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GEOGRAFIA POLITICO ECONOMICA

9-03-2021

Geografia politico economica

Opzione A programma svolto a lezione, riassunto nelle ultime due lezioni

Opzione B portare il libro

Modalità d’esame: orale

2 parti:

1) parte non c’è niente da dire

2) situazione infrastrutturale rispetto al turismo in montagna nelle varie regioni italiane, non pretende che
sappiamo a memoria dettagli inutili come il numero di impianti di risalita che ci sono a Campitello Matese,
ma non potete ignorare quella parte, dovete leggerla nella prospettiva di comprendere la situazione
generale e strutturale della singola regione.

Mi può dire la situazione strutturale degli impianti in Veneto?

Non vuole sapere quanti impianti di risalita ci sono, ma come questa situazione si presenta. Vuole sapere se
ci sono 30 località o 2. La seconda parte del testo è accessoria, rispetto alla prima, né si può ignorare, né
pretende che sappiamo a memoria una serie a memoria di dati.

Il corso vuole individuare il rapporto tra economia, politica e territorio. Questo significa che il nostro
terreno di analisi è il territorio, di cui darà una definizione nella prossima lezione.

Consiglio: inserire a fine lezione all’interno del gruppo le parole chiave che hanno caratterizzato la lezione
del giorno, perché a queste parole chiavi corrisponderanno delle domande.

TEMA DELLO SPAZIO E DEL TERRITORIO

Il territorio è l’oggetto della nostra analisi. Partiamo dal concetto di spazio, che è una dimensione
strettamente quantitativa, è la rappresentazione della geometrica euclidea, soddisfa delle esigenze
specifiche, ma non descrive nulla di quello che c’è all’interno di quella dimensione quantitativa . Esistono
modi lineari ad una dimensione per misurare spazi, esistono modi bidimensionali (carte geografiche) ed
esistono spazi in cui siamo inseriti noi, per esempio, in quanto animali terrestri, in grado di percepire uno
spazio tridimensionale-> per noi questa è la convenzione. L’idea di un mondo tridimensionale è una
convenzione umanale. Che l’universo sia tridimensionale sembra a noi. Il concetto di spazio è un concetto
convenzionale sotto un punto di vista: quello della tridimensionalità e sotto anche un secondo punto di
vista: quello della sua sola dimensione quantitativa. Per es: se dico che sono in un’aula di 10m x 10 x 4 dico
una cosa imprecisa, perché mi trovo in un luogo fisico caratterizzato dalla presenza di una serie di strutture,
sedie, banchi e di due esseri viventi. Il concetto di spazio è primigenio, fondamentale, nella sua semplicità e
nella sua inadeguatezza a descrivere cosa avviene in quel contesto.

Lo spazio in linea teorica è un’entità astratta. Il territorio è invece tutto quello che connota quello spazio,
tutte le caratteristiche di tipo naturale e non, che finiscono per caratterizzare quel luogo . Il territorio è
quello che riempie quello spazio, quello che in quello spazio esiste. Non ci accontentiamo della dimensione
quantitativa, ma voglio sapere cosa c’è in quello spazio. Ciò che rende diverso uno spazio dall’altro è il
territorio, che è uno spazio qualificato. Il territorio è un insieme di frammenti che agiscono in quella
dimensione spaziale e creano interazioni territoriali. Il territorio non è mai astratto. Dalle foto non si capisce
tutto, x es foto di Marte non si capisce che la componente aeriforme non è respirabile. Le foto non ci
dicono nulla sulla temperatura. Molto spesso la rappresentazione del territorio non riesce a cogliere tutti gli
aspetti, tutte le qualità che il territorio presenta, perché dentro al territorio, che riempie quella porzione di
spazio vuoto, ci sono tante cose che facciamo fatica a comprendere, a rappresentare, a gestire perché
qualche volta non abbiamo gli strumenti per capirle.

Siamo di fronte ad una situazione che presenta una sua complessità, nella quale dobbiamo cominciare a
muoverci, perché abbiamo bisogno di capire il territorio, per sfruttarlo, tutelarlo, infrastrutturarlo, abitarlo.
Una dicotomia essenziale x comprendere le principali specificità territoriali (perché non posso capirle tutte).
Esigenza fondamentale di individuare da una parte i vincoli e dall’altra le opportunità che quel territorio
presenta. La matrice vincoli/opportunità è lo strumento analitico principale che ci serve per capire qualcosa
del territorio, le specificità territoriali.

Vincoli = difficoltà offerte dal luogo, a volte anche invisibili, ma fortemente condizionanti. ad esempio,
pandemia, virus vincolo invisibile

Spesso si pensa che questi vincoli territoriali non esistano, o che possano superati, non è così. Alcuni vincoli
sono derogabili, altri no. Un essere umano su Marte non respira.

Concetto di spazio, territorio, di vincolo territoriale.

11-03-2021

Il rapporto tra i vincoli e le opportunità presenti sul territorio rappresenta a tutti gli effetti la comprensione
degli uni e degli altri, che ci consentono di azzardare un’analisi rispetto al problema che ci stiamo ponendo.
Ad esempio, ogni problema che dobbiamo affrontare presenta sue specificità che ci consentono di capire
quali sono, qual è il rapporto tra il fenomeno che stiamo analizzando e queste specificità. Facciamo un
esempio. Se devo occuparmi del problema della povertà le cose cambiano in modo rilevante a seconda che
il mio scenario di riferimento sia un continente, un paese o una città. Se io sono chiamato a occuparmi di
problemi concernenti la fame nel mondo, il mio approccio alla questione sarà completamente diverso
rispetto a come mi dovrei porre rispetto ad un’analisi riguardo il problema del disagio sociale o il problema
di esclusione sociale in una città come Firenze. Le problematiche sono diverse. Se io sono l’assessore
all’inclusione di Firenze dovrò intercettare un certo tipo di povertà. Se sono in Tanzania sarà diverso. A
seconda della problematica di cui mi occupo avrò a che fare con vincoli e opportunità diverse. Per questo la
scala geografica ha il proprio peso. Attorno alla scala geografica dobbiamo ragionare: un problema cambia
la natura a seconda della dimensione territoriale in cui lo stiamo leggendo. L’esempio della fame nel mondo
è tangibile. Le forme di manifestazione nel nostro paese sono legate fondamentalmente all’impossibilità di
accedere ad alcuni servizi fondamentali come l’istruzione, la sanità, le abitazioni. Queste sono le forme in
cui più comunemente si manifestano fenomeni di esclusione sociale in Italia. Meno probabile, dal punto di
vista statistico è il fatto che una comunità non riesca ad accedere all’acqua. A Roma la povertà si manifesta
secondo alcune dinamiche diverse da quelle secondo le quali il fenomeno si manifesta su scala mondiale. Il
primo parametro di povertà che debbo adottare nel momento in cui mi debbo preoccupare di risolvere il
problema in Sudan è diverso a quello che adotto nel comune di Firenze. Cambiando la dimensione
territoriale, la quantità di territorio che osservo anche i miei vincoli e opportunità finiranno per cambiare.
Per quanto possa sembrare improbabile, persino di fronte a una questione come la pandemia, fenomeno
che per suo stesso significato letterale interessa il pianeta, a seconda della porzione di territorio che
osserviamo le strategie di contrasto potrebbero cambiare in funzione di una serie di parametri. Qual è il
paese del mondo più avanti nella vaccinazione? Israele. Bisogna complimentarsi con le autorità. Perché altri
paesi non hanno raggiunto lo stesso risultato? Che logistica ha usato Israele? Israele è un paese
geograficamente piccolo con una popolazione ridotta dove circa l’80% popolazione adulta è riservista
dell’esercito. Può essere chiamata per qualsiasi motivo alle armi. Questo perché Israele è in conflitto
semipermanente con molti vicini. Ha una struttura logistica legata alla propria dimensione militare molto
consistente. Draghi è l’alto ufficiale del nostro esercito che più di chiunque altro si è occupato di logistica.
Israele deve il successo della politica vaccinale, oltre ad essersi procurato i vaccini, per essere stati rapidi
nella distribuzione. Questa rapidità si deve alla struttura logistica del paese. Se invece di essere in Israele ci
preoccupassimo di un paese delle stesse dimensioni, come la Slovenia e il Belgio, non ci troveremo di fronte
ad un paese con la stessa struttura logistica. A seconda delle caratteristiche del territorio, dei vincoli e delle
opportunità, si può o no strutturare una strategia. La strategia che ha adottato Israele funziona in Israele
perché il paese presenta quelle caratteristiche. Il sistema di controllo demografico e sociale è stringente.
Come a dire che l’amministrazione pubblica grosso modo sa dove stanno tutti. È una cosa tipica di un paese
che ha la necessità di poter mobilitare la popolazione in qualsiasi occasione. Ma questa logica ovviamente
non vale per tutti i paesi del mondo. Se la vaccinazione di massa avvenisse in un paese strutturalmente
diverso è chiaro che la strategia Israeliana non funzionerebbe. Fino ad oggi siamo in un paese che ha
vaccinato in prima dose il 7% della popolazione, e siccome i vaccini attualmente disponibili prevedono
comunque due dosi, in realtà per raggiungere il famoso 70/75% di popolazione vaccinata dovremmo
vaccinare 60 milioni x 0,75 x2. Dal punto di vista logistico la questione non si è posta perché la quantità di
vaccini è ridotta. Ma cosa succederà nel momento in cui i vaccini aumentano? Che essere efficienti nella
vaccinazione rapida sarà dovuto alla logistica. Ogni territorio ha le proprie opportunità e i propri vincoli. Per
questo quando si pensa di prendere a modello gli altri bisognerebbe guardare le caratteristiche. Ci sono
paesi che sono demograficamente più anziani degli altri. Il nostro paese è un paese di vecchi. Se si vive in un
paese in cui ci sono 4 milioni di ottantenni e siamo in presenza di un virus nella sua dimensione non variata
che presenta un alto tasso di mortalità in quella fase di età, gli indici di mortalità possono cambiare anche
in funzione del parametro. I vincoli e le opportunità sono alla base della necessità di fare un’analisi molto
seria riguardo le politiche con cui affrontare un tema piuttosto di un altro, soprattutto perché le strategie di
contrasto a un fenomeno negativo, o quelle di supporto nel tentativo di favorire un processo sono spesso
alternative. Non si può fare sempre tutto. Prendiamo un problema che è visibilmente sotto l’osservazione
dei mass media. Questo problema è rappresentato dal significativo delta sia in termini occupazionali che
reddituali tra uomini e donne, ovvero, nel nostro paese vi sono a parità di condizioni più occupati uomini
che guadagnano di più. Immaginiamo che si voglia contrastare questo fenomeno, ovvero si ritenga a livello
politico che questa differenza di genere vada ridimensionata. L’obiettivo è a scala nazionale, non c’è dubbio
sull’obiettivo e sulla dimensione territoriale di riferimento. Ora, con finalità didattica presentiamo 2
strategie per contrastare il problema e poi ragioniamo sulle conseguenze dell’una e dell’altra e sul come
l’una e l’latra finiscano per impattare sui diversi territori del nostro paese. Una prima strategia di
ridimensionamento del problema, che ha una manifestazione molto significativa nelle due categorie più
giovani: 18-34/34-45, il differenziale tra uomini e donne è più consistente. Non solo esiste un problema di
differenza per quanto riguarda l’accesso al lavoro di uomini e donne ma è un problema più sentito negli
individui giovani. Su questo problema si innesta trasversalmente il problema della disoccupazione giovanile.
Immaginiamo di avere un determinato budget e trovarci di fronte a due soluzioni. La prima è una soluzione
che chiama in causa un’ipotesi di minore costo del lavoro. Potrei fare un provvedimento dicendo:”
chiunque assuma un individuo di sesso femminile di età compresa tra i 18-34 potrà usufruire di uno sgravio
n”. Ovvero costerebbe meno di quanto costerebbe un uomo. Questo servirebbe a incentivare l’assunzione
di donne. Per l’ipotesi due, investo gli stessi soldi per fare una proposta politica di edilizia scolastica e
assunzione di personale scolastico negli asili. Uno dei problemi più seri nel nostro paese è che esiste
sostanziale difficoltà ad affidare i bambini a strutture pubbliche esercitanti la funzione di asili. Questo vuol
dire che si occupano di loro le madri e l’indisponibilità di asili vuol dire un vincolo alla disponibilità di
accesso a lavoro delle donne. Si tratta di politiche completamente diverse. La prima è una politica di
incentivazione all’assunzione di personale femminile, la seconda è una politica di sostegno indiretto alla
natalità e di sostegno diretto alle madri desiderose di trovare o mantenere la propria posizione. Non è in
discussione la scelta politica, non si tratta di dire di fare o no una politica di sostegno. Si tratta di decidere se
fare una politica di sostegno di tipo A incidendo sul costo del lavoro, o su quella B. Capiamo bene che
esistendo dei vincoli di bilancio, è di palmare evidenza che non si può fare tutto e bisogna optare per delle
scelte. Il ragionamento diventa che ci deve indurre a selezionare gli argomenti a favore dell’una o altra
situazione. Proveremo a capire come le capacità del territorio si incontrano con le politiche proposte.
Questi provvedimenti hanno natura diversa. se io penso a uno sgravio contributivo nei confronti degli
individui di sesso femminile e di età compresa tra i 18-35 anni tento di facilitare l’accesso al mercato del
lavoro alle donne di età compresa tra i 18-35 anni attraverso un minore costo del lavoro legato al reddito
che le riguarda. Se scelgo di investire lo stesso denaro rispetto alla formazione di una offerta di posti in asilo
nido e asilo per bambini di età tra 0 e 5 io tendo a sviluppare una politica indirettamente indirizzata al
miglioramento del rapporto tra i generi. Mentre il primo provvedimento è indirizzato a una popolazione
potenzialmente chiara, il secondo è un provvedimento indirizzato o ai genitori di bambini piccoli, e noi
ipotizziamo che questi genitori maggiormente beneficiati da questo provvedimento siano le donne, e quindi
il beneficio alle donne è indiretto perché in via teorica stiamo parlano anche di individui di sesso maschile. Il
che è possibile, ma statisticamente quanti sono gli uomini che rinunciano al lavoro per i figli e quante le
donne? Una politica del genere non è solo indirizzata all’impegno dell’occupazione di genitori, ma anche
una politica di sostegno indiretto alla genitorialità. Essendo in un paese vecchio potremmo avere bisogno di
coppire maggiormente propense a fare figli e la disponibilità di strutture di sostegno alla genitorialità quali
gli asili rappresenterebbe anche un sostegno a questo. Il primo provvedimento è indirizzato a una platea
specifica, il secondo a una meno specifica ma è un provvedimento suscettibile di avere un ulteriore effetto
di tipo demografico. La differenza di questi provvedimenti è solo una differenza di platea? Quando io scelgo
la politica degli asili sto cercando anche di aumentare la figliazione. Il primo tipo di politica ha un effetto
immediato. Se faccio una politica finalizzata alla creazione di nuovi posti asilo faccio una politica di medio-
lungo periodo. Siamo di fronte a due iniziative che hanno la caratteristica la prima di incidere sugli effetti di
un fenomeno, la seconda di incidere sulle potenziali cause del fenomeno. Mentre è chiaro che esiste un
delta tra l’occupazione maschile e femminile, non è altrettanto chiaro a tutti quali sono le ragioni che
spiegano il differenziale. Mentre il differenziale in termini di reddito tra uomini e donne può essere ascritto
a una questione di ordine culturale, di inerzia delle gerarchie maschili all’interno delle aziende, il problema
della differenza dei livelli occupazionali è altro. Le ragioni per cui le donne guadagnano di meno non solo le
stesse per le quali ci sono meno donne occupate. C’è la tendenza a considerare i due fenomeni come
appartenenti alla stessa natura mentre per certi versi non lo sono. Su quali vuole si vuole incidere? Incidere
sul primo è molto più complesso di quanto non lo sia la soluzione del primo problema. A parità di individui
occupati, immaginiamo che si operi dentro un’azienda in cui ci siano il 50% degli individui di sesso
femminile e il 50% di quelli maschili e che questa sia un’azienda privata. Fino a che punto posso spingere le
politiche di genere senza violare l’equità? Viceversa, possono io eliminare cause che rendono ostativo
l’accesso al lavoro da parte delle donne? questa seconda operazione è più facile della prima perché la
prima è il frutto di un portato culturale sul quale è complesso incidere. Nel momento in cui decido di
privilegiare la politica di sostegno alla genitorialità, io fornisco uno strumento ai genitori per potersi
mantenere sul mercato del lavoro. In linea teorica lo offro a entrambi i genitori ma per ragioni statistiche la
platea più interessata in misura molto larga a questo discorso è quella delle madri. Se mi muovo in quel
senso sto cercando di rimuovere una condizione ostativa. Il provvedimento non andrà a vantaggio delle
donne, ma di tutte le donne penalizzate dalla possibile qualità di madre. Questo tipo di provvedimento non
migliora la possibilità di chi non vuole figli. L’incentivo all’occupazione espresso attraverso un bonus
provvidenziale tale per cui il costo del lavoro diverrebbe inferiore per l’assunzione di un individuo tra i 18-
34 donna non risolverebbe il problema delle occupate che si trovano a fare il figlio. Costoro non
abbandonerebbero il posto di lavoro in quanto donne ma in quanto madri. I due provvedimenti vanno in
contro a esigenze diverse. Se prendiamo la struttura sociodemografica del paese Italia e vediamo le regioni
in cui è più forte il delta tra occupazione maschile e femminile, ci accorgiamo che sono le regioni meno
performanti del nostro paese. Esiste una correlazione sfavorevole fra disparità di genere e sviluppo. Se c’è
una disparità di genere legata al mancato sviluppo, la domanda diventa: per migliorare le condizioni
sarebbe più vantaggioso creare una condizione generale di più favorevole accesso attraverso il primo o il
secondo provvedimento? Le soluzioni dipendono dallo specifico contesto storico e dalla contingenza, però
qualsiasi provvedimento sia finirà per impattare in ciascuna regione in modo diverso. Ci sono regioni in cui il
lavoro esiste e la rinuncia delle madri al lavoro è legata alla necessità di seguire il figlio e altre regioni in cui
il lavoro non esiste e basta.

16-03-2021

Oggi è il caso di riprendere i temi trattati la volta scorsa. Il tema della scala geografica è un tema che ha
moltissimo a che vedere con il discorso che abbiamo affrontato sul tema dei vincoli e opportunità che il
territorio presenta. Questo perché dipendono dalla scala che è la dimensione territoriale di riferimento.
Quando parlo di scala geografica parlo di quella convenzione tale per cui quando rappresento su una carta
geografica un territorio lo rappresento rimpicciolito. In teoria potrei anche fare una carta geografica 1:1 ma
è chiaramente un paradosso. Le carte geografiche in scala, ovvero quelle che rappresentato il mondo
rimpicciolito, un’importanza la hanno eccome perché consentono di orientarsi e di cogliere i fenomeni
concernenti il territorio laddove questo venga rappresentato in maniera leggibile. Tanto più è grande la
scala tanto più è grande il rimpicciolimento. Grande scala, grande rimpicciolimento, grande riduzione. Una
scala 1:1 milione rappresenta il territorio in modo più piccolo di quanto non lo rappresenti una scala
inferiore. La scala di analisi ci consente di dire delle cose relativamente al fenomeno che stiamo
osservando. Se analizzo il tema del disagio sociale a Roma sviluppo un ragionamento a scala metropolitana,
se lo faccio nel Lazio lo faccio a scala ragionale. Se analizzo la fame nel mondo avrò una metodologia che
non ha niente a che fare con il disagio a Roma. A seconda della porzione di territorio che analizzo, il
processo che metto in atto è un processo diverso. Sotto questo profilo la scala territoriale conta eccome. Ci
da conto di realtà territoriali più o meno comparabili. Perché ho introdotto il tema della scala innervandolo
sul ragionamento dell’altra volta sulla questione della differenza tra un provvedimento di tipo A legato
all’ipotesi degli sgravi sull’occupazione femminile e all’ipotesi di tipo B legata alla strategia
dell’insediamento e costruzione degli asili. Il tema della scala è un tema che ci consente di fare un
ragionamento. Partiamo dall’ammettere e non concedere che la strategia B ci piaccia di più, proviamo a
domandarci perché statisticamente parlando i provvedimenti che vengo attivati più frequentemente sono
quelli del primo tipo. In realtà le due strategie corrispondono ad esigenze diverse. Non possiamo partire
dal presupposto che chiunque ci governi sia incapace e incompetente. Il secondo è un provvedimento di
medio e lungo periodo che contempera logiche di pianificazione e programmazione. Spesso l’orizzonte
temporale di movimento del decisore pubblico è di breve periodo. Viviamo spesso situazioni di emergenza
tale che bisogna impattare velocemente. Il primo è un provvedimento che tende a privilegiare le aree meno
sviluppate del paese, quelle in cui l’occupazione femminile fa più fatica mentre il secondo tende a risolvere
il problema di chi in qualche modo occupato lo è già. Succede che il secondo provvedimento è più
lungimirante ma tende a non risolvere o non affrontare se non in modo indiretto il tema dello squilibrio e
sviluppo economico tra le diverse regioni. La giovane professionista emiliana che si apre al mercato del
lavoro non incontra enormi difficoltà a incontrare un lavoro. Il problema nasce ove dovesse decidere di fare
un figlio e quindi si troverebbe nella situazione di gestire il ruolo di madre e lavoratrice senza avere
strutture idonee. La sua pari pugliese concretizza una difficoltà più significativa all’accesso al lavoro. Esiste
un problema di platea e un serio problema legato alla questione degli squilibri regionali. Nel momento in
cui si porta il problema sul territorio, la natura del territorio finisce per condizionare l’analisi.

Ragioniamo ora sul concetto di regionalizzazione. La regionalizzazione è un tentativo di analisi dinamica .


Ciò stiamo ponendo l’obiettivo di perimetrare e individuare un territorio sul quale sviluppare la nostra
analisi. È ovvio che le scelte in termini di regionalizzazione dipenderanno da quello che è l’obiettivo della
nostra analisi, ovvero da quello che andiamo cercando a seconda del fenomeno che vogliamo analizzare e
la risultante che vogliamo cogliere. Avremo regioni diverse a seconda di qual è l’oggetto del nostro
interesse. Quella della regionalizzazione è una concettualizzazione e quindi finiremo per identificare un
numero n di tipo di regioni sulle quali di volta in volta applicare l’analisi attraverso un set di indicatori utili a
quel tipo di analisi. I diversi tipi di regione rappresentano un quadro all’interno del quale si configurano
alcuni concetti che ci faranno da guida nell’individuazione del concetto di regione. Il primo processo di
regionalizzazione che affrontiamo è quello che ci dovrebbe condurre all’individuazione del concetto di
regione naturale. Per regione naturale si intende quella porzione di territorio individuata attraverso le sue
caratteristiche di tipo naturalistico. Parliamo di territorio inteso come porzione di spazio che si qualifica
attraverso le sue caratteristiche naturali. Potremmo essere di fronte a una regione naturale che si sostanzia
nell’essere una regione montana piuttosto che litoranea. È la natura del tipo di connotazione geografica che
qualifica il diverso tipo di regione naturale. Qual è il comune denominatore di ogni tipo di regione naturale?
La prima grandezza che sono chiamato ad identificare per individuare una regione naturale è rappresentata
dal concetto di bacino idrografico. Il bacino idrografico è sostanzialmente l’insieme, il grafo della
distribuzione superficiale delle acque dolci. Voglio dire che il bacino idrografico identifica tutte le
componenti che contribuiscono a generare i flussi di acqua dolce, ovvero i fiumi. Le piogge contribuiscono
ad alimentare in alta quota la formazione di nevi più o meno perenni. Le nevi sciogliendosi formano fiumi
che operano nel regime più o meno torrentizio. I fiumi avanzano verso valle e hanno una doppia
alimentazione di tipo sorgivo e torrenziale. Questi convergono verso un fiume centrale con caratteristiche
di portata superiore, la spina dorsale del sistema. Tutti i torrenti alimentano il corso finale di un fiume.
Senza acqua l’uomo non è in grado di svolgere alcuna attività economica né di sopravvivere. La risorsa
essenziale è data dall’insieme delle componenti del bacino idrografico. Il bacino idrografico si individua
quindi attraverso il fiume centrale al quale concorrono gli immissari ed emissari. I laghi hanno un ruolo
diverso dai torrenti. I torrenti contribuiscono a essere immissari, quindi alla formazione del fiume
principale. I laghi invece sono un’entità geografica emissaria, prendono l’acqua, nel caso in cui sono
connessi ad un fiume, da quest’ultimo. Senza acqua dolce non esiste possibilità di approvvigionamento e
quindi non esiste insediamento umano e attività economica. Lo sanno bene le popolazioni che debbono lo
scarso sviluppo economico alla mancanza di acqua dolce. Parlare di bacino idrografico e identificare una
regione a partire dal suo bacino ha un senso quando siamo chiamati ad affrontare un certo tipo di
problema. Per esempio, quando siamo chiamati a ragionare attorno alla necessità di tutelare il territorio
nella sua dimensione idrogeologica. Il nostro paese soffre sempre di più di un problema di dissesto
idrogeologico. Questa lettura deve avvenire attraverso l’analisi dei bacini idrografici. L’Italia è unita da
questo fenomeno e ci accorgiamo che questi processi dipendono dalla distorsione esercitata dalle attività
umane rispetto al normale funzionamento del sistema del bacino idrografico. Una componente
fondamentale del bacino idrografico, sebbene si possa pensare che non ne faccia parte, è il sistema
forestale. Ad un certo punto i fiumi che nascono in montagna trovano il loro letto naturale rapportandosi
con i salienti montani. Nello scendere dalle montagne finiscono per incontrare degli ostacoli naturali.
L’ostacolo naturale per definizione è il bosco e la foresta. Questo fa si che i fiumi scelgano dei percorsi
selettivi che finiscano per insidiarsi nelle porzioni di territorio meno attinte dalla foresta medesima. In
condizioni normale il percorso del fiume certamente passa per salienti montani, pareti della montagna
caratterizzate dalla presenza di consistenti assi boschive e disegnano il proprio percorso determinando la
formazione del letto del fiume. La forma del letto del fiume che rappresenta la garanzia relativa al fatto che
il fiume non esondi, si crea perché l’acqua trova degli ostacoli naturali nell’ambito delle compagini boschive
e ciò costringe l’acqua a irrigimentarsi in modo più o meno regolare all’interno dei letti dei fiumi. Quindi
cosa succede nel momento in cui disboschiamo un saliente montano? Succedono due cose: la prima cosa è
che il terreno diventi molto più cedevole, la seconda è che l’acqua non ha più bisogno di seguire un corso
coatto e quindi non seguire più il letto del fiume e quindi inondare il territorio circostante. Se il fiume non
segue il suo letto, e se il bosco non fa da presidio, la cosa che consegue è quella della formazione di grandi
masse fangose che possono andare a valle e creare enormi valanghe di fango e detriti che in qualche
circostanza producono tragedie. Quando ci sono grandi precipitazioni queste finiscono per ingrossare il
flusso dei fiumi. Questo non avviene solo in montagna. Il territorio finisce per essere permeabile. L’analisi
del bacino idrografico, quindi è importante quando bisogna analizzare un certo tipo di fenomeno. Per
esempi, il problema di ignorare il bacino idrografico è un problema che trova conseguenze in certi casi
drammatici. In determinate località si è scelto in passato di cementificare tombando i letti dei fiumi. Se il
fiume è in secca, e può esserlo anche per molti anni a volte ha fatto pensare a qualcuno che il letto del
fiume potesse essere cementificato. La conseguenza è che quando il fiume si ricorda di essere tale e il letto
è stato tombato, questo inonda le città che vi si sono state costruite. Ignorare la struttura di
movimentazione delle acque superficiali è un grande errore che comporta problemi che nascono, ad
esempio dove si monitora con poca attenzione il rapporto tra la risorsa idrica e il territorio . Un problema
presente a Roma è la scarsa efficienza degli acquedotti. Il lago di bracciano è uno dei polmoni di acqua
dolce della città di Roma e rappresenta una delle risorse idriche con cui viene alimentata la enorme rete
idrica di Roma che è tanto grande quanto inefficiente. Alcuni anni fa a causa di un regime precipitazionale
e dall’utilizzo di una grande quantità acqua del sistema degli acquedotti, il lago di bracciano ha cominciato a
perdere quote altimetriche ridimensionandosi della propria portata. Questo è motivo di preoccupazione.
Un lago che tende a rinsecchirsi rappresenta una perdita della risorsa. Un caso emblematico è Palermo. Nel
corso di alcune ore della giornata non era disponibile l’acqua potabile. È come dire che la qualità degli
acquedotti palermitani era scarsa. Quindi per capire il dissesto idrogeologico e il problema della
sostenibilità dell’ambiente per comprendere i meccanismi attraverso cui maturano i fenomeni di
inquinamento urbano è essenziale il bacino idrografico. Nelle città non bagnate dal mare il bacino
idrografico rappresenta anche dove finiscono le acque nere. La questione dell’analisi del bacino idrografico,
quindi non è una cosa che riguarda il passato ma è una cosa attuale. Ha a che fare anche con cose che
sembrano lontane al bacino idrografico. Ad esempio, si pensi alla tragedia del crollo dell’albergo di Rigo
Piano, località montana dell’appennino abruzzese. L’albergo fu travolto da un’enorme quantità di neve. Ciò
c’entra con il bacino idrografico perché basta vedere dove si trova l’albergo, ovvero all’immediate spalle di
un canale nevoso. Costruire un albergo ai piedi di un grande canale di neve significa che in caso questo si
riempia di neve quest’ultima non aderisce più come prima e crea una valanga. C’è poca attenzione alla
localizzazione in ambiti della struttura del bacino idrografico. Questo perché in determinate porzioni del
territorio italiano le mappe sulle valanghe che potrebbero esserci non ci sono. Determinate situazioni
vengono strutturalmente sottovalutate.

