patto

Fra gli enti locali, sono soggetti al patto di stabilità (art. 31, comma 1, L.
183/2011):

i Comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti (fino al 2012 solo


quelli con popolazione superiore a 5.000 abitanti);

le Province.

Si ricordi, al riguardo, che la L. 56/2014 (cd. Legge Delrio), nel


disporre la costituzione di alcune Città metropolitane, prevede
espressamente che tali nuovi enti siano tenuti a conseguire gli
obiettivi di finanza pubblica assegnati alle Province a cui
subentrano, in attesa di una revisione organica della disciplina del
patto di stabilità che tenga conto delle funzioni effettivamente ad
essi attribuite.

B) Calcolo degli obiettivi programmatici

La base di calcolo del saldo obiettivo è rappresentata dalla spesa corrente


media del triennio 2009-2011, per l’anno 2014, e del triennio 2010-2012, per gli
anni dal 2015 al 2018, alla quale vanno poi applicate le seguenti percentuali (art.
31, comma 2, L. 183/2011, come modificato dalla L . 190/2014):

per le Province, il 19,25% per il 2014, il 17,20% per il 2015, il 18,03% per

gli anni 2016, 2017 e 2018;


per i Comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, il 14,07% per il

2014, l’8,60% per il 2015, il 9,15% per gli anni 2016, 2017 e 2018.

Il comma 6bis del medesimo art. 31, come modificato dal D.L.
192/2014, conv. in L . 11/2015, prevede la possibilità di ridurre
gli obiettivi dei Comuni che gestiscono, in quanto capofila, funzioni
e servizi in forma associata e, contemporaneamente, di
aumentare gli obiettivi dei Comuni associati non capofila.
Il D.L. 19 Giugno 2015, n. 78, (cd. decreto enti locali), conv. in
L. 6 agosto 2015, n. 125, è di recente intervenuto per tenere
conto, ad esempio, dei maggiori oneri connessi ad eventi
calamitosi o alla messa in sicurezza degli edifici scolastici e del
territorio, nonché delle spese sostenute dai Comuni capofila,
attribuendo i seguenti spazi finanziari: 10 milioni di euro per le
spese per eventi calamitosi; 40 milioni di euro per le spese per
messa in sicurezza degli edifici scolastici e del territorio; 30
milioni di euro per le spese sostenute nell’esercizio delle funzioni
di ente capofila (art. 1, comma 2).

Per ottenere l’obiettivo finale, al valore così calcolato occorre sottrarre


l’importo corrispondente alla riduzione dei trasferimenti erariali prevista dall’art.
14, comma 2, del D.L. 78/2010.

Si noti che, per ciascuno degli anni 2015-2018, gli obiettivi del
patto per i singoli Comuni sono stati approvati in sede di
Conferenza Stato-città ed autonomie locali del 19 febbraio 2015 ed
indicati nella tabella 1 allegata al D.L. 78/2015, conv. in L.
125/2015. Tali obiettivi vanno ridotti di un importo pari
all’accantonamento al Fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato
nel bilancio di previsione di ciascun anno di riferimento.

C) Monitoraggio e certificazione dei risultati conseguiti

Al fine di consentire il costante monitoraggio del rispetto dei vincoli del patto
di stabilità, gli enti locali devono inviare semestralmente alla Ragioneria
generale dello Stato le informazioni utili all’individuazione del saldo, in termini di
competenza mista, conseguito nell’anno di riferimento.

La trasmissione dei dati semestrali deve essere effettuata


secondo le modalità definite annualmente con decreto del Ministro
dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed
autonomie locali, ed utilizzando esclusivamente il sistema web
http://pattostabilitainterno.tesoro.it. La comunicazione va
effettuata, per il primo semestre, entro trenta giorni dalla
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del suddetto decreto, per il
secondo semestre, entro trenta giorni dalla conclusione dello
stesso (art. 31, comma 19, L. 183/2011, come modificato dalla L.
190/2014).

Entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di riferimento gli enti locali


assoggettati al patto di stabilità interno devono inoltre inviare alla Ragioneria
generale dello Stato una certificazione del saldo finanziario conseguito in
termini di competenza mista, firmata digitalmente dal rappresentante legale,
dal responsabile del servizio finanziario e dall’organo di revisione economico-
finanziaria, e redatta secondo lo schema individuato annualmente con decreto
del Ministro dell’economia e delle finanze (per il 2015 ha provveduto il D.M. 13
marzo 2015).
Il mancato invio della predetta certificazione nel termine previsto costituisce
inadempimento al patto di stabilità (art. 31, comma 20, L. 183/2011, come
modificato dalla L. 147/2013).

Nel caso in cui la certificazione, sebbene in ritardo, sia trasmessa


entro sessanta giorni dal termine di legge stabilito per
l’approvazione del rendiconto di gestione ed attesti il
conseguimento degli obiettivi del patto, all’ente ritardatario si
applica la sola sanzione del divieto di assunzione di personale a
qualsiasi titolo nell’anno successivo a quello dell’inadempienza.
Decorsi anche i sessanta giorni senza che sia stata inviata la
certificazione, il presidente dell’organo di revisione, in qualità di
commissario ad acta, provvede a trasmetterla nei successivi
trenta giorni; nel frattempo, l’ente ritardatario è assoggettato a
tutte le sanzioni a carico degli enti inadempienti (si veda al
riguardo il successivo punto D).

D) Sanzioni a carico degli enti inadempienti

In caso di mancato rispetto del patto di stabilità, l’ente locale inadempiente,


nell’anno successivo a quello in cui si è verificata l’inadempienza (art. 31,
comma 26, L. 183/2011, come modificato dalla L. 228/2012):

è assoggettato ad una riduzione del fondo perequativo o del fondo di

solidarietà comunale, istituito dalla L. 228/2012 in sostituzione del


preesistente fondo sperimentale di riequilibrio, in misura pari alla
differenza tra il risultato registrato e l’obiettivo programmatico.
Per il solo anno 2015, ai Comuni che non hanno rispettato il

patto nel 2014 la predetta sanzione è ridotta al 20 per cento


della differenza tra il saldo obiettivo del 2014 e il saldo

conseguito nello stesso anno. Alle Province e alle Città

metropolitane la sanzione è ridotta nella stessa misura e


comunque non può essere superiore al 2 per cento delle

entrate correnti registrate nell’ultimo consuntivo disponibile

(art. 1, comma 7, D.L. 78/2015, conv. in L. 125/2015);

non può impegnare spese correnti in misura superiore alla media annua
dei corrispondenti impegni effettuati nell’ultimo triennio;

non può ricorrere all’indebitamento per effettuare investimenti;


non può assumere personale;
deve ridurre dal 30% le indennità di funzione di tutta una serie di soggetti

(Sindaco, Presidente della Provincia, Presidenti dei consigli comunali e


provinciali etc.) in carica nell’esercizio in cui si è verificata

l’inadempienza.

Glossario

Federalismo: modello di decentramento statale in cui il potere politico è


costituzionalmente ripartito tra lo Stato centrale (federale) e gli Stati
membri (Cantoni, Lander etc.).

Patto di stabilità e crescita: patto, firmato nel corso del Vertice di


Dublino del 1996, contenente una serie di misure e di interventi volti a
garantire la stabilità dell’unione economica e monetaria anche in vista
dell’adozione dell’euro.
Uno dei presupposti fondamentali per la nascita della moneta unica era
infatti costituito dal coordinamento delle politiche economiche degli Stati
aderenti, che erano stati chiamati a rispettare una serie di criteri di
convergenza fissati dal Trattato di Maastricht e finalizzati a tenere sotto
controllo, in particolar modo, la situazione del bilancio (il disavanzo
pubblico, cioè la differenza tra entrate e uscite dello Stato, non doveva
essere superiore al 3% del PIL) e l’entità del debito pubblico (che non
doveva superare il 60% del PIL). Il patto di stabilità e crescita fu approvato
proprio al fine di evitare che, dopo aver raggiunto gli obiettivi suddetti, i
singoli Stati ponessero in atto politiche che rischiavano di allontanarli
nuovamente dai criteri fissati, mettendo in pericolo la stabilità dell’euro. A
tale scopo il patto, che è stato sottoposto nel frattempo a numerose
riforme, prevede sia misure preventive, mirate a mettere in allarme lo
Stato che si sta allontanando dai criteri di convergenza, sia misure
dissuasive, cioè tese a sanzionare lo Stato che ha superato i limiti fissati.
CAPITOLO 2
LE ENTRATE TRIBUTARIE

SOMMARIO

1 La riforma del sistema impositivo dei Comuni: il D.Lgs. 23/2011. 2 Le


principali entrate tributarie dei Comuni. 3 Le principali entrate tributarie
delle Province e delle Città metropolitane.

1 LA RIFORMA DEL SISTEMA IMPOSITIVO DEI COMUNI: IL D.LGS.


23/2011

La revisione del sistema dei tributi comunali costituisce uno dei tasselli
fondamentali della riforma federalista avviata dalla L. 42/2009, in quanto nelle
intenzioni del legislatore dovrebbe consentire di attribuire ai Comuni un’effettiva
autonomia finanziaria di entrata e di spesa.
Un primo passo importante in tale direzione è stato compiuto con
l’approvazione del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, sul cd. federalismo fiscale
municipale, destinato ad incidere profondamente sul sistema impositivo dei
Comuni. Nella sua impostazione originaria, la riforma disegnata dal suddetto
decreto prevedeva due fasi temporali.
In una prima fase, a partire dal 2011, il decreto disponeva l’attribuzione ai
Comuni del 30% del gettito delle imposte relative ai trasferimenti
immobiliari (imposta di registro, imposte ipotecarie e catastali, tributi speciali
catastali e tassa ipotecaria), limitatamente agli immobili ubicati nel loro
territorio, nonché l’intero gettito dell’IRPEF relativa ai redditi fondiari (con
esclusione del reddito agrario) e dell’imposta di registro e di bollo sui
contratti di locazione relativi ad immobili (art. 2, commi 1 e 2).

Si noti, al riguardo, che la successiva approvazione del D.L.


201/2011, conv. in L. 214/2011, anticipando al 2012
l’applicazione in via sperimentale dell’imposta municipale propria
(che il D.Lgs. 23/2011 aveva previsto solo per il 2014 e di cui si
dirà in seguito), ha reso necessaria una modifica della tempistica
prevista dal decreto sul federalismo municipale (la L. 228/2012
aveva infatti disposto che, al fine di assicurare ai Comuni la
spettanza del gettito dell’imposta municipale propria, per gli anni
2013 e 2014 non si dovessero applicare, fra gli altri, i primi due
commi dell’art. 2 del suddetto decreto). La L. 147/2013 ha infine
rimesso in discussione l’impianto stesso del decreto disponendo,
tra l’altro, l’abrogazione dei suddetti commi.

Il decreto ha, inoltre, disposto l’istituzione di una nuova imposta, la cd.


cedolare secca sugli affitti, che il proprietario di immobili locati ad uso
abitativo può scegliere in sostituzione del regime precedente (IRPEF e relative
addizionali, imposta di bollo e di registro), applicando un’aliquota del 21% sul
canone di locazione annuo (15% per i contratti a canone concordato, dopo le
modifiche apportate dal D.L. 102/2013, conv. in L. 124/2013, ma per il
quadriennio 2014-2017 l’aliquota è stata ridotta al 10% dal D.L. 47/2014,
conv. in L. 80/2014).

In una seconda fase, a partire dal 2014, era prevista l’istituzione di:

un’imposta municipale propria, il cui presupposto è il possesso di


immobili diversi dalle abitazioni principali e che va a sostituire, per la
componente immobiliare, l’IRPEF (e le relative addizionali dovute in

relazione ai redditi fondiari) e l’ICI (imposta comunale sugli immobili).


Come detto in precedenza, il D.L. 201/2011 ha disposto l’anticipazione
in via sperimentale al 2012 dell’applicazione di tale imposta, estendendola
anche alle abitazioni principali, mentre la L. 147/2013 ha in seguito
apportato sostanziali modifiche alla sua disciplina (cfr. §2, lett. B);

un’imposta municipale secondaria, che andrà a colpire i soggetti che


occupano beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei

Comuni (nonché gli spazi sovrastanti o sottostanti il suolo pubblico) e che

potrà sostituire uno o più dei seguenti tributi: Tosap, Cosap, imposta
comunale sulla pubblicità, diritti sulle pubbliche affissioni, canone per

l’autorizzazione all’installazione dei mezzi pubblicitari. Il D.L. 192/2014,

conv. in L. 11/2015, ha però rinviato al 2016 l’applicazione di tale

imposta.

L’attuale assetto del sistema impositivo degli enti locali, descritto nei paragrafi
successivi, è dunque il risultato della profonda riforma operata dal D.Lgs.
23/2011 e delle successive e sostanziali modifiche apportate dal legislatore.

2 LE PRINCIPALI ENTRATE TRIBUTARIE DEI COMUNI

A) L’imposta unica comunale (IUC)

Secondo quanto disposto dalla L. 147/2013 (art. 1, comma 639), dal 1°


gennaio 2014 è entrata in vigore la nuova imposta unica comunale (IUC),
composta:

dall’IMU, imposta municipale propria (cfr. lett. B);


dalla TASI , tributo per i servizi indivisibili (cfr. lett. C);
dalla TARI, tassa sui rifiuti (cfr. lett. D).

B) L’imposta municipale propria (IMU)

Nella sua versione originaria, il D.L. 201/2011, conv. in L. 214/2011, aveva


anticipato in via sperimentale al 2012 l’applicazione dell’IMU, estendendola
anche alle abitazioni principali.
Il presupposto dell’imposta, identico a quello della vecchia ICI (imposta
comunale sugli immobili), è dato dal possesso di immobili, vale a dire di
fabbricati, aree fabbricabili e terreni agricoli.

Qual è la differenza tra fabbricato ed area fabbricabile?


Ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. 504/1992, per fabbricato si intende l’unità
immobiliare iscritta, o che deve essere iscritta, in catasto edilizio urbano. Nel
concetto di fabbricato è ricompresa l’area occupata dal fabbricato stesso e
quella di pertinenza. Restano esclusi i fabbricati rurali la cui capacità di reddito
è ricompresa nel reddito dominicale dei terreni agricoli.
L’area fabbricabile è definita come quella «utilizzabile a scopo edificatorio in
base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità
effettive di edificazione, determinate secondo i criteri previsti agli effetti
dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità».
L’esclusione della qualifica di area fabbricabile non significa, comunque,
esenzione, bensì attribuzione dell’area stessa alla categoria dei terreni agricoli.
Questi ultimi (terreni agricoli) costituiscono la terza categoria di immobili
soggetti ad IMU e sono individuabili in quei terreni adibiti ad attività agraria
(coltivazione, silvicoltura, funghicoltura, allevamento di animali, attività di
trasformazione) ex art. 2135 c.c. Va osservato, in conclusione, che taluni
immobili potrebbero risultare, per esclusione, non soggetti all’imposta.
Tale sarebbe il caso di aree che risultano, per qualsiasi motivo, inedificabili e
che non siano destinate ad attività agricole, in quanto comprese nel tessuto
urbano. Per queste ultime dovrebbe parlarsi di assenza dei presupposti oggettivi
per l’imposizione, a nulla rilevando che i terreni in questione producano
temporaneamente un reddito.
Come per l’ICI, anche la base imponibile dell’IMU viene calcolata utilizzando
una serie di coefficienti variabili in funzione del tipo di fabbricato e della
categoria catastale di appartenenza.

In particolare, essa è costituita:

per i fabbricati iscritti in catasto, dal valore della rendita catastale,

rivalutato del 5% e moltiplicato per un coefficiente pari a:

a. 160, se si tratta di abitazioni, alloggi collettivi e fabbricati a

destinazione varia (gruppo catastale A, ad eccezione della

categoria A/10, e categorie catastali C/2, C/6 e C/7);

b. 140, in caso di collegi, scuole, case di cura etc. (gruppo catastale

B e categorie catastali C/3, C/4 e C/5);

c. 80, in caso di uffici e studi privati (categorie catastali A/10 e

D/5);

d. 60 (65 dal 1° gennaio 2013), se si tratta di alberghi e pensioni,

teatri, cinema, sale da concerto etc. (gruppo catastale D, ad

eccezione della categoria D/5);

e. 55, per negozi e botteghe (categoria catastale C/1).

per i terreni agricoli, dal reddito dominicale vigente al 1° gennaio dell’anno


di imposizione, rivalutato del 25% e moltiplicato per 135 (tale valore è
ridotto a 75 per i terreni, agricoli e non, posseduti e condotti dai
coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella

previdenza agricola.

La base imponibile così calcolata è ridotta del 50% nel caso di


fabbricati di interesse storico e artistico e di fabbricati dichiarati
inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati (art. 13, comma 3,
D.L. 201/2011, conv. in L. 214/2011).

L’imposta si calcola applicando alla base imponibile un’aliquota dello 0,76%,


ma i Comuni hanno la possibilità di modificare tale aliquota, con deliberazione
del Consiglio comunale, sino a 0,3 punti percentuali in aumento o in
diminuzione.
L’aliquota è ridotta allo 0,4% per le abitazioni principali (modificabile dai
Comuni non oltre 0,2 punti percentuali in aumento o in diminuzione) e allo
0,2% per i fabbricati rurali (modificabile non oltre 0,1 punti percentuali).
Nel caso delle abitazioni principali, dall’ammontare dell’imposta, calcolato nel
modo appena descritto, si detrae l’importo di 200 euro.

Sono esenti dal pagamento dell’IMU, oltre agli immobili posseduti


dallo Stato e a quelli posseduti, nel proprio territorio, da Regioni,
Province, Comuni, Comunità montane ed enti del servizio sanitario
nazionale, anche:

gli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento di

attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche,


ricreative e sportive, a prescindere dalla natura
eventualmente commerciale delle stesse, utilizzati da enti
pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio
dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale
l’esercizio di attività commerciali;

gli immobili destinati esclusivamente alle attività di religione


o di culto, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi

missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana.

dal 1° gennaio 2014, i fabbricati costruiti e destinati


dall’impresa costruttrice alla vendita, fintanto che permanga

tale destinazione e non siano in ogni caso locati;

dal 2015 (D.L. 4/2015, conv. in L. 34/2015), i terreni

agricoli (e quelli non coltivati) ubicati nei Comuni: classificati

totalmente montani (di cui all’elenco predisposto dall’ISTAT);


delle isole minori (di cui all’allegato A della L. 448/2001);
classificati parzialmente montani (di cui al medesimo elenco

ISTAT), se posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli


imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza

agricola.

Come si è visto in precedenza, secondo quanto previsto dalla L. 147/2013, a


decorrere dal 2014 l’IMU non si applica più alle abitazioni principali, ad
eccezione di quelle classificate nelle categorie catastali A1, A8 e A9, ed è una
delle tre componenti dell’imposta unica comunale (IUC).

C) Il tributo per i servizi indivisibili (TASI)

Il gettito della TASI (tributo per i servizi indivisibili) è destinato a finanziare,


ad esempio, i costi della manutenzione del verde pubblico e delle strade
comunali, l’arredo urbano, l’illuminazione pubblica e l’attività svolta dalla polizia
locale.
Il presupposto impositivo (art. 1, comma 669, L. 147/2013, come sostituito
dal D.L. 16/2014, conv. in L. 68/2014) è dato dal possesso o dalla detenzione a
qualsiasi titolo di fabbricati, compresa l’abitazione principale, e di aree
edificabili, ad eccezione dei terreni agricoli. Soggetti passivi sono sia il
possessore che l’utilizzatore dell’immobile.

In caso di pluralità di possessori o di detentori, essi sono tenuti


all’adempimento dell’unica obbligazione tributaria. Qualora la
detenzione non superi sei mesi nel corso dello stesso anno solare,
la TASI è dovuta solo dal possessore dei locali e delle aree a titolo
di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e superficie.

La base imponibile è quella prevista per l’applicazione dell’IMU. L’aliquota di


base della TASI è pari all’1 per mille, ma il Comune può ridurla fino ad
azzerarla.
Con la medesima deliberazione il Comune può determinare l’aliquota rispettando
in ogni caso il vincolo in base al quale la somma delle aliquote della TASI e
dell’IMU per ciascuna tipologia di immobile non sia superiore all’aliquota
massima consentita dalla legge statale per l’IMU al 31 dicembre 2013, fissata
come si è visto in precedenza al 10,6 per mille. Per il 2014 e per il 2015,
inoltre, l’aliquota massima non può superare il 2,5 per mille (art. 1, comma 677,
L. 147/2013, come modificato dalla L. 190/2014).

Il D.L. 16/2014, nel modificare il suddetto comma 677, ha tuttavia


previsto che per il 2014 tali aliquote massime (10,6 e 2,5 per
mille) possano essere superate, per un ammontare
complessivamente non superiore allo 0,8 per mille, a condizione
che i Comuni utilizzino il maggiore introito per finanziare
detrazioni sulle abitazioni principali. La L. 190/2014 ha esteso
tale disposizione al 2015.

Il Comune, con il regolamento, può prevedere riduzioni ed


esenzioni nel caso di:

abitazioni con unico occupante;


abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale od altro
uso limitato e discontinuo;

locali, diversi dalle abitazioni, ed aree scoperte adibiti ad uso

stagionale o ad uso non continuativo, ma ricorrente;

abitazioni occupate da soggetti che risiedano o abbiano la


dimora, per più di sei mesi all’anno, all’estero;

fabbricati rurali ad uso abitativo.

D) La tassa sui rifiuti (TARI)

Ai sensi dell’art. 14 del D.L. 201/2011, come modificato dalla L. 228/2012, a


decorrere dal 1° gennaio 2013 era istituito il nuovo tributo comunale sui
rifiuti e sui servizi (cd. TARES), a copertura dei costi relativi al servizio di
gestione dei rifiuti e di quelli connessi ai servizi indivisibili erogati dai Comuni.
Il tributo in questione sostituiva la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi
urbani (cd. TARSU), prevista dal D. Lgs. 507/1993, riguardante tutti i soggetti
che occupano o detengono locali ed aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, situati
nel zone del territorio comunale in cui è operativo il servizio di smaltimento dei
rifiuti solidi urbani.

La TARSU veniva determinata dal Comune, secondo il rapporto di


copertura del costo prescelto, entro i limiti di legge, moltiplicando
il costo di smaltimento per unità di superficie imponibile
accertata, previsto per l’anno successivo, per uno o più
coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa.
Va segnalato che, per effetto dell’art. 49 del D.Lgs. 5 febbraio
1997, n. 22 (cd. decreto «Ronchi») in materia di rifiuti e di
imballaggi, la TARSU avrebbe dovuto essere sostituita già dal 1°
gennaio 1999 da una tariffa, denominata Tariffa d’Igiene
Ambientale (cd. TIA 1), composta da una quota fissa,
determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del
servizio di gestione dei rifiuti, e da una quota variabile, rapportata
alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei
costi di gestione.
Nell’ambito di una più generale rivisitazione delle norme
ambientali, il D.Lgs. 152/2006 (Testo Unico Ambiente), aveva
poi disposto la soppressione della tariffa di cui all’articolo 49 del
D.Lgs. 22/1997, istituendo una Tariffa Integrata Ambientale (cd.
TIA 2) la cui entrata in vigore era tuttavia subordinata
all’approvazione di un apposito regolamento attuativo. Non essendo
mai stato emanato tale regolamento, dal 30 giugno 2010 (termine
così fissato dal D.L. 194/2009, convertito in L. 25/2010) i Comuni
avevano la possibilità di adottare comunque la nuova tariffa ai
sensi delle disposizioni legislative e regolamentari esistenti.
Anche la tariffa prevista dal Testo Unico Ambiente era costituita
da una quota fissa, commisurata alle componenti essenziali del
servizio, e da una quota variabile, rapportata alle quantità e qualità
medie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi
e alla tipologia di attività svolte, e colpiva tutti coloro che
possiedono o detengono locali o aree scoperte ad uso privato o
pubblico, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio
comunale, che producono rifiuti urbani (art. 238).

Come si è visto in precedenza, dal 1° gennaio 2014 la TARES è stata sostituita


dalla TARI (una delle tre componenti della IUC).
Il presupposto della TARI è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di
locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti
urbani. Sono escluse le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali
tassabili, non operative, e le aree comuni condominiali di cui all’articolo 1117
del Codice civile che non siano detenute o occupate in via esclusiva.
Soggetti passivi della TARI sono chiunque possieda o detenga a qualsiasi
titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre
rifiuti urbani.
Per l’applicazione del tributo si considerano le superfici dichiarate o accertate ai
fini dei precedenti prelievi sui rifiuti.
La TARI è corrisposta in base a tariffa commisurata ad anno solare
coincidente con un’autonoma obbligazione tributaria. Il Comune nella
commisurazione della tariffa tiene conto dei criteri determinati con il
regolamento di cui al D.P.R. 158/1999.
Il Comune, nel rispetto del principio «chi inquina paga», può commisurare la
tariffa alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di
superficie, in relazione agli usi e alla tipologia delle attività svolte nonché al
costo del servizio sui rifiuti.

Il Comune, con regolamento, può prevedere riduzioni tariffarie ed


esenzioni nel caso di:

abitazioni con unico occupante;


abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale od altro

uso limitato e discontinuo;


locali, diversi dalle abitazioni, ed aree scoperte adibiti ad uso
stagionale o ad uso non continuativo, ma ricorrente;
abitazioni occupate da soggetti che risiedano o abbiano la

dimora, per più di sei mesi all’anno, all’estero;


fabbricati rurali ad uso abitativo.
E) L’imposta comunale sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche
affissioni

Il presupposto dell’imposta consiste, in via residuale rispetto al diritto sulle


pubbliche affissioni, nella diffusione di messaggi in qualsiasi modo effettuati in
luoghi pubblici o in locali aperti al pubblico o che siano da tali luoghi percepibili
(art. 5 D.Lgs. 507/1993).

Sono esentate le insegne di esercizio di attività commerciali e


di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove
si svolge l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva
fino a 5 metri quadrati (art. 17 D.Lgs. 507/1993). I Comuni
possono, con proprio regolamento, prevedere l’esenzione dal
pagamento dell’imposta per insegne di superficie maggiore.
Ai fini dell’imposizione si considerano rilevanti i soli messaggi
diffusi nell’esercizio di un’attività economica allo scopo di
promuovere le domande di beni e servizi, finalizzati a migliorare
l’immagine del soggetto pubblicizzato. Dunque condizione
essenziale perché si realizzi il presupposto è l’esercizio
dell’attività economica.

Soggetto passivo è colui che dispone del mezzo attraverso il quale viene
diffuso il messaggio pubblicitario; colui che produce o vende la merce o
fornisce i servizi oggetto della pubblicità, tuttavia, è solidalmente obbligato al
pagamento dell’imposta.
In ordine alle modalità di applicazione, l’art. 7 del decreto citato stabilisce che
l’imposta viene determinata in base alla superficie della minima figura
geometrica in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario, indipendentemente dal
numero di messaggi in esso contenuti.
Ai sensi dell’art. 3 il Consiglio comunale è tenuto ad adottare apposito
regolamento per l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità e per l’effettuazione
del servizio delle pubbliche affissioni.
Le tariffe sono deliberate entro il 31 marzo di ogni anno e, in deroga allo
Statuto del contribuente, si applicano a decorrere dal 1° gennaio del medesimo
anno (art. 10 L. 448/2001). In caso di mancata adozione della delibera di
modificazione delle tariffe, queste si intendono automaticamente prorogate.

In base all’art. 62 del D.Lgs. 446/1997, i Comuni possono, con il


proprio regolamento sulle entrate, escludere l’applicazione
dell’imposta comunale sulla pubblicità (ma non quella del diritto
sulle pubbliche affissioni) purché:

sottopongano le iniziative pubblicitarie che incidono

sull’arredo urbano o sull’ambiente ad un regime

autorizzatorio e le assoggettino al pagamento di un canone


in base a tariffa;

il regolamento individui i mezzi pubblicitari sulla base del


nuovo codice della strada, determinando la tariffa con criteri
di ragionevolezza e gradualità, prevedendo le procedure per il

rilascio e il rinnovo delle autorizzazioni e, con carattere di


generalità, divieti, limitazioni e agevolazioni.

Diversi dall’imposta sulla pubblicità sono i diritti sulle pubbliche affissioni,


cioè quei diritti che devono essere versati da coloro che intendono diffondere un
messaggio pubblicitario attraverso l’affissione di manifesti su impianti del
Comune a ciò destinati. L’entità di tali diritti viene stabilita con regolamento
comunale.
Ai sensi del D.Lgs. 23/2011, dal 2016 (termine così prorogato dal D.L.
192/2014, conv. in L. 11/2015) l’imposta comunale sulla pubblicità e i diritti
sulle pubbliche affissioni potranno essere sostituiti, con deliberazione consiliare,
dall’imposta municipale secondaria.

F) L’imposta di scopo per opere pubbliche

In base alla L. 296/2006 i Comuni possono istituire una imposta di scopo


destinata alla parziale copertura (massimo 30%) delle spese per la
realizzazione di opere pubbliche. I Comuni che intendono introdurre questa
imposta devono redigere un regolamento che indichi l’opera da realizzare,
l’ammontare della spesa, l’aliquota e le modalità di versamento.

Tra le opere pubbliche la cui realizzazione è finanziabile


parzialmente con l’imposta di scopo troviamo:

opere per il trasporto pubblico;


opere viarie, con l’esclusione della manutenzione
straordinaria e ordinaria delle opere esistenti;

opere particolarmente significative di arredo urbano e di


maggior decoro dei luoghi;

opere di risistemazione di aree dedicate a parchi e giardini;


opere di restauro;
opere di conservazione dei beni artistici e architettonici;

opere relative a nuovi spazi per eventi e attività culturali,


allestimenti museali e biblioteche;
opere di realizzazione e manutenzione straordinaria

dell’edilizia scolastica.

L’imposta, che è dovuta per un periodo massimo di cinque anni, è determinata


applicando alla base imponibile dell’ICI (equivalente, come si è visto in
precedenza, a quella dell’attuale IMU) un’aliquota massima dello 0,5 per mille.
Se, entro due anni dalla data prevista, l’opera non è stata iniziata, i contribuenti
possono chiedere il rimborso dei versamenti effettuati.
Il D.Lgs. 23/2011, come modificato dal D.L. 16/2012, conv. in L. 44/2012, ha
disposto che i Comuni possano, con regolamento, ampliare la tipologia di opere
pubbliche finanziabili, aumentare da 5 a 10 anni la durata massima di
applicazione dell’imposta e dare la possibilità di finanziare l’intero ammontare
della spesa.

G) L’imposta di soggiorno e l’imposta di sbarco

I Comuni capoluogo di Provincia, le Unioni di Comuni e i Comuni inclusi negli


elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte possono istituire, con
deliberazione del Consiglio, un’imposta di soggiorno a carico di coloro che
alloggiano nelle strutture ricettive situate nel proprio territorio, da applicare, in
proporzione al prezzo, sino a un massimo di 5 euro per notte. Il relativo gettito
è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, compresi quelli a
sostegno delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e
recupero dei beni culturali ed ambientali locali e dei relativi servizi pubblici
locali (art. 4, D.Lgs. 23/2011).

Si noti che, ai sensi del comma 3bis del medesimo art. 4,


introdotto dal D.L. 16/2012, conv. in L. 44/2012, i Comuni che
hanno sede giuridica nelle isole minori o nel cui territorio insistono
isole minori possono istituire con regolamento, in alternativa
all’imposta di soggiorno, un’imposta di sbarco, fino ad un
massimo di 1,50 euro, da riscuotere unitamente al prezzo del
biglietto da parte delle compagnie di navigazione che forniscono
collegamenti marittimi di linea. Sono esentati dal pagamento i
residenti, i lavoratori, gli studenti pendolari e i componenti dei
nuclei familiari dei soggetti che risultano aver pagato l’imposta
municipale propria e che, pertanto, sono parificati ai residenti.
H) La tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP)

Tale tributo si riferisce all’occupazione di spazi di qualsiasi natura, in strade,


piazze, mercati appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei
Comuni; di spazi sottostanti o soprastanti il suolo pubblico ovvero di suolo
privato gravato da servitù di pubblico passaggio (D.Lgs. 507/1993).
La tassa è dovuta al Comune dal titolare dell’atto di concessione o di
autorizzazione o, in mancanza, dall’occupante (anche abusivo) in proporzione
della superficie effettivamente sottratta all’uso pubblico.
Le occupazioni di suolo pubblico si distinguono in permanenti e temporanee: le
prime riguardano l’occupazione del suolo per un periodo non inferiore all’anno, le
rimanenti sono, quindi, temporanee. Queste ultime sono tassate in relazione
alle ore di effettiva occupazione.
Agli effetti dell’applicazione della tassa i Comuni sono ripartiti in cinque
classi in base alla popolazione residente al 31 dicembre del penultimo anno
precedente a quello per il quale si applica il tributo.

Le classi sono così suddivise (art. 43, D.Lgs. 507/1993):

Classe I, cui appartengono i Comuni con oltre 500.000


abitanti;

Classe II, cui appartengono i Comuni da 100.001 a 500.000


abitanti;

Classe III, cui appartengono i Comuni da 30.001 a 100.000


abitanti;
Classe IV, cui appartengono i Comuni da 10.001 a 30.000
abitanti;
Classe V, cui appartengono i Comuni fino a 10.000 abitanti.

I Comuni capoluogo di Provincia non possono collocarsi al di sotto


della terza classe.

Nell’applicare il tributo i Comuni devono suddividere il proprio territorio in


almeno due categorie di strade a seconda dell’importanza dell’area sulla quale
insiste l’occupazione. Le misure minime e massime contemplate negli articoli
da 44 a 48 del D.Lgs. 507/1993 fanno riferimento alla prima categoria.
Per le occupazioni del soprassuolo e del sottosuolo la tassa viene determinata
forfettariamente in base alla lunghezza delle strade comunali per la parte
effettivamente occupata.
Con il regolamento sono disciplinati i criteri di applicazione della tassa e le
modalità per la richiesta, il rilascio e la revoca delle concessioni.

L’art. 3 comma 63 della L. 549/1995 ha concesso facoltà ai


Comuni e alle Province previa delibera consiliare di:

non applicare la TOSAP sui passi carrabili;


esonerare le occupazioni permanenti dei taxi;
esonerare le occupazioni con condutture idriche necessarie

per l’attività agricola nei comuni montani;


stabilire in regolamento un limite minimo, non superiore a

20.000 lire (10,33 euro), al di sotto del quale il tributo non è


dovuto;
applicare retroattivamente le agevolazioni sopraelencate, che

potranno essere estese anche alle annualità per le quali la


TOSAP non è stata applicata.

La TOSAP avrebbe dovuto essere abolita dal 1° gennaio 1999 (art. 51 D.Lgs.
446/1997) ma l’art. 31 della L. 448/1998 ha soppresso la disposizione
abrogativa. Di conseguenza, Comuni e Province possono continuare ad applicare
tale tributo oppure decidere di istituire, con apposito regolamento, un canone
di natura corrispettiva (COSAP) e che presenta numerose analogie con la
TOSAP. Il pagamento è dovuto dal titolare della concessione ed è determinato
in base a tariffa nel medesimo atto di concessione. L’art. 63 D.Lgs. 446/1997
detta, inoltre, i criteri cui deve uniformarsi il regolamento.
Anche la TOSAP e il COSAP, a partire dal 2016, potranno essere sostituiti
dall’imposta municipale secondaria (D.Lgs. 23/2011).

I) L’addizionale IRPEF

Il D.Lgs. 360/1998 ha istituito un’addizionale comunale all’IRPEF caratterizzata


da due componenti:

una aliquota base (cd. aliquota di compartecipazione) definita con uno

o più decreti del Ministro dell’Economia e delle Finanze di concerto con il


Ministro dell’Interno;
un’aliquota facoltativa aggiuntiva, che i Comuni possono deliberare ogni

anno e che non può superare lo 0,8% (art. 1, comma 142, L. 296/2006).

Dal 2011 le delibere di variazione dell’addizionale IRPEF hanno effetto dal 1°


gennaio dell’anno di pubblicazione sul sito www.finanze.it, a condizione che
detta pubblicazione avvenga entro il 20 dicembre dell’anno a cui la delibera
afferisce (art. 14, comma 8, del D.Lgs. 23/2011, come modificato dal D.L.
16/2012, conv. in L. 44/2012).

L) L’addizionale sui diritti di imbarco

L’art. 2, comma 11 della Finanziaria 2004 (come modificato dal D.L. 80/2004) ha
istituito un’addizionale comunale sui diritti d’imbarco di passeggeri sulle
aeromobili. L’addizionale, che non si applica ai passeggeri in transito negli scali
aeroportuali nazionali, se provenienti da scali domestici (D.L. 145/2013, conv. in
L. 4/2014), è versata all’entrata del bilancio dello Stato, per la successiva
riassegnazione per la parte eccedente 30 milioni di euro in un apposito fondo
istituito presso il Ministero dell’Interno e ripartito sulla base del rispettivo
traffico aeroportuale secondo i seguenti criteri:

a. il 40 per cento del totale a favore dei Comuni del sedime aeroportuale o

con lo stesso confinanti;

b. il 60 per cento del totale per il finanziamento di misure volte alla

prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della

sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni

ferroviarie.

3 LE PRINCIPALI ENTRATE TRIBUTARIE DELLE PROVINCE E DELLE


CITTÀ METROPOLITANE

A) Premessa

Il D.Lgs. 6 maggio 2011, n. 68, ha introdotto alcune importanti modifiche al


sistema impositivo delle Province, al fine di assicurare anche a tali enti
un’effettiva autonomia di entrata e di compensare la soppressione dei
trasferimenti statali (dal 2012) e regionali (dal 2013). Il suddetto decreto
potenzia soprattutto i tributi connessi al trasporto su gomma (in coerenza con
quanto previsto dalla L. 42/2009), stabilendo in particolare che, a partire dal
2012, l’imposta sulle assicurazioni RCA (il cui gettito è attribuito alla
Province sin dal 1999) divenga tributo proprio delle Province, e che, dal 2013,
venga istituita dalle Regioni una compartecipazione provinciale alla tassa
automobilistica regionale, in misura da tale da garantire alle Province un
importo corrispondente ai trasferimenti regionali soppressi.
Si ricordi, infine, che alle Città metropolitane istituite dalla citata L. 56/2014
spettano le entrate della Provincia a cui succedono (art. 1, comma 47).

B) Il tributo per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene


dell’ambiente

Il gettito del tributo in esame è attribuito dall’art. 19 D.Lgs. 504/1992 alle


Province a fronte delle funzioni amministrative assolte dalle stesse in tema di
tutela ambientale e dei suoli, di smaltimento dei rifiuti e controllo degli scarichi
ed emissioni.
Il tributo è commisurato alle superfici soggette alla tassa di smaltimento dei
rifiuti solidi urbani dei Comuni. Sono soggetti passivi di questo tributo quegli
stessi che, sulla base delle vigenti disposizioni, sono tenuti al pagamento della
suddetta tassa di smaltimento.
Il tributo in esame costituisce una sorta di soprattassa, rispetto alla tariffa
comunale TARSU, nella misura, fissata con delibera della Giunta provinciale, non
inferiore all’1% e non superiore al 5%. Si badi che l’art. 19 del suddetto decreto
era stato abrogato dall’art. 264 del D.Lgs. 152/2006 recante «Norme in materia
ambientale». Tuttavia, l’art. 2, comma 44, del D.Lgs. 4/2008 ha, a sua volta,
abrogato il suddetto art. 264, facendo nuovamente salva l’applicazione del
tributo a partire dall’entrata in vigore del decreto medesimo.

C) La tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche

Oggetto della tassa sono le occupazioni di spazi ed aree pubbliche di qualsiasi


natura nelle strade effettuate anche senza titolo, nei corsi, nelle piazze e nei
pubblici mercati, nonché nei tratti di aree private gravate di servitù di pubblico
passaggio. Sono parimenti soggette alla tassa le occupazioni di spazi
soprastanti o sottostanti al suolo stradale.
Sono escluse dalla tassa le occupazioni di aree appartenenti al patrimonio
disponibile di Province e Comuni o al demanio statale.
Il comma 4 dell’art. 38 del D.Lgs. 507/1993 precisa che sono le Province (e non
i Comuni) legittimate a riscuotere la tassa in oggetto per gli spazi e aree
pubbliche realizzate su strade provinciali che attraversano Comuni con meno di
10.000 abitanti.
Come già visto a proposito dei Comuni, le Province possono, con regolamento,
assoggettare al pagamento di un canone (determinato in base a tariffa)
l’occupazione di strade, aree e spazi appartenenti al proprio demanio o
patrimonio indisponibile.

D) L’imposta provinciale di trascrizione (IPT)

Le Province hanno facoltà di istituire un’imposta provinciale sulle formalità di


trascrizione, iscrizione ed annotazione dei veicoli richiesti al Pubblico Registro
Automobilistico (art. 56, D.Lgs. 446/1997).

L’imposta è istituita con apposito regolamento di competenza consiliare; il


regolamento, che deve essere informato ai criteri di cui all’art. 52 del D.Lgs.
446/1997:

va adottato non oltre il termine di approvazione del bilancio di previsione;

non ha effetto prima del 1° gennaio dell’anno successivo;


va trasmesso al Ministero dell’Economia e delle Finanze entro 30 giorni
dalla data in cui è divenuto esecutivo.

L’imposta è commisurata (D.M. 435/1998) al tipo ed alla potenza dei veicoli:


le Province hanno però facoltà di deliberare un aumento di tale misura fino ad
un massimo del 30%.

E) L’imposta sulle assicurazioni RCA

Ai sensi del D.Lgs. 68/2011, dal 2012 l’imposta sulle assicurazioni RCA (il
cui gettito è attribuito alle Province sin dal 1999) diviene tributo proprio delle
Province. L’aliquota, pari al 12,5%, può essere aumentata o diminuita in misura
non superiore a 3,5 punti percentuali.

F) L’addizionale e la compartecipazione provinciale all’IRPEF

L’art. 12 della L. 133/1999 ha istituito l’addizionale provinciale all’IRPEF,


destinata a coprire gli oneri delle funzioni e dei compiti trasferiti alle Province
in attuazione della L. 59/1997. L’aliquota è determinata con decreto ministeriale.
L’art. 31, comma 8, L. 289/2002 (Finanziaria 2003) ha inoltre istituito per le
Province una compartecipazione al gettito dell’IRPEF nella misura dell’1 per
cento del riscosso in conto competenza affluito al bilancio dello Stato (la
misura è stata riconfermata, di anno in anno, da vari interventi legislativi). Le
modalità di riparto e di attribuzione sono le stesse previste per i Comuni.
Dal 2012 l’aliquota è rideterminata con decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri in modo tale da assicurare entrate corrispondenti ai trasferimenti
statali soppressi (art. 18, comma 1, D.Lgs. 68/2011); a tale disposizione ha
dato attuazione il D.P.C.M. 10-7-2012, fissando l’aliquota allo 0,60% del
gettito IRPEF.

G) Il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi

Il tributo in esame è stato istituito — a partire dall’1-1-1996 — dalla L.


549/1995 al fine di favorire la minore produzione dei rifiuti e il recupero dagli
stessi di materia prima ed energia. Presupposto del tributo è il deposito in
discarica dei rifiuti solidi, compresi i fanghi palabili. Soggetto passivo è il
gestore dell’impresa di stoccaggio definitivo con obbligo di rivalsa nei confronti
di colui che effettua il conferimento.
Una parte del tributo (10%) spetta alle Province, mentre il 20% del gettito
viene vincolato a un fondo regionale destinato a finanziare l’attuazione di
sistemi di smaltimento alternativo. La base imponibile è costituita dalla
quantità dei rifiuti conferiti in discarica sulla base di annotazioni riportate in
particolari registri. L’ammontare dell’imposta è fissato con legge dalla Regione
entro il 31 luglio di ogni anno per l’anno successivo, per chilogrammo di rifiuti
conferiti entro limiti minimi e massimi che variano a seconda della tipologia del
rifiuto.

Glossario

Addizionale: particolare tipo di imposta che si calcola applicando


un’aliquota all’ammontare di un’altra imposta.

Aliquota: percentuale che, moltiplicata per la base imponibile, permette di


calcolare l’ammontare dell’imposta.

Base imponibile: valore (reddito, rendita etc.) in base al quale viene


calcolata l’imposta.

Compartecipazione: quota del gettito di un’imposta che un livello di


governo superiore (ad esempio lo Stato) devolve a favore di un livello di
governo inferiore (come la Regione o il Comune).

Imposta: prelievo coattivo di ricchezza effettuato dallo Stato o da un altro


ente pubblico al fine di ottenere i mezzi necessari all’erogazione dei servizi
pubblici.

Tassa: prestazione pecuniaria dovuta dal singolo a fronte di una


prestazione che lo Stato effettua su richiesta del singolo stesso.
CAPITOLO 3
ALTRE ENTRATE DI COMUNI E PROVINCE

SOMMARIO

1 Introduzione. 2 Le entrate da trasferimenti. 3 Le entrate extra-


tributarie.

1 INTRODUZIONE

Benché i recenti interventi normativi abbiano accresciuto il numero e il gettito


dei tributi locali, l’autonomia finanziaria degli enti locali non è ancora piena.
Particolare importanza hanno avuto fino ad oggi le cd. entrate da
trasferimenti che, sulla base dell’ente di provenienza, venivano distinte dal
D.P.R. 194/1996 (molte delle cui disposizioni sono state abrogate, a decorrere
dal 1° gennaio 2015, dal D.Lgs. 126/2014) in:

trasferimenti dallo Stato;

trasferimenti dalla Regione;


trasferimenti dalla Regione per funzioni delegate;

trasferimenti dall’Unione europea;


trasferimenti da altri enti del settore pubblico.

Il nuovo piano dei conti degli enti locali, di cui all’allegato 6/1 del D.Lgs.
118/2011, come modificato dal D.Lgs. 126/2014, suddivide invece i
trasferimenti nelle seguenti cinque categorie:

trasferimenti correnti da amministrazioni pubbliche (centrali, locali, enti di


previdenza etc.);
trasferimenti correnti da famiglie;

trasferimenti correnti da imprese;


trasferimenti correnti da istituzioni sociali private;

trasferimenti correnti dall’Unione europea e dal resto del mondo.

L’applicazione dei principi sul federalismo fiscale sta determinando, tuttavia,


una graduale riduzione del peso dei trasferimenti erariali e regionali sul totale
delle entrate degli enti locali ed una parallela crescita delle entrate tributarie
(cd. fiscalizzazione dei trasferimenti) ed extratributarie.

2 LE ENTRATE DA TRASFERIMENTI

A) I trasferimenti dallo Stato

Come si è visto in precedenza, i trasferimenti erariali rientrano tra le voci che,


ai sensi dell’art. 149 T.U.E.L., concorrono a determinare le entrate complessive
dei Comuni e delle Province.
La centralità dei trasferimenti provenienti dallo Stato risulta, tuttavia,
ridimensionata dal comma 7 del medesimo articolo, laddove si dispone che i
contributi erariali, integrati dalle entrate fiscali, sono destinati a finanziare
l’erogazione dei soli servizi pubblici indispensabili, mentre i servizi pubblici
necessari per lo sviluppo della comunità locale sono finanziati esclusivamente
dalle entrate fiscali.
Per quanto riguarda i criteri di ripartizione, l’art. 149 prevede che essi tengano
conto della popolazione insediata, del territorio e delle condizioni socio-
economiche, nonché della necessità di assicurare una perequata distribuzione
delle risorse volta a compensare gli squilibri della fiscalità locale e, quindi, ad
attenuare i divari tra enti ricchi ed enti il cui territorio è invece caratterizzato
da un minore sviluppo economico (comma 5).

Ulteriori disposizioni in materia di trasferimenti erariali sono


dettate dall’art. 149 T.U.E.L.:
in base al comma 9, la legge determina un fondo nazionale
ordinario per contribuire ad investimenti degli enti locali

destinati alla realizzazione di opere pubbliche di preminente


interesse sociale ed economico;

secondo il comma 10, la legge determina un fondo

nazionale speciale per finanziare con criteri perequativi gli


investimenti destinati alla realizzazione di opere pubbliche

unicamente in aree o per situazioni definite dalla legge

statale;
con il comma 11, infine, si stabilisce che l’ammontare

complessivo dei trasferimenti e dei fondi è determinato in


base a parametri fissati dalla legge per ciascuno degli anni
previsti dal bilancio pluriennale dello Stato e non è riducibile

nel triennio.

Il T.U.E.L. ha sostanzialmente riconfermato l’impostazione delineata dal D.Lgs.


504/1992 (di attuazione della legge delega 421/1992) e tuttora in parte
vigente. A partire dal 1992, infatti, lo Stato concorre al finanziamento dei bilanci
delle Province e dei Comuni con l’assegnazione dei seguenti fondi per la parte
corrente:

fondo ordinario, per il finanziamento della spesa corrente dei bilanci;


fondo consolidato, in cui confluiscono diversi contributi;
fondo perequativo, istituito per correggere gli squilibri della fiscalità locale.
Per la parte in conto capitale lo Stato concorre con l’istituzione del fondo
unico per gli investimenti in cui confluiscono:

il «fondo nazionale ordinario per gli investimenti»;


il «fondo per lo sviluppo degli investimenti dei Comuni e delle Province»;

altri contributi minori.

Già intorno alla metà degli anni ’90, tuttavia, la necessità di ridurre
gradualmente gli oneri a carico del bilancio dello Stato aveva spinto il
legislatore (art. 1, comma 175, della L. 662/1996) a disporre la revisione
dell’intero sistema dei trasferimenti erariali. Alla delega contenuta nel
collegato alla Finanziaria 1997 aveva dato attuazione il D.Lgs. 244/1997. Il
nuovo sistema dei trasferimenti erariali doveva entrare in funzione
contestualmente all’applicazione della nuova disciplina dei tributi locali di cui al
D.Lgs. 446/1997 e, dunque, dal 1° gennaio 1999, ma le Finanziarie successive ne
hanno rinviato l’applicazione di anno in anno. La revisione dell’art. 119 della
Costituzione ad opera della L. cost. 3/2001 e la conseguente approvazione della
L. 42/2009, attuativa del federalismo fiscale, hanno dunque reso obsoleta la
nuova disciplina ancor prima che entrasse in vigore, prevedendo, come visto in
precedenza, la graduale soppressione dei trasferimenti statali diretti al
finanziamento delle funzioni fondamentali degli enti locali.

Per quanto riguarda i Comuni, l’art. 2, comma 8, del D.Lgs.


23/2011 disponeva che, a partire dal 2011, i trasferimenti erariali
ai Comuni delle Regioni a Statuto ordinario fossero ridotti in
misura corrispondente al gettito dei tributi in origine loro devoluti
in virtù del medesimo decreto (vale a dire quelli connessi alla
fiscalità immobiliare). A quantificare tale gettito avevano
provveduto il D.M. 21 giugno 2011, per il 2011, e il D.M. 4
maggio 2012, per il 2012.
La revisione sostanziale a cui è stato in seguito sottoposto il
decreto sul federalismo fiscale municipale, che ha inciso in modo
particolare proprio sul sistema di devoluzione ai Comuni della
fiscalità immobiliare, ha tuttavia spinto il legislatore prima a
sospendere l’applicazione del suddetto comma 8 per gli anni 2013
e 2014, con la L. 228/2012, e quindi a disporne l’abrogazione,
con la L. 147/2013, mantenendo in vita un sistema di
compensazione essenzialmente basato sul fondo di solidarietà
comunale.
Nel caso delle Province, l’art. 18, comma 2, del D.Lgs.
68/2011 stabilisce che, a partire dal 2012, siano soppressi i
trasferimenti statali di parte corrente (e anche quelli in conto
capitale, ove non finanziati tramite il ricorso all’indebitamento)
diretti alle Province delle Regioni a statuto ordinario e aventi
carattere di generalità e permanenza. A tale provvedimento ha
dato attuazione il D.P.C.M. 12 aprile 2012, che ha provveduto
anche ad identificare e quantificare i trasferimenti non oggetto di
soppressione, in quanto non aventi carattere di generalità e di
permanenza.
Per realizzare il processo federalista in forma progressiva e
territorialmente equilibrata, sempre dal 2012 è istituito un fondo
sperimentale di riequilibrio per le Province, alimentato dal
gettito della compartecipazione provinciale all’IRPEF.

B) I trasferimenti dalle Regioni

L’art. 149 T.U.E.L. (commi 12 e 13) dispone che le Regioni concorrano al


finanziamento degli enti locali per la realizzazione del piano regionale di
sviluppo e dei programmi di investimento, assicurando la copertura
finanziaria degli oneri necessari all’esercizio di funzioni trasferite o delegate. Le
Regioni, inoltre, determinano con legge i finanziamenti per le funzioni da esse
attribuite agli enti locali in relazione al costo di gestione dei servizi sulla base
della programmazione regionale. Il ruolo delle Regioni risulta potenziato dalla
disposizione secondo cui le risorse spettanti a Comuni e Province per spese di
investimento previste da leggi settoriali dello Stato sono distribuite sulla base
di programmi regionali.
Naturalmente, al di là di quanto previsto dal T.U.E.L., anche le Regioni sono oggi
chiamate, nell’ambito del federalismo fiscale, a rivedere il sistema dei
trasferimenti agli enti locali.

Va in tale direzione il D.Lgs. 68/2011, disponendo dal 2013 la


soppressione dei trasferimenti regionali di parte corrente (e, ove
non finanziati con il ricorso all’indebitamento, in conto capitale)
diretti al finanziamento delle spese dei Comuni e delle Province
aventi carattere di generalità e di permanenza.

C) I fondi europei

Negli ultimi anni il peso relativo dei fondi europei sul totale delle entrate di
Regioni ed enti locali è aumentato notevolmente, anche in relazione alla
crescente attenzione che l’Unione europea ha dedicato ai problemi di
integrazione economica e sociale delle differenti aree che la compongono e
all’intensificarsi dei divari esistenti tra tali aree conseguente all’adesione di
nuovi Stati.

I fondi strutturali, in particolare, sono gli strumenti finanziari volti a


promuovere lo sviluppo e l’adeguamento strutturale delle regioni a sviluppo
ritardato, riconvertire le aree in declino industriale, lottare contro la
disoccupazione strutturale, facilitare l’inserimento professionale dei giovani e
accelerare la riforma del sistema agrario. Gli attuali fondi strutturali sono:

il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), che si propone di


sostenere lo sviluppo armonioso e la coesione economica delle diverse

regioni dell’Unione attraverso la correzione dei principali squilibri e


l’adeguamento strutturale delle regioni in ritardo;
il Fondo sociale europeo (FSE), che partecipa al finanziamento di corsi

di formazione professionale e di aiuti ai disoccupati e che fu creato nel


1958 proprio per risolvere i problemi di occupazione provocati dalla stessa

integrazione europea.

Quali altri strumenti finanziari vengono messi a disposizione


dall’Unione europea?

Gli altri strumenti finanziari (non rientranti nella categoria dei fondi strutturali)
messi a disposizione dall’Unione europea sono:

il Fondo di coesione (FC), i cui finanziamenti sono principalmente volti

al sostegno di progetti nei settori dell’ambiente e delle reti di trasporto


transeuropee;

il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR),


finalizzato alla promozione dello sviluppo rurale attraverso il
miglioramento della competitività nei settori agricolo e forestale;

il Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca (FEAMP), che


opera a sostegno dello sviluppo sostenibile del settore della pesca, delle
zone di pesca e della pesca nelle acque interne.
la Banca Europea per gli Investimenti (BEI), che, facendo appello al

mercato dei capitali e alle proprie risorse, concede finanziamenti a lungo


termine per la realizzazione di progetti concreti di cui sia garantita
l’attuabilità sotto il profilo economico, tecnico, finanziario e della tutela
ambientale. La BEI è azionista di maggioranza del Fondo Europeo per

gli Investimenti (FEI), con cui costituisce il cd. Gruppo BEI.

3 LE ENTRATE EXTRA-TRIBUTARIE

Il D.P.R. 194/1996 (Regolamento per l’approvazione dei modelli di cui all’art. 114
del D.Lgs. 77/1995) distingueva le entrate extra-tributarie degli enti locali nelle
seguenti 5 categorie:

proventi da servizi pubblici;


proventi dalla gestione patrimoniale;

proventi finanziari (interessi su depositi, su capitale conferito ad aziende


speciali e partecipate);
proventi per utili da aziende speciali e partecipate;

proventi diversi (categoria a carattere residuale).

Gli schemi di bilancio previsti dal D.Lgs. 118/2011, come modificato dal
D.Lgs. 126/2014, e relativi al nuovo ordinamento contabile degli enti locali, di
cui si dirà ampiamente in seguito, si rifanno nella sostanza alla classificazione
delle entrate extra-tributarie prevista dal D.P.R. 194/1996, introducendo, tuttavia,
alcune rilevanti novità. In particolare, l’allegato 9 al suddetto decreto suddivide
tali entrate nelle seguenti cinque categorie:

vendita di beni e servizi e proventi derivanti dalla gestione dei beni;

proventi derivanti dall’attività di controllo e repressione delle irregolarità e


degli illeciti;
interessi attivi;
altre entrate da redditi da capitale;

rimborsi e altre entrate correnti.

Il gettito più rilevante, comunque, è tuttora assicurato dai proventi da servizi


pubblici.

A) I proventi da servizi pubblici

Si è soliti distinguere le entrate dai servizi pubblici in due categorie:

entrate dei servizi a rilevanza economica;

entrate dei servizi a domanda individuale.

Tra i servizi del primo tipo rientrano il servizio idrico integrato, il servizio del
gas metano, il servizio di distribuzione dell’energia elettrica, le farmacie
comunali e le centrali del latte.
Quelli del secondo tipo, invece, includono le attività gestite direttamente
dall’ente su richiesta del cliente (non quindi per obbligo istituzionale); si tratta
di attività quali ad es.: asili nido, alberghi diurni, mense etc. individuate dal D.L.
55/1983 convertito nella L. 131/1983 e dal D.M. 31-12-1983.
Fra le entrate dei servizi a carattere produttivo rivestono particolare
importanza i proventi derivanti dalla gestione del servizio idrico integrato,
istituito dalla L. 36/1994 (legge Galli) e definito come l’insieme dei servizi
pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua a usi civili, di
fognatura e di depurazione delle acque reflue. La suddetta legge è stata poi
abrogata dal Testo Unico Ambiente (D.Lgs. 152/2006), che ha
sostanzialmente riproposto il suo contenuto nella sezione III della Parte III,
intitolata «Gestione delle risorse idriche».

L’art. 149bis del suddetto decreto (come modificato dalla L.


190/2014), nello stabilire che spetta all’ente di governo
dell’ambito territoriale ottimale provvedere all’affidamento del
servizio nel rispetto della normativa nazionale in materia di
organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza
economica, dispone che l’affidamento diretto possa avvenire in
favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti
prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione in house,
comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell’ambito
territoriale ottimale.

L’art. 154 del decreto, come modificato dal D.L. 133/2014, conv. in L.
164/2014, stabilisce i criteri di determinazione della tariffa del servizio
idrico integrato, che tengono conto dei seguenti elementi:

la qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli
adeguamenti necessari;
l’entità dei costi di gestione delle opere e delle aree di salvaguardia;

una quota parte dei costi di funzionamento dell’ente di governo


dell’ambito.

Il D.Lgs. 152/2006 ribadisce che tutte le quote della tariffa in


esame hanno natura di corrispettivo. La tariffa è riscossa dal
gestore del servizio idrico integrato; qualora il servizio idrico
sia gestito separatamente, la riscossione è operata dal gestore del
servizio di acquedotto, che provvede al successivo riparto tra i
diversi gestori interessati entro trenta giorni dalla riscossione (art.
156).

Per quanto riguarda, invece, i servizi a domanda individuale, l’art. 243 del
T.U.E.L. pone una serie di obblighi a carico degli enti locali che si trovano in
condizioni strutturalmente deficitarie (che presentano, cioè, gravi ed
incontrovertibili condizioni di squilibrio). Essi devono dimostrare che il costo
complessivo della gestione dei servizi a domanda individuale sia stato coperto
con i proventi tariffari e i contributi finalizzati in misura non inferiore al 36%.
Agli enti strutturalmente deficitari che non rispettino questo livello minimo di
copertura dei costi di gestione è applicata una sanzione pari all’1% delle
entrate correnti risultanti dal certificato di bilancio del penultimo esercizio
finanziario.

B) Le altre entrate extra-tributarie

Fra le entrate derivanti dalla vendita e dalla gestione dei beni rientrano,
ad esempio, i proventi derivanti dalla vendita di beni di consumo generici, di
medicinali e di altri beni di consumo di tipo sanitario, quelli relativi a canoni,
concessioni e diritti reali di godimento concessi dall’ente locale (come
l’eventuale canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche), i fitti di terreni
e le locazioni di altri beni mobili e immobili.
Fra i proventi derivanti dall’attività di controllo e repressione delle
irregolarità e degli illeciti rientrano, in particolare, le entrate derivanti da
multe, ammende e sanzioni a carico delle famiglie, delle imprese e delle altre
amministrazioni pubbliche.
Nella categoria degli interessi attivi sono compresi gli interessi da titoli o
finanziamenti a breve, medio e lungo termine.
Fra le altre entrate da redditi da capitale vanno registrati i rendimenti attivi
da fondi immobiliari o da fondi comuni di investimento, le entrate derivanti
dalla distribuzione di dividendi e di utili e i proventi derivanti dall’estinzione
anticipata di prestiti.
Infine, nella categoria rimborsi e altre entrate correnti rientrano una serie di
voci residuali quali, ad esempio, gli indennizzi di assicurazione e i rimborsi di
imposte.

Glossario

Piano regionale di sviluppo: documento nel quale vengono indicati gli


obiettivi strategici e le politiche da realizzare nel corso della legislatura.
Normalmente è predisposto dalla Giunta regionale e approvato dal Consiglio
all’inizio della legislatura.

Servizi pubblici locali: complesso delle prestazioni di interesse collettivo


rimesse alla gestione degli enti locali e suscettibili di essere erogate tanto
dagli enti stessi quanto da operatori privati (cd. concessionari).

Trasferimenti: operazioni che consistono nel pagamento, senza alcuna


contropartita, da parte di un soggetto economico a beneficio di un altro
soggetto. In genere il pagamento unilaterale è effettuato dallo Stato a
favore di famiglie o imprese: nel primo caso esso si concretizza nel
versamento di pensioni, assegni familiari, sussidi alla disoccupazione ecc.,
mentre nel secondo si realizza mediante la fiscalizzazione degli oneri
sociali, contributi e incentivi alla produzione ecc.
Tali trasferimenti sono dettati principalmente da ragioni politico-sociali, in
quanto costituiscono strumenti per attuare una più equa redistribuzione del
reddito nazionale o per promuovere lo sviluppo economico di alcune aree
depresse.
CAPITOLO 4
L’ORDINAMENTO CONTABILE

SOMMARIO

Introduzione. – Sezione Prima: L’ordinamento contabile previgente. 1 Le


principali fonti normative. 2 L’armonizzazione dei bilanci degli enti locali
ai conti pubblici. 3 L’introduzione della contabilità economica. 4 L’ambito
di applicazione e la potestà regolamentare. 5 Il servizio economico-
finanziario. – Sezione Seconda: Il nuovo ordinamento contabile. 1
L’attuazione della riforma: il D.Lgs. 118/2011. 2 Le regole contabili
uniformi: i principi contabili generali. 3 Le regole contabili uniformi: i
principi contabili applicati. 4 Il piano dei conti integrato. 5 Gli schemi di
bilancio comuni.