19-03-2021

Oggi affrontiamo un altro tipo di regionalizzazione. Parliamo della regione storica. La regione storica è
quella porzione di territorio in cui la popolazione che vi esiste è unita da un insieme di caratteristiche
culturali, sociali, politiche ed economiche maturate territorialmente nel corso di un determinato periodo
storico. Quindi, la storia come elemento che ha plasmato quel territorio. Il classico elemento di
convergenza culturale legato all’identificazione di una regione storica è la lingua, elemento fondante e
condizione necessaria ma non sufficiente: non ogni comunità con una lingua identifica una regione storica.
Esistono numerose lingue ed espressioni dialettali compiuti. La differenza tra dialetto e lingua risiede nel
fatto che un dialetto è subordinato alla lingua mentre la lingua non è subordinata ad un’altra identità
linguistica. Un dialetto trae ispirazione da una lingua. La lingua è quella riconosciuta a livello nazionale.
L’unica città italiana importante priva di un dialetto vero e proprio è Roma. il romano non si considera il
dialetto perché manca la componente sostitutiva. Quante parole del dialetto napoletano sono diverse dalle
parole della lingua italiana? Molte. Le parole del romano che si differenziano da quelle italiane sono poche.
Per esempio, è molto difficile capire cosa sia il Patuà, ovvero la lingua(?) e cioè il dialetto che si parla in
varie Valli aostane. È un dialetto mutuato dal francese di cui però non sposa una parte della grammatica.
Questo rende la vita difficile perché sicuramente non è italiano, ma non è una storpiatura del francese ma
un dialetto che regole proprie. Dove voglio arrivare? Voglio arrivare a dire che prima di dire lingua ce ne
deve passare. Il caso basco è ancora un caso particolare. È estremamente difficile trovare una costruzione
che faccia pensare che basco e spagnolo siano l’una derivazione dell’altra. In questo caso siamo davanti ad
una lingua. Anche per il catalano vale un ragionamento simile. Non facciamoci fuorviare. La lingua è un
elemento essenziale per l’identificazione della regione storica ma non può bastare. La regione storia è una
regione che esprime un portato di ordine sociale, culturale, politico e religioso autonomo. Non basta avere
una lingua comune. Qualche volta si può essere regione storica persino non avendo lingua autonoma.
L’esempio più immediato è quello della ridotta porzione di territorio che si trova tra la Francia e la
Germania che storicamente entrambe si contendono, ovvero l’Alsazia. L’Alsazia è una regione che, insieme
alla Lorena, tedeschi e Francesi si contendono da centinaia di anni. Diverse città hanno elementi costitutivi
simili a città puramente francesi, altre molto simili a quelle tedesche. La città più importante della Lorena
che è Nassi osserva che questa è una città francese fino al midollo sotto molteplici punti di vista. Tutto può
essere considerata meno che una città germanica. Viceversa, se si va a Mezt, città dell’Alsazia, ci si accorge
che da molti punti di vista è una città che rappresenta una città di cerniera tra Francia e Germania.

La regione storica produce degli impatti geo-politici. Si pensi a quello che è successo nell’ex-Jugoslavia. La
Jugoslavia è un altro paese la cui storia è stata segnata da passaggi politici particolari. Tornando al 19°
secolo, quando si formano gli stati nazionali, dal Congresso di Vienna del 1815 fino alla guerra franco-
prussiana del 1870, si assiste alla formazione di tutti i grandi paesi europei. In questa realtà, l’area dei
Balcani era divisa fra varie culture. In questo ambito in cui la Croazia era suddita dell’impero
austroungarico, la Serbia voleva ritagliarsi una posizione all’interno del nuovo stato slavo con alle spalle
l’impero austro-ungarico e l’impero ottomano. La popolazione della Bosnia-Erzegovina è frazionata fra
gruppi etnici diversi tra loro ed era oggetto di contesa tra governo ottomano e imperi occidentali. La
Slovenia è un territorio che fa parte della Bassa Carinzia, che ha dei tratti dell’impero austro-ungarico. In
questo contesto, in cui tutti hanno un ruolo specifico culturale, si sassiste all’indomani della caduta
dell‘impero austro-ungarico, e lo scoppiare della 1 guerra mondiale, in cui abbiamo Garvilo Princip, attivista
filoserbo sostenitore dell’indipendentismo serbo che vede in quell’attentato un’azione di contrasto
all’egemonia austroungarica. Con la Prima Guerra Mondiale si assiste all’implosione dell’impero
austroungarico e all’indomani di questa i trattati di Versailles determinano il regno della Jugoslavia. Nelle
vicende della Seconda guerra mondiale la Jugoslavia viene invasa dalle truppe italo tedesche. In seguito al
forte movimento di resistenza che incontrano, la Jugoslavia vive una vicenda storia particolare. La
Jugoslavia dovrebbe essere il primo dei paesi dello schieramento che si riconosce nello schieramento
sovietico. Ma il leader carismatico della Jugoslavia colloca questa in una posizione particolare per cui
sebbene la Jugoslavia fosse un paese socialista con un’economia simile a quella di matrice sovietica, di fatto
era in una posizione di non allineamento. La regione storica è una questione che poi ha a che vedere con le
politiche che si manifestano sul territorio. Nella Catalogna, come nei paesi baschi esiste un forte
movimento indipendentista che si contrappone a Madrid. Si sentono diversi dagli spagnoli. Qui si apre un
dibattito complicato. la catalogna è una regione in cui l’orientamento della popolazione è noto. Metà della
popolazione è favorevole all’indipendenza e metà non lo è.

23-03-2021

Dicevamo che la regione storica potrebbe rappresentare, al di là della concettualizzazione di ordine storico
culturale, il passaporto politico per aspirazioni di ordine autonomistico, potrebbe rappresentare la
promessa di ordine sociopolitico per movimenti indipendentisti. Al di là della legittimità di questo tipo di
aspirazioni, esistono anche questioni di ordine in parte istituzionali ed economiche che rendono questi
meccanismi complessi. Ad esempio la Catalogna. Ora che i rapporti tra la catalogna e Madrid siano
storicamente rapporti non particolarmente improntati alla reciproca comprensione, che la Catalogna sia la
regione economicamente più sviluppata della Spagna ci sono pochi dubbi, ma anche quella che è più in crisi
con l’apparato centrale. I catalani continuano a sentirsi penalizzati con il rapporto dell’apparato centrale. La
Catalogna gode dello status di regione autonoma. Da una parte la Catalogna rivendica un ruolo di maggiore
distanza dal governo centrale, dall’altra il governo centrale per la Catalogna non ha fatto poi tanto e ha
coinvolto la Catalogna meno di quanto i catalani si aspettassero. Non vogliamo però entrare in merito di
questo. Dobbiamo ragionare sulla dimensione più propriamente economica che scaturirebbe da un
eventuale processo di indipendenza. Immaginiamo che la crisi istituzionale sia superata e che il governo
centrale di Madrid accetti l’idea di uno stato catalano mantenendo una posizione di una sostanziale ostilità
diplomatica. Immaginiamo quindi una Catalogna indipendente. Qui il ragionamento richiede alcune
caratteristiche. Primo: che cos’è la Catalogna? È innanzitutto la città dominata dalla presenza prevalente sul
territorio del principale Ab commerciale di tutta la penisola iberica, cioè Barcellona. Barcellona è il secondo
più importante porto di Europa e il più grande porto del Mediterraneo e deve la sua forza economica
dall’essere il principale polo logistico, terziario, ab commerciale e porto di tutta la Penisola Iberica quindi di
tutta la Spagna e del Portogallo. Per questo Barcellona è così importante. Di fatto la gran parte delle
aziende europee ed extraeuropee nel momento in cui decidono di insediarsi in Spagna guardano come
potenziale sede dei propri centri direzionali a Barcellona. È a tutti gli effetti il cuore produttivo e
commerciale della Spagna. Sarebbe la stessa cosa nell’ipotesi in cui Barcellona fosse la ipertropica capitale
della sola piccola Catalogna? Essendo una regione interna alla spagna da un centinaio di anni ha un sistema
di collegamenti tutto vuotato all’interno. Il sistema infrastrutturale catalano è parte integrante di quello
spagnolo. Che cosa ne sarebbe della Catalogna dal momento in cui tutti i collegamenti principali salvo quelli
verso la vicina Francia dovessero avvenire nei confronti di un paese improvvisamente divenuto ostile?
Barcellona manterrebbe lo stesso ruolo e riuscirebbe ad essere la capitale commerciale e imprenditoriale
della spagna non essendo più in Spagna? La cosa da chiedere ai catalani e se sono consapevoli che
diventerebbero un paese isolato con rapporti commerciali ostili con la vicina Spagna. Si pensi a quello che
sta succedendo con la Brexit, operazione lunga e dolorosa che si è conclusa con un accordo monco. Le
separazioni lasciano grossi strascichi. La parte più piccola e anche più importante rischia di avere un rinculo.
Una separazione è la premessa di un divorzio. Al di là delle valutazioni di ordine politico e culturale, una
catalogna senza rapporti commerciali con la Spagna sarebbe l’AB di nulla. Barcellona sarebbe il principale
centro logistico ma di cosa?

Farsi regione storica è qualcosa che deve far ragionare. Molte regioni d’Europa potrebbero pensare a una
cosa del genere. Il Belgio invece è un paese nato sulla carta per fare da cuscinetto tra Germania e Francia.
Cosa che poi si è rivelata inutile. Il Belgio, infatti è comunque metà francese e metà tedesco. Ne uscì un
paese fortemente diviso. L’Italia fa con la provincia di Bolzano Robin Hood al contrario. I sud tirolesi si
considerano sud-tirolesi in prima battuta e austriaci in seconda, peccato che gli Austriaci guardano ai sud-
tirolesi italiani come a dei parenti poveri. Quindi, il tema del rapporto fra stato centrale e pulsioni alla
secessione e all’indipendenza della regione storica lo abbiamo esplorato. Ora la questione della questione
storica non esaurisce il tema delle autonomie anzi lo apre. È venuto il momento di approcciare un altro tipo
di regione dopo quella naturale che abbiamo identificato nel bacino idrografico e dopo quella storica.
Parliamo di un tipo di regione che sulla carta dovrebbe interessarci fino ad un certo punto ma che invece
nello sviluppo dei fenomeni reali finisce per essere determinante. Parliamo della regione amministrativa. La
regione amministrativa è quella che scaturisce dalla demolteplicazione, dalla delega dei poteri dallo stato
centrale e una dimensione territoriale di natura regionale. Esistono varie modalità per interpretare questo
fenomeno. In Italia le regioni amministrative si chiamano regione, in Germania Land, in Francia si parla di
dipartimenti, in Spagna anche di regione o comunidad. Siamo difronte ad un’entità territoriale di
dimensioni sovraurbane, non comparabile con una città o un governo di una città metropolitana, ma si
tratta di una dimensione tale da ricomprendere il territorio di n province e il cui ruolo istituzionale è quello
di ricevere una serie di deleghe da parte del governo centrale nella gestione di alcune situazioni. In Italia il
ruolo delle regioni è divenuto di rango costituzionale con la costituzione del 48. La costituzione del 48
prevedeva il conferimento all’autonomia regionale di tutta una serie di deleghe non precisandone lo
specifico. Di fatto il dettato costituzionale è rimasto più o meno lettera morta fino all’importante passaggio
istituzionale del 1970 che ha definito i confini regionali e i capoluoghi di regione. L’operazione del 70 fu
molto complessa perché non solo la definizione dei confini d’allora statuì la definizione della storica regione
degli Abruzzi che vedeva insieme Abruzzo e Molise. Il tema dei capoluoghi di regione è stato importante
perché mentre in alcune regioni la leaderschip di alcune regioni era fuori discussioni, si pensi a Roma per il
Lazio, altrove il dibattito è stato molto duro. L’attribuzione della sede regionale della Calabria a Catanzaro è
stato motivo di guerriglie urbane. Il governo della regione Calabria è stato dato a Catanzaro ritenuta più
centrale rispetto a Reggio Calabria e Cosenza. A partire dal 1997 viene sancito un altro importante passo dal
punto di vista istituzionale, ovvero il trasferimento ai governi locali della titolarità di un’importante tassa
pagata a livello internazionale IRAP. Questo rappresenta la conferma che una parte della fiscalità del nostro
paese è di competenza regionale. Questo processo si sviluppa negli anni successivi. Oggi la tassazione a
livello locale è molto pesante. Questo passo importante è accompagnato da due processi ulteriormente
significativi. Il primo è legato alla riforma del sistema sanitario italiano, riforma che risale al 1978 e che
individua l’idea di una sanità generale e nazionale. A partire dal 1997 si assiste a un processo che trova negli
anni più recenti lo sviluppo definitivo di attribuzione alle regioni della potestà in materia di sanità pubblica.
Stesso percorso avviene per quanto riguarda la scuola. Questo processo che a molti è apparso un processo
di natura esclusivamente amministrativa in realtà non si è affatto dimostrato tale. Le regioni hanno
interpretato, soprattutto nel caso della sanità, l’autonomia come la possibilità concreta di produrre un
modello di sanità locale del tutto autonomo. Il modello della sanità in alcune regioni è distante da quello di
altre. Dal punto di vista organizzativo ogni regione ha scelto un modello di approccio in cui l’unico elemento
unificante a livello nazionale è rappresentato dai livelli essenziali di assistenza (LEA). Questa questione ha
finito per assumere rilevanza enorme proprio in occasione dei processi e dei fenomeni che stiamo
osservando ora con la gestione della pandemia. Le politiche di contrasto al covid dal lato passivo, ovvero il
contenimento, sono state, dopo la prima fase legata all’immediata insorgenza del fenomeno, quando si è
cominciato a ragionare dopo l’estate sulle politiche di contrasto passive sono state gioco forza delle
politiche regionali. La distribuzione reale del fenomeno è diversa da quella rappresentata dall’rt ma il modo
di rappresentare le cose è legato al fatto che la risposta strutturale del sistema è una risposta in Italia
regionale. Chi ha dovuto gestire questo processo è dovuto partire dal fatto che l’organizzazione del
territorio fosse un’organizzazione regionale. Le potenzialità legate al contrasto del covid si dovevano
leggere a livello regionale. È per quello che poi le politiche di contrasto passivo sono state politiche
regionali perché regionale è la capacità di risposta al sistema. Esiste una geografia della diffusione del virus
che non si sovrappone con la geografia della colorazione delle regioni ma che riflette il combinato disporsi
del virus e la capacità di contrasto sul piano curativo. Per quanto riguarda le politiche attive, il commissario
Figliulo in questo caso è stato scelto in primo luogo perché esperto di logistica. Il problema principale che il
paese ha nella gestione delle politiche attive è solo in parte un problema legato all’acquisizione di vaccini. A
valle del processo dell’acquisizione dei vaccini noi abbiamo un consistente problema logistico non legato al
fatto che non esistano strutture logistiche o ab logistici in Italia capaci di rendersi funzionali alla
vaccinazione di massa quanto al fatto che la logistica è gestita attraverso i diversi sistemi sanitari regionali. Il
primo problema che esiste in questo momento nel paese è quello di dover armonizzare sistemi regionali
che sono diversi e che tra loro tendono a non dialogare. Viene preso per questo un alto ufficiale
dell’esercito perché almeno ha presente la logistica e ha la capacità di ragionare in termini di
centralizzazione. Questo perché la politica vaccinale che dobbiamo fare è una politica nazionale. Esiste un
problema che l’autorità centrale deve operare in 20 ambiti regionali per questo si deve trovare il modo di
unificare. Questo ci fa capire che la delega alle regioni della sanità non è un modello efficiente nel caso di
un evento drammatico. Una questione apparentemente tecnica e amministrativa oggi condiziona il destino
dell’intero paese. Una questione di cui ci si doveva interessare fino ad un certo momento adesso ci colpisce
in pieno. Si pensi alla didattica a distanza. Funziona in determinati frangenti e in altri no e questo perché
anche la scuola è amministrata a livello regionale. Laddove gli strumenti esistono e si crea una compatibilità
si riesce ad avere risultati buoni. Là dove il modello non prevede ciò la didattica a distanza è stata un
disastro.