INTRODUZIONE

La L. 42/2009 sul federalismo fiscale ha delegato il Governo ad armonizzare i


sistemi contabili e gli schemi di bilancio degli enti locali in funzione delle
esigenze di programmazione, gestione e rendicontazione della finanza pubblica.
A tale delega ha dato una prima attuazione il D.Lgs. 23 giugno 2011, n. 118,
prevedendo in origine una fase di sperimentazione, di durata pari a due esercizi
finanziari (2012 e 2013), che avrebbe coinvolto un numero limitato di enti. Il
D.L. 102/2013, conv. in L. 124/2013, ha in seguito previsto un terzo anno di
sperimentazione (2014).
Il D.Lgs. 10 agosto 2014, n. 126, infine, apportando numerose e sostanziali
modifiche sia al D.Lgs. 118/2011 sia al T.U.E.L., ha indicato nel 2015 l’anno della
definitiva entrata in vigore del nuovo regime contabile, dando tuttavia la
possibilità agli enti che non hanno partecipato alla suddetta sperimentazione di
rinviare al 2016 parte dei nuovi adempimenti e di rifarsi ancora per un anno ad
alcune disposizioni previste dalla normativa previgente.
Per questo motivo si è scelto di suddividere questo capitolo (e alcuni dei
capitoli successivi) in due Sezioni, riportando nella prima gli articoli del T.U.E.L.
come apparivano prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 126/2014, nella
seconda gli stessi articoli riveduti e corretti dal suddetto decreto per adeguarli
al nuovo regime contabile.

Sezione Prima
L’ordinamento contabile previgente

1 LE PRINCIPALI FONTI NORMATIVE

A) Il D.Lgs. 77/1995

Il D.Lgs. 77/1995 (ora confluito nel T.U.E.L.), disciplinando il nuovo


ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, aveva creato un quadro
organico di principi contabili dando un definitivo colpo di spugna alla pletora di
norme che in modo poco omogeneo e disorganico si erano accavallate in circa
80 anni.

Gli elementi più innovativi del decreto legislativo possono essere così
sintetizzati:

una nuova articolazione del bilancio di previsione, più snello e più leggibile,
con cui il Consiglio fissa gli orientamenti ed i programmi;
l’introduzione del piano esecutivo di gestione (PEG), con cui la Giunta (per

il tramite di dirigenti e funzionari) specifica le singole iniziative;


l’introduzione del controllo di gestione, con cui si verifica lo stato di
attuazione degli obiettivi programmati;
più in generale, l’introduzione di un sistema di contabilità più vicino alle
logiche aziendalistiche.

Col D.Lgs. 336/1996 il legislatore aveva portato a compimento la riforma


dell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, rendendolo più
omogeneo. In seguito, sono state introdotte ulteriori modifiche dai decreti
legislativi 342/1997 e 410/1998.

B) Il D.Lgs. 267/2000 (T.U.E.L.)

I numerosi interventi legislativi avevano minato l’unitarietà del decreto; a ciò si


aggiunga che gli operatori erano costretti ad una defatigante operazione di
raffronto fra più testi normativi.

L’art. 31 della L. 265/1999 ha dunque delegato il Governo a riunire e coordinare


in un Testo Unico le disposizioni legislative vigenti in materia di ordinamento
degli enti locali. Alla delega il Governo ha dato attuazione con D.Lgs.
267/2000 in cui sono confluiti, tra gli altri:

la L. 142/1990;
il D.Lgs. 77/1995 e successive modifiche;
la L. 127/1997 (cd. Bassanini bis).

In particolare, le disposizioni sull’ordinamento finanziario e contabile sono ora


confluite nella Parte II (artt. 149-269) del Testo Unico e, salvo espresse
eccezioni, i riferimenti agli artt. del D.Lgs. 77/1995 contenuti in altre norme
devono ora intendersi alle corrispondenti disposizioni del Testo Unico.

2 L’ARMONIZZAZIONE DEI BILANCI DEGLI ENTI LOCALI AI CONTI


PUBBLICI

Il D.Lgs. 170/2006, recante «Ricognizione dei principi fondamentali in


materia di armonizzazione dei bilanci pubblici», attua la delega conferita al
Governo dalla L. 131/2003.
Il Capo III (principi per l’armonizzazione dei bilanci degli enti locali) richiama
innanzitutto i principi fondamentali a cui deve ispirarsi il bilancio di previsione
(competenza, unità, annualità, coerenza, universalità, ecc.) e poi si sofferma su
alcuni punti essenziali:

gestione provvisoria;

struttura del bilancio;

elementi essenziali della relazione previsionale e programmatica;

bilancio pluriennale;
gestione delle entrate e delle spese;

risultati di amministrazione;
mantenimento degli equilibri di bilancio;
finanziamento mediante indebitamento.

Occorre sottolineare, tuttavia, che, a seguito di una modifica alla L. 42/2009


apportata dalla L. 196/2009 (Legge di contabilità e finanza pubblica), il
Governo è stato delegato ad emanare uno o più decreti legislativi volti non solo
ad assicurare la piena autonomia finanziaria degli enti locali stessi (come si è
visto in precedenza) ma anche ad armonizzare i sistemi contabili e gli schemi
di bilancio dei medesimi enti e i relativi termini di presentazione e
approvazione, in funzione delle esigenze di programmazione, gestione e
rendicontazione della finanza pubblica (art. 2, comma 1).
Si tratta, in sostanza, di facilitare il confronto fra i dati di bilancio degli enti
pubblici territoriali (Regioni ed enti locali), anche e soprattutto allo scopo di
favorire un maggiore coinvolgimento di tali enti nella definizione e nel
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, nell’ambito di quel processo di
riqualificazione della spesa e, più in generale, di responsabilizzazione degli enti
territoriali che costituisce l’altra fondamentale faccia della medaglia del
federalismo fiscale, cioè del riconoscimento di una maggiore autonomia
finanziaria.
Quest’obiettivo dovrà essere perseguito, in particolare, attraverso
l’adozione (art. 2, comma 2, lett. h) di regole contabili uniformi, di
un comune piano dei conti integrato, di comuni schemi di bilancio
articolati in missioni e programmi, di un bilancio consolidato con
le proprie aziende redatto in base ad uno schema comune, di un
sistema di contabilità economico-patrimoniale da affiancare, a soli
fini conoscitivi, al sistema di contabilità finanziaria, di un sistema
di indicatori di risultato semplici, misurabili e costruiti secondo
criteri comuni ai differenti enti territoriali.

Alle deleghe contenute nei due provvedimenti legislativi ha dato attuazione il


citato D.Lgs. 118/2011, che ha previsto una fase di sperimentazione di
durata pari a due esercizi finanziari (2012 e 2013), in seguito estesa al 2014 dal
D.L. 102/2013, conv. in L. 124/2013. Il D.Lgs. 126/2014, nel definire la
disciplina definitiva anche in base alle risultanze della sperimentazione, ha
confermato il 2015 come anno di avvio definitivo del nuovo regime contabile
(cfr. Sezione II).

3 L’INTRODUZIONE DELLA CONTABILITÀ ECONOMICA

In passato la gestione delle risorse dell’ente locale veniva rilevata attraverso


la sola contabilità finanziaria. È innegabile infatti che questa forma contabile
si adatta molto bene alle esigenze di una azienda di erogazione, quale può
essere ad esempio il Comune, in quanto permette:

di programmare l’allocazione delle risorse attraverso il bilancio di

previsione annuale e pluriennale;


di valutare gli effettivi flussi finanziari in entrata, anche grazie ad una più
precisa definizione di accertamento;
di rilevare attraverso l’impegno l’indebitamento effettivo dell’ente nei
confronti di terzi.

Qual è la nuova impostazione data alla contabilità finanziaria dal


D.Lgs. 77/1995?

Uno dei meriti del D.Lgs. 77/1995 è quello di aver reso più precisa la
contabilità finanziaria. L’aspetto positivo della nuova impostazione è che i
risultati economico-patrimoniali realizzati con la gestione potrebbero al limite
essere ricavati con l’ausilio delle sole scritture finanziarie, in quanto il divario
normalmente esistente tra i valori della contabilità finanziaria e quelli della
contabilità generale è stato eliminato per effetto del rigore e della precisione
con cui, come abbiamo detto, sono stati definiti i nuovi concetti di impegno e di
accertamento. Ciò ha fatto sì che gli accertamenti e gli impegni di parte
corrente rilevino crediti e debiti effettivi e, come tali, diventino valori
rappresentativi dei ricavi e dei costi di periodo, allorché rettificati e integrati
con le operazioni di assestamento di fine esercizio. Praticamente nel nuovo
sistema contabile il criterio della competenza finanziaria (accertamento-
impegno) si avvicina fortemente a quello della competenza economica (ricavi-
costi) e generalmente si sovrappone al criterio della competenza patrimoniale
(crediti-debiti).

D’altra parte, nel momento in cui si tenta di utilizzare la contabilità finanziaria


per scopi che esulano dalla sua naturale funzione, ci si accorge che i risultati
sono alquanto deludenti: è per questo che il legislatore ha voluto inserire
forme alternative di rilevazione. Tra queste assume un carattere di assoluta
novità la previsione della contabilità economica. Tuttavia questo sforzo
innovativo sembra perdere di efficacia allorché l’autore del nuovo ordinamento
lascia l’adozione di questa forma contabile alla libera scelta di ciascun ente
locale.
In pratica, la contabilità economico-patrimoniale può essere discrezionalmente
relegata ad un ruolo secondario e non concomitante all’evolversi della gestione,
per cui la visione contabile di insieme nei tre aspetti finanziario, economico e
patrimoniale per alcuni enti potrebbe essere disponibile solo globalmente e a
posteriori, in sede di rendiconto. Secondo questo approccio, i dati finanziari della
gestione vengono trasformati in valori economici e patrimoniali attraverso il cd.
prospetto di conciliazione.

Tuttavia riesce difficile pensare che gli enti, soprattutto quelli di


dimensioni medio-grandi, pur non utilizzando il sistema della
partita doppia per rilevare l’aspetto economico-patrimoniale della
gestione, riescano a consuntivo, senza disporre di notizie precise e
documentabili (scritture di gestione), a stabilire l’esatta grandezza
dei componenti positivi e negativi che confluiranno nel conto
economico. Infatti si avrebbe a posteriori un accumulo disordinato
e confuso di dati empirici, assolutamente privi di ufficialità che,
oltre a complicare la redazione del consuntivo economico,
renderebbero inattendibili i valori in esso esposti e inutile la sua
stesura se non per aver adempiuto nominalmente ad un obbligo
normativo. Va però sottolineato che, come visto in precedenza, la
L. 42/2009 sembra correggere tale impostazione allorché
dispone l’affiancamento alla contabilità finanziaria della contabilità
economico-patrimoniale, sia pure a soli fini conoscitivi.

Altra novità introdotta con il D.Lgs. 77/1995 è la previsione della contabilità


analitica, che permette la costruzione di indici volti ad individuare il grado di
efficienza, efficacia ed economicità realizzato attraverso la gestione. Tale
forma di rilevazione contabile trova la sua impostazione iniziale nel PEG (il
Piano Esecutivo di Gestione, introdotto dal D.Lgs. 77/1995) e la concreta
applicazione nel contesto della gestione.
Quindi, per attuare il controllo della gestione, si ripresenta la necessità di poter
disporre di una contabilità economica dalla quale desumere, attraverso una
opportuna analisi dei conti, i dati significativi sull’andamento della gestione. A
questo fine devono essere opportunamente codificati tutti i centri di costo, già
individuati nel PEG, e gli eventuali servizi elementari, istituiti nei settori in cui
si vuole ottenere un maggior livello di analisi. Detto elemento identificativo sarà
poi utilizzato per contrassegnare nelle rilevazioni in partita doppia i conti
movimentati nel corso della gestione e concernenti le corrispondenti
articolazioni elementari di bilancio.

4 L’AMBITO DI APPLICAZIONE E LA POTESTÀ REGOLAMENTARE

L’art. 150 del T.U.E.L. chiarisce che l’ambito di applicazione della norma
riguarda:

sotto l’aspetto soggettivo l’attività contabile svolta da Province,

Comuni, Comunità montane, Comunità isolane, Città metropolitane, Unioni


di Comuni;
sotto l’aspetto oggettivo le attività di programmazione, gestione,

rendicontazione, di investimento, il servizio di tesoreria, compiti e


attribuzioni dell’organo di revisione economico-finanziaria e il risanamento

finanziario.

In linea generale, il regolamento di contabilità dell’ente deve applicare i


principi contabili stabiliti dal T.U.E.L.; esistono, tuttavia, delle eccezioni,
cioè delle norme del T.U.E.L. che possono non essere applicate qualora il
regolamento preveda una differente disciplina, fra le quali si segnalano (artt.
152-153 T.U.E.L.):

le norme relative alle competenze specifiche dei soggetti


dell’amministrazione preposti alla programmazione, adozione ed attuazione
dei provvedimenti di gestione che hanno carattere finanziario e contabile,

in armonia con le disposizioni del Testo Unico e delle altre leggi vigenti;
le modalità con le quali vengono resi i pareri di regolarità contabile sulle

proposte di deliberazione e viene apposto il visto di regolarità contabile

sulle determinazioni dei soggetti abilitati;


i criteri di segnalazione di fatti e valutazioni che il responsabile finanziario

è tenuto a rendere al Sindaco o al Presidente, al Segretario e al Collegio

dei revisori laddove nella gestione di entrate e spese correnti si rilevino

situazioni che possono rendere precari gli equilibri di bilancio;

l’istituzione di un servizio di economato, cui viene preposto un


responsabile, per la gestione di cassa delle spese di ufficio di non
rilevante ammontare.

5 IL SERVIZIO ECONOMICO-FINANZIARIO

L’art. 153 del T.U.E.L. è dedicato alla disciplina del servizio economico-
finanziario (denominato anche servizio di ragioneria) cui è affidata la
fondamentale funzione di garante dell’equilibrio economico-finanziario.

Il responsabile del servizio finanziario, infatti, è innanzitutto tenuto a coordinare


la predisposizione degli strumenti di programmazione (bilancio annuale e
pluriennale, relazione previsionale) e deve verificare la coerenza:

nella fase preparatoria del bilancio di previsione, basandosi sulla gestione


corrente;
nel corso della gestione di bilancio, mediante verifiche periodiche dello

stato di accertamento delle entrate e di impegno delle spese.


A supporto della funzione di «garante dell’equilibrio economico-finanziario» di
cui prima si diceva, il responsabile del servizio dispone essenzialmente di due
strumenti:

le valutazioni contabili (pareri e visti) su proposte di deliberazione che

incidano sulle riserve delle entrate e sulle determinazioni dirigenziali che


comportano impegni di spesa;

le segnalazioni obbligatorie dei fatti e delle valutazioni allorché la gestione

delle entrate o delle spese correnti evidenzi situazioni tali da pregiudicare

gli equilibri di bilancio. In tali casi il Consiglio è tenuto ad adottare le

misure volte a ripristinare l’equilibrio di cui all’art. 193: la mancata


adozione di tali provvedimenti è assimilata alla mancata adozione del
bilancio previsionale e dà avvio alla procedura di cui all’art. 141 (nomina di

un commissario ad acta; assegnazione di un termine massimo per


l’approvazione degli atti predisposti dal commissario; sostituzione del

Consiglio inadempiente e suo scioglimento).

Per quanto più specificamente riguarda le valutazioni contabili (pareri e visti), in


base all’art. 153 (che va comunque coordinato con l’art. 49, con l’art. 151,
comma 4, e con l’art. 183, comma 9) il responsabile del servizio finanziario:

rende un parere di regolarità contabile (art. 49, come modificato dal

D.L. 174/2012, conv. in L. 213/2012) su ogni proposta di deliberazione


sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo e
che comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-
finanziaria o sul patrimonio dell’ente. Tale parere va inserito nella
deliberazione;
appone il visto di regolarità contabile sulle determinazioni dei soggetti

abilitati. Le determinazioni che «comportino impegni di spesa sono


esecutive con l’apposizione del visto di regolarità contabile» (art. 151,

comma 4, cui rinvia anche l’art. 183, comma 9).

Le modalità con cui il responsabile del servizio finanziario esprime tali


valutazioni contabili sono giustamente demandate al regolamento di contabilità.
Esula, in ogni caso, dalle competenze del servizio finanziario, qualsiasi
valutazione sulla legittimità e sul merito del provvedimento.

Appare dunque evidente la centralità del servizio finanziario per


il coordinamento e la gestione dell’attività finanziaria nonché la
corretta applicazione del principio di distinzione dei ruoli fra
politici e dirigenti: al responsabile del servizio finanziario spettano
funzioni gestionali e di controllo.

L’organizzazione del servizio finanziario è demandata al regolamento


sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, di competenza della Giunta, che
però dovrà rispettare i criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e
dei servizi individuati dal Consiglio.

Il servizio economato è obbligatorio per tutti gli enti?

Ai sensi dell’art. 153, comma 7, del T.U.E.L. ogni ente è tenuto ad istituire un
servizio economato per la gestione delle minute spese di ufficio e di
manutenzione. Il responsabile di tale servizio, lì dove le dimensioni dell’ente lo
consentano, andrebbe individuato in un soggetto distinto dal responsabile del
servizio finanziario. L’economo deve redigere il proprio conto evidenziando le
riscossioni per anticipazioni e rimborsi e i pagamenti per spese di non rilevante
ammontare.

Sezione Seconda
Il nuovo ordinamento contabile

1 L’ATTUAZIONE DELLA RIFORMA: IL D.LGS. 118/2011

In attuazione della delega contenuta nella L. 42/2009, il D.Lgs. 23 giugno


2011, n. 118, come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2014, n. 126, ha
provveduto a definire le modalità di realizzazione del processo di
armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni,
degli enti locali e dei loro enti ed organismi strumentali (Titoli I e III),
indicando tuttavia una disciplina specifica per quelli operanti nell’ambito del
servizio sanitario nazionale (Titolo II).
A tale scopo, il suddetto decreto individua una regola di base (art. 2), secondo
la quale gli enti menzionati affiancano alla contabilità finanziaria, a fini
conoscitivi, una contabilità economico-patrimoniale, al fine di garantire la
rilevazione unitaria dei fatti gestionali sia sotto il profilo finanziario che sotto
quello economico-patrimoniale, e tre strumenti operativi: regole contabili
uniformi (art. 3); piano dei conti integrato (art. 4); schemi di bilancio comuni
(art. 11).

2 LE REGOLE CONTABILI UNIFORMI: I PRINCIPI CONTABILI


GENERALI

Le Regioni e gli enti locali, nonché i loro enti strumentali, devono conformare la
propria gestione ai principi contabili generali, contenuti nell’allegato 1 al
D.Lgs. 118/2011, ed ai principi contabili applicati (cfr. §3), indicati nell’art. 3
del decreto stesso.

I principi contabili generali sono:


annualità: i documenti del sistema di bilancio, sia di previsione sia di

rendicontazione, sono predisposti con cadenza annuale e si riferiscono a

distinti periodi di gestione coincidenti con l’anno solare;


unità: la singola amministrazione pubblica è un’entità giuridica unica e

unitaria, per cui devono essere unici e unitari il suo bilancio di previsione,

il suo rendiconto e il suo bilancio d’esercizio. Ciò significa, in sostanza,


che il totale delle entrate deve finanziare indistintamente il totale delle

spese e che le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al

finanziamento di spese di investimento;

universalità: tutte le entrate e tutte le spese dell’ente devono essere


rappresentate in bilancio. Sono, dunque, incompatibili le gestioni fuori

bilancio;
integrità: tutte le entrate devono essere iscritte in bilancio al lordo delle
spese ad esse connesse (es. spese di riscossione), come pure tutte le

spese debbono essere iscritte per il loro importo integrale, senza alcuna
riduzione collegata alle entrate ad esse pertinenti;
veridicità, attendibilità, correttezza e comprensibilità: le previsioni di

entrata devono essere realisticamente valutate in modo tale che


corrispondano a quanto effettivamente i diversi cespiti possono produrre,

evitando l’iscrizione di entrate dirette a pareggiare fittiziamente il


bilancio; d’altro canto le previsioni di spesa devono essere iscritte in
bilancio per l’importo reale che si ritiene di dover sostenere nell’anno;
significatività e rilevanza: l’informazione fornita deve essere

significativa, cioè in grado di influenzare le decisioni degli utilizzatori


aiutandoli a valutare gli eventi passati, presenti o futuri, e rilevante, nel

senso che la sua omissione o errata presentazione può influenzare le


decisioni dell’utilizzatore;

flessibilità: nel sistema del bilancio di previsione i documenti non

debbono essere interpretati come immodificabili, perché questo


comporterebbe una rigidità nella gestione che può rivelarsi

controproducente quando occorre fronteggiare gli effetti di circostanze

imprevedibili e straordinarie che si possono manifestare durante la

gestione, modificando i valori in precedenza approvati dagli organi di

governo;
congruità: tale principio richiede che i mezzi disponibili siano adeguati
rispetto ai fini stabiliti;

prudenza: nel bilancio di previsione devono essere iscritte solo le


componenti positive che ragionevolmente saranno disponibili nel periodo

considerato, mentre le componenti negative devono essere limitate alle


sole voci degli impegni sostenibili e direttamente collegate alle risorse
previste. Nel rendiconto, invece, le componenti positive che non si sono

realizzate non devono essere riportate, mentre tutte le componenti


negative devono essere contabilizzate, anche se non sono definitivamente
realizzate;
coerenza: occorre assicurare un nesso logico e conseguente fra la

programmazione, la previsione, gli atti di gestione e la rendicontazione


generale;
continuità e costanza: il principio della continuità richiede che la
valutazione delle poste contabili venga effettuata nella prospettiva della

continuazione delle attività istituzionali dell’ente. La costanza di


applicazione dei principi contabili generali e di quelli particolari di

valutazione è uno dei cardini delle determinazioni finanziarie, economiche

e patrimoniali dei bilanci di previsione, della gestione, del rendiconto e


bilancio d’esercizio (principio della costanza);

comparabilità e verificabilità: gli utilizzatori delle informazioni di

bilancio devono poter comparare nel tempo le informazioni del sistema di

bilancio, al fine di identificarne gli andamenti tendenziali. Essi, inoltre,

devono poter confrontare le informazioni di bilancio anche tra enti pubblici


diversi, e dello stesso settore, al fine di valutarne le diverse potenzialità
gestionali, gli orientamenti strategici e le qualità di una sana e buona

amministrazione. Inoltre, l’informazione patrimoniale, economica e


finanziaria deve essere verificabile attraverso la ricostruzione del

procedimento valutativo seguito. A tale scopo le amministrazioni pubbliche


devono conservare la necessaria documentazione probatoria (principio
della verificabilità);

neutralità: la redazione dei documenti contabili deve fondarsi su principi


contabili indipendenti ed imparziali verso tutti i destinatari, senza servire
o favorire gli interessi o le esigenze di particolari gruppi;
pubblicità: i documenti di bilancio devono essere resi pubblici secondo le

norme vigenti e le informazioni in essi contenute, se necessario, possono


essere ulteriormente integrate ed ampliate, anche al di là delle
prescrizioni di legge;
equilibrio di bilancio: tale principio rappresenta una sostanziale novità

rispetto ai principi indicati dall’art. 162 del T.U.E.L. prima delle modifiche
apportate dal D.Lgs. 126/2014. Fra tali principi rientrava, infatti il

principio del pareggio finanziario, secondo cui, in pratica, la somma di

tutte le entrate doveva essere uguale alla somma di tutte le spese. Il


rispetto di tale principio, tuttavia, non basta a soddisfare il principio

generale dell’equilibrio del sistema di bilancio di ogni pubblica

amministrazione, in quanto non comporta necessariamente una stabilità

anche di tipo economico e patrimoniale. Il principio dell’equilibrio di

bilancio, invece, richiede anche la corretta applicazione di tutti gli altri


equilibri finanziari, economici e patrimoniali che sono da verificare non
solo in sede di previsione, ma anche durante la gestione, in modo

concomitante con lo svolgersi delle operazioni di esercizio, e quindi nei


risultati complessivi dell’esercizio che si riflettono nei documenti contabili

di rendicontazione;
competenza finanziaria: le obbligazioni attive e passive giuridicamente
perfezionate devono essere registrate nelle scritture contabili nel

momento in cui vengono perfezionate, ma vanno imputate all’esercizio nel


quale andranno a scadenza (cd. competenza finanziaria potenziata). Tale
principio dovrebbe consentire di conoscere con precisione i debiti effettivi
contratti da Regioni ed enti locali, evitare l’accertamento di entrate future

e di impegni inesistenti, avvicinare la contabilità finanziaria e quella


economico-patrimoniale. Come si vedrà in seguito (cap. 8), al fine di dare
concreta attuazione al principio della competenza finanziaria, l’art. 3 del
D.Lgs. 118/2011, come modificato dal D.Lgs. 126/2014, dispone che i

Comuni provvedano annualmente al riaccertamento dei residui attivi e


passivi, verificando, ai fini del rendiconto, le ragioni del loro

mantenimento. Per facilitare la delicata fase di passaggio al nuovo regime

contabile e adeguare lo stock di residui attivi e passivi formatisi prima


dell’entrata in vigore della riforma alla nuova configurazione del principio

contabile della competenza finanziaria, il comma 7 del citato art. 3

prevede che gli enti destinatari della riforma stessa (ad eccezione di quelli

che nel 2014 hanno partecipato alla sperimentazione) contestualmente

all’approvazione del rendiconto 2014 provvedano al riaccertamento


straordinario dei residui, consistente, in sostanza, nel processo di
verifica, cancellazione e reimputazione dei crediti e dei debiti ereditati

dagli esercizi precedenti all’adozione del nuovo regime;


competenza economica: principio che definisce il criterio con cui sono

imputati gli effetti delle diverse operazioni e attività poste in essere


dall’ente nel corso dell’esercizio e che si concretizzano in utilità
economiche cedute (costi/oneri) o acquisite (ricavi/proventi), anche non

direttamente collegate ai relativi movimenti finanziari (incassi e


pagamenti). Secondo tale principio, l’effetto di tali operazioni ed attività
deve essere rilevato contabilmente e attribuito all’esercizio al quale si
riferiscono e non a quello in cui si concretizzano i relativi movimenti

finanziari. Il principio della competenza economica è riferibile ai soli


prospetti di natura economica e patrimoniale facenti parte di ogni sistema
di bilancio (in particolare, il budget economico e/o preventivo economico, il
conto economico e il conto del patrimonio nel rendiconto della gestione);

principio della prevalenza della sostanza sulla forma: tutte le


operazioni e i fatti che sono accaduti durante l’esercizio devono essere

rilevati contabilmente in relazione alla loro sostanza effettiva e quindi alla

realtà economica che li ha generati e ai contenuti della stessa e non


soltanto alle regole e alle norme vigenti che ne disciplinano la

contabilizzazione formale.

3 LE REGOLE CONTABILI UNIFORMI: I PRINCIPI CONTABILI


APPLICATI

L’art. 3 del D.Lgs 118/2011 dispone che Regioni ed enti locali conformino la
propria gestione, oltre che ai principi contabili generali di cui sopra, anche a
quattro principi contabili applicati (allegato 4/1).

A) Il principio della programmazione di bilancio

La programmazione è quel processo di analisi e di valutazione che, ordinando le


politiche e i piani per il governo del territorio, consente di organizzare, in un
determinato ambito temporale, le attività e le risorse necessarie a realizzare
gli obiettivi sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile della
comunità di riferimento, tenendo conto del programma di governo dell’ente, con
il quale vengono definiti le finalità e gli obiettivi di gestione dell’ente stesso, dei
suoi enti strumentali, delle società controllate e partecipate (il cd. gruppo
amministrazione pubblica), e degli indirizzi di finanza pubblica definiti in ambito
nazionale ed europeo.

Quali caratteristiche deve avere il processo di programmazione di


un’amministrazione pubblica?
Il processo di programmazione di un’amministrazione pubblica (e quindi anche
di un ente locale) deve:

avere una valenza pluriennale, in quanto la necessità di concorrere al


perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica rende fondamentale

adottare nell’attività di programmazione un orizzonte temporale almeno

triennale;
consentire una lettura non solo contabile dei documenti di

programmazione, che hanno una valenza non solo politico-amministrativa

ed economico-finanziaria ma anche informativa e che, pertanto, devono

poter essere letti e compresi da chiunque ne abbia interesse. Risulta


fondamentale, in tal senso, il rispetto dei principi contabili generali della

comprensibilità e della competenza finanziaria;


essere strutturato in modo tale che i documenti che lo compongono siano
coordinati e coerenti fra loro. Il bilancio di previsione, ad esempio, deve

rappresentare con chiarezza non solo gli effetti contabili delle decisioni
assunte ma anche la loro coerenza con il programma politico, con il
quadro economico-finanziario e con i vincoli di finanza pubblica.

I documenti che compongono il processo di programmazione degli enti locali


sono:

il Documento unico di programmazione (DUP), che di fatto sostituisce la


relazione previsionale e programmatica e che va presentato al Consiglio
entro il 31 luglio;

l’eventuale nota di aggiornamento del DUP, da presentare al Consiglio


entro il 15 novembre;

lo schema di bilancio di previsione finanziario, da presentare al Consiglio

entro il 15 novembre;
il piano esecutivo di gestione e delle performances, approvato dalla Giunta

entro dieci giorni dall’approvazione del bilancio;

il piano degli indicatori di bilancio, presentato al Consiglio unitamente al

bilancio di previsione e al rendiconto ;

lo schema di delibera di assestamento del bilancio, comprendente lo stato


di attuazione dei programmi e il controllo della salvaguardia degli equilibri
di bilancio, da presentare al Consiglio entro il 31 luglio;

le variazioni di bilancio.

Il sistema di bilancio dell’ente si conclude con lo schema di rendiconto sulla


gestione, da approvarsi da parte della Giunta entro il 30 aprile e da parte del
Consiglio entro il 31 maggio dell’anno successivo a quello di riferimento.

B) Il principio della contabilità finanziaria

Il principio della contabilità finanziaria (allegato 4/2) disciplina nel dettaglio


le modalità di contabilizzazione dei fatti gestionali che abbiano contenuto
finanziario, economico e patrimoniale, stabilendo che, nelle amministrazioni
pubbliche che la adottano, la contabilità finanziaria costituisce il sistema
contabile principale e fondamentale per fini autorizzatori e di rendicontazione
della gestione.
La contabilità finanziaria rileva le obbligazioni, attive e passive, gli incassi ed i
pagamenti riguardanti tutte le transazioni poste in essere da una
amministrazione pubblica, anche se non determinano flussi di cassa effettivi.
Per transazione si intende ogni evento o azione che determina la
creazione, la trasformazione, lo scambio, il trasferimento o
l’estinzione di valori economici, patrimoniali e finanziari (debiti e
crediti) e che ha origine dall’interazione dell’ente con altre
amministrazioni pubbliche, con società e con famiglie, interazione
che avviene per mutuo accordo o per atto unilaterale dell’ente;

C) Il principio della contabilità economico-patrimoniale

L’articolo 2 del D.Lgs. 118/2011 prevede, per gli enti in contabilità finanziaria,
l’adozione di un sistema contabile integrato che garantisca la rilevazione
unitaria dei fatti gestionali sia sotto il profilo finanziario che sotto il profilo
economico-patrimoniale.

Nell’ambito di tale sistema integrato, la contabilità economico patrimoniale


affianca la contabilità finanziaria, che costituisce il sistema contabile principale
e fondamentale per fini autorizzatori e di rendicontazione della gestione, per
rilevare i costi/oneri e i ricavi/proventi derivanti dalle transazioni poste in
essere dall’ente, al fine di (allegato 4/3):

a. predisporre il conto economico per rappresentare le utilità economiche

acquisite ed utilizzate nel corso di un esercizio, anche se non

direttamente collegate ai relativi movimenti finanziari, e per alimentare

il processo di programmazione;

b. consentire la predisposizione dello stato patrimoniale, e rilevare, in

particolare, le variazioni del patrimonio dell’ente che costituiscono un

indicatore dei risultati della gestione;


c. permettere l’elaborazione del bilancio consolidato di ogni

amministrazione pubblica con i propri enti e organismi strumentali,

aziende e società;

d. predisporre la base informativa necessaria per la determinazione

analitica dei costi;

e. consentire la verifica nel corso dell’esercizio della situazione

patrimoniale ed economica dell’ente e del processo di provvista e di

impiego delle risorse;

f. conseguire le altre finalità previste dalla legge e, in particolare,

consentire ai vari portatori d’interesse di acquisire ulteriori informazioni

concernenti la gestione delle singole amministrazioni pubbliche.

Si noti, tuttavia, che, secondo quanto stabilito dal comma 12 dell’art. 3,


l’adozione del principio contabile applicato della contabilità economico-
patrimoniale, e il conseguente affiancamento di tale tipo di contabilità alla
contabilità finanziaria, può essere rinviata all’anno 2016, con la sola eccezione
degli enti che nel 2014 hanno partecipato alla fase di sperimentazione.

D) Il principio del bilancio consolidato

Secondo quanto stabilito dall’art. 11bis del D.Lgs. 118/2011, i Comuni devono
redigere un bilancio consolidato (cfr. Cap. 8, Sez. II, §5) che rappresenti in
modo veritiero e corretto la situazione finanziaria e patrimoniale e il risultato
economico dell’attività complessiva svolta dall’ente attraverso le proprie
articolazioni organizzative, i suoi enti strumentali e le sue società controllate e
partecipate (il cd. gruppo amministrazione pubblica).
Il bilancio consolidato è composto dal conto economico consolidato e dallo
stato patrimoniale consolidato e ad esso vanno allegati la relazione sulla
gestione consolidata (comprensiva della nota integrativa) e la relazione del
collegio dei revisori.

4 IL PIANO DEI CONTI INTEGRATO

Un altro strumento fondamentale per facilitare il processo di armonizzazione


dei bilanci degli enti territoriali è rappresentato dall’adozione di un piano dei
conti integrato (art. 4) che renda possibile il confronto tra i dati forniti dai
vari enti e, soprattutto, il consolidamento e il monitoraggio dei conti pubblici.

Tale piano è costituito dall’elenco delle articolazioni delle unità


elementari del bilancio finanziario gestionale e dei conti
economico-patrimoniali, in modo da evidenziare le modalità di
raccordo fra i dati finanziari e quelli economico-patrimoniali,
consentendo così la rilevazione unitaria dei fatti gestionali.
L’allegato 6 al D.Lgs. 118/2011 definisce nel dettaglio il piano dei
conti finanziario (allegato 6/1), economico (allegato 6/2) e
patrimoniale (allegato 6/3) cui devono uniformarsi gli enti
destinatari delle disposizioni di cui al decreto stesso.
Ai sensi dell’art. 3, comma 12, del D.Lgs. 118/2011, anche
l’adozione del piano dei conti integrato può essere rinviata all’anno
2016, ad eccezione degli enti che hanno partecipato nel 2014 alla
fase di sperimentazione.

5 GLI SCHEMI DI BILANCIO COMUNI

L’art. 11 del D.Lgs. 118/2011 (come modificato dal D.Lgs. 126/2014) dispone
che Regioni ed enti locali adottino comuni schemi di bilancio finanziari,
economici e patrimoniali, nonché comuni schemi di bilancio consolidato con i
propri enti e organismi strumentali, aziende, società controllate e partecipate e
altri organismi controllati. In particolare:

lo schema del bilancio di previsione finanziario (allegato 9), comprendente


le previsioni delle entrate e delle spese, di cassa e di competenza, del
primo esercizio, delle entrate e delle spese di competenza degli esercizi

successivi, nonché i relativi riepiloghi e i prospetti riguardanti il quadro

generale riassuntivo e gli equilibri;

lo schema del rendiconto della gestione (allegato 10), che comprende il


conto del bilancio (con i relativi riepiloghi, i prospetti riguardanti il quadro

generale riassuntivo e la verifica degli equilibri), lo stato patrimoniale e il


conto economico;
lo schema del bilancio consolidato (allegato 11).

Oltre a tali documenti, gli enti interessati dalla riforma devono redigere un
rendiconto semplificato per il cittadino, da divulgare sul proprio sito internet, in
cui esporre sinteticamente i dati di bilancio (evidenziando le risorse umane,
finanziarie e strumentali utilizzate) e i risultati conseguiti, in termini di livello
di copertura e di qualità dei servizi pubblici forniti ai cittadini stessi.

Per quanto riguarda l’obbligatorietà dell’adozione di tali schemi


comuni, anche stavolta il legislatore ha privilegiato un approccio
graduale, stabilendo che (art. 11, commi 12-15):

a partire dal 2015 solo gli enti che nel 2014 hanno
partecipato alla fase di sperimentazione saranno tenuti ad
adottare i nuovi schemi di bilancio di cui al D.Lgs. 118/2011

(che assumeranno valore a tutti gli effetti giuridici,


compresa la funzione autorizzatoria), ai quali dovranno
affiancare, con funzione conoscitiva, gli schemi basati sulla

normativa previgente;
nel 2015, per gli enti che nel 2014 non hanno partecipato alla

fase di sperimentazione, gli schemi di bilancio comuni di cui

al D.Lgs. 118/2011 avranno mera funzione conoscitiva e


andranno ad affiancarsi agli schemi di bilancio previgenti, che

conserveranno valore a tutti gli effetti giuridici, anche

riguardo alla funzione autorizzatoria;

solo a decorrere dal 2016 tutti gli enti coinvolti nella riforma

dovranno adottare i nuovi schemi di bilancio, che


assumeranno valore a tutti gli effetti giuridici, anche con
riguardo alla funzione autorizzatoria.

Glossario

Contabilità: insieme di regole che consentono di rilevare i fatti relativi


all’attività economica svolta da un’impresa, al fine di conoscerne la
situazione economica, finanziaria e patrimoniale in un dato momento e di
calcolare il risultato di gestione ottenuto in un periodo determinato.

Partita doppia: sistema di rilevazione contabile che si basa sulla


preventiva redazione di un piano dei conti, cioè di un insieme di conti
ciascuno dei quali è suddiviso in due sezioni, la sezione del Dare a sinistra
e la sezione dell’Avere a destra, in cui vengono registrate variazioni di
segno opposto. In tale sistema, qualsiasi fenomeno oggetto di rilevazione
deve essere registrato simultaneamente in due (o più) conti diversi e in
sezioni opposte, in modo che sia sempre rispettata l’uguaglianza tra valori
iscritti nella sezione Dare e valori iscritti nella sezione Avere, per cui, in
ogni istante, il totale dei saldi Dare deve essere uguale al totale dei saldi
Avere.
La possibilità di registrare ogni fenomeno economico in due o più conti
deriva dal fatto che ciascun fenomeno può essere analizzato da un punto di
vista finanziario e da uno economico; la vendita di un bene in cambio di
contanti, ad esempio, determina il contemporaneo verificarsi di un incasso
(aspetto finanziario) e di un ricavo (aspetto economico).

Testo unico: testo normativo che raccoglie le disposizioni contenute in


molteplici atti normativi succedutisi nel tempo e accomunati dal fatto di
disciplinare la stessa materia.
CAPITOLO 5
LA PROGRAMMAZIONE

SOMMARIO

Sezione Prima: L’ordinamento contabile previgente. 1 Il sistema della


contabilità finanziaria e la programmazione. 2 Il programma di mandato e
il piano generale di sviluppo. 3 La relazione previsionale e programmatica.
4 Il bilancio pluriennale. 5 Il bilancio annuale. 6 Il piano esecutivo di
gestione. 7 Altri allegati al bilancio di previsione. 8 Approvazione del
bilancio e dei suoi allegati. - Sezione Seconda: Il nuovo ordinamento
contabile. 1 Il documento unico di programmazione (DUP). 2 Il bilancio di
previsione finanziario. 3 Il piano esecutivo di gestione. 4 Il piano degli
indicatori e dei risultati attesi di bilancio.

Sezione Prima
L’ordinamento contabile previgente

1 IL SISTEMA DELLA CONTABILITÀ FINANZIARIA E LA


PROGRAMMAZIONE

Con il termine «contabilità» si indica generalmente quel sistema di rilevazioni,


ottenute attraverso l’uso di «conti», che fornisce informazioni sulla gestione di
un qualsiasi affare.
A sua volta il conto è quello strumento di rilevazione dei fatti della gestione,
caratterizzato da un prospetto a due sezioni, ove sono accolte le opposte
variazioni di valore subite da un dato oggetto nel corso dell’esercizio.
Pertanto, quando si parla di contabilità finanziaria lo si fa impropriamente,
perché, in realtà, questa non fa uso di conti, ma di scritture a partita semplice.
Inoltre tali scritture rilevano quei fatti della gestione con effetti solo finanziari,
non percependo, invece, le variazioni economiche (es. ammortamenti, variazioni
delle rimanenze ecc.), a meno che da queste ultime non si generino,
contestualmente, anche movimenti di cassa.

Il sistema della contabilità finanziaria si svolge secondo tre fasi temporali:

la prima è quella della programmazione finanziaria, la quale assume

notevole rilevanza politico-amministrativa, in quanto in essa vengono


decisi i programmi e gli indirizzi sia della gestione corrente sia di medio

termine, i quali incidono anche sulla programmazione futura;

poi abbiamo la fase della gestione del bilancio, ove si rilevano i fatti

della gestione dal punto di vista finanziario, che interessano le entrate


previste, le spese programmate e gli equilibri di bilancio nel loro divenire

(cfr. Cap. 6);


l’ultima fase è quella della chiusura ove, attraverso il conto del bilancio,
vengono dimostrati i risultati finanziari della gestione e di

amministrazione. Quindi, attraverso il prospetto di conciliazione, i dati


finanziari del conto del bilancio vengono trasformati in valori economici e
patrimoniali, i primi necessari alla compilazione del conto economico e i

secondi alla redazione del conto del patrimonio (cfr. Cap. 8).

Che cosa sono i principi contabili per gli enti locali?


Allo scopo di fornire un’interpretazione tecnica delle norme relative
all’ordinamento contabile degli enti locali contenute nel T.U.E.L., l’Osservatorio
sulla finanza e la contabilità degli enti locali (di cui all’art. 154 T.U.E.L.),
istituito presso il Ministero dell’interno, ha definito i principi contabili per gli
enti locali, vale a dire una serie di disposizioni tecniche non obbligatorie
ma atte a favorire l’attuazione dell’ordinamento stesso e a consentire agli
organi di governo dell’ente e, soprattutto, ai responsabili dei servizi finanziari e
degli altri servizi di ottemperare in modo corretto ai loro compiti.

I principi contabili si compongono di un documento introduttivo (Finalità e


postulati dei principi contabili per gli enti locali) e di altri tre documenti relativi
alle tre fasi della contabilità finanziaria:

principio contabile n. 1: programmazione e previsione nel sistema di

bilancio;

principio contabile n. 2: gestione nel sistema di bilancio;


principio contabile n. 3: rendiconto degli enti locali.

Nell’aprile 2009 l’Osservatorio, dopo una lunga fase di consultazione con le


istituzioni e le associazioni professionali, ha approvato una nuova versione dei
tre principi contabili, rivisti anche alla luce delle modifiche normative nel
frattempo intervenute, e ha nel contempo proposto l’introduzione di un quarto
principio, relativo al bilancio consolidato.

Gli atti fondamentali del sistema di programmazione finanziaria possono


essere classificati in base all’orizzonte temporale considerato. Da questo punto
di vista si suole distinguere:

gli strumenti di programmazione relativi alla durata del mandato: il


programma di mandato e il piano generale di sviluppo;
gli strumenti di programmazione pluriennale: la relazione previsionale

e programmatica, il bilancio pluriennale di previsione;


gli strumenti di programmazione annuale: il bilancio annuale di

previsione e il piano esecutivo di gestione.

2 IL PROGRAMMA DI MANDATO E IL PIANO GENERALE DI SVILUPPO

L’art. 46, comma 3, del T.U.E.L. dispone che, entro il termine fissato dallo
Statuto, il sindaco o il presidente della provincia, sentita la Giunta, presenta al
Consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare
nel corso del mandato; si tratta di quello che la dottrina ha definito il
«programma di mandato» o «programma di legislatura», vale a dire un
documento che, seppure libero nella forma, deve specificare le linee
programmatiche dell’azione di governo relative a tutta la durata del mandato
elettivo (5 anni).

La trasparenza del rapporto con l’elettorato e la logica vogliono


che il programma di mandato non possa che identificarsi o rifarsi
strettamente al programma elettorale con il quale il Sindaco o il
Presidente della Provincia si sono proposti ai cittadini durante la
campagna elettorale e sulla base del quale hanno raccolto il
consenso.
Il programma di mandato chiarifica e riempie di contenuti concreti
il rapporto fiduciario fra l’organo esecutivo e la cittadinanza
amministrata e, allo stesso tempo, specifica il ruolo di indirizzo e
di controllo politico-amministrativo del Consiglio, sancito dall’art.
42, comma 1, del T.U.E.L., tramite il riconoscimento all’organo
consiliare di un potere di partecipazione «alla definizione,
all’adeguamento e alla verifica periodica dell’attuazione delle linee
programmatiche» da parte dell’organo esecutivo.

La legge, in ossequio al principio dell’autonomia degli enti locali, rinvia allo


Statuto la determinazione delle modalità e dei tempi di presentazione del
programma di mandato e delle relative verifiche consiliari. Non è prescritto,
dunque, un contenuto obbligatorio per il programma di mandato. È di tutta
evidenza, però, che il documento, avendo il compito di delineare il disegno
strategico dell’Amministrazione, ha un contenuto politico-amministrativo e deve
rispondere alla necessità di esplicitare fin dall’inizio della legislatura gli obiettivi
generali dell’azione di governo.
Il piano generale di sviluppo dell’ente, previsto come documento obbligatorio
dall’art. 165, comma 7, del T.U.E.L., comporta il confronto delle linee
programmatiche, di cui all’art. 46, con le reali possibilità operative dell’ente ed
esprime, per la durata del mandato in corso, le linee dell’azione dell’ente
nell’organizzazione e nel funzionamento degli uffici, nei servizi da assicurare,
nelle risorse finanziarie correnti acquisibili e negli investimenti e delle opere
pubbliche da realizzare.

Ne consegue che la sua predisposizione richiede l’approfondimento


dei seguenti temi:

a. le necessità finanziarie e strutturali per l’espletamento dei

servizi che non abbisognano di realizzazione di

investimento;

b. le possibilità di finanziamento con risorse correnti per

l’espletamento dei servizi, oltre le risorse assegnate in

precedenza, nei limiti delle possibilità di espansione;

c. il contenuto concreto degli investimenti e delle opere

pubbliche che si pensa di realizzare, indicazioni circa il

loro costo in termini di spesa di investimento ed i riflessi


per quanto riguarda la spesa corrente per ciascuno degli

anni del mandato;

d. le disponibilità di mezzi straordinari;

e. le disponibilità in termini di indebitamento;

f. il costo delle operazioni finanziarie e le possibilità di

copertura;

g. la compatibilità con le disposizioni del patto di stabilità

interno.

3 LA RELAZIONE PREVISIONALE E PROGRAMMATICA

La relazione previsionale e programmatica va allegata al bilancio di previsione


(art. 170, T.U.E.L.). Essa è predisposta dall’organo esecutivo e da questo
presentata all’organo consiliare cui compete l’approvazione.

Quale forma deve avere la relazione previsionale?


Lo schema di relazione (approvato con D.P.R. 326/1998) prevede per tutti gli
enti soggetti alla disciplina l’indicazione obbligatoria di un nucleo di notizie
fondamentali e indispensabili per l’attività di previsione. Questo vincolo di
uniformità dà la possibilità di disporre di informazioni contabili ed extracontabili
omogenee dal punto di vista qualitativo e quantitativo, che hanno anche il
vantaggio di essere comparabili nel tempo e nello spazio e suscettibili di
consolidamento. Ciascun ente ha però la facoltà in sede di stesura della
relazione di aggiungere ulteriori elementi ritenuti qualificanti per la specifica
attività di programmazione.

La relazione previsionale e programmatica prende le mosse dalle indicazioni


contenute negli indirizzi generali di governo, approvati dal Consiglio dopo la
comunicazione da parte del Sindaco della nomina dei componenti della Giunta
comunale. La sua analisi si riferisce ad un periodo corrispondente a quello del
bilancio pluriennale.

Tale documento di programmazione si divide in sei Sezioni, ove


nella prima vengono illustrate le caratteristiche della popolazione,
del territorio, dell’economia insediata e dei servizi dell’ente; nella
seconda viene effettuata un’analisi delle risorse; nella terza sono
invece presentati i programmi e i progetti da attuare nel periodo
di programmazione; nella quarta viene fatto il punto sullo stato di
attuazione dei programmi deliberati negli anni precedenti; nella
quinta sono rilevati i dati per il consolidamento dei conti pubblici
ed infine nella sezione sesta sono inserite considerazioni
concernenti la coerenza dei programmi rispetto agli atti
programmatici della Regione.
L’indicazione di tutti i predetti dati, oltre ad avere lo scopo di
programmare l’attività dell’ente in un determinato arco temporale,
ha anche il fine di:

indicare, a memoria dei responsabili dei servizi, gli


obiettivi da realizzare:

in termini di bilancio, stabilendo l’ammontare delle


risorse di entrata da realizzare e degli interventi di
spesa da effettuare;

in termini di efficacia dei servizi, dimostrando la


capacità di raggiungere i livelli di outputs programmati

o, in senso lato, di centrare gli obiettivi previsti;

in termini di efficienza dei servizi, ottenendo un


rapporto output-input (obiettivi raggiunti - mezzi

impiegati) ritenuto ottimale. La necessità di realizzare

una gestione efficiente discende dal fatto che le risorse

a disposizione sono limitate e non sufficienti a

raggiungere tutti gli obiettivi di cui la collettività


abbisogna. Da ciò consegue che ogni azione o attività
deve essere diretta a minimizzare gli sprechi dei mezzi

utilizzati per realizzare almeno gli obiettivi prefissati.


In questo senso il concetto di efficienza si identifica

con quello dell’ottima allocazione delle risorse tra i


bisogni collettivi ritenuti emergenti;
in termini di economicità dei servizi, minimizzando i

rapporti costi-ricavi, quindi massimizzando i profitti o i


benefici di cui gli amministrati hanno goduto per effetto
di una gestione economicamente corretta;

dimostrare la coerenza delle previsioni in riferimento ad


altri strumenti di programmazione finanziaria, quali gli
strumenti urbanistici e i piani economico-finanziari.
4 IL BILANCIO PLURIENNALE

Ai sensi dell’art. 171, comma 2, del T.U.E.L., il bilancio pluriennale comprende il


quadro dei mezzi finanziari che si prevede di destinare per ciascuno degli anni
considerati, sia alla copertura di spese correnti che al finanziamento delle
spese di investimento, con indicazione, per queste ultime, della capacità di
ricorso alle fonti di finanziamento.
Il bilancio pluriennale è redatto in termini di competenza finanziaria, secondo
i principi enunciati nell’art. 162 del T.U.E.L., ad esclusione di quello dell’annualità,
ed ha a riferimento un numero di anni pari a quello del bilancio pluriennale
della Regione di appartenenza e, comunque, non inferiore a 3 esercizi.
Ogni anno le previsioni già formulate vengono aggiornate per l’orizzonte
pluriennale successivo.
Gli stanziamenti previsti per il primo esercizio coincidono con quelli del bilancio
annuale di competenza. Detti stanziamenti hanno, inoltre, carattere
autorizzatorio, costituendo limite agli impegni per ciascun esercizio
contemplato nel bilancio pluriennale, per cui, contrariamente al passato, gli
impegni che superano l’anno di competenza potranno ricevere il visto di
regolarità contabile attestante la copertura finanziaria da parte del responsabile
del servizio ragioneria nel rispetto dell’art. 151 T.U.E.L.
Inoltre, nel corso della gestione, al pari del bilancio annuale, esso sarà soggetto
ad aggiornamento delle previsioni per adeguarle alle circostanze sopravvenute.

La parte di entrata è divisa per ogni anno (colonne) in:

titoli, che indicano la natura dell’entrata, cioè la sua fonte di provenienza


(es. entrate tributarie, entrate extratributarie ecc.);
categorie, che indicano la specie o tipologia dell’entrata di ciascuna fonte
di provenienza (es. imposte, tasse ecc.);

risorse, che indicano i singoli mezzi finanziari (es. IMU, TOSAP ecc.). Per
ciascuna risorsa (righe) sono indicati (colonne):
gli accertamenti risultanti dall’ultimo esercizio chiuso;
le previsioni dell’esercizio in corso e quelle degli esercizi successivi.

La parte spesa è rappresentata:

per programmi e progetti (complesso coordinato di attività da svolgere

per il raggiungimento di un fine prestabilito). Ai fini della rappresentazione


contabile dei mezzi finanziari assegnati a ciascun programma, questi sono

distribuiti tra gli interventi (righe) afferenti ai primi tre titoli di spesa;

per servizi. Per rappresentare contabilmente la somma attribuita a


ciascun servizio, questa è distribuita tra gli interventi (righe) afferenti ai

primi tre titoli di spesa;


per interventi, dove il valore di ciascun intervento (righe), afferente ai
primi tre titoli di spesa, è equivalente alla somma dei corrispondenti

interventi dei programmi o dei servizi.

In ciascuna delle precedenti rappresentazioni contabili sono indicati per colonna:

gli impegni risultanti dalla chiusura dell’ultimo esercizio;

le previsioni dell’esercizio in corso e quelle degli esercizi successivi.

5 IL BILANCIO ANNUALE

A) Caratteristiche

Il bilancio annuale di previsione è redatto in termini di sola competenza


finanziaria, in quanto in esso sono inserite solo le entrate che si prevede di
accertare e le spese che si prevede di impegnare nell’esercizio.
Il bilancio di previsione ha carattere autorizzatorio perché gli stanziamenti di
spesa costituiscono limite agli impegni, fatta eccezione per i servizi per conto
di terzi. Questi ultimi, infatti, rappresentano allo stesso tempo un debito e un
credito nei confronti dell’ente, quindi nel contesto perde significato la funzione
autorizzatoria del bilancio. È invece essenziale, ai fini della sussistenza
dell’equilibrio finanziario, il rispetto dell’equivalenza tra le previsioni di entrata e
di spesa, da un lato, e gli accertamenti e gli impegni, dall’altro.

B) Struttura

Il bilancio di previsione è composto da due parti relative, rispettivamente, alle


entrate e alle spese (art. 165 T.U.E.L.).
La parte entrata è ordinata in titoli, categorie e risorse.

I titoli, che indicano la fonte di provenienza, sono:

titolo I: entrate tributarie;

titolo II: entrate derivanti da contributi e trasferimenti;


titolo III: entrate extratributarie;
titolo IV: entrate derivanti da alienazioni, trasferimenti di capitali e da

riscossione di crediti;
titolo V: entrate per accensioni di prestiti;

titolo VI: entrate da servizi per conto di terzi. Particolarità di questo titolo
è che gli stanziamenti di entrata relativi sono ordinati esclusivamente in
capitoli.

Gli stanziamenti iscritti nei primi tre titoli costituiscono le entrate correnti,
mentre quelli iscritti nel IV e V titolo rappresentano le entrate in conto
capitale, che sono destinate al finanziamento degli investimenti.
Le categorie invece indicano la specie di entrata nell’ambito di ciascuna fonte
di provenienza (es. entrate da imposte, tasse ecc.).
Infine le risorse sono le unità elementari delle entrate e indicano i singoli
mezzi finanziari (es. IMU, TOSAP ecc.). Per ciascuna risorsa (righe) sono
indicate (per colonna):

l’ammontare degli accertamenti risultanti dal rendiconto del penultimo

anno precedente all’esercizio di riferimento;


la previsione aggiornata relativa all’esercizio in corso;

l’ammontare delle entrate che si prevede di accertare nell’esercizio cui il

bilancio si riferisce.

La parte spesa è ordinata gradualmente in titoli, funzioni, servizi e


interventi.

I titoli, che indicano la destinazione economica delle spese, sono:

titolo I: spese correnti comprendenti le spese relative alla gestione

ordinaria dell’ente;
titolo II: spese in conto capitale, comprendenti gli investimenti diretti ed
indiretti, le partecipazioni azionarie, i conferimenti e le concessioni di

crediti;
titolo III: spese per rimborso di prestiti, comprendenti le quote di capitale

delle rate di ammortamento dei mutui e le somme dovute per restituzioni


di capitale a fronte di ogni altra operazione di prestito;
titolo IV: spese per servizi per conto di terzi. Particolarità di questo titolo
è che gli stanziamenti di spesa relativi sono ordinati esclusivamente in
capitoli.

Le funzioni individuano le tipologie di attività espletate dall’ente locale.


Terzo elemento strutturale sono i servizi, i quali nel corso della trattazione
saranno all’occorrenza denominati anche «servizi complessi», per distinguerli
dagli altri elementi strutturali denominati «servizi elementari», ottenuti da una
«analisi» più fine del bilancio. I servizi complessi rappresentano singoli reparti
organizzativi costituiti da un complesso di fattori produttivi (mezzi strumentali
e risorse umane) necessari allo svolgimento di attività omogenee cui è
preposto un responsabile. Per la gestione dei suddetti fattori, a ciascun servizio
con il bilancio viene assegnato un complesso di mezzi finanziari, della cui
utilizzazione è responsabile il dirigente dello stesso. Ciò implica che ad ogni
servizio corrisponde un centro di responsabilità e un responsabile di servizio.

A cosa corrisponde la ripartizione in servizi del bilancio?

Praticamente il bilancio e gli stanziamenti in esso contenuti vengono ripartiti


per servizi la cui articolazione corrisponde alla struttura organizzativa minima
standard di cui è sicuramente dotato ogni ente locale. Inoltre l’assegnazione
delle risorse finanziarie ai responsabili dei servizi permette l’attuazione
del principio di separazione fra funzioni politiche e competenze
gestionali. Questa distinzione operativa deve essere attuata da tutti gli enti,
anche se privi di dirigenti e indipendentemente dall’obbligo di adozione del piano
esecutivo di gestione.

Quarta ed ultima componente strutturale della spesa è l’intervento. Si tratta


dell’unità elementare dei servizi, ad eccezione che per il titolo IV, e la sua
denominazione individua la finalità a cui è destinato lo stanziamento.

Quali sono le discipline, particolari o facoltative, previste per alcuni


interventi dal T.U.E.L.?

In alcuni casi, il Testo Unico prevede una disciplina particolare per alcuni
interventi (ad esempio, l’art. 166 disciplina il fondo di riserva). Altre volte,
invece, l’iscrizione di un particolare intervento nel bilancio è facoltativa (ma
altamente opportuna): è il caso, ad esempio, del fondo svalutazione crediti.

Meritano, dunque, una particolare attenzione:

a. il fondo di riserva, ove è stanziata una dotazione finanziaria di valore

non inferiore allo 0,3 per cento e non superiore al 2 per cento del totale

delle spese correnti «inizialmente» previste nel bilancio. Tale fondo

sarà utilizzato quando si verifichino esigenze straordinarie (es. lavori di

somma urgenza), ovvero se le singole dotazioni degli interventi di

«spesa corrente» si rivelino insufficienti;

b. il fondo svalutazione crediti, che ha la principale funzione di

costituire una sorta di «assicurazione interna» per far fronte ad

eventuali insolvenze dei debitori. Comunque la previsione in bilancio

preventivo di uno stanziamento in tale fondo non è obbligatoria, a meno

che ciò non sia specificamente previsto nel Regolamento di contabilità

dell’ente. Altresì lo stesso Regolamento disciplina l’utilizzo di tale fondo

nel caso di accertata effettiva inesigibilità di importi compresi nella

voce dell’attivo patrimoniale «crediti di dubbia esigibilità»


(immobilizzazioni finanziarie);

c. l’ammortamento dei beni. Questo intervento è istituito in ciascun

servizio e contiene uno stanziamento di spesa per far fronte agli

ammortamenti di esercizio. Quindi in esso viene iscritto l’importo delle

quote di ammortamento per l’esercizio finanziario relativo.

Il bilancio di previsione si conclude con un quadro generale riassuntivo e un


quadro concernente i risultati differenziali.

6 IL PIANO ESECUTIVO DI GESTIONE

A) L’art. 169 del T.U.E.L.

L’art. 169 afferma che sulla base del bilancio di previsione annuale deliberato
dal Consiglio, l’organo esecutivo definisce, prima dell’inizio dell’esercizio, il
piano esecutivo di gestione, determinando gli obiettivi di gestione ed affidando
gli stessi, unitamente alle dotazioni necessarie, ai responsabili dei servizi.
Il piano esecutivo di gestione (PEG) è una delle più importanti novità introdotte
dal D.Lgs. 77/1995 e costituisce un fondamentale strumento per la gestione
dell’ente, in quanto deve esplicitare le scelte contenute nel bilancio di previsione
rendendole più nitide, realizzabili e specifiche.
Si attua in tal modo pienamente la separazione fra l’attività di programmazione
(che spetta all’organo consiliare grazie al bilancio di previsione) e l’attività di
indirizzo (di competenza dell’esecutivo che la esercita appunto tramite il PEG)
da una parte, e l’effettiva gestione che ormai è di esclusiva competenza dei
dirigenti/responsabili.
È questo il motivo per cui il piano ha un’articolazione più estesa rispetto al
bilancio e prevede la seguente ulteriore specificazione:

le risorse di entrata sono distinte in capitoli;


i servizi sono suddivisi in centri di costo;

gli interventi di spesa sono distinti in capitoli.

Il piano esecutivo di gestione può essere poi modificato dalla Giunta entro il
15 dicembre di ogni anno (art. 175, comma 9, T.U.E.L.).

La predisposizione del piano esecutivo di gestione è facoltativa


per gli enti con popolazione inferiore a 15mila abitanti e per le
Comunità Montane; tale esenzione dall’obbligo generale si
giustifica:

con la maggiore semplicità che caratterizza i bilanci di tali


enti cosicché minore è la necessità di articolare risorse e

interventi in capitoli e di individuare i centri di costo;


con le difficoltà pratiche che tali enti troverebbero nella

redazione di un documento così complesso.

Quali sono le funzioni principali del PEG?


Le due principali funzioni del piano esecutivo di gestione sono le seguenti:

essere un agile strumento di programmazione (sistema di budgeting)


che collega gli obiettivi alle risorse. A tal fine gli obiettivi dovranno essere
definiti in maniera puntuale, ordinati secondo priorità definite, misurabili
sia in termini qualitativi che quantitativi; le risorse assegnate dovranno

essere congrue con gli obiettivi;


costituire uno strumento di razionalizzazione dell’attività

amministrativa grazie al trasferimento delle funzioni di spesa in favore

dei dirigenti ed al successivo controllo della gestione.

B) La redazione del piano esecutivo di gestione

La centralità del PEG nell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali


contrasta con la sinteticità dell’art. 169 che si limita a dettare alcuni principi
fondamentali. Tale apparente anomalia si spiega con le caratteristiche proprie
del PEG: poiché si tratta essenzialmente di un programma operativo, tagliato su
misura sulle esigenze e l’organizzazione di ciascun ente, il legislatore ha
preferito evitare l’imposizione di un modello unificato.
Quale che sia la strada prescelta dal singolo ente locale, appare evidente che il
piano esecutivo di gestione costituisce il vero momento di cerniera fra
l’attività di programmazione e quella di gestione.

C) Fase preparatoria

Sulla base del bilancio della gestione corrente, il servizio finanziario, con
congruo anticipo rispetto alla data in cui deve essere approvato il bilancio,
procede ad una valutazione di quanto potranno produrre i diversi cespiti
afferenti ai primi tre titoli di entrata. In tale sede bisogna prendere in
considerazione anche la delibera relativa alle tariffe dei servizi a domanda
individuale.
L’organo esecutivo, sulla base delle disponibilità finanziarie, definisce i
programmi/progetti che con esse si possono realizzare, assegna gli obiettivi ai
vari responsabili per i servizi e contemporaneamente attribuisce loro le risorse
necessarie. La suddetta attribuzione di fondi segna il passaggio delle
consegne dall’amministratore al funzionario, in attuazione del principio della
ripartizione tra funzioni di indirizzo e controllo, spettanti agli organi politici, e le
competenze gestionali, che la riforma del pubblico impiego (D.Lgs. 29/1993, poi
abrogato e sostituito dal D.Lgs. 165/2001) invece attribuisce alla dirigenza.
Inoltre, la Giunta provvede a distribuire il complesso dei mezzi finanziari tra le
varie articolazioni del PEG (servizio elementare, centro di costo e servizio
complesso) in proporzione alla loro capacità di assorbire risorse finanziarie nel
corso dell’esercizio. Il servizio ragioneria, una volta definito nei termini visti lo
schema di PEG, può con estrema semplicità redigere per sintesi, mediante
l’aggregazione dei servizi elementari in centri di costo e di questi ultimi in
servizi complessi, lo schema di bilancio preventivo da sottoporre al Consiglio.
Questo documento contabile dovrà comunque essere pronto circa trenta giorni
prima della scadenza del termine, in modo tale da permettere all’organo politico
di predisporre i necessari aggiustamenti e all’organo di revisione economico-
finanziaria di esprimere il parere sulla proposta di bilancio. Qualora in sede di
approvazione del bilancio il Consiglio dell’ente decida di variare alcuni
stanziamenti, di ciò si dovrà tenere conto per apportare gli opportuni
aggiustamenti anche allo schema di PEG, che sarà successivamente approvato
dall’esecutivo.

D) Fase della gestione operativa

L’inizio della gestione operativa non segna automaticamente la fine dell’attività


di indirizzo dell’organo esecutivo. Infatti gli atti discrezionali, che
accompagnano la gestione operativa, rimangono sempre di competenza
dell’organo esecutivo.
Se nel corso della gestione operativa la consistenza di alcuni stanziamenti
risulti inadeguata o eccedente, allora il responsabile, in seguito a idonea
valutazione, può avanzare proposta di variazione della dotazione con le modalità
stabilite dal Regolamento di contabilità. Sulla richiesta è chiamato a decidere
l’organo esecutivo, il quale, se di avviso contrario, emette provvedimento
negativo opportunamente motivato (art. 177 T.U.E.L.).

7 ALTRI ALLEGATI AL BILANCIO DI PREVISIONE

Gli altri allegati al bilancio di previsione sono:


la relazione dell’organo di revisione, che esprime un motivato giudizio
di congruità, di coerenza e di attendibilità contabile delle previsioni di

bilancio e dei programmi e dei progetti, anche tenuto conto del parere
espresso dal responsabile del servizio (art. 239 T.U.E.L.);

il rendiconto deliberato del penultimo esercizio antecedente quello cui

si riferisce il bilancio di previsione;


le risultanze dei rendiconti o conti consolidati delle Unioni di comuni,

aziende speciali, consorzi, istituzioni, società di capitali costituite per

l’esercizio dei servizi pubblici, relativi al penultimo esercizio antecedente.

Questi primi allegati hanno lo scopo di avvalorare le previsioni contenute nel


bilancio annuale.

Accanto ad essi abbiamo:

la deliberazione, adottata prima dell’approvazione del bilancio di

previsione, con la quale si individuano le aree e i fabbricati da destinarsi


alla residenza, alle attività produttive e terziarie da cedere in proprietà o
in diritto di superficie. Con la stessa delibera si determinano anche i

prezzi di cessione;
il programma triennale dei lavori pubblici (di cui al D.Lgs. 163/2006).

Tale programma costituisce la fase attuativa di precedenti studi di


fattibilità e indica i lavori pubblici che le amministrazioni intendono
realizzare nel triennio successivo e le relative fonti di finanziamento. L’art.
128 del D.Lgs. 163/2006 dispone, inoltre, che costituisce parte integrante

del bilancio anche l’elenco annuale dei lavori pubblici: con esso si
individuano le priorità dei lavori e si indicano i mezzi finanziari stanziati

nel bilancio;
le deliberazioni con le quali sono determinate, per l’esercizio successivo

le aliquote d’imposta e le eventuali maggiori detrazioni concernenti i

tributi locali. Vale la pena sottolineare che, in seguito alla L. 388/2000, il


termine per deliberare tariffe e aliquote è stabilito entro la data di

approvazione del bilancio (art. 53, comma 16); tariffe e prezzi, comunque,

possono essere modificati nel corso dell’esercizio, in presenza di rilevanti

incrementi di costo;

le deliberazioni con le quali sono determinati i tassi di copertura in


percentuale del costo di gestione dei servizi a domanda individuale;
la tabella relativa ai parametri di riscontro della situazione di

deficitarietà strutturale prevista dalle disposizioni vigenti in materia;


il piano delle alienazioni immobiliari, comprendente i beni immobili non

strumentali all’esercizio delle funzioni istituzionali suscettibili di


valorizzazione o di dismissione (art. 58 D.L. 112/2008);
il prospetto contenente le previsioni di competenza e di cassa degli

aggregati rilevanti ai fini del rispetto del patto di stabilità (art. 77bis D.L.
112/2008);
il programma triennale del fabbisogno del personale;
la nota informativa degli oneri e degli impegni finanziari derivanti da

contratti relativi a strumenti finanziari derivati (art. 3, comma 8, L.


203/2008).
8 APPROVAZIONE DEL BILANCIO E DEI SUOI ALLEGATI

A) Approvazione

Una volta che lo schema del bilancio annuale e i suoi allegati sono stati
predisposti dalla Giunta comunale, questi devono essere presentati al Consiglio
comunale, unitamente alla relazione dell’organo di revisione, entro il termine
previsto dal Regolamento di contabilità, nel quale, altresì, dovranno essere
individuate le modalità e i termini di presentazione degli emendamenti da parte
dei Consiglieri.
Il bilancio è deliberato dal Consiglio comunale entro il 31 dicembre
dell’anno precedente quello cui si riferisce ma tale termine può essere differito
in presenza di motivate esigenze.
L’art. 161 del Testo Unico, inoltre, fa obbligo agli enti locali di redigere apposite
certificazioni di bilancio. Il certificato al bilancio, firmato dal responsabile del
servizio finanziario e dal segretario e sottoscritto dall’organo di revisione
economico-finanziaria, viene da quest’ultimo inviato, in originale e cinque copie
autenticate, all’Ufficio territoriale del Governo. La mancata presentazione del
certificato comporta, per l’ente locale, la sospensione dell’ultima rata del
contributo ordinario.

B) Esercizio provvisorio

Il primo comma dell’art. 163 del T.U.prende in esame l’istituto dell’esercizio


provvisorio nel caso in cui, iniziato il nuovo periodo amministrativo di
riferimento, il bilancio, precedentemente o successivamente deliberato dal
consiglio, non sia stato ancora approvato dall’organo di controllo. Tale
eventualità è ora da considerarsi puramente teorica, a seguito della L. cost.
3/2001.
Il secondo comma contempla l’ipotesi in cui il bilancio di previsione non sia
stato approvato per inerzia del Consiglio. In questo caso l’ente locale è invitato
a provvedere entro congruo termine, trascorso il quale senza esito, il comitato
regionale di controllo nomina un commissario ad acta.
Tale disposizione va evidentemente coordinata con l’art. 141,
comma 2 dello stesso T.U., laddove si prevede che, quando il
Consiglio non abbia approvato nei termini di legge lo schema di
bilancio predisposto dalla Giunta, l’organo regionale di controllo
assegni al Consiglio un termine non superiore a 20 giorni per la
sua approvazione, decorso il quale si sostituisce, mediante
apposito commissario, all’amministrazione inadempiente. Del
provvedimento sostitutivo va data comunicazione al Prefetto che
inizia la procedura per lo scioglimento del Consiglio.
A seguito della L. cost. 3/2001 l’applicazione di tale disposizione si
scontrava con la soppressione (di fatto) degli organi regionali di
controllo. Di qui la necessità di una procedura alternativa (prevista
inizialmente ai soli fini dell’approvazione del bilancio di previsione
per l’esercizio finanziario 2002 dal D.L. 13/2002 e poi estesa di
anno in anno); secondo tale procedura la nomina del
commissario è affidata al Prefetto (ove lo Statuto dell’ente non
disciplini alternativamente le modalità di nomina del commissario
per la predisposizione dello schema e per l’approvazione del
bilancio).
Fino a che il commissario ad acta non abbia provveduto al suo
incarico, nel frattempo è consentita esclusivamente una gestione
provvisoria, limitata alle spese necessarie, per evitare che siano
arrecati danni patrimoniali certi e gravi all’ente. Tra le spese
necessarie rientrano, in via esemplificativa, quelle derivanti
dall’assolvimento delle obbligazioni già assunte, delle obbligazioni
attinenti a provvedimenti giurisdizionali esecutivi e a obblighi
speciali tassativamente regolati dalla legge, quelle concernenti il
pagamento del personale, dei residui passivi, delle rate di mutuo,
dei canoni, delle imposte e delle tasse. La gestione provvisoria
soggiace ai limiti degli stanziamenti indicati nell’ultimo bilancio
approvato, ove esistano.
L’ultimo comma dell’art. 163 disciplina l’ipotesi in cui la scadenza del termine
per la deliberazione del bilancio di previsione sia stata prorogata da norme
statali in un periodo successivo all’inizio dell’esercizio finanziario di riferimento.
L’esercizio provvisorio nel caso in questione non deve essere deliberato, ma si
intende automaticamente autorizzato al verificarsi delle condizioni predette.
Nella vacanza del nuovo bilancio si applicano le stesse modalità di gestione
stabilite al comma 1 del suddetto articolo, prendendosi però a riferimento
l’ultimo bilancio definitivamente approvato.

Sezione Seconda
Il nuovo ordinamento contabile

1 IL DOCUMENTO UNICO DI PROGRAMMAZIONE (DUP)

A) Termini di presentazione e struttura

Il documento unico di programmazione (DUP), che la Giunta deve


presentare al Consiglio entro il 31 luglio, è il principale strumento per la guida
strategica e operativa degli enti locali e rappresenta il presupposto necessario
di tutti gli altri strumenti di programmazione previsti dall’allegato 4/1 del D.Lgs.
118/2011.

Si noti che anche in questo caso il legislatore (art. 170, comma 1,


T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014) ha previsto che
nel 2015 gli enti locali che non hanno partecipato alla fase di
sperimentazione non siano tenuti alla predisposizione del DUP,
potendo ancora redigere il documento di programmazione previsto
dalla precedente normativa (in pratica, la relazione previsionale e
programmatica, cfr. Sezione I, §3). Il D.M. 3 luglio 2015 ha
comunque posticipato al 31 ottobre 2015 il termine di
presentazione del DUP.
È inoltre previsto che gli enti locali con popolazione non superiore
a 5.000 abitanti predispongano una versione semplificata del DUP
(allegato 4/1).

Il DUP è composto da due sezioni (art. 151 T.U.E.L., come modificato dal
D.Lgs. 126/2014): la Sezione Strategica (SeS), che ha un orizzonte temporale
pari a quello del mandato amministrativo, e la Sezione Operativa (SeO), il cui
orizzonte coincide con quello del bilancio di previsione.

B) La Sezione Strategica (SeS)

La SeS sviluppa e concretizza le linee programmatiche, presentate dal Sindaco


al Consiglio all’inizio del mandato e relative alle azioni e ai progetti che si
intende realizzare nel corso del mandato stesso (art. 46, comma 3, T.U.E.L., cfr.
Sezione I, §2), coerentemente con le linee di indirizzo della programmazione
regionale e con gli obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale nel
rispetto delle procedure e dei criteri stabiliti dall’Unione europea.
Nel primo anno del mandato amministrativo, la SeS deve definire, per ogni
missione di bilancio, gli obiettivi strategici da perseguire entro la fine del
mandato. L’individuazione di tali obiettivi è il risultato dell’approfondita analisi
strategica di una serie di condizioni esterne e interne all’ente.

Fra le condizioni esterne rientrano gli obiettivi individuati dal


Governo nazionale anche alla luce dei documenti di
programmazione dell’Ue, la situazione socio-economica, attuale e
prospettica, del territorio di riferimento e la conseguente domanda
di servizi pubblici locali, i parametri economici essenziali utilizzati
per definire l’evoluzione dei flussi finanziari ed economici dell’ente.
Fra le condizioni interne occorre considerare la capacità di
organizzare e gestire i servizi pubblici locali, tenendo conto dei
fabbisogni e dei costi standard, la disponibilità di risorse e la
sostenibilità economico-finanziaria, la disponibilità e la gestione
delle risorse umane, con riferimento alla struttura organizzative
dell’ente in tutte le sue articolazioni, la coerenza con le
disposizioni del patto di stabilità interno e con i vincoli di finanza
pubblica.

Ogni anno occorre verificare lo stato di attuazione degli obiettivi strategici che,
se necessario e dandone adeguata motivazione, possono essere opportunamente
riformulati.

C) La Sezione Operativa (SeO)

La SeO è quella sezione del DUP in cui vengono definiti gli strumenti
operativi che si intendono utilizzare per conseguire gli obiettivi strategici
definiti nella SeS.
In particolare, essa definisce, per ogni singola missione, i programmi da
realizzare per conseguire gli obiettivi strategici della SeS, e per ogni singolo
programma, gli obiettivi operativi annuali da rispettare. La SeO copre un periodo
pari a quello del bilancio di previsione ed è redatta per competenza, con
riferimento all’intero periodo considerato, e per cassa, con riferimento al primo
esercizio.

In quante parti si suddivide la sezione operativa?

La SeO si suddivide in due parti:

una Parte I, in cui sono descritte le motivazioni alla base delle scelte
programmatiche effettuate (anche con riferimento all’eventuale gruppo
amministrazione pubblica) e sono definiti i singoli programmi da

realizzare.
Per ogni programma devono essere definite le finalità e gli obiettivi

annuali e pluriennali che si intendono perseguire, la motivazione delle


scelte effettuate e le risorse finanziarie, umane e strumentali ad esso

destinate. Gli obiettivi dei programmi devono essere controllati

annualmente al fine di verificarne il grado di raggiungimento e, laddove


necessario, modificati, dandone adeguata giustificazione;

una Parte II, contenente la programmazione dettagliata dei lavori

pubblici, del fabbisogno del personale e delle modalità di gestione e

valorizzazione del patrimonio.

2 IL BILANCIO DI PREVISIONE FINANZIARIO

A Definizione e funzioni

L’art. 162 del T.U.E.L., dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. 126/2014,
stabilisce che gli enti locali deliberano annualmente il bilancio di previsione
finanziario riferito ad almeno un triennio, comprendente le previsioni di
competenza e di cassa del primo esercizio e le previsioni di competenza degli
esercizi successivi, nel rispetto dei principi contabili generali e applicati di cui
al D.Lgs. 118/2011. Le previsioni riguardanti il primo esercizio costituiscono il
bilancio di previsione finanziario annuale.

Si noti che la L. 125/2015, di conversione del D.L. 78/2015,


nell’inserire l’art. 1ter al suddetto decreto ha disposto che, per il
solo esercizio 2015, le Province e le Città metropolitane debbano
predisporre il bilancio di previsione per la sola annualità 2015.
Si tratta, dunque, del documento in cui vengono rappresentate contabilmente le
previsioni di natura finanziaria riferite a ciascun esercizio compreso nell’arco
temporale considerato nel DUP; esso rappresenta, in sostanza, lo strumento
attraverso il quale gli organi di governo dell’ente definiscono la distribuzione
delle risorse finanziarie tra i programmi e le attività che l’amministrazione
deve svolgere, secondo quanto previsto dal DUP stesso.

Il nuovo comma 6 dell’art. 162 T.U.E.L. sottolinea che il bilancio di


previsione è deliberato in pareggio finanziario complessivo per la
competenza, comprensivo dell’utilizzo dell’avanzo di
amministrazione e del recupero del disavanzo di amministrazione
e garantendo un fondo di cassa finale non negativo.
Inoltre, le previsioni di competenza relative alle spese correnti
sommate alle previsioni di competenza relative ai trasferimenti in
c/capitale, al saldo negativo delle partite finanziarie e alle quote di
capitale delle rate di ammortamento dei mutui e degli altri
prestiti, con l’esclusione dei rimborsi anticipati, non possono
essere complessivamente superiori alle previsioni di competenza
dei primi tre titoli dell’entrata, ai contribuiti destinati al rimborso
dei prestiti e all’utilizzo dell’avanzo di competenza di parte
corrente e non possono avere altra forma di finanziamento, salvo
le eccezioni tassativamente indicate nel principio applicato alla
contabilità finanziaria necessarie a garantire elementi di
flessibilità degli equilibri di bilancio ai fini del rispetto del principio
dell’integrità.

Secondo quanto previsto dal nuovo comma 2 dell’art. 164 T.U.E.L., il bilancio di
previsione ha carattere autorizzatorio, costituendo limite, per ciascuno degli
esercizi considerati:

agli accertamenti e agli incassi riguardanti le accensioni di prestiti;


agli impegni e ai pagamenti di spesa (non comportano, tuttavia, limiti alla

gestione le previsioni riguardanti i rimborsi delle anticipazioni di tesoreria


e le partite di giro).

B La struttura

Il bilancio di previsione è composto da due parti, relative rispettivamente


all’entrata e alla spesa, ed è redatto secondo lo schema previsto dall’allegato 9
al D.Lgs. 118/2011, come modificato dal D.Lgs. 126/2014.

Si rammenta che nel 2015 il bilancio di previsione redatto secondo


lo schema previsto dall’allegato 9 assume solo funzione
conoscitiva e va allegato al corrispondente documento contabile
predisposto in base alla normativa vigente nel 2014, che mantiene
la sua funzione autorizzatoria.

Le entrate sono classificate in (art. 165, comma 2, T.U.E.L. e art. 15 D.Lgs.


118/2011):

titoli, definiti in funzione della fonte di provenienza delle entrate;


tipologie, definite in basa alla natura delle entrate, nell’ambito di
ciascuna fonte di provenienza.

TITOLI E TIPOLOGIE DI ENTRATE

Entrate correnti di natura tributaria, contributiva e


Titolo 1
perequativa

tipologia
Imposte, tasse e proventi assimiliati
101
tipologia
Compartecipazioni di tributi
104

tipologia
Fondi perequativi da Amministrazioni centrali
301

tipologia
Fondi perequativi dalla Regione o Provincia autonoma
302

Titolo 2 Trasferimenti correnti

tipologia
Trasferimenti correnti da Amministrazioni pubbliche
101

tipologia
Trasferimenti correnti da famiglie
102

tipologia
Trasferimenti correnti da imprese
103

tipologia
Trasferimenti correnti da Istituzioni sociali private
104

tipologia Trasferimenti correnti dall’Unione europea e dal Resto del


105 mondo

Titolo 3 Entrate extratributarie

tipologia Vendita di beni e servizi e proventi derivanti dalla gestione di


100 beni

tipologia Proventi derivanti dall’attività di controllo e repressione delle


200 irregolarità e degli illeciti
tipologia
Interessi attivi
300

tipologia
Altre entrate da redditi da capitale
400

tipologia
Rimborsi e altre entrate correnti
500

Titolo 4 Entrate in conto capitale

tipologia
Tributi in conto capitale
100

tipologia
Contributi agli investimenti
200

tipologia
Altri trasferimenti in conto capitale
300

tipologia
Entrate da alienazione di beni materiali e immateriali
400

tipologia
Altre entrate in conto capitale
500

Titolo 5 Entrate da riduzione di attività finanziarie

tipologia
Alienazione di attività finanziarie
100

tipologia
Riscossione crediti di breve termine
200
tipologia
Riscossione di crediti di medio-lungo termine
300

tipologia
Altre entrate per riduzione di attività finanziarie
400

Titolo 6 Accensione prestiti

tipologia
Emissione di titoli obbligazionari
100

tipologia
Accensione prestiti a breve termine
200

tipologia
Accensione mutui e altri finanziamenti a medio-lungo termine
300

tipologia
Altre forme di indebitamento
400

Titolo 7 Anticipazioni da istituto tesoriere/cassiere

tipologia
Anticipazioni da istituto tesoriere/cassiere
100

Titolo 9 Entrate per conto terzi e partite di giro

tipologia
Entrate per partite di giro
100

tipologia
Entrate per conto terzi
200
Ai fini della gestione, nel piano esecutivo di gestione (cfr. §3) le
tipologie sono a loro volta classificate in categorie, capitoli ed
eventualmente articoli, secondo la natura dell’oggetto. L’elenco
completo dei titoli, delle tipologie e delle categorie di entrata degli
enti locali è contenuto nell’allegato 13/2 al D.Lgs. 118/2011.

Le spese sono classificate in (art. 165, comma 4, T.U.E.L. e art. 14 D.Lgs.


118/2011):

missioni, che rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi strategici

perseguiti dall’ente utilizzando risorse finanziarie, umane e strumentali ad

esse destinate;
programmi, che rappresentano gli aggregati omogenei di attività volte a

perseguire gli obiettivi definiti nell’ambito delle missioni. I programmi


sono ripartiti in titoli.

MISSIONI DI SPESA

Missione 1 Servizi istituzionali, generali e di gestione

Missione 2 Giustizia

Missione 3 Ordine pubblico e sicurezza

Missione 4 Istruzione e diritto allo studio

Missione 5 Tutela e valorizzazione dei beni e attività culturali

Missione 6 Politiche giovanili, sport e tempo libero


Missione 7 Turismo

Missione 8 Assetto del territorio ed edilizia abitativa

Missione 9 Sviluppo sostenibile e tutela del territorio e dell’ambiente

Missione 10 Trasporti e diritto alla mobilità

Missione 11 Soccorso civile

Missione 12 Diritti sociali, politiche sociali e famiglie

Missione 13 Tutela della salute

Missione 14 Sviluppo economico e competitività

Missione 15 Politiche per il lavoro e la formazione professionale

Missione 16 Agricoltura, politiche agroalimentari e pesca

Missione 17 Energia e diversificazione delle fonti energetiche

Missione 18 Relazioni con le altre autonomie territoriali e locali

Missione 19 Relazioni internazionali

Missione 20 Fondi e accantonamenti

Missione 50 Debito pubblico


Missione 60 Anticipazioni finanziarie

Missione 99 Servizi per conto terzi

Ai fini della gestione, nel piano esecutivo di gestione (cfr. §3) i


programmi sono ripartiti in titoli, macroaggregati, capitoli ed
eventualmente in articoli. L’elenco completo delle missioni, dei
programmi, dei titoli e dei macroaggregati di spesa degli enti
locali è contenuto nell’allegato 14 al D.Lgs. 118/2011.

IL FO N D O PLURIEN N ALE VIN CO LAT O E IL FO N D O CRED IT I D I D UBBIA ESIGIBILIT À

Come si vedrà meglio in seguito, l’applicazione del principio contabile


generale della competenza finanziaria determina delle sostanziali modifiche
nelle modalità di accertamento delle entrate e di impegno delle spese. In
particolare:

per quanto riguarda l’accertamento delle entrate, non possono


essere riferite ad un determinato esercizio finanziario le entrate per
le quali non sia venuto a scadere nello stesso esercizio finanziario il

diritto di credito. Viene dunque esclusa categoricamente la possibilità


di accertamento attuale di entrate future, in quanto ciò darebbe luogo
ad un’anticipazione di impieghi (ed ai relativi oneri) in attesa
dell’effettivo maturare della scadenza del titolo giuridico dell’entrata

futura, con la conseguenza di alterare gli equilibri finanziari


dell’esercizio finanziario;
allo stesso modo, per ciò che concerne gli impegni di spesa, non
possono essere riferite ad un determinato esercizio finanziario le

spese per le quali non sia venuta a scadere nello stesso esercizio
finanziario la relativa obbligazione giuridica. In particolare, per

l’attività di investimento che comporta impegni di spesa che vengono

a scadenza in più esercizi finanziari deve essere dato specificamente


atto, al momento dell’attivazione del primo impegno, di aver

predisposto la copertura finanziaria per l’effettuazione della spesa

complessiva dell’investimento. La copertura finanziaria è costituita da

risorse accertate esigibili nell’esercizio in corso di gestione,

dall’utilizzo dell’avanzo di amministrazione o di una legge di


autorizzazione all’indebitamento.

Il nuovo criterio di imputazione delle spese richiede, quindi, una differente


modalità di gestione degli investimenti che, come nel caso dei lavori
pubblici, comportano normalmente impegni di spesa che vanno ben oltre
l’esercizio finanziario in cui vengono avviati.
L’obbligo di definire, sin dall’attivazione del primo impegno, la copertura
finanziaria per la spesa complessiva dell’investimento determina, infatti,
uno sfasamento temporale fra l’acquisizione delle risorse e il loro effettivo
impiego, sfasamento che va evidenziato attraverso l’iscrizione in bilancio di
un fondo pluriennale vincolato, costituito da risorse accertate destinate
al finanziamento di obbligazioni passive giuridicamente perfezionate esigibili
in esercizi successivi a quello in cui è accertata l’entrata (si rinvia al Cap
8, Sez. II, §2, lett. B), per un esempio pratico).
Il fondo in questione è, quindi, un efficace strumento di rappresentazione
della programmazione e previsione delle spese pubbliche degli enti
territoriali, in quanto evidenzia in modo chiaro e attendibile il procedimento
di impiego delle risorse acquisite dall’ente che richiedono un periodo di
tempo pluriennale per il loro effettivo utilizzo (si pensi, in particolare, alla
programmazione delle opere pubbliche basata sul programma triennale e
sull’elenco annuale).
Il principio della competenza finanziaria prevede, inoltre, che le entrate di
dubbia o difficile esazione vengano accertate per l’intero importo del
credito anche se non è certa la loro riscossione integrale (è il caso, ad
esempio, delle sanzioni amministrative al codice della strada). Tuttavia, per
evitare che spese esigibili nel corso dell’esercizio vengano coperte
mediante questo tipo di entrate, l’art. 167 del T.U.E.L., integralmente
sostituito dal D.Lgs. 126/2014, dispone che nella missione di spesa 20,
Fondi e accantonamenti, venga stanziato un accantonamento al fondo
crediti di dubbia esigibilità, il cui ammontare deve essere accuratamente
valutato dall’ente, in sede di predisposizione del bilancio di previsione,
tenendo conto della dimensione e della natura dei crediti di dubbia o
difficile esazione che si prevede si formeranno nell’esercizio e della
capacità di riscossione di tali crediti dimostrata dall’ente nei cinque anni
precedenti.
Al fine di consentire un’applicazione graduale dell’obbligo di accantonamento
al suddetto fondo, il legislatore (allegato 4/2 al D.Lgs. 118/2011, come
modificato dalla L. 190/2014) ha stabilito che gli enti locali stanzino in
bilancio una quota pari almeno al 36% dell’importo dell’accantonamento
quantificato nel relativo prospetto allegato al bilancio di previsione nel 2015,
al 55% nel 2016, al 70% nel 2017, all’85% nel 2018 e al 100% dal 2019.

In bilancio, prima di tutte le entrate e le spese, sono iscritti (art. 165, comma
7, T.U.E.L.):

a. in entrata gli importi relativi al fondo pluriennale vincolato di parte

corrente e al fondo pluriennale vincolato in c/capitale;

b. in entrata del primo esercizio gli importi relativi all’utilizzo dell’avanzo


di amministrazione presunto, nei casi individuati dall’art. 187, commi 3

e 3bis, con l’indicazione della quota vincolata del risultato di

amministrazione utilizzata anticipatamente;

c. in uscita l’importo del disavanzo di amministrazione presunto al 31

dicembre dell’esercizio precedente cui il bilancio si riferisce. Il

disavanzo di amministrazione presunto puo’ essere iscritto nella spesa

degli esercizi successivi secondo le modalità previste dall’art. 188;

d. in entrata del primo esercizio il fondo di cassa presunto dell’esercizio

precedente.

Il bilancio di previsione finanziario indica, per ciascuna unità di


voto (art. 165, comma 6, T.U.E.L.):

a. l’ammontare presunto dei residui attivi o passivi alla

chiusura dell’esercizio precedente a quello cui il bilancio si

riferisce;

b. l’ammontare delle previsioni di competenza e di cassa

definitive dell’anno precedente a quello cui si riferisce il

bilancio;

c. l’ammontare degli accertamenti e degli impegni che si

prevede di imputare in ciascuno degli esercizi cui il


bilancio si riferisce, nel rispetto del principio della

competenza finanziaria;

d. l’ammontare delle entrate che si prevede di riscuotere o

delle spese di cui si autorizza il pagamento nel primo

esercizio considerato nel bilancio, senza distinzioni fra

riscossioni e pagamenti in conto competenza e in conto

residui.

Il documento di bilancio si conclude con più quadri riepilogativi, redatti secondo


lo schema indicato dall’allegato 9 al D.Lgs. 118/2011, tra i quali rilevano in
modo particolare:

il quadro generale riassuntivo, in cui vengono indicate le previsioni


complessive del bilancio in termini di competenza e di cassa, classificate

per titoli;
il prospetto degli equilibri di bilancio, che consente di verificare la

sussistenza degli equilibri interni al bilancio per ciascuno degli esercizi


considerati.

C) La procedura di approvazione e l’esercizio provvisorio

L’allegato 4/1 al D.Lgs. 118/2011 prevede che entro il 15 novembre di ogni anno
la Giunta approva lo schema della delibera di approvazione del bilancio di
previsione finanziario relativa almeno al triennio successivo, da sottoporre al
Consiglio, cui trasmette contestualmente, a solo scopo conoscitivo, anche la
proposta di articolazione delle tipologie di entrata in categorie e dei programmi
di spesa in macroaggregati; entro il 31 dicembre il Consiglio approva il bilancio
Si noti che il suddetto termine può essere differito, in presenza di motivate
esigenze, con decreto del Ministro dell’interno, d’intesa con il Ministro
dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie
locali. Il termine per la presentazione del bilancio di previsione 2015 è stato
differito al 30 luglio 2015 dal D.M. 13 maggio 2015.
Qualora il Consiglio non approvi il bilancio entro la suddetta data, il nuovo
comma 1 dell’art. 163 T.U.E.L. dispone che la gestione finanziaria dell’ente si
svolga nel rispetto dei principi applicati della contabilità finanziaria riguardanti
l’esercizio provvisorio o la gestione provvisoria (di cui all’allegato 4/2 al D.Lgs.
118/2011).
L’esercizio provvisorio può essere autorizzato con legge o con il decreto del
Ministro dell’interno che, secondo quanto previsto dall’art. 151 T.U.E.L., in
presenza di motivate esigenze differisce il termine di approvazione del bilancio,
d’intesa con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza
Stato-città e autonomie locali (così il nuovo comma 3 dell’art. 163 T.U.E.L.).

Il suddetto comma precisa che nel corso dell’esercizio provvisorio


non è consentito il ricorso all’indebitamento ed è possibile
impegnare solo le spese correnti, le eventuali spese correlate
riguardanti le partite di giro, i lavori pubblici o gli altri interventi di
somma urgenza. Il comma 5 dispone che tali spese possano
essere impegnate mensilmente per importi non superiori ad un
dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del bilancio di
previsione deliberato l’anno precedente, ridotti delle somme già
impegnate negli esercizi precedenti e dell’importo accantonato al
fondo pluriennale vincolato (con l’esclusione delle spese
tassativamente regolate dalla legge, di quelle non suscettibili di
pagamento frazionato in dodicesimi e di quelle a carattere
continuativo necessarie a mantenere il livello qualitativo e
quantitativo dei servizi).

Nel caso in cui il bilancio non sia stato approvato entro il 31 dicembre e,
tuttavia, non sia stato autorizzato l’esercizio provvisorio (o nel caso in cui
l’ente non abbia rispettato neanche il termine differito stabilito dal decreto
ministeriale di cui sopra), è consentita esclusivamente una gestione
provvisoria nei limiti dei corrispondenti stanziamenti di spesa dell’ultimo
bilancio approvato per l’esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria (art.
163, comma 2, T.U.E.L.).

Nel corso della gestione provvisoria l’ente può:

assumere solo obbligazioni derivanti da provvedimenti


giurisdizionali esecutivi o tassativamente regolate dalla legge

o, ancora, necessarie ad evitare all’ente danni patrimoniali


gravi e certi;
disporre pagamenti solo per l’assolvimento delle obbligazioni

già assunte e di quelle derivanti da provvedimenti


giurisdizionali esecutivi o da obblighi tassativamente regolati

dalla legge, nonché per le spese di personale, di residui


passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte e tasse e per
quelle necessarie ad evitare all’ente danni patrimoniali gravi

e certi.

D) I documenti da allegare

Al bilancio di previsione vanno allegati i seguenti documenti (art. 11, comma 3,


D.Lgs. 118/2011 e art. 172 T.U.E.L., come modificati dal D.Lgs. 126/2014),
redatti secondo gli schemi previsti dall’allegato 9 al D.Lgs. 118/2011:

la tabella dimostrativa del presunto risultato di amministrazione.

Si tratta di una tabella che evidenzia il risultato presunto


della gestione dell’esercizio precedente quello cui si riferisce

il bilancio, sulla cui base elaborare previsioni coerenti ed

attendibili per l’esercizio di riferimento. Essa consente,

inoltre, di verificare l’esistenza di un eventuale disavanzo e

di provvedere alla relativa copertura;

il prospetto concernente la composizione, per missioni e programmi, del


fondo pluriennale vincolato;
il prospetto relativo alla composizione del fondo crediti di dubbia

esigibilità;
il prospetto dimostrativo del rispetto dei vincoli di indebitamento.

Si tratta di un prospetto in cui le entrate relative ai primi tre


titoli (entrate correnti di natura tributaria, contributiva e
perequativa, trasferimenti correnti, entrate extratributarie)
vengono messe a confronto con la spesa annuale sostenuta

per rate di mutui e obbligazioni al fine di verificare il rispetto


dei limiti di indebitamento previsti dall’art. 204 T.U.E.L.;
il prospetto delle spese previste per l’utilizzo di contributi e trasferimenti

da parte di organismi comunitari e internazionali;


il prospetto delle spese previste per lo svolgimento di funzioni delegate

dalle Regioni;

la nota integrativa, il cui contenuto minimo è dettagliatamente indicato


dall’allegato 9;

la relazione del Collegio dei revisori;

l’elenco degli indirizzi internet in cui sono stati pubblicati il rendiconto

della gestione e il bilancio consolidato deliberati e relativi al penultimo

esercizio antecedente quello cui si riferisce il bilancio di previsione,


nonché i rendiconti e i bilanci consolidati delle unioni di Comuni e dei
soggetti facenti parte del gruppo amministrazione pubblica, anch’essi

relativi al penultimo esercizio antecedente quello di riferimento. Tali


documenti vanno allegati al bilancio di previsione qualora non

integralmente pubblicati nei siti internet indicati nell’elenco;


la deliberazione, da adottarsi annualmente, con cui i Comuni verificano la
quantità e qualità di aree e fabbricati da destinarsi alla residenza o alle

attività produttive o terziarie che potranno essere ceduti in proprietà o in


diritto di superficie;
le deliberazioni con cui sono determinati, per l’esercizio successivo, le
tariffe, le aliquote d’imposta e le eventuali maggiori detrazioni, le

variazioni dei limiti di reddito per i tributi locali e per i servizi locali,
nonché, per i servizi a domanda individuale, i tassi percentuali di copertura
del costo di gestione dei servizi stessi;
la tabella relativa ai parametri di riscontro della situazione di deficitarietà

strutturale prevista dalle disposizioni vigenti;


il prospetto della concordanza tra bilancio di previsione e obiettivo

programmatico del patto di stabilità.

3 IL PIANO ESECUTIVO DI GESTIONE

A) Definizione e funzioni

Il piano esecutivo di gestione (PEG) è il documento che permette di


declinare in maggior dettaglio la programmazione operativa contenuta
nell’apposita sezione (SeO) del DUP, definendo gli obiettivi di gestione e
assegnando le risorse necessarie al loro raggiungimento. In tal senso, esso
costituisce l’ideale elemento di raccordo fra l’organo esecutivo dell’ente e i
responsabili dei servizi, cui tali obiettivi e risorse vengono assegnati.

Il PEG (art. 169 T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014):

ha un’estensione temporale identica a quella del bilancio di previsione;

è redatto per competenza e per cassa, con riferimento al primo esercizio


considerato nel bilancio di previsione, solo per competenza, con

riferimento agli esercizi successivi;


ha carattere autorizzatorio, poiché le previsioni finanziarie in esso
contenute costituiscono limite agli impegni di spesa.

Il PEG deve essere deliberato in coerenza con il bilancio di


previsione e con il DUP e in esso sono unificati organicamente il
piano dettagliato degli obiettivi, di cui all’art. 108 T.U.E.L., e il piano
delle performance, previsto dall’art. 10 del D.Lgs. 150/2009 (così il
comma 3bis, che riprende nella sostanza la formula antecedente
le modifiche introdotte dal D.Lgs. 126/2014).
La predisposizione del PEG è facoltativa per i Comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti (comma 3), per i quali il
legislatore si limita ad auspicarne l’adozione, anche in forma
semplificata (allegato 4/1 al D.Lgs. 118/2011).

B) La struttura

Nel PEG le entrate sono articolate in titoli, tipologie, categorie, capitoli ed


eventualmente in articoli, mentre le spese sono articolate in missioni,
programmi, titoli, macroaggregati, capitoli ed eventualmente in articoli (comma
2).
Il prospetto concernente la ripartizione delle tipologie in categorie e dei
programmi in macroaggregati, redatto secondo lo schema previsto dall’allegato
8 al D.Lgs. 118/2011, va allegato al PEG.

C La procedura di approvazione

Il T.U.E.L. (art. 169) dispone che la Giunta deliberi il PEG entro venti giorni
dall’approvazione del bilancio di previsione (comma 1).

L’allegato 4/1 al D.Lgs. 118/2011 precisa che spetta al direttore


generale (o, in caso di sua mancata nomina, al segretario
comunale), con la collaborazione dei dirigenti e dei responsabili dei
servizi, proporre il PEG alla Giunta per la sua definizione ed
approvazione.

4 IL PIANO DEGLI INDICATORI E DEI RISULTATI ATTESI DI BILANCIO

L’art. 18bis del D.Lgs. 118/2011, introdotto dal D.Lgs. 126/2014, dispone che
al bilancio di previsione venga allegato anche il piano degli indicatori e dei
risultati attesi di bilancio, costruito sulla base di un sistema comune di
indicatori di risultato da definirsi con decreto del Ministro dell’interno e la cui
redazione sarà obbligatoria a decorrere dall’esercizio successivo all’emanazione
del suddetto decreto.
In riferimento a ciascun programma, il piano indica gli obiettivi che l’ente
intende realizzare nel triennio di riferimento del bilancio di previsione. Il piano è
aggiornato annualmente, in relazione all’individuazione di nuovi obiettivi e per
scorrimento (allegato 4/1 al D.Lgs. 118/2011).

Glossario

Bilancio di previsione: documento contabile che contiene le previsioni di


entrata e di spesa relative all’anno di riferimento.

Giunta comunale: organo esecutivo dell’ente locale con competenza


autonoma, seppur residuale, su tutte le materie non espressamente
attribuite dalla legge o dallo statuto ad altri organi. Inoltre essa assume il
carattere di organo fiduciario del Sindaco, rispetto ai cui programmi
politico-amministrativi svolge attività di intensa collaborazione.

Prefetto: organo periferico dell’amministrazione statale con competenza


generale e funzioni di rappresentanza governativa a livello provinciale, ma
che esercita anche funzioni amministrative attinenti a tutti i settori
dell’amministrazione statale; dipende perciò burocraticamente dal Ministero
dell’Interno, ma funzionalmente dall’intero Governo e, di volta in volta, dai
Ministri dei dicasteri che rappresenta localmente. È nominato con decreto
del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’Interno e
deliberazione del Consiglio dei Ministri.
CAPITOLO 6
LA GESTIONE DEL BILANCIO

SOMMARIO

1 La gestione del bilancio. 2 La gestione delle entrate. 3 La gestione delle


spese: l’impegno. 4 Segue: La liquidazione. 5 Segue: L’ordinazione e il
pagamento. 6 Variazioni di bilancio. 7 Gli equilibri di bilancio. 8 Gli
strumenti di intervento per ripristinare gli equilibri.

1 LA GESTIONE DEL BILANCIO

Gli artt. 178-198 (Titolo III della Parte Seconda del T.U.E.L.) sono interamente
dedicati alla gestione del bilancio.
Va subito notato che tutti gli atti di gestione sono di competenza dei dirigenti
o (nei Comuni privi di personale con tale qualifica) dei responsabili dei
servizi, nel rispetto del principio di separazione fra attività di indirizzo e
attività di gestione.

A soli due mesi dall’entrata in vigore del T.U.E.L., il legislatore ha


reintrodotto una norma derogatoria al principio generale di
separazione. L’art. 53, comma 23, L. 388/2000 (come
modificato dall’art. 29 della L. 448/2001), infatti, dispone che gli
enti locali con popolazione inferiore a 5.000 abitanti possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative attribuendo ai
componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei
servizi e il potere di adottare atti anche di natura tecnica
gestionale.

Se si prescinde da tale deroga, il T.U.E.L. ha dunque riconfermato il principio


della completa separazione fra attività di indirizzo ed attività di gestione anche
nei Comuni medio-piccoli. Di conseguenza:

il Consiglio ha il compito di indicare le linee guida dell’attività dell’ente


e di approntare (in via generale) le risorse disponibili mediante

l’approvazione del bilancio;

alla Giunta compete definire specificamente gli obiettivi e assegnare le


risorse ai dirigenti/responsabili mediante il PEG;

gli atti di gestione e la competenza ad assumere gli impegni di spesa

ricadono esclusivamente sui dirigenti/responsabili dei servizi, dunque,

le determinazioni di questi ultimi costituiscono attuazione degli obiettivi e


dei programmi definiti con gli atti d’indirizzo adottati dalla Giunta.

Si noti, inoltre, che il D.Lgs. 126/2014 ha modificato molti degli articoli del
T.U.E.L relativi alla gestione del bilancio, al fine di adeguarne la normativa ai
principi contabili generali e applicati di cui al D.Lgs. 118/2011 e, in particolare,
al cd. principio della competenza finanziaria potenziata.

2 LA GESTIONE DELLE ENTRATE

La gestione delle entrate avviene attraverso le seguenti fasi:

l’accertamento;

la riscossione;
il versamento.

A) L’accertamento

L’accertamento (art. 179 T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014)


costituisce la prima fase di gestione dell’entrata mediante la quale, sulla base
di idonea documentazione, viene verificata la ragione del credito e la
sussistenza di un idoneo titolo giuridico; viene quindi individuato il debitore,
quantificata la somma da incassare ed infine fissata la relativa scadenza. In
questa fase la semplice previsione di entrata si trasforma in credito
effettivo.

L’accertamento delle entrate avviene distinguendo le entrate ricorrenti da quelle


non ricorrenti, attraverso la codifica della transazione elementare, seguendo le
seguenti disposizioni:

per le entrate di carattere tributario, a seguito di emissione di ruoli o di

altre forme stabilite per legge;

per le entrate patrimoniali e per quelle provenienti dalla gestione di servizi


a carattere produttivo e di quelli connessi a tariffe o a contribuzioni

dell’utenza, a seguito di acquisizione diretta o di emissione di liste di


carico;
per le entrate relative a partite compensative delle spese del titolo Servizi

per conto terzi e partite di giro, in corrispondenza dell’assunzione del


relativo impegno di spesa;
per le entrate derivanti da trasferimenti e contributi da altre

amministrazioni pubbliche, a seguito della comunicazione dei dati


identificativi dell’atto amministrativo di impegno dell’amministrazione
erogante;
per le altre entrate, mediante contratti, provvedimenti giudiziari o atti

amministrativi specifici, con alcune eccezioni previste dal principio


applicato della contabilità finanziaria, per le quali è previsto
l’accertamento per cassa.
Che cos’è una transazione elementare?
Gli artt. 5 e 6 del D.Lgs. 118/2011 precisano che ogni atto di gestione genera
una transazione elementare e che ad ogni transazione viene attribuita una
codifica che consenta di tracciare le operazioni contabili e di movimentare il
piano dei conti integrato. Gli enti interessati al nuovo ordinamento contabile
sono tenuti ad organizzare il proprio sistema informativo-contabile in modo tale
da non consentire l’accertamento, la riscossione o il versamento di entrate e
l’impegno, la liquidazione, l’ordinazione e il pagamento di spese in assenza di
una codifica completa che ne consenta l’identificazione. La struttura della
codifica della transazione elementare è definita dall’allegato 7 al D.Lgs.
118/2011.

Competente all’accertamento è il responsabile del procedimento, che deve


trasmettere l’idonea documentazione, sulla cui base si è svolto l’accertamento,
al responsabile del servizio finanziario ai fini dell’annotazione nelle scritture
contabili, secondo i tempi e i modi previsti dal regolamento di contabilità
dell’ente, nel rispetto del principio generale della competenza finanziaria e del
principio applicato della contabilità finanziaria di cui agli allegati 1 e 4/2 del
D.Lgs. 118/2011.
Le modifiche apportate dal D.Lgs. 126/2014 vanno tutte nella direzione di
assicurare il rispetto del principio della competenza finanziaria. In tale ottica,
l’allegato 4/2 al D.Lgs. 118/2011 precisa che l’iscrizione della posta contabile nel
bilancio avviene secondo il criterio della scadenza del credito rispetto a ciascun
esercizio finanziario. Pertanto, l’accertamento delle entrate è effettuato
nell’esercizio in cui sorge l’obbligazione attiva, con imputazione
contabile all’esercizio in cui il credito scade. Non possono essere riferite ad
un determinato esercizio, dunque, le entrate il cui diritto di credito non venga a
scadenza nel medesimo esercizio finanziario.

Il suddetto allegato precisa che sono accertate per l’intero


importo del credito anche le entrate di dubbia e difficile esazione,
per le quali non è certa la riscossione integrale, quali le sanzioni
amministrative al codice della strada, gli oneri di urbanizzazione, i
proventi derivanti dalla lotta all’evasione etc.
Per i crediti di dubbia e difficile esazione accertati nell’esercizio è
effettuato un accantonamento al fondo crediti di dubbia
esigibilità, vincolando una quota dell’avanzo di amministrazione. A
tal fine è stanziata nel bilancio di previsione una apposita posta
contabile, denominata Accantonamento al fondo crediti di dubbia
esigibilità, il cui ammontare è determinato in considerazione della
dimensione degli stanziamenti relativi ai crediti che si prevede si
formeranno nell’esercizio, della loro natura e dell’andamento del
fenomeno negli ultimi cinque esercizi precedenti (la media del
rapporto tra incassi e accertamenti per ciascuna tipologia di
entrata).
Con riferimento agli enti locali, nel 2015 è stanziata in bilancio una
quota dell’importo dell’accantonamento quantificato nel prospetto
riguardante il fondo crediti di dubbia esigibilità allegato al bilancio
di previsione pari almeno al 36 per cento, se l’ente non ha aderito
alla fase di sperimentazione, e al 55 per cento, se l’ente ha
aderito alla predetta sperimentazione. Nel 2016 per tutti gli enti
locali lo stanziamento di bilancio riguardante il fondo crediti di
dubbia esigibilità sarà pari almeno al 55 per cento, nel 2017
almeno al 70 per cento, nel 2018 almeno all’85 per cento e dal
2019 l’accantonamento al fondo sarà effettuato per l’intero
importo (così dopo le modifiche apportate dalla L. 190/2014).

B) La riscossione
La riscossione (art. 180 T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014) è
quella fase dell’entrata attraverso la quale i soggetti legittimati introitano
materialmente le somme accertate previa emissione di ordinativo di incasso,
sottoscritto dal responsabile del servizio finanziario o da altro dipendente
individuato dal Regolamento di contabilità.

Quali sono i soggetti legittimati alla riscossione?

Tra i soggetti legittimati alla riscossione rientrano:

il tesoriere;
gli incaricati interni, come ad esempio il personale opportunamente

designato con formale provvedimento dell’amministrazione;


gli incaricati esterni quale l’esattore.

In alternativa l’art. 52 del D.Lgs. 446/1997 dà facoltà ai Comuni di disciplinare,


mediante il proprio regolamento, la gestione della riscossione delle entrate. I
Comuni, pertanto, possono stabilire di:

gestire la riscossione delle entrate mediante proprie strutture;

affidare a terzi, anche disgiuntamente, le attività di liquidazione,


accertamento e riscossione dei tributi e delle altre entrate. L’affidamento
è deliberato, nel rispetto della normativa comunitaria e delle procedure
vigenti in materia di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali,

a (art. 1, comma 224 L. 244/2007):


privati iscritti all’Albo dei soggetti abilitati ad effettuare attività di
accertamento e di riscossione dei tributi;
operatori di Stati membri UE che esercitano tale attività;

società a capitale interamente pubblico, mediante convenzione;


società iscritte nell’albo i cui soci privati siano scelti nel rispetto della

disciplina comunitaria e delle procedure di evidenza pubblica, a condizione

che l’affidamento dei servizi di accertamento e riscossione dei tributi e


delle entrate avvenga sulla base di procedure ad evidenza pubblica.

Il nuovo art. 180 chiarisce che gli ordinativi d’incasso relativi ad


entrate di competenza dell’esercizio in corso devono essere tenuti
distinti da quelli relativi ai residui. Tutti gli ordinativi, sia in conto
competenza sia in conto residui, sono imputati contabilmente
all’esercizio in cui il tesoriere ha incassato le relative entrate,
anche se la comunicazione è pervenuta all’ente nell’esercizio
successivo. Gli ordinativi non riscossi entro il termine
dell’esercizio sono restituiti dal tesoriere all’ente per
l’annullamento e la successiva emissione nell’esercizio successivo
in conto residui.

L’ordinativo d’incasso deve espressamente indicare:

il debitore;
l’ammontare da riscuotere;

la causale;
se le entrate sono riscosse «con vincolo di destinazione»;
il titolo e la tipologia distintamente per residui o competenza;
la codifica di bilancio;

il numero progressivo;
l’esercizio finanziario e la data di emissione;

la codifica SIOPE;

i codici della transazione elementare (dal 1° gennaio 2016).

Comunque, anche in mancanza di tale documento, il tesoriere è tenuto a


ricevere qualsiasi importo a qualsiasi titolo, salvo chiedere immediatamente
all’amministrazione il relativo ordinativo di incasso. L’ente provvede alla
regolarizzazione dell’incasso entro i successivi 60 giorni, e comunque entro i
termini previsti per la resa del conto del tesoriere.

L A RIFO RMA D ELLA RISCO SSIO N E D EI T RIBUT I


Il sistema della riscossione introdotto dal D.Lgs. 446/1997 ha riconosciuto
agli enti locali ampia autonomia nella gestione delle proprie entrate,
valorizzata dalle successive modifiche al Titolo V della Costituzione e
confermata dal D.Lgs. 112/1999, che richiama la potestà regolamentare di
Province e Comuni in tale materia.

Gli strumenti introdotti da quest’ultimo decreto per massimizzare i risultati


dell’attività di riscossione non hanno però consentito di contrastare in modo
efficace il fenomeno dell’evasione, rendendo necessaria una riforma del
sistema. In merito è stato emanato il D.L. 203/2005, conv. in L. 248/2005,
che ha previsto la soppressione del sistema di affidamento in
concessione del servizio nazionale della riscossione a partire dal 1°
ottobre 2006, attribuendo le funzioni relative all’Agenzia delle entrate (art.
3, comma 1), che, insieme all’INPS, ha costituito una società per azioni
(Riscossione S.p.A., ora Equitalia S.p.A.) le cui attività sono (art. 3,
comma 4):
riscossione mediante ruolo;
riscossione spontanea, liquidazione ed accertamento delle entrate,

tributarie o patrimoniali, degli enti pubblici, anche territoriali, e delle


loro società partecipate, nel rispetto di procedure di gara ad evidenza

pubblica;

altre attività, strumentali a quelle dell’Agenzia delle entrate.

Il D.L. 70/2011, conv. in L. 106/2011, ha tuttavia stabilito che dal 1°


gennaio 2016 (termine così prorogato dal D.L. 78/2015, conv. in L.
125/2015) l’attività di riscossione dei tributi comunali non potrà più
essere esercitata da Equitalia né da società per azioni da questa
partecipate.
In un quadro così complesso è infine intervenuta la L. 11 marzo 2014, n.
23, che ha delegato il Governo ad adottare decreti legislativi volti, fra
l’altro, a riordinare la disciplina della riscossione delle imposte degli
enti locali.

C) Il versamento

È la fase che conclude il processo dell’entrata, dove le somme acquisite


attraverso la riscossione vengono versate nelle casse dell’ente (art. 181
T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014). Gli incaricati della
riscossione, interni ed esterni, versano al tesoriere le somme riscosse nel
rispetto della normativa vigente e di eventuali accordi convenzionali; gli
incaricati interni, autorizzati dall’amministrazione, dovranno invece osservare le
cadenze fissate dai Regolamenti per le diverse tipologie di entrate (es. entrate
per contravvenzioni, riscossione di buoni pasto, retta frequenza asili nido ecc.),
comunque non superiori a 15 giorni lavorativi.

3 LA GESTIONE DELLE SPESE: L’IMPEGNO


La gestione delle spese avviene attraverso le seguenti fasi:

l’impegno;
la liquidazione;
l’ordinazione;

il pagamento.

A) L’impegno

L’art. 183, comma 1, del T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014,
dispone che con l’impegno, «a seguito di obbligazione giuridicamente
perfezionata» sono determinati «la somma da pagare» e « il soggetto
creditore», è «indicata la ragione e viene costituito il vincolo sulle previsioni di
bilancio…».
Solo a questo punto la semplice previsione di spesa si trasforma in un debito
effettivo, che verrà rilevato contabilmente dopo la regolare esecuzione della
prestazione (fase della liquidazione in cui si determina la somma certa e liquida
da pagare).
Il nuovo art. 183 stabilisce che tutte le obbligazioni passive giuridicamente
perfezionate devono essere registrate nelle scritture contabili quando
l’obbligazione è perfezionata, con imputazione all’esercizio in cui viene a
scadenza, secondo le modalità previste dal principio applicato della contabilità
finanziaria di cui al D.Lgs. 118/2011. Non possono essere riferite ad un
determinato esercizio finanziario le spese per le quali non sia venuta a scadere
nello stesso esercizio la relativa obbligazione giuridica.
Gli impegni di spesa sono assunti nei limiti dei rispettivi stanziamenti di
competenza del bilancio di previsione, con imputazione agli esercizi in cui le
obbligazioni passive sono esigibili. Sia pure con alcune eccezioni, non possono
essere assunte obbligazioni che danno luogo ad impegni di spesa corrente sugli
esercizi ancora in corso o su esercizi non considerati nel bilancio.
Gli elementi costitutivi dell’impegno sono (allegato 4/2 al D.Lgs. 118/2011):

la ragione del debito;


l'indicazione della somma da pagare;
il soggetto creditore;

la scadenza dell'obbligazione;

la specificazione del vincolo costituito sullo stanziamento di bilancio.

Con l’approvazione del bilancio, e senza necessità di ulteriori atti, è costituito


automaticamente impegno (ope legis) sulle spese dovute per:

il trattamento economico tabellare già attribuito al personale e relativi

oneri riflessi;
le rate di ammortamento, gli interessi di preammortamento e gli ulteriori
oneri accessori, nei casi in cui non si sia provveduto all'impegno

nell'esercizio in cui il contratto di finanziamento è stato perfezionato;


per contratti di somministrazione riguardanti prestazioni continuative, nei
casi in cui l'importo dell'obbligazione sia definito contrattualmente.

Anche gli impegni di spesa sono registrati distinguendo le spese ricorrenti da


quelle non ricorrenti, seguendo la codifica della transazione elementare di cui
agli artt. 5 e 6 del D.Lgs. 118/2011.
Il responsabile della spesa che adotta provvedimenti che comportano impegni di
spesa ha l’obbligo di accertare preventivamente che il programma dei
conseguenti pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di cassa e
con le regole del patto di stabilità.
I provvedimenti che comportano impegni di spesa vengono trasmessi al
responsabile del servizio finanziario (art. 151, comma 4, T.U.E.L.), il quale
verifica se l’importo impegnato è sostenuto da una sufficiente capienza del
relativo intervento o capitolo di bilancio e valuta, alla luce della consistenza dei
flussi di cassa, se le risorse finanziarie saranno effettivamente disponibili nel
momento in cui è necessario sostenere la spesa (cd. criterio della copertura
finanziaria effettiva).
In caso positivo, egli appone il visto di regolarità contabile attestante la
copertura finanziaria, senza il quale il provvedimento non ha alcun valore
esecutivo.

B) La costituzione dell’impegno su impulso d’ufficio

Oltre che ope legis, l’impegno può essere assunto su impulso d’ufficio
attraverso determinazioni dirigenziali. Queste ultime devono essere classificate
con sistemi di raccolta che permettono di individuare la cronologia degli atti e
l’ufficio di provenienza e sono soggette alla disciplina del visto di regolarità
contabile contenente l’attestazione di copertura finanziaria.
Il dirigente, quindi, attraverso le determinazioni assume gli impegni di spesa in
attuazione dei programmi stabiliti con il P.E.G., cercando di realizzare i
corrispondenti obiettivi secondo i criteri di efficacia, efficienza ed economicità.

C) La prenotazione dell’impegno, le spese di investimento e il fondo


pluriennale vincolato

L’impegno si perfeziona mediante l’atto gestionale che verifica ed attesta gli


elementi costitutivi anzidetti e la copertura finanziaria e con il quale si dà
conto, altresì, degli effetti di spesa in relazione a ciascun esercizio finanziario
contemplato dal bilancio di previsione.
Tuttavia, non sempre gli elementi necessari all’assunzione di un regolare
impegno sono disponibili immediatamente: ciò accade soprattutto in quelle
procedure in cui il soggetto creditore e la somma da pagare sono noti con
precisione solo alla fine dell’iter attivato (es. gare di appalto, procedure
concorsuali etc.). In questi casi il legislatore, per dare la possibilità ai
responsabili dei servizi di attuare i programmi (della cui esecuzione, per altro,
sono direttamente responsabili, art. 4 D.Lgs. 165/2001), e consapevole della
necessità di rimediare ad una definizione di impegno necessariamente puntuale
quanto rigida, ha da tempo introdotto l’istituto della prenotazione d’impegno
(anche detto preimpegno). Allorché risulti impossibile assumere regolare
impegno per mancanza di alcuni elementi essenziali, questo strumento
permette di prenotare le risorse necessarie sin dal momento in cui si dà avvio
alla procedura di gara.
I provvedimenti relativi per i quali entro il termine dell’esercizio non è stata
assunta dall’ente l’obbligazione di spesa verso i terzi decadono e costituiscono
economia della previsione di bilancio alla quale erano riferiti, concorrendo alla
determinazione del risultato contabile di amministrazione.
Diverso appare, tuttavia, il trattamento delle spese in c/capitale, dopo le
modifiche introdotte dal D.Lgs. 126/2014. Nel rispetto del nuovo principio
della competenza finanziaria, le spese di investimento sono impegnate negli
esercizi in cui scadono le singole obbligazioni passive derivanti dal contratto o
dalla convenzione avente ad oggetto la realizzazione dell’investimento, sulla
base del relativo cronoprogramma.

Le spese di investimento per lavori pubblici prenotate negli


esercizi successivi, la cui gara è stata formalmente indetta,
concorrono alla determinazione del fondo pluriennale vincolato
(cfr. Cap. 5) e non del risultato di amministrazione. In assenza di
aggiudicazione definitiva della gara entro l’anno successivo, le
economie di bilancio confluiscono nell’avanzo di amministrazione
vincolato per la riprogrammazione dell’intervento in c/capitale e il
fondo pluriennale è ridotto di pari importo (così l’art. 183, comma
3, dopo le modifiche apportate dal D.Lgs. 126/2014).

4 SEGUE: LA LIQUIDAZIONE

L’ufficio che assume l’impegno definitivo, regolarmente costituito, dispone la


liquidazione della spesa.
Si tratta della seconda fase della gestione della spesa: con essa, sulla scorta
dei documenti e dei titoli che comprovano il diritto acquisito dal creditore, viene
determinato l’ammontare della somma certa e liquida da pagare, nei limiti
dell’impegno di spesa assunto (art. 184, comma 1).
La spesa, come visto in precedenza, emergerà sempre in corrispondenza
dell’esecuzione contrattuale e potrà manifestarsi o contemporaneamente
all’assunzione dell’impegno o successivamente. Il processo di liquidazione ha
inizio nel momento in cui l’ufficio ragioneria riceve la fattura (munita di buono
d’ordine) e, dopo averla registrata, provvede a trasmetterla per il controllo di
liquidazione all’ufficio interessato. Quest’ultimo, una volta riscontrato che la
documentazione esibita dal creditore corrisponde alla fornitura o alla
prestazione e che questa è stata effettuata nei termini e alle condizioni
pattuite e nel rispetto dei requisiti quantitativi e qualitativi convenuti (verifica
della regolarità della prestazione), dispone la liquidazione. Detto
accertamento debitorio assume rilevanza proprio in ordine all’emissione
dell’atto di liquidazione, il quale sarà negato, mediante contestazione alla
controparte, qualora sia riscontrata l’irregolare o la mancata esecuzione della
obbligazione. Invece dopo l’adozione di atto di liquidazione, le uniche irregolarità
contestabili saranno gli eventuali vizi occulti della cosa oggetto della
prestazione.
L’atto di liquidazione, che assume la veste amministrativa della
determinazione, «constata» l’esistenza di un debito effettivo e ne quantifica
l’esatto importo (la somma certa e liquida da pagare) nei limiti dell’ammontare
dell’impegno definitivo assunto.