25-03-2021

Ci eravamo lasciati sul tema della regione amministrativa. Ragionavamo sul fatto di come una sezione
dovrebbe riguardare questioni amministrative finisca per avere riflessi tali che ad un certo punto si finisca
per gestire il territorio più in ragione dell’organizzazione delle diverse attività sul territorio. è evidente come
questa organizzazione regionale stia condizionando anche l’opera di vaccinazione. La diffusione territoriale
del covid è una diffusione che non segue la ripartizione regionale. Le regioni sanitarie sono molto diverse da
quelle individuate dal punto di vista amministrativo. Dovendo ipotizzare una strategia di contenimento ed
essendo l’organizzazione dei meccanismi di contrasto un’organizzazione regionale si capisce come la
struttura regionale sia prevalente nel prendere una decisione territoriale. Discorso analogo riguarda il
discorso della scuola perché anche essa ha discorso regionale. Il tema della didattica e della sua efficacia a
che vedere come viene fruita e dall’età di chi ne usufruisce. La scuola rappresenta il ruolo di corretta
allocazione dei figli ma non è il luogo di allocazione dei figli ma quello in cui si eroga la didattica. Non è che
la didattica a distanza si debba erogare in ragione dell’impegno che richiede ai genitori il fatto che i figli la
sostengano. Una didattica è efficace se è efficace come didattica. Una famiglia fatta da padre, madre e 6
figli di cui tutti e 6 devono fare didattica a distanza devono far fronte a delle necessità rilevanti. Ma questo
non ha a che vedere con il problema della qualità della didattica. I differenziali che stanno maturando
rispetto al tema della didattica a distanza sono temi che devono essere ascritti in parte alla stessa e in parte
ad un modello educativo in cui scuola non è solo didattica. Questo è oggetto di ragionamento. Se è altro
allora bisognerà discutere di questo qualcos’altro. La valutazione sulla didattica a distanza deve essere una
valutazione sulla didattica a distanza. Dato il problema esiste una regionalizzazione, quindi un modo di
approcciare il tema delle ricadute territoriali di un fenomeno. Da qui la necessità di elaborare un’analisi di
poterci consentire che tipo di realtà stiamo osservando. In merito a ciò, il tema di oggi concerne un’altra
modalità di applicazione della regionalizzazione, ovvero quella concernente la regione omogenea. L’analisi
sulla regione omogenea è un’analisi che dal punto di vista analitico oggi non si fa più. Questo perché le
modalità e i termini che questo tipo di regionalizzazione implica sono venuti meno. Esistono però delle
ragioni valide per studiarla. Le ragioni consistono nel comprendere come la modalità di interazione tra
uomo e territorio sia evoluta nel corso del tempo a partire dal primo modello di approccio a una regione
economica. Appunto quello della regione omogenea. La regione omogenea è la prima regione che in
qualche misura viene letta attraverso i parametri anche e soprattutto dell’economia e quindi la prima
regione antropizzata. La regione omogenea è il primo tipo di concettualizzazione in cui le attività
economiche si svolgono sul territorio a prelievo. La regione omogenea è una concettualizzazione che risale
al periodo a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’Inizio del Novecento e sarà superata poi dalla seconda e
terza rivoluzione industriale. Sostanzialmente la regione omogenea è la regione che porta in eredità dal
punto di vista dell’occupazione dell’uomo sul territorio solo l’eredità della prima rivoluzione industriale,
ovvero quella che a un certo punto ha impattato in termini relativi sulle società ad economia avanzata del
tempo. Sappiamo che la prima rivoluzione industriale è sicuramente un momento storico importante ma
non trasforma il mondo in un mondo industriale, cosa che succederà in occasione della seconda e
soprattutto terza rivoluzione. La prima rivoluzione industriale è il processo evolutivo che porta
all’attenzione dell’opinione pubblica che si occupa di materia economica l’esistenza di un mondo in cui la
produzione non avviene più in modo essenzialmente manuale ma attraverso l’ausilio di macchine. Si tratta
di un processo rivoluzionario che deve essere ascritto alle importanti conquiste di ordine tecnico che si
succedono soprattutto dal secondo decennio dell’800 e che poi procureranno all’umanità la disponibilità
della macchina a vapore etc… si tratta di un momento in cui esiste un rapporto molto significativo
dell’evoluzione del quadro tecnico e le attività economiche sul territorio. Quindi è la prima fase in cui entra
in gioco il processo di standardizzazione. Le cose si producono attraverso macchine. Questa è la ragione per
cui è importante la rivoluzione industriale. La regione omogenea che recepisce questa nuova importante
novità vede in alcune variabili fondamentali gli strumenti idonei a cogliere l’essenza della regione
antropizzata ed economica. Questi elementi sono il paesaggio, il genere di vita e la struttura sociale .
Questi sono nella sostanza ed essenza i parametri attraverso cui è ragionevole interpretare la regione
omogenea. Cominciamo dal paesaggio. Il paesaggio in questa fase storica, ovvero quella compresa
nell’ultimo scorcio dell’800 e nel primo 900, rappresenta ancora un modo per leggere il territorio
attendibile. Leggere un territorio attraverso il paesaggio risulterebbe rischioso perché ci sono paesaggi la
cui lettura potrebbe essere paesaggisticamente ingannevole. L’esempio più emblematico è rappresentato
dalla spiaggia di Rosignano Solvay. C’è un’importante comune della Toscana chiamato Rosignano Solvay
perché esiste una località chiamata i caraibi d’Italia. In realtà questo breve tratto di costa è caratterizzato
dalla presenza di una spiaggia bianchissima che in quella porzione di territorio che è parte spiaggia, parte
battigia e parte avanmare, ha assunto una colorazione bianca che dà al mare un riflesso verde-azzurro che
fa pensare alle spiagge caraibiche. Peccato che la ragione a cui si deve questa spiaggia bianchissima sono i
residui dei vicini stabilimenti della Solvay che è un’importante azienda che lavora nel settore chimico e che
ha come residuo della propria produzione questa sorta di polvere bianca che finisce per ricoprire lo spazio
della spiaggia in questione. Questa è una grave forma di inquinamento che si è cercato di ridimensionare
ma che purtroppo lascia strascichi significativi. Siamo di fronte ad un paesaggio da cartolina che però deve
la sua avvenenza al fatto di essere attinto da una grave forma di inquinamento. Chiunque guardasse quel
paesaggio lo troverebbe bellissimo e gradevole e invece ci troviamo in una situazione di grave
inquinamento. Il paesaggio di oggi è un paesaggio che può ingannarci o non raccontarci la verità fino in
fondo. Questo perché ormai la presenza dell’uomo sul territorio è una presenza talmente consistente e
rilevante che è difficile giudicare certe situazioni se non alla luce di un’approfondita conoscenza del
background di ordine strutturale e antropico che caratterizza un territorio. Altra immagine emblematica
riguarda un’importante città indiana, Bangalore. È un albergo a cinque stelle. Bangalore è la capitale
indiana dell’informatica e quindi ha una mobilità di affari impressionante. Uno dei simboli di Bangalore è
questo famosissimo albergo il quale è circondato da un campo da golf anch’esso molto bello e
estremamente sofisticato. In fondo a questo campo da golf esiste una rete e su questa è esteso un grande
telone che rappresenta l’ideale continuazione del paesaggio di verdi colline che è garantito nell’immediato
circondato dell’albergo dal campo di golf. Perché è stato messo questo telone? Perché dietro questa rete
che segna il limitare della proprietà dell’albergo c’è uno dei depositi più grandi e inquinati di materiale
informatico del mondo. C’è una gigantesca discarica che naturalmente disturba molto la vista di coloro che
giocano a golf in quell’hotel. Oggi il paesaggio ci consente di dare una lettura provvisoria e parziale. Un
brutto paesaggio sottintende crisi territoriale. Non è vero il viceversa: un bel paesaggio sottintende un
territorio equilibrato. Utilizzare oggi il paesaggio come un metodo credibile di lettura del territorio è una
pratica che nasconde delle criticità. È chiaro che in un mondo in cui il fenomeno della crescita industriale è
ancora agli inizi e in cui l’agricoltura è il settore economico dominante e il 70% della popolazione è occupata
da agricoltura, il paesaggio rappresenta una chiave di lettura economica. Questo perché un paesaggio fatto
di campi coltivati in modo efficace contrapposto a situazioni latifondistiche gestite con strumenti di
emergenza consentono di dire se un territorio è evoluto o no. Il paesaggio in quel frangente poteva
consentire di dare una lettura della qualità del territorio più attendibile di quanto non sia oggi. Quindi in un
contesto in cui l’industria ancora non ha preso il sopravvento la lettura del paesaggio comincia ad avere un
suo senso. È un paesaggio in cui l’uomo ha messo mano. La regione omogenea già segnala un modo in cui
l’attività umana comincia ad essere significativamente consistente. Da qui il paesaggio come strumento del
territorio che ci permette di cogliere le tracce dei primi incipienti insediamenti industriali. Acanto alla
questione del paesaggio dobbiamo affrontare la questione del genere di vita. Nel nostro paese
l’unificazione linguistica è avvenuta in occasione della chiamata alle armi come conseguenza dell’entrata in
guerra dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Prima di allora il siciliano di Taormina non sapeva che faccia
avesse o che lingua parlasse il suo connazionale del Veneto. Nessuno si muoveva. I pochi che si muovevano
lo facevano al massimo per pochi km. I viaggi erano appannaggio di una minoranza ridotta di individui. Non
ci si muove nemmeno dal punto di vista sociale e c’è una forte propensione da parte delle famiglie, molto
diverse da quelle di oggi, di vivere nelle campagne. Prima del 1950 la maggior parte della popolazione
viveva nelle campagne. I figli di un contadino che non usciva mai dal campo alla fine poi facevano quello
che faceva il padre. Il livello di scolarizzazione era basso. In una popolazione si fatta si finisce per avere un
livello di mobilità ridotta. Il genere di vita riflette la società. Il genere di vita è l’espressione di nuove
modalità con cui gli individui organizzano le proprie giornate. Siccome sono modalità improntate in modo
determinato allo svolgimento dell’attività professionale, è chiaro che anche il genere di vita ci dà conto in
qualche misura della struttura della regione omogenea. Il terzo parametro è in qualche modo riconducibile
al secondo. Si tratta di una società in cui l’ascensore sociale, ovvero la possibilità da parte dei figli di coloro
che appartengono a classi sociali meno previlegiate di superare il gap che li separa da chi si trova in una
posizione migliore dal punto di vista socioeconomico, tende ad essere inesistenze. In qualche misura il fatto
che i figli dei contadini continuino a fare i contadini e che i figli degli artigiani continuino a fare gli artigiani e
quant’altro, segna come effetto collaterale ma determinante la costatazione che poi la società è poco
mobile dal punto di vista sia sociale che territoriale. Il discorso legato al genere di vita si collega alla
questione della scarsa mobilità sociale. In un sistema poco scolarizzato e in cui le movimentazioni
territoriali sono circoscritte è evidente che la possibilità di guadagnare posizioni dal punto di vista sociale
sono modeste. Questo finisce per riflettere una società in cui strutture organizzative quali la famiglia o la
scuola sono rapporti improntati a una sorta di ripetizione di schemi previsti e prevedibili. La regione
omogenea è una regione che oggi non esiste più ma ha avuto un certo peso nel suo tempo. è soprattutto la
regione che autorizza alcuni teorici dello sviluppo ad immaginare un approccio allo sviluppo economico
costruito sul modello del possibilismo. Il tema del determinismo si lega al concetto di regione naturale.
L’idea della regione naturale come l’insieme delle componenti naturali che finiscono per condizionare la
presenza umana sul territorio sotto intendeva il determinismo naturale. Le attività che l’uomo finiva per
esercitare sul territorio non potevano che essere la diretta risultante delle possibilità che il territorio offriva .
In qualche misura l’evoluzione della specie umana non poteva che essere correlata dalla disponibilità del
territorio valido. Nell’ambito del concetto di determinismo ambientale si ipotizzava come le civiltà si
fossero sviluppate in modo più efficacie in quei contesti in cui il territorio lo avesse consentito. Il passaggio
alla regione omogenea ipotizza il fatto che in qualche misura sia nelle possibilità dell’uomo, attraverso le
tecniche che ha a disposizione, di cambiare il paesaggio. La natura non detta più condizione assolute ma le
tecniche a disposizione dell’umanità e i capitali sono nella condizione di ridefinire i rapporti di forza tra
uomo e territorio in favore del primo. Questa concettualizzazione prende il nome di possibilismo.
Possibilismo perché appaiono possibili cose che prima sarebbero potute sembrare incompatibili con la
natura territoriale dal punto di vista strettamente legato alla fisicità del territorio. Questo approccio è un
approccio che testimonia in qualche misura la fiducia da parte dei teorici, sociologici, economisti e filosofi
del tempo riguardo alla capacità dell’essere umano di evolvere il territorio in ragione delle proprie
necessità. Qualcuno ipotizzava addirittura un rapporto stringente tra evoluzione della tecnica e democrazia.
Collegando l’idea che le maggiori opportunità a disposizione potessero in qualche modo generare un circolo
virtuoso riguardo le possibilità che le nuove tecniche mettevano a disposizione di tutti. Si è trattato di un
punto di vista per alcuni aspetti condivisibile e per altri un po' ingenuo perché se da una parte è vero che le
nuove possibilità hanno finito per generare un portafoglio di opportunità più significativo per tutti è vero
anche che la regione omogenea tende ancora ad essere una società fortemente cristallizzata nei propri
valori fondamentali e che quindi lascia poco spazio a quelli che sono meccanismi di movimentazione di tipo
interclassista. Come dicevamo in precedenza la società tende a riconfermare sé stessa. Il possibilismo ha un
approccio possibilista rispetto ad alcuni vincoli territoriali. Il volontarismo finirà per ribaltare l’iniziale
prospettiva deterministica immaginando che l’uomo possa fare qualsiasi cosa. La realtà della regione
omogenea è una realtà superata in termini definitivi dall’avvento della Prima Guerra Mondiale. La Prima
guerra mondiale è per certi aspetti ipertecnologica per il tempo che cambia gli aspetti economici. Il
capitalismo è un fenomeno di ordine sociale politico ed economico che è sempre esistito nella società
umana e che è stato declinato in tantissimi modi. Sicuramente la crescita esponenziale delle capacità
tecniche connesse con l’inimmaginabile sforzo bellico rappresenta un momento di svolta. La Prima Guerra
Mondiale segna una frattura consistente rispetto al mondo che la precedeva. È innanzitutto una guerra di
massa. Il problema è che lo sforzo bellico diventa prima di ogni altra cosa uno sforzo economico e
industriale. In qualche modo siamo di fronte ad una circostanza in cui l’economia è il vettore principale
della guerra. La Prima Guerra Mondiale verrà persa per motivi economici. L’impero germanico perde la
guerra implodendo su sé stesso nel momento in cui era in una posizione militare ancora favorevole. È la
prima volta nella storia dell’umanità che succede questo in modo così evidente e veloce. Sull’onda di
questo sforzo bellico alcuni di questi paesi finiranno per avere un apparato industriale molto più
consistente al servizio della guerra che aveva imparato moltissimo dalla Prima Guerra Mondiale. Nel nostro
paese questo processo sarà più timido per varie regioni. Quello che è vero è che il mondo travolto dalla
Prima guerra mondiale, il mondo della regione omogenea, è un modo che finisce di esistere. A quel punto è
evidente che l’industria comincia ad affacciarsi nello scenario internazionale giocando un ruolo che è
profondamente diverso da quello giocato precedentemente alla Prima guerra Mondiale. Il mondo della
regione omogenea è travolto da tutta una serie di cose che non sono più compatibili. Le masse iniziano a
muoversi di più se non altro per ragioni militari. Le dinamiche che sono alla base di quel tipo di
funzionamento finiscono per rompere gli equilibri della regione omogenea. Il periodo compreso fra la fine
della Prima guerra mondiale e l’inizio della seconda è un periodo caratterizzato da una serie di fenomeni di
natura economica e territoriale che poi appariranno nella loro nettezza solo all’indomani del secondo
conflitto mondiale. Gli anni 20-30 segnano la nascita di consistenti complessi industriali legati soprattutto
all’industria pesante nei paesi economicamente industrializzati. C’è un passaggio storicamente ed
economicamente importante in cui lo scenario, fino a quel momento era dominato dal mondo agricolo,
finisce per presentare una lettura diversa. Si tratta di un processo in divenire quindi non si può dire che tra
le due guerre il mondo evolva verso un sistema prettamente industriale. Questo sarà vero solo all’indomani
della fine della Seconda guerra mondiale. Possiamo affermare che se le esperienze legate alla dimensione
della regione omogenea finiscono per concludersi con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, è vero dall’altra
parte che il paradigma possibilista che aveva improntato le logiche della regione omogenea finisce per
sopravvivere al concetto che lo ha generato e permeare in un periodo come quello a cavallo tra le due
guerre. La lettura in chiave socio-economica di quello che determinerà poi il cambio di regime politico in
Italia è quanto di più emblematico per vedere come in Italia il rompere gli argini della regione omogenea
corrisponde ad un ambito di criticità. In qualche modo il fascismo nasce dall’incontro di due esigenze, una
come conseguenza alla delusione di una insoddisfacente conquista territoriale legata alla Prima guerra
mondiale ma anche il confronto tra due gruppi sociali entrambi legati al mondo dell’agricoltura. Tutti si
erano resi conto che il mantenimento degli equilibri non poteva che essere determinato da un’azione
differente da quella che era stata la manovra di mantenimento precedente alla Prima guerra. Per certi versi
è un confronto asprissimo e violento che esprime tuttavia la difficoltà di una società ancora rurale a
trasformarsi in altro. Credo che ormai si stia delineando il fatto che la regionalizzazione alla fine è uno
schema interpretativo. Si tratta di un armamentario di volta in volta utile a capire se il territorio si attaglia al
tipo di interpretazione o no.

30-03-2021

Riprendiamo il tema della regione omogenea precisando alcune cose. L’altra volta abbiamo precisato come
fossero 3 i parametri legati all’individuazione del concetto di regione omogenea:

- il paesaggio

- il genere di vita

- la struttura sociale

Ritorniamo sul tema del paesaggio come indicatore della condizione socio-economica di un gruppo
sociale. Quando ci riferiamo alla regione omogenea ci riferiamo ad una società che oggi non esiste più e si
colloca alla fine dell’Ottocento e inizi Novecento. Parliamo di una società che ancora non ha passato la fase
della terza ed ultima rivoluzione industriale. Quando compiamo la nostra analisi riguardo l’evoluzione del
rapporto tra economia e territorio lo facciamo con riferimento a un ridotto numero di paesi, ovvero
fondamentalmente quelli dell’Europa occidentale, del Nord America, dell’Australia, ovvero un numero di
paesi relativamente ridotto. Parliamo di un’evoluzione economica che comprende grossomodo una
quarantina di paesi su 200 circa. In questo ambito le prime due rivoluzioni industriali hanno interessato un
numero estremamente ridotto di paesi. La regione omogenea si colloca in una fase precedente rispetto alla
terza rivoluzione. è una regione il cui paesaggio ancora ci racconta una ragionevole approssimazione della
verità. Ci racconta un quadro attendibile dello stato dell’organizzazione dell’economia sul territorio; cosa
che ad oggi non è più vera. Perché allora era vero ed oggi non lo è più? La regione per cui nel contesto
storico in cui abbiamo collocato la regione omogenea, il paesaggio rappresentava ed ha rappresentato in
qualche modo una lettura attendibile dell’evoluzione delle attività economiche sul territorio e questo è
legato al fatto che si tratta di una fase storica in cui la regione antropizzata, cioè quella che l’uomo ha
contribuito a cambiare con la sua attività è comunque una regione in cui ancora l’agricoltura è l’attività
economica principale e rappresenta ancora sia dal punto di vista del reddito che da quello
dell’organizzazione del territorio l’attività economica prevalente. Siamo di fronte ad un territorio in cui è
proprio il rapporto con la produzione agricola a raccontarci le caratteristiche dell’organizzazione economica
di quel tipo di posto. Chi osservava una città britannica di fine 800 come Manchester si trovava in una
condizione diversa rispetto a quella che si trovava osservando il paesaggio di una città andalusa dello stesso
periodo. Questo perché in Inghilterra la fase della rivoluzione industriale era già arrivata e in Andalusia no.
Ad un certo punto il paesaggio in quella fase storica diceva la verità proprio perché l’agricoltura era ancora
dominante. Si poteva leggere l’incipiente passaggio all’industria o lo sfruttamento del paesaggio agricolo a
seconda del territorio. In qualche modo quel tipo di rappresentazione ci diceva molto riguardo il modo in
cui l’uomo era riuscito a strutturare il proprio modus operandi. Tutto questo è ancora vero? No, è stato
superato. Il paesaggio di oggi non ci consente più di capire l’evoluzione del quadro economico. Il paesaggio
è in grado di raccontarci cose non vere. L’osservazione di un paesaggio può permetterci di leggere il livello
di degrado di un territorio. Un po' meno probabile è che ci permetta di leggere il livello di produttività di
quel territorio. Ci sono dei territori che ci appaiono particolarmente promettenti e interessanti dal punto di
vista del loro modo di proporsi e che in realtà nascondono forme di mancato sviluppo . Il paesaggio non è
più uno strumento idoneo per testimoniare lo stato di sviluppo. Questo perché la tecnologia di oggi tende a
nascondere molto di più. Il paesaggio di oggi è ingannevole perché il modo di organizzazione delle attività
sul territorio è un modo che passa attraverso un linguaggio meno legato alla percezione istantanea. Questo
vale sia per i grandi centri urbani che per quello che avviene nelle campagne. Oggi la produzione è diversa e
l’agricoltura ha assunto forme diverse in cui la meccanizzazione fa da padrone. Questo è un ragionamento
attuale con quello che noi riusciamo a capire di un paesaggio. In linea generale capiamo poco e abbiamo
perduto la capacità di analizzare le componenti del paesaggio. La disabitudine a leggere i segni che il
territorio presenta è un limite. Noi siamo disabituati a leggerne i segnali e a farci delle domande su
determinati segnali che raccontano un territorio. Un paesaggio attraente forse non ha un corretto rapporto
con il territorio che la circonda. Abbiamo perso l’abitudine di osservare un paesaggio. Noi tendiamo a dare
una rappresentazione del paesaggio del tutto soggettiva e talvolta poco credibile. La valutazione del
territorio si porta appresso un certo tipo di territorio. è un’operazione che non si può più fare e ci indirizza
verso un approccio che sicuramente non ci aiuta ad apprendere fino in fondo ciò che osserviamo.
Nell’ambito della regione omogenea questo non era ancora vero e questa osservazione era pregnante
perché il territorio si esprimeva in maniera meno sfuggente. Da una parte noi siamo disabituati
all’osservazione del paesaggio, dall’altra il paesaggio è ingannevole. Le modalità con cui oggi l’economia si è
organizzata sul territorio non sono più tali da consentirci attraverso solo l’osservazione di capire più di
tanto. Certamente l’osservazione di alcune patologie è ancora possibile. Se mi trovo davanti una discarica a
cielo aperto concludo che è un territorio compromesso. Tuttavia, potrei trovarmi davanti ad una discarica
non a cielo aperto, dove i rifiuti sono stati sotterrati. Osservando il paesaggio non si può scorgere questa
cosa. Qualche volta il paesaggio consente l’osservazione di forme di patologie del sistema e qualche volta le
forze del dissesto del territorio non sono facilmente percettibili. Qualche volta siamo noi a non capirle.
Scambiamo la disattenzione alla tutela del territorio e pensiamo che sia una forma di velleità. In un modo o
nell’altro attualmente esiste una sostanziale incapacità di intendere il territorio e utilizzarlo come
strumento di lettura. Questa è la conseguenza di un’evoluzione del quadro economico e dell’insediamento
dell’uomo sul territorio che risale agli ultimi 50 anni. La regione omogenea presenta la possibilità concreta
di leggere attraverso l’osservazione del paesaggio a differenza di quanto non sia successo oggi. La regione
omogenea è una regione abbastanza ferma in cui il succedersi delle generazioni si porta dietro il succedersi
delle situazioni economiche. Siamo di fronte ad una società in cui i figli fanno il lavoro che fanno i genitori e
il livello di scolarizzazione è relativamente basso. La mobilità che noi osserviamo nel mondo
contemporaneo è una mobilità figlia degli ultimi dieci anni. Questo comporta un approccio diverso di quello
che abbiamo. All’interno del concetto di regione omogenea quasi tutti non si muovono dal luogo di
residenza che coincide spesso con il luogo di lavoro. La scolarizzazione generalizzata è una conquista
dell’ultimo secolo. Il suffragio universale arriva con il 1948. All’inizio del secolo è in parte ancora la
dimensione censuaria a dare il diritto al voto. Nella regione omogenea il paesaggio è come una cartolina.
Niente si muove e per questo il paesaggio rimane così com’è. In realtà il concetto di mobilità sociale è un
concetto figlio del Novecento. Quando si svolge una riflessione riguardo le logiche legate alla Rivoluzione
Francese che ha riguardato quel paese sul finire del 700 e la si definisce un’operazione borghese, si fa
un’operazione di valore storico corretta ma sociologicamente poco puntuale. La formazione di una
borghesia urbana in Francia non ha raggiunto mai le dimensioni che si tendono ad attribuirgli. Ha prodotto
una rivoluzione con tutta una serie di cause che ne hanno generato il portentoso effetto ma il problema
della mobilità sociale all’epoca non c’era. L’idea illuminista e anche post-illuminista di una società che
evolve a partire dalla seconda metà del 700 e per tutto l’800 verso un modello istituzionale che si vorrebbe
cambiato in ragione del mutamento della struttura sociale dei paesi è una lettura che forse ha significato
dal punto di vista storico ma che ha poco significato dal punto di vista economico e demografico. I numeri
del sottoproletariato urbano alla fine del 700 assomigliano molto a quelli della fine dell’800. La politica
dell’800 è una politica fatta di avanguardie e non di popolo. È un ragionamento di tipo geografico. Quello
che secondo gli storici è un periodo di profonda evoluzione dal punto di vista politico e istituzionale, dal
punto di vista della grande parte della popolazione non lascia traccia. La società che sta sotto, il 95% di
coloro che ad un certo punto attraversano quella fase storica finisce per rimanere dov’era. Il
diciannovesimo secolo guardato attraverso gli scritti dei grandi letterati dell’Ottocento, si pensi alla grande
letteratura francese, trova un riscontro qualitativo consistente nella società ma quantitativamente in quanti
in occasione dell’affaire Dreifus, ad esempio, si sono affezionati alla situazione o al caso? In pochi. La vera
rivoluzione nel nostro paese non avviene con l’Unità d’Italia, ma nel 1960 quando la prepotente spinta
economica consente a una vasta porzione del paese di cambiare le proprie prospettive in termini economici
e sociali. Sono i fatti economici quelli che finiscono con il generare i cambiamenti sociali. È chiaro che poi la
politica sfrutta la risorsa, ma è un fatto politico che risente anche della risorsa. Per certi versi si può
ipotizzare un rapporto tra democrazia, mobilità sociale e disponibilità tecnologica. La disponibilità
tecnologica non genera di per sé un meccanismo di democratizzazione come possiamo osservare oggi nella
repubblica cinese. Senza una spinta tecnica di ordine consistente è molto difficile pensare che vengano rotti
gli equilibri almeno a livello territoriale. La Rivoluzione Francese ha cambiato la coscienza delle èlite e ha
sviluppato un grande dibattito che però è interno a gruppi sociali fortemente circoscritti. Quello che allarga
il compasso della materia del comprendere, quello che rende più probabile e quindi discutibile
l’allargamento della base sociale e quindi l’accesso alle risorse non è rappresentato dalle rivoluzioni liberali
dell’800 ma è rappresentato molto più significativamente dalla rivoluzione economica enorme e dalle sue
conseguenze in termini di produzione di ricchezza che si realizzano all’indomani della terza rivoluzione
Industriale che data intorno alla seconda metà degli anni 50. Quando le mutate condizioni hanno
determinato diverse potenzialità abbiamo finito per assistere ad una trasformazione del territorio e delle
nostre società. Qualche volta si equivoca sul nesso causale tra democrazia e distribuzione del reddito. La
democrazia è figlia della distribuzione del reddito e non viceversa. È per quello che certi approcci non
portano da nessuna parte. Alla fine, oggi quello che abbiamo cercato di fare è stato disegnare in termini
definiti i termini di regione omogenea, paesaggio, mobilità sociale, genere di vita. In qualche modo
abbiamo dato una collocazione storica alla regione omogenea precisando come la sua storicizzazione deve
essere collegata a quello che è il portato di ordine tecnico ed economico di quel momento. Quindi la
regione omogenea persiste sino a quando le condizioni di ordine tecnologico che sono la base del sistema
economico finiscono per mutare. La Prima guerra mondiale segna un punto di rottura nell’ambito di questa
concettualizzazione. Il mondo raccontato con la regione omogenea che esce dalla Prima guerra mondiale è
un mondo non ancora pronto per divenire il mondo attrazione industriale di cui parleremo quando
ragioneremo intorno al mondo della regione funzionale, della polarizzazione industriale ecc. è un mondo di
cerniera e di mutamento degli equilibri. Non casualmente il periodo tra le due Guerre mondiali è
caratterizzato da profondi rivolgimenti di ordine politico che finiscono per generare risposte molto
significative in termini politici. Si pensi alla nascita delle dittature nazifasciste, o quella dell’Unione
Sovietica. La regione funzionale rappresenta il nuovo mondo.

8-04-2021

Il tema della povertà è complesso da analizzare perché sebbene sia espressione di una condizione
basilarmente economica, non è solo questo. Può essere interpretata come mancanza di risorse che siano
compatibili con la vita e lo sviluppo. Non disponibilità di strumenti. La povertà come distanza dallo standard
medio. Tutte queste cose sono valide. La povertà ha un sacco di varianti. Cosa unisce queste osservazioni? Il
minimo comune denominatore della povertà è la sostanziale impossibilità di soddisfare un bisogno
essenziale.

Povertàimpossibilità di soddisfare un bisogno essenziale. Tutta la vita di noi è costruita sul paradigma del
bisogno. Abbiamo la necessità di dover vedere soddisfatti i bisogni essenziali.

Ma cos’è un bisogno essenziale? Un bisogno essenziale è senza dubbio nutrirsi. Ma non solo. È un qualcosa
di indifferibile senza il quale non si può vivere, ad esempio anche la liberà riproduttiva. Le necessità
riproduttive possono indicare una povertà laddove sia ricondotta a un gruppo. Quindi parliamo di povertà
collettiva. Mentre individualmente può essere una scelta, diverso è se viene imposto di non fare figli o se al
mio gruppo sociale viene detto che non possiamo riprodurci.

-> mancanza del diritto alla riproduzione, dal punto di vista del singolo individuo riprodursi non è un
bisogno essenziale in assoluto, è un bisogno essenziale nell’ambito della collettività. Espressione di una
povertà collettiva.

Questo è un fenomeno socialmente esistente di limitazione alla produzione la politica del figlio unico è
stata una politica di contenimento demografico non di negazione alla riproduzione. Se non fare figli è una
scelta individuale (anche se incentivata) non parliamo di negazione alla riproduttività. Il tema dei diritti civili
non ha rapporto diretto con la deprivazione della riproduttività.

Fenomeno socialmente esistente di negazione al diritto riproduttivo Anni ’90 esempi da guerre civili in
Ruanda ed ex Jugoslavia-> genocidio degli individui di sesso maschili e stupro etnico, hanno ucciso tutti gli
uomini appartenenti a quell’etnia e hanno stuprato tutto le donne con l’obiettivo di metterle incinta.
Questa è l’espressione drammaticamente perfetta del concetto di negazione alla riproduzione, sebbene per
paradosso implichi proprio la riproduzione (tramite lo stupro). Questo rappresenta una forma di distruzione
di quel gruppo sociale, il massimo della povertà possibile. La massima deprivazione sociale è impedire ad un
gruppo di riprodursi. Queste cose sono state teorizzate e scritte da persone e teorici. Si tratta di impedire
ad un gruppo di avere un futuro e questa è povertà. I singoli individui possono fare quello che credono
mentre una collettività ha il diritto e dovere di riprodursi perché altrimenti si estingue.

Le leggi di Norimberga, ad esempio sono le prime leggi in cui si negano libertà fondamentali del portato di
cui stiamo parlando. Le leggi di Norimberga delegittimano una serie di comportamenti quindi senz’altro
intervengono alla negazione della riproduzione ma era più la negazione al mescolamento delle razze e non
della riproduzione. Le leggi di Norimberga sono leggi razziali e si tratta di negazione della libertà ma non
della riproduzione.

Mentre quello che hanno fatto i nazisti nei confronti degli ebrei è un genocidio e quindi non ha a che fare
con la povertà, il discorso della pulizia etnica integra il nostro caso. È una povertà collettiva di tipo non
economico.