Nonostante l’art. 184 T.U.E.L. non abbia subito modifiche, l’allegato


4/2 al D.Lgs. 118/2011 precisa che la liquidazione è registrata
contabilmente quando l’obbligazione diviene effettivamente
esigibile, a seguito della verifica della completezza della
documentazione prodotta e della idoneità della stessa a
comprovare il diritto di credito del creditore, corrispondente ad
una spesa che è stata legittimamente posta a carico del bilancio e
regolarmente impegnata. Alla fine dell’esercizio, gli impegni
contabili non liquidati o non liquidabili sono annullati e reimputati
all’esercizio in cui l’obbligazione risulta esigibile.
Infine il provvedimento di liquidazione, insieme a tutti i documenti giustificativi
(fatture, buono d’ordine ecc.), viene trasmesso al servizio finanziario, il quale
provvede a richiamare la fattura, precedentemente registrata, e ad effettuare i
controlli e i riscontri amministrativi, contabili e fiscali.

5 SEGUE: L’ORDINAZIONE E IL PAGAMENTO

L’ordinazione (art. 185 T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014)


consiste nella disposizione impartita al tesoriere dell’ente di provvedere al
pagamento ad un soggetto specificato.
L’atto che contiene l’ordinazione è detto mandato di pagamento o ordine di
pagamento.

Quali informazioni deve contenere il mandato di pagamento?


Il mandato di pagamento deve contenere almeno i seguenti elementi
informativi:

il numero progressivo;
la data di emissione;

l’indicazione della missione, del programma e del titolo di bilancio cui è


riferita la spesa e la relativa disponibilità, distintamente per residui o

competenza e cassa;
la codifica di bilancio;
l’indicazione del creditore e, se si tratta di persona diversa, del soggetto
tenuto a rilasciare quietanza, nonché il relativo codice fiscale o la partita
I.V.A.;

l’ammontare della somma dovuta e la scadenza, qualora sia prevista dalla


legge o sia stata concordata con il creditore;

la causale e gli estremi dell’atto esecutivo che legittima l’erogazione della


spesa;

le eventuali modalità agevolative di pagamento se richieste dal creditore;

il rispetto degli eventuali vincoli di destinazione stabiliti per legge o


relativi a trasferimenti o ai prestiti;

la codifica SIOPE (dal 1° gennaio 2016);

i codici della transazione elementare di cui al D.Lgs. 118/2011;

l’identificazione delle spese non soggette al controllo dei dodicesimi, in

caso di esercizio provvisorio.

Gli ordini di pagamento sono disposti nei limiti dei rispettivi stanziamenti di
cassa, ad eccezione dei pagamenti riguardanti il rimborso delle anticipazioni di
tesoreria, i servizi per conto terzi e le partite di giro. Essi saranno, dunque,
emessi una volta constatata una sufficiente disponibilità di cassa.

Cosa avviene in caso di pagamenti necessari e di insufficiente


disponibilità di cassa?

Nel caso in cui la somma a disposizione sia insufficiente e il pagamento invece


sia necessario, l’art. 195 T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014,
permette di adoperare le entrate a destinazione vincolata. Affinché l’ente
possa beneficiare di tali risorse, devono verificarsi le seguenti condizioni:

non deve trovarsi in stato di dissesto finanziario, a meno che non sia
stato emanato il decreto di approvazione del bilancio di previsione

stabilmente riequilibrato (art. 261, T.U.E.L.);


deve trovarsi nella momentanea (occasionale) necessità (pagamento non

ulteriormente dilazionabile) di finanziare spese correnti;

la Giunta, per garantire la ricostituzione delle somme vincolate utilizzate


anche in mancanza di introiti non soggetti a vincolo di destinazione, deve

adottare preventiva delibera di anticipazione di tesoreria ai sensi dell’art.

222, comma 1, T.U.E.L.

Tra le somme vincolate utilizzabili rientrano anche quelle provenienti


dall’assunzione di mutui con istituti diversi dalla Cassa DD.PP., purché l’importo
usato non sia superiore all’anticipazione di tesoreria «disponibile», il cui
ammontare massimo è fissato dall’art. 222 T.U.E.L.

Una volta rilevata una disponibilità di cassa sufficiente, il dipendente dell’ente


individuato dal Regolamento di contabilità firma il mandato di pagamento.
Quest’ultimo è poi controllato dal servizio finanziario, il quale, dopo aver
apposto il visto che attesta la verifica della sussistenza dell’impegno e della
liquidazione, provvede alle relative operazioni di contabilizzazione e all’invio del
provvedimento al tesoriere per il pagamento, accompagnandolo da un elenco in
duplice esemplare la cui copia deve essere restituita per ricevuta.
Il tesoriere, anche in assenza del mandato, è tenuto al pagamento di somme
derivanti da obblighi tributari (cartelle esattoriali di imposte per le quali l’ente è
soggetto passivo), da somme iscritte a ruolo, da delegazioni di pagamento (per
mutui assunti e prestiti obbligazionari emessi) e da altri obblighi di legge (art.
185). In questo caso il responsabile del servizio finanziario deve emettere tale
atto nel termine di 30 giorni, imputandolo contabilmente all’esercizio in cui il
tesoriere ha effettuato il pagamento, anche se la relativa comunicazione è
pervenuta all’ente nell’esercizio successivo.

Che cosa sono le entrate a destinazione vincolata?

Le entrate a destinazione vincolata, per legge o per atto amministrativo,


finanziano spese correnti e di investimento e presuppongono una rigorosa
correlazione tra entrate e spese, nel senso che tali risorse accertate possono
essere utilizzate solo per quella specifica finalità prevista dal vincolo. Eventuali
economie confluiscono nell’avanzo vincolato e devono essere ridestinate a
quello scopo, fatto salva la facoltà per il Comune di chiedere, in alcuni casi
ammissibili, lo svincolo per altre possibili destinazioni.

Esempi di entrata a destinazione vincolata sono costituiti da:

sanzioni amministrative per violazione del Codice della Strada (per legge,
il 50% di tali proventi devono essere destinati fra l’altro al miglioramento

della segnaletica, a interventi per favorire la mobilità ciclistica ecc.) (art.


196, D.Lgs. 285/1992);

proventi delle sanzioni amministrative sulla pubblicità, da destinare al


miglioramento del servizio e dell’impiantistica comunale (art. 24, D.Lgs.
507/1993).

6 VARIAZIONI DI BILANCIO

Gli scostamenti che alle volte si riscontrano tra i dati della programmazione e
quelli della gestione possono essere:
il frutto degli accadimenti accidentali e imprevisti che si frappongono tra i
due momenti (errori di previsione);

il sintomo premonitore di una gestione che non condurrà alla realizzazione


degli obbiettivi (gestione inefficace).

Qualunque sia la causa, ogni mutamento nelle traiettorie previste può rendere
inadeguato l’ammontare degli stanziamenti e, nei casi più gravi, può anche
incidere negativamente sugli equilibri di bilancio. In tali situazioni allora, avuto
riguardo alla natura autorizzatoria del bilancio, le risorse dovranno essere
ridistribuite, gli equilibri nuovamente verificati e, se necessario, ricostituiti.

Oggi il concetto di variazione di bilancio assume un significato


più ampio e complesso di quello che aveva in passato. Infatti
prima dell’introduzione del D.Lgs. 77/1995 la nozione di variazione
di bilancio era unicamente associata a modifiche di tipo contabile,
in quanto non esisteva un legame programmatico tra le risorse
finanziarie disponibili e gli obiettivi da perseguire. Ciò scaturiva da
modelli di gestione degli enti locali privi di strumenti di
programmazione, dove gli amministratori giocavano un forte ruolo
gestionale, mentre i dirigenti assolvevano a funzioni meramente
esecutive.
Attualmente, invece, esistendo un sistema coordinato e
fortemente integrato di documenti di programmazione, alle
variazioni di bilancio (annuale, pluriennale) non si legano solo meri
effetti contabili (storni, aumenti e diminuzioni di risorse
finanziarie), ma anche modifiche di obiettivi, ridistribuzione di
dotazioni strumentali e di risorse umane, che coinvolgono il PEG e
la relazione previsionale nella parte descrittiva e/o nella parte
contabile.
In particolare, con l’attuale sistema di strumenti programmatici si possono
verificare tre fondamentali tipologie di variazioni:

la prima riguardante il PEG, ma non coinvolgente il bilancio di previsione


finanziario;

la seconda concernente sia il PEG, sia il bilancio;

la terza concernente il prelievo dal fondo di riserva.

Circa le competenze ad apportare variazioni ai documenti contabili,


ricordiamo il principio secondo cui solo l’organo che ha adottato il documento
può modificarlo (bilancio = Consiglio; PEG = Giunta). Il principio trova un’unica
eccezione nel caso di variazioni d’urgenza (art. 175, comma 4, T.U.E.L.), ma in
questo caso occorre la ratifica del Consiglio entro i 60 giorni seguenti (e
comunque entro il termine dell’esercizio, 31 dicembre, se a tale data il termine
dei 60 giorni non sia ancora scaduto).

A) Variazioni al solo PEG

Nel caso di variazioni del solo piano esecutivo di gestione si possono verificare:

variazioni della sola parte descrittiva degli obiettivi, senza che ciò

comporti variazioni finanziarie. In questo caso i soggetti coinvolti


nell’operazione da un lato sono i dirigenti che formulano la proposta di

variazione della parte descrittiva del PEG, dall’altro la Giunta che invece
adotta la delibera di variazione del piano. Il servizio finanziario infine
prende atto dell’avvenuta modificazione ;
variazioni al solo livello finanziario coinvolgenti articoli di uno stesso
capitolo. In questa ipotesi il dirigente adotta determinazione contenente

la richiesta al servizio economico-finanziario di effettuare la variazione


suddetta;

modificazioni sia a livello finanziario, sia a livello degli obiettivi. Al


riguardo i dirigenti inoltrano proposta al settore economico-finanziario di

effettuare le variazioni al PEG , quindi la Giunta dell’ente vi provvede con

apposito atto deliberativo. Infine, al servizio finanziario non resta che


eseguire le variazioni ordinate.

Si badi che, ai sensi dell’art. 175, comma 9, del T.U.E.L. (come modificato dal
D.Lgs. 126/2014), le variazioni del piano esecutivo di gestione vanno
adottate entro il 15 dicembre di ogni anno (con alcune eccezioni indicate dal
comma 3 del medesimo articolo.
Tali variazioni sono di competenza dell’organo esecutivo (comma 5bis), con la
sola eccezione (comma 5quater) delle variazioni compensative del PEG fra
capitoli di entrata della medesima categoria e fra i capitoli di spesa del
medesimo macroaggregato, che spettano al responsabile della spesa o, in
mancanza di disciplina, al responsabile finanziario (con esclusione di quelli
riguardanti i trasferimenti correnti, i contributi agli investimenti e i
trasferimenti in conto capitale, che restano di competenza della Giunta).

B) Variazioni congiunte del PEG e del bilancio

La seconda tipologia di variazioni (che interessano sia il PEG sia il bilancio) ha


origine da modificazioni coinvolgenti capitoli di interventi diversi e la sfera degli
obiettivi programmati, questi ultimi consistenti nell’introduzione di nuovi
targets, nell’eliminazione di vecchi progetti ovvero nei mutamenti delle modalità
attuative degli obiettivi stessi (variazioni di programmi e/o progetti). In questo
caso i dirigenti inviano al servizio finanziario proposta concernente le variazioni
contabili e le modificazioni a livello degli obiettivi accennate. Il servizio in
argomento, quindi, rilevata la fattibilità delle variazioni richieste, invia la
proposta al Consiglio e alla Giunta dell’ente o, nel caso di urgenza, la sottopone
solo a quest’ultimo organo. Nella prima ipotesi questi organi, ritenuta
politicamente valida la proposta, adottano il primo la deliberazione di variazione
del bilancio, il secondo la deliberazione di variazione del PEG. Nel caso invece di
urgenza, entrambe le predette deliberazioni vengono assunte dalla Giunta
dell’ente. Quindi il Consiglio dovrà ratificare la delibera di variazione di bilancio
entro 60 giorni dalla sua adozione.

C) Prelievo dal fondo di riserva

L’ultimo caso di variazione di bilancio è il prelievo dal fondo di riserva, dal


fondo di riserva di cassa e dai fondi spese potenziali (art. 176 T.U.E.L.,
come modificato dal D.Lgs. 126/2014). Questa operazione comporta
mutamenti nelle dotazioni finanziarie degli stanziamenti di spesa e nella parte
descrittiva dei programmi e progetti contenuti nel PEG. Al riguardo i dirigenti
inviano proposta di prelievo dal fondo di riserva e di variazione delle linee guida
(modificazione descrittiva degli obiettivi) alla Giunta dell’ente. Quest’ultimo
organo adotta delibera di prelievo dal fondo e di variazione del PEG, dandone
comunicazione al Consiglio nel termine stabilito dal Regolamento di contabilità.
Infine, il servizio finanziario esegue il prelievo autorizzato.

D) Le delibere di variazione di bilancio

Le variazioni di bilancio possono avere carattere compensativo, come ad


esempio le delibere di storno di fondi, che non modificano l’ordine di grandezza
dei principali aggregati di bilancio, oppure possono avere valenza modificativa
(variazioni in aumento o in diminuzione), come ad esempio la delibera con la
quale viene applicato l’avanzo di amministrazione «presunto» dell’esercizio
precedente.

Lo storno consiste nel trasferimento di risorse finanziarie da


unità elementari esuberanti rispetto al fabbisogno dell’intero
esercizio ad altre unità con dotazione insufficiente. Si attuano in
questo modo variazioni solo compensative, che non modificano
l’ordine di grandezza dei fondamentali aggregati finanziari.
Tuttavia questi atti, qualunque effetto abbiano sugli assetti originari del bilancio,
incidendo pur sempre sul principale strumento di programmazione, sono in linea
generale di competenza consiliare (art. 175, comma 2), con alcune eccezioni,
come si è visto in precedenza.

In via d’urgenza opportunamente motivata, però, anche la


Giunta può adottare variazioni di bilancio salvo ratifica, a pena di
decadenza, da parte dell’organo consiliare entro i sessanta giorni
seguenti e comunque entro il 31 dicembre dell’anno in corso, se a
tale data non sia scaduto il predetto termine (art. 175, comma 4).
Il Consiglio può anche non ratificare, in tutto o in parte, l’atto di
Giunta, ma in questo caso, a differenza del passato, dovrà
assumersi l’onere di adottare nei trenta giorni successivi e,
comunque, entro il 31 dicembre dell’esercizio in corso, i
provvedimenti necessari a regolare i rapporti nel frattempo sorti
(art. 175, comma 5).

Il termine ultimo per effettuare variazioni di bilancio è fissato al 30


novembre di ciascun anno (art. 175, comma 3), tranne per una serie di
variazioni, indicate dallo stesso comma 3, per le quali il termine ultimo è
spostato al 31 dicembre .
Entro il 31 luglio il Consiglio adotta la delibera di assestamento generale,
che comporta una variazione di bilancio in cui vengono verificate tutte le
previsioni di entrata e di spesa, compreso il fondo di riserva ed il fondo di
cassa, al fine di assicurare il permanere del pareggio di bilancio (art. 175,
comma 8).

7 GLI EQUILIBRI DI BILANCIO

Gli equilibri di bilancio da salvaguardare nel corso della gestione sono:

il pareggio finanziario globale (semplicemente detto pareggio


finanziario), costituito dall’equivalenza tra l’ammontare stanziato per le

spese e quello realizzabile con le entrate della gestione;


l’equilibrio finanziario di parte corrente (anche detto equilibrio

economico), il quale è realizzato allorché le risorse finanziarie

complessivamente destinate alle spese correnti e al pagamento delle rate


di ammortamento dei mutui e dei prestiti obbligazionari non superino

l’ammontare delle risorse realizzabili con i primi tre titoli di entrata;

il pareggio tra le entrate e le spese dei servizi per conto di terzi.

Queste partite rappresentano allo stesso tempo un debito e un credito per

l’ente, quindi l’equivalenza deve sussistere in qualsiasi momento della


gestione tra gli accertamenti e gli impegni e tra le previsioni in entrata e
quelle in spesa sia a livello complessivo, sia a livello di ciascun capitolo. A

tutela di questo equilibrio l’art. 175, comma 7, stabilisce il divieto di


spostamento di dotazioni iscritte nei titoli riguardanti le entrate e le spese

per conto terzi e le partite di giro in favore di altre parti del bilancio;
l’equilibrio finanziario dei prestiti a breve (es. anticipazioni di cassa), il
quale deve sussistere sia tra le previsioni di entrata e di spesa, sia tra gli

accertamenti e gli impegni al netto degli interessi passivi corrispondenti.


Quest’ultima uguaglianza è necessaria poiché i prestiti in parola, se
attivati, costituiscono automaticamente un debito da restituire in tempi
ravvicinati;

l’equilibrio degli investimenti, il quale è realizzato allorché ad ogni


spesa in conto capitale corrisponda uno o più stanziamenti di entrata
indicanti le corrispondenti fonti di finanziamento. Questo equilibrio inoltre
si traduce in una uguaglianza tra le entrate e le spese in conto capitale,

se il bilancio presenta contemporaneamente un pareggio economico e se


nessuna delle entrate in conto capitale, che per legge possono finanziare

le spese correnti (es. quota degli oneri di urbanizzazione), è destinata a

tal fine.

Infine, affinché tutti i predetti equilibri siano effettivamente riferibili alla


gestione corrente e in ossequio al principio della separazione della gestione di
competenza da quella del pregresso, è fatto divieto di spostamento di somme
tra residui e competenza (art. 175, comma 7).

8 GLI STRUMENTI DI INTERVENTO PER RIPRISTINARE GLI


EQUILIBRI

A) Le segnalazioni obbligatorie

L’ufficio preposto a verificare l’adeguatezza degli stanziamenti e la sussistenza


degli equilibri di bilancio nel corso della gestione (cd. controllo finanziario della
gestione) è il servizio finanziario. Il responsabile di tale servizio, infatti,
attesta la copertura finanziaria degli atti d’impegno dei responsabili dei servizi,
verificando l’effettività dei mezzi finanziari compatibilmente con il
mantenimento degli equilibri di bilancio, ed emette i pareri sulla regolarità
contabile (art. 49), attraverso i quali accerta la legalità della spesa, la
regolarità della documentazione, l’assolvimento degli obblighi fiscali, l’esatta
imputazione all’intervento e la sufficiente capienza dello stesso ed inoltre
prospetta eventuali spese di gestione e la possibilità di recupero totale o
parziale dei costi.
Nel caso in cui da questi controlli emerga solo una cattiva distribuzione delle
risorse tra le varie unità elementari, o comunque una distribuzione non in linea
con le vicende che si prevede si presenteranno nel corso della gestione, allora il
servizio finanziario avanzerà la proposta di una variazione di bilancio (come lo
storno di fondi).
Quando invece dalla gestione delle entrate o delle spese correnti si riscontri il
costituirsi di situazioni non compensabili da maggiori entrate o minori spese,
che possono dunque pregiudicare gli equilibri di bilancio, il servizio finanziario
segnalerà quanto rilevato al legale rappresentante, al Consiglio dell’ente nella
persona del suo Presidente, al Segretario ed all’organo di revisione, nel termine
di sette giorni dalla conoscenza dei fatti e con le modalità stabilite dal
Regolamento di contabilità (art. 153, comma 6). L’organo consiliare, nel termine
di trenta giorni dalla comunicazione, dovrà adottare conseguente delibera di
riequilibrio a norma dell’art. 193, anche su proposta dell’organo esecutivo.

B) La verifica ordinaria degli equilibri e le misure di riequilibrio

Ai sensi dell’art. 193, comma 2, T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs.


126/2014, con periodicità stabilita dal regolamento di contabilità dell’ente
locale, e comunque almeno una volta entro il 31 luglio di ciascun anno, l’organo
consiliare deve provvedere con delibera a dare atto del permanere degli equilibri
generali di bilancio o, in caso di accertamento negativo, ad adottare
contestualmente:

le misure necessarie e ripristinare il pareggio di bilancio, qualora i dati

della gestione finanziaria facciano prevedere un disavanzo, di gestione o di


amministrazione, per squilibrio della gestione di competenza, di cassa o

della gestione dei residui.

A titolo esemplificativo, può aversi squilibrio di competenza

quando si verifichino mancati o minori accertamenti per


importi elevati a causa di una improvvida sopravvalutazione
delle entrate, ovvero quando queste siano state ravvisate
laddove non potevano prodursi. Invece, può verificarsi un

rilevante squilibrio della gestione pregressa allorché, ad


esempio, si preveda in sede di riaccertamento l’insussistenza

di residui attivi per un importo elevato. Se a causa di una


delle predette situazioni si dovesse prospettare un disavanzo

di gestione, accompagnato però da un sostanziale pareggio o

avanzo di amministrazione, stando alla formulazione letterale


del secondo comma dell’art. 193, dovranno comunque essere

assunti i provvedimenti di riequilibrio. Anche se dal lato della

gestione residui ci fossero mezzi sufficienti, si dovranno

quindi reperire altrove le risorse necessarie a pareggiare la

competenza e aspettare che l’eccedenza della gestione


pregressa confluisca nell’avanzo per essere utilizzata;

i provvedimenti necessari per il ripiano degli eventuali debiti fuori bilancio


di cui all’art. 194.

Le severe regole imposte dal legislatore per l’effettuazione


delle spese trovano la loro ratio nella necessità di evitare

situazioni debitorie non supportate dai relativi impegni di


spesa; tuttavia, nonostante le precauzioni adottate, l’ente
può talvolta risultare debitore per eventi indipendenti dalla
sua volontà. Queste posizioni debitorie sprovviste di impegno

preventivo assumono allora il nome di debiti fuori bilancio,


dei quali, ad evitare un’illimitata moltiplicazione delle
fattispecie, il legislatore ha fornito un elenco tassativo (art.
194, T.U.E.L.);

le iniziative necessarie ad adeguare il fondo crediti di dubbia esigibilità


accantonato nel risultato di amministrazione in caso di gravi squilibri

riguardanti la gestione dei residui.

Quali sono i debiti fuori bilancio previsti dal T.U.E.L.?

I debiti fuori bilancio sono spese assunte in maniera irregolare e cioè senza la
preventiva adozione dell’impegno di spesa: si tratta dunque di un’obbligazione
che, pur valida dal punto di vista giuridico (poiché determina l’insorgenza di un
rapporto obbligatorio in senso civilistico), risulta viziata dalla mancanza di una
previa assunzione di impegno di spesa. Per tali tipi di spese il Testo Unico ha
previsto un elenco (tassativo) di debiti che, con apposita delibera del Consiglio,
possono essere riconosciuti legittimi. La Finanziaria 2003 (L. 289/2002, art. 23)
ha inoltre previsto che la delibera di riconoscimento sia trasmessa alla procura
della Corte dei conti.

Ai sensi dell’art. 194 T.U.E.L., possono dunque essere riconosciuti legittimi i


debiti derivanti da:

sentenze passate in giudicato con cui l’ente è stato condannato al

pagamento di una somma;


acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi
1, 2 e 3 dell’art. 191, nei limiti dell’utilità e dell’arricchimento accertati e
dimostrati per l’ente;

la copertura dei disavanzi dei consorzi, aziende speciali e istituzioni


nei limiti stabiliti dallo Statuto, convenzione o atto costitutivo, purché sia

stato rispettato l’obbligo di pareggio del bilancio (di cui all’art. 114
T.U.E.L.);

la ricapitalizzazione di società di capitali, costituite per l’esercizio di

servizi pubblici locali nei limiti e nelle forme previste dal Codice Civile o
da norme speciali;

procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di

pubblica utilità.

Il termine di adozione della delibera di riequilibrio, il 31 luglio di ciascun


anno, è sicuramente perentorio, in quanto dalla sua violazione discendono due
ordini di conseguenze:

la prima comporta lo scioglimento del Consiglio comunale ai sensi del

comma 1, lettera c) dell’art. 141. In base a tale articolo, il CO.RE.CO.


nomina un commissario ad acta per la predisposizione dei provvedimenti
da sottoporre poi all’approvazione del Consiglio.

Le modifiche apportate dalla L. cost. 3/2001 al Titolo V della


Costituzione, però, avevano di fatto reso inoperante sia l’art.
141, comma 2 del T.U.E.L. sia il presente comma 4 dell’art.

193 (che a quello rimanda). Per tale motivo, il D.L. 13/2002


(convertito con modifiche in L. 75/2002) ha previsto per
l’esercizio finanziario 2003 (art. 1quater) una procedura
alternativa da applicarsi sia in caso di scioglimento del

Consiglio per mancata approvazione nei termini del bilancio


di previsione sia in caso di scioglimento per mancata

adozione da parte degli enti locali dei provvedimenti di

riequilibrio previsti dall’art. 193 del Testo Unico. Questa


procedura è stata prorogata di anno in anno da successivi

interventi normativi. Tale regime regime prevede

l’intervento del Prefetto, fatta salva la facoltà degli enti

locali di disciplinare, con proprio Statuto, le modalità di

nomina del commissario ad acta;

la seconda, che si applica nei soli casi in cui lo squilibrio non sanato sia
stato causato dalla presenza di debiti fuori bilancio, comporta il divieto di
assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti

dalla legge. Sono fatte salve le spese da sostenere a fronte di impegni già
assunti nei precedenti esercizi.

Per ripianare i debiti fuori bilancio e per sanare lo squilibrio della gestione di
competenza o della gestione residui che faccia prospettare un disavanzo di
amministrazione o di gestione, in prima istanza, ove possibile, bisogna operare
tagli agli stanziamenti di spesa.

In alternativa, qualora ciò non sia praticabile, o in aggiunta, qualora ciò non sia
sufficiente, l’art. 193, comma 3 prevede la possibilità di utilizzare, per l’anno in
corso e nei due successivi, le seguenti risorse finanziarie:

tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti dall’assunzione di


prestiti e di quelle aventi specifico vincolo di destinazione;

i proventi derivanti dall’alienazione di beni patrimoniali disponibili e da


altre entrate in conto capitale con riferimento a squilibri di parte capitale;

la quota libera del risultato di amministrazione, qualora non sia possibile

provvedere con le modalità sopra indicate.

Per ripristinare gli equilibri di bilancio è inoltre possibile modificare le tariffe e


le aliquote relative ai tributi di propria competenza entro il 31 luglio, in deroga a
quanto previsto dalla L. 296/2006.
Inoltre, al fine di rendere più agevole il pagamento dei debiti fuori bilancio, l’art.
194 comma 3 prevede che l’ente locale possa fare ricorso all’assunzione di
mutui ai sensi dell’art. 202, purché nella relativa delibera consiliare sia
rappresentata dettagliata motivazione sull’impossibilità di utilizzare altre
risorse.

Glossario

Responsabile del procedimento: l’art. 4 della L. 241/1990 sancisce


l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di determinare per ciascun tipo di
procedimento l’unità organizzativa responsabile del procedimento e di ogni
altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento
finale.

Residui: derivano dalla formazione del bilancio secondo il principio della


competenza finanziaria per cui al 31 dicembre — termine dell’esercizio
finanziario — alcune entrate accertate non sono state riscosse ed alcune
spese impegnate non sono state pagate.
I residui attivi sono l’espressione di entrate accertate ma non ancora
riscosse nonché di entrate riscosse ma non ancora versate; rappresentano
crediti dell’azienda statale nei confronti di terze economie.
I residui passivi sono l’espressione di spese già impegnate e non ancora
ordinate, ovvero ordinate ma non ancora pagate; rappresentano debiti
dell’azienda statale nei confronti di terze economie.
CAPITOLO 7
IL FINANZIAMENTO DEGLI INVESTIMENTI

SOMMARIO

1 Introduzione. 2 L’assunzione di mutui. 3 I prestiti obbligazionari. 4 I


prodotti derivati. 5 Le aperture di credito. 6 La locazione finanziaria. 7 Le
anticipazioni di tesoreria. 8 Il piano economico-finanziario.

1 INTRODUZIONE

Gli enti locali, al pari delle imprese private, per poter fornire alla collettività
servizi qualificati, innovativi e veloci, devono periodicamente sostituire e
integrare gli elementi del proprio patrimonio e, quindi, devono riservare una
parte delle risorse di cui dispongono all’attività di investimento.

Generalmente gli investimenti degli enti locali hanno ad oggetto:

l’acquisizione di beni immobili, in cui il fabbisogno finanziario è stabilito


sulla base di valutazioni dell’immobile fatte dagli organi tecnici;
l’esecuzione di opere pubbliche. In questo caso le risorse finanziarie

necessarie allo scopo possono variare a seconda delle caratteristiche


dell’opera e vengono quantificate attraverso la programmazione (art. 128
D.Lgs. 163/2006) e la progettazione;
l’acquisto di beni mobili, quali ad esempio le attrezzature, gli arredamenti

e i mezzi di trasporto o speciali.

Le risorse necessarie alla realizzazione degli investimenti possono essere


reperite (art. 199 T.U.E.L.) attraverso l’autofinanziamento o con il ricorso al
credito.

Fanno parte della prima specie (autofinanziamento):

le entrate correnti destinate per legge agli investimenti;

l’avanzo di bilancio, costituito da eccedenze di entrate correnti rispetto


alle spese correnti aumentate delle quote capitale di ammortamento dei

prestiti;

le entrate derivanti dall’alienazione di beni e diritti patrimoniali, riscossioni

di crediti, proventi da concessioni edilizie (attuali permessi di costruire) e

relative sanzioni;
le entrate derivanti da trasferimenti in conto capitale dello Stato, delle
Regioni, da altri interventi pubblici e privati finalizzati agli investimenti, da

interventi finalizzati da parte di organismi comunitari e internazionali;


l’avanzo di amministrazione, pari al fondo di cassa aumentato dei residui

attivi e diminuito dei residui passivi (art. 186 T.U.E.L.).

Nell’area del finanziamento esterno (capitale di credito), invece, rientrano i


mutui e le altre forme di ricorso al mercato finanziario consentite dalla legge,
come (allegato 13/2 al D.Lgs. 118/2011):

l’emissione di titoli obbligazionari (titolo 6 delle entrate, tipologia 100);

i prodotti derivati (titolo 6, tipologia 400);


il leasing finanziario (titolo 6, tipologia 400);
le anticipazioni da istituto tesoriere/cassiere (titolo 7, tipologia 100).

In particolare, l’art. 3, comma 17, della L. 350/2003, come modificato dal D.Lgs.
118/2011, stabilisce che per gli enti locali costituiscono indebitamento
l’assunzione di mutui, l’emissione di prestiti obbligazionari, le cartolarizzazioni
relative a flussi futuri di entrate, a crediti e ad attività finanziarie e non
finanziarie, l’eventuale somma incassata al momento del perfezionamento delle
operazioni derivate di swap (cd. upfront), le operazioni di leasing finanziario
stipulate dal 1° gennaio 2015, il residuo debito garantito dall’ente a seguito della
definitiva escussione della garanzia.

Questi strumenti di credito possono essere attivati qualora sussistano le


seguenti condizioni (artt. 202-203 T.U.E.L.):

sia stato approvato il rendiconto del penultimo esercizio precedente quello

in cui si intende deliberare il ricorso all’indebitamento;

sia stato deliberato il bilancio annuale nel quale sono incluse le relative
previsioni;

il ricorso all’indebitamento deve essere finalizzato esclusivamente alla


realizzazione degli investimenti (si tratta, infatti, di entrate a destinazione
vincolata).

Il D.L 112/2008 (art. 62) ha introdotto ulteriori restrizioni:

è vietato emettere titoli obbligazionari e altre passività che prevedano il


rimborso del capitale in un’unica soluzione alla scadenza;

la durata di ogni singola operazione di indebitamento, anche se consistente

nella rinegoziazione di una passività esistente, non può essere superiore a


trenta anni né inferiore a cinque anni.

Inoltre, come si è visto in precedenza, modificando l’art. 119 della Costituzione,


la L. cost. 1/2012 ha disposto che, a decorrere dal 2014, il ricorso
all’indebitamento da parte degli enti locali debba avvenire con la contestuale
definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli
enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio.
A tale disposizione ha dato seguito la già citata L. 243/2012, il cui Capo IV,
applicabile dal 1° gennaio 2016, riporta le norme atte ad assicurare l’equilibrio
dei bilanci delle Regioni e degli enti locali e a regolamentare il concorso dei
medesimi enti alla sostenibilità del debito pubblico. Per quanto riguarda, in
particolare, il ricorso all’indebitamento (art. 10), viene stabilita una procedura
di intesa a livello regionale per consentire che l’accesso al debito dei singoli
enti avvenga nei limiti consentiti dalla necessità di assicurare, per l’anno di
riferimento, l’equilibrio complessivo a livello di comparto regionale.

2 L’ASSUNZIONE DI MUTUI

A) Vincoli

Nel caso dei mutui il legislatore ha posto ulteriori vincoli rispetto a quelli
generali indicati dagli artt. 202-203 del T.U.E.L. In particolare:

i mutui (e i prestiti obbligazionari) posti in essere dagli enti sottoposti ai


vincoli del patto di stabilità interno con istituzioni creditizie o finanziarie
per il finanziamento degli investimenti devono essere corredati da

apposita attestazione, da cui risulti il conseguimento degli obiettivi del


patto stesso per l’anno precedente (art. 1, comma 35, L. 311/2004,
disposizione riproposta dall’art. 1, comma 121, della L. 220/2010);

l’ente locale può deliberare nuovi mutui e accedere ad altre forme di


finanziamento reperibili sul mercato solo se l’importo annuale degli
interessi, sommato a quello dei mutui precedentemente contratti, a quello
dei prestiti obbligazionari emessi e a quello derivante da garanzie

fideiussorie, prestate per operazioni di indebitamento di aziende, società,


consorzi o Comunità montane di cui l’ente fa parte, al netto dei contributi

statali e regionali in conto interessi, non supera il 12% per il 2011, l’8%
per gli anni dal 2012 al 2014, il 10% a decorrere dal 2015, delle entrate

relative ai primi tre titoli del rendiconto del penultimo anno precedente

quello in cui viene deliberata l’assunzione (art. 204 T.U.E.L., come


modificato dalla 190/2014).

L’art. 5 del D.L. 16/2014, conv. in L. 68/2014, ha tuttavia stabilito che, per
favorire gli investimenti degli enti locali, per i soli anni 2014 e 2015, tali enti
possono assumere nuovi mutui ed accedere alle altre forme di finanziamento
reperibili sul mercato oltre i limiti previsti dall’art. 204 T.U.E.L., sia pure per un
importo non superiore alle quote di capitale dei mutui e dei prestiti
obbligazionari, precedentemente contratti ed emessi, rimborsate nell’esercizio
precedente.

A quali condizioni è possibile contrarre mutui con enti non previsti dal
T.U.E.L.?
Particolari prescrizioni sono richieste per la contrazione di mutui con istituti
diversi dalla Cassa DD.PP. e dall’Istituto per il credito sportivo. Infatti
l’art. 204, comma 2, T.U.E.L. stabilisce che il contratto di assunzione deve
essere stipulato, a pena di nullità, in forma pubblica (per i contratti con la
Cassa DD.PP., a seguito del D.M. 6 ottobre 2004 non è più prevista la forma
pubblica) e deve contenere le seguenti clausole e condizioni:

a. l’ammortamento non può avere durata inferiore a cinque anni;

b. la decorrenza dell’ammortamento deve essere fissata al 1° gennaio

dell’anno successivo a quello della stipula del contratto. In alternativa,


può essere posticipata al 1º luglio seguente o al 1º gennaio dell’anno

successivo e, per i contratti stipulati nel primo semestre dell’anno, può

essere anticipata al 1º luglio dello stesso anno;

c. la rata di ammortamento deve essere comprensiva, sin dal primo anno,

della quota capitale e della quota interessi;

d. unitamente alla prima rata di ammortamento del mutuo cui si

riferiscono devono essere corrisposti gli eventuali interessi di

preammortamento, gravati degli ulteriori interessi, al medesimo tasso,

decorrenti dalla data di inizio dell’ammortamento e sino alla scadenza

della prima rata;

e. deve essere indicata la natura della spesa da finanziare con il mutuo, e

ove necessario, avuto riguardo alla tipologia dell’investimento, dato atto

dell’intervenuta approvazione del progetto definitivo esecutivo, secondo

le norme vigenti;

f. deve essere rispettata la misura massima del tasso di interesse

applicabile ai mutui, determinato periodicamente dal Ministero del

Tesoro con proprio decreto.


B) L’assunzione di mutui con la Cassa Depositi e Prestiti

I mutui appartengono alla categoria dei prestiti definibili di medio-lungo


termine.

Gli enti locali (nonché i loro Consorzi e Aziende) possono assumere mutui con i
seguenti enti:

la Cassa Depositi e Prestiti;

l’Istituto per il Credito Sportivo (che concede mutui per la costruzione di


impianti sportivi e che opera in stretto collegamento con il CONI);

istituti assicurativi e previdenziali (quali l’INPDAP);


le imprese bancarie;

istituzioni comunitarie (la Banca Europea per gli Investimenti).

Già dal 1990 (D.L. 310/1990 convertito in L. 403/1990) non sussiste più
l’obbligo per gli enti locali di rivolgersi in via preventiva alla Cassa
DD.PP. per la concessione di mutui: è sufficiente che l’ente locale indica una
gara ad evidenza pubblica e che, al termine di essa, confronti i risultati della
gara con le condizioni (durata e tasso d’interesse) praticate dalla Cassa.

A seguito dell’art. 5 D.L. 269/2003 (convertito in L. 326/2003) la Cassa è stata


trasformata in società per azioni. Più precisamente l’istituto:

riceve depositi, con garanzia dello Stato, da amministrazioni statali,


Regioni, enti locali e pubblici, e infine da privati solo nei casi previsti dalla
legge;

concede finanziamenti allo Stato, Regioni, agli enti locali e pubblici, ai


gestori di pubblici servizi ecc.;
gestisce fondi e svolge attività per conto delle amministrazioni pubbliche
o di altri soggetti.

L’articolo 5, comma 8, del citato decreto di trasformazione ha disposto, a tutela


della trasparenza e della parità concorrenziale, la separazione organizzativa e
contabile dell’attività della CDP, che si articola oggi in:

una gestione separata, che beneficia della garanzia dello Stato sulla

raccolta; tale gestione separata costituisce la continuità con la


tradizionale attività di finanziamento delle pubbliche amministrazioni

tramite la raccolta del risparmio postale e di altri strumenti di

finanziamento eventualmente assistiti dalla garanzia dello Stato, nel


rispetto dei principi di accessibilità, uniformità di trattamento,

predeterminazione delle condizioni e non discriminazione;


una gestione ordinaria, che ha il compito di finanziare la realizzazione
delle opere destinate alla fornitura di servizi pubblici.

Nell’ambito della propria gestione separata, la Cassa può finanziare mediante


prestiti con specifica destinazione i seguenti soggetti (art. 5, comma 7, lett. a),
D.L. 269/2003):

lo Stato;
le Regioni;
gli enti locali;

gli enti pubblici;


gli organismi di diritto pubblico.

Per i suddetti soggetti la Cassa può finanziare la realizzazione di qualsiasi


investimento, quali ad esempio opere pubbliche, conferimenti o partecipazioni
di capitale a S.p.A. o S.r.l. costituite in base alle facoltà concesse ai medesimi
enti mutuatari dalla legislazione vigente, interventi consentiti da norme
comunitarie, statali e regionali e ogni altra operazione di interesse pubblico,
realizzata da tali soggetti o dagli stessi promossa, prevista dallo statuto della
Cassa e sostenibile dal punto di vista economico-finanziario.
La CDP finanzia gli enti locali utilizzando fondi rimborsabili sotto forma di
libretti di risparmio postale e di buoni fruttiferi postali, assistiti dalla garanzia
dello Stato e distribuiti attraverso Poste italiane S.p.A. o società da essa
controllate, e fondi provenienti dall’emissione di titoli, dall’assunzione di
finanziamenti e da altre operazioni finanziarie, assistiti dalla garanzia dello
Stato (art. 5, comma 7, lett. a), D.L. 269/2003).
Ai sensi del D.M. 6-10-2004, tali finanziamenti costituiscono servizio di
interesse economico generale ed assumono la forma dei prestiti di scopo,
nel senso che sono destinati a specifici investimenti di interesse pubblico
effettuati dagli enti locali. I prestiti di scopo concessi dalla CDP possono essere
ordinari o flessibili.
Nel caso dei prestiti ordinari, l’importo minimo concedibile è pari a 5.000 euro
per ciascun prestito e il tasso può essere fisso o variabile (indicizzato al tasso
Euribor), con rimborso del credito, rispettivamente, a rate costanti o a quote
capitale costanti e durata compresa tra 5 e 30 anni.
Il prestito flessibile, introdotto dal 2005, consente agli enti locali di iscrivere in
bilancio solo le somme effettivamente erogate e non l’intero ammontare
concesso ed è generalmente preferibile in caso di progetti molto complessi che
richiedono tempi di realizzazione medio-lunghi; in questo caso, l’importo
complessivo minimo è pari a 100.000 euro, la durata complessiva del contratto
può arrivare a 30 anni e si può passare da un regime di interessi a tasso
variabile ad uno a tasso fisso. È concessa, inoltre, la facoltà di estinzione
anticipata, totale o parziale, e di riduzione, anche senza indennizzo.

Che cosa sono le delegazioni di pagamento?


Ai sensi dell’art. 206 del T.U.E.L., gli enti locali possono rilasciare, a garanzia del
pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti, una
delegazione di pagamento a valere sulle entrate relative ai primi tre titoli del
bilancio; si tratta di un atto mediante il quale, in sostanza, l’ente stabilisce un
vincolo di destinazione nei confronti di una determinata entrata, che va a
costituire garanzia per il prestito concesso dalla CDP.

La procedura di finanziamento da parte della CDP si articola in due fasi:

una fase istruttoria, funzionale all’accertamento della sussistenza dei

requisiti imposti dalla legge per le operazioni di indebitamento dei soggetti


richiedenti, che ha inizio con la presentazione da parte dell’ente della

domanda di prestito, contenente la quantificazione del fabbisogno


finanziario, nonché l’indicazione dell’investimento da finanziare e delle
caratteristiche del prestito richiesto (tipologia e durata), e si conclude con

la deliberazione del prestito da parte della CDP (affidamento);


ottenuto l’affidamento, l’ente deve inviare alla CDP la documentazione

richiesta (proposta contrattuale e atto di garanzia). In seguito


all’accertamento della regolarità della documentazione contrattuale e di
garanzia, il funzionario incaricato dalla CDP, munito dei poteri di firma,

provvede a sottoscrivere il contratto (fase di perfezionamento del

contratto).

3 I PRESTITI OBBLIGAZIONARI

In sintonia con l’idea di rendere la gestione della pubblica amministrazione più


dinamica ed efficiente, il legislatore ha voluto dare impulso alla diffusione tra
gli enti locali di alcuni istituti propri del settore privato.
Particolare rilievo assume in tale contesto la disciplina dei prestiti
obbligazionari emessi dagli enti locali, la quale ha dato l’opportunità agli
amministratori di sperimentare una nuova forma, più diretta ed immediata, di
coinvolgimento dei cittadini nelle scelte collettive.
Le disposizioni che disciplinano la procedura di emissione dei prestiti
obbligazionari da parte degli enti locali sono contenute nell’art. 35, L. 724/1994,
e nel regolamento di esecuzione emanato con D.M. 420/1996.

Si noti che il D.L. 1/2012, convertito in L. 27/2012,


introducendo il comma 1bis dell’art. 35 della L. 724/1994, consente
agli enti locali di attivare prestiti obbligazionari di scopo per il
finanziamento di singole opere pubbliche, garantiti da un apposito
patrimonio all’uopo destinato e formato da immobili disponibili di
proprietà degli enti stessi aventi un valore almeno pari
all’emissione obbligazionaria.

Oltre alle limitazioni di carattere generale, valide per tutte le forme di


indebitamento (cfr. §1), la L. 724/1994 detta ulteriori condizioni per l’emissione
di questo tipo di prestiti, a garanzia del diritto dei sottoscrittori alla
restituzione del prestito e al godimento dei relativi frutti:

l’ente emittente non deve trovarsi in una situazione di dissesto o in

situazioni strutturalmente deficitarie;


il conto consuntivo del penultimo esercizio non deve presentare un

disavanzo di amministrazione;
l’ultimo rendiconto della gestione, corredato dalla relazione illustrativa
dell’esecutivo, deve essere certificato dall’organo di revisione economico-
finanziaria;

il bilancio di previsione dell’esercizio in cui è prevista l’emissione deve


essere già stato deliberato.

Gli enti dissestati possono procedere all’emissione di prestiti


obbligazionari?

L’art. 37 della L. 724/1994 ammette che anche gli enti dissestati procedano
all’emissione di prestiti obbligazionari, purché:

abbiano registrato un avanzo di amministrazione nei conti consuntivi

relativi all’ultimo e al penultimo esercizio;


abbiano interamente ripianato gli eventuali disavanzi di gestione dei servizi
pubblici gestiti a mezzo di aziende municipalizzata, provincializzate e

speciali, nonché gli eventuali disavanzi dei consorzi per la quota a carico
del singolo ente locale interessato.

La durata del prestito obbligazionario non può essere inferiore a cinque anni e
il rendimento effettivo lordo per i sottoscrittori non deve essere superiore, al
momento dell’emissione, al rendimento lordo dei titoli di Stato di pari durata
emessi nel mese precedente, maggiorato di un punto. Sugli interessi corrisposti
si applica una ritenuta del 12,5%.

Verificata l’esistenza delle predette condizioni, l’ente attiverà la procedura per


l’emissione del prestito:

acquisendo la preventiva autorizzazione degli enti che ricadono nella

circoscrizione territoriale, nel caso il prestito sia emesso da Unioni di


comuni, Comunità montane o consorzi tra enti locali. L’autorizzazione

comunque si intende negata qualora non sia espressamente concessa


entro 90 giorni dalla richiesta;

provvedendo all’approvazione del piano economico-finanziario, allorché il

prestito sia finalizzato alla realizzazione di opere pubbliche destinate


all’erogazione di servizi pubblici a rilevanza imprenditoriale;

adottando il progetto o il piano esecutivo dell’investimento;

predisponendo il piano di ammortamento finanziario del prestito.

Un ulteriore obbligo è previsto dall’art. 41 della L. 448/2001


(Finanziaria 2002) cui ha dato attuazione il D.M. 389/2003: gli enti
locali sono tenuti a comunicare, con cadenza periodica, al
Ministero dell’Economia e delle Finanze i dati relativi alla propria
situazione finanziaria. Tali dati permetteranno al Ministero
dell’Economia e delle Finanze di coordinare l’accesso al mercato
dei capitali da parte degli enti locali.

La seconda fase del procedimento per l’emissione del prestito obbligazionario


consiste nella predisposizione da parte del servizio finanziario dello schema di
deliberazione, il quale, oltre a contenere l’attestazione della sussistenza di
tutti i requisiti richiesti per l’emissione, dovrà obbligatoriamente indicare
l’investimento da realizzare, l’ammontare nominale del prestito, ed altri
elementi. Lo schema è quindi sottoposto all’approvazione del Consiglio
dell’ente.
La terza fase del procedimento di emissione concerne l’offerta al pubblico dei
valori mobiliari. Questa potrà essere attivata solo previa comunicazione alla
CONSOB ed in seguito alla pubblicazione di un prospetto informativo, il quale,
oltre a dare informazioni sull’organizzazione, sulla situazione economico-
finanziaria e sull’evoluzione dell’attività dell’ente proponente, dovrà contenere la
precisa indicazione che il prestito non è assistito da alcuna garanzia a carico
dello Stato. Il collocamento dei titoli presso il pubblico potrà avvenire
esclusivamente tramite intermediari finanziari (criterio del collocamento
indiretto), scelti con le modalità ammesse dalle disposizioni vigenti in materia
di contratti tra quelli che posseggono requisiti di provata affidabilità ed
esperienza nel settore. Detti intermediari potranno avere funzioni di mero
collocamento, di collocamento e garanzia e di sottoscrizione a fermo.
L’ultima fase è quella della restituzione del prestito, la quale è assicurata
attraverso il rilascio di delegazioni di pagamento, debitamente notificate al
tesoriere, a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli di entrata del
bilancio annuale dell’ente. Il tesoriere, ricevuti tali atti, dovrà provvedere al
periodico versamento dei fondi occorrenti per il pagamento delle cedole, al
netto delle ritenute fiscali, e per il rimborso del capitale presso l’istituto o gli
istituti creditizi incaricati del servizio di prestito secondo il previsto piano di
ammortamento.

4 I PRODOTTI DERIVATI

Fra gli strumenti utilizzati dagli enti locali per finanziare gli investimenti, un
ruolo particolare è stato rivestito, soprattutto negli ultimi anni, dai cosiddetti
prodotti derivati, cioè da strumenti finanziari il cui valore deriva dall’andamento
del valore di un’attività o dal verificarsi nel futuro di un evento osservabile
oggettivamente. In questa categoria rientrano, ad esempio, i contratti a termine
(forward, futures), i contratti swap e i contratti option.
Le crescenti preoccupazioni circa i rischi derivanti dalla stipulazione di tali
contratti e la conseguente necessità di una maggiore regolamentazione hanno
spinto il legislatore a vietare l’utilizzo di tali strumenti da parte degli enti locali
(art. 62, D.L. 112/2008, come modificato dalla L. 147/2013).
Il medesimo articolo prevede una serie di eccezioni a tale divieto (commi 3bis,
3ter e 3quater), disponendo tuttavia che in tali casi il soggetto competente per
l’ente alla sottoscrizione del contratto attesti per iscritto di aver preso
coscienza dei rischi e delle caratteristiche del contratto stesso (comma 4). Gli
enti locali sono, inoltre, tenuti ad allegare al bilancio di previsione e al bilancio
consuntivo una nota informativa in cui siano evidenziati gli impegni finanziari
derivanti da contratti relativi a strumenti derivati (comma 8).

5 LE APERTURE DI CREDITO

L’art. 205bis del T.U.E.L. (come modificato dal D.Lgs. 126/2014) autorizza gli
enti locali a contrarre aperture di credito: ai sensi dell’art. 1842 e ss. del codice
civile, con tale contratto una banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra
parte una somma di denaro per un certo periodo di tempo verso il corrispettivo
di una provvigione.
Per gli enti locali il ricorso alle aperture di credito è possibile solo se
sussistono le condizioni fissate dal T.U.E.L. per l’indebitamento: approvazione
del conto consuntivo del penultimo esercizio, approvazione del preventivo
dell’esercizio in corso e le altre previste dall’art. 203, comma 1, e nel rispetto
dei limiti di cui all’art. 204, comma 1, dello stesso T.U.E.L. calcolati con
riferimento all’importo complessivo dell’apertura di credito stipulata.

Quali sono le altre condizioni per il ricorso all’apertura di credito


previste dall’art. 205bis del T.U.E.L.?

Oltre a queste, l’art. 205 bis individua ulteriori condizioni. In particolare, i


contratti di apertura di credito devono, a pena di nullità, essere stipulati in
forma pubblica e contenere le seguenti clausole e condizioni:

a. la banca è tenuta ad effettuare erogazioni, totali o parziali, dell’importo

del contratto in base alle richieste di volta in volta inoltrate dall’ente e

previo rilascio da parte di quest’ultimo delle relative delegazioni di

pagamento ai sensi dell’articolo 206. L’erogazione dell’intero importo


messo a disposizione al momento della contrazione dell’apertura di

credito ha luogo nel termine massimo di tre anni ferma restando la

possibilità per l’ente locale di disciplinare contrattualmente le condizioni

economiche di un eventuale utilizzo parziale;

b. gli interessi sulle aperture di credito devono riferirsi ai soli importi

erogati. L’ammortamento di tali importi deve avere una durata non

inferiore a cinque anni con decorrenza dal 1º gennaio o dal 1º luglio

successivi alla data dell’erogazione;

c. le rate di ammortamento devono essere comprensive, sin dal primo

anno, della quota capitale e della quota interessi;

d. unitamente alla prima rata di ammortamento delle somme erogate

devono essere corrisposti gli eventuali interessi di preammortamento,

gravati degli ulteriori interessi decorrenti dalla data di inizio

dell’ammortamento e sino alla scadenza della prima rata;

e. deve essere indicata la natura delle spese da finanziare e, ove

necessario, avuto riguardo alla tipologia dell’investimento, dato atto

dell’intervenuta approvazione del progetto o dei progetti definitivi o

esecutivi, secondo le norme vigenti;

f. deve essere rispettata la misura massima di tasso applicabile alle


aperture di credito i cui criteri di determinazione sono demandati ad

apposito decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto

con il Ministro dell’Interno.

Inoltre, le aperture di credito sono soggette, al pari delle altre forme di


indebitamento, al monitoraggio da parte del Ministero dell’Economia e delle
Finanze di cui all’art. 41 della L. 448/2001, nei termini e nelle modalità previsti
dal D.M. 389/2003.

6 LA LOCAZIONE FINANZIARIA

La locazione finanziaria, o leasing, è quel contratto mediante il quale un


soggetto, detto concedente, dà in godimento ad un altro soggetto, detto
utilizzatore, un bene mobile o immobile per un tempo determinato, contro
pagamento di un canone di locazione periodico, il cui ammontare tende,
rapportato alla durata del contratto, a uguagliare il valore capitale del bene, con
i relativi interessi, e le quote di profitto dell’impresa di leasing. Al termine del
contratto è di solito prevista la possibilità di riscattare il bene oggetto del
leasing ad un prezzo stabilito in precedenza. Il contratto ha essenzialmente una
funzione di finanziamento; infatti nella sostanza l’impresa di leasing anticipa in
contanti l’intero prezzo del bene richiesto dall’utilizzatore e, quindi, ottiene da
questo la restituzione a rate, garantita dal fatto che il concedente rimarrà
comunque proprietario del bene.

7 LE ANTICIPAZIONI DI TESORERIA

L’anticipazione di tesoreria è una forma di finanziamento a breve termine


con cui l’ente fronteggia momentanei problemi di liquidità e può essere ottenuta
previa richiesta dell’ente corredata da una deliberazione di Giunta. Il Tesoriere
dell’ente soggetto al sistema di tesoreria unica può concedere anticipazioni solo
dopo aver accertato il completo utilizzo delle disponibilità esistenti nelle
contabilità speciali di cui l’ente è eventualmente titolare presso la Tesoreria
Provinciale dello Stato. L’importo erogabile a questo titolo non può essere
superiore a tre dodicesimi delle entrate «accertate» nel penultimo anno
precedente, afferenti ai primi tre titoli del bilancio. Per gli enti in dissesto
finanziario che abbiano già provveduto a deliberare l’aumento delle aliquote nella
misura massima consentita e che si trovino ancora in condizione di grave
indisponibilità di cassa, certificata congiuntamente dal responsabile del servizio
finanziario e dall’organo di revisione, tale limite può essere elevato a cinque
dodicesimi per sei mesi a decorrere dalla data della suddetta certificazione
(art. 222 T.U.E.L., come modificato dal D.L. 174/2012, conv. in L.
213/2012).

Si ricorda che, ai sensi di quanto disposto dal già citato D.L.


35/2013, conv. in L. 64/2013, al fine di favorire il pagamento
dei debiti degli enti locali, limitatamente all’anno 2013 l’incremento
del limite minimo da tre a cinque dodicesimi ero stato esteso a
tutti gli enti locali, sino alla data del 30 settembre 2013. Tale
termine è stato più volte prorogato da successivi interventi
legislativi e, in ultimo, fissato al 31 dicembre 2015 dalla L.
190/2014.

8 IL PIANO ECONOMICO-FINANZIARIO

È obbligatoria la redazione del piano economico-finanziario (in seguito P.E.F.) al


fine di ottenere mutui o emettere prestiti obbligazionari per la realizzazione di
«nuove opere» destinate all’erogazione di servizi a carattere imprenditoriale,
i cui progetti generali esecutivi siano di importo superiore a 500.000 euro
(art. 201 T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014), anche se i relativi
lotti funzionali, finanziabili singolarmente, siano di valore inferiore. Il P.E.F. deve
essere elaborato prendendo a riferimento il progetto esecutivo (progetto
generale esecutivo o lotto funzionale) ed un periodo equivalente a quello di
ammortamento del prestito che lo finanzia. Esso ha lo scopo di determinare
una tariffa, quale corrispettivo del servizio offerto, ovvero un canone, da porre
a carico del gestore dell’impianto, che sia in grado di assicurare la copertura
economica e finanziaria degli oneri derivanti dall’investimento.
La prima fase dello studio sulla fattibilità del progetto consiste nello svolgere
un’analisi approfondita della domanda e dell’offerta del servizio da erogare nel
periodo di ammortamento del prestito. Questa indagine permetterà di
individuare l’anno a partire dal quale l’impianto può essere considerato in piena
attività (cd. anno a regime).

Glossario

Euribor: tasso di riferimento interbancario fissato sulla base dei tassi


praticati dalle principali banche attive nell’area dell’EURO. L’Euribor ha
sostituito i parametri domestici, in Italia il Ribor, e alla sua formazione
concorre un pool formato da banche primarie dei vari paesi aderenti
all’UEM.

Tesoreria provinciale dello Stato: una delle articolazioni della Tesoreria


dello Stato insieme alla Tesoreria centrale. Entrambe sono organi esecutivi
del Dipartimento del Tesoro. Sia i servizi di tesoreria centrale che
provinciale sono gestiti dalla Banca d’Italia con apposita convenzione.

Options: contratti derivati che attribuiscono al compratore il diritto (ma


non l’obbligo) di acquistare o vendere un’attività sottostante (titolo
azionario, valuta estera, merce ecc.) ad una certa data (oppure entro una
certa data) ad un prezzo prestabilito.

Swaps: contratti con i quali due parti si impegnano a scambiarsi futuri


pagamenti, definendo le date in cui verranno effettuati tali pagamenti e le
modalità secondo le quali dovranno essere calcolate le rispettive somme.
Futures: contratti a termine con i quali le parti si impegnano a scambiare
una certa attività (finanziaria o reale) a un prezzo prefissato e con
liquidazione differita a una data futura.
CAPITOLO 8
RISULTATI DI GESTIONE E RENDICONTI

SOMMARIO

Sezione Prima: L’ordinamento contabile previgente. 1 Il rendiconto della


gestione. 2 Il conto del bilancio. 3 Tabelle annesse al conto del bilancio. 4
Il conto economico. 5 Il prospetto di conciliazione 6 Il conto del
patrimonio. 7 Formazione e approvazione del rendiconto. - Sezione
Seconda: Il nuovo ordinamento contabile. 1 Il rendiconto della gestione. 2
Il conto del bilancio. 3 Il conto economico. 4 Lo stato patrimoniale. 5 Il
bilancio consolidato.

Sezione Prima
L’ordinamento contabile previgente

1 IL RENDICONTO DELLA GESTIONE

Qualsiasi gestione, implicando l’esercizio di un potere, deve culminare nella


resa del conto a chi tale potere ha conferito. Attraverso questo strumento è
infatti possibile dimostrare riassuntivamente il complesso delle operazioni della
gestione e i risultati che con esse si sono realizzati. L’organo politico in questo
modo è messo nelle condizioni di esercitare il controllo sull’operato dei
responsabili dei servizi e, contemporaneamente, il Comitato di controllo può
svolgere il controllo ispettivo sulla legittimità dei documenti contabili.
In quanto documento complesso, il rendiconto della gestione è composto dal
conto del bilancio, dal conto economico e dal conto del patrimonio e deve
essere deliberato dal Consiglio dell’ente entro il 30 aprile dell’anno successivo
a quello cui si riferisce (art. 227 T.U.E.L., come modificato dal D.L. 154/2008,
conv. in L. 189/2008).
Al rendiconto seguono una serie di allegati:

1. la relazione della Giunta al rendiconto stesso;

2. la relazione del Collegio dei revisori che, in conformità con lo Statuto ed il

regolamento dell’ente, attesta l’esistenza della regolarità contabile e la

corrispondenza, quindi, del rendiconto alle risultanze della gestione;

3. l’elenco dei residui attivi e passivi distinti per anno di provenienza;

4. i prospetti dei dati Siope (Sistema informativo delle operazioni degli enti

pubblici) e delle disponibilità liquide.

Ai sensi dell’art. 1, D.M. 24-6-2004, tutti gli enti locali inviano


telematicamente alla Sezione Autonomie della Corte dei conti il
rendiconto (completo di allegati), le informazioni relative al
rispetto del patto di stabilità interno, nonché i certificati del conto
preventivo e consuntivo, secondo principi di razionalizzazione e
concentrazione degli adempimenti, gradualità dell’attuazione del
sistema telematico, condivisione dei dati.

2 IL CONTO DEL BILANCIO

Viene redatto per dimostrare l’esito della gestione rispetto alle previsioni e si
conclude con la dimostrazione del risultato contabile di gestione e con quello
contabile di amministrazione, in termini di avanzo, disavanzo o pareggio.

Quale differenza intercorre tra risultato di gestione e risultato di


amministrazione?

Tra i due atti intercorre una fondamentale differenza:

il risultato di gestione è pari alla differenza fra entrate accertate e


spese impegnate nel corso dell’esercizio oggetto della rendicontazione;

il risultato di amministrazione è pari al fondo di cassa esistente alla

chiusura dell’esercizio aumentato dei residui attivi (entrate accertate e

non riscosse entro il termine dell’esercizio) e diminuito dei residui passivi


(spese impegnate e non pagate entro il termine dell’esercizio).

Entrambe queste grandezze sono rilevate al momento dell’approvazione del


rendiconto, ma la prima è rappresentativa della gestione autorizzatoria di sola
competenza, mentre la seconda deriva dalla gestione finanziaria in conto
competenza e in conto residui. In entrambi i casi, la somma algebrica dà luogo
ad un avanzo (se presenta un segno positivo), ad un disavanzo (se presenta
un segno negativo) o ad un pareggio (se il risultato è nullo).

In particolare, il conto del bilancio, per le entrate, distingue le somme


accertate e riscosse da quelle ancora da riscuotere, mentre per le spese
individua le somme impegnate e pagate da quelle impegnate ma ancora da
pagare: tale distinzione viene effettuata sia per le risorse in entrata, sia per gli
interventi di spesa, sia per i capitoli dei servizi per conto terzi.
I residui attivi e passivi, prima di essere inseriti nel bilancio, vengono
riaccertati, vale a dire sono riesaminate le ragioni che hanno determinato il loro
inserimento.
In sostanza, con il conto del bilancio si perviene alla determinazione dei
risultati finanziari della gestione. Questi vengono ricavati attraverso le seguenti
operazioni:
calcolo per ciascuna risorsa o capitolo di entrata:

delle somme accertate e riscosse nell’esercizio;

delle somme accertate da riscuotere (residui attivi generati nella

gestione di competenza). Questa ipotesi si verifica ogni qualvolta lo


sfasamento tra il momento dell’accertamento e quello della

riscossione supera l’esercizio finanziario e riguarda quelle somme

regolarmente accertate, cioè che poggiano su un preciso titolo

giuridico tale da costituire l’ente locale creditore dell’importo;


delle somme previste e non accertate entro l’esercizio, che

concorreranno negativamente a determinare i risultati finali di


gestione quali minori accertamenti;

calcolo per ciascun intervento o capitolo di spesa:

delle somme impegnate e pagate nell’esercizio;


delle somme impegnate e non pagate, le quali rappresentano i residui
passivi della gestione di competenza. Ad eccezione degli impegni

assunti «ope legis», tutte le somme non supportate da precisa


obbligazione giuridica non potranno essere portate a residui, quindi
deve considerarsi illecita la prassi, molto in uso in passato, secondo

cui a fine anno venivano assunte deliberazioni d’impegno finalizzate


alla creazione in qualunque modo dei residui passivi;
delle spese previste e non impegnate, che concorrono positivamente
a determinare i risultati finali di gestione;
riaccertamento dei residui attivi e passivi delle gestioni pregresse.

Una volta determinate tutte le predette grandezze, si è in grado di stabilire:

il risultato contabile della gestione, sottraendo al totale degli accertamenti


il totale degli impegni dell’esercizio;

il risultato contabile di amministrazione, sommando al fondo finale di

cassa (= fondo iniziale + riscossioni a competenza e a residui -

pagamenti a competenza e a residui) l’ammontare dei residui attivi

pregressi e di competenza (questi ultimi pari a: accertamenti - riscossioni


a competenza) e sottraendo l’ammontare dei residui passivi pregressi e di
competenza (questi ultimi pari a: impegni - pagamenti a competenza),

tutti debitamente riaccertati negli importi e nelle ragioni del


mantenimento.

A) La ripartizione dell’eventuale avanzo di amministrazione

Nel caso in cui dalle suesposte operazioni emerga un avanzo di


amministrazione, esso sarà ripartito secondo la competenza in quattro fondi
(art. 187 T.U.E.L.).

1. Fondi vincolati: sono quegli stanziamenti per spese correnti correlati ad

accertamenti di entrata, aventi destinazione vincolata per legge. Tra

questi inoltre vanno compresi anche gli accantonamenti per svalutazioni

crediti (F.do sval. crediti) e le somme «previste» per far fronte ad

eventuali debiti fuori bilancio e alle correlative spese per contenziosi civili.

2. Fondi per il finanziamento di spese in conto capitale, costituiti da


somme derivanti dall’assunzione di mutui a specifica destinazione o,

comunque, destinate all’investimento.

Confluiscono in questi primi due fondi in linea generale le risorse soggette

ad impegno automatico, per le quali si è verificata mancata esecuzione

della spesa vincolata nei termini prescritti, i valori contenuti nel fondo

rischi per la parte che non ha avuto manifestazione finanziaria e così via.

3. Fondi ammortamento, costituiti dalle risorse attribuite in sede di

previsione agli appositi interventi di ciascun servizio del titolo primo della

spesa. Imputare l’onere degli ammortamenti alle spese correnti, a

differenza del passato, permette di attivare il circuito della reintegrazione

dei beni usurati attraverso la trasformazione delle entrate correnti, che

sono l’equivalente dei ricavi delle aziende di produzione, in investimenti.

È inoltre utile, anche se non obbligatorio, poter disporre di appositi elenchi

concernenti i beni ammortizzabili, da compilare a fine esercizio

unitamente a quelli dei residui, nei quali dovranno essere indicati:

per riga le distinte categorie di beni ad uso pluriennale;


per colonna l’accantonamento pregresso, la quota maturata
nell’ultimo esercizio e l’importo residuo da accantonare.

4. Fondi non vincolati, che rappresentano la quota residuale dell’avanzo di


amministrazione, normalmente generata da un avanzo di parte corrente

(cd. avanzo economico).

L’avanzo di amministrazione, i cui valori presunti furono iscritti in sede di


previsione prima di tutte le entrate nel bilancio dell’esercizio precedente, una
volta accertato con il conto del bilancio, può essere utilizzato per i seguenti
scopi:

a. per il reinvestimento delle quote accantonate per ammortamento;

b. per la copertura dei debiti fuori bilancio riconoscibili a norma dell’art.

194 e per l’estinzione anticipata di prestiti;

c. per i provvedimenti necessari per la salvaguardia degli equilibri di

bilancio di cui all’art. 193 ove non possa provvedersi con i mezzi

ordinari, per il finanziamento delle spese di funzionamento non ripetitive

in qualsiasi periodo dell’esercizio e per le altre spese correnti solo in

sede di assestamento;

d. per il finanziamento di spese di investimento.

B Struttura del conto del bilancio

Per ogni risorsa o capitolo di entrata e per ogni intervento o capitolo di spesa
sono indicati:

i residui attivi e passivi derivanti dal rendiconto dell’anno precedente;


le previsioni definitive di competenza;
i residui attivi e passivi derivanti dal rendiconto dell’anno precedente

riaccertati alla fine dell’esercizio;


gli accertamenti e gli impegni di competenza;

i residui attivi e passivi riscossi;

gli accertamenti e gli impegni di competenza riscossi;


i residui da riportare al prossimo esercizio, ripartiti tra gestione di

competenza e residui pregressi;

le differenze tra residui attivi/passivi derivanti dal rendiconto dell’anno

precedente e residui attivi/passivi riaccertati alla fine dell’esercizio;

la differenza tra previsioni definitive e accertamenti/impegni di


competenza.

Il conto si conclude con i riepiloghi delle entrate e delle spese, con il quadro
generale riassuntivo dei risultati differenziali e con il quadro riassuntivo della
gestione finanziaria.

3 TABELLE ANNESSE AL CONTO DEL BILANCIO

Al conto del bilancio sono annesse:


1. la tabella indicante l’andamento triennale dei parametri concernenti

l’efficacia e l’efficienza della gestione dei servizi; a tal proposito il

Ministero dell’Interno pubblica nella Gazzetta Ufficiale un rapporto annuale

nel quale i predetti dati vengono aggregati a livello nazionale;

2. la tabella degli indicatori finanziari ed economici generali dell’entrata;

3. le tabelle individuate dal Regolamento di contabilità dell’ente contenenti


parametri aggiuntivi sull’efficacia e l’efficienza dei servizi;

4. la tabella dei parametri di riscontro della situazione di deficitarietà

strutturale. In particolare, sono da considerare in situazione

strutturalmente deficitaria gli enti locali che presentino gravi ed

incontrovertibili condizioni di squilibrio, rilevabili da un’apposita tabella

contenente parametri oggettivi, dei quali almeno la metà presentino valori

deficitari (art. 242 T.U.E.L., come modificato dal D.L. 174/2012, conv. in

L. 213/2012).

A) I parametri gestionali del triennio

Una prima tabella annessa al conto del bilancio e da allegare al certificato del
rendiconto riguarda i parametri che indicano, in modo sintetico, le diverse
componenti della gestione dell’ente nell’arco dell’ultimo triennio.

Si tratta di indicatori che forniscono informazioni:

generali (sulla pressione finanziaria, sull’autonomia finanziaria);


su specifiche componenti dell’entrata;

sull’efficienza e l’efficacia dell’azione dell’ente.

I dati così raccolti sono raggruppati a livello nazionale, rielaborati dal Ministero
dell’Interno e pubblicati in Gazzetta Ufficiale. Sarà così possibile, per il singolo
ente, ricavare informazioni sui costi sostenuti e sui ricavi conseguiti per
ciascun servizio e operare un confronto (benchmarking) con enti analoghi.

B) I parametri di riscontro del deficit strutturale


Una seconda tabella da allegare al conto del bilancio e al certificato del
rendiconto è quella relativa ai parametri di riscontro della situazione di deficit
strutturale. Per il triennio 2013-2015 tali parametri sono stati fissati dal D.M.
18-2-2013.
La tabella, sottoscritta dal responsabile del servizio finanziario, è annessa al
conto del bilancio e allegata al rendiconto della gestione; l’ente è dichiarato in
situazione di deficit strutturale quando almeno la metà dei parametri
presenta valori deficitari.

Tale dichiarazione, come vedremo meglio in seguito, comporta un controllo


statale nei seguenti ambiti (art. 243 T.U.E.L.):

organici del personale e assunzioni;


grado di copertura dei servizi a domanda individuale;
grado di copertura del servizio di acquedotto;

grado di copertura del servizio smaltimento rifiuti.

4 IL CONTO ECONOMICO

Con il conto economico si evidenziano «analiticamente» i costi ed i ricavi della


gestione e dalla loro differenza emerge il risultato economico. Quest’ultimo,
se positivo, sarà detto reddito, altrimenti perdita di esercizio.
La disciplina del conto economico è contenuta nell’art. 229 del T.U.E.L. Tale
disciplina, però, non si applica ai Comuni con popolazione inferiore a 3.000
abitanti, come stabilito dall’art. 1, comma 164, L. 266/2005 (Finanziaria 2006).

A) Componenti positivi e negativi

Tra i componenti positivi (ricavi) l’art. 229 del T.U.E.L. comprende:

a. i proventi della gestione, costituiti da:

1. i tributi, i quali sono ricavi da classificare tra le entrate proprie


dell’ente (IMU, TOSAP ecc.);

2. i proventi da trasferimenti, tra i quali vengono compresi:

i trasferimenti correnti, da classificare tra le entrate

«derivate» in quanto rappresentano un concorso dello Stato,

della Regione o di altri enti al finanziamento dei bilanci


comunali. In particolare i contributi statali sono il fondo

ordinario, il fondo consolidato, il fondo perequativo degli

squilibri di fiscalità locale e il fondo nazionale speciale e

quello ordinario per gli investimenti. I trasferimenti regionali


invece sono attivati per la realizzazione dei piani regionali di

sviluppo, dei programmi di investimento e per la copertura


finanziaria «integrale» delle funzioni trasferite o delegate
(art. 149 T.U.E.L.). Altresì sono previsti trasferimenti

compensativi nel caso in cui la Legge statale o regionale


preveda la gratuità dei servizi comunali o provinciali, ovvero
fissi prezzi e tariffe inferiori al costo effettivo;

la quota dei trasferimenti di capitale accertati per


concessioni ad edificare finalizzata alle spese correnti;

3. i proventi da servizi pubblici, i quali sono compresi tra le entrate

extratributarie (titolo III) e rappresentano le entrate «originarie

ordinarie» dell’ente. Tali introiti provengono dalla gestione dei


seguenti servizi:

i servizi pubblici a carattere produttivo, quali il servizio

idrico integrato, il servizio del gas metano, il servizio di

distribuzione dell’energia elettrica, le farmacie comunali, le


centrali del latte ecc.;

i servizi pubblici a domanda individuale, i quali hanno la

peculiarità di essere gestiti direttamente dall’ente e di

essere erogati non per dovere istituzionale, ma a richiesta

dell’utente;
i servizi amministrativi, i cui proventi sono rappresentati dai
diritti di segreteria, di stato civile e per il rilascio delle carte

di identità;
i servizi di vigilanza, le cui entrate sono costituite dalle

sanzioni amministrative irrogate per violazione ai


regolamenti comunali, ordinanze e norme di legge;

4. i proventi della gestione del patrimonio, i quali sono da

classificare, come i proventi dei servizi pubblici, tra le entrate

«originarie ordinarie» (titolo III) dell’ente locale;

5. gli incrementi di immobilizzazioni per lavori interni. Si tratta di

quei costi sostenuti tra le spese correnti per la produzione in

economia di valori che produrranno utilità in più esercizi finanziari.


Dal punto di vista patrimoniale essi rappresentano un aumento del

valore delle immobilizzazioni a cui sono applicati.

Esempi di costi capitalizzati potrebbero essere le manutenzioni

straordinarie effettuate da squadre alle dipendenze dell’ente, la

produzione di softwares da ammortizzare in più esercizi ecc;

6. variazioni nelle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione,

semilavorati e prodotti finiti;

7. i proventi diversi (categoria residuale).

b. i proventi da aziende speciali partecipate. In questa categoria

rientrano:

gli utili delle aziende speciali o società partecipate al netto dei


trasferimenti che il Comune deve effettuare in loro favore;
gli interessi sul capitale di dotazione, che sono pari all’importo

pagato per lo stesso titolo dal Comune per l’estinzione dei mutui
assunti per il conferimento del capitale di dotazione;

c. i proventi finanziari, i quali sono rappresentati ad esempio:

dagli interessi su anticipazioni e crediti concessi ad imprese

controllate, collegate o ad aziende speciali;


dagli interessi attivi sui depositi bancari.
d. i proventi straordinari. Sono componenti di reddito a manifestazione

occasionale e sono rappresentati dalle insussistenze del passivo, dalle

sopravvenienze attive e dalle plusvalenze patrimoniali. Le prime si

verificano ogni qualvolta si constata l’inesistenza o la riduzione di una

passività o di un debito (residui passivi) iscritti nello stato patrimoniale

(ad esempio debiti in tutto o in parte insussistenti per avvenuta

prescrizione legale o per insussistenza dell’obbligazione).

Anche le sopravvenienze attive misurano valori economici positivi

generati da eventi fortuiti e straordinari estranei alla gestione dell’ente,

quali donazioni, eredità, trasferimenti a titolo gratuito dei beni dello

Stato, della Regione ecc., maggiori residui attivi rilevati a seguito di

riaccertamento (maggiori crediti) ecc.

Cosa sono le plusvalenze?


Le plusvalenze sono generate dalla vendita dei beni patrimoniali. Questi ultimi,
infatti, possono concorrere straordinariamente alla formazione del risultato
economico attraverso la loro alienazione, allorché il loro valore contabile (valore
iniziale – fondo ammortamento + rivalutazioni – svalutazioni), risultante dal
conto del patrimonio, sia minore del provento da alienazione.
Tra i componenti negativi (costi) l’art. 229 T.U.E.L. comprende:

a. i costi della gestione, i quali sono sostenuti nell’esercizio per:

1. personale;

2. acquisto di materie prime e/o beni di consumo;

3. variazioni nelle rimanenze di materie prime e/o beni di consumo;

4. prestazioni di servizi;

5. godimento di beni di terzi;

6. trasferimenti a terzi;

7. imposte e tasse a carico dell’ente locale;

8. quote di ammortamento di esercizio, calcolate sul valore del bene

pluriennale;

b. gli oneri per trasferimenti diretti ad aziende speciali e

partecipate. In questa categoria come si vede non sono citate le

perdite subite dalle predette aziende, in quanto queste passività, per il

disposto dell’art. 114, comma 4 T.U.E.L., non possono essere in via

ordinaria ripianate dagli enti partecipanti. Infatti la norma in argomento,

impone alle aziende speciali e ai consorzi l’obbligo del pareggio di

bilancio da perseguire attraverso l’equilibrio dei costi e dei ricavi,

comprendendo tra questi anche i trasferimenti. La loro attività, quindi,


deve essere improntata a criteri di efficacia, efficienza ed economicità.

Un eventuale intervento dell’ente partecipante per la ricapitalizzazione

di dette aziende potrà invece avvenire solo in via straordinaria e, in

questa sede, sarà rilevato contabilmente un debito fuori bilancio ai

sensi dell’art. 194 T.U.E.L.;

c. gli oneri finanziari, rappresentati da interessi passivi su mutui assunti,

obbligazioni, anticipazioni o dovuti per altre cause (categoria residuale).

Anche per queste somme, in analogia a quanto visto per i proventi

finanziari, dovranno essere effettuate le opportune integrazioni

(scritture di assestamento) per gli importi maturati al 31 dicembre;

d. gli oneri straordinari, costituiti dai seguenti elementi:

accantonamento per svalutazioni crediti, il quale confluisce


nell’omonimo fondo (conto del passivo patrimoniale) e accoglie

valori finanziari che rappresentano debiti presunti, quindi incerti


sia nel quantum che nel momento della manifestazione. Tale fondo
è costituito per fronteggiare il rischio dell’insolvenza dei debitori

(cd. perdite su crediti);


insussistenze dell’attivo; sono componenti straordinarie negative
di reddito che si generano, ad esempio, quando si passa dalla
mera previsione di subire una perdita su crediti all’effettivo

verificarsi della stessa;


sopravvenienze passive; come le precedenti voci rappresentano

valori economici negativi generati da eventi straordinari e


causalmente svincolati dalla gestione dell’ente;

minusvalenze patrimoniali.

B) Le scritture di assestamento

I predetti costi e ricavi, affinché siano il frutto della gestione relativa, devono
essere opportunamente rettificati ed integrati (cd. scritture di assestamento).
In questo modo detti valori saranno attinenti allo stesso periodo produttivo, in
quanto rappresentativi delle risorse effettivamente consumate e delle utilità
generate nel corso della gestione.

Le operazioni di assestamento sono costituite dalle scritture di integrazione


e da quelle di rettifica o storno. Le prime hanno la finalità di far gravare sul
risultato di esercizio i costi e/o ricavi che, pur avendo manifestazione
finanziaria posticipata, per l’intero valore o pro quota sono di competenza
dell’esercizio in chiusura. Tra le più importanti scritture di integrazione vi
sono:

1. gli interessi maturati al 31 dicembre, di cui abbiamo già parlato nei

rispettivi punti C) dei componenti positivi e negativi del conto economico;

2. le fatture da ricevere e da emettere, i cui conti andranno in prevalenza ad

integrare, rispettivamente, il primo la voce del conto economico

«Acquisto di materie prime o beni di consumo» e il secondo la voce

«Proventi da servizi pubblici». Si hanno fatture da ricevere allorché l’ente

locale effettui operazioni di acquisto in prossimità della chiusura


dell’esercizio, abbia ricevuto le merci relative, ma non ancora le fatture

corrispondenti;

3. i ratei attivi/passivi, che sono valori finanziari positivi/negativi i quali

hanno origine da operazioni a cavallo tra due esercizi, i cui valori

maturano in ragione del tempo. Essi misurano la quota di ricavo/costo di

competenza dell’esercizio in chiusura, che avrà manifestazione finanziaria

in quello successivo (accertamenti/impegni che verranno assunti

nell’esercizio successivo);

4. il fondo svalutazione crediti, di cui abbiamo già discusso nel punto D) dei

componenti negativi del conto economico.

Le scritture di rettifica (o storno) invece hanno lo scopo di rinviare


all’esercizio successivo costi o ricavi già rilevati contabilmente ed
oggettivamente misurati dalla contrapposta variazione finanziaria, che per il
loro intero valore o solo per una quota non sono di competenza dell’esercizio in
chiusura. Le più importanti scritture di rettifica sono:

1. i risconti attivi e passivi, i quali sono valori economici (costi o ricavi

sospesi) di competenza dell’esercizio successivo, che però hanno avuto

manifestazione finanziaria nell’esercizio in chiusura. Per il principio della

competenza economica, detti valori devono essere sospesi e rinviati alla

gestione successiva;

2. l’ammortamento dei fattori pluriennali di cui abbiamo già discusso nel


punto 8) lett. A) dei componenti negativi di reddito. In questa categoria

rientrano altresì gli incrementi degli immobili per l’applicazione agli stessi

dei costi capitalizzati. Questi ultimi, infatti, sono soggetti indirettamente

all’ammortamento insieme al cespite cui si riferiscono per il periodo

corrispondente alla vita utile dello stesso;

3. le rimanenze. I Comuni che gestiscono direttamente attività produttive o

commerciali (come ad esempio le farmacie), il cui valore delle giacenze è

spesso rilevante o che, per le grandi dimensioni, acquistano ingenti

quantità di beni di consumo (es. spese economali), alla fine dell’esercizio

devono rilevare con inventari le quantità e i valori attribuiti alle diverse

categorie di beni in rimanenza (materie prime, beni di consumo,

semilavorati e prodotti finiti). Per questi beni, infatti, l’ente locale ha

sostenuto dei costi (di acquisizione e di produzione) ai quali solo nel

prossimo esercizio corrisponderanno ricavi da vendita o utilità da

consumo. Al fine di correlare i predetti costi ai ricavi e alle utilità e quindi

al risultato economico dell’esercizio che concorrono a realizzare, occorre

stornare il valore delle rimanenze dal reddito dell’esercizio cui non

competono a quello successivo. Le rimanenze però sono soggette ad uno

storno indistinto di costi, ciò per evitare di ricorrere a congetture sulla


competenza degli specifici conti e a stime sul relativo valore da

rettificare, che inficerebbero il contesto di neutralità delle scritture

contabili, anche perchè il valore attribuito alle rimanenze può essere

diverso da quello di costo;

4. i costi capitalizzati, che vanno a rettificare le spese correnti sostenute

nell’esercizio per la realizzazione in economia di valori che produrranno

utilità in più esercizi finanziari.

Il modo per stabilire l’esatto importo dei costi capitalizzati consiste

nell’adottare un regolare sistema di contabilità industriale.

C) Struttura del conto economico

Il secondo comma dell’art. 229 prescrive che il conto economico debba essere
redatto secondo uno schema a struttura scalare (quindi non a sezioni divise e
contrapposte, con costi da una parte e ricavi dall’altra), il quale ha il pregio di
raffrontare aggregazioni parziali e per differenza ogni volta esprimerne il
risultato.

In particolare le singole voci di costo e ricavo da contrapporre vengono


classificate secondo la loro natura economica, generando quindi dei saldi con
equivalente significato, quali:

il risultato della gestione, che rappresenta il reddito o la perdita di


esercizio derivante dall’attività caratteristica dell’ente, costituita da quella
istituzionale e da quella riconducibile alla erogazione di servizi a domanda
individuale;
il risultato della gestione operativa, che è ottenuto sommando

algebricamente al saldo precedente i costi e i ricavi sostenuti dall’ente per


l’esercizio di attività esterne (gestione patrimoniale). Quest’ultima

gestione mira ad ottenere redditi addizionali rispetto a quelli conseguiti

con l’attività tipica dell’ente;


il risultato economico finale, al quale si perviene sommando al risultato

operativo quello della gestione finanziaria e quello della gestione

straordinaria. Con la contabilizzazione della gestione finanziaria ci si

preoccupa di valorizzare il costo dei prestiti accesi (interessi pagati sui

mutui e sulle anticipazioni di cassa) a cui si contrappongono gli eventuali


interessi attivi. Invece la gestione straordinaria fa riferimento a quelle
componenti di reddito derivanti da eventi casuali, imprevedibili e

occasionali e, comunque, non correlate all’attività ordinaria dell’ente.

5 IL PROSPETTO DI CONCILIAZIONE

Abbiamo visto in precedenza (Cap. 4) che una delle novità introdotte dal D.
Lgs. 118/2011, coerentemente con quanto previsto dalla L. 42/2009,
riguarda l’adozione da parte degli enti territoriali di un sistema di contabilità
economico-patrimoniale da affiancare, sia pure a soli fini conoscitivi, al
tradizionale sistema di contabilità finanziaria.
Il suddetto decreto prevede, tuttavia, una fase di sperimentazione della durata
di tre anni che ha coinvolto un numero limitato di enti, per cui il nuovo regime
è entrato in vigore solo nel 2015; nel frattempo, la contabilità finanziaria ha
continuato ad essere la sola contabilità obbligatoria per le fasi della
programmazione (bilancio di previsione annuale e pluriennale) e della gestione.
Essa però andava già obbligatoriamente integrata dalla contabilità
economico-patrimoniale nella fase della rendicontazione; l’art. 227,
comma 1, T.U.E.L., infatti, dispone, come visto in precedenza, che il rendiconto
della gestione comprende il conto del bilancio (che dimostra i risultati finali
della gestione finanziaria), il conto economico (che evidenzia i componenti
positivi e negativi secondo criteri di competenza economica) e il conto
patrimoniale (che rileva i risultati della gestione patrimoniale).
Lo strumento contabile che permette questo «livello minimale» di
trasformazione delle rilevazioni finanziarie in rilevazioni economiche è costituito
dal prospetto di conciliazione previsto dall’art. 229 T.U.E.L.; si tratta di un
prospetto mediante il quale, partendo dai dati finanziari della «gestione
corrente» (accertamenti e impegni di competenza), si perviene al risultato
economico finale.
Questa complessa operazione è stata resa possibile grazie alla particolare
puntualità e precisione con cui è stato definito l’accertamento (art. 179
T.U.E.L.), il quale sussiste solo se a supporto vi sia un idoneo titolo giuridico e,
inoltre, sia individuato il debitore e quantificata la somma da incassare. Il
predetto rigore è ulteriormente rafforzato dall’art. 189, che vieta la
conservazione di somme tra i residui attivi, se non esiste «un titolo giuridico
che costituisca l’ente locale creditore della correlativa entrata …». Gli
accertamenti di parte corrente sono, pertanto, crediti effettivi, i quali,
debitamente rettificati ed integrati, rappresentano i ricavi di esercizio.
Stesso discorso vale per l’impegno, il quale è regolarmente assunto solo «a
seguito di obbligazione giuridicamente perfezionata…». Questa condizione così
forte non lascia spazio a dubbi o perplessità in ordine alla volontà del
legislatore di vietare qualsiasi atto di impegno dal quale non discenda un
«debito effettivo» nei confronti di terzi. Il rigore della norma è inoltre esteso
anche ai residui passivi, per i quali è prevista la conservazione in tale conto
solo allorché risultino impegnati secondo il predetto criterio, fatte salve
ovviamente le eccezioni previste dalla legge (art. 183, commi 2 e 5, T.U.E.L.). Di
conseguenza gli impegni di parte corrente sono debiti effettivi, i quali, una volta
rettificati ed integrati (operazioni di assestamento di fine periodo), sono
espressivi dei costi di esercizio.
6 IL CONTO DEL PATRIMONIO

Il conto del patrimonio riporta i risultati della gestione patrimoniale ed


evidenzia la consistenza del patrimonio a chiusura dell’esercizio, dando conto
delle variazioni che, nel corso dell’anno, ne hanno mutato la consistenza iniziale.
Fa parte del patrimonio degli enti locali il complesso dei beni e dei rapporti
giuridici, attivi e passivi, di pertinenza di ciascun ente (purché siano suscettibili
di valutazione).
Di tali beni viene fornita nel conto del patrimonio la rappresentazione contabile
e si determina il risultato finale differenziale che indica la consistenza netta del
patrimonio. Anche i beni del demanio vanno inclusi nel conto, ovviamente nel
rispetto delle distinzioni operate dal Codice Civile.

Come è strutturato lo schema di stato patrimoniale degli enti locali?

Lo schema di stato patrimoniale degli enti locali (D.P.R. 194/1996) è strutturato


in due sezioni in cui, rispettivamente, sono accolte le attività e le passività. Le
prime sono classificate secondo il criterio della destinazione rispetto alle
attività esercitate dagli enti locali (immobilizzazioni, attivo circolante, ratei e
risconti — più i conti d’ordine); le seconde, invece, sono ripartite in quattro
classi (Patrimonio netto, conferimenti, debiti, ratei e risconti — più i conti
d’ordine) seguendo il criterio della natura delle fonti di finanziamento. In
corrispondenza di ogni conto (riga) si evidenziano le variazioni intervenute nel
corso dell’esercizio rispetto alla consistenza iniziale (colonne), distinguendo tra
variazioni da conto finanziario e variazioni dovute ad altre cause. Dalla
differenza tra l’attivo e il passivo si determina, quindi, il patrimonio netto finale
che, confrontato con quello iniziale, fornisce in via sintetica il risultato di
esercizio.

A Le attività
Tra le attività sono incluse le immobilizzazioni, l’attivo circolante e i ratei e i
risconti attivi.

a. Le immobilizzazioni.

I. Le immobilizzazioni immateriali sono costituite dai costi

pluriennali capitalizzati sostenuti per realizzare l’ampliamento o il

potenziamento di cespiti già completamente ammortizzati, ovvero

per realizzare manutenzioni straordinarie effettuate dal personale

interno difficilmente imputabili alle singole immobilizzazioni ecc.

II. Le immobilizzazioni materiali, costituite da beni demaniali, beni

patrimoniali, beni mobili, diritti reali su beni di terzi e

immobilizzazioni in corso.

1. I beni demaniali (beni immobili di uso pubblico per natura) in

passato erano esclusi dal computo del patrimonio (art. 289

R.D. 383/1934). Attualmente l’art. 230, comma 3, T.U.E.L.

include espressamente nel calcolo del patrimonio anche

questa categoria dei beni: ciò in considerazione del fatto che

il demanio, essendo costituito in massima parte da beni

strumentali o artificiali, ha richiesto l’immobilizzazione di

una notevole quantità di risorse e deve partecipare al

normale processo di ammortamento.


I beni compresi in questa categoria sono le strade, le

piazze, i giardini pubblici, gli edifici monumentali, le chiese, i

cimiteri, i laghi artificiali, gli acquedotti, le fontane e, in

generale, tutti quei beni destinati direttamente all’uso

pubblico della generalità. Per tali beni l’art. 230, comma 4,

lett. a) T.U.E.L. prevede due criteri di valutazione a seconda

che siano stati acquisiti all’ente prima o dopo l’entrata in

vigore del D.Lgs. 77/1995; nel primo caso sono valutati in

misura pari all’ammontare del debito residuo dei mutui

ancora in estinzione dello stesso titolo, nel secondo caso

sono valutati al costo.

2. I beni patrimoniali sono distinti in beni immobili di uso

pubblico per destinazione (patrimonio indisponibile) e in beni

immobili del patrimonio disponibile. Nella prima categoria

rientrano terreni e fabbricati (es. edifici destinati a sede di

uffici, edifici scolastici, teatri, musei), in genere utilizzati

con vincolo di destinazione per servizi di pubblica utilità in

modo diretto; mentre nel secondo gruppo rientrano gli stessi

beni però non destinati direttamente al predetto uso. Per tali


beni le lettere b) e c), comma 4, dell’art. 230 T.U.E.L.

stabiliscono due criteri di valutazione a seconda che siano

stati acquisiti al patrimonio prima o dopo la data di entrata

in vigore del D.Lgs. 77/1995: nel primo caso essi sono

valutati al valore catastale mediante attribuzione della

relativa rendita, nel secondo caso al costo. Tuttavia per i

terreni, acquisiti al patrimonio in data anteriore, è previsto

un criterio sussidiario, allorché a questi non possa essere

attribuita la rendita catastale, il quale consiste nell’attribuire

un valore pari all’ammontare del residuo debito dei mutui

ancora in estinzione per lo stesso titolo.

Oltre all’usura tecnico-fisica ed economica e all’incremento

delle immobilizzazioni per lavori di ristrutturazione o di

revisione, il valore e la composizione dei beni patrimoniali

può variare:

per effetto dell’acquisto;


dell’alienazione;
della dismissione.

3. I beni mobili sono distinti in beni di uso pubblico, cioè


direttamente destinati a servizi di pubblica utilità, e beni

disponibili. Nella categoria rientrano i macchinari, le

attrezzature e gli impianti, attrezzature e sistemi

informatici, automezzi e motomezzi, mobili e macchine

d’ufficio e le universalità di beni. La lettera d) dell’art. 230

T.U.E.L. dispone che tali beni siano valutati al costo. Inoltre

il comma 8, stesso articolo, prevede che il Regolamento di

contabilità di ciascun ente possa individuare quelle categorie

di beni mobili non inventariabili in ragione del loro facile

consumo o del loro modico valore.

4. Tra i diritti reali su beni di terzi, rientrano il diritto di

superficie, di usufrutto, di uso, di abitazione, di enfiteusi e di

servitù. A questi possono essere aggiunti anche le

prestazioni perpetue, previste da disposizioni civilistiche,

consistenti in prestazioni monetarie a carattere periodico

dovute dal soggetto che è nel godimento di un determinato

bene, quali i censi (o rendite semplici - art. 1863 C.C.) e i

livelli (o canoni), di cui gli enti locali possono essere titolari.

In particolare il livello consiste nella cessione in godimento


perpetuo di un terreno con obbligo di pagare un canone

annuo.

5. Nel conto transitorio immobilizzazioni in corso confluiscono

gli incrementi di valore degli immobili in costruzione; esso

infatti sarà chiuso non appena l’opera sarà ultimata e

collaudata. In corrispondenza il relativo valore sarà allora

accolto nell’apposito conto dell’attivo patrimoniale, intestato

alla categoria di beni a cui l’opera appartiene.

III. Le immobilizzazioni finanziarie sono costituite dall’ammontare

delle disponibilità vincolate a investimenti produttivi di medio-

lungo termine, le quali per questo motivo perdono la qualità di

valori a disposizione. Tra queste forme di impiego rientrano:

1. le partecipazioni azionarie in imprese controllate, collegate,

aziende speciali, consorzi, istituzioni. I valori impiegati in

dette attività potranno ritornare disponibili solo nel caso di

scioglimento ed estinzione della società, ovvero nel caso di

recesso dell’ente locale;

2. i crediti che l’ente locale vanta nei confronti delle suddette

imprese, tra i quali rientrano anche le anticipazioni a queste


accordate dall’ente locale;

3. i titoli con scadenza a medio-lungo termine;

4. i crediti di dubbia esigibilità, i quali vengono posti tra le

immobilizzazioni finanziarie in quanto il loro grado di

liquidità è legato ad eventi e fatti più o meno lontani nel

tempo, quali la prescrizione (art. 2946 C.C.), la conclusione

di procedure concorsuali di fallimento, di procedimenti

giudiziari ecc., tutti volti alla realizzazione anche parziale del

credito vantato. A questo conto va detratto il relativo fondo

svalutazioni crediti;

5. i crediti per depositi cauzionali.

b. L’attivo circolante è composto dalle rimanenze, dai crediti, dalle

attività finanziarie che non costituiscono immobilizzi e dalle

disponibilità liquide.

I. Le rimanenze. Il valore di tali beni è calcolato a fine esercizio con

inventari per categorie omogenee applicando i criteri di

valutazione stabiliti dal Codice Civile (art. 230, comma 4, lett. g)

T.U.E.L.). In particolare l’art. 2426 di detto codice fa una

preliminare distinzione tra beni infungibili e beni fungibili. Alla


prima classe appartengono quei beni che esistono in unico

esemplare (es. l’opera d’arte, il manufatto dell’artigiano ecc.) o,

se esistono più esemplari, ognuno di essi presenta propri caratteri

distintivi. Per questi beni le rimanenze sono valutate secondo il

criterio cd. di valutazione specifica, il quale consiste nell’attribuire

al bene in alternativa il valore corrispondente:

al costo d’acquisto (compresi quelli accessori);

al minore importo tra il costo di produzione (costituito da


tutti i costi «direttamente» imputabili al prodotto e dalla

quota di oneri promiscui di competenza) e il valore di


realizzo presunto desumibile dall’andamento del mercato.

Invece nella categoria dei beni fungibili rientrano tutte quelle cose

appartenenti ad un genere, all’interno del quale ogni bene è

indifferentemente sostituito con altri (es. denaro, le unità di peso

di uno stesso minerale, gli oggetti prodotti in serie come le copie

di un medesimo libro, le autovetture di una medesima marca e

tipo ecc.). Il valore delle rimanenze di tali beni può essere

indifferentemente calcolato o con il metodo del costo medio

ponderato, o con il criterio primo entrato-primo uscito (first in-


first out, cd. F.I.F.O.) o, infine, con il metodo ultimo entrato-primo

uscito (last in-first out, cd. L.I.F.O.).

Il costo medio ponderato è calcolato per ogni categoria omogenea

di beni (quest’ultima intesa come quel raggruppamento di beni con

caratteristiche merceologiche similari) rapportando il costo

complessivo dei beni prodotti o acquistati nell’esercizio e delle

rimanenze iniziali alle quantità corrispondenti.

Con il metodo del primo entrato-primo uscito si suppone che le

quantità acquistate o prodotte in epoca più remota sono le prime

ad essere vendute o utilizzate in produzione, quindi le rimanenze

di fine esercizio saranno costituite dagli acquisti o produzioni più

recenti e valutate ai costi corrispondenti.

Infine con il criterio ultimo entrato-primo uscito si suppone che le

quantità acquistate o prodotte in epoca più recente sono le prime

ad essere vendute o utilizzate in produzione, per cui rimangono in

magazzino gli acquisti o le produzioni più remote, che vengono

pertanto valutati ai costi più remoti. A tal fine le quantità in

rimanenza vengono ripartite in gruppi, il primo di dimensione

equivalente alla quantità in giacenza di inizio esercizio e i


successivi di grandezza corrispondente agli acquisti o produzioni

più remoti in ordine di tempo fino al completo collocamento

dell’intero ammontare.

II. I crediti. L’ente locale assume posizioni creditorie nei confronti di

quei soggetti che sono tenuti per legge (contribuenti, Stato,

Regioni ecc.) o per rapporti di tipo privatistico (utenti di servizi

pubblici o di beni patrimoniali, acquirenti di beni patrimoniali,

Cassa DD.PP. o istituti di credito per gli importi dei mutui

contratti o concessi non ancora incassati) al versamento di

somme regolarmente accertate. Nell’ambito di questa categoria,

particolare attenzione merita la voce «Crediti per IVA», la quale,

oltre a contenere l’eventuale saldo dell’IVA a credito, accoglie

anche l’IVA dovuta sulle fatture da ricevere (o registrate con

imposta ad esigibilità differita) che per il principio dell’integrità

delle scritture finanziarie è inclusa nei relativi impegni.

Secondo quanto stabilisce l’art. 230, comma 4, lett. e) T.U.E.L., i

crediti devono essere valutati al valore nominale.

III. Le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzi sono

rappresentate dai titoli.


IV. Tra le disponibilità liquide invece sono compresi:

1. il fondo cassa;

2. i depositi bancari.

c. Infine abbiamo i ratei e i risconti attivi, la cui valutazione deve essere

effettuata secondo le norme del Codice Civile (art. 230, comma 4, lett.

g) T.U.E.L.), delle quali però nessuna dispone in tal senso, mentre solo

una ne fornisce la definizione (art. 2424bis C.C.). I primi indicano la

quota di provento di competenza dell’esercizio in chiusura che verrà

accertata nell’esercizio successivo, mentre i secondi rappresentano la

quota di costo di competenza dell’esercizio successivo già impegnata

nel corso dell’esercizio in chiusura.

B) Le passività

Tra le passività sono incluse le seguenti voci:

a. il patrimonio netto, il cui valore finale confrontato con quello iniziale

fornisce per via sintetica il risultato di esercizio.

Il patrimonio netto è suddiviso in: netto da beni demaniali e netto

patrimoniale;
b. i conferimenti da trasferimenti in conto capitale e da concessioni

ad edificare. Variazioni nel valore di questa voce possono essere

determinate dalla quota di esercizio di detti trasferimenti non destinata

alla gestione corrente (titolo IV delle entrate, categorie 2 - 3 - 4 - 5);

c. i debiti (impegni meno pagamenti), i quali vengono classificati in:

I. debiti di finanziamento contratti:

1. per finanziamenti a breve termine;

2. per mutui e prestiti;

3. per prestiti obbligazionari;

4. per debiti pluriennali;

II. debiti di funzionamento, i quali vengono assunti per acquisire le

utilità necessarie al funzionamento dei vari servizi, uffici e, in

generale, per alimentare la struttura ente locale, affinché possa

espletare i propri compiti e funzioni;

III. debiti per IVA ove, oltre ad essere contenuto l’eventuale saldo

dell’IVA a debito, è accolta l’IVA dovuta sulle fatture da emettere,

che per il principio dell’integrità delle scritture finanziarie è

inclusa nei relativi accertamenti, anche se al 31 dicembre non è

stata contabilizzata nelle corrispondenti rilevazioni in partita


doppia. Infatti l’imposta relativa alle operazioni in parola

rappresenta pur sempre un debito verso l’Erario a fronte del

credito «accertato» al lordo d’IVA;

IV. debiti per anticipazioni di cassa;

V. debiti per somme anticipate da terzi. Variazioni nel valore di

questa voce sono determinate dagli importi rimasti da pagare a

terzi in conto competenze finanziarie risultanti dal Titolo IV della

spesa;

VI. debiti verso imprese controllate e collegate, aziende, consorzi e

istituzioni;

VII. altri debiti. È una categoria residuale nella quale, tra l’altro,

devono includersi i valori contenuti nel fondo rischi, costituito in

contabilità generale per far fronte alla improvvisa manifestazione

di debiti fuori bilancio, di spese per contenziosi civili ecc., le

somme dovute per imposte in relazione ad attività gestite

fiscalmente in contabilità separata ecc.

Secondo quanto disposto con l’art. 230 T.U.E.L., i debiti devono

essere valutati al valore residuo;

d. i ratei e i risconti passivi: i primi indicano la quota di costo, di


competenza dell’esercizio in chiusura, che sarà impegnata nell’esercizio

successivo; i secondi, invece, si riferiscono alla quota di provento, di

competenza dell’esercizio successivo, che è già stata accertata

nell’esercizio in chiusura.

C) I conti d’ordine

Infine, fuori dalle attività e passività patrimoniali vengono posti i «Conti


d’Ordine», i quali sono delle annotazioni di memoria che evidenziano elementi di
particolare rilevanza della gestione degli enti locali.

I conti d’ordine iscritti dopo le attività sono:

opere da realizzare: voce in cui confluiscono le somme rimaste da pagare


in conto competenze del titolo II «Spese in conto capitale» (residui
passivi), le quali, altresì, vanno ad incrementare nel passivo il correlativo

conto d’ordine «Impegni per opere da realizzare»;


beni conferiti in aziende speciali. Per questi la Giunta comunale stabilisce

criteri di valutazione e per il computo dell’interesse da riconoscere al


Comune, il quale deve essere, per tasso e durata, pari a quello praticato
dalla Cassa DD.PP. per erogazioni di importo equivalente;

beni di terzi.

I conti d’ordine iscritti dopo le passività sono:

impegni per opere da realizzare;


conferimenti in aziende speciali;
beni di terzi.

Il totale dei conti d’ordine iscritti dopo l’attivo deve sempre coincidere con il
totale dei corrispondenti conti posti dopo il passivo.

7 FORMAZIONE E APPROVAZIONE DEL RENDICONTO

A) Formazione

Il servizio finanziario, per procedere alla formazione del rendiconto, oltre ad


effettuare le operazioni di assestamento e chiusura di cui abbiamo detto, deve
acquisire preventivamente, per gli opportuni raffronti ed allineamenti contabili, i
conti del tesoriere e degli altri agenti contabili interni.

Sono agenti contabili tutti coloro che hanno maneggio o custodia di denaro o
di altri beni o valori pubblici (agenti contabili interni), nonché coloro che si
ingeriscono di fatto negli incarichi di detti agenti (agenti contabili di fatto), e in
pratica:

l’economo;

il consegnatario di beni;
l’agente contabile a denaro.

L’economo, la cui figura deve essere prevista per tutti gli enti
dal regolamento di contabilità, deve redigere il proprio conto
evidenziando le riscossioni per anticipazioni e rimborsi ed i
pagamenti per spese di non rilevante ammontare.
Il consegnatario di beni è, invece, responsabile dell’assegnazione
o consegna di beni alle varie strutture, ne vigila la conservazione e
ne dispone il trasferimento.
La consegna dei beni si realizza per mezzo di inventari per cui i
consegnatari sono personalmente responsabili della buona
conservazione dei beni fino a quando non ne ottengono il discarico.
Ogni consegnatario renderà conto della propria gestione
evidenziando la consistenza iniziale dei beni, quella finale e i
movimenti di carico e di scarico che hanno interessato i beni nel
periodo di riferimento.
Gli agenti a denaro, tra i quali rientrano i tesorieri, devono
compilare il proprio conto registrando tutte le somme riscosse, in
contanti o attraverso conto corrente postale, e i relativi
versamenti in tesoreria.

Attraverso la resa del conto, gli agenti contabili interni descrivono tutti i fatti
che hanno inciso sulla gestione dei beni e valori di cui sono stati consegnatari
nel corso dell’esercizio. Pertanto le operazioni che con detti conti vengono
rilevate sono fondamentalmente di due tipi:

operazioni di carico, che consistono nel rilevare la consistenza dei beni e

dei valori esistenti all’inizio della gestione e nell’annotare le successive


variazioni aumentative di dette grandezze;

operazioni di scarico (parte seconda del conto) con le quali vengono


annotate tutte le variazioni in diminuzione, incluse le perdite e i
deterioramenti, verificatesi durante il periodo considerato.

Il risultato delle predette operazioni è quindi iscritto nel carico del conto
dell’anno successivo per il principio della continuità della gestione.

Il conto così formato è sottoscritto dall’agente responsabile ed è consegnato


all’amministrazione entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio, con allegata la
seguente documentazione:

il provvedimento di legittimazione del contabile alla gestione;


la lista per tipologie di beni;
la documentazione giustificativa della gestione, come attestazioni, verbali,

atti ecc., che conferiscono attendibilità, trasparenza e giustificazione alle


operazioni rilevate;

i verbali di passaggio di gestione;

ogni altro documento eventualmente richiesto dalla Corte dei conti.

Il conto del tesoriere, redatto su modello ufficiale, deve essere reso entro 30
giorni dalla chiusura dell’esercizio finanziario (art. 226, comma 1, T.U.E.L.) e
deve essere inviato alla Corte dei conti entro 60 giorni dall’approvazione del
rendiconto; ad esso deve essere allegata la seguente documentazione:

i documenti concernenti la gestione di ogni singola risorsa, intervento o

capitolo;
gli ordinativi di riscossione e pagamento emessi nell’esercizio;
la parte delle quietanze originali emesse a fronte degli ordinativi suddetti

o, in alternativa, i documenti meccanografici sostitutivi;


ogni altro documento eventualmente richiesto dalla Corte dei conti.

B) Predisposizione

Il servizio finanziario, sulla base delle risultanze contabili in suo possesso e


di quelle rilevabili dai conti e dalla documentazione fornita dal tesoriere e dagli
agenti contabili interni, predispone:

la proposta di deliberazione consiliare di approvazione del conto del

tesoriere, dei conti degli agenti contabili e del rendiconto della gestione;
lo schema di rendiconto;
la proposta di relazione illustrativa con la quale l’esecutivo esprime la
valutazione sulla efficacia dell’azione condotta, comparando gli obiettivi

realizzati in rapporto a quelli programmati a fronte dei costi sostenuti


(art. 151, comma 6, T.U.E.L.);

l’elenco dei residui attivi e passivi, distinti per anno di provenienza;

la delibera consiliare di riequilibrio del bilancio adottata ex art. 193,


comma 2, T.U.E.L.

L’organo esecutivo, ricevuta la predetta documentazione, la integra e la


modifica in accordo alle decisioni adottate e la sottopone all’esame del
collegio dei revisori. Quest’ultimo, nel termine previsto dal Regolamento di
contabilità (non inferiore a venti giorni, art. 239, comma 1, lett. d), redige una
relazione contenente l’attestazione della corrispondenza del rendiconto alle
risultanze della gestione e, nel contempo, fa considerazioni e avanza proposte
finalizzate al conseguimento di più elevati livelli di efficacia, efficienza ed
economicità della gestione.

C) Decisione

Prima dell’inizio della sessione consiliare, in cui la proposta di rendiconto deve


essere esaminata entro un termine non inferiore a venti giorni, stabilito dal
Regolamento di contabilità, lo schema di rendiconto insieme a tutti gli allegati
viene «messo a disposizione» dei componenti dell’organo consiliare. Della data
del deposito degli atti e del luogo ove gli stessi possono essere consultati dovrà
di regola essere data preventiva comunicazione agli interessati.
Il rendiconto è deliberato dall’organo consiliare dell’ente entro il 30 aprile
dell’anno successivo (art. 227, comma 2, T.U.E.L.), tenuto motivatamente conto
della relazione dell’organo di revisione.
La mancata approvazione nel termine previsto comporta l’attivazione della
procedura prevista dall’art. 141, comma 2 (art. 227 T.U.E.L., come modificato
dal D.L. 174/2012, conv. in L. 213/2012).
Sezione Seconda
Il nuovo ordinamento contabile

1 IL RENDICONTO DELLA GESTIONE

La dimostrazione dei risultati conseguiti nel corso dell’esercizio finanziario


avviene mediante il rendiconto della gestione, composto dal conto del
bilancio, dal conto economico e dallo stato patrimoniale.
Il rendiconto è deliberato dal Consiglio dell’ente entro il 30 aprile dell’anno
successivo a quello di riferimento, tenendo motivatamente conto della relazione
dell’organo di revisione (così il nuovo art. 227 T.U.E.L.).

Si noti che gli enti locali con meno di 5.000 abitanti che si
avvalgono della facoltà, prevista per loro dall’art. 232 T.U.E.L., di
rinviare al 2017 la tenuta della contabilità economico-patrimoniale,
non sono tenuti nel frattempo a predisporre il conto economico, lo
stato patrimoniale e il bilancio consolidato (art. 227, comma 3,
T.U.E.L.).

Al rendiconto della gestione vanno allegati i seguenti documenti (art. 11,


comma 4, D.Lgs. 118/2011, e art. 227, comma 5, T.U.E.L.):

il prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione;

il prospetto concernente la composizione, per missioni e programmi, del

fondo pluriennale vincolato;


il prospetto concernente la composizione del fondo crediti di dubbia
esigibilità;
il prospetto degli accertamenti per titoli, tipologie e categorie;
il prospetto degli impegni per missioni, programmi e macroaggregati;
la tabella dimostrativa degli accertamenti assunti nell’esercizio in corso e

negli esercizi precedenti imputati agli esercizi successivi;


la tabella dimostrativa degli impegni assunti nell’esercizio in corso e negli

esercizi precedenti imputati agli esercizi successivi;

il prospetto rappresentativo dei costi sostenuti per missione;


il prospetto delle spese sostenute per l’utilizzo di contributi e

trasferimenti da parte di organismi comunitari e internazionali;

il prospetto delle spese sostenute per lo svolgimento delle funzioni

delegate dalle Regioni;

il prospetto dei dati SIOPE;


l’elenco dei residui attivi e passivi provenienti dagli esercizi anteriori a
quello di competenza, distintamente per esercizio di provenienza e per

capitolo;
l’elenco di crediti inesigibili, stralciati dal conto del bilancio, sino al

compimento dei termini di prescrizione;


la relazione sulla gestione dell’organo esecutivo;
l’elenco degli indirizzi internet di pubblicazione del rendiconto della

gestione e del bilancio consolidato deliberati e relativi al penultimo


esercizio antecedente quello cui si riferisce il bilancio di previsione,
nonché dei rendiconti e dei bilanci consolidati delle unioni di Comuni di cui
il Comune fa parte e dei soggetti considerati nel gruppo amministrazione

pubblica;
la tabella dei parametri di riscontro della situazione di deficitarietà
strutturale;
il piano degli indicatori e dei risultati di bilancio.

2 IL CONTO DEL BILANCIO

A) Le funzioni, la struttura e gli allegati

Il conto del bilancio dimostra i risultati finali della gestione rispetto alle
autorizzazioni contenute nel primo esercizio considerato nel bilancio di
previsione e va redatto secondo i modelli previsti dall’allegato 10 al D.Lgs.
118/2011 (art. 228 T.U.E.L., dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs.
126/2014).

Per ciascuna tipologia di entrata e per ciascun programma di spesa, il conto del
bilancio comprende, distintamente per residui e competenza:

per l’entrata le somme accertate, distinguendo la parte riscossa da quella

ancora da riscuotere;
per la spesa le somme impegnate, distinguendo la parte pagata, quella
ancora da pagare e quella impegnata con imputazione agli esercizi

successivi (rappresentata dal fondo pluriennale vincolato).

Al conto del bilancio sono allegati la tabella dei parametri di riscontro della
situazione di deficitarietà strutturale e il piano degli indicatori e dei risultati di
bilancio.

B) Il riaccertamento dei residui e il fondo pluriennale vincolato

Al fine di dare concreta attuazione al principio contabile generale della


competenza finanziaria, l’art. 3, comma 4, del D.Lgs. 118/2011, come
modificato dal D.Lgs. 126/2014, dispone che i Comuni provvedano
annualmente al riaccertamento dei residui attivi e passivi, verificando, ai
fini del rendiconto, le ragioni del loro mantenimento.
In particolare:

possono essere conservate tra i residui attivi le entrate accertate esigibili


nell’esercizio di riferimento, ma non ancora incassate;
possono essere conservate tra i residui passivi le spese impegnate

liquidate o liquidabili nel corso dell’esercizio di riferimento, ma non ancora

pagate;

le entrate accertate e le spese impegnate non esigibili nell’esercizio di


riferimento vanno immediatamente reimputate all’esercizio in cui sono

esigibili;
la reimputazione degli impegni di spesa è effettuata incrementando, di
pari importo, il fondo pluriennale di spesa, al fine di consentire,

nell’entrata degli esercizi successivi, l’iscrizione del fondo pluriennale


vincolato a copertura delle spese reimputate;
al termine delle procedure di riaccertamento non devono essere conservati

residui cui non corrispondono obbligazioni giuridicamente perfezionate.

L’attuazione del principio della competenza finanziaria si basa, dunque, sulla


costituzione di un fondo pluriennale vincolato, volto a coprire gli impegni
pluriennali derivanti da obbligazioni sorte negli esercizi precedenti. Si tratta,
come si è visto in precedenza, di un saldo finanziario costituito da entrate già
accertate, destinate al finanziamento di obbligazioni passive già impegnate ma
esigibili in esercizi successivi a quello in cui è accertata l’entrata.
Il fondo pluriennale vincolato è, quindi, un efficace strumento di
rappresentazione della programmazione e previsione delle spese pubbliche degli
enti territoriali, in quanto evidenzia in modo chiaro e attendibile il procedimento
di impiego delle risorse acquisite dall’ente che richiedono un periodo di tempo
pluriennale per il loro effettivo utilizzo (si pensi, in particolare, alla
programmazione delle opere pubbliche basata sul programma triennale e
sull’elenco annuale).

Si supponga, ad esempio, che un determinato Comune, in sede di


programmazione dell’esercizio 2015, decida di realizzare un
palazzetto dello sport, il cui costo complessivo è di 200.000 euro,
e di finanziarlo attraverso la costituzione di un mutuo che
comporta l’erogazione immediata del finanziamento. La
costruzione dell’impianto richiederà tre anni di lavori, così
distribuiti:

nel 2015 occorrerà progettare l’impianto e definire la gara di appalto, con

una spesa complessiva pari a 50.000 euro; nell’entrata del fondo si


iscriverà la voce Mutuo per palazzetto dello sport, per un valore pari
all’intero finanziamento già ottenuto, e nella spesa le voci Progettazione

impianto e indizione appalto, per un valore pari a 50.000 euro, e Fondo


pluriennale vincolato palazzetto dello sport, per un valore pari al

finanziamento ottenuto al netto della spesa già impegnata (200.000 meno


50.000 euro):

Esercizio 2015

Entrate Spese

Progettazione impianto 50.000


e indizione appalto
Mutuo per
200.000
palazzetto
Fondo pluriennale
vincolato palazzetto 150.000
dello sport

Totale
200.000 Totale uscite 200.000
entrate

nel 2016 si avvierà la costruzione del palazzetto, con una spesa pari a
80.000 euro; nell’entrata del fondo si iscriverà la voce Utilizzo Fondo

pluriennale vincolato palazzetto dello sport, per il suo valore residuo, e


nelle spese le voci Realizzazione impianto, per un valore pari a 80.000
euro, e Fondo pluriennale vincolato palazzetto dello sport, per il suo valore

residuo:

Esercizio 2016

Entrate Spese

Realizzazione
80.000
impianto

Utilizzo fondo
pluriennale vincolato Fondo
150.000
palazzetto dello pluriennale
sport vincolato 70.000
palazzetto dello
sport

Totale entrate 150.000 Totale uscite 150.000

nel 2017 si completerà l’opera, spendendo i rimanenti 70.000 euro:

Esercizio 2017

Entrate Spese

Utilizzo fondo pluriennale


Realizzazione
vincolato palazzetto 70.000 70.000
impianto
dello sport

Totale entrate 70.000 Totale uscite 70.000

Per facilitare la delicata fase di passaggio al nuovo regime contabile e adeguare


lo stock di residui attivi e passivi formatisi prima dell’entrata in vigore della
riforma alla nuova configurazione del principio contabile della competenza
finanziaria (cd. competenza finanziaria potenziata), l’art. 3 del D.Lgs. 118/2011
prevede, al comma 7, che gli enti destinatari della riforma stessa, con delibera
della Giunta e previo parere dell’organo di revisione, contestualmente
all’approvazione del rendiconto 2014 provvedano al riaccertamento
straordinario dei residui, consistente, in sostanza, nel processo di verifica,
cancellazione e reimputazione dei crediti e dei debiti ereditati dagli esercizi
precedenti all’adozione del nuovo regime; al termine di tale processo non
devono persistere residui cui non corrispondano obbligazioni giuridicamente
perfezionate ed esigibili (comma 8).

L’allegato 4/2 al D.Lgs. 118/2011 precisa che, per dare attuazione a


quanto previsto dall’art. 3, gli enti territoriali deliberano il
riaccertamento dei residui nella stessa giornata in cui è approvato
il rendiconto 2014, immediatamente dopo la delibera del Consiglio.
In particolare, essi determinano:

l’importo dei residui attivi e passivi al 31 dicembre 2014,


risultante dal rendiconto, determinati sulla base del

precedente ordinamento contabile;


l’importo dei residui attivi e passivi al 1° gennaio 2015,
determinati nel rispetto del principio contabile della

competenza finanziaria potenziata, in vigore dal 1° gennaio


2015.

Il D.L. 78/2015, conv. in L. 125/2015, ha tuttavia previsto che


gli enti che non hanno provveduto ad effettuare il riaccertamento
straordinario dei residui nei termini suddetti possono provvedere
entro il 15 giugno 2015.

Si noti, tuttavia, che tale operazione può influire negativamente sul risultato di
amministrazione, determinando un cd. disavanzo tecnico (in quanto dovuto
esclusivamente al passaggio al nuovo regime contabile) che può essere coperto
con le risorse dell’esercizio o negli esercizi successivi.
In questo caso, il legislatore introduce una deroga al principio contabile generale
del pareggio, stabilendo che gli esercizi nei quali si è determinato il disavanzo
tecnico possono essere approvati in disavanzo di competenza, per un importo
non superiore allo stesso disavanzo tecnico (comma 13). Le modalità e i tempi
di copertura dell’eventuale disavanzo tecnico sono stati definiti con D.M. 2
aprile 2015.

C) Il risultato di amministrazione

Il conto del bilancio si conclude con la dimostrazione del risultato della gestione
di competenza e della gestione di cassa e del risultato di amministrazione alla
fine dell’esercizio (art. 228, comma 4, T.U.E.L.).
Il risultato di amministrazione alla fine dell’esercizio è costituito dal fondo
cassa esistente al 31 dicembre, al quale vanno aggiunti i residui attivi e
sottratti i residui passivi, debitamente riaccertati (art. 186, comma 1, T.U.E.L.).

L’allegato 4/2 al D.Lgs. 118/2011 sottolinea come, tuttavia, il


risultato di amministrazione non può mai essere considerato una
somma “certa”, in quanto esso si compone di poste che
presentano un margine di aleatorietà riguardo alla possibile
sovrastima dei residui attivi e alla sottostima dei residui passivi.
Considerato che una quota del risultato di amministrazione, di
importo corrispondente a quello dei residui attivi di dubbia e
difficile esazione, è destinato a dare copertura alla cancellazione
dei crediti, l’accantonamento di una quota del risultato di
amministrazione al fondo crediti di dubbia esigibilità
costituisce lo strumento per rendere meno “incerto” il risultato di
amministrazione.

Il risultato di amministrazione è distinto in:

fondi vincolati.

Costituiscono quota vincolata del risultato di


amministrazione le entrate accertate e le corrispondenti
economie di bilancio:

a. nei casi in cui la legge o i principi contabili generali e

applicati della contabilità finanziaria individuano un

vincolo di specifica destinazione dell’entrata alla

spesa. Per gli enti locali i vincoli derivanti dalla legge

sono previsti sia dalle leggi statali che da quelle

regionali;

b. derivanti da mutui e finanziamenti contratti per il

finanziamento di investimenti determinati;

c. derivanti da trasferimenti erogati a favore dell’ente

per una specifica destinazione;

d. derivanti da entrate straordinarie, non aventi natura

ricorrente, accertate e riscosse cui l’amministrazione

ha attribuito una specifica destinazione. È possibile

attribuire un vincolo di destinazione alle entrate

straordinarie non aventi natura ricorrente solo se

l’ente non ha rinviato la copertura del disavanzo di

amministrazione negli esercizi successivi, ha

provveduto nel corso dell’esercizio alla copertura di


tutti gli eventuali debiti fuori bilancio (compresi i

debiti fuori bilancio ai sensi dell’articolo 193 del

T.U.E.L., nel caso in cui sia stata accertata, nell’anno

in corso e nei due anni precedenti l’assenza

dell’equilibrio generale di bilancio);

fondi accantonati.

La quota accantonata del risultato di amministrazione è


costituita da:

a. l’accantonamento al fondo crediti di dubbia

esigibilità;

b. gli accantonamenti per le passività potenziali (fondi

spese e rischi).

Tali quote sono utilizzabili solo a seguito del

verificarsi dei rischi per i quali sono state

accantonate. Quando si accerta che la spesa

potenziale non può più verificarsi, la corrispondente

quota del risultato di amministrazione è liberata dal


vincolo;

fondi destinati agli investimenti.

La quota del risultato di amministrazione destinata agli


investimenti è costituita dalle entrate in conto capitale senza

vincoli di specifica destinazione non spese, utilizzabili con

provvedimento di variazione di bilancio solo a seguito


dell’approvazione del rendiconto;

fondi liberi.

La quota libera del risultato di amministrazione può essere


utilizzata, in seguito all’approvazione del rendiconto, con

provvedimento di variazione di bilancio, per le seguenti


finalità di seguito in ordine di priorità:

a. per la copertura dei debiti fuori bilancio;

b. per i provvedimenti necessari per la salvaguardia

degli equilibri di bilancio (previsti dall’art. 193

T.U.E.L.) ove non possa provvedersi con mezzi

ordinari;
c. per il finanziamento di spese di investimento;

d. per il finanziamento delle spese correnti a carattere

non permanente;

e. per l’estinzione anticipata dei prestiti.