L’unica possibilità di comprendere la povertà è categorizzarla. La prima grande dicotomia è:


1) povertà personale

2) povertà collettiva

-> la povertà non è necessariamente una questione economica, esiste una differenza strutturale tra povertà
collettive e povertà individuali.

Un fenomeno di povertà collettiva che ci sta interessando è l’epidemia -> fenomeno che innesca la povertà
collettiva, siamo oggi collettivamente privati della nostra capacità di contrasto collettivo ad un problema.
Oggi non riusciamo a soddisfare un bisogno primario, legato alla nostra salute, ed è collettivo.

I cambiamenti climatici, allo stesso tempo, riguardano tutti, se respiro un’aria inquinata, mi impoverisco.

Il mancato accesso ad utilità di carattere generale, come la salute, la qualità del territorio e dell’ambiente
rappresentano delle povertà di tipo collettivo e non si correlano al PIL di una nazione, di un territorio, sono
povertà che possono prescindere dallo stesso.

Le forme di povertà collettive sono diverse dalle forme di povertà individuali. E questa è la prima grande
dicotomia. La seconda è quella tra povertà assoluta, che si configura per avere indisponibilità di beni e
servizi essenziali (cibo, acqua, tutela della saluta) e povertà relativa (-> povertà relativa alla società in cui
l’individuo appartiene, rispetto alla norma, cioè a ciò che si riscontra con frequenza maggioritaria).

La norma è un valore in cui rientra la maggior parte della popolazione. Noi usiamo il termine nomale come
derivazione della norma.

13-04-2021

Le entità religiose hanno un approccio con la povertà differente da quello che è chiamato ad avere un
soggetto che ha responsabilità di tipo politico. Il problema della povertà presenta una dimensione che ha a
che vedere con le categorie della morale, dell’etica, della filosofia e quindi è un argomento dove finiscono
per sovrapporsi approcci differenti. È necessario definire qual è il tipo di approccio al tema della povertà
che stiamo utilizzando. Naturalmente noi stiamo dando della povertà una definizione da una parte tecnica
e dall’altra economica. Esistono forme di povertà che non hanno dimensione strettamente economica ma
noi prendiamo in considerazione quelle. Per farlo abbiamo utilizzato una breve tassonomia. Ci eravamo
confrontati con il tema della povertà assoluta e la povertà relativa. La povertà assoluta si intende
l’impossibilità di soddisfare bisogni essenziali mentre il tema della povertà relativa è declinato secondo una
dimensione modale. La povertà relativa è quella in cui al soggetto interessato dal fenomeno viene impedito
di accedere a una serie di servizi ritenuti fondamentali dalla comunità a cui appartiene. Nel 2021
l’impossibilità di accedere al servizio televisivo può essere considerata espressione di povertà; cosa che non
era vera nel 1954 quando gli abbonati alla rai erano 18 mila su una popolazione di 48 milioni di persone.
Una famiglia che non riesce a far svolgere ai propri figli il ciclo obbligatorio della scuola dell’obbligo a parità
di altre condizioni in cui questo non sia una scelta, rappresenta una forma di povertà. Questo non era vero
nell’ambito di società passate che hanno fatto dell’istruzione un privilegio delle élite. Anche i termini della
povertà assoluta mutano in ragione della dimensione della struttura sociale. Il concetto di servizio
essenziale cambia in modo rilevante. Oggi alcuni servizi sono considerati servizi essenziali. Si pensi alla
disponibilità di energia elettrica o al riscaldamento. Ad oggi questi sono servizi essenziali. L’assenza della
disponibilità di questi servizi indica una condizione di povertà assoluta. In una società caratterizzata da un
livello tecnologico diverso anche qui il ragionamento si presenterebbe in termini diversi come a dire che
esiste una povertà relativa riferita al tipo di società ed esiste una povertà assoluta che si riferisce alla
relatività del servizio o del bisogno. Oggi accedere all’energia elettrica è un bisogno essenziale, 100 anni fa
no. L’accesso a un servizio essenziale o il mancato accesso al servizio essenziale provoca povertà assoluta
ma l’essenzialità del servizio a sua volta dipende dal momento. Noi riusciremo nel corso del tempo a
misurare la povertà come impossibilità di accedere a un tipo di servizio. Esiste una relatività della povertà e
una del servizio essenziale. Chiaramente, un’altra caratteristica che riguarda la povertà e la sua declinazione
concerne la dimensione territoriale della povertà. Esistono povertà che si classificano come legate
sostanzialmente a un’assenza di sviluppo e altre legate a un fenomeno di emarginazione nell’ambito di una
società sviluppata. È profondamente diversa la dimensione di povertà che può assumere o possono
assumere interi gruppi sociali nell’ambito di paesi che non hanno ancora trovato la via allo sviluppo, come
le comunità del sud Sudan in cui il reddito medio procapite annuo non arriva nemmeno a 150 dollari. È la
sua popolazione nella stragrande parte ad essere povera perché non riesce ad accedere a servizi essenziali.
Non riesce ad accedere soprattutto alle modalità che potrebbero generare sviluppo economico, ovvero la
fuoriuscita da questa condizione strutturale di mancanza di soddisfazione del bisogno. Ben diversa è la
povertà che matura all’interno di società economicamente più evolute in cui l’incapacità da parte del
soggetto o del gruppo sociale è ben diversa. Un villaggio in sud Sudan ha una povertà collettiva. Diverso è il
fenomeno di marginalizzazione dell’individuo singolo nell’ambito di una collettività che trova una forma di
sviluppo consolidato e quindi affronta la situazione sotto un diverso profilo. Un problema è l’accessibilità al
luogo di residenza. All’interno del paesaggio sudanese il problema della mancanza d’accesso alla residenza
non esiste. Non è che quella popolazione è povera perché non ha una capanna dove vivere. Lì i problemi
sono altri. Diverso è il caso di un individuo o di un gruppo di individui che invece insistono nell’ambito di un
contesto territoriale ed economico in cui le modalità residenziali sono quelle che conosciamo in cui gli
individui tendenzialmente vivono in una casa. Pensiamo alle popolazioni nomadi dell’ansa del Niger. Sono
popolazioni di tipo nomade e non è che ad un certo punto sviluppano una residenzialità come la abbiamo
noi. A seconda dei casi ci troviamo di fronte un quadro strutturalmente diverso dei servizi. Questo significa
che, come tutte le realtà complesse, la povertà deve essere indagata e si deve capire di quale processo
patologico sia la risultante. Il ragionamento diventa quello di dire se sia possibile sostenere
ragionevolmente che al di là delle tassonomie esistono molte povertà. Esistono molte modalità di
declinazione della povertà. Probabilmente le ricchezze finiscono per assomigliarsi mentre invece poche
cose sono dissimili quanto la povertà. Le strategie di contrasto alla povertà naturalmente non possono che
risentire di questa sostanziale diversità. La povertà, anche scevrando la medesima da analisi di tipo morale
ed etico, deve essere combattuta anche da parte del sistema economico perché è una dimostrazione del
malfunzionamento di quest’ultimo. Il sistema economico nel quale ci sono forme di povertà è un sistema
che produce una scoria. L’approccio economico al tema della povertà è tale per cui la povertà si deve
combattere perché è un disastroso sottoprodotto del modello di sviluppo economico che viene
approcciato. Combattere la povertà è una scelta economica. Qual è il problema? Il problema è che
combattere la povertà da un punto di vista etico significa partire da un determinato approccio. Combattere
la povertà dal punto di vista economico significa un’altra cosa. Ad esempio, combattere la povertà dal
punto di vista etico potrebbe implicare il meccanismo di condivisione di una ricchezza. Poiché io sono
moralmente o eticamente convinto che il fenomeno della povertà debba essere superato, io condivido ciò
che ho a disposizione con qualcuno che di povertà soffre e così facendo risolvo prima dal punto di vista
morale e poi dal punto di vista economico il problema. È un tipo di approccio morale che possiamo sentire
nelle parole di un leader religioso o filosofo. L’economista ha una visione diversa e non immagina che
questa sia la soluzione. Approccia il problema della povertà sotto il profilo del tentativo di rimuovere gli
ostacoli che sono alla base della povertà. Molto diverso è dire di superare la povertà condividendo la
ricchezza degli uni con il disagio degli altri e un conto è combattere la povertà sviluppando un piano di
superamento di ciò che impedisce di uscire dalla povertà. Questo è un approccio tipicamente economico.
Non si guarda alla povertà come questione etica ma come patologia dell’economia. Questo è un approccio
che caratterizza i provvedimenti di politiche economiche in linea generale e che indirizza l’orientamento e
le azioni di contrasto alla povertà nell’ambito dei paesi ad economia avanzata che fanno il contrasto della
povertà un caposaldo della propria politica o del così detto welfare. Quindi politiche di contrasto alla
povertà come politiche di eliminazione delle condizioni che generano la povertà medesima. Questo
presupposto parte dall’idea che la povertà all’interno delle società ad economia avanzata sia generata
dall’impossibilità o dalla estrema difficoltà da parte di gruppi o individui di accedere a elementi, processi,
fattori economici che possano consentire agli stessi individui di soddisfare le proprie esigenze fondamentali.
La casa è un bene essenziale, la difficoltà di accesso è espressione di povertà, uguale per il servizio elettrico.
L’impossibilità di accedere a questi servizi è al tempo stesso manifestazione di povertà e premessa per il
mantenimento di tale povertà. È la condizione ostativa per uscirne. Non ho una casa e non avendola non
posso organizzare la mia vita per diventare un soggetto produttivo e così rimarrò povero e non riuscirò a
procurarmi una casa. La mancanza della possibilità di accedere al servizio essenziale è al tempo stesso
risultante e causa della povertà medesima. Le strategie di contrasto a questo tipo di situazione sono
essenzialmente di doppio tipo. La povertà, come tutti i fatti economici, non è espressione di uno stato
assoluto. Esiste in questo senso una povertà di stock e una di flusso. Uno stock è rappresentato da una
quantità statica di bene. Se una famiglia è proprietaria di un immobile, la casa, questa ricchezza che
rappresenta la principale ricchezza della famiglia, rappresenta una ricchezza di stock. Il denaro accantonato
in forma di risparmio rappresenta una forma di stock. Il possesso di una rendita perpetua come la cifra
destinata ad investimento rappresenta una forma di stock. Lo stock rappresenta una forma di ricchezza
ferma e statica. È ovvio che è una staticità relativa; una casa oggi può valere 30 e domani 29. Il flusso è
rappresentato dalla quantità di ricchezza sotto forme varie che perviene al gruppo sociale identificato.
L’esempio più banale di flusso di ricchezza è rappresentato da ciò che ricevo dal lavoro. Io ho
un’occupazione e questa mi dovrebbe garantire un sostentamento. Il reddito è la forma più classica della
dinamica della ricchezza. La ricchezza economica si misura essenzialmente in termini di stock, componente
statica, e di flusso, componente dinamica ed espressione della remunerazione dei diversi fattori della
produzione come il lavoro e il capitale. Parliamo di stock e di flusso perché lo stock e il flusso sono due
manifestazioni di ricchezza e quindi per differenza l’assenza di questi potrebbero essere delle
manifestazioni di povertà. Nell’ambito di una questione di povertà di gruppo è chiaro che si assiste
immediatamente ad un drammatico problema del venir meno di entrambe le componenti. Un gruppo
sociale che si trova a vivere una condizione di profugo, e quindi a diventare un gruppo profugo, si vede
privato della propria condizione di ricchezza di stock e al tempo stesso hanno perduto anche i loro flussi
finanziari perché sono nella condizione di non poter esercitare un’attività di tutela dei propri interessi
economici andando in un luogo sconosciuto. Ci sono forme di povertà in cui esistono situazioni in cui non si
realizza la contemporanea assenza di ricchezza di stock e ricchezza di flusso ma si realizza solo una di
queste condizioni. Ci sono condizioni che sviluppano condizioni di disagio pur avendo un flusso di reddito
che però per ragioni contingenti non è più in grado di soddisfare le esigenze che sono alla base della vita
contemporanea. Esiste una definizione statistica di povertà che si attaglia alle condizioni del paese di
riferimento ma l’ISTAT sviluppa continue ricerche e ha individuato una serie di parametri che configurano
l’ipotesi di povertà. Siamo di fronte a forme di povertà relativa. In un paese come il nostro non esiste un
problema di accesso all’acqua ma esiste un problema di accesso ai servici essenziali come la sanità,
l’alloggio. La rete di sostegno del nostro paese è piuttosto ampia. Regina di tutte le forme di disagio è il
problema legato alla residenzialità. Grossi problemi si registrano a livello dei trasporti. Molti italiani hanno
l’impossibilità di accedere a questo tipo di servizi. Non esiste povertà in Italia legata a fenomeni di ordine
politico. Non viviamo una guerra civile. Alcuni fenomeni legati alla povertà sono ad esempio le popolazioni
attinte dal terremoto, come quello nelle Marche. La casa è il tema dolente delle manifestazioni di disagio
nel nostro paese. Altrove la situazione è molto diversa. Combattere la povertà di villaggi del polisario in
Marocco passa attraverso il problema non della residenzialità ma della risoluzione del conflitto armato che
riguarda quei territori. La misurazione di povertà in termini di stock e flusso ci consente di intercettarne le
caratteristiche specifiche. L’impossibilità di accedere ad una situazione di tipo residenziale configura un
problema di stock. Diverso è il caso dell’individuo che si trova in povertà a seguito di un fenomeno
particolare. Ad esempio, in Italia un fenomeno di povertà relativa molto consistente riguarda le povertà di
separazione. Sono persone che hanno un reddito di lavoro ma che per ragioni legate alle conseguenze
giuridiche di una separazione, si trova in una posizione di povertà relativa non riuscendo più a disporre di
un alloggio. Perché facciamo questi ragionamenti? Perché poi le modalità attraverso cui ci si può opporre
alle diverse forme di povertà derivano fondamentalmente dalla natura della povertà stessa. È come se a un
certo punto uno cerca di combattere le povertà delle popolazioni nomadi del Niger costruendo degli alloggi.
Questo non ha senso perché in parte è una loro libera scelta vivere come nomadi. Viceversa, è chiaro che
non diminuisco il problema di disagio in Italia aumentando la portata di pascoli disponibili perché chi soffre
di disagio in Italia non è un levatore di capre che si è trovato in difficoltà. Le azioni di contrasto alla povertà
scaturiscono dall’indagarla. Contrastare la povertà è un obbiettivo di efficienza ed efficacia e non una
questione morale. Da qui il fatto di compiere scelte che dipendono dalle ragioni che determinano la povertà
stessa. Molte di queste ragioni hanno a che vedere con l’indisponibilità di alcuni servizi pubblici essenziali.
Per quanto riguarda i paesi ad economia avanza, se è vero che la ricchezza può essere espressa attraverso
una dimensione di stock e una di flusso, capiamo bene che per ragioni evidenti è più semplice superare il
fenomeno della povertà attraverso l’attivazione di un meccanismo di flusso. È molto più difficile riuscire a
produrre rispetto a un individuo o una popolazione attinta da una condizione di povertà l’idea della
formazione di uno stock. Se io dispongo di un’entrata di 400 euro a mese e quindi di un flusso finanziario si
fatto e abito a Roma è improbabile che io possa trovare le risorse per creare uno stock. È un reddito di
sopravvivenza che non mi consente di attivare uno stock. È abbastanza chiaro che l’azione di contrasto alla
povertà passa attraverso l’attivazione dei flussi. O sono flussi di servizio o sono flussi finanziari. Le risorse
che lo stato può investire nell’ambito dell’azione di contenimento della povertà, come nell’azione di
contenimento di qualsiasi altro fenomeno negativo, sono risorse per definizione limitata. Partiamo dal
presupposto che esista un vincolo di bilancio. Non ci troviamo nella circostanza in cui possiamo soddisfare
ogni tipo di istanza. Questo approccio surreale non ha ragione di essere. Tutti desidereremmo di poter
disporre di risorse infinite per combattere i problemi. Disporre di queste risorse significa compiere delle
scelte spesso alternative. Significa indirizzare le politiche in una direzione piuttosto che in un'altra. Il
fenomeno della marginalizzazione dei gruppi sociali è un fenomeno che ha delle risposte significative. Io
posso essere marginalizzato per tante ragioni: perché non ho un alloggio, o perché non accedo a un servizio
essenziale come l’energia elettrica perché costa troppo ecc…

Esistono delle impossibilità d’accesso che sono legate alla dimensione pubblica degli investimenti . Noi
siamo il paese di Europa in cui l’energia elettrica costa di più. Siamo il paese in cui circa l’82% della
popolazione residente è proprietaria della propria casa. Questa è una notizia eccellente perché significa che
gli italiani hanno scelto di capitalizzarsi rispetto a un bene primario ma dall’altra parte significa che esiste un
mercato degli affitti particolarmente complesso in cui non esiste una componente pubblica che gioca un
ruolo significativo. La grande parte dei contratti di locazione in Italia sono tra privati a valore di mercato.
Una forma di socialhousing, che è una forma di allocazione di immobili a prezzi socialmente congrui
rappresenta un problema. Dal punto di vista di un individuo che non ha una casa il problema è quello di
avere un tetto. Avere a disposizione un’edilizia pubblica in grado di soddisfare questo bisogno essenziale
sarebbe di grande importanza. Le locazioni private sono locazioni in cui colui che sceglie di prendere in
affitto un appartamento compie quest’operazione sulla base delle proprie disponibilità. Quest’operazione
tagli fuori chi ha poche possibilità. Il mercato legittimamente ha le sue regole. Si può però chiedere allo
stato di costruire alloggi dignitosi capaci di intercettare una domanda sì fatta. Quindi agevolare l’accesso ai
servizi pubblici essenziali è un modo di combattere la povertà. Nella lezione sul problema delle differenze di
genere avevamo posto due soluzioni; vale lo stesso ragionamento. Si combatte la povertà alzando i livelli di
scolarizzazione, alzando l’hausing sociale, dotandosi di servizi di trasporto efficienti. Oggi siamo di fronte a
un problema molto serio perché i nostri sistemi di trasporto pubblico non consentono a contenere il
problema della pandemia così che alcune persone devono compromettere o la salute o il salario. Ciò fa di
me un individuo povero perché o mi ammalo o se i servizi non funzionano io potrei non arrivare al lavoro.
Se io sono il capofamiglia di una famiglia numerosa e non ho la possibilità di lasciare i miei figli presso un
asilo, potrei vedere compromesse le mie opportunità di salario. La forma più efficiente di politica di
contenimento della povertà dovrebbe essere erogata allo sviluppo efficiente di servizi pubblici essenziali.
L’altra strada è quella del sussidio; strada che finisce per intervenire sul breve periodo. Si tratta di erogare
forme di sostentamento nei confronti di chi è in difficoltà e quindi risolve il problema dal punto di vista
strettamente finanziario. Gli studi economici si sono sforzati per decenni per dimostrare che il primo
approccio è più lungimirante del secondo. Per ragioni legate alla crisi, all’opportunità politica e al consenso
elettorale, l’azione di contenimento al fenomeno di disagio sociale avviene molto più comunemente con
l’erogazione di sussidi. Questa non è una buona notizia perché il sussidio risolve il problema in modo
contingente. Se io rendo il sussidio strutturale non risolverò il problema di quell’individuo ma renderò
quell’individuo un individuo assistito. Il dibattito sui sussidi, tutte quelle forme di sostegno passivo al
superamento della povertà, sono dibattiti che risentono in modo significativo di approcci molto spesso
orientati alla soddisfazione di un bisogno immediato piuttosto che al tentativo di risolvere un problema di
medio lungo periodo. Noi siamo insieme protagonisti di una specie di esperimento sociale, ovvero siamo in
una DAD al 95% grosso modo. Stiamo sperimentando questo percorso della DAD che a livello universitario
non è particolarmente complicato e non realizza le stesse condizioni a cui eravamo tutti abituati però da un
punto di vista statistico i dati sono tranquillizzanti. La popolazione universitaria ha dato una prova piuttosto
buona di capacità di resistenza a una modalità poco utilizzata prima. Il ragionamento è stato molto diverso
per i livelli di istruzione più bassi. Da una parte per un problema di età. Quello su cui bisogna soffermarsi
quando si sviluppa una critica feroce alla DAD, è che la DAD non funziona non perché non sia uno
strumento ma non funziona perché l’investimento fatto sulla DAD non è stato un investimento. Non si
tratta di criminalizzare lo strumento in sé stesso ma il sistema per il quale non è stato incrementato. Questa
inefficienza ha cominciato a determinare una dispersione scolastica. Soprattutto in determinate lezioni,
fasce di popolazione e cicli scolastici. Questa risultante è l’effetto di aver scelto una politica di contrasto alla
povertà costruita in un’altra maniera. La scelta è stata quella di investire su altro e ciò ha portato a questa
inefficienza. Stiamo innescando nuove forme di povertà perché abbiamo scelto di erogare sussidi piuttosto
che sviluppare progetti a lungo termine. Va rappresentato il problema del rapporto in investimento del
capitale fisso sociale ovvero in servizi pubblici essenziali e l’erogazione dei sussidi nell’azione di controllo
alla povertà. È ovvio che dal punto di vista politico è molto più premiante presentarsi erogare denaro
piuttosto che investire in lavori di medio periodo. Tutto quello che non si vede subito ha un ritorno di lungo
periodo e quindi viene percepito dall’opinione pubblica in modo meno permeante e rilevante. Una
riflessione va fatta perché l’orientamento e il dibatto politico in questa fase storica è tutto centrato su
questa dimensione. La debolezza e la povertà del dibattito economico sull’argomento hanno spesso avuto
come risultante l’idea di avere trasformato il tema alla lotta alla povertà in un tema di misurazione
nell’erogazione finanziaria di sussidi. Questo finisce per creare un problema alle nuove generazioni perché
le politiche sussidiarie sono politiche che finiscono per ipotecare il destino dei più giovani. Quando si parla
di spostamento delle risorse intergenerazionali si parla di operazioni di questo tipo. Lo sviluppo di una
politica sussidiaria è l’espressione di uno spostamento di una politica di lungo periodo a una di breve
periodo con conseguente effetto negativo nei confronti delle generazioni più giovani.

15-04-2021

Il tema era quello delle politiche di contrasto della povertà. Noi siamo in una condizione in cui il denaro da
investire è finito. È chiaro che un’erogazione di tipo sussidiaria è un’erogazione che alla fine soddisfa in
modo netto e immediato la platea di coloro che si trovano nell’evidente difficoltà. Al netto di questo il
sussidio interviene in modo immediato ed è sicuramente utile a garantire la superazione di un’emergenza.
Lo stiamo vedendo con il discorso del coronavirus. È chiaro che se questo diventa uno strumento a tempo
indeterminato, quest’operazione finisce per compromettere altre ipotesi. C’è il confronto tra linee
programmatiche diverse. La politica dei sussidi ad un certo punto produce un ritorno in termini di
soddisfazione più o meno buono fermo rimanendo che è una politica che finisce per tenere fuori qualcuno.
Un caso emblematico è stato quando c’è stato l’erogazione dei contributi a fondo perduto per coloro che
hanno perso più del 30% del fatturato. Un imprenditore che ha avuto il calo del fatturato del 29, 99%,
ovvero 1 millesimo sotto il 30% non può prendere il sussidio. Questa è la caratteristica dei sussidi. Ciascun
parametro riflette un tipo di povertà. Immaginiamo chi ha una casa ma non ha un reddito e quindi non ha il
problema di dove dormire la notte ma quello di non poter sostenere un dignitoso tenore di vita.
immaginiamo il problema invece di chi ha il reddito ma non la casa. il tema dei sussidi è un tema
deflagrante. La politica dei sussidi ha la caratteristica di identificare categorie specifiche e sostenere solo
quelle. Viceversa, le politiche di sostegno di tipo indiretto sono un po' più trasparenti, o almeno dovrebbero
esserlo. È chiaro che se creo 20 alloggi e ho una graduatoria, poi il meccanismo è un meccanismo di sola
attesa. Stesso discorso per la disponibilità per le borse di studio ecc…

La logica è quella di volta in volta finire a privilegiare un aspetto della povertà piuttosto che un altro. Ad
esempio, i dati dell’OCSE dicono che il reddito di cittadinanza ha contribuito in modo concreto a diminuire il
disagio legato alla povertà e i dati del ministero del lavoro dicono che il reddito di cittadinanza ha portato a
trovare 0 nuovi posti di lavoro. Questo significa che il reddito di cittadinanza è un provvedimento utile solo
in forma sussidiaria. Aiuta a tirare avanti coloro che si trovano in evidente disagio economico ma non aiuta
a trovare occupazione. Questa è una decisione del tutto politica. Va detto che le politiche sussidiarie sono
politiche che determinano un generetion gap molto significativo. Sono politiche che non favoriscono le
generazioni più giovani. I gruppi sociali coinvolti sono gruppi sociali diversi. Dal punto di vista delle politiche
sussidiarie, ad una generazione di ultraventenni interessa di più che il mercato di lavoro sia più efficiente
mentre a una generazione di 50 interessa di più il reddito di cittadinanza. I provvedimenti che riguardano
tutti sono quei provvedimenti che migliorano qualcosa che è a disposizione di tutti. Ad esempio, se io
miglioro le strade che sono percorse dai mezzi pubblici, io faccio un provvedimento per tutti. Se io
sovvenziono la categoria dei cassaintegrati, chiaramente questo riguarderà solo loro. il contrasto della
povertà è favorevole anche al contenimento della criminalità. Una categoria particolare di sussidio è
rappresentata dal così detto incentivo. Dell’incentivo si può parlare probabilmente con toni più sereni
rispetto al tema dei sussidi in senso stretto. Il problema spesso consiste nell’efficacia del provvedimento
sussidiario rispetto al fatto di riuscire ad intercettare in maniera efficace reali forme di povertà. La povertà è
chiaramente una povertà che si declina in tanti modi differenti, sia essa assoluta che relativa. Il fatto che sia
così differente e che trovi declinazioni diverse rende difficile riuscire ad acchiappare per davvero i più
bisognosi. Un sussidio ha individuazioni parametriche. Non si può fare un sussidio all’intero paese. Dovendo
agganciare questa cosa a dei parametri di ordine economico spesso rappresentati in termini di flusso, stock
redditi e proprietà il rischio è quello di sussidiare uno che è ricco da morire ma ha una dichiarazione dei
redditi pari a 0. Al netto di questa operazione quello che conta ricordare è l’alternativa tra politiche
sussidiarie e quelle attive. Le politiche sussidiarie sono politiche passive mentre quelle attive sono quelle
che vanno ad irrobustire l’intervento dello stato in un determinato settore allo scopo di renderlo più
operativo. Per esempio, un traid off classico in questo senso è il confronto tra politiche sussidiarie e
politiche di sgravi provvidenziali nei confronti dei neoassunti. In genere una delle forme più presenti di
povertà indotta è determinata dalla povertà di coloro che o non trovano un’occupazione o la perdono, e
sulla base di questa condizione si trovano in una situazione di povertà. È chiaro che dal punto di vista di
costoro l’obiettivo preferenziale sarebbe quello di riconquistare un’occupazione sicchè in certe condizioni
lo stato produce una politica di sostegno all’occupazione consistente nel fatto di consentire alle imprese
che assumono di pagare una ridotta quantità di contributi sul reddito che deve essere erogato al
neodipendente. Questa è una forma di sostegno all’occupazione. Quindi questa è una forma di sostegno a
una platea identificata. Diverso è il sostegno che do ad esempio ad individui con età compresa tra i 35 e i 45
anni che sono sotto determinate soglie di reddito o capitale.