3 IL CONTO ECONOMICO

Il conto economico evidenzia i componenti positivi (ricavi) e negativi (costi)


della gestione di competenza economica dell’esercizio considerato (rilevati dalla
contabilità economico-patrimoniale nel rispetto dei relativi principi contabili,
generali e applicati, di cui al D.Lgs. 118/2011) e rileva il risultato economico
dell’esercizio.
Tale documento va redatto secondo lo schema previsto dall’allegato 10 al D.Lgs.
118/2011 (art. 229 T.U.E.L., dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs.
126/2014), del quale si riporta una sintesi esemplificativa:

A) COMPONENTI POSITIVI DELLA GESTIONE

• proventi da tributi

• proventi da fondi perequativi

• proventi da trasferimenti e contributi

• ricavi delle vendite e prestazioni e proventi da servizi pubblici

• variazioni nelle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione etc. (+/-)


• variazione dei lavori in corso su ordinazione

• incrementi di immobilizzazioni per lavori interni

• altri ricavi e proventi diversi

Totale componenti positivi della gestione (A)

B) COMPONENTI NEGATIVI DELLA GESTIONE

• acquisto di materie prime e/o di beni di consumo

• prestazioni di servizi

• utilizzo beni di terzi

• trasferimenti e contributi

• personale

• ammortamenti e svalutazioni

• variazioni nelle rimanenze di materie prime e/o beni di consumo (+/-)

• accantonamenti per rischi

• altri accantonamenti

• oneri diversi di gestione


Totale componenti negativi della gestione (B)

RISULTATO DELLA GESTIONE (A–B)

C) PROVENTI ED ONERI FINANZIARI

Proventi finanziari

• proventi da partecipazioni

• altri proventi finanziari

Oneri finanziari

• interessi ed altri oneri finanziari

Totale proventi ed oneri finanziari (C)

D) RETTIFICHE DI VALORE ATTIVITÀ FINANZIARIE

• rivalutazioni

• svalutazioni

Totale rettifiche (D)

E) PROVENTI ED ONERI STRAORDINARI

• proventi straordinari

• oneri straordinari
Totale proventi ed oneri straordinari (E)

RISULTATO PRIMA DELLE IMPOSTE (A+B+C+D+E)

imposte

RISULTATO DELL’ESERCIZIO

4 LO STATO PATRIMONIALE

Lo stato patrimoniale rappresenta i risultati della gestione patrimoniale e la


consistenza del patrimonio al termine dell’esercizio ed è predisposto nel
rispetto del principio contabile generale della competenza economica e del
principio applicato della contabilità economico-patrimoniale di cui al D.Lgs.
118/2011 (art. 230 T.U.E.L., dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs.
126/2014).
Il documento deve essere redatto secondo lo schema previsto dall’allegato 4/3
al D.Lgs. 118/2011 (che contiene anche le modalità di valutazione dei beni del
demanio e del patrimonio), del quale si riporta una sintesi esemplificativa:

ELEMENTI PATRIMONIALI ATTIVI

Immobilizzazioni

• immateriali

• materiali

• finanziarie
Attivo circolante

• rimanenze di magazzino

• crediti

• attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni

• disponibilità liquide

• ratei e risconti attivi

CONTI D’ORDINE

PATRIMONIO NETTO ED ELEMENTI PATRIMONIALI PASSIVI

Patrimonio netto

Fondi per rischi ed oneri

Trattamento di fine rapporto

Debiti

Ratei e risconti passivi e contributi agli investimenti

CONTI D’ORDINE
Qual è la prima attività da compiere per l’adozione della contabilità
economico-patrimoniale?

La prima attività richiesta per l’adozione della contabilità economico-


patrimoniale è la riclassificazione delle voci dello stato patrimoniale chiuso il 31
dicembre dell’anno precedente nel rispetto dello schema previsto dal D.P.R.
194/1996, secondo l’articolazione prevista dall’allegato 4/3 al D.Lgs. 118/2011.
Una volta riclassificate tali voci, occorre applicare i criteri di valutazione
dell’attivo e del passivo previsti dal principio applicato della contabilità
economico-patrimoniale e riportati nel medesimo allegato. A tal fine, si
predispone una tabella che, per ciascuna delle voci dell’inventario e dello stato
patrimoniale riclassificato, affianca gli importi di chiusura del precedente
esercizio, gli importi attribuiti a seguito del processo di rivalutazione e le
differenze di valutazione, negative e positive.

5 IL BILANCIO CONSOLIDATO

In base all’art. 11bis del D.Lgs. 118/2011, introdotto dal D.Lgs. 126/2014,
i Comuni devono redigere il bilancio consolidato con i propri enti e organismi
strumentali, aziende, società controllate e partecipate (cd. gruppo
amministrazione pubblica), secondo le modalità e i criteri individuati dal
principio contabile applicato del bilancio consolidato, di cui all’allegato 4/4 al
decreto stesso.

Si definisce ente strumentale controllato da un ente locale l’azienda o l’ente,


pubblico o privato, nei cui confronti l’ente stesso ha una delle seguenti
condizioni (art. 11ter):

il possesso, diretto o indiretto, della maggioranza dei voti esercitabili

nell’ente o nell’azienda;
il potere, assegnato da legge, statuto o convenzione, di nominare o
rimuovere la maggioranza di componenti degli organi decisionali,

competenti a definire le scelte strategiche e le politiche di settore, nonché


a decidere in ordine all’indirizzo, alla pianificazione e alla programmazione

dell’attività di un ente o di un’azienda;

la maggioranza, diretta o indiretta, dei diritti di voto nelle sedute degli


organi decisionali, competenti a definire le scelte strategiche e le politiche

di settore, nonché a decidere in ordine all’indirizzo, alla pianificazione e

alla programmazione dell’attività dell’ente o dell’azienda;

l’obbligo di ripianare i disavanzi, nei casi consentiti dalla legge, per

percentuali superiori alla propria quota di partecipazione;


un’influenza dominante in virtù di contratti o clausole statutarie (come nel
caso dei contratti di servizio pubblico o di concessione stipulati con

aziende che svolgono prevalentemente l’attività oggetto dei contratti


stessi.

Si definisce società controllata da un ente locale la società nella quale l’ente


stesso ha una delle seguenti condizioni (art. 11quater):

il possesso, diretto o indiretto, anche sulla scorta di patti parasociali, della


maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria o dispone di voti

sufficienti per esercitare un’influenza dominante sull’assemblea ordinaria;


il diritto, in virtù di un contratto o di una clausola statutaria, di esercitare
un’influenza dominante.

Occorre sottolineare che fino all’esercizio 2017 non vanno incluse nel bilancio
consolidato le società quotate (cioè quelle che emettono strumenti finanziari
quotati in mercati regolamentati) e quelle da esse controllate.
Si definisce società partecipata da un ente locale la società nella quale l’ente
stesso, direttamente o indirettamente, dispone di una quota di voti, esercitabili
in assemblea, pari o superiore al 20 per cento (o al 10 per cento se si tratta di
società quotata). Tuttavia, in fase di prima applicazione del decreto, con
riferimento agli esercizi 2015-2017, per società partecipata si intende la società
a totale partecipazione pubblica affidataria di servizi pubblici locali dell’ente,
indipendentemente dalla quota di partecipazione (art. 11 quinquies).
Il bilancio consolidato è costituito dal conto economico consolidato e dallo
stato patrimoniale consolidato, cui vanno allegati una relazione sulla
gestione consolidata (comprendente la nota integrativa) e una relazione del
collegio dei revisori. Lo schema comune del bilancio consolidato è riportato
nell’allegato 11 al D.Lgs. 118/2011.
L’allegato 4/4 definisce nel dettaglio le modalità e i criteri da seguire per la
redazione di tale bilancio, stabilendo, fra l’altro, che l’area di consolidamento
debba essere individuata dall’ente capogruppo alla data del 31 dicembre
dell’esercizio di riferimento e che il bilancio consolidato debba essere approvato
entro il 30 settembre dell’esercizio successivo a quello di riferimento.
Si noti, infine, che, secondo quanto previsto dall’allegato 4/4 e dall’art. 233bis
T.U.E.L. (introdotto dal D.Lgs. 126/2014), per i Comuni con almeno 5.000
abitanti l’obbligo di redazione del bilancio consolidato decorre dal 2015 (i
Comuni con popolazione inferiore saranno obbligati solo a decorrere
dall’esercizio finanziario 2018, con riferimento all’esercizio 2017), tuttavia l’art.
11bis del D.Lgs. 118/2011, al comma 4, concede la possibilità di rinviare la
redazione di tale documento al 2016 (con la sola eccezione dei Comuni che nel
2014 hanno partecipato alla sperimentazione).
CAPITOLO 9
LA REVISIONE ECONOMICO-FINANZIARIA

SOMMARIO

1 Premessa. 2 Il Collegio dei revisori. 3 Prerogative e funzioni. 4


Responsabilità dei revisori.

1 PREMESSA

Per garantire che l’attività amministrativa sia svolta in conformità agli obiettivi
prefissati dalla legge e per tutelare gli interessi della collettività, fornendo ai
cittadini i servizi pubblici nel modo più efficiente possibile e allo stesso tempo
con il minor dispendio di risorse, la L. 142/1990, all’art. 57, aveva introdotto
l’istituto della revisione economico-finanziaria. Tale istituto è stato in
parte derogato e in parte completato dalle disposizioni del Capo VII, artt. 100-
107 del D.Lgs. 77/1995, ora confluiti negli artt. 234-241 T.U.E.L.
In particolare, la revisione economico-finanziaria è funzionale al conseguimento
di una maggiore efficienza, economicità ed efficacia della gestione dell’ente,
attraverso la creazione di una struttura organizzativa di tipo aziendale e
l’individuazione di un «manager» che si assuma integralmente la responsabilità
dell’intera gestione. In questo contesto, quindi, si viene affermando l’esigenza di
introdurre un meccanismo di controllo complessivo della gestione, che
consenta, attraverso l’analisi del rapporto prestazioni erogate/obiettivi, di
misurare l’adeguatezza dell’organizzazione a perseguire gli obiettivi individuati
in modo efficiente ed efficace.

2 IL COLLEGIO DEI REVISORI

L’art. 234 T.U.E.L. dispone che i Consigli comunali, provinciali e delle Città
metropolitane eleggono, con voto limitato a due componenti, un Collegio dei
revisori composto da tre membri.
Solo in caso di Comuni con meno di 15.000 abitanti, di Unioni di
Comuni e di Comunità montane l’organo di revisione è
monocratico ed è eletto dal Consiglio dell’ente.

I componenti del Collegio sono:

il presidente, che deve essere iscritto nel registro dei revisori contabili;

un membro scelto tra gli iscritti nell’albo dei dottori commercialisti;

un membro scelto tra gli iscritti nell’albo dei ragionieri.

Occorre sottolineare che il D.Lgs. 139/2005 ha disposto, a partire


dal 2008, l’unificazione dell’ordine dei dottori commercialisti e
dell’ordine dei ragionieri e periti commerciali nell’ordine dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili e la conseguente creazione
di un unico albo avente identica denominazione. Se ne può dedurre,
quindi, che la norma contenuta nel T.U. debba essere oggi intesa
nel senso che i due componenti del Collegio dei revisori diversi dal
Presidente debbano essere entrambi scelti fra gli iscritti al nuovo
albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (si veda, in
tal senso, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 6964
del 17/09/2010).

Per quanto riguarda le modalità di scelta, l’art. 16, comma 25, del D.L.
138/2011, convertito in L. 148/2011, ha disposto che, a decorrere dal primo
rinnovo dell’organo di revisione successivo all’entrata in vigore del decreto
stesso (cioè al 13 agosto 2011), i revisori dei conti dell’ente locale vengano
scelti mediante estrazione da un apposito elenco regionale nel quale possono
essere iscritti i soggetti già iscritti nel registro dei revisori legali o appartenenti
all’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
Le cause di incompatibilità ed ineleggibilità a membro del C​​ollegio sono
indicate dall’art. 236 T.U.E.L., secondo il quale:

non può essere nominato membro l’interdetto, il fallito, l’inabilitato o chi è


stato condannato ad una pena che comporta l’interdizione anche

temporanea dai pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi,

coniugi, parenti ed affini di membri della giunta dell’ente.


l’incarico di revisore, inoltre, non può essere esercitato dai componenti

degli organi dell’ente locale e da coloro che hanno ricoperto tale incarico

nel biennio precedente alla nomina, dal segretario e dai dipendenti dell’ente

locale presso cui deve essere nominato l’organo di revisione economico-


finanziaria e dai dipendenti delle regioni, delle province, delle città

metropolitane, delle comunità montane e delle unioni di comuni


relativamente agli enti locali compresi nella circoscrizione territoriale di
competenza;

chi assume la carica di revisore non può assumere incarichi o consulenze


presso l’ente locale o presso organismi o istituzioni dipendenti o
comunque sottoposti al controllo o vigilanza dello stesso.

Inoltre, a meno che il regolamento di contabilità non disponga diversamente, un


revisore non può assumere contemporaneamente più di otto incarichi, tra i quali
non più di quattro in Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, non più
di tre in Comuni con popolazione compresa tra i 5.000 ed i 99.999 abitanti e non
più di uno in Comuni con popolazione pari o superiore a 100.000 abitanti (art.
238 T.U.E.L.).
La nomina è di competenza del Consiglio dell’ente che deve poi comunicare al
tesoriere, entro 20 giorni dalla data di esecutività della delibera di nomina, i
nominativi dei revisori.
La durata dell’organo di revisione è di tre anni ed i suoi membri non possono
svolgere l’incarico per più di due volte nello stesso ente locale. Se viene
sostituito un membro del Collegio la sua carica cesserà comunque allorquando
cesserà la carica dell’intero Collegio (art. 235, comma 1, T.U.E.L., come
modificato dal D.L. 66/2014, conv. in L. 89/2014).

Altri due sono i motivi per cui può cessare l’incarico del revisore, oltre alla
scadenza del mandato:

le dimissioni volontarie;
l’impossibilità a svolgere l’incarico a qualsiasi motivo essa sia imputabile.

Il revisore è revocabile solo nel caso di inadempienza o di mancata


presentazione (entro il termine previsto dal regolamento di contabilità dell’ente
e comunque non inferiore ai 20 giorni dalla trasmissione della stessa) della
relazione sulla proposta del Consiglio dell’ente relativa al rendiconto.
A tali ipotesi va aggiunta quella disciplinata dall’art. 143 T.U.E.L., come
sostituito dall’art. 2, comma 30, della L. 94/2009, secondo la quale, in caso di
scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, dalla data di
pubblicazione del relativo decreto, sono risolti di diritto gli incarichi dei revisori
non rinnovati dalla Commissione straordinaria entro 45 giorni dal suo
insediamento.

3 PREROGATIVE E FUNZIONI

A) Prerogative

All’organo di revisione, affinché possa svolgere le funzioni previste dalla Legge


e dal Regolamento dell’ente, sono state riconosciute speciali prerogative,
quali:

il diritto di accesso agli atti e documenti dell’ente;


la possibilità di partecipare senza diritto di voto alle riunioni dell’organo
consiliare e, se previsto dallo Statuto dell’ente, di quello esecutivo, dando i

suggerimenti e i pareri che si rendessero necessari nel corso


dell’adunanza; a tal fine ai componenti dell’organo di revisione deve essere

inviato l’ordine del giorno relativo;

il diritto di ricevere da parte del Comitato di controllo le decisioni di


annullamento delle deliberazioni adottate dagli organi dell’ente;

il diritto di ricevere da parte del responsabile del servizio finanziario le

attestazioni di assenza di copertura finanziaria relative agli atti di

impegno;

il diritto di avere a disposizione i mezzi necessari allo svolgimento dei


propri compiti secondo quanto stabilito dallo Statuto e dai Regolamenti;
il diritto dei singoli componenti ad eseguire ispezioni e controlli individuali.

B) Funzioni

La disciplina della materia è contenuta nell’art. 239 del T.U.E.L. (come


modificato dal D.Lgs. 126/2014), anche se spetta allo Statuto e ai
regolamenti stabilire norme che specifichino i compiti dei revisori in relazione
alle peculiari esigenze di ogni realtà locale.

In via generale, comunque, competono ai Collegi dei revisori le seguenti


funzioni:

collaborazione con il Consiglio secondo le disposizioni dello Statuto e del


regolamento dell’ente. Tale attività conferma il fatto che il Collegio non è
più chiamato solo a stendere una relazione sulle operazioni compiute dagli

organi dell’ente, ma anche a svolgere un’azione concomitante e preventiva


a quella degli organi, attraverso la costante presenza dei suoi componenti

nelle sedi in cui si svolge la gestione;


pareri in materia di:

strumenti di programmazione economico-finanziaria;

proposta di bilancio di previsione verifica degli equilibri e variazioni di

bilancio;

modalità di gestione dei servizi e proposte di costituzione o di


partecipazione ad organismi esterni;

proposte di ricorso all’indebitamento;


proposte di utilizzo di strumenti di finanza innovativa, nel rispetto
della disciplina statale vigente in materia;

proposte di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni;


proposte di regolamento di contabilità, economato-provveditorato,
patrimonio e di applicazione dei tributi locali.

I pareri sono obbligatori e devono esprimere un motivato giudizio contabile

di:

congruità (correttezza delle previsioni finanziarie);

coerenza (compatibilità con le impostazioni di bilancio);

attendibilità.

Tali giudizi sono espressi riguardo alle previsioni di bilancio, ai programmi


e ai progetti, anche tenuto conto dei pareri espressi dal responsabile del
servizio finanziario, delle variazioni rispetto all’anno precedente, delle
applicazioni dei parametri di deficitarietà strutturale e di ogni altro

elemento utile. Nei pareri il Collegio suggerisce al Consiglio le misure atte


ad assicurare l’attendibilità delle impostazioni; qualora il Consiglio non

adotti le misure suggerite, esso è tenuto a motivare la mancata adozione;

vigilanza sulla regolarità contabile (adempimenti fiscali e contabili),


finanziaria ed economica della gestione, in relazione ad entrate, spese,

contratti, adempimenti fiscali, tenuta della contabilità;

relazione (contenente un’attestazione della corrispondenza del rendiconto

alle risultanze della gestione) sulla proposta di deliberazione del Consiglio

del rendiconto della gestione e sullo schema di rendiconto nonché sulla


proposta di deliberazione consiliare di approvazione del bilancio
consolidato;

referto all’organo consiliare su eventuali gravi irregolarità di gestione,


provvedendo a denunciare le stesse ai competenti organi giurisdizionali se

si configurano ipotesi di responsabilità;


effettuare, con cadenza trimestrale, verifiche di cassa e gestione dei
servizi di tesoreria e degli agenti contabili interni;

apposizione della firma sulla certificazione che gli enti locali sono tenuti a
redigere sui principali dati del bilancio di previsione e del rendiconto (art.
161 T.U.);
verifica del rispetto del contratto di servizio in caso di affidamento dei

servizi pubblici locali ai sensi dell’art. 23bis, comma 3, del D.L. 112/2008
(cd. affidamento in house) (art. 8, comma 10, D.P.R. 168/2010);
invio alle competenti sezioni regionali della Corte dei conti di una relazione
sul bilancio di previsione dell’esercizio di competenza e sul rendiconto

dell’esercizio medesimo (art. 1, comma 166, L. 266/2005);


vigilanza sulla corretta applicazione degli adempimenti connessi alla

contrattazione integrativa, certificando le informazioni in merito che gli

enti locali devono trasmettere entro il 31 maggio di ogni anno alla Corte
dei conti e inviando annualmente al Ministero dell’economia e delle finanze

informazioni sui costi di questo tipo di contrattazione. Tali misure sono

state confermate dal D.Lgs. 150/2009 (decreto attuativo della L. 15/2009,

cd. Legge Brunetta) che assegna all’organo di revisione anche il compito di

controllare la compatibilità dei costi della contrattazione collettiva con i


vincoli di bilancio.
Il Collegio redige un verbale di tutte le riunioni, ispezioni, verifiche e

decisioni adottate.

4 RESPONSABILITÀ DEI REVISORI

I revisori devono esercitare le loro funzioni con la diligenza del mandatario


(art. 240 T.U.E.L.), che equivale alla diligenza del buon padre di famiglia. Sulla
base di tale assunto essi sono responsabili solidalmente con gli amministratori
per fatti ed omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi
avessero vigilato in conformità della loro carica (art. 2407 c.c.).

Quali sono i reati tipici in cui possono incorrere i revisori?


I reati tipici in cui i revisori possono incorrere sono:

l’omessa denuncia di reato (art. 361 c.p.). Infatti i revisori, quali pubblici
ufficiali, hanno l’obbligo della denuncia sia in sede di giurisdizione penale

che contabile. Inoltre, nel caso di reato perseguibile d’ufficio, devono


produrre denuncia per iscritto anche quando non sia individuata la persona

alla quale il reato è attribuito (artt. 331 e 332 c.p.);

l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). Si commette tale reato sotto il profilo
materiale allorché il pubblico ufficiale ecceda dai limiti della sua

competenza, oppure non osservi le norme che disciplinano la propria

attività, ovvero faccia uso dei poteri discrezionali per uno scopo diverso

da quello per cui gli furono conferiti. Però, affinché tale reato sia

consumato, occorre che la condotta materiale del pubblico ufficiale


(revisore) sia accompagnata sia da dolo generico che specifico;
la rivelazione ed utilizzazione dei segreti d’ufficio (art. 326 c.p.). Non a

caso l’art. 240 T.U.E.L. prescrive che i revisori devono osservare la


riservatezza sui fatti e documenti di cui hanno conoscenza per ragioni del

loro ufficio;
la falsità ideologica (art. 479 c.p.) connessa con l’attività di certificazione
ed attestazione contabile cui sono tenuti i revisori.

I revisori, oltre che essere responsabili delle predette fattispecie criminose,


possono anche essere chiamati a rispondere di concorso nella condotta illecita
degli amministratori. Ciò si verifica, ad esempio, allorché avallino l’adozione di
atti illegittimi o ne omettano il controllo.

Glossario
Efficacia: capacità di realizzare un obiettivo, viene generalmente valutata
confrontando il risultato realizzato con l’obiettivo prefissato.

Efficienza: capacità di svolgere un’attività con il minor dispendio di risorse


e ottenendo il miglior risultato possibile.

Prerogativa: facoltà o privilegio speciale riconosciuti, per legge o per


consuetudine, ai titolari di cariche pubbliche per facilitarne l’esercizio delle
funzioni.
CAPITOLO 10
IL RISANAMENTO FINANZIARIO

SOMMARIO

1 Gli enti in deficit strutturale. 2 Il dissesto finanziario. 3 La


deliberazione di dissesto. 4 Il risanamento. 5 Il bilancio stabilmente
riequilibrato.

1 GLI ENTI IN DEFICIT STRUTTURALE

A) Definizione

Ai sensi dell’art. 242 T.U.E.L., come modificato dal D.L. 174/2012, conv. in L.
213/2012, sono considerati in condizioni strutturalmente deficitarie gli
enti locali che presentano gravi ed incontrovertibili condizioni di
squilibrio; tali condizioni sono rilevabili da una apposita tabella (di cui abbiamo
già parlato nel Capitolo 8), allegata al rendiconto della gestione relativo al
penultimo esercizio precedente quello di riferimento, contenente parametri
obiettivi: qualora almeno la metà di tali parametri presenti valori deficitari,
l’ente è dichiarato strutturalmente deficitario. Per il triennio 2013-2015, i
parametri obiettivi sono stati fissati con D.M. 18-2-2013.

B) Conseguenze

L’art. 243, comma 1, T.U.E.L., come modificato dal D.L. 174/2012, dispone
che gli enti che si trovano in condizioni di deficitarietà strutturale, come
definita dall’art. 242, sono soggetti al controllo centrale della Commissione
per la stabilità finanziaria degli enti locali, istituita presso il Ministero
dell’interno (art. 155 T.U.E.L.), che ha il compito di verificare la compatibilità
finanziaria dei provvedimenti con i quali si approvano le dotazioni organiche e si
provvede all’assunzione di personale.
Gli stessi enti deficitari sono inoltre sottoposti al controllo centrale sul rispetto
di percentuali prestabilite di copertura del costo di alcuni servizi, mediante
l’onere di presentazione di apposita certificazione dalla quale deve risultare che:

il costo dei servizi a domanda individuale deve essere coperto con i

proventi delle relative tariffe e con eventuali contributi finalizzati in


misura complessivamente non inferiore al 36%, computando allo scopo i

costi della gestione degli asili nido soltanto per il 50% del loro

ammontare;

il costo del servizio acquedotto deve essere coperto almeno nella misura

dell’80%;
il costo del servizio di smaltimento dei rifiuti urbani ed equiparati deve
essere coperto nella misura prevista di volta in volta dalla legislazione

vigente.

I Comuni e le Province strutturalmente deficitari che non rispettano le


percentuali di copertura del costo dei servizi sopra elencate, o che non danno
dimostrazione di tale rispetto trasmettendo la prevista certificazione, vengono
sanzionati in misura pari all’1% delle entrate correnti risultanti dal
certificato di bilancio del penultimo esercizio finanziario precedente quello
in cui si è registrato il mancato rispetto dei predetti limiti minimi di copertura
(art. 243, comma 5, T.U.E.L.).
Al controllo centrale sulla copertura dei costi dei servizi sono assoggettati, in
via provvisoria, anche gli enti che, pur non risultando strutturalmente deficitari
in base all’apposita tabella, non hanno presentato il certificato al rendiconto
della gestione o non hanno approvato nei termini di legge il rendiconto stesso
(art. 243, comma 6, T.U.E.L.).

C Procedura di riequilibrio finanziario pluriennale


I Comuni e le Province per i quali, anche in considerazione delle pronunce delle
competenti sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci degli enti,
sussistano squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto
finanziario, nel caso in cui le misure di cui agli articoli 193 e 194 (salvaguardia
degli equilibri di bilancio e riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio)
non siano sufficienti a superare le condizioni di squilibrio rilevate, possono
ricorrere, con deliberazione consiliare, alla procedura di riequilibrio
finanziario pluriennale (art. 243bis T.U.E.L., inserito dal D.L. 174/2012 e
modificato dal D.L. 16/2014, conv. in L. 68/2014).
La deliberazione deve essere trasmessa, entro cinque giorni dalla sua
esecutività, al Ministero dell’interno e alla competente sezione regionale della
Corte dei conti.
Entro novanta giorni dalla data di esecutività della delibera, il Consiglio dell’ente
è tenuto a deliberare un piano di riequilibrio finanziario pluriennale della
durata massima di dieci anni, corredato del parere dell’organo di revisione.

Qual è il contenuto del piano di riequilibrio finanziario pluriennale?


Il piano di riequilibrio deve contenere tutte le misure necessarie a superare le
condizioni di squilibrio, e in particolare:

a. le eventuali misure correttive adottate dall’ente locale in considerazione

dei comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria e del

mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità interno

accertati dalla competente sezione regionale della Corte dei conti;

b. la puntuale ricognizione, con relativa quantificazione, dei fattori di

squilibrio rilevati, dell’eventuale disavanzo di amministrazione risultante


dall’ultimo rendiconto approvato e di eventuali debiti fuori bilancio;

c. l’individuazione, con relative quantificazione e previsione dell’anno di

effettivo realizzo, di tutte le misure necessarie per ripristinare

l’equilibrio strutturale del bilancio, per l’integrale ripiano del disavanzo di

amministrazione accertato e per il finanziamento dei debiti fuori

bilancio entro il periodo massimo di dieci anni, a partire da quello in

corso alla data di accettazione del piano;

d. l’indicazione, per ciascuno degli anni del piano di riequilibrio, della

percentuale di ripiano del disavanzo di amministrazione da assicurare e

degli importi previsti o da prevedere nei bilanci annuali e pluriennali per

il finanziamento dei debiti fuori bilancio.

Per tutta la durata del piano l’ente:

a. può deliberare le aliquote o tariffe dei tributi locali nella misura

massima consentita, anche in deroga ad eventuali limitazioni disposte

dalla legislazione vigente;

b. è soggetto ai controlli centrali in materia di copertura di costo di alcuni

servizi (cfr. punto B);


c. è tenuto ad assicurare, con i proventi della relativa tariffa, la copertura

integrale dei costi della gestione del servizio di smaltimento dei rifiuti

solidi urbani e del servizio acquedotto;

d. è soggetto al controllo sulle dotazioni organiche e sulle assunzioni di

personale previsto dall’art. 243, comma 1;

e. è tenuto ad effettuare una revisione straordinaria di tutti i residui attivi

e passivi conservati in bilancio, stralciando i residui attivi inesigibili o di

dubbia esigibilità da inserire nel conto del patrimonio fino al

compimento dei termini di prescrizione, nonché una sistematica attività

di accertamento delle posizioni debitorie aperte con il sistema creditizio

e dei procedimenti di realizzazione delle opere pubbliche ad esse

sottostanti ed una verifica della consistenza ed integrale ripristino dei

fondi delle entrate con vincolo di destinazione;

f. è tenuto ad effettuare una rigorosa revisione della spesa con

indicazione di precisi obiettivi di riduzione della stessa, nonché una

verifica e relativa valutazione dei costi di tutti i servizi erogati dall’ente

e della situazione di tutti gli organismi e delle società partecipati e dei

relativi costi e oneri comunque a carico del bilancio dell’ente;

g. può procedere all’assunzione di mutui per la copertura di debiti fuori


bilancio riferiti a spese di investimento, in deroga ai limiti di cui all’art.

204, comma 1, previsti dalla legislazione vigente, nonché accedere al

Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali

di cui all’art. 243ter, a condizione che si sia avvalso della facoltà di

deliberare le aliquote o tariffe nella misura massima prevista dalla

lettera a), che abbia previsto l’impegno ad alienare i beni patrimoniali

disponibili non indispensabili per i fini istituzionali dell’ente e che abbia

provveduto alla rideterminazione della dotazione organica ai sensi

dell’art. 259, comma 6, fermo restando che la stessa non può essere

variata in aumento per la durata del piano di riequilibrio.

Il piano, entro dieci giorni dalla data della delibera di adozione, è trasmesso alla
competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti e alla
Commissione per la stabilità finanziaria degli enti locali. Quest’ultima, entro
sessanta giorni dalla trasmissione, svolge la necessaria istruttoria e redige una
relazione finale da inviare alla Corte dei conti, cui spetta l’approvazione o il
diniego del piano.
In caso di approvazione, è la Corte stessa che vigila sulla realizzazione del
piano, avvalendosi anche di un’apposita relazione semestrale sullo stato di
attuazione redatta dall’organo di revisione.
Nel caso in cui la Corte non approvi il piano, oppure registri il mancato rispetto
degli obiettivi intermedi o il mancato raggiungimento dell’equilibrio finanziario al
termine del piano, si applica la procedura prevista dall’art. 6, comma 2, del
D.Lgs. 149/2011, che prevede l’assegnazione al Consiglio dell’ente, da parte
del Prefetto, di un termine non superiore a venti giorni per la deliberazione del
dissesto (art. 243quater).

2 IL DISSESTO FINANZIARIO

La definizione dello stato di dissesto finanziario (la cui disciplina è applicabile


solo a Province e Comuni) è dettata dall’art. 244 T.U.E.L. ai sensi del quale si ha
stato di dissesto finanziario se l’ente non può garantire l’assolvimento
delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti
dell’ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa fare
validamente fronte con le modalità di cui all’articolo 193, nonché con le
modalità di cui all’articolo 194 per le fattispecie ivi previste.
L’art. 244, dunque, riconduce lo stato di dissesto finanziario al verificarsi di due
possibili situazioni:

l’incapacità economico-finanziaria dell’ente locale di garantire l’erogazione


dei servizi indispensabili e di espletare le proprie funzioni istituzionali;

l’esistenza di debiti a carico dell’ente, liquidi ed esigibili, ai quali non sia


possibile fare fronte con le modalità di cui agli artt. 193 e 194 T.U.E.L.

(rispettivamente «salvaguardia degli equilibri di bilancio» e «


riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio»). In pratica, si tratta
del caso in cui vengano meno gli equilibri di bilancio per effetto del

sopravvenire di un disavanzo di amministrazione dall’esercizio precedente


o di uno squilibrio della gestione di competenza o dei residui o, ancora, a
seguito del riconoscimento della legittimità di debiti fuori bilancio, ed a
fronte di ciò non sia possibile ripristinare il pareggio né facendo ricorso a

misure ordinarie, quali l’impiego di risorse di bilancio, né attraverso le


seguenti misure straordinarie:

art. 187, comma 2, lett. b) e c): applicazione dell’avanzo di


amministrazione;

art. 193, comma 3: utilizzo per l’anno in corso e per i due successivi
di tutte le entrate e le possibili economie;

art. 194, comma 3: finanziamento dei debiti fuori bilancio

riconosciuti legittimi dall’organo consiliare attraverso l’accensione di


mutui (artt. 202 e ss.).

3 LA DELIBERAZIONE DI DISSESTO

Qualora si verifichino le condizioni di cui all’articolo 244, sorge l’obbligo di


formale ed esplicita dichiarazione di dissesto, con apposita deliberazione di
competenza del Consiglio dell’ente, previa valutazione delle cause che hanno
determinato il dissesto. La delibera è irrevocabile e va trasmessa entro 5
giorni dalla data di esecutività al Ministero dell’Interno ed alla Procura
regionale della Corte dei conti e pubblicata per estratto nella Gazzetta Ufficiale,
a cura del medesimo Ministero, unitamente al D.P.R. di nomina dell’organo
straordinario di liquidazione, in modo da soddisfare le esigenze informative
che ne sono alla base. L’obbligo di tale deliberazione grava, ove ne ricorrano le
condizioni, sul commissario nominato ai sensi dell’articolo 141, comma 3,
T.U.E.L.

Una volta dichiarato il dissesto, cosa avviene del bilancio


preventivo, se già approvato?
Se viene dichiarato il dissesto e per l’anno in corso è già stato approvato il
bilancio preventivo, quest’ultimo resta efficace per l’intero esercizio
finanziario, fermo restando il divieto di assumere impegni o pagare spese per
servizi non espressamente previsti dalla legge.
Alla delibera di dissesto è allegata una dettagliata relazione del Collegio di
revisione economico-finanziaria che analizza le cause che hanno provocato il
dissesto (art. 246, comma 4 T.U.E.L.).

Per quanto concerne le conseguenze della dichiarazione di dissesto, l’art. 248


dispone misure cautelari e restrittive di notevole rilevanza:

sono sospesi i termini per la deliberazione del bilancio di previsione;

non si possono intraprendere azioni esecutive nei confronti dell’ente per i


debiti che rientrano nella competenza dell’organo straordinario di

liquidazione, sino all’approvazione del rendiconto di liquidazione;


sono dichiarate estinte d’ufficio le procedure esecutive in corso per le

quali l’ente non si sia opposto nei termini o sia stata rigettata
l’opposizione;

non sono produttivi di effetti vincolanti nei confronti dell’ente i


pignoramenti eseguiti dopo la deliberazione di dissesto (l’ente può disporre
delle relative somme per i propri fini);

fino all’approvazione del rendiconto di liquidazione diventano improduttivi


di interessi e non soggetti a rivalutazione monetaria i debiti insoluti e
quelli relativi ad anticipazioni di cassa, nonché i crediti nei confronti

dell’ente che rientrano nella competenza dell’organo straordinario di

liquidazione, a partire dal momento della loro liquidità ed esigibilità;


non possono essere assunti nuovi mutui (art. 249).

La deliberazione di cui sopra va inoltre trasmessa (insieme ad una dettagliata


relazione del Collegio dei revisori) alla Corte dei conti.
Il D.Lgs. 149/2011 ha notevolmente potenziato il ruolo della
Corte dei conti nell’ambito della procedura di dissesto dell’ente
locale, ampliandone i poteri preventivi e repressivi. Per quanto
riguarda i primi, ad esempio, l’art. 6, comma 2, del suddetto
decreto assegna alle sezioni regionali di controllo della Corte il
compito di verificare l’esistenza di eventuali comportamenti
difformi dalla sana gestione finanziaria o di violazioni degli
obiettivi della finanza pubblica o, ancora, di irregolarità o di
squilibri strutturali del bilancio in grado di provocarne il dissesto
finanziario e di segnalare, quindi, all’ente le misure da adottare,
entro un congruo termine, per il ripristino degli equilibri di bilancio.
Se l’ente si dimostra inadempiente, la Corte trasmette gli atti alla
Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica
e al Prefetto, il quale assegna al Consiglio un termine non
superiore a venti giorni per deliberare il dissesto. Se il Consiglio
non provvede in tal senso, il Prefetto nomina un commissario ad
acta con il compito di deliberare il dissesto e avviare la procedura
di scioglimento del Consiglio prevista dall’arte. 141 del T.U.E.L.
Per quanto riguarda, invece, i poteri repressivi, il D.L. 174/2012,
modificando il comma 5 e introducendo il comma 5bis all’art. 248
del T.U.E.L., dispone che gli amministratori che la Corte dei conti
ha riconosciuto, anche in primo grado, responsabili di aver
contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia
omissive che commissive, al verificarsi del dissesto finanziario,
non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di
assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di
enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e
privati. I sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili ai
sensi del periodo precedente, inoltre, non sono candidabili, per un
periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di
provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei
consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei
consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. Non
possono altresì ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la
carica di assessore comunale, provinciale o regionale nè alcuna
carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici. Ai medesimi
soggetti, se ritenuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali
della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria variabile da
cinque a venti volte la retribuzione mensile.
Qualora, a seguito della dichiarazione di dissesto, la Corte dei
conti accerti gravi responsabilità nello svolgimento dell’attività del
collegio dei revisori, o ritardata o mancata comunicazione,
secondo le normative vigenti, delle informazioni, i componenti del
collegio riconosciuti responsabili in sede di giudizio della predetta
Corte non possono essere nominati nel collegio dei revisori degli
enti locali e degli enti ed organismi agli stessi riconducibili fino a
dieci anni, in funzione della gravità accertata. La Corte dei conti
trasmette l’esito dell’accertamento anche all’ordine professionale
di appartenenza dei revisori per valutazioni relative all’eventuale
avvio di procedimenti disciplinari. Anche a tali soggetti la Corte
può irrogare sanzioni pecuniarie nella misura descritta in
precedenza a proposito degli amministratori.

Gli artt. 250-251 stabiliscono le modalità di riduzione delle spese e di


attivazione delle entrate proprie, imponendo delle restrizioni alla gestione del
bilancio.
L’intera gestione del bilancio durante la procedura di risanamento risente
dell’impossibilità dell’ente di impegnare somme complessivamente superiori a
quelle dell’ultimo bilancio approvato e comunque nei limiti delle entrate
accertate (ad eccezione delle spese imposte obbligatoriamente per legge);
inoltre l’ente deve applicare il principio della buona amministrazione per non
aggravare la sua posizione debitoria e mantenersi in coerenza con la sua ipotesi
di bilancio riequilibrato.
Per le spese disposte dalla legge e per quelle correlate ai servizi locali
indispensabili, laddove l’organo consiliare individui la mancanza di stanziamenti
nell’ultimo bilancio, dovrà individuare gli interventi da effettuare e soprattutto le
relative fonti di finanziamento.

Quali effetti ha la dichiarazione di dissesto sul fronte delle entrate?


Gli effetti della dichiarazione di dissesto appaiono particolarmente rilevanti
anche sul fronte delle entrate. Infatti il Consiglio dell’ente (o il commissario
ad acta) deve:

fissare con delibera, entro trenta giorni dalla esecutività della

dichiarazione di dissesto, le aliquote dei tributi locali e le tariffe nella


misura massima consentita. Fa eccezione la tassa sui rifiuti solidi
urbani per la quale è previsto che si debba stabilire per un periodo di

cinque anni una tariffa che assicuri la copertura totale dei costi sostenuti
per la gestione del servizio.

Tale delibera è irrevocabile e di durata quinquennale, il termine decorre


dalla data dell’ipotesi di bilancio riequilibrato;
per cinque anni a partire dall’anno dell’ipotesi di bilancio riequilibrato,

l’ente dovrà applicare le tariffe della tassa di smaltimento per i rifiuti

solidi urbani in misura tale da assicurare la copertura integrale dei costi di


gestione; per i servizi produttivi e per i canoni patrimoniali le tariffe
dovranno essere applicate nella misura massima consentita; per i servizi
a domanda individuale il costo di gestione dovrà essere coperto con i
proventi tariffari e con contributi finalizzati.
Le delibere sui tributi devono poi essere comunicate alla Commissione per la
stabilità finanziaria degli enti locali entro 30 giorni dalla data di adozione; in
caso di mancata osservanza delle predette disposizioni l’ente inadempiente
decade dai diritti ai contributi erariali.

4 IL RISANAMENTO

A L’organo straordinario di liquidazione

La procedura di risanamento che prende l’avvio dalla dichiarazione dello stato di


dissesto vede impegnati in particolare:

l’organo straordinario di liquidazione, cui compete il compito di ripianare

l’indebitamento precedente con i mezzi consentiti dalla legge;


gli organi istituzionali dell’ente, che devono assicurare la stabilità

dell’equilibrio della gestione finanziaria ed il superamento delle cause


strutturali che hanno determinato il dissesto.

L’art. 252 T.U.E.L. stabilisce che l’organo straordinario di liquidazione è


monocratico per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti mentre, per i
Comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti e per le Province, è
composto da una Commissione di tre membri. Il Commissario straordinario (o i
componenti della Commissione straordinaria) vengono nominati fra magistrati a
riposo o tra funzionari di vari Ministeri con decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del Ministro dell’Interno. L’organo deve insediarsi presso
l’ente entro 5 giorni dalla notifica dell’atto di nomina.

L’articolo in questione prosegue poi stabilendo che l’organo straordinario di


liquidazione è competente per i fatti e gli atti di gestione verificatisi entro il 31
dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato,
provvedendo alla:
rilevazione della massa passiva;

acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili anche mediante


alienazione dei beni patrimoniali;
liquidazione e pagamento della massa passiva.

B) Il piano di rilevazione della massa passiva

Per l’accertamento della massa passiva l’organo liquidatore è tenuto alla


redazione di un piano di rilevazione, entro 180 giorni dall’insediamento. Il
termine è elevato di ulteriori 180 giorni per i Comuni con popolazione superiore
a 250 mila abitanti o capoluogo di Provincia e per le Province (art. 254 T.U.E.L.).
Questo documento costituisce un elenco provvisorio dei creditori che hanno
titolo all’inserimento nella massa passiva, stilato sulla base dei documenti
trasmessi dall’ente e delle istanze presentate direttamente dai creditori.

Nel piano di rilevazione, secondo quanto stabilito dal comma 3, rientrano:

i debiti di bilancio e fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194, sorti entro il 31


dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato;

i debiti derivanti dalle procedure esecutive estinte ai sensi dell’art. 248,


comma 2;

i debiti derivanti da transazioni compiute dall’organo straordinario di


liquidazione.

Spetta inoltre all’organo straordinario di liquidazione l’inserimento nel piano di


rilevazione delle domande inoltrate dai creditori nonché dei debiti previsti dal
comma 3. Tale inserimento, che avverrà con provvedimento, da inoltrare a
coloro che ne hanno fatto richiesta al momento dell’approvazione dal piano
medesimo, deve tener conto degli elementi di prova del debito che risultano
dalla documentazione prodotta dal terzo interessato, o da altri atti tra cui
rientrano quelli previsti dal comma 4 dell’art. 254.
Con il deposito al Ministero dell’Interno il piano diviene esecutivo.

C) L’accertamento della massa attiva

Per poter definire un piano di estinzione della massa passiva, l’organo


straordinario di liquidazione deve preventivamente provvedere ad accertare la
massa attiva, costituita, ai sensi dell’art. 255 del T.U.E.L.:

dai residui ancora da riscuotere;

dai ratei dei mutui disponibili in quanto non ancora utilizzati dall’ente;

da altre entrate eventuali;


se necessari, dai proventi derivanti dall’alienazione di beni del patrimonio
disponibile;

dalla riscossione di ruoli pregressi emessi dall’ente e non ancora riscossi;


da quote dell’avanzo di amministrazione non vincolato.

È stabilito, inoltre, che nei confronti della massa attiva non siano ammessi
sequestri o procedure esecutive e, laddove queste ultime siano intraprese, non
determinano vincoli sulle somme (art. 255, comma 12).
Infine, qualora la massa attiva sia insufficiente e non vi sia modo di
incrementarla, il Ministro dell’interno, su proposta della Commissione per la
stabilità finanziaria degli enti locali, può stabilire misure straordinarie, anche in
deroga alla normativa vigente, per il pagamento integrale della massa passiva
affinché non sia irrimediabilmente compromesso il risanamento dell’ente. In tal
caso, però, nessun onere sarà a carico dello Stato (art. 256, comma 12).

D) Il piano di estinzione

Una volta accertati definitivamente la massa passiva ed i mezzi finanziari


disponibili, l’organo straordinario di liquidazione predispone il piano di
estinzione delle passività, che deve essere redatto non oltre 24 mesi
dall’insediamento, includendo anche le passività accertate successivamente
all’esecutività del piano di rilevazione dei debiti, e lo deposita presso il
Ministero dell’Interno. Quest’ultimo dispone di 120 giorni per l’approvazione del
piano. A tal fine si avvale del parere consultivo della Commissione per la
stabilità finanziaria degli enti locali, la quale può formulare rilievi e richieste
istruttorie cui l’organo straordinario di liquidazione è tenuto a rispondere.
Approvato e notificato il piano di estinzione, l’organo di liquidazione provvede,
entro 20 giorni, al pagamento delle residue passività, fino a concorrenza della
massa attiva realizzata.
Il procedimento termina con l’approvazione, entro 60 giorni dall’ultimazione
delle operazioni di pagamento, del rendiconto della gestione, che sarà
trasmesso all’organo di revisione contabile dell’ente per il riscontro della
liquidazione e la verifi​c a della rispondenza tra il piano di estinzione e l’effettiva
liquidazione.

E) Debiti non ammessi alla liquidazione

L’art. 257 stabilisce che deve essere allegato al decreto di approvazione del
piano di estinzione l’elenco delle pretese escluse dalla liquidazione il cui onere
grava sui soggetti responsabili e non sull’ente locale. Entro 60 giorni dalla
notifica del decreto, quindi, il Consiglio dell’ente individua, con delibera, i
soggetti responsabili di cui sopra, comunicandoli ai relativi creditori. In caso di
mancata attivazione entro i termini del Consiglio, il difensore civico regionale
nomina un commissario ad acta per l’adozione entro 60 giorni dei necessari
provvedimenti.

F) La procedura di liquidazione semplificata

L’art. 258 prevede la possibilità di definire la posizione debitoria dell’ente prima


di redigere il piano di rilevazione, estinguendo i debiti verso quei creditori che
accettino una loro riduzione tra il 40 e il 60 per cento.
L’organo straordinario di liquidazione, infatti, può proporre tale procedura all’ente
locale dissestato, che può accettare tale proposta con delibera della Giunta
entro trenta giorni (tale procedura non può però essere intrapresa per i crediti
da lavoro dipendente).
Se la proposta è accettata dai creditori, le somme loro spettanti devono essere
obbligatoriamente liquidate entro 30 giorni dalla conoscenza dell’accettazione
della proposta.
I debiti transatti vengono indicati in un apposito elenco che viene allegato al
piano di rilevazione della massa passiva. Per i debiti non transatti, invece, si
applica la procedura normale.
Infine, qualora vi sia eccedenza di disponibilità essa verrà utilizzata per ridurre,
prioritariamente, i mutui a carico dell’ente dissestato.

G) La procedura straordinaria di cui all’art. 268bis

L’art. 268bis del T.U.E.L. prevede una procedura straordinaria di risanamento. Il


ricorso a tale procedura è consentito qualora ricorrano le seguenti ipotesi:

l’organo straordinario di liquidazione non riesce a chiudere entro 24 mesi


la procedura del dissesto a causa delle difficoltà incontrate nel definire la
massa attiva e passiva;

nelle ipotesi di cui all’art. 268 (ricostituzione di disavanzo di


amministrazione o di debiti fuori bilancio);
massa attiva insufficiente a coprire la massa passiva o accertata

esistenza di ulteriori passività pregresse.

In tali casi, il Ministro dell’Interno, d’intesa con il sindaco dell’ente, dispone con
proprio decreto una chiusura anticipata e semplificata della procedura del
dissesto con riferimento a quanto già definito entro il trentesimo giorno
precedente.
A seguito della procedura straordinaria di dissesto a chi è affidata la
prosecuzione della gestione?
La prosecuzione della gestione è affidata ad una apposita Commissione
(nominata dal Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’Interno)
composta da 3 membri, in carica per un anno prorogabile per un altro anno, i
cui poteri e le cui attività gestionali ricalcano quelli dell’organo straordinario di
liquidazione. L’art. 268bis T.U.E.L. prevede un’ulteriore proroga di un anno di tale
commissione, previa richiesta motivata dell’ente, nel caso in cui l’organo
straordinario di liquidazione non riesca a concludere entro i termini di legge la
procedura di dissesto. La nuova disposizione, inoltre, estende la procedura
straordinaria per la prosecuzione del dissesto anche agli enti dissestati per i
quali gli organi di liquidazione hanno già approvato il rendiconto, senza che,
però, sia stato raggiunto un reale risanamento finanziario.
L’ente locale, dal canto suo, è tenuto ad accantonare un’apposita somma
(considerata spesa eccezionale a carattere straordinario) nei bilanci annuale e
pluriennale; tale somma è resa congrua con apposita delibera ogni anno. I piani
di impegno annuale e pluriennale sono sottoposti per il parere alla Commissione
per la stabilità finanziaria degli enti locali e sono approvati con decreto del
Ministro dell’Interno. Qualora i piani risultino non idonei a soddisfare i debiti
pregressi, il Ministro dell’Interno con apposito decreto, su parere della predetta
Commissione, dichiara la chiusura del dissesto.

5 IL BILANCIO STABILMENTE RIEQUILIBRATO

Mentre è compito dell’organo straordinario di liquidazione occuparsi del piano di


estinzione della massa passiva, il Consiglio dell’ente è tenuto ad occuparsi della
redazione di una ipotesi di bilancio di previsione stabilmente riequilibrato da
presentare al Ministro dell’Interno entro tre mesi dalla data di emanazione del
decreto di nomina dell’organo straordinario di liquidazione; il termine è sospeso
a seguito di indizione di elezioni amministrative per l’ente, dalla data di
indizione dei comizi elettorali e sino all’insediamento dell’organo esecutivo (art.
259). In questa ipotesi di bilancio di previsione, il riequilibrio è realizzato
aumentando le entrate proprie e riducendo le spese correnti secondo le
modalità previste dagli articoli 250 e 251 già descritte.
La riduzione delle spese correnti è attuata mediante una riorganizzazione con
criteri di efficienza di tutti i servizi sì da ridurre il più possibile tutte le
previsioni di spesa che non abbiano ad oggetto servizi pubblici indispensabili.
Tale riorganizzazione comporta anche la rideterminazione delle dotazioni
organiche del personale e l’individuazione del personale eccedente sulla base
di un confronto con i rapporti medi dipendenti-popolazione stabiliti con decreto
del Ministero dell’Interno a cadenza triennale. Essa deve così comportare una
riduzione della spesa per il personale in maniera tale che questa non superi il
50% della spesa media sostenuta a tale titolo nell’ultimo triennio antecedente.
L’art. 259 stabilisce, poi, che se il Consiglio non adempie agli obblighi suddetti in
ordine alla rideterminazione degli organici, il Ministro dell’Interno provvede a
denunciare i fatti alla Procura regionale della Corte dei conti. In tal caso
l’ente è autorizzato ad iscrivere nella parte entrata dell’ipotesi di bilancio un
importo pari al danno subito ed a mantenere tale importo tra i residui attivi
fino alla conclusione del giudizio di responsabilità.
Prima di giungere al Ministero dell’Interno l’ipotesi di bilancio di previsione
stabilmente riequilibrato deve passare il vaglio della Commissione per la
stabilità finanziaria degli enti locali.
Quindi, se la Commissione ritiene validi i contenuti della proposta, comunica la
stessa al Ministero dell’Interno che l’approva con decreto; in questo caso il
Consiglio provvede entro il termine di 30 giorni alla deliberazione del bilancio di
esercizio cui l’ipotesi si riferisce. Inoltre nel decreto di approvazione è fissato
anche un termine non superiore ai 120 giorni per la deliberazione di eventuali
altri bilanci di previsione o rendiconti non ancora deliberati (art. 264). Viceversa,
in caso di esito negativo, il Ministero emana un provvedimento di diniego
dell’approvazione prescrivendo al Consiglio di presentare entro 45 giorni dalla
notifica del diniego una nuova proposta la cui eventuale non approvazione è
definitiva (art. 261).
L’approvazione dell’ipotesi di bilancio segna l’inizio della fase finale del processo
di risanamento: riordinando la precedente normativa l’art. 265 T.U.E.L. fissa in 5
anni la durata del periodo di risanamento.

Quali sono le conseguenze per l’inosservanza del termine del


periodo di risanamento?

L’art. 262 attribuisce gravi conseguenze all’inosservanza dei termini per la


presentazione dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, o dei termini previsti per la
risposta alle richieste di chiarimenti da parte della Commissione sui suoi
contenuti, o del termine per la presentazione di una nuova proposta nel
momento in cui la prima sia stata rigettata con decreto del Ministero
dell’interno; infatti, in tutti questi casi, si ricade in una delle ipotesi, previste
dall’art. 141, di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale con
decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’Interno
(gravi violazioni di legge).
Analoga misura è prevista per l’ipotesi in cui il Ministro dell’Interno emani un
provvedimento definitivo di diniego; in tal caso, ai sensi dell’ultimo comma
dell’articolo 262, il commissario acquista i poteri necessari per il riequilibrio
della gestione, anche in deroga alle norme vigenti, comunque senza oneri a
carico dello Stato.

Una volta che è stata approvata l’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, al


fine di garantirne l’attuazione, spetta agli amministratori ordinari e straordinari
dell’ente eseguire tutte le prescrizioni contenute nel decreto di approvazione
della proposta e comunicare lo stato di attuazione in un apposito capitolo della
relazione sul rendiconto annuale per tutta la durata del risanamento che è,
come si è appena visto, pari a cinque anni dalla data in cui è redatta l’ipotesi di
bilancio riequilibrato.
L’organo di revisione dell’ente riferisce poi ogni tre mesi al Consiglio dell’ente
(così l’art. 265, comma 3). L’inosservanza delle prescrizioni del decreto è
configurata come reato (abuso di ufficio) e determina l’obbligo di segnalazione
all’autorità giudiziaria del fatto.

Glossario

Commissione per stabilità finanziaria degli enti locali: Commissione


operante presso il Ministero dell’Interno, avente il compito di controllare le
dotazioni organiche e le assunzioni di personale negli enti strutturalmente
deficitari e in quelli dissestati. Sempre in relazione all’attività di tali enti, la
Commissione deve rendere al Ministro dell’interno una serie di pareri
(relativi, ad esempio, al provvedimento di approvazione o diniego dell’ipotesi
di bilancio stabilmente riequilibrato o al provvedimento di sostituzione
totale o parziale dell’organo starordinario di liquidazione) e di proposte (in
merito all’adozione delle misure necessarie per il risanamento dell’ente
locale o per il pagamento della massa passiva in caso di insufficienza delle
risorse disponibili). Spetta, infine, alla Commissione approvare la
rideterminazione della pianta organica dell’ente locale dissestato.

Deficit: eccedenza delle uscite rispetto alle entrate, con riferimento sia al
bilancio delle imprese sia al bilancio dello Stato e degli altri enti pubblici.
CAPITOLO 11
LA TESORERIA

SOMMARIO

1 Il servizio di tesoreria. 2 Verifiche ordinarie e straordinarie di cassa. 3


Il conto del tesoriere. 4 La tesoreria unica. 5 Il superamento del sistema
di tesoreria unica: il D.Lgs. 279/1997 e la tesoreria mista. 6 La
sospensione del regime di tesoreria di cui al D.Lgs. 279/1997 e il
ripristino temporaneo della tesoreria unica.

1 IL SERVIZIO DI TESORERIA

A) Affidamento del servizio

Il servizio di tesoreria è rappresentato dal complesso degli atti e delle


operazioni mediante i quali i mezzi finanziari della P.A. vengono materialmente
raccolti, conservati ed impiegati per i pagamenti.

L’art. 208 T.U.E.L., come modificato dal D.Lgs. 126/2014, dispone che il
servizio di tesoreria può essere affidato:

per i Comuni capoluoghi di provincia, le Province, le Città metropolitane,

ad una banca autorizzata a svolgere l’attività di cui all’art. 10 del D.Lgs.


385/1993;
per i Comuni non capoluoghi di provincia, le Comunità Montane e le Unioni
di Comuni anche a società per azioni regolarmente costituite con
capitale sociale interamente versato non inferiore a 500.000 euro, aventi

per oggetto la gestione del servizio di tesoreria e la riscossione dei tributi


e che alla data del 25 febbraio 1995 erano incaricate dello svolgimento del

medesimo servizio (così l’art. 208 T.U.E.L. come modificato con L.


26/2001). A tali società la legge impone di adeguare il capitale sociale a

quello minimo richiesto per le banche di credito cooperativo;

altri soggetti autorizzati per legge (quindi, Poste Italiane S.p.A. ai sensi
dell’art. 40 L. 488/1998 e concessionari della riscossione tributi ai sensi

dell’art. 3 D.Lgs. 112/1999).

Il rapporto che si costituisce tra l’ente e l’affidatario del servizio viene regolato
con una convenzione, deliberata dall’organo consiliare.
Ciascun soggetto abilitato può assumere il servizio di tesoreria per conto di più
enti locali, purché mantenga contabilità separata. In ogni caso egli risponde con
tutte le proprie attività ed il proprio patrimonio per eventuali danni recati
all’ente così come è responsabile di tutti i depositi da lui gestiti intestati
all’ente (art. 211).

B Oggetto del servizio

Le attività svolte dal tesoriere possono essere così classificate:

attività connesse alla riscossione delle entrate;


attività connesse al pagamento delle spese;
attività connesse alla custodia di titoli e valori;

anticipazioni di tesoreria. Su richiesta dell’ente, e con delibera della

Giunta, il tesoriere può concedere allo stesso anticipazioni di tesoreria nel


limite però dei tre dodicesimi delle entrate accertate nel penultimo anno.

I principali adempimenti del tesoriere previsti dalla legge, connessi alla


gestione finanziaria dell’ente locale, sono:
la trasmissione periodica alla Regione di appartenenza dei dati della
gestione di cassa e degli elementi previsionali. L’art. 77quater del D.L.

112/2008, conv. in L. 133/2008, ha tuttavia esentato da tale compito i


tesorieri degli enti locali, in quanto già soggetti all’obbligo di inviare

quotidianamente al Sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici

(Siope) i dati relativi ai singoli titoli di entrata e di spesa; per l’effettiva


applicazione di tale norma è stato necessario, tuttavia, un periodo di

rodaggio, per cui solo a partire dal 2010, come previsto dal D.M.

23/12/2009, gli enti locali sono effettivamente dispensati dall’obbligo di


inviare la cd. trimestrale di cassa;

l’aggiornamento e la conservazione del giornale di cassa;


la conservazione dei verbali delle verifiche ordinarie e straordinarie di
cassa;

la conservazione delle rilevazioni periodiche di cassa previste dalla legge;


la resa del conto della gestione di cassa all’ente locale nel termine di 30

giorni dalla chiusura dell’esercizio finanziario.

Che cos’è il SIOPE?


Allo scopo di superare le disomogeneità tra i dati rilevati dai differenti sistemi
contabili delle varie amministrazioni pubbliche, è stato creato il Sistema
informativo delle operazioni degli enti pubblici (SIOPE), istituito dall’art.
28 della L. 289/2002. Si tratta di un sistema che consiste nella rilevazione
telematica degli incassi e dei pagamenti effettuati dai tesorieri degli enti, resi
omogenei attraverso una codifica uniforme. In tal modo è possibile migliorare
la conoscenza dei conti pubblici nazionali ed analizzare in tempo reale i dati di
finanza pubblica, per rispondere tempestivamente alle esigenze di verifica poste
dalle regole comunitarie.
Già dal 1° gennaio 2006 le Regioni, le Province autonome, le Province e i
Comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti sono tenuti ad indicare sui
titoli di entrata e di spesa i codici gestionali SIOPE, formalizzati dal Ministro
dell’Economia e delle Finanze; dal 1° gennaio 2007, infine, anche i Comuni con
popolazione inferiore a 20.000 abitanti devono rispettare tali disposizioni.

2 VERIFICHE ORDINARIE E STRAORDINARIE DI CASSA

L’operato del tesoriere viene controllato attraverso verifiche di cassa, ordinarie


o straordinarie.
Le verifiche ordinarie sono eseguite con cadenza trimestrale dall’organo di
revisione ed hanno ad oggetto anche la verifica della gestione del servizio
tesoreria e di quello degli altri agenti contabili interni. Ai controlli trimestrali
dell’organo di revisione possono aggiungersi le verifiche di cassa eseguite
dall’amministrazione con le modalità e nei termini previsti dal Regolamento di
contabilità dell’ente (art. 223).

Quali conseguenze comporta l’omissione delle verifiche?

L’omissione delle verifiche suddette per considerevoli periodi di tempo


comporta una diretta responsabilità dell’amministrazione e dell’organo di
revisione, sia che da questo comportamento omissivo derivi un ammanco, sia
che il protrarsi delle mancate verifiche abbia fatto solo concepire al tesoriere
l’indebita appropriazione senza attuarla. Nel primo caso l’ammanco di cassa
rilevato in sede giudiziaria sarà iscritto in bilancio tra i residui attivi provenienti
dall’esercizio nel quale esso si è verificato.
Invece, si provvede a verifica straordinaria di cassa a seguito del mutamento
della persona del Sindaco, del Presidente della Provincia, del Sindaco
metropolitano e del Presidente della Comunità montana. Alle operazioni di
verifica intervengono gli amministratori che cessano dalla carica e coloro che la
assumono, nonché il segretario, il responsabile del servizio finanziario e l’organo
di revisione dell’ente (art. 224).

3 IL CONTO DEL TESORIERE

Entro il termine di 30 giorni dalla chiusura dell’esercizio finanziario (art. 226,


comma 1, T.U.E.L.), il tesoriere, ai sensi dell’articolo 93 T.U.E.L. (responsabilità
patrimoniale), rende all’ente locale il conto della propria gestione di cassa.
L’ente provvede poi a trasmetterlo alla competente sezione giurisdizionale della
Corte dei conti entro 60 giorni dall’approvazione del rendiconto.

Quale documentazione deve essere allegata al conto redatto dal


tesoriere?
Il conto del tesoriere è redatto su modello approvato con l’allegato 17 al D.Lgs.
118/2011 e ad esso il tesoriere allega la seguente documentazione:

a. gli allegati di svolgimento per ogni singola tipologia di entrata e per ogni

singolo programma di spesa;

b. gli ordinativi di riscossione e di pagamento;

c. la parte delle quietanze originali rilasciate a fronte degli ordinativi di

riscossione e di pagamento o, in sostituzione, i documenti

meccanografici contenenti gli estremi delle medesime;

d. eventuali altri documenti richiesti dalla Corte dei conti.


4 LA TESORERIA UNICA

Il sistema della tesoreria unica era stato introdotto dalla L. 720/1984, al fine di
evitare dispersioni di fondi e di incentivare gli enti pubblici ad un più efficiente
uso delle risorse a propria disposizione ed era obbligatorio per tutti gli enti ed
organismi pubblici elencati nelle tabelle A e B allegate alla L. 720/1984.
Ciascuno degli enti compresi nella tabella A, fra cui rientra la maggior parte
degli enti locali, deve avvalersi di una banca per lo svolgimento del servizio di
tesoreria vero e proprio; tali banche (cui viene attribuita la qualifica giuridica di
organo di esecuzione) hanno l’obbligo di accendere presso la tesoreria
provinciale dello Stato (Banca d’Italia) delle contabilità speciali (fruttifere ed
infruttifere) sulle quali avviene effettivamente l’esecuzione delle operazioni di
incasso e di pagamento. La natura di queste contabilità speciali dipende dalle
caratteristiche delle entrate che le alimentano: le entrate proprie dell’ente
(proventi di servizi pubblici erogati, gestione di beni patrimoniali etc.) sono
depositate su di una contabilità speciale fruttifera, mentre quelle derivanti da
trasferimenti dello Stato o da mutui sono depositate su contabilità speciali
infruttifere. Le operazioni di pagamento, inoltre, sono addebitate in primo luogo
alla contabilità speciale fruttifera, fino all’esaurimento dei relativi fondi.

5 IL SUPERAMENTO DEL SISTEMA DI TESORERIA UNICA: IL D.LGS.


279/1997 E LA TESORERIA MISTA

Il sistema di tesoreria unico era stato introdotto dalla L. 720/1984 allo scopo di
creare un sistema unitario di gestione delle giacenze di cassa, in un periodo
storico in cui si parlava ancora poco di autonomia degli enti locali e, anzi, si
sentiva la necessità di sollecitare tali enti ad un uso più produttivo delle
risorse.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, tuttavia, si è sentita l’esigenza
di responsabilizzare gli amministratori locali attribuendo loro una maggiore
autonomia gestionale in materia finanziaria e di cassa e decidendo di sostituire
gradualmente il sistema di tesoreria unica con un sistema cd. misto (art. 7,
D.Lgs. 279/1997).
In base a tale sistema, le entrate proprie degli enti locali non devono essere più
versate alla tesoreria provinciale ma rimangono nelle giacenza di cassa
detenuta presso il proprio tesoriere. Resta invece acceso il conto corrente
infruttifero destinato ad accogliere le entrate derivanti da contributi statali.

Va ricordato che la L. 449/1997 (Finanziaria 1998), per favorire la


graduale soppressione del sistema di tesoreria unica, ha mirato a
ridurre le giacenze degli enti obbligati a tenere le disponibilità
liquide nelle contabilità speciali o in conto corrente con il Tesoro,
disponendo che venissero stabiliti, con decreto ministeriale, dei
limiti a tali giacenze. Dal 1° gennaio 2008, tuttavia, tali limiti sono
stati aboliti.

Per realizzare il passaggio al sistema di tesoreria mista, il legislatore, in via


sperimentale, è partito dagli enti di minore dimensione (i Comuni con
popolazione inferiore a 1.000 abitanti) per poi estendere progressivamente il
nuovo sistema anche agli enti più grandi. Infatti, sono fuoriusciti dal sistema di
tesoreria unica:

dal 1° luglio 1998 i Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti (L.
449/1997);

dal 1° gennaio 1999 i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti (D.
Lgs 279/1997);
dal 1° marzo 2001 le Province e i Comuni con meno di 10.000 abitanti (L.
388/2000);
Il D.L. 112/2008 ha completato tale percorso disponendo che tutti gli enti locali
siano assoggettati al sistema misto a partire dal 1° gennaio 2009.

6 LA SOSPENSIONE DEL SISTEMA DI TESORERIA DI CUI AL D.LGS.


279/1997 E IL RIPRISTINO TEMPORANEO DELLA TESORERIA UNICA

La necessità dello Stato di raccogliere liquidità al fine di limitare l’emissione di


titoli pubblici e di ridurre, quindi, la spesa per interessi, enormemente cresciuta
a partire dal 2011 a causa delle tensioni sul debito pubblico italiano, ha spinto il
legislatore ha fare una vera e propria marcia indietro nel processo di
superamento del tradizionale sistema di tesoreria unica.
Il D.L. 1/2012, conv. in L. 27/2012, ha infatti disposto la sospensione, a
decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto stesso (24 gennaio 2012) e
fino al 31 dicembre 2017 (termine così prorogato dalla L. 190/2014) del
sistema di tesoreria cd. misto previsto dall’art. 7 del D.Lgs. 279/1997,
stabilendo che gli enti locali siano nuovamente assoggettati alle disposizioni di
cui alla L. 720/1984, con la sola esclusione delle disponibilità derivanti da
operazioni di mutuo o di prestito poste in essere da tali enti senza alcun
contributo da parte dello Stato, delle Regioni e delle altre pubbliche
amministrazioni.

Glossario

Concessionari della riscossione: società alle quali viene affidata la


riscossione dei tributi mediante un’apposita concessione. Il servizio è svolto
all’interno di circoscrizioni territoriali che prendono il nome di ambiti, la cui
estensione non è mai inferiore al territorio di una provincia.

Servizio di tesoreria provinciale: servizio affidato dallo Stato alla Banca


d’Italia, che lo esercita tramite le sue sedi e succursali in ogni capoluogo di
Provincia. Fra i compiti delle tesorerie provinciali rientrano le operazioni
riguardanti il debito pubblico e la Cassa Depositi e Prestiti, il ricevimento
dei versamenti e il rilascio delle relative quietanze, il ricevimento dei titoli
di spesa e il pagamento a favore dei beneficiari.
CAPITOLO 12
I CONTROLLI INTERNI ED ESTERNI SULLA GESTIONE

SOMMARIO

1 I controlli interni nell’ambito delle pubbliche amministrazioni. 2 Il


controllo di gestione. 3 I controlli esterni sulla gestione: la Corte dei
conti.

1 I CONTROLLI INTERNI NELL’AMBITO DELLE PUBBLICHE


AMMINISTRAZIONI

Il D.Lgs. 286/1999
L’esposizione del sistema dei controlli interni negli enti locali non può
prescindere da una, sia pure sommaria, analisi del D.Lgs. 286/1999, attuativo
della L. 59/1997 (cd. Legge Bassanini). Tale provvedimento, invero, ha disposto
il Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e
valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle
amministrazioni pubbliche.
Esso costituisce una decisa rivitalizzazione dei controlli di risultato e dei
controlli interni, contenendo precise indicazioni di metodo, di merito e di
organizzazione per la diffusione della «cultura della valutazione» anche
nell’amministrazione italiana.
Il riordino di cui al D.Lgs. 286/1999 rappresenta un punto di partenza e allo
stesso tempo la necessaria conclusione di una operazione di globale riforma
dell’intera amministrazione pubblica che, da una anacronistica valutazione
unilaterale degli interessi pubblici, tende sempre più a porsi al servizio dei
cittadini garantendo una migliore qualità dei servizi offerti. Ciò grazie
all’introduzione del concetto aziendalistico di «sana amministrazione», che
concretizza i criteri dell’efficienza, efficacia ed economicità mediante la
valutazione e misurazione dell’attività svolta.
Il D.Lgs. 286/1999 individua quattro diversi sistemi di controllo (art. 1,
comma 1):

1. il controllo di regolarità amministrativa e contabile, volto a garantire

la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa. Si noti

che la disciplina relativa a tale forma di controllo è stata profondamente

innovata dal D.Lgs. 123/2011 e, con particolare riferimento agli enti

locali, dal D.L. 174/2012, conv. in L. 213/2012;

2. il controllo di gestione, volto a verificare l’efficacia, l’efficienza ed

economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche

mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e

risultati;

3. la valutazione dei dirigenti, diretta a valutare le prestazioni del

personale con qualifica dirigenziale. In tale ambito la disciplina prevista

dal suddetto decreto all’art. 5 è stata abrogata, a partire dal 30 aprile

2010, dal D.Lgs. 150/2009, che ha delineato un nuovo sistema di

valutazione della performance dei pubblici dipendenti;

4. il controllo strategico, volto a valutare l’adeguatezza delle scelte

compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di

determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati

conseguiti e obiettivi predefiniti.


A) I controlli interni nel T.U.E.L.

Nella sua versione originaria, l’art. 147 del T.U. riproponeva sostanzialmente le
quattro forme di controllo previste dal D.Lgs. 286/1999, lasciando all’autonomia
normativa e organizzativa degli enti locali il compito di individuare gli strumenti
e le metodologie necessari e disciplinando in modo più puntuale e dettagliato il
solo controllo di gestione (cfr. §2).

Il D.L. 174/2012, conv. in L. 213/2012, modificando il suddetto art. 147


T.U.E.L., ha provveduto a rafforzare e riordinare il sistema dei controlli interni
negli enti locali, individuando cinque macroaree.

1. Il controllo di regolarità amministrativa e contabile (art. 147bis,

T.U.E.L.)

Questo tipo di controllo è assicurato, nella fase preventiva della

formazione dell’atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato

attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la

regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa.

Il controllo contabile è effettuato dal responsabile del servizio finanziario

ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e

del visto attestante la copertura finanziaria. Nella fase successiva,

esso è assicurato secondo principi generali di revisione aziendale e

modalità definite nell’ambito dell’autonomia organizzativa dell’ente, sotto

la direzione del segretario, in base alla normativa vigente. Sono soggette

al controllo le determinazioni di impegno di spesa, i contratti e gli


altri atti amministrativi, scelti secondo una selezione casuale effettuata

con motivate tecniche di campionamento.

I risultati del controllo sono trasmessi periodicamente, a cura del

segretario, ai responsabili dei servizi, ai revisori dei conti e agli organi di

valutazione dei risultati dei dipendenti, come documenti utili per la

valutazione, e al Consiglio comunale.

2. Il controllo strategico (art. 147ter, T.U.E.L.)

Per verificare lo stato di attuazione dei programmi secondo le linee

approvate dal Consiglio, gli enti locali con popolazione superiore a 100.000

abitanti (ma tale obbligo è esteso dal 2014 agli enti con più di 50.000

abitanti e dal 2015 a quelli con più di 15.000 abitanti) definiscono, secondo

la propria autonomia organizzativa, metodologie di controllo strategico

finalizzate alla rilevazione dei risultati conseguiti rispetto agli obiettivi

predefiniti, degli aspetti economico-finanziari connessi ai risultati ottenuti,

dei tempi di realizzazione rispetto alle previsioni, delle procedure

operative attuate confrontate con i progetti elaborati, della qualità dei

servizi erogati e del grado di soddisfazione della domanda espressa, degli

aspetti socio-economici. Tali enti, inoltre, possono esercitare in forma

associata la funzione di controllo strategico.


L’unità preposta al controllo strategico elabora rapporti periodici, da

sottoporre all’organo esecutivo e al Consiglio per la successiva

predisposizione di deliberazioni consiliari di ricognizione dei programmi,

secondo modalità da definire con il regolamento di contabilità dell’ente in

base a quanto previsto dallo statuto.

3. I controlli sulle società partecipate non quotate (art. 147quater,

T.U.E.L.)

Gli enti locali con popolazione superiore a 100.000 abitanti (obbligo esteso

dal 2014 agli enti con più di 50.000 abitanti e dal 2015 a quelli con più di

15.000 abitanti) devono predisporre un sistema di controllo sulle società

non quotate, partecipate dagli enti stessi.

In pratica l’amministrazione definisce preventivamente, in riferimento al

Documento unico di programmazione (DUP), di cui all’art. 170 T.U.E.L., gli

obiettivi gestionali a cui deve tendere la società partecipata, secondo

standard qualitativi e quantitativi, e organizza un idoneo sistema

informativo finalizzato a rilevare i rapporti finanziari tra l’ente proprietario

e la società, la situazione contabile, gestionale e organizzativa delle

società, i contratti di servizio, la qualità dei servizi, il rispetto delle norme

di legge sui vincoli di finanza pubblica.


Sulla base delle informazioni così raccolte, l’ente locale effettua il

monitoraggio periodico sull’andamento delle società non quotate

partecipate, analizza gli scostamenti rispetto agli obiettivi assegnati e

individua le opportune azioni correttive, anche in riferimento a possibili

squilibri economico-finanziari rilevanti per il bilancio dell’ente.

A partire dal 2015, i risultati complessivi della gestione dell’ente locale e

delle aziende non quotate partecipate sono rilevati mediante bilancio

consolidato, redatto secondo criteri di competenza economica e

predisposto in base alle modalità previste dal D.Lgs. 118/2011.

4. Il controllo sugli equilibri finanziari (art. 147quinquies, T.U.E.L.)

Il controllo sugli equilibri finanziari è svolto sotto la direzione e il

coordinamento del responsabile del servizio finanziario e mediante la

vigilanza dell’organo di revisione, prevedendo il coinvolgimento attivo degli

organi di governo, del direttore generale, ove previsto, del segretario e dei

responsabili dei servizi, secondo le rispettive responsabilità.

Tale forma di controllo è disciplinata nel regolamento di contabilità

dell’ente ed è svolto nel rispetto delle disposizioni dell’ordinamento

finanziario e contabile degli enti locali, e delle norme che regolano il

concorso degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza


pubblica, nonché delle norme di attuazione dell’articolo 81 della

Costituzione.

Il controllo sugli equilibri finanziari implica anche la valutazione degli

effetti che si determinano per il bilancio finanziario dell’ente in relazione

all’andamento economico-finanziario degli organismi gestionali esterni.

2 IL CONTROLLO DI GESTIONE

Introduzione
La quinta forma di controllo indicata dall’art. 147 T.U.E.L. è rappresentata dal
controllo di gestione; si tratta dell’unico tipo di controllo che il Testo Unico
disciplinava in modo organico ancor prima delle modifiche introdotte dal D.L.
174/2012.
Ai sensi degli artt. 196-198 T.U.E.L., il controllo di gestione deve essere
esercitato «al fine di garantire la realizzazione degli obiettivi programmati, la
corretta ed economica gestione delle risorse pubbliche, l’imparzialità ed il buon
andamento della pubblica amministrazione e la trasparenza dell’azione
amministrativa».
Tale dettagliata disciplina definisce le finalità, l’oggetto, i modi di esercizio e i
referenti del controllo. Tuttavia, tranne la previsione dell’art. 196 che qualifica il
controllo di gestione, l’autonomia organizzativa degli enti locali può esercitarsi
tramite i regolamenti di contabilità sui restanti aspetti dello stesso controllo, a
norma dell’art. 152 del T.U.E.L.
Il controllo di gestione deve riguardare «l’intera attività amministrativa e
gestionale» degli enti. La finalità del controllo di gestione viene individuata
nella verifica dello stato di attuazione degli obiettivi programmati, della
funzionalità dell’organizzazione dell’ente, nonché della efficacia ed efficienza
dell’attività svolta.
Il controllo stesso si articola in almeno tre fasi che comprendono:

la predisposizione del piano esecutivo di gestione;


la rilevazione dei dati in ordine ai costi, proventi e risultati raggiunti
(efficienza);

la valutazione degli stessi dati in rapporto agli obiettivi per verificarne lo

stato di attuazione (efficacia).

Le conclusioni del controllo sono comunicate agli amministratori, con riguardo


allo stato di attuazione degli obiettivi programmati, ai responsabili dei servizi
con riguardo all’andamento della gestione e alla Corte dei conti (art. 198bis
T.U.E.L.).
La regolamentazione del procedimento di controllo è invece caratterizzata
dall’autonomia degli enti locali nel definirne le caratteristiche puntuali, con il
rispetto di alcuni requisiti minimi: presenza delle tre fasi predette; riferimento
ai servizi e centri di costo; utilizzo, per la comparazione tra enti, del rapporto
annuale sui parametri gestionali redatto dal Ministero dell’Interno.

A) La contabilità analitica

L’introduzione del controllo di gestione ha quale imprescindibile presupposto lo


sviluppo della contabilità analitica: quest’ultima può essere definita come il
sistema di predeterminazione, rilevazione, imputazione, assegnazione,
controllo e analisi dei costi e dei ricavi della gestione (BELLESIA). Solo
l’individuazione dei diversi centri di costo, infatti, può permettere il
monitoraggio dei costi e la valutazione dei risultati economici.
Da un punto di vista operativo, il primo passo per introdurre il controllo di
gestione deve dunque consistere nell’individuare i cosiddetti centri di
responsabilità, ovvero quelle unità organizzative preposte alla realizzazione di
determinati obiettivi e che sono poste alle dipendenze di un
dirigente/responsabile del servizio che risponde dei risultati raggiunti. È
evidente, data la stretta connessione degli argomenti, che l’individuazione dei
centri di responsabilità potrà utilmente avvalersi delle informazioni ricavabili dal
Piano esecutivo di gestione: in quest’ultimo documento, come si ricorderà, una
delle fasi principali era appunto costituita dall’individuazione dei dirigenti e dei
relativi obiettivi da assegnare loro.
Vanno quindi evidenziati i centri di costo, ovvero le unità organizzative cui
possono essere ricondotte le decisioni di spesa. In genere più centri di costo
fanno capo ad un solo centro di responsabilità ma è altrettanto usuale che i
costi di un singolo centro di costo siano ripartiti fra più centri di responsabilità.
Ogni centro di costo va poi disarticolato prima in macro-attività (ovvero le
principali funzioni svolte) e poi in micro-attività (funzioni analitiche svolte
all’interno di ogni macro-attività) per poter attribuire i costi dei fattori
produttivi (risorse umane, finanziarie e strumentali) di ogni singolo centro di
costo. In tal modo è possibile rilevare da un punto di vista contabile i costi di
un intero processo produttivo di un bene o di un servizio evidenziando anche
quei costi che, da un punto di vista organizzativo, afferiscono ad altre unità.

B) Il sistema degli indicatori

Per l’effettivo sviluppo del controllo di gestione occorre dotarsi di strumenti che
permettano la comparazione fra obiettivi assegnati, attività svolta e costi
sostenuti. È dunque necessario elaborare degli indicatori di risultato, ovvero
quozienti fra quantità e/o valori tratti dai documenti contabili e capaci di
misurare i risultati raggiunti.

È possibile elaborare diverse tipologie di indicatori (monetari; fisici; temporali;


qualitativi etc.) ma la suddivisione più nota (e più utile) è quella fra:

indicatori di efficienza, che esprimono il rapporto fra il costo e il prodotto


di una determinata attività;
indicatori di efficacia, che esprimono il rapporto fra il prodotto di una
determinata attività e l’obiettivo assegnato. Possono essere di natura

quantitativa (es: numero di domande soddisfatte/numero di domande


presentate) o qualitativa (es: grado di soddisfazione degli

utenti/aspettative qualitative degli stessi);


indicatori di economicità, che esprimono il grado di copertura dei costi di

gestione del servizio attraverso un determinato ammontare di proventi

generati dal servizio stesso.

L’ordinamento contabile degli enti locali prevede l’obbligo di allegare al


rendiconto diverse tabelle di indicatori finanziari, economici, di efficacia e di
efficienza: al di là dell’obbligo giuridico, va comunque sottolineato che ciascun
ente è libero di adattare (per i propri fini particolari e per le proprie esigenze)
tali indicatori e di elaborarne di nuovi.

Dall’elaborazione di tali indici, infatti, sarà possibile ricavare utili indicazioni:

per la fase della programmazione (redazione dei bilanci previsionali e del


PEG), poiché le risorse e gli obiettivi potranno essere attribuiti con

maggior cognizione di causa;


per monitorare l’andamento della gestione e la verifica della salvaguardia

degli equilibri di bilancio, attività che l’art. 193 del T.U. dispone venga
effettuata almeno una volta all’anno entro il 30 settembre (termine poi
anticipato al 31 luglio dal D.Lgs. 126/2014);

per il riscontro a fine esercizio delle previsioni iniziali e per la valutazione

dell’operato dei dirigenti.

3 I CONTROLLI ESTERNI: LA CORTE DEI CONTI

Ai controlli interni appena descritti si aggiungono quelli esterni, svolti cioè da


organi terzi rispetto agli enti locali. Un ruolo rilevante in questo ambito è quello
della Corte dei conti.
L’intervento legislativo in materia si è realizzato in due tempi, dapprima con il
D.L. 786/1981, conv. in L. 51/1982, e poi con la L. 20/1994.
Il primo provvedimento ha istituito un’apposita sezione centrale di controllo
(sezione Enti Locali, poi denominata sezione Autonomie), stabilendo che tutti i
Comuni e le Province con più di 8.000 abitanti trasmettano i propri conti
consuntivi a tale sezione, la quale, entro il 31 luglio di ogni anno, trasmette ai
Presidenti delle Camere il piano delle rilevazioni che intende compiere e i criteri
cui si attiene nell’esame dei conti medesimi.
Il secondo provvedimento ha introdotto il controllo successivo sulla gestione
del bilancio e del patrimonio delle pubbliche amministrazioni, attribuendo alla
Corte il compito di verificare la legittimità e la regolarità della gestione e il
corretto funzionamento dei controlli interni, nonché di accertare ex post che le
procedure e i mezzi utilizzati, comparati a quelli impiegati in situazioni simili,
siano stati ottimali quanto a costi, speditezza ed efficienza organizzativa.
In tale ottica, l’art. 148 del T.U.E.L., come sostituito dal D.L. 174/2012,
prevede che le sezioni regionali della Corte verifichino, con cadenza annuale, il
funzionamento dei controlli interni ai fini del rispetto delle regole contabili e
dell’equilibrio di bilancio di ciascun ente locale, nonché il piano esecutivo di
gestione, i regolamenti e gli atti di programmazione e pianificazione degli enti
locali. A tale fine, il Sindaco, relativamente ai Comuni con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti, o il Presidente della Provincia, avvalendosi
del direttore generale, quando presente, o del segretario negli enti in cui non è
prevista la figura del direttore generale, trasmette annualmente alla
sezione regionale di controllo della Corte dei conti un referto sul sistema
dei controlli interni adottato, sulla base delle Linee guida deliberate dalla
Sezione delle autonomie della Corte dei conti e sui controlli effettuati nell’anno;
il referto è, altresì, inviato al Presidente del consiglio comunale o provinciale
(così dopo le modifiche introdotte dal D.L. 91/2014, conv. in L. 116/2014).
In caso di assenza o di inadeguatezza del referto di cui sopra, le sezioni
giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano agli amministratori
responsabili una sanzione pecuniaria che può variare da cinque a venti volte la
retribuzione mensile lorda.
Introducendo l’art. 148bis del T.U.E.L., il D.L. 174/2012 dispone un
ulteriore rafforzamento del controllo della Corte dei conti sulla gestione
finanziaria degli enti locali, stabilendo che:

le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti esaminano i bilanci

preventivi e i rendiconti consuntivi degli enti locali ai sensi dell’articolo 1,


commi 166 e seguenti, della L. 266/2005, per la verifica del rispetto degli

obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno, dell’osservanza del

vincolo previsto in materia di indebitamento dall’articolo 119, sesto

comma, della Costituzione, della sostenibilità dell’indebitamento,

dell’assenza di irregolarità suscettibili di pregiudicare, anche in


prospettiva, gli equilibri economico-finanziari degli enti;
l’accertamento di squilibri economico-finanziari, della mancata copertura

di spese, della violazione di norme atte a garantire la regolarità della


gestione finanziaria e del mancato rispetto del patto di stabilità interno

comporta per gli enti interessati l’obbligo di adottare, entro sessanta


giorni dalla comunicazione della pronuncia di accertamento, i
provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri

di bilancio. Tali provvedimenti sono trasmessi alle sezioni regionali di


controllo della Corte dei conti che li verificano nel termine di trenta giorni
dal ricevimento. Qualora l’ente non provveda alla trasmissione dei suddetti

provvedimenti o la verifica delle sezioni regionali di controllo dia esito


negativo, è preclusa l’attuazione dei programmi di spesa per i quali è
stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa
sostenibilità finanziaria.
Infine, ai sensi dell’art. 198bis del Testo Unico, il referto relativo al controllo
di gestione va trasmesso (oltre che agli amministratori ed ai responsabili del
servizio) anche alla Corte dei conti.

Glossario

Economicità: il principio di economicità impone alla P.A. la realizzazione


del massimo risultato in relazione ai mezzi a sua disposizione, ossia il
conseguimento degli obiettivi legislativamente statuiti con il minor
dispendio di mezzi e di strumenti, ove per mezzi non si intendono solo
quelli di natura squisitamente economica, ma anche e soprattutto quelli di
carattere procedurale.

Corte dei conti: La Corte dei conti non costituisce organo costituzionale,
ma di rilevanza costituzionale perché, sebbene nominato nella Costituzione,
è privo di poteri sovrani.

Fra le molteplici e complesse attribuzioni della Corte dei conti è possibile


procedere ad una classificazione per tipi fondamentali distinguendo:

attribuzioni in funzione di controllo;

attribuzioni in funzione consultiva;


attribuzioni in funzione giurisdizionale.

Ai sensi degli articoli 100 e 103 Cost. la Corte dei conti è la suprema
magistratura di controllo.
CAPITOLO 13
I BENI DEGLI ENTI LOCALI

SOMMARIO

1 I beni pubblici. 2 I beni demaniali. 3 Il regime giuridico dei beni


demaniali. 4 L’utilizzazione dei beni demaniali. 5 Acquisto e perdita della
demanialità. 6 I beni patrimoniali. 7 I beni patrimoniali indisponibili. 8 Il
regime giuridico dei beni patrimoniali indisponibili. 9 Beni patrimoniali
disponibili: concetto e regime giuridico. 10 Demanio e patrimonio di
Province e Comuni. 11 I principali beni demaniali e patrimoniali degli enti
territoriali. 12 Il trasferimento agli enti locali di beni immobili dello
Stato: la L. 42/2009 e il D.Lgs. 85/2010 (cd. federalismo demaniale).

1 I BENI PUBBLICI

La disciplina relativa ai beni pubblici è contenuta negli articoli 822 e seguenti


del Codice Civile, nel capo ove si tratta dei beni appartenenti allo Stato ed agli
enti pubblici; di essi si tratta, inoltre, nel R.D. 2440/1923, già citato, e nel
relativo regolamento di esecuzione.
I beni pubblici sono così definiti dalla legge sulla contabilità generale dello Stato
proprio per evidenziarne la natura pubblicistica: devono dunque necessariamente
appartenere allo Stato o ad altro ente pubblico.

In particolare, possono essere titolari di beni pubblici:

le Regioni;

le Province ed i Comuni;
gli enti istituzionali, siano essi economici o di mera erogazione di servizi,
comunque titolari di una competenza territoriale più o meno vasta e
pertanto — come osserva BUSCEMA — operanti nell’orbita di un ente

territoriale.

I beni pubblici si distinguono in:

beni demaniali;

beni patrimoniali indisponibili.

2 I BENI DEMANIALI

Sono quei beni che, per natura o per espressa disposizione di legge, servono in
modo diretto a soddisfare bisogni collettivi, onde vengono sottoposti a speciali
vincoli (BENNATI).

Essi presentano due caratteri fondamentali:

sono sempre beni immobili o universalità di beni mobili;


devono appartenere ad enti pubblici territoriali (in pratica, allo Stato,

alle Regioni, alle Province e ai Comuni).

I beni demaniali si distinguono a loro volta in:

beni del demanio necessario: vi rientrano quei beni che, per la loro

utilità generale, non possono che appartenere allo Stato o ad altri enti
pubblici territoriali (demanio idrico, marittimo, militare);
beni del demanio accidentale: vi rientrano quei beni che possono anche
non essere demaniali e che tali sono solo se appartenenti ad un ente

pubblico territoriale (demanio stradale, aeronautico, ferroviario,


archeologico, culturale etc.).
3 IL REGIME GIURIDICO DEI BENI DEMANIALI

I beni che fanno parte del demanio pubblico:

sono inalienabili, per cui ogni atto di trasferimento del bene demaniale

(compravendita, donazione etc.) è nullo (823 c.c.).

Essi possono essere trasferiti dal demanio di un ente pubblico ad un altro


ente pubblico. Per essere alienati, occorre prima che essi siano

sdemanializzati, ovvero che venga meno la loro demanialità. Con criterio

rigoroso la giurisprudenza richiede «atti univoci e concludenti,

incompatibili con la volontà della P.A. di conservare la destinazione del


bene all’uso pubblico» e «circostanze così giustificative da rendere

inconcepibile un’ipotesi diversa da quella che l’Amministrazione stessa


abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del
bene». In tale situazione può sopravvenire il decreto del Ministro

dell’economia e delle finanze che destinerà il bene ad altro uso (art. 829
c.c.);
non sono acquisibili per usucapione da parte di nessuno, in quanto non

possono formare oggetto di diritti di terzi, se non nei modi e limiti


stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 823 c.c.);

il diritto di proprietà «pubblica» su di essi da parte dell’ente è


naturalmente imprescrittibile;
sono inespropriabili, sia a titolo di esecuzione forzata che per pubblica
utilità.
La demanialità del bene coinvolge anche:

le sue pertinenze, cioè le cose destinate durevolmente a


ornamento o servizio del bene (es.: case cantoniere lungo le
strade statali);

le servitù costituite a favore del bene demaniale (servitù di

via alzaia, di stillicidio, etc.).

Non hanno invece carattere demaniale:

le accessioni che, pur facendo parte dei beni demaniali, non


partecipano della loro funzione economica;

i frutti dei beni demaniali a meno che, prima del distacco,


non sia possibile qualificarli «pertinenze».

4 L’UTILIZZAZIONE DEI BENI DEMANIALI

I beni demaniali sono destinati a finalità di interesse pubblico e in funzione di


ciò essi sono dalla legge sottoposti al regime già esaminato. Tale interesse può
essere raggiunto sia attraverso l’uso del bene da parte dell’Amministrazione
pubblica che attraverso l’uso da parte della collettività (es.: spiagge libere) o di
soggetti determinati (es.: concessione di spiaggia ad un soggetto in esclusiva
per lo svolgimento di attività economiche di interesse pubblico). Talora, poi, uno
stesso bene è utilizzato sia dall’Amministrazione che dalla collettività (es.: le
strade militari aperte al pubblico transito). In quest’ultimo caso la dottrina
parla di beni di uso promiscuo.

Pertanto, la destinazione dei beni demaniali può essere la seguente:


uso diretto: si ha nei casi in cui i beni demaniali sono strumenti che
l’Amministrazione pubblica utilizza per lo svolgimento dei propri compiti

istituzionali (es.: attraverso i beni del demanio militare, lo Stato provvede


alla difesa nazionale);

uso generale: allorquando l’interesse pubblico è conseguito mediante il

godimento dei beni demaniali da parte della collettività (es.: i beni del
demanio marittimo, idrico e stradale);

uso particolare: ricorre nell’ipotesi in cui il bene serve l’interesse

pubblico mediante l’uso riservato a determinati soggetti, pubblici o privati,


individuati dalla P.A. attraverso un atto di licenza (come avviene ad es. per

la navigazione sulle acque fluviali);


uso eccezionale: se interviene un atto di concessione con cui la P.A.
attribuisce al concessionario diritti di natura privatistica assimilabili ai

diritti sui beni altrui (concessione di occupazione di suolo pubblico).

Il rapporto di concessione risulta regolato congiuntamente da:

un atto unilaterale della pubblica amministrazione; tale atto


di concessione è l’indispensabile presupposto del
successivo atto negoziale privato;

un disciplinare contrattuale fra il privato e la pubblica


amministrazione con cui viene regolamentato il rapporto
instaurato in dipendenza della concessione perfezionata.
5 ACQUISTO E PERDITA DELLA DEMANIALITÀ

Per l’acquisto e la perdita della demanialità occorre distinguere tra:

beni demaniali per natura: per quei beni che sono demaniali per natura
(fiumi, laghi etc.), l’acquisto o la perdita della demanialità coincide con

l’esistenza o il venir meno del bene stesso (ad es., prosciugamento di un

fiume).

Quindi l’acquisto o perdita di tale classifica è legata ad un fatto naturale


(con effetti giuridici) e non ad un atto giuridico;

beni del demanio artificiale necessario: per i beni costruiti dall’uomo e


rientranti nelle categorie di beni demaniali necessari (porti, fortezze etc.)

la definizione delle cause di acquisto e perdita della demanialità è più


difficile: in linea generale è la proprietà del bene da parte dell’ente

pubblico territoriale, unitamente alla destinazione di esso, a costituire il


presupposto per un’automatica inclusione nella categoria.

L’avvenuta costruzione di un porto automaticamente lo


inserisce tra i beni demaniali (dello Stato, o della Regione nei
casi eccezionali già visti).

Anche qui, quindi, l’acquisto della demanialità è collegato ad


un fatto e non ad un atto giuridico (SANDULLI).
Nel caso, invece, di una fortezza il carattere demaniale
dell’opera non è subordinato solo all’esistenza di essa, ma

anche al fatto che tali beni conservino la destinazione


«militare» (SANDULLI), altrimenti passano al patrimonio
indisponibile dello Stato: in tal caso occorrerà un atto che

dichiari la perdita della destinazione del bene.

Quindi mentre l’inclusione del bene nel demanio avviene ex lege ed è

collegato al fatto che lo stesso, una volta venuto ad esistenza, presenti

determinati requisiti, la sottrazione del bene al demanio e la sua

inclusione nel patrimonio dello Stato può avvenire solo con atto
dell’autorità competente che sdemanializzi il bene. In tal modo si farà

venir meno se non la sua esistenza, la destinazione pubblica cui era


riservato (atto di declassificazione: LANDI-P​O TENZA);
beni del demanio artificiale accidentale: affinché tali beni assumano il

carattere demaniale, occorre che essi siano acquisiti in proprietà dall’ente


territoriale (a titolo originario o derivativo), e che agli stessi sia attribuita
la destinazione tipica del bene demaniale.

Ad esempio, tra le strade di proprietà di enti territoriali non tutte sono


demaniali, ma solo quelle destinate al traffico pubblico (SANDULLI).

6 I BENI PATRIMONIALI

I beni patrimoniali sono beni che, pur essendo preordinati in modo diretto al
pubblico interesse, tuttavia non rivestono carattere tale da richiedere
l’assoggettamento al regime speciale dei beni demaniali (BENNATI).
Si tratta di beni pubblici che, a differenza dei beni demaniali:

possono appartenere (tranne alcuni, che la legge riserva allo Stato o ad


altri enti) a qualsiasi ente pubblico, e non solo ad enti territoriali;
consistono sia in beni immobili che in beni mobili.

Tradizionalmente i beni patrimoniali sono considerati «proprietà privata dell’ente


pubblico» e si distinguono in:

beni patrimoniali indisponibili: sono quei beni che non possono essere

sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalla legge;

beni patrimoniali disponibili: sono quei beni patrimoniali non sottoposti

a tale vincolo.

Un’elencazione dei beni patrimoniali indisponibili è fornita dall’art. 826 C.C. che,
in tal modo, dà anche una definizione residuale per i beni patrimoniali
disponibili.

7 I BENI PATRIMONIALI INDISPONIBILI

La loro caratteristica comune è quella della indisponibilità: cioè tali beni sono
vincolati ad una destinazione di utilità pubblica, e non possono essere sottratti
a tale destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art.
828, comma 2, C.C.).

I beni patrimoniali indisponibili sono:

le foreste;
le miniere;
le acque minerali e termali;

le cave e le torbiere;
beni di interesse storico-archeologico-artistico;
beni militari non rientranti nel demanio militare (caserme, armamenti,
navi militari, automezzi, polveriere, arsenali, etc. rientrano tutti nel
patrimonio indisponibile dello Stato);

beni costituenti la dotazione del Presidente della Repubblica: vi rientrano i


beni mobili ed immobili assegnati in uso al Presidente della Repubblica per

la propria residenza e le proprie attività di rappresentanza dello Stato e di

funzione;
gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi e gli altri beni

destinati a pubblico servizio;

fauna selvatica: l’art. 1 della L. 157/1992 (riguardante la protezione della

fauna selvatica) ha stabilito che «la fauna selvatica italiana costituisce

patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della


comunità nazionale e internazionale».

8 IL REGIME GIURIDICO DEI BENI PATRIMONIALI INDISPONIBILI

Il principio di inalienabilità dei beni patrimoniali indisponibili, sancito


originariamente dall’art. 9 del R.D. 827/1924, è stato successivamente corretto
dall’art. 828 del C.C., il quale ha stabilito semplicemente che tali beni «non
possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle
leggi che li riguardano».
Da ciò la dottrina ha affermato il principio dell’alienabilità di tali beni (tranne
rare eccezioni indicate dalla legge), purché tale alienazione non comporti la
sottrazione dei beni stessi alla loro destinazione pubblica (SANDULLI). La
destinazione al pubblico servizio si ottiene per facta concludentia non potendosi
ritenere sufficiente l’emanazione di un provvedimento a tale riguardo.
Il vincolo di destinazione che la norma tutela non esclude che il bene circoli tra
soggetti che possano garantirne ex lege la costanza, cioè tra enti pubblici,
potendo soltanto questi garantire l’istituzionalità della permanenza del vincolo.

Sono, in ogni modo, inalienabili:


le miniere e le foreste;
gli atti e documenti di enti pubblici.

I beni patrimoniali indisponibili sono altresì:

soggetti ad usucapione: il possesso dei beni patrimoniali indisponibili


può, se si tratta di immobili, dar luogo all’usucapione di un diritto reale,

che non pregiudichi la destinazione dei beni stessi al pubblico servizio; non

è ammissibile, invece, l’usucapione della proprietà o di altro diritto reale

incompatibile con la pubblica destinazione dei beni. La proprietà dei beni

mobili non può invece acquistarsi mediante il possesso, ai sensi dell’art.


1153 C.C., qualora si tratti di beni patrimoniali indisponibili non sottratti
alla loro destinazione nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano;

inespropriabili: i beni patrimoniali indisponibili non possono essere


espropriati a seguito di esecuzione forzata per debiti della pubblica

amministrazione. La giurisprudenza) ritiene però ammissibile


l’espropriazione per pubblica utilità quando si tratta di soddisfare,
attraverso l’opera da realizzare, un interesse pubblico prevalente.

9 BENI PATRIMONIALI DISPONIBILI: CONCETTO E REGIME


GIURIDICO

Fanno parte del patrimonio disponibile dello Stato e degli altri enti pubblici tutti
i beni ad essi appartenenti, diversi da quelli demaniali e da quelli patrimoniali
indisponibili.
I beni patrimoniali disponibili non sono beni pubblici, bensì soltanto beni di
proprietà di un ente pubblico. Generalmente si tratta di beni produttivi di reddito
per l’ente.
Tali beni possono fornire i mezzi per la soddisfazione di un pubblico interesse e
in tal caso hanno carattere strumentale per l’esercizio di un pubblico servizio.

Fra essi rientrano:

a. il patrimonio mobiliare: comprende il denaro, gli utensili, nonché i

beni che derivano dalla partecipazione dello Stato al capitale azionario di

imprese industriali (azionariato di Stato, compartecipazioni statali etc.);

b. il patrimonio fondiario ed edilizio: per quanto attiene al patrimonio

fondiario ed edilizio, è da rilevare che gran parte di esso è il residuo di

quello che apparteneva allo Stato nelle fasi precedenti alla sua

formazione storica, il così detto «demanio antico» quando l’economia

finanziaria non era, com’è ora, tutta a base tributaria.

10 DEMANIO E PATRIMONIO DI PROVINCE E COMUNI

Secondo quanto dispone l’ultimo comma dell’art. 119 Cost., «i Comuni, le


Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio,
attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato...». Si
tratta di una riproposizione quasi letterale di un’analoga disposizione già
contenuta nella precedente versione dell’articolo. Tuttavia, rispetto al
precedente testo è possibile evidenziare due differenze sostanziali:

il patrimonio viene ora attribuito non solo alle Regioni, ma anche agli altri
enti territoriali, ovvero Comuni, Province e Città metropolitane;

il precedente testo attribuiva alle Regioni «un proprio demanio e


patrimonio». Nel nuovo testo non vi è traccia di questa distinzione,

facendosi ora riferimento soltanto al «patrimonio»; scompare, quindi, ogni


riferimento al demanio degli enti territoriali. La mancata riproposizione

della distinzione, tuttavia, non può essere interpretata come volontà del

legislatore di sottrarre agli enti territoriali la disponibilità dei beni


demaniali, ma come una semplice lacuna nel testo di revisione

costituzionale.

Il demanio ed il patrimonio degli enti locali sono altresì riconosciuti e


disciplinati dal Codice Civile.

A) Demanio provinciale e comunale

È costituito, a norma dell’art. 824 C.C., dai beni elencati al comma 2 dell’art.
822 (demanio accidentale) allorquando appartengono a Province e Comuni. Allo
stesso regime sono sottoposti i cimiteri e i mercati comunali che sono
qualificati demaniali solo se appartenenti a Comuni o a loro Consorzi. Tale
demanio è definito, perciò, demanio comunale specifico ex art. 824 C.C. comma
2.

Possono perciò appartenere al demanio comunale e provinciale: le


strade (anche ferrate), gli aeroporti, gli acquedotti, gli immobili
riconosciuti di interesse storico, archeologico ed artistico a norma
delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle pinacoteche,
degli archivi, delle biblioteche, nonché i diritti reali su beni altrui
costituiti per l’utilità di un bene demaniale (servitù prediali
pubbliche) o per il conseguimento di fini di interesse pubblico
(servitù di uso pubblico). Ne sono esempi gli obblighi:

di permettere lo scolo, attraverso il fondo, delle acque


provenienti dalle strade demaniali;
di permettere l’installazione di opere di presa e condotte

delle acque pubbliche;


di permettere l’uso di sorgenti di acque private;

di permettere l’uso delle strade vicinali;

di osservare e mantenere zone di rispetto (prefissate


distanze) nei confronti delle strade e dei cimiteri.

Le servitù prediali pubbliche vanno distinte dalle mere limitazioni


pubbliche alla proprietà privata giacché, mentre le prime si
configurano come diritti sulla cosa altrui cui consegue una
limitazione delle facoltà del proprietario a favore del bene
demaniale per uno scopo di pubblico interesse, le seconde non
fanno che limitare la facoltà del proprietario e creano nell’Ente
pubblico soltanto la pretesa che il proprietario privato non esorbiti
da quei limiti (QUARANTA).
In particolare, esse possono originare da una legge (es. servitù di
via alzaia o di marciapiede), da un atto amministrativo (che si
fondi, peraltro, su di una legge autorizzativa), da una convenzione
con il privato, da un atto di liberalità, dalla cd. dicatio ad patriam
o dall’usucapione (per le servitù apparenti, ossia quelle al cui
esercizio sono preordinate opere visibili e permanenti).

B) Patrimonio provinciale e comunale

Come già accennato, l’art. 826 C.C. definisce i beni patrimoniali secondo un
criterio negativo. Pertanto i beni appartenenti alle Province ed ai Comuni, non
rientranti nell’elenco (tassativo) dei beni demaniali, costituiscono il patrimonio
provinciale e comunale.
Fanno parte del patrimonio indisponibile delle Province e dei Comuni gli
edifici destinati a sede di pubblici uffici, con i loro arredi, e gli altri beni
destinati a un pubblico servizio.
Il Codice considera bene patrimoniale indisponibile ogni bene destinato
direttamente al conseguimento di un fine proprio della Provincia o del Comune:
è l’esistenza di tale rapporto che esige l’indisponibilità del bene.
Tra i beni indisponibili destinati a pubblici servizi sono da ricordare gli impianti,
i materiali, i magazzini ed ogni altro bene immobile occorrente per il
funzionamento di servizi quali la nettezza urbana, l’illuminazione pubblica, etc.,
nonché i beni che fanno parte dei pubbici servizi municipalizzati (es. trasporti
urbani). Tutti gli altri beni comunali e provinciali sono beni patrimoniali
disponibili e su di essi l’ente può esercitare tutti i diritti e le facoltà connesse
al regime privatistico che regola la proprietà di questi beni.
Va sottolineato, a tal proposito, che l’art. 58 del D.L. 112/2008, convertito con
modificazioni dalla L. 133/2008, contenente norme relative alla valorizzazione
del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri enti locali,
stabilisce che tali enti debbano individuare, sulla base della documentazione
esistente nei propri archivi e uffici, i beni immobili ricadenti nel territorio di
competenza che, non essendo strumentali all’esercizio delle funzioni
istituzionali, siano suscettibili di valorizzazione o di dismissione.
Tali beni devono essere inseriti in un documento, detto piano delle alienazioni
e valorizzazioni immobiliari, che i Comuni devono redigere a partire dal 2008.
L’inserimento in tale documento determina la classificazione di tali immobili
come patrimonio disponibile, fatto salvo il rispetto della tutela di natura
storico-artistica, archeologica, architettonica e paesaggistico-ambientale (così
dopo le modifiche disposte dal D.L. 201/2011, conv. in L. 214/2011).

11 I PRINCIPALI BENI DEMANIALI E PATRIMONIALI DEGLI ENTI


TERRITORIALI

A) Demanio

Tra i beni del demanio degli enti territoriali meritano particolare menzione:

il demanio stradale
Appartengono a tale demanio:

1. Le strade regionali

Rientrano in tale categoria le strade:

che congiungono capoluoghi di Provincia della

stessa Regione fra loro o con il capoluogo di

Regione;

che allacciano i capoluoghi di Provincia o i Comuni

con la rete statale se ciò è particolarmente


rilevante per ragioni di carattere industriale,
commerciale, agricolo, turistico e climatico.

Mentre la classificazione delle strade statali avviene con decreto del

Ministro per le infrastrutture, la classificazione delle altre strade è

demandata alle Regioni;

2. Le strade provinciali

Rientrano in tale categoria le strade che:

allacciano al capoluogo di Provincia i capoluoghi dei Comuni o


più capoluoghi comunali tra loro;
allacciano alla rete statale o regionale i capoluoghi di Comuni,
se ciò sia particolarmente rilevante per motivi di carattere
industriale, commerciale, agricolo, turistico;

3. Le strade comunali

Sono comunali le strade che:

congiungono il capoluogo del Comune con le frazioni, con la

stazione ferroviaria, automobilistica o tramviaria più vicina, con

un aeroporto o un porto, con altre località che siano sede di


servizi essenziali per il Comune;

sono situate all’interno dei centri abitati, fatta eccezione dei


tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che

attraversano centri abitati con popolazione non superiore a 10


mila abitanti.

Con riferimento al demanio stradale, sia esso regionale, provinciale o

comunale, occorre ricordare che la demanialità delle strade

comprende, oltre alla sede stradale vera e propria, anche le relative

pertinenze (paracarri, aiuole, alberi, case cantoniere), nonché le

opere necessarie per la viabilità (gallerie, ponti, viadotti,

sottopassaggi);

gli acquedotti
Gli acquedotti fanno parte del demanio accidentale (non del demanio idrico
che è necessario), indipendetemente dal fatto che convoglino acque
pubbliche o meno. Essi comprendono anche i canali.

Gli acquedotti possono essere:

1. regionali, quando già di proprietà statale, sono stati trasferiti alla

Regione perché interessano il territorio della sola Regione;

2. provinciali;

3. comunali quando interessano il territorio di un solo Comune.

Al regime giuridico degli acquedotti sono assoggettati, oltre ai canali,

anche le fontane in cui essi sfociano, i laghi artificiali che essi creano,
nonché i pozzi e le cisterne ad essi collegati, ed in genere tutte le loro
pertinenze in quanto assolvono funzioni di soddisfacimento dei bisogni

della collettività locale.

B Patrimonio indisponibile

Tra i beni del patrimonio indisponibile degli enti territoriali meritano particolare
menzione:

le foreste

Le foreste appartengono oggi alle Regioni, che provvedono direttamente


alla loro utilizzazione che, ai sensi del R.D.L. 3267/1923, può avvenire
anche mediante concessione per un periodo di tempo che non ecceda i 90
anni;
le acque minerali e termali

Anche le acque minerali e termali sono state attribuite alle Regioni a


statuto ordinario (per quelle speciali provvedono i relativi statuti). Qui

occorre ricordare che le acque minerali e termali hanno disciplina giuridica


diversa dalle miniere le quali, secondo SANDULLI, pur dopo l’attuazione

dell’ordinamento regionale sono rimaste statali, ad eccezione di quelle

attribuite alle Regioni ad autonomia speciale dai rispettivi statuti: non


mancano peraltro, opinioni contrarie;

le cave e le torbiere

Le cave e le torbiere non appartengono senz’altro alla Regione: entrano a far


parte del demanio regionale, infatti, solo a seguito, di avocazione in caso di
mancato o insufficiente sfruttamento da parte del proprietario del suolo.
Una volta avocate al demanio regionale esse formano normalmente oggetto di
concessione a terzi per il loro sfruttamento.

12 IL TRASFERIMENTO AGLI ENTI LOCALI DI BENI IMMOBILI DELLO


STATO: LA L. 42/2009 E IL D.LGS. 85/2010 (CD. FEDERALISMO
DEMANIALE)

Ancor prima che la riforma costituzionale del 2001 modificasse l’art. 119 della
Costituzione, attribuendo a Regioni ed enti locali un’effettiva autonomia
finanziaria di entrata e di spesa (cfr. Parte I, Cap. I), il legislatore aveva sentito
l’esigenza di facilitare il trasferimento agli enti locali di quei beni del demanio e
del patrimonio indisponibile dello Stato che risultavano impiegati in modo non
ottimale, al fine di garantirne, appunto, una migliore utilizzazione.
Un primo passo in tale direzione fu l’approvazione della L. 579/1993, con la
quale si autorizzava il Ministro dell’economia a trasferire, con propri decreti,
agli enti territoriali i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile
dello Stato dei quali gli enti suddetti facciano richiesta per la realizzazione di
opere o per lo svolgimento di attività di interesse pubblico di propria
competenza e che risultino alla data di emanazione del decreto non utilizzati in
conformità al soddisfacimento degli interessi pubblici cui sono destinati. L’ente
richiedente deve indicare nella richiesta la destinazione finale del bene oggetto
della domanda e fornire le indicazioni essenziali sui tempi e sulle modalità di
realizzazione e di gestione dell’opera o di svolgimento dell’attività progettata.
Il prezzo della cessione non può essere inferiore alla metà del valore
determinato dall’ufficio tecnico erariale territorialmente competente, su
richiesta dell’Amministrazione finanziaria.
Una volta effettuato il trasferimento, i beni ceduti, che restano comunque
assoggettati ai vincoli urbanistici e a quelli posti a tutela di interessi storici,
artistici, paesaggistici o ambientali, entrano a far parte del demanio o del
patrimonio indisponibile dell’ente territoriale.
Analogamente, la L. 549/1995 prevedeva, all’art. 2, comma 37, la possibilità
di trasferire ai Comuni o ad altri enti locali richiedenti, ad un prezzo pari ad
almeno i due terzi del valore determinato dall’ufficio tecnico erariale, i beni
immobili demaniali e patrimoniali dello Stato che, alla data del 30 giugno 1995,
risultavano non utilizzati o comunque non più utili ai fini istituzionali dello Stato
stesso.
Va ricordato, inoltre, che la L. 311/2004 dispone che rientrino nel patrimonio
indisponibile dei Comuni che ne fanno richiesta, a titolo oneroso e con vincolo
decennale di inalienabilità, le aree appartenenti allo Stato sulle quali i Comuni
stessi hanno realizzato opere di urbanizzazione.
Infine, l’art. 19 della L. 42/2009 sul federalismo fiscale dispone,
coerentemente con l’ultimo comma dell’art. 119 della Costituzione, nella nuova
formulazione introdotta dalla L. cost. 3/2001, che i decreti legislativi di
attuazione prevedano l’attribuzione a Regioni ed enti locali di un proprio
patrimonio; tale attribuzione dovrà essere effettuata a titolo non oneroso e
dovrà riguardare distinte tipologie di beni a seconda delle caratteristiche
dell’ente (dimensioni territoriali, capacità finanziarie, competenze e funzioni
svolte).
Per i soli beni immobili l’attribuzione avviene in base al criterio della
territorialità e previa intesa in sede di Conferenza unificata.
Dai beni trasferibili vanno esclusi particolari tipologie di beni aventi rilevanza
nazionale e, in particolare, i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale.
All’art. 19 della L. 42/2009 ha dato attuazione il D.Lgs. 28 maggio 2010, n.
85 (cd. federalismo demaniale), che prevede che lo Stato, previa intesa in sede
di Conferenza unificata, individui i beni facenti parte del proprio demanio da
attribuire a titolo non oneroso agli enti pubblici territoriali che ne facciano
richiesta, affinché questi ultimi possano garantirne la massima
valorizzazione.

Le tipologie di beni attribuibili sono indicate in dettaglio dall’art. 5, comma 1:

a. beni appartenenti al demanio marittimo e relative pertinenze, ad

esclusione di quelli direttamente utilizzati dalle amministrazioni statali;

b. beni appartenenti al demanio idrico e relative pertinenze, nonché le

opere idrauliche e di bonifica di competenza statale, ad esclusione dei

fiumi di ambito sovraregionale e dei laghi di ambito sovraregionale (in

quest’ultimo caso, tuttavia, l’attribuzione è possibile se viene raggiunta

un’intesa tra le Regioni interessate);

c. gli aeroporti di interesse regionale o locale appartenenti al

demanio aeronautico civile statale, ad eccezione di quelli di

interesse nazionale;

d. le miniere e le relative pertinenze ubicate su terraferma;

e. gli altri beni immobili dello Stato, ad eccezione di quelli per i quali

l’attribuzione è esplicitamente esclusa.

Circa quest’ultimo punto, il legislatore ha inteso disciplinare in


modo più puntuale, con l’art. 56bis del D.L. 69/2013, conv. in L.
98/2013, il trasferimento a titolo non oneroso di beni immobili di
proprietà dello Stato ad enti territoriali, circoscrivendo le tipologie
di beni trasferibili e stabilendo fra l’altro che:

a decorrere dal 1° settembre 2013, gli enti territoriali che

intendevano acquisire la proprietà di tali beni dovevano

presentare all’Agenzia del demanio, entro il 30 novembre

2013, una richiesta sottoscritta dal rappresentante legale,


indicando le modalità di utilizzo dei beni stessi;

l’Agenzia del demanio verifica la sussistenza dei presupposti


per l’accoglimento della richiesta e, in caso positivo, procede
al trasferimento con un successivo specifico provvedimento;

trascorsi tre anni dal trasferimento, qualora in seguito ad un


apposito monitoraggio effettuato dall’Agenzia del demanio
risulti che l’ente non utilizzi in modo appropriato i beni

trasferiti, questi rientrano nella proprietà dello Stato.

Non possono, invece, essere trasferiti (art. 5, comma 2), fra gli altri, gli
immobili utilizzati per finalità istituzionali dalle amministrazioni statali e da
altri enti pubblici, i porti e gli aeroporti di rilevanza strategica nazionale e
internazionale, i beni appartenenti al patrimonio culturale, i parchi nazionali e le
riserve naturali statali, le reti di interesse statale, comprese quelle stradali ed
energetiche.

In linea generale, i beni indicati dall’art. 5 sono attribuiti ai Comuni, a meno che
esigenze di carattere unitario legate alla particolare tipologia del bene non
rendano necessaria la loro attribuzione a Province, Città metropolitane o
Regioni, cioè a livelli di governo più idonei a garantire la tutela, la gestione e la
valorizzazione dei beni stessi (art. 2, comma 5). A tal proposito, l’art. 3,
comma 1, dispone che:

sono trasferiti alle Regioni le miniere che non comprendono i giacimenti

petroliferi nonché i siti di stoccaggio di gas naturale, i beni del demanio

marittimo e del demanio idrico;

sono trasferiti alle Province i beni del demanio idrico, limitatamente ai


laghi chiusi privi di emissari di superficie che insistono sul territorio di

una sola provincia.

I beni trasferiti, come previsto dall’art. 4, entreranno a far parte del


patrimonio disponibile di Regioni ed enti locali, ad eccezione delle miniere
che non comprendono i giacimenti petroliferi nonché i siti di stoccaggio
di gas naturale e di quelli appartenenti al demanio marittimo, idrico e
aeroportuale, e potranno dunque essere inseriti nel piano delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari di cui all’art. 58 del D.L. 112/2008; tali beni potranno,
però, essere alienati solo previa valorizzazione e a seguito di un’attestazione di
congruità rilasciata dall’Agenzia del Demanio o dall’Agenzia del territorio (art. 4,
comma 3).
CAPITOLO 14
L’ATTIVITÀ CONTRATTUALE

SOMMARIO

1 Introduzione. 2 Il Codice dei contratti pubblici. 3 Il regolamento di


esecuzione e di attuazione del Codice dei contratti pubblici. 4 Il
procedimento di evidenza pubblica. 5 Ripartizione delle competenze fra
Consiglio, Giunta e dirigenti in materia di contratti. 6 I contratti pubblici
relativi ai lavori. 7 I contratti pubblici relativi alle forniture. 8 I contratti
pubblici relativi ai servizi. 9 Gli appalti nei settori speciali. 10 Acquisti di
beni e servizi mediante convenzioni e procedure telematiche.

1 INTRODUZIONE

Oltre che nelle forme del diritto pubblico, gli enti locali territoriali possono
agire anche nelle forme del diritto privato: essi possono obbligarsi, anche
contrattualmente, al fine di costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici
patrimoniali con altre parti (altri enti pubblici o soggetti privati).
La disciplina cui tali negozi giuridici soggiacciono non presenta significative
difformità rispetto a quella regolante i contratti dello Stato, vale a dire quei
contratti cui le amministrazioni statali ricorrono per procurarsi i beni e servizi
di cui abbisognano. Ne consegue che anche per i contratti degli enti locali può
trovare applicazione la classificazione, ampiamente accettata, in contratti
ordinari, contratti speciali di diritto privato, contratti ad oggetto pubblico.

I primi (i cosiddetti contratti ordinari o contratti di diritto


comune) sono caratteristici dell’autonomia privata (si pensi ad
esempio alla vendita, alla locazione, al contratto di appalto). Essi
non presentano alcuna particolarità rispetto agli schemi
contrattuali utilizzati dai soggetti privati.
I contratti speciali di diritto privato sono contratti regolati da
norme di diritto privato speciale (tali sono ad esempio i contratti
di trasporto ferroviario). La loro peculiarità risiede, perciò, nel
fatto di essere regolati da norme civilistiche di specie rispetto a
quelle generali del Codice.
I contratti ad oggetto pubblico si caratterizzano per l’incontro
e la commistione tra provvedimento amministrativo e contratto.
Si pensi ad esempio alle convenzioni che si accompagnano alla
concessione di un bene pubblico.
Un’altra distinzione importante è quella fra contratti attivi e
passivi: i primi sono quei contratti dai quali l’ente ricava
un’entrata (come la vendita di immobili pubblici), i secondi
determinano, invece, una spesa (come l’acquisto di forniture per i
pubblici uffici).

In ogni caso, il ricorso allo strumento contrattuale comporta che la pubblica


amministrazione si spogli della sua veste di autorità pubblica ed operi in
condizioni di sostanziale parità con l’altro soggetto: ne deriva che la disciplina
prevalente deve essere considerata quella di diritto privato (artt. 1321 e ss. del
c.c.).
La circostanza che uno dei due contraenti sia un’amministrazione pubblica,
però, non può non avere conseguenze: in particolare, la tutela dell’interesse
pubblico ed il principio del controllo della spendita del denaro pubblico
comportano che, soprattutto nella fase precedente la conclusione del contratto,
il potere discrezionale dell’Amministrazione pubblica sia sottoposto ad una
normativa speciale, di carattere pubblicistico, derogatoria rispetto a quella di
diritto privato.
La dottrina, in riferimento a questa regolamentazione ibrida, parla di
normativa dell’evidenza pubblica (cfr. § 2), con ciò intendendo le regole che
disciplinano il procedimento amministrativo complesso rivolto alla formazione
della volontà contrattuale.
Le principali fonti che regolano i contratti pubblici sono:

gli artt. 1321 e ss. e 1470 e ss. del codice civile, disciplinanti i contratti in
generale;
la legge di contabilità di Stato, approvata con R.D. 2440/1923, più volte

modificata;

il regolamento di contabilità, approvato con R.D. 827/1924;

le disposizioni normative emanate dalle Regioni ed aventi rilevanza


all’interno del territorio regionale;

i regolamenti per la disciplina dei contratti emanati dai Consigli comunali


e provinciali;
il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (D.Lgs.

163/2006), che ha abrogato numerose norme, tra cui la L. 109/1994 (legge


quadro in materia di lavori pubblici);
il regolamento di esecuzione e di attuazione del Codice dei contratti

pubblici (D.P.R. 207/2010).

Necessita, infine, un’ulteriore precisazione e cioè che le norme contenute nel


R.D. 2440/1923 e nel suo regolamento di attuazione (R.D. 827/1924) non si
applicano più ai contratti disciplinati dal Codice dei contratti. Più precisamente,
ai contratti da cui deriva una spesa per le PP.AA. (contratti passivi), tra cui gli
appalti, si applica il Codice dei contratti e le procedure da questo
regolamentate; per contro, ai contratti da cui deriva un’entrata per le PP.AA.
(contratti attivi), come ad esempio la vendita di immobili pubblici, si applica il
R.D. 827/1924.
Nel prosieguo della trattazione esamineremo più specificamente la disciplina
contenuta nel D.Lgs. 163/2006 e relativa, dunque, ai contratti passivi.

2 IL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI


A) La disciplina e la struttura

Il Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture è stato adottato con
il D.Lgs 12-4-2006, n. 163, successivamente modificato ed integrato.

Quanto alla struttura del testo, lo stesso si presenta articolato e complesso,


in considerazione dell’ampio oggetto della disciplina:

artt. 1-27: principi comuni e contratti esclusi in tutto o in parte

dall’applicazione del codice. Si tratta di norme relative all’oggetto, ai

principi, alle definizioni, alle fonti di disciplina, al riparto competenze fra

Stato e Regioni, all’Autorità per la vigilanza sui contratti e


all’Osservatorio, al responsabile del procedimento ed all’accesso agli atti
nelle procedure di gara;

artt. 28-205: contratti nei settori ordinari, sopra e sotto soglia. In tali
disposizioni è contenuta la disciplina dei contratti aventi ad oggetto lavori,

servizi e forniture nei settori ordinari, sia sopra che sotto la soglia
comunitaria. Inoltre, è ricompresa la disciplina dei lavori relativi ad
infrastrutture strategiche ed insediamenti produttivi e quella dei contratti

in taluni settori specifici (difesa, beni culturali);


artt. 206-238: contratti nei settori speciali. Si tratta delle disposizioni di
recepimento del dato normativo di cui alla direttiva comunitaria n.

17/2004/CE, relativa agli appalti di lavori, servizi e forniture nei settori


speciali: gas, energia termica, elettricità, acqua, servizi di trasporto,
servizi postali, sfruttamento area geografica;
artt. 239-246: contenzioso. Si disciplinano gli strumenti stragiudiziali e
giudiziali di composizione delle liti in materia di contratti pubblici, e in

particolare: la transazione, l’accordo bonario, l’arbitrato; quanto alle norme


in tema di giurisdizione e riti speciali e la tutela ante causam, rinvia al

Codice del processo amministrativo (D.Lgs. 104/2010);

artt. 247-257: disposizioni di coordinamento, finali e transitorie –


Abrogazioni.

B) I principi

L’art. 2 del Codice detta una serie di principi generali che devono governare la
procedura di scelta del contraente a garanzia della qualità delle prestazioni.
In tale prospettiva, da una parte, viene stabilito che deve essere garantita la
qualità delle prestazioni ed il rispetto dei principi di economicità,
efficacia, tempestività e correttezza, con evidente richiamo al dato
normativo costituzionale, e dall’altra, si pone l’accento sulla necessità di
procedere all’affidamento nel rispetto dei principi di libera concorrenza,
parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità
e pubblicità, tutti di matrice comunitaria, frutto della elaborazione
giurisprudenziale della Corte di giustizia e capisaldi della legislazione
comunitaria.