In Italia esiste un indicatore di ricchezza che si chiama ISEE e che in qualche modo tende a identificare la
ricchezza di coloro che sono soggetti a questo calcolo. La differenza tra sussidio ed incentivo è una
differenza sottile ma esistente perché il sussidio è una politica passiva, l’incentivo è quel provvedimento che
prendo per far uscire qualcuno da una determinata condizione creando situazione di facilitazione rispetto al
problema che affronto. Le politiche di incentivazione sono spesso politiche indirizzate verso i giovani
mentre quelle sussidiarie non sono indirizzate ai giovani. Le politiche attive non comprendono solo
l’incentivo, che in realtà si trova a cavallo tra le politiche attive e quelle sussidiarie. Le politiche attive sono
quelle che per esempio tendono a potenziale un determinato settore. Il socialhousing è una politica attiva,
le politiche di potenziamento di tutta la sfera delle esigenze pubbliche anche. Si tratta di politiche indirette
e quindi a lungo periodo. Ma quando vengono meno queste condizioni poi la povertà si incrementa quindi
bisogna ragionare su quale tipo di povertà si vuole intercettare. La povertà non è la causa di qualcosa ma
l’effetto. Tanto più questo effetto si prolunga e tanto più la povertà non verrà meno.

In sostanza: le politiche indirette sono politiche che mirano ad annullare la ragione per la quale la povertà
viene generata. Uno dei fatti che si riscontra più comunemente in paesi che hanno un bassissimo livello di
povertà come il Canada, è quella di avere un sistema di tipo pubblico fortemente indiretto. è vero che
esistono politiche sussidiarie anche in questi paesi. Chiunque scelga una politica di contrasto alla povertà
deve avere chiaro l’obiettivo che vuole raggiungere.

(domande esame differenza tra povertà individuale e di gruppo/differenza tra politiche sussidiarie e
politiche indirette ecc

Nelle lezioni a seguire cominceremo a affrontare una questione che ha a che vedere con l’esigenza di avere
un minimo di cognizione di forme di mercato legate all’economia classica. Dobbiamo introdurre una
questione di tipo tassonomico per capire alcune categorie essenziali del pensiero economico. Ci
occuperemo di monopolio, oligopolio e concorrenza perfetta. Sono tre ambiti di riferimento che si
riferiscono all’offerta di beni e servizi. Stiamo analizzando il tema del diverso modo di approcciarsi
all’offerta di beni e servizi da parte dei diversi tipi di economie. Con monopolio si intende una situazione in
cui quel bene o quel servizio viene offerto esclusivamente da un soggetto. Alcune materie sono oggetto di
monopolio pubblico per ragioni di tipo istituzionali. Ad esempio, l’amministrazione della giustizia. Il potere
giudiziario è uno dei poteri fondamentali dell’istituzione pubblica, insieme al potere normativo e quello
esecutivo. Quando questi poteri smettono di essere indipendenti ci troviamo davanti ad una mancanza di
democraticità. In un paese come il nostro il corpo della magistratura non è eletto dai cittadini. Alcuni tipi di
beni sono erogati dallo stato per ragioni istituzionali. Le forze dell’ordine sono emanazione pubblica. Non è
che in Italia la sicurezza venga garantita da milizie private ma è lo stato che si fa carico di gestire queste
questioni. Ma anche in campo economico abbiamo una gestione pubblica. Si pensi al demanio pubblico,
come la gestione delle spiagge. Lo stato può dare in concessione la gestione di queste ma il monopolio è un
monopolio pubblico. Alcune materie sono demandate esplicitamente al controllo pubblico, Come i
tabacchi. È lo stato che garantisce attraverso il proprio controllo la gestione dei tabacchi. Ci sono delle
materie in cui è lo stato ad avere il monopolio. Alcune materie sono considerate di importanza cruciale e
quindi lo stato ne è monopolista. Si pensi alla gestione delle strade che sono strade pubbliche. Ci sono casi
in cui le autostrade sono pubbliche ma date in gestione a soggetti privati. Alcune materie sono soggetto di
monopolio pubblico perché sono ritenute di interesse pubblico assoluto. Un esempio evidente di ciò che
significhi avere il monopolio di qualcosa di molto importante è rappresentato dall’acqua. In Italia alcuni
anni fa c’è stato un referendum per mantenere il monopolio pubblico dell’acqua. Esistono realtà di
monopolio di tipo pubblico in ragione dell’essenzialità del servizio. Per molti anni in Italia è stato
proprietario del monopolio Telefonico la SIP, diventata poi Telecomitalia. Accanto a queste forme di
monopolio pubblico ci sono forme di monopolio privati che sostanzialmente sono forme di monopolio di
fatto. Nella sostanza maturano per circostanze particolare. A volte il monopolio privato è dato dal soggetto
pubblico che dà in concessione il diritto. È vero che la proprietà è espressione di un monopolio pubblico ma
poi la gestione stessa è privata. Alcuni monopoli sono di diritto, come quelli delle concessioni statali, e altri
sono monopoli di fatto. Il monopolio di fatto è dato da qualcuno che per ragioni di fatto o situazioni
contrattualmente stabilite finisce per essere il principale. Ferrovie dello stato sulla rete regionale ha un
monopolio di fatto. È così perché ci sono solo le ferrovie di stato. In Italia l’unico non monopolio sulla rete
ferroviaria è quello che si ravvisa su quella dell’altra velocità dove vi è un duopolio tra ferrovie dello stato e
Italo. Non conviene a nessuno mettersi in mezzo a questa cosa. Google è un monopolio di fatto. Un
monopolio pubblico di diritto è il monopolio delle sepolture. In generale coloro che si occupano di
economia tendono a guardare al monopolio con perplessità. La rete distributiva non passa attraverso il
canale del monopolista. Lo stato si limita a tassarlo. La rete distributiva della grande multinazionale che
produce gli idrocarburi è monopolista ma lo stato si prende le accise. I tabacchi, ad esempio hanno una
produzione privata ma la commercializzazione è monopolizzata. AMA, ATAC operano in regime di
monopolio. Per fortuna le forme di monopolio sono sempre di meno, accanto ad esse ci sono forme di
oligopolio, uno schema di mercato sul quale insistono un numero limitato e circoscritto di soggetti, anche
qui o per questione di diritto o per questione di fatto. Un caso di oligopolio evidente (recentissimo) è il
mercato dei vaccini (abbiamo 6-7 vaccini). Il rischio in quest’ambito è che coloro che fanno parte di questo
mercato facciano “cartello”, cioè si mettano d’accordo sulle tariffe minime. Un altro classico esempio è
quello degli abbonamenti degli smartphones. Un altro esempio di mercato oligopolistico è il mercato delle
assicurazioni. Con preoccupazione si osserva che anche i mercati finanziari e le banche, con continue
operazioni di fusione, stanno generando un mercato oligopolistico. Un altro mercato che corre il rischio di
diventare oligopolistico è quello automobilistico, oggi di fatto le grandi multinazionali sono diventate poche
(recentemente c’è stata la fusione tra ex gruppo FIAT diventato STELLANTIS perché si è fuso col gruppo
francese che faceva capo a PEUGOT), molti marchi sono raggruppati. Mercato oligopolistico non è
tranquillizzante, perché pochi operatori finiscono per generare meccanismi di accordo, relativamente a
certe situazioni, che possono sfavorire l’utente del mercato. Un esempio emblematico di mercato
oligopolistico è rappresentato dal mercato dell’istruzione superiore: in realtà, nell’ambito dell’istruzione
secondaria e universitaria c’è un oligopolio: da una parte le strutture del servizio pubblico e dall’altra
università private.

20-04-2021

L’oligopolio è caratterizzato dalla presenza di un numero circoscritto di operatori che gestiscono il mercato
in pochi per ragioni di fatto. Un mercato oligopolio tipico è quello delle frequenze televisive, che sono
occupate da tutti coloro che in questo momento hanno le concessioni per svolgere questo servizio. Quando
voi accendete la vostra televisione trovate un numero di canali, ma nessuno di questi è a disposizione del
mercato (a meno che qualcuno non decida di venderlo) -> è un evidente forma di oligopolio. Una volta il
mercato televisivo operava in regime di monopolio: c'era solo la Rai e poi progressivamente il mercato
televisivo è diventato un oligopolio, perlomeno il mercato televisivo tradizionale (cioè sappiamo anche poi
che ci sono le piattaforme digitali che operano in streaming ma quello è un altro discorso). Il mercato della
televisione più “generalista” come si dice in gergo è un mercato oligopolistico. Un altro esempio di mercato
oligopolistico è quello delle banche, ormai assistiamo costantemente a un fenomeno di continue fusioni e
acquisizione da parte delle banche il cosiddetto “risiko bancario”, l'ultima operazione è di pochi giorni fa la
fusione fra Ubi e Intesa Sanpaolo che sta riducendo sempre di più il mercato bancario a mercato
oligopolistico. Stesso di scorso vale per il mercato automobilistico, ormai le holding che controllano le case
automobilistiche sono poche. Il mercato oligopolistico è un mercato che piace tanto a quelli che il mercato
non lo amano, perché naturalmente essere in pochi significa avere più possibilità di mettersi d'accordo con
la concorrenza, per esempio nell’indicazione di tariffe minime, tanto che in Italia e nell'ambito della stessa
Unione europea, come negli Stati Uniti esiste (e funziona in modo più o meno efficace) un’autorità antitrust
,deputata a controllare che gli oligopoli non determinino posizioni di predominio  il predominio si realizza
quando un gruppo di oligopolisti si mette d'accordo nella prospettiva di controllare il mercato.
La tendenza all’oligopolio è una postura economica abbastanza discutibile, ma continuamente in atto
perché naturalmente il sogno di tutti quelli che operano dal lato dell’offerta, cioè dal lato di coloro che
producono, è controllare il mercato e quindi fare in modo che in qualche misura il mercato sia piegato alle
più diverse strategie aziendali, sicché il mercato oligopolistico è un mercato che non presenta altissimi livelli
di trasparenza. Se io sono fra i pochi operatori in un settore è chiaro che a un certo punto riuscirò a
muovermi in modo per me più vantaggioso, cercando in qualche modo di ridurre le dinamiche del mercato
a mio vantaggio -> perciò questo approccio finisce per essere un approccio non particolarmente ben visto
dalla dottrina economica, perché è un approccio che tende a ridimensionare in modo significativo i livelli di
concorrenza. Paradossalmente è più accettabile un monopolio in un settore strategico, per esempio quello
legato alla difesa o quello legato alla giustizia, nell'ambito dell'amministrazione di un paese piuttosto che
un meccanismo oligopolistico in settori che in realtà dovrebbero essere “più liberi” -> perché mentre
l'amministrazione della giustizia con l'amministrazione della difesa ha un contenuto socio politico e non può
che essere demandato al controllo della popolazione quindi non può che essere un monopolio della
medesima, cioè noi abbiamo dato una delega alle nostre forze di polizia, perché operino in nostro nome nel
controllo del territorio e questo naturalmente è un monopolio statale; molto meno auspicabile, molto
meno logico, molto meno ragionevole dal punto di vista sia di un meccanismo di equità, sia di un
meccanismo di efficienza che in pochi siano in grado di controllare il mercato bancario, il mercato
assicurativo, il mercato delle telecomunicazioni o il mercato delle piattaforme digitali o altro. L’oligopolio
rappresenta indiscutibilmente una forma di organizzazione del mercato non particolarmente equa, non
particolarmente lineare, non particolarmente trasparente perché è sempre assoggettabile al controllo di
coloro che potrebbero decidere di “fare cartello”. Gli oligopoli sono il frutto di operazioni complesse,
articolate, che finiscono per avere “vinti e vincitori” -> esempio: recentissima e importante fusione fra il
gruppo italiano FCA cioè l'ex Fiat e il gruppo Peugeot che hanno dato origine al gruppo “stellantis”, che è un
gruppo molto importante sul mercato internazionale, i mercati finanziari hanno dato un riscontro
favorevole a questo tipo di fusione, adesso il problema che si pone è che il gruppo stellantis ha come dire
un' eccedenza di produzione sicché bisognerà decidere a un certo punto se chiudere alcuni di questi
stabilimenti. Qualche volta le fusioni comportano il fatto che ci sia una duplicazione delle funzioni
produttive: cioè le aziende si fondono dando origine a un soggetto unico e quindi determinando attraverso
più e più fusioni un mercato sostanzialmente oligopolistico (come nell'ambito del mercato automobilistico)
e nel farlo naturalmente i due soggetti che si fondono finiscono per avere delle eccedenze da qualche
parte, spesso purtroppo sono delle eccellenze produttive -> questo significherà che a un certo punto alcuni
di quegli stabilimenti potrebbero chiudere. -> la ricaduta sul profilo dal punto vista occupazionale di queste
situazioni potrebbe essere una ricaduta non necessariamente positiva. Il mercato oligopolistico è di per se
stesso imperfetto, perché non apre alla concorrenza o perlomeno apre a una dimensione concorrenziale
circoscritta, a tutti coloro che sono, per tutta una serie di ragioni, in grado di superare le cosiddette barriere
all'entrata.

Le barriere all'entrata sono quelle condizioni di diritto o di fatto che non consentono a un soggetto di
entrare in un certo mercato. Per esempio: il mercato delle frequenze televisive è un mercato in cui io non
posso entrare per motivi di diritto -> non mi vendono le frequenze televisive, o trovo il proprietario della
frequenza televisiva che me la vende e allora entro, oppure per una ragione normativa io non entro.
Un oligopolio di diritto, oligopolio di fatto: io formalmente potrei entrare, ma nella sostanza
l'organizzazione di quel mercato è tale per cui io non riesco a entrare. Ad esempio, l’oligopolio del settore
automobile: io posso anche immaginare di cominciare a produrre macchine da domani, nessuno me lo
impedisce, però le condizioni di mercato sono tali per cui di fatto questa ipotesi è remota, perché tutti i
segmenti di mercato sono tutti occupati da aziende enormi, che nel corso dei decenni hanno acquisito
marchi, hanno acquisito tecnologia, hanno fatto investimenti, dunque se io oggi volessi entrare sul mercato
troverei grandi difficoltà. -> a meno che io sia così bravo, capace e brillante da produrre un prodotto
caratterizzato da un livello innovativo tale da potere in qualche modo tentare di contrastare la presenza di
chi sul mercato c'è già, che è l'operazione che per esempio da qualche anno sta conducendo con l'ausilio di
un enorme quantità di capitali il proprietario del marchio Tesla, Elon Musk, enorme multimiliardario il quale
si è ripromesso di entrare in un mercato fortissimamente oligopolistico come quello dell' automotive. Elon
Musk è l'espressione più evidente di quanto sia complesso entrare nel mercato automotive, proprio perché
avendo egli investito una quantità di denaro persino difficile da calcolare, sta conducendo un'operazione
che tuttora è come dire “in forse”. Lui è la dimostrazione plastica più evidente di quale sia l'enorme massa
di denaro che si debba investire nel momento in cui si voglia provare a entrare in un mercato oligopolistico.
Se io per essere competitivo del mercato di riferimento devo investire 7 8 10 miliardi di euro per poter
esistere questo rappresenta una barriera di fatto (di tipo economico). I mercati oligopolistici sono destinati
a causa delle barriere all'entrata di fatto di diritto a rimanere fermi? la risposta è no. Qualche volta le
barriere all'entrata sono anche di tipo contrattuale, di tipo politico -> per esempio per volare è necessario
comprare degli slot cioè per fondare una compagnia aerea ho bisogno naturalmente degli aerei e questi li
compro e ho bisogno naturalmente dei diritti di decollo e di atterraggio. Quindi mi metto in contatto con le
società competenti, ma se gli slot sono stati venduti tutti e, oltretutto, coloro che li hanno possono
esercitare il diritto di prelazione quando scadono questi slot, allora io chiudo bottega perché per ragioni
contrattuali non posso comprare gli slot e quindi non entro in quel mercato, per motivi contrattuali gli slot
non me li danno. -> le compagnie low cost hanno ovviato a questo tipo di problema, per esempio,
comprando di slot di aeroporti vicini ai grandi aeroporti ma relativamente periferici. Quindi, barriere
all’entrata di tipo economico: ci vogliono moltissimi soldi; barriere all'entrata di tipo tecnologico: voglio
produrre smartphone ma non ho la tecnologia; barriere all'entrata di tipo contrattuale: vorrei comprare gli
slot ma non me li vendono; barriere all'entrata di tipo giuridico: esempio dei dazi doganali. Insomma, le
barriere all'entrata sono davvero di tanti tipi e molti mercati finiscono per presentarne di articolate.
Qualche volta le barriere all’entrata sono nascoste, però naturalmente le barriere all'entrata rappresentano
la premessa per l’oligopolio: cioè più alti sono i muri d'accordo, più quel mercato rimane protetto. Ci sono
tanti esempi di mercati protetti in questo senso, cioè di mercati che a un certo punto per un insieme di
situazioni di fatto o di diritto si mettono “al riparo da” e quindi consentono a quei mercati di funzionare,
anche se sono dei mercati che per certi aspetti risultano tra virgolette non efficienti. Per esempio un
mercato che sicuramente presenta criticità dal punto di vista dell’efficienza perché caratterizzato
sostanzialmente da oligopoli di fatto e ne abbiamo prova in modo abbastanza continuo è quello delle
materie prime energetiche, che sono sostanzialmente un evidentissimo oligopolio, perché i paesi produttori
sono quelli che hanno la possibilità di sottoscrivere i contratti dell’acquisizione di queste materie prime,
finire fuori da un meccanismo oligopolistico di questo tipo rappresenta un problema molto serio. Il mercato
energetico non è certamente fra i mercati trasparenti e nemmeno fra i più efficienti ->la guerra diplomatica
che si sta combattendo per esempio in questa fase storica nello scacchiere Mediterraneo per la gestione
del petrolio libico ne è un esempio esplicito. La Libia è un paese dal punto di vista petrolifero
particolarmente importante perché è un grosso produttore di petrolio e molti contratti per lo sfruttamento
del petrolio libico sono contratti italiani, cioè sono contratti posseduti dall’Eni che trattò al tempo con il
governo libico dell'allora colonnello Gheddafi la gestione di queste cose e oggi il governo turco sta tentando
in tutte le maniere possibili di insidiare le concessioni concesse dal governo libico al tempo all’eni nel
tentativo di acquisirle. è chiaro che queste sono furibonde battaglie oligopolistiche, nel tentativo di meglio
approvvigionarsi rispetto a una materia prima che è limitata come il petrolio. Il petrolio è il mercato
oligopolistico per definizione. Esiste un'organizzazione OPEC che è l'operazione dei paesi produttori di
petrolio, che produsse tra l'altro nel 1973 un autentico shock petrolifero, perché la scelta commerciale dei
paesi produttori di petrolio fu in quella fase storica quella di contingentare la produzione, il che produsse
un incremento, un’impennata impressionante della domanda del prezzo del petrolio, con una conseguente
esplosione dei prezzi e fortissima crisi produttiva internazionale. è stato un fenomeno epocale che ha
caratterizzato un pezzo della storia del ventesimo secolo e che ha cambiato una volta per tutte l'approccio
alla produzione, perché improvvisamente la materia prima petrolifera che prima si acquisiva a determinati
prezzi vide addirittura triplicarsi il proprio prezzo con la conseguenza che tutto l’intero sistema produttivo
che era stato costruito sull’ipotesi che i prezzi fossero quelli fu assolutamente sconvolto. Fu un momento in
cui cambiò sostanzialmente l'equilibrio nel sistema produttivo mondiale e proprio perché quello è un
mercato assolutamente oligopolistico, a cui naturalmente qualcuno ha tentato di dare sviluppi alternativi,
pensate alla produzione di fonti di energia alternative con risultati talvolta buoni talvolta meno, qualcun
altro ha dato risposte su un altro piano, alcuni paesi hanno scelto di produrre energia nucleare fra cui i
nostri vicini sloveni e francesi, altri hanno deciso invece di combattere la battaglia sul fronte della
contrattualistica come appunto avvenuto nel caso del nostro paese. Quello è un esempio evidente di
politica oligopolistica che non necessariamente sempre favorisce gli oligopolisti. è il caso, per esempio, di
quello che è successo con un importantissimo paese produttore di petrolio che, malgrado sia uno degli
oligopolisti più importanti sul mercato petrolifero, vive una crisi economica profondissima. Il Venezuela è
storicamente uno dei paesi più importanti per la produzione petrolio, è un paese ricco di riserve e risorse
petrolifere (le riserve sono quelle immediatamente sfruttabili, le risorse sono quelle che potrebbero essere
sfruttabili laddove fosse necessario), ma è un paese che non riesce a gestire efficacemente il proprio ruolo
di oligopolista, sebbene sia in una posizione contrattuale teoricamente abbastanza favorevole proprio
perché il mercato di oligopolio presenta caratteristiche tali per cui se qualcun altro più forte di te fa una
mossa in grado di spiazzarti, il rischio è quello di venire emarginati in modo sostanziale. Questo concerne
anche altri paesi altri paesi produttori di petrolio, il gioco nei mercati oligopolisti è un gioco duro, è un gioco
molto difficile da condurre, è una situazione che poi naturalmente deve essere vista di volta in volta dal
punto di vista della struttura del mercato oligopolistico, perché si può atteggiare in tanti diversi modi. Può
essere un mercato oligopolistico di aziende che tendono a fare cartello per “fregare il mercato” oppure può
essere un mercato oligopolistico di aziende che si fanno una brutale concorrenza e tentano di buttare fuori
gli altri nella prospettiva di diventare monopolisti. Una delle caratteristiche che per esempio presenta
questo tipo di mercato è il mercato delle grandi piattaforme. Alcune piattaforme digitali o alcuni sistemi
social nascono con l'idea di diventare monopolisti, cioè con l'idea di buttare realmente fuori dal mercato la
concorrenza, perché un determinato ruolo assume significato se uno diventa il principale gestore di quella
situazione. Perché sono fatti così i social? Perché è un mercato oligopolistico fortemente conflittuale?
Sebben il social network possa essere utilizzato in compresenza con altri è chiaro che l’utilizzatore tende a
concentrare per ragioni di utilità pratica le proprie risorse nei confronti di un social media. Se voglio essere
molto presente sul mercato social non possono essere compresente su 8 social.

Stavamo ragionando sui diversi tipi di oligopolio. Ci sono quelli che tendono ad essere conflittuali e altri che
tendono a fare cartello. È legittimo farsi una domanda. L’oligopolio che pure abbiamo detto presenta
consistenti barriere all’entrata per sua natura, è invalicabile? Gli oligopolisti di oggi saranno gli stessi di
domani? La storia recente ci insegna che non c’è cosa meno vera di questa. Sebbene gli oligopoli siano
caratterizzati da un atteggiamento fortemente difensivo da parte di coloro che tendono a governare i
meccanismi oligopolistici, in realtà gli oligopoli sono permeabili. Lo sanno perfettamente quelli che
conoscono i motori di ricerca. Il motore di ricerca che conosciamo oggi è in realtà un soggetto che ha
sostituito un precedente soggetto che operava insieme ad altri regimi di oligopolio. Quindi, gli oligopoli
sono permeabili sebbene questo presenti di volta in volta caratteristiche differenti. Il livello di permeabilità
dipende dalla natura e dalle dimensioni delle barriere all’entrata. Se un oligopolio è di tipo normativo,
come le frequenze televisive, se io non riesco a entrare perché non riesco a comprare le frequenze è chiaro
che quell’oligopolio tenderà a rimanere. Se invece è un oligopolio di ordine tecnologico la situazione è
molto diversa. Alcune delle aziende che hanno dominato lo scenario di alcuni mercati ad alta intensità
tecnologica nel corso degli ultimi decenni e che hanno acquisito forza e operato all’interno di logiche
apparentemente o realmente monopolistiche a seconda dei casi, poi sono stati in alcuni casi soppiantati da
altri. L’esempio più evidente è quello della ripartizione delle fette di mercato nell’ambito dei terminali per
cellulari. Le due principali aziende che controllavano il mercato 15 anni fa sono due aziende che oggi non
riescono più a sviluppare questo tipo di approccio e che vivono una fase di relativa retroguardia rispetto ai
due fondamentali oligopolisti del mercato contemporaneo. Il mercato degli smartphone è dominato in
questa fase storica da Apple e Samsung. 15 anni fa c’era la Nokia e la Motorola. Quelle erano condizioni di
oligopolio molto simili a quelle attuali ma gli oligopoli tecnologici si superano. Tra Apple e Samsung
abbiamo un oligopolio conflittuale o associativo? Sono due realtà che a un certo punto finiscono per
convergere o no? È un oligopolio conflittuale perché il sistema operativo è differente. Se io ho un sistema
operativo che non parla con il tuo, bisogna scegliere o io o te. Se adottiamo standard diversi è una guerra. Il
presupposto da cui dobbiamo partire è ad esempio il meccanismo di ricarica degli smartphone. Il cavo di
ricarica di volta in volta cambia. Questo è un meccanismo di obsolescenza programmata di natura
oligopolistica. La non standardizzazione di procedure quali possono essere quelle legate ai sistemi operativi
o quelle legate ai sistemi di ricarica è espressione più evidente di un oligopolio conflittuale. La storia degli
anni 80 è stata dominata, dal punto di vista dei conflitti tecnologici, da una battaglia storica. L’inizio degli
anni 80 vide una rivoluzione in campo tecnologico rappresentata dal fatto che fu disponibile per il mercato
delle famiglie a prezzi sempre più abbordabili uno strumento fino a quel momento indisponibile al mercato
consumi: il videoregistratore. Il videoregistratore rappresentò una rivoluzione dal punto di vista
dell’utilizzo dei media. Le videocassette consentivano di stoccare al proprio interno sia contenuti
autoprodotti che film. Si trattò di una rivoluzione significativa che caratterizzò tutti gli anni 80.
L’introduzione di questa innovazione vide contrapporsi tre grandi cartelli. Ci trovammo di fronte a un
mercato oligopolistico rappresentato da questi 3 cartelli. Ciascuno di questi faceva capo a una o più grandi
aziende multinazionali ciascuna delle quali aveva un proprio standard di riproduzione. C’era il cartello
rappresentato come capofila dalla Philips, società olandese che sopportava un sistema chiamato
Video2000; poi c’era il gruppo Sony che al tempo era marchio leader nel settore della produzione di
audiovisivi sia dal punto di vista hardware, cioè televisori, che dal punto di vista di supporti. La Sony
supportava il sistema betamax; poi c’era il placebo di aziende organizzate attorno al gruppo Matsushita che
supportavano il sistema VHS. Da un punto di vista tecnico il sistema migliore sembrava essere il betamax,
che era il sistema utilizzato dai broadcast televisivi. Una volta le immagini che gli operatori televisivi
producevano venivano trasferiti attraverso videocassette quindi l’operatore andava sul posto. Per questo il
prodotto era in differita e veniva messo su videocassetta e poi rivelato nel sistema di ricezione della
stazione televisiva. Nel 99,99% dei casi il sistema dei broadcaster professionali era la variante professionale
del betamax che si chiamava betacam. La Sony aveva dalla sua il fatto di avere il sistema più performante e
già utilizzato dagli operatori professionali. Oltretutto, era l’azienda leader del settore. Aveva il prodotto
migliore ed era l’azienda più importante di questo. La Philips con il sistema video2000 era a sua volta un
soggetto molto presente sul mercato e aveva dalla sua il fatto di avere un sistema estremamente comodo.
Il sistema video2000 era un sistema doubleface. Mentre il sistema VHS e le videocassette betamax erano
leggibili da una sola parte e quindi avevano tempi di riproduzione più ridotti, al massimo tre ore, il sistema
video2000 consentiva una riproduzione ambilato. Il sistema VHS era da una parte il sistema meno
performante perché inferiore al betamax, dall’altra era poco comodo perché la videocassetta non era
doubleface come video2000 e non era piccola come il sistema betamax. Sulla carta, dal punto di vista
tecnologico, il sistema VHS era il meno performante dei tre. La logica avrebbe voluto che, possedendo la
Sony la tecnologia più performante ed essendo l’azienda leader nel settore, fosse la prevalente.
Diversamente andò. In questa battaglia che durò dal 1981 al 1987, prima si vide scomparire il sistema
video2000 e poi quello betamax a vantaggio di quello VHS in ragione del fatto che sebbene Sony fosse il
soggetto più importante rimase isolata nel confronto commerciale rispetto agli altri. Gli altri erano meno
grandi ma si misero tutti insieme. Nel 1987 la Sony fece un’operazione ibrida affiancando il modello VHS
alla propria produzione betamax per poi convertirsi totalmente al VHS. (questi sono oligopoli conflittuali).

La cosa interessante è che quell’oligopolio vide soccombere quello che era il protagonista originale.

Oligopolio significa avere posizione importante; fare parte di una sorta di “oligarchia”, ma non significa che
questa posizione duri per sempre. Sempre nell’ambito dei mercati tecnologici, che sono particolarmente
irruenti, forse qualcuno ha sentito parlare del grande oligopolista degli anni 90 nel settore dei personal
computer. Stiamo parlando dell’IBM. L’IBM era una società che non solo inventò di fatto la struttura del
personal computer così come la conosciamo oggi. Tra gli aggeggi che si fanno concorrenza abbiamo pc,
portatile, tablet, smartphone. Nelle case degli italiani all’inizio degli anni 90, il primo strumento digitale che
entra è il pc fisso i cui standard produttivi erano stati stabiliti dalla società statunitense IBM. Quindi l’IBM
non solo era l’azienda dominante nel settore dei pc ma anche nel settore corporade. Chi si voleva avvalere
di un CED di dimensione aziendale vedeva nella multinazionale americana il principale riferimento. IBM
forse non arrivò mai ad essere esplicitamente un soggetto monopolista però era un’azienda di riferimento.

Molto spesso finisce per prevalere la soluzione più semplice e non la più performante.
Il terminale del POS, ad esempio, è pesante e alto 20 cm. Non è una contraddizione rispetto agli
smartphone che usiamo? Ma perché è così ingombrante? Non sembrano oggetti moderni. Perché tutto ciò?
Evidentemente è una stranezza.

22-04-2021

Oggi facciamo un laboratorio sulla mediazione politico-economica. Indaghiamo inizialmente il concetto di


mediazione. Cos’è la mediazione?

Due domande per noi:

-il mediatore è o non è un arbitro?

- nell’interesse di chi lavora un mediatore?

Mediatore politico e mediatore economico sono animali diversi. difficile parlare di mediazione in termini
assoluti. Più semplice è parlare in termini politici-economici.

Non è un arbitro perché non ha potere decisionale.

La mediazione può essere di due tipi. O ci sono due mediatori per entrambe le parti, oppure c’è ad esempio
l’Unione Europea che fa da garante e manda un mediatore.

Il mediatore lavora nell’interesse suo.

Il mediatore non è l’equalizzatore. Il mediatore che fa da referente. Le parti vedono nel mediatore il
soggetto a cui rappresentare le proprie istanze di massima e di minima. Il mediatore è l’esploratore dei
limiti reciproci e colui che a seconda del disegno che si propone si colloca nella posizione del suo reciproco
interesse.

Ci sono delle categorie di mediazione, soprattutto in politica, che collocano il mediatore in una posizione
eccentrica rispetto alle parti. Un mediatore può essere chiamato a svolgere la mediazione tra due soggetti
nell’interesse di un terzo. L’azione mediatoria si dice condotta in modo soddisfacente laddove debba essere
messa in relazione alle intenzioni che il mediatore ha. Solo il mediatore sa quale è l’obiettivo della sua
mediazione, che non ha necessariamente a che fare con le parti. Ad esempio, ci sono stati mediatori
dell’Unione Europea che mediavano per sistemare dei problemi interni e non interessati alle parti. Se io
sono il mediatore incaricato dall’Unione Europea a derimere i conflitti nell’ambito dei paesi balcanici, il mio
intento potrebbe non essere quello di sistemare la situazione lì ma che la mia azione sia la riflessione degli
equilibri interni alla mia compagine. Ci sono forme di mediazione che non passano per soggetti terzi. Si
pensi alle conferenze come quella di Yalta in cui i vincitori della Seconda Guerra mondiale si spartirono il
mondo. Churchill che si riprometteva di essere il punto di equilibro tra due soggetti in forte contraddizione,
finì per esserne la vittima. La mediazione è qualcosa di molto ambiguo. Ciascuna parte gioca una partita e il
mediatore fa la sua. Il mediatore è soprattutto colui che vaglia tutte le opzioni nell’interesse che il
mediatore ha in quella vicenda. Le mediazioni hanno conseguenze che a volte sono mortali per una delle
due parti. Si dice che la migliore mediazione sia quella che lasci tutti scontenti. È anche possibile che
l’obiettivo del mediatore sia favorire l’interesse di un soggetto per tornaconto proprio. Qualche volta la
mediazione è la premessa di un armistizio senza condizioni. Ci sono delle mediazioni che rappresentano la
morte di qualsiasi possibilità d’accordo. La mediazione culturale è il tentativo del mediatore di far passare
attraverso il dialogo un concetto che dall’altra parte non passa. La mediazione in politica non è questo.
Sono le regole d’ingaggio del meccanismo mediatorio che ci dice quale destino potrebbe avere la
mediazione. La mediazione è uno strumento ma non LO strumento. La politica e l’economia sono discipline
strumentali in cui gli strumenti sono messi a disposizione di un fine. Potrebbe essere eticamente non bello.
Ma quindi il mediatore ha etica o no? Si che la ha perché non bisogna attribuire al mediatore etica diversa
da quella che si attribuisce ad un altro. C’è una tendenza all’idealizzazione. Noi consideriamo il mediatore
parte consistente della mediazione mentre invece il mediatore è parte del conflitto. Chi è chiamato a fare
mediatore non è chiamato a risolvere i problemi del mondo ma a vagliare tutte le opzioni. Il mediatore non
deve essere etico o no. Non gli è richiesto.

La conferenza di Wansee è proprio da lezione universitaria. Wansee è un lago vicino a Berlino e lì nel 1492
aveva la sua residenza Reinard Heidrich, ex protetto della Boemia, alto gerarca nazista incaricato da Hitler
di escogitare lo sterminio degli ebrei. L’interesse dei nazisti era quello di eliminare gli ebrei dalla faccia della
terra. Le alte gerarchie non avevano interesse nel perseguitare ma nell’eliminare la presenza degli ebrei
dall’Europa. Sterminio=ne uccido tutti, genocidio=ne uccido alcuni. Se io decido il genocidio cerco di farne
fuori il più possibile, se cerco lo sterminio voglio farli fuori tutti. Le leggi di Norimberga del 1935
teorizzavano la segregazione razziale ma non prevedevano lo sterminio. Poi questo approcciò cambio e le
alte sfere non volevano solo segregare ma sterminare. Questo poneva ad Hitler un problema istituzionale.
La sua intenzione politica era sterminare gli ebrei mentre il portato normativo non prevedeva questo. Lo
stato nazista era uno stato costruito sul diritto. Era un diritto aberrante ma un diritto. C’erano delle leggi. Il
problema che si ritrovò Hitler era che quelle stesse leggi che lui aveva voluto, ora non le voleva più. Le leggi
in vigore permettevano di perseguitarli tutti ma non sterminarli. Tanto che al processo di Norimberga alcuni
gerarchi nazisti si difesero dicendo che il loro comportamento fosse in linea con le leggi del proprio paese.
La pubblica accusa si dovette confrontare con l’idea giuridicamente nuova non di un individuo criminale ma
di uno stato criminale. Questo personaggio che era un capo di stato aveva un problema. Deve spiegare alla
sua organizzazione, che è un’organizzazione ligia al dovere, che seguiva la legge. Dove sta scritto che una
legge sia per definizione etica? Una legge può essere giuridicamente e formalmente ineccepibile avendo
contenuti privi di etica. L’etica non è una categoria della politica. Il problema che ha Hitler nel momento in
cui si confronta con i legislatori è che questi gli dicono che non si può fare una norma in cui si scrive che
l’intera stirpe ebraica deve essere uccisa. Non ci sono le basi tecniche. L’intendimento del capo di stato è di
eliminare dalla faccia della terra tutti gli ebrei ma si confronta con la sua macchina statale che non può
arrivare a tanto. Il referente giuridico gli spiegò che non si poteva fare ma la soluzione che Hitler trovò fu
quella di individuare un personaggio, in questo caso Heidrich, che fosse il più violento, il meno etico, e il più
intelligente tra i gerarchi nazisti che operavano nel terzo Reich. Fu individuato come il soggetto che doveva
risolvere il problema della difformità tra un progetto criminale totalizzante, lo sterminio di un gruppo
etnico-culturale, e le leggi di un paese che sebbene profondamente discriminatorie non riuscivano a
realizzare questo obiettivo. Lo strumento che Heidrich trovò per realizzare il progetto una soluzione.
Heidrich convoca la conferenza di Wannsee. La pianificazione dello sterminio è precedente. La conferenza è
il momento in cui il potere esecutivo del terzo reich media con le sue istituzioni lo sterminio. Persino una
dittatura assoluta come quella di Hitler ha avuto bisogno di una mediazione per l’attuazione della situazione
finale. È la dimostrazione di come il concetto di mediazione non sia un concetto etico. Il mediatore è quello
chiamato a soddisfare il suo disegno.

Il pensiero accademico è chiamato ad analizzare la realtà e noi dobbiamo capire che l’obiettivo che si deve
realizzare per compiere una buona mediazione è quella di trovare un buon mediatore. La scelta del
mediatore deve venire nell’interesse della mediazione. Se scelgo come mediatore tra due belligeranti il
diavolo, difficile che l’esito sia favorevole.

27-04-2021

conferenza di Wannseeevento storico maturato nel 1942, in piena 2 guerra mondiale, Wansee è una
piccola località lacustre, Wannsee significa lago di Wann, a pochi km da Berlino, qui ci fu una conferenza “di
servizi”, uno strumento operativo che le altissime gerarchie dello stato tedesco del III Reich si erano date
per ottenere un esito, per determinare una situazione tale per cui l’apparato della pubblica
amministrazione tedesca nella sua espressione sia civile che militare desse sostegno alla politica di
sterminio della popolazione ebraica d’Europa, che era nelle intenzioni politiche di Hitler. Le leggi di
Norimberga, varate nel ’35, erano leggi esplicitamente razziali, erano leggi che comportavano di fatto una
persecuzione strutturale di tutti coloro che per ragioni di sangue o per ragioni religiose potevano essere
ricondotti alla religione ebraica. Erano leggi di natura repressiva, costruite nella prospettiva di
ridimensionare il più possibile il ruolo degli ebrei nell’ambito della società tedesca, avevano una funzione di
espulsione della popolazione di origine e cultura ebraica dalla vita civile tedesca, ma si rilevano inadeguate
al progetto politico di Hitler che non era quello di perseguitare gli ebrei, ma era divenuto nel 42 quello di
sterminarli.

È difficile capire perché un regime assolutamente totalitario come quello della Germania nazista avesse
bisogno di un meccanismo interno di mediazione per soddisfare le esigenze politiche del proprio fuhrer. La
storia e la conferenza di Wannsee ci insegnano che persino in un contesto come quello, in un contesto di
una dittatura riconosciuta come tale e di istituzione esplicitamente e ineludibilmente antidemocratiche, il
regime nazista avverte la necessità di trasporre il progetto hitleriano dello sterminio degli ebrei su un piano
che necessita una mediazione.

Conferenza di Wannsee riunisce allo stesso tavolo rappresentanti del mondo militare, coloro che sono
chiamati a organizzare dal punto di vista pratico il rastrellamento e l’internamento e poi lo sterminio degli
ebrei, ma riunisce al tavolo anche una serie di funzionari di altissimo livello del 3 reich, i quali, per ragioni
diverse tra loro, si siedono ai tavoli di questa conferenza sostenendo in modo più o meno implicito che il
progetto di sterminio non fosse implicito nel modello organizzativo dello Stato tedesco, Heidrich, il
personaggio incaricato da Hitler di porsi come soggetto mediatore su un piano non politico, perché la
decisione era già presa, ma sul piano organizzativo e logistico, per trasmettere alle alte gerarchie e alla
pubblica amministrazione l’idea che gli ebrei andassero sterminati, dunque un mediatore per raggiungere il
risultato atteso, cioè la statalizzazione dello sterminio (anche un genocidio può aver bisogno di una
macchina statale articolata). L’incarico conferito da Hitler a Heidrich e, subordinatamente del suo principale
collaboratore, un altro ufficiale degli SS, il colonnello Eichmann, mediatore istituzionale tra la volontà
politica del dittatore capo dello stato e la macchina organizzativa che avrebbe dovuto sostenere dal punto
di vista amministrativo e militare lo sterminio. Possiamo concludere, che persino all’interno di uno stato
totalitario caratterizzato dal disconoscimento sostanziale di qualsiasi tipo di diritto civile e di diritto umano,
strutturalmente immaginato e realizzato sulla base di un’idea di stato contraria a tutto il diritto
internazionale, persino in un contesto simile, è esistita la necessità da parte della linea di comando di
questo paese di dover accedere ad un meccanismo, seppur molto particolare di mediazione tra decisione
politica (sterminio) e la realizzazione tecnica di questo. Infatti, ci furono numerose obiezioni ad Heidrich
(non etiche) però per esempio per il rappresentante del reich in polonia “privarsi” di una consistente forza
lavoro significava compromettere la linea produttiva, dall’altra parte alcuni rappresentanti dell’esercito
fecero osservare come lo sterminio poteva essere un problema dal punto di vista militare: sottraeva
numerose unità dal contrasto col nemico.

Gli atti di Wannsee non sono politici sono tecnici ci segnalano come il soggetto mediatore, chiamato a
realizzare il confronto fra la volontà politica di Adolf Hitler e la realizzazione pratica di questa volontà che
trova la resistenza tecnica degli esecutori, che sostengono che questa sia una decisione tecnicamente
difficile da realizzare perché non ci sono gli strumenti amministrativi, logistici e quindi necessitano delle
indicazioni più specifiche riguardo le modalità con cui questo può avvenire. Sotto questa molteplicità di
profili la conferenza è una conferenza in cui la mediazione sorprende, anche un soggetto criminale ha
bisogno di una mediazione, noi abbiamo un’idea della mediazione in positivo, come contemperanza delle
esigenze delle parti, la storia ci insegna che non è così, l’idealizzazione della figura del mediatore è
sbagliata. La mediazione non è un fatto etico, è un fatto tecnico, se poi gli vogliamo dare un connotato etico
è un altro discorso, ma a quel punto si sposta il problema dalla geopolitica all’etica. La mediazione politica
economica non è una mediazione culturale. Il mediatore culturale è un mediatore nell’accezione positiva
del termine, cerca di avvicinare le distanze, ma il mediatore politico economico non è questo.

La Conferenza di Wannsee è una conferenza che realizza una mediazione fra un intento politico
determinato e la sua realizzazione.

Altro esempio storico clamoroso: conferenze trilaterali tra Sati Uniti (Roosvelt e ultima conferenza
Truman)e Unione Sovietica (Stalin) e Gran Bretagna (Churchill), in cui si trattava di ragionare sui destini del
mondo dopo la 2.g.m.

La conferenza di Jalta che sembra costruita per dirimere i rapporti tra Unione Sovietica e Stati Uniti, ma
aveva come effetto collaterale il fatto di provocare una vittima inattesa, e questa vittima è una parte
vincitrice: il Regno Unito. Le conferenze trilaterali (Teheran -> durante la guerra, Jalta, Postdam -> quando
guerra è finita) segnano l’esclusione del Regno Unito dal grande scenario della politica internazionale 
dopo quelle conferenze il confronto diventerà bilaterale: tra USA e Unione Sovietica.

In questa storia non è il mediatore a giocare un ruolo decisivo, ma i termini della mediazione, le regole
d’ingaggio della mediazione, che finiscono per compromettere la posizione di qualcuno, in questo caso il
Regno unito.

29-04-2021

Un mediatore di fronte ad una mediazione deve essere prima di ogni altra cosa un soggetto capace di
allontanare da sé il più possibile qualsiasi sorta di preconcetto, da qualsiasi elemento in grado di
condizionare il giudizio. I preconcetti rappresentano una griglia concettuale, con cui facciamo i conti.

Qualche volte il mediatore è chiamato a interloquire tra soggetti che non apprezza, ma deve comunque
essere scevro da preconcetti, per quanto sia possibile, perché non è proprio possibile essere scevri da
preconcetti, ma non deve esserne assalito e far modo che essi influenzino la sua decisione.

Il mediatore deve essere spassionato, non travolto dai preconcetti. Qual è l’altra caratteristica
fondamentale del mediatore? Deve essere un soggetto che è profondo conoscitore dell’oggetto che
contendono le parti e questo, purtroppo, accade molto di rado. In questi casi la loro azione sebbene
improntata alle migliori intenzioni risulta infine inefficace. In contesti politici difficili l’opera di mediatore,
che deve giocare un ruolo attivo, finisce per produrre un esito drammatico: episodio recente che ha
riguardato l’ambasciatore italiano in Congo, persona impegnata in una sostanziale opera di mediazione in
una complessa realtà come quella congolese, stava facendo un lavoro importante e coraggioso, ma
purtroppo il convoglio è stato preso d’assalto e sia l’ambasciatore che il suo militare di scorta, un
carabiniere sono morti. -> il personaggio aveva una biografia che ci fa capire quanto fosse buono il lavoro
che conduceva in un paese molto difficile, ma l’ambasciatore oltre ad aver perso la vita, l’ha persa in un
contesto in cui c’è stata una sottovalutazione di quella che era la pericolosità di quella determinata area.
L’esito è drammatico per lo stesso mediatore, che in questo caso ha perso la vita. Queste cose accadono
perché non sempre chi opera in un determinato contesto, in questo caso chi ha gestito quel viaggio, è
pienamente consapevole delle criticità di quel contesto specifico.

Le buone intenzioni non sono condizioni necessarie e sufficienti per dare esito ad una buona mediazione, la
cosa importante è che non sfuggano alcuni aspetti del contesto all’interno del cui ci si muove. Il mediatore
deve essere profondo conoscitore del contesto, delle caratteristiche delle parti in gioco, deve essere un
personaggio esperto. La mediazione richiede impegno e grande capacità di controllo dei feedback
conseguenti alle diverse azioni. Un mediatore è prima di ogni altra cosa una persona che sa.
Inoltre, il mediatore deve necessariamente possedere un’autonoma capacità di giudizio. Una mediazione
efficacie dipende dal potenziale mediatorio che contiene la vicenda: ci sono vicende in cui i margini di
mediazione sono ridottissimi e quindi l’esito finale della mediazione qualche volta è sbilanciato  questo
non la rende una cattiva mediazione, ma l’unica mediazione possibile.

Per molti anni un elemento ostativo alle trattative tra lo Stato di Israele e i paesi direttamente o
indirettamente riconducibili alla lega Araba consisteva nel fatto che nessuna delle due parti intendeva
riconoscere dal punto di vista istituzionale l’altra.--> se il mio obiettivo parte dal presupposto di non
riconoscere il mio interlocutore, gli spazi di mediazione esistono solo su un piano contrattuale. L’unico
modo per mediare una situa del genere è immaginare di non avere uno spazio di mediazione, creare una
sorta di cuscinetto tra soggetti che non intendono riconoscersi. Quindi viene creato uno spazio di
interposizione tra le due parti che non entrano in contatto, perché nel momento in cui sono in contatto gli e
gli altri ritengono di dover prevalere.

Se la base della mediazione è quello di un’accettazione delle garanzie della controparte, sicuramente la
mediaz ha margini di movimento più ampi di quanto non abbia una mediaz che parte dal presupposto che
questi margini non ci siano.  X es marocco interessato da conflitto civile e militare non ufficiale tra governo
centrale e il fronte polisario, che è una formazione che rivendica l’indipendenza territoriale di una porzione
del marocco, di fatto il governo del marocco non riconosce l’esistenza, non della controparte, ma del
conflitto stesso. Se una parte si rifiuta di riconoscere che esiste il problema, la mediazione può avvenire
solo sul piano dell’interposizione, che in marocco non c’è nemmeno.

Laddove per molto tempo il problema del governo della Libia che nel dopo Gheddafi è stata oggetto di una
divisione all’interno del territorio tra tripolitania e cirenaica le due principali regioni della Libia, per lungo
tempo il conflitto che contrapponeva le due fazioni scaturiva dal fatto che non esisteva il riconoscimento
della controparte, entrambi sostenevano di combattere non una guerra civile, ma una banda di criminali. Il
problema del riconoscimento della controparte è uno dei problemi principali che si pongono di fronte al
mediatore. Problema che ha riguardato la guerra civile in Ruanda, guerra di natura essenzialmente etnica
tra hutu e tutsi in cui un’entità etnica non riconosceva l’altra e l’unico strumento che ciascuna parte
riteneva utile praticare era il genocidio della controparte. Una mediazione partendo da questi presupposti è
un’operazione ai limiti dell’impossibile e infatti qui non c’è stata alcuna mediazione.

Guerra civile balcani (1991-1999)  le guerre civili in Jugoslavia sono state frutto di una serie ininterrotta ed
estenuante di mediazioni molto malcondotte. In quel caso non si è tenuto conto di premesse di ordine
metodologico finalizzate alla costruzione di buone mediazioni.

Mediazione che portò agli accordi di camp David del 1979 mise per la prima volta veramente al tavolo arabi
e israeliani nella premessa e promessa di cercare un accordo politico, di far decidere al tavolo e non alle
armi, camp David segna questo passaggio, lascia in eredità alle generazioni future l’idea che in qualche
modo fosse la trattativa, il tavolo delle trattative quello chiamato a dare una risposta al problema, fino a
quel momento le parti in causa ritenevano che lo strumento migliore fossero le armi.

Tanto che il conflitto arabo israeliano si è arricchito, oltre che di un incredibile numero di azioni di guerra, di
due guerre vere e proprie (1967 e 1973) entrambe vinte da Israele, ma che non hanno prodotto situazioni
di stabilità dell’area -> perché in realtà le guerre del 67 sono state perse male dagli arabi e vinte male da
Israele che ha vinto la guerra ma ha perso la pace.

Le ONG non sono dei soggetti mediatori, sono soggetti che giocano un ruolo, ma il loro ruolo non è trovare
una mediazione tra le parti, il loro ruolo è fungere da sopporto per ragioni di ordine umanitario, non hanno
necessariamente un fine strettissimamente politico, potrebbero averlo, ma non sempre lo hanno. Sono dei
soggetti chiamati a mediare il loro atteggiamento nei confronti delle parti in causa, perché insistono su
territori controllati da altri, quindi sicuramente devono mediare, devono trovare un modus operandi per
operare in zone di guerra, ma non cercano una mediazione tra le parti in conflitto. L’obiettivo delle ONG è
sostenere la popolazione civile in una situazione drammatica, spesso le ONG compiono un errore perché
hanno l’intento di giocare un ruolo politico per ottenere uno piuttosto che un altro risultato. Ma la
mediazione è un’altra cosa. Purtroppo, proprio per le modalità con cui le ONG sono costrette ad operare, in
determinati contesti territoriali, in un contesto in cui c’è qualcuno che ti fa capire che se non ti muovi nella
prospettiva ad esso funzionale la risposta sarà una risposta armata. Quindi le ONG si trovano in una
posizione complessa, ma non sono dei mediatori. Il mediatore ha una funzione tecnica.