C) Ambito di applicazione del Codice: soggettivo ed oggettivo

Quanto al profilo soggettivo, l’art. 3, al comma 25, stabilisce che i contratti


debbano essere affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici, con tale
espressione intendendosi «le amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici
territoriali; gli altri enti pubblici non economici; gli organismi di diritto pubblico;
le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti
soggetti».
Ai commi 6, 11 e 12 dell’art. 3 vengono, rispettivamente, fornite le definizioni
dell’appalto e della concessione (di lavori pubblici e di servizi) utili a delimitare,
con maggiore precisione, la portata applicativa del Codice.

L’appalto è un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto tra una stazione
appaltante o un ente aggiudicatore e uno o più operatori economici, aventi per
oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi;
e più specificamente:

1. lavori: l’esecuzione o, congiuntamente, la progettazione esecutiva e

l’esecuzione, ovvero, previa acquisizione in sede di offerta del progetto

definitivo, la progettazione esecutiva e l’esecuzione (art. 53), oppure,

limitatamente alle per infrastrutture strategiche, l’esecuzione, con

qualsiasi mezzo, di un’opera rispondente alle esigenze specificate dalla

stazione appaltante o dall’ente aggiudicatore, sulla base del progetto

preliminare o definitivo posto a base di gara (art. 176);

2. servizi: aventi ad oggetto la prestazione dei servizi individuati dal

legislatore;

3. forniture: aventi ad oggetto l’acquisto, la locazione finanziaria, la

locazione o l’acquisto a riscatto, con o senza opzione per l’acquisto, di

prodotti.

Le concessioni di lavori pubblici sono contratti a titolo oneroso, conclusi in


forma scritta, aventi ad oggetto l’esecuzione, ovvero la progettazione esecutiva
e l’esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e
l’esecuzione di lavori pubblici o di pubblica utilità, e di lavori ad essi
strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione funzionale ed
economica, che presentano le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di
lavori, ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori consiste unicamente
nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo.
La concessione di servizi è un contratto che presenta le stesse
caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il
corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire
i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo.

3 IL REGOLAMENTO DI ESECUZIONE E DI ATTUAZIONE DEL CODICE


DEI CONTRATTI PUBBLICI

L’art. 5 del Codice ha previsto che un apposito regolamento (adottato su


proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con i
Ministri delle politiche comunitarie, dell’ambiente, per i beni culturali e
ambientali, delle attività produttive, dell’economia e delle finanze, sentiti i
Ministri interessati, e previo parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici)
detti la disciplina esecutiva ed attuativa del Codice nelle materie oggetto di
competenza legislativa statale esclusiva. Tale regolamento è stato approvato
con D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, le cui disposizioni sono entrate in vigore
dall’8 giugno 2011.

Il nuovo Regolamento è strutturato in sette parti, per un totale di


359 articoli, e corredato da 15 allegati:

Parte I – Disposizioni comuni;


Parte II – Contratti pubblici relativi a lavori nei settori

ordinari;
Parte III – Contratti pubblici relativi a servizi attinenti
all’architettura e all’ingegneria nei settori ordinari;
Parte IV – Contratti pubblici relativi a forniture e altri servizi

nei settori ordinari;


Parte V – Contratti pubblici relativi a lavori, servizi e

forniture nei settori speciali;


Parte VI – Contratti eseguiti all’estero;

Parte VII – Disposizioni transitorie e abrogazioni.

La normativa regolamentare in materia di esecuzione dei lavori pubblici non


risulta particolarmente modificata rispetto a quella precedente (D.P.R. 554/1999
e D.P.R. 34/2000); mentre il D.P.R. 207/2010 detta norme innovative nella
disciplina dei contratti di forniture e servizi, prevedendo in particolare la
programmazione degli acquisti, la finanza di progetto nei servizi e la
regolamentazione dettagliata dell’esecuzione nonché la verifica di conformità,
necessaria a valutare la correttezza nella realizzazione del programma
graduale.

4 IL PROCEDIMENTO DI EVIDENZA PUBBLICA

Per poter addivenire alla stipula di un contratto è necessario che la pubblica


amministrazione segua una determinata e specifica procedura, definita da
regole di ordine pubblico che non possono essere derogate dalle parti, con la
quale renda evidenti le ragioni che la inducono a stipulare proprio con un
determinato soggetto: la cd. evidenza pubblica.
Il procedimento si articola in quattro fasi (artt. 11-12 del Codice): la
deliberazione a contrarre, la scelta del contraente, la stipula del contratto e
l’approvazione del contratto.

A) La deliberazione a contrarre

La delibera a contrarre è l’atto con il quale l’amministrazione individua gli


elementi essenziali del futuro contratto, la procedura di scelta del
contraente che intende adottare nonché il criterio da seguire per
selezionare l’offerta migliore.
Nel caso specifico dei contratti degli enti locali, agli stessi deve preesistere un
atto di programmazione dell’ente stesso: il legislatore, infatti, ha
espressamente previsto (art. 192 T.U.E.L.) che «la stipulazione dei contratti
deve essere preceduta da apposita determinazione del responsabile del
procedimento di spesa indicante:

a. il fine che con il contratto si intende perseguire;

b. l’oggetto del contratto, la sua forma e le clausole ritenute essenziali;

c. le modalità di scelta del contraente ammesse dalle disposizioni vigenti

in materia di contratti delle pubbliche amministrazioni e le ragioni che

ne sono alla base».

Quanto all’organo competente all’adozione di tale atto, non possono esservi


dubbi sul fatto che, in applicazione del principio della separazione tra
politica ed amministrazione, per i contratti statali, la competenza spetti ai
dirigenti generali ovvero agli altri dirigenti amministrativi, in virtù di quanto
stabilito dagli artt. 16 e 17 del D.Lgs. 165/2001; mentre per i contratti degli enti
locali, il legislatore attribuisce ai dirigenti la competenza in materia di
gestione amministrativa, ivi compresa l’assunzione di impegni di spesa, ed in
particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti
dell’ente, la responsabilità delle procedure d’appalto e di concorso (art. 107,
comma 3, T.U.E.L.).
Sulla base della delibera a contrarre ha luogo il primo vero atto della procedura
ad evidenza pubblica, ossia quello della predisposizione e successiva
pubblicazione del bando di gara, che costituisce la lex specialis della
stessa. Accanto a questo, il legislatore (art. 5) prevede che le stazioni
appaltanti possano approntare dei capitolati che individuano, più
analiticamente, la disciplina tecnica e di dettaglio della generalità dei propri
contratti ovvero degli specifici contratti che intendono porre in essere: tali
capitolati menzionati nel bando o nell’invito, costituiscono parte integrante del
successivo contratto.
Successivamente alla pubblicazione del bando, tutti i soggetti interessati, in
possesso dei requisiti richiesti, possono presentare la propria offerta.
La stipulazione di un contratto con una P.A. richiede che il soggetto contraente,
oltre a presentare l’offerta migliore, possegga determinate caratteristiche e
requisiti che lo rendano meritorio di rivestire una simile qualifica: ciò in
considerazione della natura pubblica della P.A. e delle finalità pubbliche che la
stessa deve perseguire con la propria attività.
Relativamente ai soggetti che possono partecipare alle gare, questi sono
individuati, con elencazione tassativa, nell’art. 34 del Codice (come modificato
dal D.L. 179/2012, conv. in L. 221/2012) e devono possedere i requisiti richiesti
dal legislatore agli artt. 38 e ss. del Codice.
In particolare, quanto ai requisiti il legislatore distingue tra requisiti di
carattere generale, individuati al citato art. 38, che riguardano l’affidabilità
morale e professionale del (futuro) contraente (e la cui mancanza è sanzionata
con l’esclusione dalla procedura), e requisiti di tipo specifico, che si
differenziano a seconda dell’oggetto del contratto (si veda, art. 40 per i
contratti di lavori e art. 41 e ss. per gli appalti di servizi e forniture).
Affinché il soggetto contraente venga scelto all’esito di un effettivo confronto
concorrenziale tra le imprese partecipanti e nell’ottica di garantire il corretto e
trasparente svolgimento della gara, il legislatore ha previsto che ciascun
concorrente può presentare al massimo una sola offerta (art. 11, comma 6,
Codice), che deve essere autonomamente predisposta e indipendente da quelle
presentate dagli altri concorrenti.

B La scelta del contraente

L’art. 54 del Codice individua le procedure di scelta nei seguenti termini:

procedure aperte: sono quelle procedure in cui ogni operatore


economico interessato può presentare un’offerta;
procedure ristrette: sono quelle in cui ogni operatore economico può

chiedere di partecipare (presentando una richiesta di invito) ed in cui


possono presentare un’offerta solo gli operatori invitati dalle stazioni

appaltanti;

procedure negoziate, con o senza la previa pubblicazione di un


bando: sono quelle procedure in cui le stazioni appaltanti consultano gli

operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più di essi le

condizioni dell’appalto;

dialogo competitivo: è quella procedura applicabile nei casi di appalti

particolarmente complessi. Con essa l’amministrazione aggiudicatrice


avvia un dialogo con i candidati ammessi a tale procedura, al fine di
elaborare una o più soluzioni atte a soddisfare le sue necessità e sulla

base della quale o delle quali i candidati selezionati saranno invitati a


presentare le offerte. Qualsiasi operatore può chiedere di partecipare.

Accanto a tali modalità, il Codice introduce anche delle modalità procedurali


assolutamente nuove per il nostro ordinamento e tutte di matrice
comunitaria. Oltre al dialogo competitivo (art. 58 del Codice), gli artt. 59 e 60
disciplinano rispettivamente: gli accordi quadro ed i sistemi dinamici di
acquisizione.
L’accordo quadro assicura una maggiore flessibilità negli appalti, consentendo
alla stazione appaltante di rimandare l’individuazione o l’aggiornamento di
alcuni elementi del contratto ad un momento successivo rispetto a quello
della sua conclusione. Esso è definito come un accordo concluso tra una o
più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici il cui scopo è
quello di stabilire clausole relative agli appalti da aggiudicare durante un
dato periodo, in particolare per quanto riguarda i prezzi e,
eventualmente, le quantità previste (art. 3, comma 13, del Codice). L’art.
59 del Codice, che estende l’istituto de quo ai settori ordinari, prevede
l’espletamento di una gara al fine di individuare i soggetti partecipanti
all’accordo quadro, i quali saranno i soli che potranno aggiudicarsi i successivi
appalti basati sull’accordo stesso.
Il sistema dinamico di acquisizione è una particolare modalità di scelta del
contraente che consente la gestione on-line dell’intera procedura di
aggiudicazione per l’approvvigionamento di beni e servizi. Esso è un processo
di acquisizione interamente elettronico, per acquisti di uso corrente, le
cui caratteristiche generalmente disponibili sul mercato soddisfano le
esigenze della stazione appaltante, limitato nel tempo ed aperto per
tutta la sua durata a qualsivoglia operatore economico che soddisfi i
criteri di selezione e che abbia presentato un’offerta indicativa conforme
al capitolato d’oneri (art. 3, comma 14, del Codice).
Il contraente con il quale la pubblica amministrazione dovrà, all’esito della
procedura, stipulare il contratto sarà quello che avrà presentato l’offerta
migliore, quella cioè in grado di soddisfare le necessità della stazione
appaltante. Un momento importante della procedura è, pertanto, quello
consistente nella scelta del criterio in base al quale individuare l’offerta
migliore, in quanto, tramite i criteri di aggiudicazione, si concretizza il principio
di concorrenza negli appalti. I criteri di aggiudicazione sono individuati all’art.
81, comma 1, del Codice e sono: il criterio del prezzo più basso ed il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La fase di scelta del contraente termina con l’aggiudicazione dell’appalto. Tale
aggiudicazione non equivale ad accettazione dell’offerta, ed è subordinata alla
verifica del possesso dei requisiti prescritti in capo all’aggiudicatario; solo in
caso di esito positivo, essa diviene efficace.
A norma dell’art. 79 del Codice dei contratti (come modificato dal D.Lgs.
53/2010), l’aggiudicazione definitiva deve essere comunicata dalla stazione
appaltante tempestivamente e comunque entro 5 giorni: 1) all’aggiudicatario; 2)
al concorrente che segue nella graduatoria; 3) a tutti i candidati che hanno
presentato un’offerta ammessa in gara; 4) a coloro la cui candidatura o offerta
siano state escluse, se hanno proposto impugnazione avverso l’esclusione, o
sono in termini per presentare dette impugnazioni; 5) a coloro che hanno
impugnato il bando o la lettera d’invito, se dette impugnazioni non siano state
ancora respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva. Unitamente
all’aggiudicazione definitiva deve essere trasmesso anche il relativo
provvedimento, completo di motivazione, nello stesso giorno a tutti i
destinatari.

SIST EMI D I SCELT A D EL CO N T RAEN T E PER I CD . CO N T RAT T I AT T IVI


Le modalità di scelta del contraente cui ricorre la P.A., in caso di contratti
attivi, sono riconducibili sostanzialmente a quattro sistemi:

1. asta pubblica, procedimento complesso con il quale si procede alla

scelta del contraente sulla base della migliore offerta fatta in

occasione di una apposita riunione precedentemente pubblicizzata e

alla quale possono partecipare tutti quelli che lo vogliano;

2. licitazione privata, sistema mediante il quale vengono invitate più

ditte o persone a partecipare alla gara, con l’aggiudicazione a quello

fra tutti che abbia presentato un’offerta più vicina ad una cifra

precedentemente determinata e tenuta segreta;

3. appalto-concorso, sistema cui si ricorre solo quando al privato è

lasciata, oltre l’indicazione dell’importo, anche la determinazione del

modo di esecuzione del contratto. In tale ipotesi viene, in genere,

nominata una Commissione che procede ad una valutazione tecnica;

4. trattativa privata, un procedimento che si svolge mediante semplici


contatti informali con uno o più contraenti ritenuti idonei. La

trattativa privata, per le minori garanzie che offre è, però, da

considerarsi un sistema eccezionale e può essere utilizzato solo in

presenza di determinate condizioni stabilite dalla legge.

I primi due sistemi di scelta (asta pubblica e licitazione privata) sono


anche definiti di tipo meccanico o automatico: una volta che l’autorità
abbia individuato i criteri che presiedono alla gara, la scelta della
controparte avviene in modo pressoché automatico; l’appalto-concorso e la
trattativa privata, invece, rientrano nei cosiddetti modi negoziati poiché in
essi la P.A. agisce sostanzialmente come farebbe una parte privata,
concordando con le controparti il contenuto contrattuale.

C) La stipula del contratto

La stipulazione, ai sensi dell’art. 11 del Codice dei contratti, è la redazione


per iscritto del contratto, da effettuarsi, a pena di nullità, con atto pubblico
notarile informatico, ovvero in modalità elettronica secondo le norme vigenti
per ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura
dell’Ufficiale rogante dell’amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura
privata (comma 13, come modificato dal D.L. 179/2012, conv. in L. 221/2012).
Fatti salvi i poteri di autotutela dell’amministrazione, la stipula del contratto
deve avvenire nel termine stabilito dal legislatore: entro 60 gg.
dall’aggiudicazione definitiva ma non prima di 35 gg. dall’invio dell’ultima delle
comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione (cd. stand-still period) ai
sensi dell’art. 79 (art. 11, D.Lgs. 163/2006, come modificato dal D.Lgs.
53/2010).
L’approvazione è una condicio iuris di efficacia del contratto. L’esecuzione del
contratto può avere inizio solo dopo che lo stesso è divenuto efficace.
D) L’approvazione del contratto

Il contratto stipulato è soggetto all’eventuale approvazione da parte dell’organo


competente, nel termine stabilito nei singoli ordinamenti delle specifiche
stazioni appaltanti ovvero in quello di 30 gg. stabilito ex lege, decorrenti dal
ricevimento dello stesso: tale termine può essere interrotto qualora
l’amministrazione chieda chiarimenti e/o documenti. Decorsi i detti termini il
contratto si intende approvato (art. 12, comma 2, del Codice).

5 RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE FRA CONSIGLIO, GIUNTA E


DIRIGENTI IN MATERIA DI CONTRATTI

Per comprendere come le competenze, in materia di contratti degli enti locali,


si ripartiscano fra Consiglio, Giunta e dirigenti, non si può prescindere da un
esame di quanto disposto dal T.U. per quanto, più in generale, riguarda la
separazione fra attività di indirizzo politico e attività di gestione e di
amministrazione.

Per quanto riguarda il Consiglio, esso è l’organo di indirizzo e di controllo


politico-amministrativo (art. 42, T.U.E.L.). Il comma 2 dello stesso articolo
elenca fra le competenze del Consiglio:

i programmi, le relazioni previsionali e programmatiche, i piani finanziari, i


programmi triennali e l’elenco annuale dei lavori pubblici, i bilanci annuali e
pluriennali e relative variazioni, il rendiconto, i piani territoriali ed

urbanistici, i programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, le

eventuali deroghe ad essi, i pareri da rendere in queste materie (lett. b)


dell’art. 42, comma 2);
gli acquisti e le alienazioni immobiliari, le relative permute, gli appalti e le
concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del
Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque,
non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di

competenza della Giunta, del Segretario o di altri funzionari (lett. l)


dell’art. 42).

Le competenze della Giunta sono richiamate dall’art. 48 del T.U. Essa è


competente per tutti gli atti rientranti ai sensi dell’art. 107, commi 1 e 2, nelle
funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al Consiglio
e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del
Sindaco o del Presidente della Provincia.
La Giunta, pertanto, ha una competenza residuale non solo nei confronti del
Consiglio ma anche nei confronti della dirigenza: ad essa spettano solo gli atti
fondamentali di gestione, mentre il Consiglio svolge una funzione di
programmazione generale.

Molto più estesi sono, invece, i poteri ed i compiti dei dirigenti: ad essi
spetta l’effettiva attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti
di indirizzo adottati dall’organo politico. In particolare secondo la formulazione
dell’art. 107 sono attribui​t i ai dirigenti (in via esemplificativa):

la presidenza delle commissioni di gara e di concorso;

la responsabilità delle procedure di appalto e di concorso;


la stipulazione dei contratti;
gli atti di gestione finanziaria, compresa l’assunzione di impegni di spesa;

i provvedimenti di autorizzazione, concessione e analoghi, il cui rilascio

presupponga accertamenti e valutazioni, anche discrezionali, nel rispetto


dei criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di
indirizzo;
le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni,
legalizzazioni ed ogni altro atto che costituisca manifestazione di giudizio
e conoscenza;

gli atti ad essi attribuiti dallo statuto, dal regolamento o delegati del
Sindaco.

Nei Comuni privi di personale con qualifica dirigenziale, secondo il comma 2


dell’art. 109 del T.U.E.L., queste funzioni possono essere svolte, sulla base di un
provvedimento motivato del Sindaco, dai responsabili degli uffici e dei servizi
indipendentemente dalla loro qualifica funzionale.

6 I CONTRATTI PUBBLICI RELATIVI AI LAVORI

Secondo l’art. 3, comma 8, del Codice dei contratti pubblici, con il termine
lavori pubblici si fa riferimento alle attività di costruzione, demolizione,
recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione di opere.

Il medesimo comma precisa che per opera deve intendersi il


risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una
funzione economica o tecnica. Rientrano in tale definizione sia le
opere che risultano da un insieme di lavori edilizi o di genio civile,
sia quelle di presidio e difesa ambientale e di ingegneria
naturalistica.

Ai sensi dell’art. 2, comma 1, del Codice l’affidamento e l’esecuzione di opere e


lavori pubblici devono garantire la qualità dell’opera e il rispetto dei principi di
economicità, efficacia, tempestività e correttezza.
L’affidamento dei lavori pubblici deve altresì rispettare i principi di libera
concorrenza, parità, non discriminazione, trasparenza e pubblicità.

Il D.Lgs. 163/2006 prevede norme specifiche riguardanti la programmazione, la


direzione e l’esecuzione dei lavori pubblici. In particolare:

l’art. 128 impone a tutte le amministrazioni aggiudicatrici una


programma triennale dei lavori pubblici di importo superiore ai

100.000 euro, con l’indicazione delle priorità e dei mezzi finanziari a


disposizione, basata su appositi studi di fattibilità. Tale programmazione

triennale trova la sua attuazione nell’elenco dei lavori pubblici da

realizzare nell’anno;
l’esecutore dei lavori, oltre alle garanzie generiche previste dall’art. 75,

deve stipulare una polizza assicurativa che «tenga indenni le stazioni

appaltanti da tutti i rischi di esecuzione da qualsiasi causa determinati»

(art. 129);

tutte le amministrazioni aggiudicatrici per l’esecuzione di lavori pubblici


affidati in appalto devono istituire un ufficio di direzione dei lavori
costituito da un direttore dei lavori ed eventualmente da assistenti (art.

130);
l’art. 133 del Codice ribadisce il divieto di revisione dei prezzi e la non

applicabilità del comma 1 dell’art. 1664 C.C. per i lavori pubblici; di


conseguenza è applicato il cosiddetto prezzo chiuso, ovvero il prezzo dei
lavori ridotto del ribasso d’asta e aumentato di una percentuale fissa

stabilita di volta in volta con D.M., nel caso in cui lo scostamento del
rapporto tra tasso di inflazione reale e quello programmato sia superiore
al 2% dell’importo dei lavori previsti per quell’anno;
per tutti i lavori pubblici va redatto un certificato di collaudo, secondo le

specifiche contenute nell’art. 141; per i soli lavori inferiori a 500 mila euro
il certificato di collaudo può essere sostituito con il certificato di
regolare esecuzione.
L’art. 53 del Codice dispone che (con l’eccezione dei contratti di
sponsorizzazione e dei lavori eseguiti in economia) i lavori pubblici possono
essere realizzati esclusivamente mediante contratti di appalto o di
concessione.
A differenza dell’esecuzione in economia, la concessione e l’appalto
presuppongono un contratto fra la P.A. ed un privato.

A L’appalto

Il codice civile definisce l’appalto come «il contratto con il quale una parte
assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio
rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in
denaro». Le ulteriori norme che il codice civile (artt. 1655-1677) detta in
materia, trovano applicazione nel caso di appalto di opere pubbliche, solo se non
siano in contrasto con la normativa speciale di carattere pubblicistico
(carattere desumibile dall’attribuzione alla P.A. di una posizione predominante
nell’ambito del rapporto giuridico).
Ma la principale fonte normativa in materia è costituita oramai dal Codice dei
contratti pubblici di lavori, servizi, forniture (D.Lgs. 163/2006), che, in
attuazione della legge comunitaria 62/2005, recepisce le direttive 2004/18/CE e
2004/17/CE, accorpando, così, in un unico testo la disciplina di appalti e
concessioni, sia sopra soglia che sotto soglia, sia nei settori «ordinari» che in
quelli «speciali».
I contratti sopra soglia o di rilevanza comunitaria sono quelli il cui valore
supera una determinata soglia, mentre i contratti sotto soglia o infracomunitari
sono figure negoziali che non superano la suddetta soglia.

Le soglie comunitarie vengono periodicamente aggiornate dall’Unione europea e


le modifiche sono direttamente applicabili in ciascuno Stato membro. In base al
Regolamento (UE) 1336/2013, dal 1° gennaio 2014 il valore delle soglie è
pari a:

5.186.000 euro per gli appalti e le concessioni di lavori;


134.000 euro per gli appalti di forniture e di servizi aggiudicati dalle

autorità governative centrali;


207.000 euro per gli appalti di forniture e di servizi aggiudicati da

stazioni appaltanti diverse da quelle di cui sopra;

414.000 euro per gli appalti di forniture e di servizi nei settori speciali.
In merito alla distinzione tra settori «ordinari» e settori «speciali»,

ricordiamo che i primi sono quelli disciplinati dalla direttiva 2004/18

(appalti pubblici di lavori, forniture e servizi), i secondi, invece, trovano la

loro disciplina nella direttiva 2004/17 e sono quelli in cui la stazione

appaltante è un ente operante nei servizi pubblici (gas, elettricità, acqua,


trasporti, servizi postali etc.).

Le direttive 2004/18 e 2004/17 hanno introdotto nuovi istituti, ora recepiti dal
Codice dei contratti pubblici, volti a rendere più flessibile e trasparente l’attività
contrattuale della pubblica amministrazione e a garantire la concorrenza. Tra
essi, i più importanti sono: l’accordo quadro, il dialogo competitivo,
l’avvalimento, l’appalto integrato, il sistema dinamico di acquisizione e la
contrattazione tramite centrali di committenza.

LE N UO VE D IRET T IVE EURO PEE SUI CO N T RAT T I PUBBLICI

Il 28 marzo 2014 sono state pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’Unione


europea le tre direttive che riformano il settore dei contratti pubblici:
2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione (materia finora
mai regolamentata in sede europea), 2014/24/UE sui contratti di lavori,
forniture e servizi di tipo tradizionale (aspetti trattati nella direttiva
2004/18/CE, ora abrogata), 2014/25/UE sui cd. settori esclusi (di cui si
occupava la direttiva 2004/17/CE, anch’essa abrogata).
Le tre direttive sono entrate in vigore il 18 aprile 2014 e dovranno essere
recepite nell’ordinamento interno dei singoli Stati membri entro ventiquattro
mesi.

Negli appalti relativi ai lavori, il contratto può avere ad oggetto (art. 53,
comma 2):

a. la sola esecuzione;

b. la progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori sulla base del

progetto definitivo dell’amministrazione aggiudicatrice (cosiddetto

appalto integrato);

c. previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, la

progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori sulla base del progetto

preliminare dell’amministrazione aggiudicatrice. Lo svolgimento della

gara è effettuato sulla base di un progetto preliminare, nonché di un

capitolato prestazionale corredato dall’indicazione delle prescrizioni,

delle condizioni e dei requisiti tecnici inderogabili. L’offerta ha ad

oggetto il progetto definitivo e il prezzo.

Circa la determinazione del prezzo, la legislazione sulle opere pubbliche ha


da sempre individuato tre diverse tipologie:

prezzo a corpo (o a forfait); il prezzo è stabilito per l’intera opera, così


che resta accollato all’appaltatore il rischio delle quantità delle lavorazioni;

prezzo a misura: in questo caso di moltiplica per ogni unità di misura il


prezzo relativo (ad esempio, un tot a km di strada); in tal modo resta a

carico del committente il rischio circa la quantità e la qualità delle


lavorazioni;

prezzo parte a corpo e parte a misura; si tratta di una tipologia che

combina le due precedenti.

Con la modifica agli artt. 53, commi 2, lett. c), e 4, apportata dal D.Lgs.
152/2008 il legislatore ha previsto che in linea generale il contratto di appalto
sia stipulato a corpo per appalti di sola esecuzione e appalti di progettazione
ed esecuzione; mentre è consentita la possibilità di stipulare contratti a
misura per appalti di sola esecuzione di importo inferiore a 500.000 euro e
appalti riguardanti lavori di manutenzione, restauro, scavo archeologico, opere in
sotterraneo e di consolidamento di terreni.
Il D.P.R. 207/2010 regola l’appalto, inteso come sistema di realizzazione dei
lavori pubblici, nella Parte II, titolo V, per ciò che concerne i settori ordinari;
nella Parte V per ciò che concerne i settori speciali.

B) La concessione

La concessione di lavori pubblici è definita (art. 3, comma 11, Codice dei


contratti pubblici) come un contratto a titolo oneroso, concluso in forma
scritta, avente ad oggetto, in conformità al presente codice, l’esecuzione,
ovvero la progettazione esecutiva e l’esecuzione, ovvero la progettazione
definitiva, la progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori pubblici o di
pubblica utilità, e di lavori ad essi strutturalmente e direttamente collegati,
nonché la loro gestione funzionale ed economica, che presentano le stesse
caratteristiche di un appalto pubblico di lavori, ad eccezione del fatto che il
corrispettivo dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in
tale diritto accompagnato da un prezzo.
I presupposti e le condizioni di base che determinano l’equilibrio economico-
finanziario degli investimenti e della connessa gestione vanno richiamati nelle
premesse e costituiscono parte integrante del contratto.
La controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel
diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente tutti i lavori
realizzati.
Se necessario per assicurare al concessionario l’equilibrio economico-finanziario
degli investimenti e della gestione, il soggetto concedente (la P.A.) può
provvedere di corrispondere un prezzo, stabilito in sede di gara (può trattarsi di
un finanziamento o della cessione di immobili).
Per l’affidamento della concessione l’amministrazione deve ricorrere ad una
delle procedure di cui all’art. 144 del Codice dei contratti pubblici, aperta o
ristretta, utilizzando esclusivamente il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa. Qualunque sia la procedura adottata, le
stazioni appaltanti devono pubblicare un bando, senza tuttavia l’obbligo di
applicazione di specifiche procedure di gara.

Il rapporto di concessione può essere risolto:

perché il soggetto concedente è inadempiente (ad esempio, per mancato


adeguamento delle condizioni di equilibrio) oppure ha revocato la

concessione per motivi di pubblico interesse. In tali casi, al concessionario


devono essere rimborsati il valore delle opere realizzate più gli oneri
accessori, al netto degli ammortamenti, nonché le penali e gli altri costi

sostenuti in conseguenza della risoluzione. Il concessionario ha, inoltre,


diritto ad un indennizzo pari al 10% del valore delle opere ancora da
eseguire o del servizio ancora da gestire (art. 158 del Codice dei contratti
pubblici);

per motivi attribuibili al concessionario. In tale ipotesi è possibile


applicare l’istituto del subentro (art. 159 del Codice dei contratti
pubblici), in virtù del quale gli enti finanziatori, ivi inclusi i titolari di
obbligazioni e titoli similari emessi dal concessionario (così dopo le

modifiche introdotte dal D.L. 133/2014, conv. in L. 164/2014) del


progetto possono impedire la risoluzione designando una società che

subentri nella concessione al posto del concessionario iniziale e che verrà

accettata dal concedente a condizione che tale società abbia


caratteristiche tecniche e finanziarie corrispondenti a quelle previste nel

bando di gara e che l’inadempimento cessi entro i novanta giorni

successivi alla scadenza del termine indicato nel contratto per la

designazione della società subentrante.

Il D.P.R. 207/2010 contiene le disposizioni riguardanti le concessioni di lavori


nella Parte II, titolo V.

IL PRO JECT FIN AN CIN G

Il project financing è una tecnica di finanziamento, sviluppatasi nei paesi


anglosassoni, che permette a operatori privati di realizzare opere pubbliche
in concessione, ottenendone in cambio la gestione per un certo numero di
anni. Introdotta nel nostro ordinamento dalla L. 415/1998 (cd. Merloni-ter) e
successivamente recepita dal Codice dei contratti, la disciplina del project
financing è stata profondamente modificata dal D.Lgs. 152/2008 (cd. terzo
correttivo al Codice dei contratti), in particolare per ciò che riguarda le
modalità di scelta del privato cui affidare la concessione. Da ultimo,
l’articolo è stato sostituito dal D.L. 1/2012, conv. in L. 27/2012.
L’art. 153, nella nuova formulazione, dispone che per la realizzazione di
lavori pubblici o di pubblica utilità, inclusi quelli relativi alle strutture
dedicate alla nautica da diporto, finanziabili totalmente o parzialmente con
capitali privati e inseriti nella programmazione triennale predisposta dalle
amministrazioni aggiudicatrici ai sensi dell’art. 128, tali amministrazioni
possano, in alternativa all’affidamento mediante concessione previsto
dall’art. 143, affidare una concessione ponendo a base di gara uno studio di
fattibilità e pubblicando un bando finalizzato alla presentazione di offerte
che contemplino l’utilizzo di risorse totalmente o parzialmente a carico dei
soggetti proponenti.
Lo studio di fattibilità è redatto dal personale delle amministrazioni
aggiudicatrici in possesso dei requisiti soggettivi necessari. In caso di
carenza in organico di personale qualificato, la redazione può essere
affidata a soggetti esterni, individuati con le procedure previste dal Codice
stesso; in tale caso, gli oneri connessi possono essere ricompresi nel
quadro economico del progetto (comma 2bis, introdotto dal D.L. 83/2012,
conv. in L. 134/2012).
Una delle novità introdotte dal D.L. 1/2012 è la rimodulazione della
procedura della proposta presentata dal privato per le opere non
programmate (art. 153, commi 19-22).
In base all’art. 156, l’aggiudicatario ha la facoltà (che deve essere prevista
già nel bando di gara) di costituire una società di progetto in forma di
società per azioni o a responsabilità limitata. La società di progetto così
costituita diventa la concessionaria, subentrando automaticamente
all’aggiudicatario nel rapporto di concessione senza che ciò configuri
cessione del contratto. Il bando di gara può anche prevedere l’obbligo per
l’aggiudicatario di costituire tale società.

C) I lavori in economia

Se il contratto costituisce il normale strumento mediante il quale l’ente


pubblico addiviene agli acquisti, alle vendite, ai lavori di cui abbisogna, il
legislatore consente tuttavia che la P.A. provveda, in determinate circostanze,
ad assicurare direttamente i suoi servizi mediante propri organi.
Viene incaricato, di regola, un funzionario cui si affida il compito di provvedere
«in economia» ad una determinata necessità disponendo per l’impegno e
scegliendo il privato senza alcuna delle formalità precedentemente contemplate.
Questo sistema riposa sulla lealtà e onestà del funzionario il quale, pur avendo
libertà di azione, deve adottare, pena la sua personale responsabilità, tutti
quegli accorgimenti idonei a garantire le migliori condizioni per la P.A.
Vantaggi di tale metodo sono la snellezza della procedura e la tempestività
nella esecuzione del servizio e nel relativo pagamento.

Secondo l’art. 125, commi 5 e 6, del Codice dei contratti pubblici, i lavori
eseguibili in economia sono ammessi fino all’importo di 200.000 euro e
sono individuati da ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie
specifiche competenze e nell’ambito delle seguenti categorie generali:

a. manutenzione o riparazione di opere od impianti quando l’esigenza è

rapportata ad eventi imprevedibili e non sia possibile realizzare con le

forme e le procedure usuali;

b. manutenzione di opere od impianti;

c. interventi non programmabili in materia di sicurezza;

d. lavori che non possono essere differiti, dopo l’infruttuoso esperimento

delle procedure di gara;

e. lavori necessari per la compilazione di progetti;

f. completamento di opere o impianti a seguito della risoluzione del

contratto o in danno dell’appaltatore inadempiente, quando vi è

necessità e urgenza di completare i lavori.

L’esecuzione dei lavori con tale sistema si realizza (art. 125):

a. in amministrazione diretta; in questo caso il responsabile del


procedimento organizza ed esegue per mezzo di proprio personale o di

personale eventualmente assunto i lavori, acquista i materiali e noleggia

i mezzi eventualmente necessari per la realizzazione dell’opera. I lavori

assunti in amministrazione diretta non possono comportare una spesa

complessiva superiore a 50.000 euro;

b. a cottimo. Si tratta di una procedura negoziata, adottata per

l’affidamento dei lavori di importo non superiore a 200.000 euro. In

questo caso l’affidamento è preceduto da un’indagine di mercato fra

almeno cinque imprese (per i lavori di importo inferiore a 40.000 euro si

può procedere ad affidamento diretto).

Ai lavori in economia il D.P.R. 207/2010 dedica gli artt. 173-177, Parte II, titolo
VIII.

D) La procedura ristretta semplificata

L’art. 123, disciplinando la procedura ristretta semplificata, stabilisce che per


gli appalti aventi ad oggetto la sola esecuzione di lavori di importo inferiore a
un milione e cinquecentomila euro le stazioni appaltanti possono invitare (senza
pubblicazione di bando) almeno venti concorrenti a presentare un’offerta. Gli
operatori economici interessati, dopo aver presentato domanda, vengono iscritti
in appositi elenchi per i quali è stabilito un numero massimo, elevabile al solo
scopo di tutelare la concorrenza.

7 I CONTRATTI PUBBLICI RELATIVI ALLE FORNITURE

L’art. 3, comma 9 del Codice, definisce con precisione la nozione di «appalti


pubblici di forniture»: sono appalti pubblici diversi da quelli di lavori o di
servizi, aventi per oggetto l’acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o
l’acquisto a riscatto, con o senza opzione per l’acquisto, di prodotti.

In particolare, l’art. 28 individua la soglia oltre la quale si applicheranno gli artt.


28-120 (contratti di rilevanza comunitaria):

134.000 euro, per gli appalti pubblici di forniture aggiudicati dalle

autorità governative centrali;

207.000 euro, per gli appalti pubblici di forniture aggiudicati da stazioni

appaltanti diverse da quelle di cui sopra.

In merito alle procedure di scelta del contraente, ai requisiti di carattere


generale e di tipo specifico, vale quanto detto in precedenza e si applica
anche per questo tipo di contratti l’art. 38 del Codice riguardo i requisiti
generali che i soggetti devono possedere per poter partecipare alle procedure di
affidamento dei contratti in questione. Per i requisiti di idoneità professionale
vale quanto detto a proposito degli appalti di lavori con la specificazione che se
si tratta di un cittadino di un altro Stato membro non residente in Italia deve
provare, se richiesto, la sua iscrizione, in uno dei registri professionali o
commerciali di cui all’allegato XI B per gli appalti pubblici di forniture, mediante
dichiarazione giurata o secondo le modalità vigenti nello Stato membro nel
quale è stabilito. I fornitori appartenenti agli Stati membri che non figurano nel
citato allegato attestano, sotto la propria responsabilità, che il certificato
prodotto è stato rilasciato da uno dei registri professionali o commerciali
istituiti nel Paese in cui sono residenti.
L’art. 41 del Codice stabilisce che i prestatori di forniture, ma anche di servizi,
devono dimostrare la capacità economica e finanziaria con dichiarazioni di
almeno due istituti bancari o intermediari autorizzati ai sensi del D.Lgs.
385/1993; bilanci o estratti di bilanci oppure dichiarazione sottoscritta ex D.P.R.
445/2000.
L’art. 42 elenca, invece, i modi in cui negli appalti di forniture e servizi i
concorrenti possono dimostrare le capacità tecniche e professionali.
La stazione appaltante deve precisare nel bando di gara o nella lettera d’invito,
quale dei documenti sopra elencati e quali requisiti devono essere presentati o
dimostrati. I requisiti possono essere dimostrati in sede di gara mediante
dichiarazione sottoscritta in conformità del D.P.R. 445/2000. Il concorrente che
si aggiudica la gara è richiesta la documentazione probatoria, per confermare
quanto dichiarato in sede di gara.
I contratti di forniture sotto soglia sono disciplinati dall’art. 124 che, rispetto
alla disciplina dettata per gli appalti sopra soglia, opera una sensibile riduzione
di tempi e una semplificazione di pubblicità, che non è prevista in ambito
sovranazionale. I bandi sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
italiana, sul sito informatico dell’Osservatorio, del Ministero delle infrastrutture
e dei trasporti e nell’albo della stazione appaltante.
Dato l’importo modesto delle forniture sotto soglia, è prevista un’ulteriore
semplificazione rispetto ai lavori, quanto ai termini per le domande di
partecipazione e per le offerte. Viene demandato ad apposito regolamento il
compito di individuare, secondo criteri di semplificazione rispetto alle norme
ordinarie, i requisiti di idoneità morale, capacità tecnico-professionale ed
economico-finanziaria che devono essere possedute dagli operatori.

8 I CONTRATTI PUBBLICI RELATIVI AI SERVIZI

Il D.Lgs. 163/2006 (art. 3, comma 10) definisce gli appalti pubblici di servizi
come gli appalti pubblici diversi dagli appalti pubblici di lavori o di forniture,
aventi per oggetto la prestazione dei servizi di cui agli allegati II A e II B.
Il primo allegato comprende una serie di servizi definiti prioritari (manutenzione
e riparazione, telecomunicazione etc.), per i quali si applicano tutte le procedure
previste dal Codice; nell’allegato II B sono invece elencate 11 attività residuali
(servizi di trasporto per ferrovia, servizi di collocamento e reperimento del
personale etc.) alle quali si applicano solo le disposizioni relative alle specifiche
tecniche e all’avviso dell’avvenuta aggiudicazione.
In presenza di appalti misti — di servizi e di lavori — si dà prevalenza ai
servizi se il contratto prevede i lavori solo a titolo accessorio rispetto
all’oggetto principale (art. 14).
Il Codice prevede le procedure di aggiudicazione già viste per gli appalti di
lavori e forniture ovvero procedure aperte, ristrette, negoziate, dialogo
competitivo e accordo quadro.
Valgono inoltre le norme contenute nell’art. 38, quelle degli artt. 41 e 42 e
quelle dell’art. 39 con la specificazione che se si tratta di un cittadino di uno
Stato membro non residente in Italia, può essergli richiesto di provare la sua
iscrizione, secondo le modalità vigenti nello Stato di residenza, in uno dei
registri professionali o commerciali di cui all’allegato XI C per gli appalti
pubblici di servizi, mediante dichiarazione giurata o secondo le modalità vigenti
nello Stato membro nel quale è stabilito.

La pubblicità degli atti deve essere assicurata in diverse fasi


della contrattazione:

vi è una sorta di pre-informazione, consistente nella

redazione da parte delle amministrazioni aggiudicatrici di un


avviso indicativo del volume complessivo degli appalti,

distinto per categorie di servizi, che esse intendono


aggiudicare nei 12 mesi successivi, di importo pari o
superiore a 750.000 euro, IVA esclusa;

in secondo luogo vanno pubblicati i veri e propri bandi di


gara;
infine viene attuata una sorta di post-informazione,
consistente nella comunicazione, mediante avvisi, degli

appalti aggiudicati, salvo i casi di espresso divieto di tali


informazioni.

Per i contratti di servizi sotto soglia, vale la disciplina prevista


per quelli di forniture.

L’art. 30 del Codice dei contratti pubblici prevede l’istituto della concessione di
servizi, che si differenzia dall’appalto di servizi sotto due aspetti:

a. il servizio non è necessariamente prestato a favore di

un’amministrazione aggiudicatrice, potendo essere prestato anche a

favore della collettività (es.: trasporto su strada, servizio idrico, etc.);

b. le remunerazione del concessionario non è un prezzo, bensì il

diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il

servizio.

La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi di


trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento,
mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti.
L’affidamento di servizi attinenti all’ingegneria ed all’architettura avviene sulla
base delle norme dettate dal Capo IV (artt. 90-112) del Codice, concernenti la
progettazione interna ed esterna e i concorsi di progettazione. Si ricorre a
questi ultimi quando l’amministrazione ha la necessità di individuare non il
miglior progettista, ma il miglior progetto tra i diversi elaborati presentati.

I concorsi di progettazione sono indetti (art. 99):

dalle amministrazioni aggiudicatrici designate nell’allegato IV come


autorità governative centrali (Ministeri e Consip), a partire da una soglia

pari o superiore a 134.000 euro;


dalle stazioni appaltanti non designate nell’allegato IV, a partire da

una soglia pari o superiore a 207.000 euro;


da tutte le stazioni appaltanti, a partire da una soglia pari o superiore a

207.000 euro, quando i concorsi hanno per oggetto servizi di ricerca e

sviluppo e servizi di telecomunicazioni appartenenti alla categoria 5


dell’allegato II A.

Tali norme si applicano sia ai concorsi di progettazione indetti nel contesto di


una procedura di aggiudicazione di appalti pubblici di servizi, sia a quelli che
prevedono premi di partecipazione o versamenti a favore dei partecipanti (art.
99).

Esse, invece, non si applicano nel caso di (art. 100):

contratti segretati o che esigono particolari misure di sicurezza, appalti


aggiudicati in base a norme internazionali, contratti esclusi nel settore

delle telecomunicazioni;
esercizio di un’attività in merito alla quale l’applicabilità dell’art. 219,

comma 1 (procedura per stabilire se una determinata attività è


direttamente esposta a concorrenza) sia stata stabilita da una decisione
della Commissione;

concorsi di progettazione di servizi nei settori speciali, indetti dalle

stazioni appaltanti che esercitano una o più attività nell’ambito di tali


settori.

I concorsi di progettazione vengono indetti mediante pubblicazione di un bando


di concorso con cui si invitano i concorrenti a presentare soluzioni progettuali,
si stabiliscono criteri di selezione e l’eventuale premio per il miglior progetto.
Una particolare tipologia di concorso di progettazione è il concorso di idee, a
cui l’amministrazione ricorre quando vuole acquisire progetti preliminari che
attengono a problemi per i quali sono possibili varie soluzioni. In questo caso, il
bando prevede un congruo premio al soggetto o ai soggetti che hanno elaborato
le idee migliori. L’idea o le idee premiate sono acquisite in proprietà dalla
stazione appaltante e possono essere anche poste a base di un concorso di
progettazione o di un appalto di servizi di progettazione.

LE PRIN CIPALI N O VIT À RECAT E D AL D.P.R. 5-10-2010, N . 207 AI CO N T RAT T I


RELAT IVI AI SERVIZI E ALLE FO RN IT URE

Nell’ambito delle procedure aventi ad oggetto le forniture di beni e servizi,


gli elementi più significativi recati dal D.P.R. 207/2010 possono essere così
schematizzati:

a. l’introduzione di una disciplina della programmazione degli

appalti di forniture e di servizi sulla falsariga di quella prevista

per gli appalti di lavori, al fine di garantire anche in tale settore una

razionale ed adeguata organizzazione delle attività.

Ai sensi dell’art. 271, ciascuna amministrazione aggiudicatrice può

approvare ogni anno un programma annuale per l’acquisizione di

beni e servizi relativo all’esercizio successivo. Il programma è

predisposto nel rispetto dei principi generali di economicità ed

efficacia, sulla base del fabbisogno di beni e servizi definito

dall’amministrazione aggiudicatrice stessa. Il programma

individua l’oggetto, l’importo presunto e la relativa forma di


finanziamento.

In considerazione della novità della disciplina e delle peculiarità del

settore, il legislatore ha previsto un’impostazione della norma in

termini di facoltà delle Pubbliche Amministrazioni che avranno a

loro disposizione una serie di criteri per la predisposizione di atti di

programmazione nel rispetto dei principi generali di economicità e

di efficacia dell’azione amministrativa.

Lo schema di programma e di aggiornamento sono redatti entro il

30 settembre di ogni anno e adottati dall’organo competente entro

il 15 ottobre di ogni anno. Con riferimento a ciascuna iniziativa in

cui si articola il programma annuale l’amministrazione provvede nel

corso dell’esercizio alla verifica della fattibilità tecnica economica e

amministrativa.

Qualora l’Amministrazione abbia predisposto il programma, rimane

salva la possibilità di avviare procedimenti per l’acquisizione di beni

e servizi in casi di urgenza, risultanti da eventi imprevisti o

imprevedibili in sede di programmazione.

Come evidenziato anche dall’Autorità per la vigilanza sui contratti

pubblici, la programmazione deve essere valorizzata maggiormente


non potendo prescindere da un’attenta pianificazione finanziaria ed

economica e dalla realizzazione concreta degli interventi. Soltanto

attraverso un approccio in cui la programmazione si inserisce quale

elemento per monitorare i tempi di realizzazione, tale strumento

potrà assumere la valenza che merita, superando l’approccio

meramente burocratico legato all’adempimento.

b. Gli artt. 272-274 disciplinano analiticamente i compiti e le

attività del responsabile del procedimento.

Le disposizioni normative che caratterizzano tale figura prevedono

alcuni elementi di flessibilità attraverso un’articolazione dei compiti

e delle attività modulabili, in parte, anche in base ai regolamenti

delle singole stazioni appaltanti.

Dal punto di vista soggettivo il responsabile del procedimento è

identificato in un funzionario, anche di qualifica non dirigenziale

dell’amministrazione aggiudicatrice.

c. Con il nuovo Regolamento entra in vigore il nuovo sistema di

affidamento del “dialogo competitivo” che consentirà alle

Amministrazioni, in caso di appalti particolarmente complessi, di

confrontarsi con gli operatori economici per individuare, con


l’apporto del mondo imprenditoriale, soluzioni in grado di soddisfare

le esigenze della P.A.

d. Nel provvedimento, inoltre, sono stabiliti anche i presupposti, le

condizioni e le modalità di svolgimento dell’asta elettronica.

Nell’ambito dell’e-procurement è stata prevista una procedura

interamente gestita con sistemi telematici — ivi compreso il

mercato elettronico per gli acquisti d’importo inferiore alla soglia di

rilievo comunitario.

e. Nel settore dei servizi è stata introdotta, in modo inedito, la

disciplina della finanza di progetto, che si avvale di procedure

semplificate rispetto a quelle previste per i lavori, la quale

consentirà di attirare risorse private per la prestazione di servizi

pubblici.

Infine, il nuovo Regolamento definisce la disciplina attuativa

applicabile agli enti operanti nell’ambito dei settori speciali,

diretta ad uniformare l’attività negoziale degli enti aggiudicatori ad

una serie di vincoli che, da un lato, garantiscano i principi di

trasparenza, concorrenza, non discriminazione e, dall’altro,

preservino i necessari margini di flessibilità.


9 GLI APPALTI NEI SETTORI SPECIALI

Sono interessati alle disposizioni del Codice dei contratti pubblici, parte III:

a. le amministrazioni aggiudicatrici o le imprese pubbliche che

svolgono attività nei settori speciali (gas, energia termica,

elettricità, acqua, trasporti, servizi postali, sfruttamento di area

geografica);

b. i soggetti che, pur non essendo amministrazioni aggiudicatrici o

imprese pubbliche, svolgono una o più attività nei settori di cui

sopra e operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro

dall’autorità competente di uno Stato membro. Sono diritti speciali o

esclusivi i diritti costituiti per legge, regolamento o in virtù di una

concessione o altro provvedimento amministrativo avente l’effetto di

riservare a uno o più soggetti l’esercizio di un’attività nei settori

speciali e di incidere sulla capacità di altri soggetti di esercitare tale

attività (art. 207).

Gli articoli 208-213 forniscono puntuali chiarimenti in ordine alle attività che
vanno ricomprese fra i cosiddetti settori speciali.

a. Gas, energia termica ed elettricità (art. 208)

In questo settore rientrano la messa a disposizione o la gestione di reti


fisse destinate alla fornitura di un servizio al pubblico in materia di

produzione, trasporto o distribuzione di gas, energia termica ed

elettricità, nonché l’attività di alimentazione delle suddette reti.

b. Acqua (art. 209)

Tale settore comprende la messa a disposizione o la gestione di reti

fisse destinate a fornire al pubblico un servizio in connessione con la

produzione, il trasporto o la distribuzione di acqua potabile e

l’alimentazione di tali reti con acqua potabile.

c. Servizi di trasporto (art. 210)

Il comparto in esame comprende le attività relative alla messa a

disposizione o alla gestione di reti destinate a fornire un servizio al

pubblico nel campo del trasporto ferroviario, tranviario, filoviario, ovvero

mediante autobus, sistemi automatici o cavo.

Nei servizi di trasporto una rete si considera esistente se il servizio

viene fornito alle prescrizioni operative stabilite dalle competenti

autorità pubbliche, come ad esempio quelle relative alle tratte da

servire, alla capacità di trasporto disponibile o alla frequenza del

servizio.

d. Servizi postali (art. 211)


In tale settore rientrano le attività relative alla fornitura di servizi

postali o di altri servizi diversi da quelli postali, a condizione che siano

forniti da un ente che fornisce anche servizi consistenti nella raccolta,

smistamento, trasporto e distribuzione di invii postali.

e. Sfruttamento di area geografica (artt. 212-213)

Questo comparto comprende le attività relative allo sfruttamento di

un’area geografica, ai fini della prospezione o estrazione di petrolio, gas,

carbone o di altri combustibili solidi, nonché ai fini della messa a

disposizione di aeroporti, porti marittimi o interni e di altri terminali di

trasporto ai vettori aerei, marittimi e fluviali.

La normativa in esame non si applica nelle seguenti ipotesi:

contratti segretati o che esigono particolari misure di sicurezza (art. 17);

contratti aggiudicati in base a norme internazionali (art. 18);


contratti aventi per oggetto l’acquisto o la locazione di terreni, fabbricati o

altri beni immobili, l’acquisto, lo sviluppo o la produzione di programmi


destinati alla trasmissione da parte di emittenti radiotelevisive, i servizi di

arbitrato e di conciliazione, i servizi finanziari, i contratti di lavoro e i


contratti concernenti i servizi di ricerca e sviluppo diversi da quelli i cui
risultati appartengono esclusivamente alla stazione appaltante (art. 19);
appalti aggiudicati a scopo di rivendita o di locazione a terzi (art. 24);
appalti aggiudicati per l’acquisto di acqua e per la fornitura di energia o di

combustibili destinati alla produzione di energia (art. 25);


appalti aggiudicati per fini diversi dall’esercizio delle attività rientranti nei

settori speciali, di cui agli articoli 208-213, o per l’esercizio di attività in

un paese terzo, in circostanze che non comportino lo sfruttamento


materiale di una rete o di un’area geografica all’interno della Comunità

(art. 217);

appalti aggiudicati ad un’impresa comune avente personalità giuridica o ad

un’impresa collegata (art. 218);

appalti aventi ad oggetto la prestazione di un’attività nei settori speciali


se nello Stato membro in cui è esercitata l’attività, quest’ultima è
direttamente esposta alla concorrenza sui mercati liberamente accessibili

(art. 219).

Per quanto riguarda le concessioni di servizi, la parte terza del Codice non si
applica alle concessioni di lavori e di servizi rilasciate da enti aggiudicatori che
esercitano una o più attività di cui agli articoli 208-213, quando la concessione
ha ad oggetto l’esercizio di dette attività.
Le disposizioni della parte terza del Codice in esame si applicano sia ai
contratti pubblici nei settori speciali di rilevanza comunitaria, sia a quelli sotto
soglia comunitaria.

Gli importi delle soglie sono i seguenti:

a. 414.000 euro per gli appalti di forniture e servizi;

b. 5.186.000 euro per gli appalti di lavori.


10 ACQUISTI DI BENI E SERVIZI MEDIANTE CONVENZIONI E
PROCEDURE TELEMATICHE

A) Acquisti mediante convenzioni Consip

Le convenzioni quadro sono state introdotte dall’art. 26 della L. 488/1999 che ha


delineato un sistema in cui, tramite le procedure previste dalla vigente
normativa in materia di scelta del contraente, vengono individuate imprese per
la fornitura di beni e servizi. In particolare, l’art. 26 attribuisce al Ministero del
Tesoro (ora dell’Economia e delle Finanze) la funzione di stipulare, anche
avvalendosi di società di consulenza specializzate, apposite convenzioni in
base alle quali le imprese fornitrici prescelte si impegnano ad accettare (ai
prezzi e alle condizioni ivi previsti), ordinativi di fornitura sino a concorrenza
della quantità massima complessiva. In base al comma 3 le amministrazioni
pubbliche possono fare ricorso a tali convenzioni oppure utilizzarne i parametri
di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l’acquisto di beni e servizi
comparabili con quelli oggetto di convenzionamento. La stipulazione di un
contratto in violazione di tali disposizioni è causa di responsabilità
amministrativa; ai fini della determinazione del danno erariale si tiene anche
conto della differenza tra il prezzo previsto nelle convenzioni e quello indicato
nel contratto.
Per la realizzazione del sistema delle convenzioni il Ministero dell’Economia si
avvale della Consip S.p.A. (Concessionaria Servizi Informatici Pubblici),
società interamente posseduta dal Ministero stesso. Alla Consip è stata
affidata la gestione delle procedure per la conclusione delle convenzioni, la
realizzazione e gestione del sistema di controllo e verifica dell’esecuzione delle
convenzioni stesse, nonché l’esecuzione di tutti i servizi informatici, telematici,
logistici e di consulenza necessari alla compiuta realizzazione del sistema
stesso.
Sulla scia delle esperienze maturate in Italia con la Consip (e in altri Stati
membri con organismi analoghi), la direttiva 2004/18 (art. 11) ha introdotto
anche nella normativa comunitaria in materia di appalti la figura della centrale
di committenza, vale a dire un organismo centrale che ha come fine
istituzionale l’acquisto di lavori, forniture e servizi per conto di altre
amministrazioni aggiudicatrici.
Il Codice dei contratti ha recepito la direttiva 2004/18, definendo la centrale di
committenza al comma 34 dell’art. 3 e regolando gli appalti pubblici e gli
accordi quadro stipulati da tali centrali all’art. 33.
Quest’ultimo articolo prevede al comma 3bis, introdotto dal D.L. 201/2011, conv.
in L. 214/2011, e successivamente modificato dal D.L. 66/2014, conv. in L.
89/2014, e dal D.L. 90/2014, conv. in L. 114/2014, che i Comuni non
capoluogo di Provincia procedono all’acquisizione di lavori, beni e servizi
nell’ambito delle Unioni di Comuni, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito
accordo consortile tra i Comuni medesimi ovvero ricorrendo ad un soggetto
aggregatore o alle Province. In alternativa, possono acquisire beni e servizi
tramite gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip o da altro
soggetto aggregatore (tale disposizione, tuttavia, stante quanto disposto dalla
L. 11/2015, di conversione del D.L. 192/2014, entra in vigore il 1°
settembre 2015). Un’eccezione è prevista dall’art. 23ter del D.L. 90/2014,
secondo cui i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti possono
procedere autonomamente agli acquisti di beni, servizi e lavori di valore
inferiore a 40.000 euro.
La L. 191/2009, art. 2 commi 225-227, prevede che le amministrazioni
pubbliche così come definite dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 165/2001, e le
amministrazioni aggiudicatrici (di cui all’art. 3, comma 25, del Codice dei
contratti) possono ricorrere, per gli acquisti di beni e servizi, agli accordi
quadro che la Consip conclude in qualità di stazione appaltante in virtù dell’art.
59 del D.Lgs. 163/2006 oppure adottano, per gli acquisti di beni e servizi
comparabili, i parametri prezzo-qualità rapportati a quelli fissati nei citati
accordi.
Infine, ai sensi del D.L. 95/2012, conv. in L. 135/2012, a partire dal 15 agosto
2012, i contratti stipulati in violazione dell’articolo 26, comma 3, della legge 23
dicembre 1999, n. 488 e quelli stipulati in violazione degli obblighi di
approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione da
Consip S.p.A. sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di
responsabilità amministrativa.

B) Il mercato elettronico della pubblica amministrazione (MEPA)

Il D.P.R. 101/2002, abrogato a partire dall’8 giugno 2011 dal D.P.R. 207/2010, ha
esteso anche alle pubbliche amministrazioni la possibilità di acquisire beni e
servizi attraverso Internet, possibilità già diffusa nel settore privato. Il ricorso
al mercato elettronico è infatti considerato uno strumento essenziale per
ridurre la spesa per la fornitura di beni e servizi poiché rende le procedure di
acquisto snelle, rapide e trasparenti.
La possibilità di ricorrere a tale strumento è divenuta obbligo ad opera dell’art.
1, comma 450, della L. 296/2006 (finanziaria 2007): dal 1° luglio 2007, le
amministrazioni statali centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle
scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni
universitarie, per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia
comunitaria, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione (MEPA), di cui al D.P.R. 207/2010.
Le Regioni, le Province, le Città metropolitane, i Comuni e le Comunità montane
possono applicare le disposizioni del regolamento se così dispongono nell’ambito
della propria autonomia e salvo che non aderiscano alle convenzioni stipulate
tramite Consip.
Il MEPA è un mercato digitale in cui le amministrazioni abilitate possono
acquistare, per valori inferiori alle soglie comunitarie, i beni e i servizi offerti
da fornitori abilitati a presentare i propri cataloghi su tale mercato (per
maggiori approfondimenti si veda il sito www.acquistinretepa.it).
In questo caso è la Consip che definisce con appositi bandi le tipologie di beni e
servizi e le relative condizioni generali di fornitura e che gestisce l’abilitazione
dei fornitori e la pubblicazione e l’aggiornamento dei cataloghi. Accedendo alla
vetrina del mercato elettronico o navigando sul catalogo prodotti, le
amministrazioni possono verificare direttamente l’offerta di beni e/o servizi e,
una volta abilitate, effettuare acquisti on line, confrontando le proposte dei
diversi fornitori e scegliendo quella più rispondente alle proprie necessità.
I principali vantaggi di tale sistema sono (fonte: www.acquistinretepa.it):
per le amministrazioni:

risparmi di tempo sul processo di acquisizione di beni e servizi

sotto soglia;

trasparenza e tracciabilità dell’intero processo d’acquisto;


ampiamento delle possibilità di scelta per le Amministrazioni,

che possono confrontare prodotti offerti da fornitori presenti su tutto

il territorio nazionale;

soddisfazione di esigenze anche specifiche delle Amministrazioni,


grazie a un’ampia e profonda gamma di prodotti disponibili e la

possibilità di emettere richieste di offerta;

per i fornitori:

diminuzione dei costi commerciali e ottimizzazione dei tempi di

vendita;
accesso al mercato della Pubblica Amministrazione;
occasione per valorizzare la propria impresa anche se di piccole

dimensioni;
concorrenzialità e confronto diretto con il mercato di riferimento;
opportunità di proporsi su tutto il territorio nazionale;

leva per il rinnovamento dei processi di vendita;

Lo stesso comma 450 precisa poi che le altre amministrazioni pubbliche di cui
all’art. 1 del D.Lgs. 165/2011 (tra cui gli enti locali), per gli acquisti di beni e
servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria, sono tenute a fare ricorso al
MEPA ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi dell’art. 328 del D.P.R.
207/2010 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale
regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure.
Per i contratti di acquisto di forniture e servizi sotto la soglia comunitaria, il
D.P.R. 207/2010, all’art. 328, stabilisce che, salvi i casi di ricorso obbligatorio al
mercato elettronico, la stazione appaltante può decidere di acquisire beni e
servizi attraverso un proprio mercato elettronico, o utilizzando il mercato
elettronico della pubblica amministrazione realizzato dal MEF sulle proprie
infrastrutture tecnologiche, ovvero avvalendosi del mercato elettronico
realizzato dalle centrali di committenza di riferimento.
Il mercato elettronico consente acquisti telematici basati su un sistema che
attua procedure di scelta del contraente interamente gestite per via elettronica
e telematica, nel rispetto di determinate disposizioni e dati principi
organizzativi.
Le stazioni appaltanti abilitano al mercato elettronico i fornitori di beni e i
prestatori di servizi tramite uno o più bandi aperti per tutta la durata del
mercato a qualsivoglia operatore economico che possieda i requisiti di
abilitazione. I bandi di abilitazione sono pubblicati in conformità della disciplina
applicabile per le procedure sotto soglia di cui all’art. 124, comma 5, del Codice
e indicano l’indirizzo del sito informatico presso il quale è possibile consultare
la documentazione della procedura, senza subordinarlo ad oneri.

Avvalendosi del mercato elettronico le stazioni appaltanti possono


effettuare acquisti di beni e servizi sotto soglia:

a. attraverso un confronto concorrenziale delle offerte pubblicate

all’interno del mercato elettronico o delle offerte ricevute sulla base di

una richiesta di offerta rivolta ai fornitori abilitati;

b. in applicazione delle procedure di acquisto in economia.


Per gli acquisti di servizi e forniture in economia è l’articolo 335 del D.P.R.
207/2010 a dettare le norme in materia di mercato elettronico e uso degli
strumenti elettronici.

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