Il mediatore è un soggetto che si pone nella posizione di dover interagire con le parti a partire dalla
constatazione di essere egli per primo non prigioniero di quella situazione. Il mediatore è portatore di un
potere (è stato incaricato per es. dall’ONU, ha una delega per mediare tra le due parti). Il mediatore ha la
capacità di volta in volta di esercitare forme di pressione sulla base di una delega che gli dev’essere fornita
da chi lo manda a fare la mediazione, possono essere le parti stesse o parti terze, altrimenti si tratta di una
mediazione “fittizia” (in assenza della delega).

Ci sono mediazioni vere e finte, ma la mediazione deve partire da un soggetto che ha la capacità di incidere
(Ad es. dall’ONU).

Il mediatore si propone sullo scenario con una forma propria, che può derivare da un soggetto terzo, dalle
parti in causa, può essere espressione anche della maggiore capacità contrattuale di una parte rispetto
all’altra. Dunque il mediatore può essere esterno, può essere espressione di una parte (può fungere da
ambasciatore portatore di interesse specifico), o di entrambi.

Cominciamo a capire che il mediatore è quanto di più lontano dall’immagine letteraria e leggendaria che ci
siamo fatti, è un individuo che ha una funzione, che può essere anche una funzione fattuale. Ci sono dei
contesti in cui avvengono meccanismi che creano dei mediatori “di fatto”, sono imprevisti: momenti in cui
un soggetto, investito di un potere diverso, diventa un mediatore. Esistono personaggi che assurgono al
ruolo di mediatore in modo informale, avendo una provenienza impropria, perché in quel momento egli o
ella rappresenta l’individuo adatto. In una buona mediazione, che è destinata ad avere successo, esiste una
consistente componente darwiniana, un mediatore vincente è un mediatore “adatto”. Questo spoglia
ancora di più il mediatore di una dimensione morale, l’obiettivo della mediazione non è un obiettivo di
giustizia. La giustizia non ha a che veder con la mediazione.

 Nell’ambito dell’entourage del governo inglese del 1939 è interessante leggere il ruolo che ha avuto il
politico più prestigioso dell’Inghilterra pre seconda guerra mondiale Lord Halifax, ruolo che non può essere
capito se non si considera la sua concezione di mediazione.--> alcune delle sue valutazioni sono difficili da
comprendere, lui è uno di coloro che ritenevano che l’Inghilterra non dovesse arrivare a nessun costo al
conflitto con la Germania, in occasione delle tensioni create da Hitler con l’occupazione dell’Austria e con
l’invasione della Polonia; la sua è una valutazione, alla luce di quello che è avvenuto, che viene vista con
perplessità dagli storici europei, ma che nel momento in cui viene valutata ha la sua ragion d’essere. In
quel momento era una scelta tecnicamente corretta, sebbene Halifax sia uno a cui la storia ha dato torto.
Halifax è un mediatore, l’Inghilterra si affiderà poi per fortuna sua e del mondo civile a Churchill, un politico
che era quanto di più lontano dalla mediazione, arriva alla guida del paese in uno dei suoi momenti più
tragici. Lord Halifax era il miglior mediatore, ma qual era il problema? Nel 1939 con Hitler non si mediava
più, l’unico modo per uscirne “vivi” era fare la guerra. Churchill è uno dei peggiori mediatori, ma ha salvato
l’Inghilterra dal nazismo.

4-05-2021
Il mediatore in campo economico è prima di ogni altra cosa un tecnico, perché le mediazioni in campo
economico riguardano questioni che al di là del contenuto e degli interessi dei soggetti, mantengono un
consistente livello di contenuto tecnico che in qualche circostanza gioca un ruolo non banale nell’ambito
della trattativa. -> una mediazione in campo economico trova il suo elemento di maggiore fondamento e
importanza nell’individuazione di una dimensione corrispettiva, x es trovare accordo tra compratore e
venditore su un prezzo, quasi che la dimensione corrispettiva (cioè pagamento di un onore corrispettivo alla
prestazione); viene da pensare che l’elemento centrale della mediazione in campo e con, della transazione
(che è l’obiettivo di questo tipo di mediazione).

La dimensione corrispettiva di una vicenda, che senz’altro fa parte di una mediazione economica, le
transazioni economiche hanno come componente essenziale al di là del raggiungimento dell’equilibrio
legato all’ambito corrispettivo, il quadro delle garanzie che sott’intendono la transazione . La componente
garante, di garanzia è uno degli elementi maggiormente connotanti in una mediazione in ambito econ 
nell’ambito di una mediaz politica il discorso delle garanzie è un discorso abbastanza relativo, x es. se due
paesi che hanno un rapporto politico complesso, come Corea del Nord e Corea del Sud, che vivono dei
confini molto tesi, qualsiasi mediazione chiamata a gestire confini tra questi paesi, fino a che punto può
essere garantita? Sì ci sono le interposizioni, ma se le parti improvvisamente decidono che l’accordo salta,
non c’è garanzia che tenga, ricomincia il conflitto. L’elemento della garanzia in campo politico è assente. In
campo economico ci sono delle garanzie che hanno a che vedere con alcuni istituiti, che sono in grado di
garantire le parti in causa, sono in grado di essere uno strumento garante della transazione . Questo insieme
di strumenti di garanzia rappresenta il principale connotato che caratterizza le transizioni economiche, il
meccanismo della garanzia non è uno sviluppo banale, la conoscenza e il combinato disporsi di uno o più
garanzie è questione tecnica molto complessa, che è alla base del comportamento economico dei soggetti.

Es: transazione molto comune, molte persone nell’ambito della propria esistenza sono chiamate ad
affrontare una transazione economica.  Elisa ha comprato una brioche, ma non ha passato la notte in
bianco per comprendere quale brioche comprare, presso quale bar comprarla. Elisa ha sviluppato una
transazione molto comune, che richiede un tipo di preparazione marginale (1 euro e un bar aperto) e ha
rischiato che la brioche facesse schifo.

Per comprare uno smartphone si dedica maggiore attenzione di quello che ci ha messo elisa per acquistare
una brioche, in modo proporzionale al prezzo dell’oggetto acquistato.

Nell’ambito di persone con un reddito modale, coloro che hanno un reddito/patrimonio compreso nella
normalità della distribuzione statistica di tale reddito esiste una transazione ed esorbita per importanza
tutte le altre che tutte queste persone “normali” potrebbero essere chiamate ad effettuare.  l’acquisto di
una casa. Essa rappresenta un’operazione enormemente più importante di qualsiasi altra operazione che
un gruppo organizzato, come la famiglia, mette in atto nel corso della propria esistenza.

Questo non vale per le società ovviamente, che magari questa transazione la fanno come transazione base.

Quando l’investitore famiglia decide l’acquisto di una casa si trova di fronte ad una transazione che esorbita
largamente qualsiasi altra transazione che la famiglia abbia posto o porrà in atto.

L’operazione di acquisto della casa nella stragrande parte dei casi si renderebbe impossibile in assenza di un
meccanismo di garanzia.  non avendo disponibilità immediata per acquisto di una casa, si chiede un
prestito alla banca garantendo il pagamento del prestito. Le garanzie della banca sono due: 1) la persona
deve essere produttore di un certo tipo di reddito 2) ipoteca garanzia supplente nel caso in cui il reddito
non consenta di onorare il prestito.

La prima è una garanzia fiduciaria, la seconda è una garanzia “reale”, cioè concreta, sostanziale,
rappresentata da qualcosa di fisico  l’immobile.
Ipoteca banca chiede al giudice che la casa venga venduta e si prende i soldi.

Senza il meccanismo di garanzia, della doppia garanzia (fiduciaria e reale) non ci sarebbe mutuo e non ci
sarebbe l’acquisto dell’immobile. La stragrande parte delle transazioni econ e delle mediazioni riguardanti
le stesse passa attraverso l’architettura delle garanzie: il mediatore di una siffatta situazione è dunque
prima di ogni altra cosa un tecnico, uno che riesce ad immaginare il combinato disporsi delle diverse
garanzie, che da una parte sono codificate della legge, dall’altro producono una serie di effetti che la legge
solo fino ad un certo punto riesce a prevedere nel loro combinato disporsi. Il sistema delle garanzie è un
sistema codificato, esse sono tipizzate. L’ipoteca è una garanzia classica, ma c’è anche il pegno, ci sono
meccanismi confirmatori e di tanti tipi. Nel tipizzarle queste finiscono per sviluppare una serie di effetti che
non sono necessariamente quelli previsti dalla legge o dalla norma.

In Italia talvolta alcune garanzie rimangono delle garanzie sulla carta. X es se io sono creditore e ho un
credito nei confronti di un individuo nullatenente, la legge non mi offre strumento per recuperare il mio
credito, perché il nostro sistema giuridico è pensato in maniera per cui il credito da una parte e il debito
dall’altro non assumano una dimensione penale, se non in determinate circostanze. In questo caso il
meccanismo di garanzia è puramente formale, perché questa si scontra con una situazione fattuale: non
vedrò i miei soldi. Se è vero che le forme di garanzia sono tipizzate e quindi quelle sono, è molto meno vero
che tutte le forme di garanzia funzionino nel modo auspicato, alcune sono forme di garanzia puramente
teoriche, come quella appena detta. Il mediatore non è solo uno che conosce come funzionano le garanzie
da un punto di vista puramente tecnico o teorico, ma riesce ad immaginare gli scenari rispetto al reale
funzionamento delle garanzie sul piano concreto.

Il mondo delle garanzie è un mondo molto complesso. Facciamo un esempio provocatorio: qual è la ragione
per cui stiamo seguendo questa lezione oggi? Di base seguiamo perché siamo convinti che ciò che dice il
prof ci sia d’aiuto per passare l’esame. Ma siamo sicuri che il prof sia chi dice di essere? Quali sono le basi
sulle quali riteniamo che Moretti sia il docente di geografia politico economica di questo corso? Quali sono
le garanzie che abbiamo in mano per sostenere che lui sia ciò che mostra di essere? Ci potrebbe essere una
persona preparata che svolge lo stesso corso senza essere professore della sapienza. Anche sul sito
dell’ateneo c’è scritto che il docente di riferimento si chiama Alessandro Moretti, ovvero la Sapienza sta
garantendo che il docente è Moretti. Su questo possiamo sentirci abbastanza garantiti. Sto aspettando un
tizio che si chiama Alessandro Moretti. E chi me lo dice? L’istituto che io sto pagando, ovvero La Sapienza.
Ma chi ci dice che sia lui? È una questione di fiducia. Ma ci sembra ragionevole? Se noi fossimo nell’anno
2018, in una fase pre covid, noi avremmo uno strumento molto semplice per verificare quello che il prof sta
dicendo. In un gruppo sociale in cui le persone insistono in una certa struttura come la facoltà universitaria,
il tipo di domanda che il prof ha fatto è un tipo di domanda semplice. È il gruppo sociale che dice chi è
Moretti. Oggi le 20 persone che si collegano da remoto e le due persone che sono in classe non hanno
questo strumento a disposizione. Se andiamo in giro per la facoltà e chiediamo a qualcuno se conosce
Moretti, non troviamo nessuno. questo perché non c’è nessuno. questo significa che abbiamo un solo
strumento che ci consente di ritenere una qualche ragione che lui sia colui che dica di essere. È uno
strumento parziale ma c’è. La mail istituzionale. Quello che abbiamo davanti per lo meno è uno che ha la
mail istituzionale. Però anche qui, anche la mail istituzionale potrebbe averla data Moretti ad un altro.
Questo vuol dire che non c’è nessuna garanzia e ci stiamo fidando in modo non ragionevole. Quello che si
voleva mettere in evidenza è che molto frequentemente gli individui, di fronte a quella che è una
transazione economica, sono privi di garanzia. La realtà è che la stragande parte delle operazioni che tutti
noi facciamo hanno una base di garanzia del tutto sproporzionata all’oggetto che dovrebbe essere garantito
perché in qualche modo ci sarebbe potuto essere da parte nostra per migliorare la situazione. Avremmo
potuto chiedere a chi ci fa lezione di darci dei riscontri ulteriori sul fatto che lui ci dice di essere chi è. Non si
fa perché sembra brutto ma anche perché siamo in un contesto in cui la garanzia è offerta dal meccanismo
sociale. In un contesto in cui i professori si conoscono tra loro e i studenti conoscono i professori, il
mitomane che finge di essere un professore viene individuato. Noi quindi utilizziamo un sistema di garanzia
informale, ovvero quello del gruppo sociale. il senso di quello che stiamo dicendo è che il concetto di
garanzia non è affatto alla base del modo di ragionare che la maggior parte di noi ha quando fa una
transazione economica. Io posso anche non avere garanzie ma devo essere consapevole al fatto che vi sto
rinunciando. Il mediatore è il custode delle garanzie effettive. Il mediatore non è in grado di gestire la
fisiologia del sistema. Il mediatore, nell’ambito di una transazione economica, lavora per garantire che la
transazione economica vada a seguito. E quindi, è molto più l’aspetto legato all’ipotesi delle rispettive
garanzie che interessa il mediatore. Quindi la mediazione in una transazione economica consiste
nell’individuazione nel percorso tecnico necessario per portare al successo l’accordo che le parti in qualche
misura sono riusciti a raggiungere. Quindi l’azione di mediazione comincia in una fase che sembra essere
successiva all’accordo ma che in realtà è la base più importante della mediazione stessa, ovvero quella in
cui manifestato l’interesse a raggiungere un equilibrio dalle parti contrapposte, si sviluppa una condizione
che porta al raggiungimento di questo obiettivo. Non basta amarsi per fare una buona coppia. Nello stesso
modo non basta raggiungere una convergenza dei corrispettivi per raggiungere un obbiettivo.

6-05-2021

Il mediatore come analista delle possibili patologie di sistema derivanti dalla mediazione è chiamato ad
analizzare il problema del rischio.

Che cos’è un rischio? E quali sono le metodologie possibili per calcolare e pesare il rischio?

Qualcuno di noi o tutti noi pecchiamo di ottimismo. Il rischio è la probabilità di un evento negativo. Due
concetti: 1) probabilità e 2) evento negativo.

Partiamo dal presupposto che tutti siamo esposti al rischio per definizione, è solo una questione di
probabilità, nessun essere vivente è in grado di comprarsi l’esenzione da un rischio, laddove per rischio si
debba intendere probabilità di verifica di un evento negativo. Se il rischio è una questione di probabilità, il
mio problema diventa il calcolo delle probabilità. Un mediatore le probabilità le deve calcolare bene.

Chi sono i calcolatori del rischio per eccellenza? Gli assicuratori. L’assicurazione di una macchina è basata
sul calcolo fatto dagli attuari, coloro che calcolano il rischio.

Noi conviviamo con il rischio, ma in generale la gran parte di noi ha un atteggiamento conservativo rispetto
al rischio e una percezione del tutto soggettiva del rischio.

Per esempio se hai due ipotesi quali sceglieresti?

1) Attraversi la tangenziale?

2) Ti arrampichi fino al quinto piano del palazzo?

Molti hanno risposto che sceglierebbero la prima, ma nessuno ha chiesto “come devo arrampicarmi?”
“come devo attraversare la tangenziale?”, se io vi facessi attraversare la tangenziale bendati, sarebbe la
stessa cosa? Non penso.

La prima operazione che fa un mediatore è abbandonare l’ipotesi di difendersi da un rischio soggettivo. Il


mediatore sa che: 1) il rischio è inevitabile 2) esiste un tipo di rischio oggettivo e uno soggettivo, ma
attenzione quello soggettivo è quello che noi percepiamo come tale, per esempio voi avete timore di cose
di cui io non ho timore e viceversa. Nel caso del mediatore, esso deve dimenticare la propria dimensione
soggettiva del rischio, può contare la soggettività del rischio delle parti, ma a quel punto è una sorta di
oggettivazione. Il mediatore, chiamato a calcolare il rischio, 1) prende atto che il rischio è inevitabile 2) che
lo deve calcolare 3) che la sua visione soggettiva del rischio va cancellata, dimenticata. È chiamato a
valutare il rischio per quello che è, per quello che interpreta in modo oggettivo o, in via subordinata, ad
interpretarlo in nome della soggettiva delle parti. ma di quali parti? Perché se una parte sviluppa una
percezione di rischio irrazionale, il mediatore la deve combattere. Se una delle parti in causa in una
trattativa immobiliare non compra una casa a Roma perché ci sono troppi topi senz’altro osserva una
realtà, ma questa non è una ragione valida per non comprare casa a Roma. È vero che esiste il rischio di
incontrare un topo, ma questo rischio è una visione abbastanza soggettiva del rischio.

Il rischio è una materia complessa e il mediatore deve calcolarla.

Quale calcolo deve fare il mediatore? Il mediatore ha due possibilità

1) ragionare secondo lo scenario peggiore possibile e dire “io debbo minimizzare le possibilità che si
verifichi questo scenario peggiore”; l’azione del mediatore esclude determinate ipotesi. Anche quelle più
remote, che possano generare l’effetto indesiderato

2) tutti gli scenari che ho davanti sono scenari che presentano un rischio e quindi io ragiono sull’implicita
accettazione dell’improbabilità del rischio massimo. Il mediatore accetta l’idea che permanga una pur
minima e remota possibilità di incorrere nel rischio massimo.

 Nel primo caso avremmo meno soluzioni, ma avremmo escluso il rischio massimo nella seconda
soluzione avremmo più possibilità di mediazione, ma avremmo un rischio non minimizzato.

Ovviamente il mediatore deve identificare il rischio massimo e saper dare un giusto livello di probabilità a
questi rischi. Questo è il lavoro che deve fare il mediatore in campo economico, quando deve
contemperare degli interessi che presentano dei livelli di rischio.

Se l’ipotesi A esclude il rischio di perdita massima, è chiaro che sposta il tipo di rischio, trasferisce il rischio
da rischio di perdita massima a rischio di “non perfezionamento della mediazione”. Il rischio non si azzera,
si minimizza, si trasferisce, ma non si elimina.

Credo che ora sia abbastanza chiara come idea che la mediazione politica e economica sono concetti
piuttosto lontani dal modello di mediazione culturale con cui noi siamo più a contatto. Un mediatore
economico sviluppa un meccanismo di minimizzazione dei rischi che è un’operazione di tipo tecnico-
politico. Il mediatore non è un traduttore. Il personaggio che abbiamo descritto di mediatore in campo
economico non è vicino ai personaggi che abbiamo più vicini. Qual è la sintesi di questi due tipi di
mediazione che abbiamo fatto? La cosa che abbiamo sottolineato più volte è che il mediatore economico
lavora per suo interesse mentre quello culturale media per più persone. Soprattutto è un personaggio
professionalmente e culturalmente diverso. La mediazione, mentre presuppone consorzio, non presuppone
collaborazione. Il consorzio è una cosa a cui siamo tutti interessati. In qualche modo un corso universitario
se fatto da un docente che vuole insegnare e da studenti che vogliono imparare, sostanzialmente è un
consorzio. Si realizza una convergenza sebbene questa abbia un momento in cui le parti si dividono (ovvero
quando il prof cambia i panni di oratore e indossa quelli di giudice). Viceversa, una mediazione non avviene
necessariamente tra parti collaboranti. La mediazione non è un accordo ma il punto di caduta. Nella gran
parte dei casi la mediazione è l’incontro tra le parti ma non in termini assoluti. In una mediazione politica o
economica l’avvicinamento delle parti non è scontato. L’idea della mediazione come punto di accordo è
un’idea che non può essere al campo della mediazione né in campo politico né in campo economico. L’idea
che una mediazione abbia un contenuto morale è un’idea ottocentesca. La storia dell’Ottocento ha
prodotto una visione della storia e dei rapporti socioeconomici abbastanza distorta. Qualche volta la
sorpresa con cui si assiste ad alcune situazioni è motivata dal fatto che si dà per scontato che le regole
d’ingaggio di quel tipo di gioco siano regole che ad un certo punto abbiano alla base un criterio morale, ma
non è così. Qualche volta non lo può nemmeno avere. Oppure si pensi che qualche volta non è consentito.
Citiamo un famoso esempio storico che ci dà il senso della difficoltà di prendere determinate decisione. La
città di Bristol è una piccola città dell’Inghilterra e è famosa per due ragioni. La prima era un mistero, nel
vero senso della parola. Per ragioni che ancora non si sono riuscite a capire, Bristol è una città che compare
nei nomi di molti alberghi in giro per il mondo. Ancora non si capisce perché. L’altra cosa per cui è famosa
Bristol è perché nel 1941 fu il bersaglio di uno dei più feroci bombardamenti della Seconda Guerra
Mondiale. Il governo britannico si trovò in una situazione del tutto particolare. Si trovò nella posizione di
avere decriptato i codici tedeschi di comunicazione attraverso l’ausilio di una macchina chiamata Colossus. I
servizi segreti britannici grazie a questo erano nella condizione di sapere quali fossero le mosse delle forze
armate tedesche sicché il governo britannico seppe con 4 giorni d’anticipo che l’aviazione tedesca avrebbe
raso al suolo Bristol. Il governo britannico si trovò di fronte a una scelta drammatica.

- Ipotesi 1: avviso la popolazione di Bristol e quindi evacuo la città ma così facendo faccio capire ai
tedeschi di aver decriptato i loro codici
- Ipotesi 2: non dico niente, mantengo il segreto sulla decriptazione dei codici ma condanno Bristol

Come capiamo bene è una decisione che in termini tecnici si chiama lose-lose. Il governo britannico in
quella circostanza decise di tacere e bristol fu rasa al suolo e morirono 85.000 persone. Le scelte in campo
politico ed economico sono spesso delle scelte in cui l’analisi degli interessi prevalenti è dominante rispetto
a qualsiasi altro tipo di valutazione; sia questo giusto o sbagliato. Ognuno di noi possiede un’etica ma di
fronte a una mediazione in campo politico-economico bisogna vedere cosa è opportuno fare e non ciò che
è etico. Queste sono le regole di ingaggio sicché quando noi siamo chiamati a valutare un comportamento
di un mediatore in questi contesti dobbiamo tenere conto che queste sono le regole alla base di questo tipo
di sistema.

11-05-2021

I processi mediatori passano attraverso delle dinamiche che riflettono in modo estremamente consistente
una variabile che non è affatto banale e che spesso è alla base di consistenti fraintendimenti. Oggi sotto
questo profilo parliamo di questa variabile: il concetto di patto sociale, ossia delle regole esplicite ed
implicite che una collettività si dà per gestire la propria dimensione istituzionale. Una collettività da sempre
si gestisce attraverso una serie di regole, che sono alla base del funzionamento della collettività; le regole
possono essere estremamente semplici o complesse, questo avviene in relazione al portato culturale e
sociale che quel tipo di collettività presenta. Le possiamo dividere in due categorie:

- le regole esplicite

- le regole implicite

La collettività demanda ad alcune istituzioni il ruolo di fare le leggi e di farle applicare. Nel nostro paese, da
più di 70 anni dalla promulgazione della Costituzione del 48, il potere della promulgazione della legge è
attribuito al potere legislativo e dall’altra al potere giudiziario, supportato dagli organi come polizia e
carabinieri ecc, a verificare che il potere sia verificato. Siamo di fronte a una tripartizione dei poteri di
nascita, indirizzo e controllo delle nostre leggi. Sotto questo profilo questa tripartizione all’alba del 1800 è
stata individuata come garante da parte degli studiosi del tempo del concetto di democrazia. Il potere
giudiziario è chiamato a verificare che queste leggi vengono rispettate o a reprimerne il mancato rispetto.
Questa tripartizione è tipica di tutte le democrazie. Laddove questa tripartizione non si verifica capiamo da
soli che siamo di fronte a un meccanismo di mancato rispetto delle regole democratiche. Se io sono quello
che fa le regole e quello che le controlla, la domanda banale è: chi comanda me?

Una regola esplicita è una regola scritta valida per tutti coloro che rientrano in quella fattispecie. Non è una
regola che vale singolarmente. La nostra carriera universitaria è regolata da regole esplicite mentre
assistere a questa lezione è un diritto costituzionalmente garantito a chiunque voglia farlo, sostenere una
carriera universitaria collegata con l’ottenimento di un titolo come la laurea è subordinata a una serie
condizione. Condizione essenziale ed esplicita è che si sia diplomati. È una regola esplicita. Ci si può
laureare per chiara fama, ad esempio Guglielmo Marconi. La regola esplicita consiste appunto nel fatto che
condizione necessaria ma non sufficiente ad esempio per ottenere la laurea e fare l’esame sia avere il
diploma ecc..

Le regole esplicite valgono per tutti. È l’espressione di una norma. Che poi diventi legge, regolamento, ecc
queste sono tutte struttura del diritto, ovvero le modalità con cui una società si autoregola e lo rende
esplicito.

Veniamo alle regole implicite, ovvero l’insieme delle regole che una collettività si dà ma che non hanno
forza normativa. Sono riconosciute come valide da un gruppo sociale che naturalmente non ha codificato
formalmente queste regole ma le ritiene implicitamente valide.

Esempi di ragazzi detti in classe: quando si cede il posto sull’autobus a una donna incinta o anziana,
mangiare a lezione. Sono esempi di convivenza.

Certamente le regole implicite sono regole che in qualche modo disciplinano comportamenti non cogenti.
Non sono obbligato a salutare il vicino di casa quando l’incontro ma è buona prassi. Esistono regole
implicite che hanno la caratteristica di non normare comportamenti semplicemente diseguali. Se la persona
in questione mangia in aula, il docente richiama la persona in questione e la prega di smettere. Se quella
persona non smette non è che viene chiamata la polizia. Semplicemente si dice all’interessato che sta
avendo un comportamento scortese. Non significa che quella persona perde il diritto di fare la lezione o
l’esame. Esistono delle regole implicite che in alcuni frangenti violano le regole esplicite. Ci sono degli usi
che sono in parte violazione di una regola e sono dei comportamenti che la collettività o una porzione della
collettività ritiene accettabile. Esempio di un comportamento socialmente riconosciuto accettabile dalla
popolazione o da una parte di essa che va a contrastare con una regola esplicita è ad esempio quando una
comunità islamica che mangia carne macellata in un modo non accettato dalla legge italiana. È una questo
culturale. ma anche la mutilazione genitale femminile, ovvero un gruppo sociale che ritiene che quello che
a tutti gli effetti un reato violenti sia accettato. Ma questi sono esempi molto consistenti. Basta osservare il
recente fenomeno dell’assembramento. La normativa in questa fase storica ritiene che l’assembramento
sia un comportamento illegittimo, eppure il fenomeno dell’assembramento è un fenomeno che all’interno
di determinati gruppi sociali viene ritenuto praticabile. Un esempio sono i tifosi che si assembrano per
aspettare i giocatori. Quindi sono comportamenti che la collettività ritiene scorretti ma che molte persone
violano perché ritengono che la norma che legittima il comportamento non sia così rilevante. Ad esempio,
quando si lascia la macchina in seconda fila. Il fenomeno dell’evasione fiscale è molto frequente in Italia. Il
regolamento prevede il pagamento di tutte le imposte. Chi non lo fa viene considerato scorretto da alcuni e
meno scorretto da altri. Si pensi anche al tema dell’eutanasia. In Italia aiutare qualcuno ad uccidersi è reato
ma una parte dell’opinione pubblica è convinta che questo provvedimento è sbagliato. Dall’altra parte
esiste una consistente parte del paese che ritiene che aiutare qualcuno ad uccidersi sia reato. Siamo di
fronte ad una circostanza in cui la regola implicita diverge da quella esplicita. Questo è un gran problema
perchè in un paese democratico più grande è la divergenza tra regole esplicite e regole implicite accettate e
più grande è lo scollamento tra il paese reale e la sua dimensione istituzionale. Più il paese ritiene che vi
siano delle regole implicite maggiormente valide rispetto alle esplicite, minore è l’autorevolezza del sistema
giuridico amministrativo e istituzionale che governa il paese. È più grande ‘ l’aderenza tra regole implicite
ed esplicite, quindi maggiore è il riconoscimento delle regole esplicite vuol dire che più il paese è coeso. Un
paese socialmente coeso è un paese più efficiente. Non è detto che un paese coeso sia necessariamente un
paese migliore, però certamente la coesione rappresenta e non può essere altrimenti, un valore positivo. Se
noi tutti condividiamo le regole del gioco e pensiamo che siano corrette, sicuramente il loro funzionamento
ne giova.

Anche il quarto d’ora accademico è una regola implicita.


Torniamo il discorso precedente in cui la collettività delle regole implicite ed esplicite avviene in modo
sostanziale. Una collettività che riconosce il valore essenziale delle regole esplicite e ne condivide il senso è
una collettività coesa. Il nostro è un paese che tende a dividersi. In Italia la divisione è quasi uno schema
abituale. Gli argomenti divisivi tendono ad essere maggiori a quelli che producono una convergenza.
Questo rappresenta un fattore di criticità. Una comunità coesa è una comunità che esercita in modo più
efficiente i mandati che si è data ma non è detto che una collettività coesa sia espressioni di valori. Un
esempio di collettività coesa che tuttavia potrebbe non essere stata espressione di valori viene ad esempio
rappresentata dagli estremismi politici. Nel corso della storia vi sono state dittature che hanno raccolto il
consenso di una consistente parte della popolazione interessata dal fenomeno dittatoriale. La Turchia è un
paese frequentemente al centro del dibattito geo-politico internazionale. Innanzitutto, perchè la Turchia è
un paese storicamente importante. La Turchia è l’erede dell’impero Ottomano. È inoltre un paese che ha
subito varie fasi. Forse le più note sono la fase del governo dei così detti giovani turchi che si riconoscono
nella leadership di Ataturk e una seconda fase significativa degli ultimi anni in cui la Turchia è protagonista
di situazioni politico-economiche commerciali nel Mediterraneo ispirate dalla politica di Erdogan.

Si può ragionare sul fatto che Erdogan sia o non sia un dittatore. I turchi sono i veri vincitori del conflitto
siriano. Le drammatiche esperienze che hanno occupato e preoccupato le cancellerie occidentali hanno
visto la Turchia vincente in entrambe le situazioni in cui era coinvolta. La leadership di Erdogan è quindi una
leadership divisiva.

Quando si parla del nazismo stiamo parlando di una politica che vede un consenso quasi totale. Si pensi
anche a Mussolini e Stalin o Francisco Franco. Lo stesso discorso vale per le dittature dell’est. Ritenere che
le popolazioni dell’est fossero ostili ai governi che si erano istaurati non è corretto.

Il concetto di dittatura non è un concetto strettamente politico ma è un concetto istituzionale. L’analisi delle
istituzioni all’interno di realtà autoritarie di matrice culturale diversa tendono a dimostrare che alcuni
elementi strutturali nell’organizzazione delle leggi e delle istituzioni tendono a ripetersi. L’idea che le
dittature si affermino costantemente in spregio della volontà popolare è un’operazione che dal punto di
vista scientifico va valutata con grande attenzione. Popolare non vuol dire necessariamente democratico.
Mentre nel concetto di democrazia è esplicita una componente popolare, non tutto ciò che è popolare è
democratico. La popolarità non è garanzia di democrazia. Il giudizio è lasciato a terzi. Chi fa analisi
geopolitica dovrebbe esprimere la minore quantità di giudizi possibili relativi ai comportamenti osservati.

13-05-2021

Torniamo alla questione sulla quale ci eravamo lasciati ovvero il tema del patto sociale e del fatto che
questo rappresenta l’elemento utile per capire il livello di coesione. Bisogna osservare che la questione
della coesione è una questione che condiziona la capacità di un paese di prendere decisioni efficienti o
condivise. Laddove l’insieme delle regole implicite dovesse porsi in aperta contraddizione con l’insieme
delle regole esplicite che compongono l’attività di un paese, è chiaro che a quel punto la situazione diventa
una situazione critica. Gli esempi sono tanti e hanno a che vedere con temi complessi. Ci sono degli insiemi
di regole che ad un certo punto le comunità condividono che hanno una forza tale che sono in grado di
mettere in crisi anche le regole esplicite. Un esempio comune è rappresentato dall’utilizzo di una valuta al
posto di un’altra. Ci sono dei paesi del sud America o dell’Africa i quali hanno una valuta officiale però la
popolazione non ha fiducia in quella valuta che è una valuta ritenuta poco credibile e quindi l’economia di
questo paese funziona con i dollari o con l’euro. Si verifica una situazione paradossale in cui i salariati di
questi paesi vengono pagati con la valuta locale ma qualche volta si richiede loro il pagamento in dollari.
Questo complica la vita perché il cambio della moneta locale con il dollaro è molto alto. Questo
procedimento che si chiama dollarizzazione è un fatto particolarmente negativo. La popolazione riconosce
implicitamente come moneta di scambio una moneta che non è la propria mentre ufficialmente è un’altra
la moneta utilizzata in quel paese. È un caso evidente di scollamento tra regole esplicite e implicite. Gli
effetti sono perversi perché mi trovo in una situazione nella quale per accedere a determinati servizi devo
cambiare la valuta ufficiale in una diversa e questo ha costi molto elevati. Vi sono delle regole implicite
anche all’interno delle nostre realtà che finiscono per essere invalidanti. Una delle regole spesso al centro
del dibattito legato alla raccolta dei rifiuti nei grandi centri urbani è legato alla divisione dei rifiuti. La regola
esplicita è chiara: ogni cibo ma in un determinato contenitore. Ma è una regola disattesa. Una
considerevole parte della popolazione ritiene che questa divisione non debba avvenire . Questo su un piano
interamente informale. Assistiamo a uno scollamento tra comportamenti di fatto e regole perché la regola
implicita che la popolazione adotta è che non divide i rifiuti. Un fenomeno molto rilevante nelle grandi città
è quella dei parcheggiatori abusivi. Un parcheggiatore abusivo non ha ragione di essere. Non è un soggetto
riconosciuto dall’amministrazione comunale. Il parcheggiatore abusivo trae dalla sua attività il suo
sostentamento. Qual è il rapporto che ha la popolazione con questa situazione? il rapporto è ispirato a
diversi atteggiamenti. C’è chi lo ritiene una forma di ricatto e quindi non sottostà al pagamento della
mancia che dovrebbe essere riconosciuta al parcheggiatore; chi paga per aver paura di ritrovare la
macchina danneggiata e altri che ritengono che il parcheggiatore stia lì perché è l’espressione di un disagio
che in qualche modo deve essere colmato. A questo punto noi siamo di fronte a questa tricotomia.
Proviamo a capire il perché matura questo tipo di situazione e qual è il rapporto con questo tipo di
situazione e le sue conseguenze. La domanda è: atteso che la regola esplicita è evidente, ovvero non ci deve
essere nessun parcheggiatore abusivo, il fenomeno del parcheggiatore abusivo in quale universo relativo
alle regole implicite si colloca? È una regola implicita né interamente condivisa né non condivisa. Il
parcheggiatore abusivo è un poveraccio che va aiutato o un ricattatore? È una persona indigente che lo fa
per necessità, magari per mancanza di basi istruttive e necessità di sopravvivere. Potrebbe essere una
persona che scavalla le regole per sopravvivere. Ma il punto di vista del parcheggiatore abusivo ci interessa
fino ad un certo punto. Per noi è colui che in quel momento incarna la regola implicita che si sostituisce a
quella esplicita. Dobbiamo riflettere sull’approccio che colui che ha a che fare con il parcheggiatore abusivo
assume nel momento in cui si confronta con questo soggetto. Viktoria fa l’esempio del fatto che vicino la
sua scuola c’era un parcheggio enorme con un parcheggiatore abusivo. Accanto alla scuola c’era una
caserma di polizia e nessuno diceva niente. Dopo varie denunce al comune alla fine si è legalizzato il lavoro
di questo parcheggiatore. Questo è un risvolto strano. Se vicino c’è un comando di polizia che in teoria
dovrebbe garantire il rispetto della regola esplicita ma non lo fa, come si potrebbe reagire? Come
inquadriamo questo episodio? Questo può essere semplicemente un atto di criminalità. Questo uomo si era
appropriato di un pezzo di strada appartenente allo stato italiano e tra l’altro è come se fosse un vero e
proprio mafioso che chiede il pizzo. L’episodio che ha raccontato Viktoria è molto inquietante. Questa cosa
avveniva sotto l’occhio e l’inerzia di chi deve far rispettare le regole. Io non posso scegliere se aderire o
meno perché mi trovo in una situazione in cui vedo l’avvenimento accettato dalla polizia che ho li vicino.
Siamo in palese violazione di regola esplicita ma la violazione è a tutti gli effetti un fenomeno predatorio.
Questo è un punto di vista. l’episodio raccontato da Viktoria è un episodio per molti versi limite. È ovvio che
si tratta di una circostanza anomala rispetto alla normalità perché l’elemento che sembra condizionare lo
scenario negativo è la figura che dovrebbe limitarne l’avvenimento. In questa circostanza non c’è scelta
perché il sistema predatorio sembra prevalere sul resto. Immaginiamo che questa patologia non ci sia e che
lo scenario sia più leggero e che al posto del parcheggiatore abusivo ci sia un personaggio con un livello di
intimidazione inferiore. Immaginiamo di avere a che fare con un lavavetri al semaforo. Questo esponente
meno del primo ha capacità intimidatoria.

Comportamento del lavavetri non è necessariamente un comportamento intimidatorio, come quello del
parcheggiatore abusivo, perché normalmente il parcheggiatore abusivo può accedere alla macchina lasciata
incustodita mentre il lavavetri solo il tempo del semaforo. L’offerta del lavavetri è più facilmente rifiutabile.
Proviamo a ragionare intorno al rapporto che esiste tra questo meccanismo, ovvero l’impersonificazione
della regola implicita. Se il lavavetri è lì è perché vuol dire che qualcuno se lo fa pulire il vetro. E quindi il
lavavetri risponde ad una domanda esplicita di un servizio implicito. La domanda diventa:
qual è il rapporto tra le scelte che possono essere fatte dagli automobilisti fermi al semaforo e la natura
implicita legata alla presenza dell’erogatore di servizi “informale”? Quante opzioni ha l’automobilista di
fronte al lavavetri?

1) accetta 2) rifiuta 3) lo denuncia 4) gli parla e gli spiega che non si può fare

Il problema è che quel lavavetri non rispetta le regole esplicite, non potrebbe stare lì e farlo. Ma noi
pensiamo “finché si comporta in modo educato, mi sta bene” non sempre pensiamo al non rispetto della
regola esplicita da parte del lavavetri, statisticamente in pochissimi denunciano il lavavetri. Questo avviene
perché nel nostro paese molti non rispettano delle regole esplicite, perché queste regole non vengono
condivise. Il nostro paese è scarsamente coeso. La propria regola etica è stata messa al centro
dell’attenzione “accetto, ma dipende dal modo”, tecnicamente no, non dipende dal modo, quel signore lì
non sta rispettando una regola esplicita. Se riteniamo che questo non rispetto della regola esplicita sia
accettabile dobbiamo prendere atto che l’insieme delle nostre regole implicite diverge dall’insieme delle
regole esplicite.

I cartelli con scritto “severamente vietato” fanno riflettere, il nostro concetto di vietato potrebbe essere
subordinabile ad una regola implicita che ci siamo dati. Il rapporto che esiste tra regole esplicite e implicite
in altri paesi è molto diverso. In Italia si realizzano situazioni in cui gli stessi organi giudicanti tendono ad
interpretare le leggi in un determinato modo piuttosto che in un altro, la giurisprudenza tende di quando in
quando ad anticipare provvedimenti normativi e questo è un portato divenuto abbastanza consistenze che
dà il senso della relativa debolezza che il legislatore ha nell’interpretare il sistema delle regole implicite alla
base del funzionamento della realtà. Piu un portato normativo interpreta bene la società che lo esprime,
più quella società funziona. Questo è il presupposto del rapporto tra insieme regole implicite e esplicite.
Qualche volta le regole implicite che la popolazione si dà sono regole che se trasformate in regole esplicite
potrebbero essere regole che non includono meccanismi socialmente accettabili. -> es nel nostro paese
raccomandazioni. Il sistema delle raccomandazioni è il frutto di un atteggiamento eccezionale nei confronti
di qualcuno, questo è un’espressione di un approccio costruito sull’idea dell’eccezione, di una regola a cui
non sono necessariamente sottoposti tutti. Il sistema delle raccomandazioni è l’espressione di un approccio
costruito sull’esenzione. Questo approccio è tipico di un paese in cui le regole esplicite ed implicite hanno
difficoltà a convivere. Questa difficoltà è evidente in vari ambiti: Il nostro paese ha una difficoltà strutturale
ad esprimere per esempio un bipolarismo politico, l’orientamento da parte del paese è verso un altro tipo
di modello e questo crea una divergenza tra regole esplicita (sistema elettorale) e regola implicita cioè
tendenza del paese a frazionarsi e a non avere un bipolarismo politico. Se noi prendiamo le 4 forze più
rilevanti in Italia cercheranno un’alleanza ma non sono espressione di bipolarismo. L’orientamento del
paese è verso un altro tipo di modello e questo crea una frazione tra la regola esplicita che è il sistema
elettorale e la regola implicita che vede il frammentarsi delle forze.

C’è un complesso rapporto tra istituzioni, regole esplicite e regole implicite. Se il gruppo sociale non sente
le proprie regole implicite rappresentate dalle regole esplicite, finirà per svilupparne delle proprie. Questo
provocherà disordine dal punto di vista sociale ed istituzionale. Conclusione: sono più efficienti le società in
cui le norme riescono ad interpretare in modo più efficace il portato complessivo delle regole esplicite che
sono la base del funzionamento di quel sistema laddove quelle regole dovessero risultare sostenibili. Il
grande conflitto che esiste ora negli USA relativo alle modalità in cui viene approcciato il tema della giustizia
in specie con il rapporto che sembrerebbe esistere tra alcuni stati della popolazione afroamericana e alcune
componenti delle polizie locali di alcuni paesi. Quella è una situazione in cui il podromo della divisione tra
regola esplicita ed implicita è evidente.

18-05-2021

Riprendiamo un tema che avevamo già affrontato, ovvero il tema relativo alle diverse forme di mercato.
Parlavamo di monopolio, oligopolio e la terza forma di mercato ritenuta classica dalla dottrina economica è
la concorrenza perfetta. Con concorrenza perfetta si intende un mercato dove sono presenti una pluralità
di operatori, un mercato in cui non esistono le barriere all’entrata . Le barriere all’entrata sono
quell’insieme di condizioni di tipo economico o politico o giuridico che impediscono a un soggetto di entra
all’interno di un certo mercato. Le barriere all’entrata di ordine politico sono quelle che ad un certo punto
sono prodotte dal fatto che ad esempio in alcuni paesi se non si collabora con il regime di politiche locali
non si collabora proprio. Operare in Cina significa spesso dover collaborare con accordi di cogestione con
delle imprese locali. Oppure ci sono barriere all’entrata di ordine giuridico. Qualche volta determinate
attività sono condizionate dal dover avere una licenza per svolgerle.

Tutte le barriere all’entrata sono elementi ostativi del libero mercato. Laddove questi elementi ostativi non
si presentano siamo di fronte ad un mercato di potenziale concorrenza perfetta. È un mercato in cui
chiunque può entrare non dovendo sopportare barriere all’entrata significative, a condizioni normative che
in qualche misura condizionino lo svolgimento dell’attività economica e dove siano garantite a tutti le
regole di ingaggio dal punto di vista del mercato stesso. Ma i mercati di concorrenza perfetta non esistono
perché è quasi impossibile mettere tutti gli operatori dallo stesso punto di vista. è quindi un mercato
teorico. l’obiettivo che ci si pone in tante realtà è quello di allontanarsi dai mercati controllati come quello
monopolistico e oligopolistico per approdare ad una maggiore apertura dei mercati stessi e quindi alla
concorrenza perfetta. Qualche volta abbiamo la sensazione che il mercato di concorrenza perfetta si
realizzi. Spesso questa condizione è data anche dalla concorrenza. Questa concorrenza è letta dal punto di
vista della domanda. La concorrenza perfetta si può leggere come tutti i mercati sia dal punto di vista della
domanda che di quello dell’offerta. Se vado in rete e interrogo la rete riguardo i prezzi delle scarpe della
polo ecc io trovo siti che hanno una dimensione comparativa. La stessa cosa succede se vado in un negozio
di scarpe. Io sceglierò il prodotto della marca A o B a seconda di varie valutazioni ma ho la sensazione di
poter scegliere tra un numero considerevole di alternative. Dal punto di vista della domanda questa è una
percezione netta e persino credibile. Molte diverse sono le cose dal punto di vista dell’offerta dove gli
operatori per produrre le stesse cose si trovano in posizioni diverse tra di loro. la prima differenza è legata
al posto in cui si producono queste cose. Se io produco le scarpe negli USA e le acquisto all’Italia, questo
acquisto è sotto un regime daziario. All’interno dell’Unione Europea i dazi non si pagano. L’uscita
dell’Inghilterra ci ha messo nella condizione che se vogliamo comprare prodotti della Gran Bretagna
paghiamo un Dazio. La politica daziaria è la principale fonte di perturbazione della concorrenza perfetta.
Altra perturbazione è causata dai disallineamenti dei prezzi degli stessi prodotti sul territorio. se produco le
scarpe a Bergamo ha un costo, se lo faccio in Cina il costo del lavoro è più basso e quindi chi produce in quei
luoghi è avvantaggiato dal punto di vista degli oneri del lavoro ma anche svantaggiato per il trasportamento
della merce. La realtà è che però queste cose si compensavo sicchè di fatto produrre in paesi con bassa
incidenza del costo del lavoro rappresenta un elemento di vantaggio competitivo che viene usato ma viola
le regole della concorrenza perfetta. Le politiche fiscali sono un altro elemento che viola le regole della
concorrenza perfetta. Stesso ragionamento avviene all’interno dello stesso paese sia per quanto riguarda i
differenziali territoriali che la politica fiscale. Se io produco le scarpe a Vigevano, realtà territoriale in cui c’è
una forte specializzazione nella produzione di scarpe, io potrò contare su alcuni fattori di carattere
competitivo. Se produco le stesse scarpe a Gela, sicuramente la struttura di produzione sarà più invalidante.
La stessa politica fiscale è un elemento determinante nella violazione della concorrenza perfetta, in primo
luogo perchè c’è una differenza tra chi paga le tasse e no. In realtà nessuno veramente desidera un mercato
in regime di concorrenza perfetta perché sarebbe un mercato lasciato esclusivamente alle regole del
mercato. Potrebbe essere ritenuto non funzionale o non etico. In un mercato di concorrenza perfetta, la
competizione per i vaccini sarebbe una competizione lasciato al mercato stesso. Sarebbe una speculazione.
Nel momento in cui rendo quel mercato un mercato di concorrenza perfetta saranno coloro con più denaro
a determinare l’esito delle transazioni e per questo le vaccinazioni non sarebbero avvenute per età ma per
censo. Il mercato di concorrenza perfetta non è una benedizione. Questa è la ragione per cui tutti i mercati
sono in realtà regolati in modo più o meno significativo da autorità statali che finiscono per incidere o voler
incidere in modo più o meno forte sulle regole dei mercati stessi. In alcuni paesi lo sforzo compiuto da
alcune entità pubbliche per non intromettersi nel mercato, in altri paesi la presenza dello stato è molto
consistenze. Si pensi ai socialisti in cui lo stato si sostituiva al mercato in tutte le sue forme. Una delle
abitudini peggiori che hanno i governi, tra cui quelli dell’Italia, è quello di utilizzare politiche di
condizionamento del mercato che sono in esplicito contrasto con la concorrenza. La politica economica del
nostro paese è orientata a dei settori particolari, ovvero quelli che giovano di certi bonus. Il bonus (si pensi
a quello della rottamazione dei veicoli) ha la caratteristica di violare la concorrenza perfetta e la
concorrenza in generale in modo evidente. Se esiste il bonus mobili io sono orientato a comprare dei mobili
anzi chè comprare altri oggetti che sono in qualche modo di prezzo e categoria complementari con
l’oggetto del bonus. Questo introduce il concetto di bene succedaneo. Il bene succedaneo è un bene
economico che può essere sostituito ad un altro bene nella soddisfazione di un determinato bisogno
umano. Quando due beni sono succedanei (sostituti), la riduzione del prezzo di uno dei due beni aumenta
la domanda del bene stesso e riduce quella del bene sostituto. Immaginiamo che io ho il bonus per il mobile
ma io vorrei comprare un quadro. I prezzi si equivalgono ma io decido di comprare il mobile perché c’è il
bonus. Quindi sostanzialmente è un bene sostitutivo. La cosa che li rende comparabili non è funzionali ma il
prezzo. Il vincolo di bilancio rende questi beni succedanei. Magari mi servono entrambi ma prendo il mobile
perché è agevolato. Il bene complementare, ovvero due beni che possono fare lo stesso lavoro. Un
esempio di bene complementare sono uno smartphone e un pc portatile. Alcune funzioni sono sovrapposte
ma altre no. Se io tratto dal punto di vista commerciale dei sussidi in modo diverso i due soggetti creo una
perturbazione del mercato che quindi esiste sia nel caso di beni succedanei sia di quelli complementari. I
beni complementari sono beni economici utilizzati in modo congiunto per la soddisfazione di un
determinato bisogno. Ad esempio, lo zucchero è un bene complementare del caffè, ciò vuol dire che ad un
aumento del prezzo dello zucchero i consumatori possono ridurre sia la domanda dello zucchero e sia
anche la domanda di caffè. Complementarietà e succedaneità sono elementi che ci aiutano a capire come
l’approccio delle politiche sussidiarie sia un approccio deliberatamente operante in regime di violazione
della concorrenza. Ma potrebbe esserlo anche il procedimento fiscale su questi beni. È quasi evidente come
si favorisca il sistema con iva più bassa. Il sistema ha esasperato in modo preoccupante la presenza di
meccanismi di incentivo che favoriscono certi settori finendo per penalizzarne altri. La situazione che si
presenta è che quel settore abbia bisogno di sostegno, ma così facendo siamo di fronte a due ipotesi: che
quel settore sia sempre sussidiato; e il fenomeno dello spiazzamento. Se io so che l’agevolazione dell’aiuto
della macchina finirà a dicembre dell’anno 20-21 mi affretterò ad usufruire di questo vantaggio anche
nell’ipotesi in cui questo acquisto si proponesse come acquisto futuro. Questo gonfia la domanda di beni in
questione per il 2020-2021, ma anche quelli a venire. Distorsione si aggiunge a distorsione. Non solo si
fanno differenze tra varie categorie ma introduciamo anche una variabile perturbativa anche nell’ambito
dello stesso mercato. Se io ho la possibilità attraverso le agevolazioni di detrarmi il 50% del prezzo del
mobile, e il mobile costa 1000 euro, il mercato come reagisce? Il mercato tende ad appropriarsi di una
parte di questo vantaggio e si assiste per questo a una crescita dei prezzi. Quindi se io il mobile lo faccio
pagare 1200 conviene lo stesso a chi lo acquista. Questo ragionamento finisce per provocare un
rigonfiamento dei prezzi artificiali. Se faccio salire il prezzo io sto di nuovo riagevolando una categoria
invece che altra. Evidentemente c’è un meccanismo discriminatorio. Il mercato di concorrenza perfetta è un
mercato in cui tutti gli operatori agiscono a parità di condizioni.

Il tema della concorrenza perfetta non è solo condizionato dalle politiche sussidiarie e di sostegno ma
anche dalle politiche fiscali. Lasciare fare al mercato, ovvero avere un approccio liberista, è un’ipotesi non
priva di incognite. Vi sono delle posizioni di controllo del mercato che sono fortemente penalizzanti dal
punto di vista occupazionale. Tutte le politiche passive di indirizzo tendono a sistemare quello che c’è e non
a rendere efficiente un mercato.

I nuovi posti di lavoro si creano laddove un’economia abbia un modello di sviluppo valido e in espansione.
Se oltre a non avere un modello di sviluppo leggibile non produciamo condizioni per cui i mercati agiscano
in modo efficiente ed efficacie, l’occupazione non l’avremo. Un mercato lasciato a sè stesso in una
prospettiva di liberismo esasperato produce danni ma allo stesso modo un mercato duramente
regimentato. Senza produzione di ricchezza non c’è produzione di occupazione. Se la ricchezza non viene
prodotta possiamo stare pur certi che di occupazione non se ne parla. Una questione centrale del nostro
paese è che noi insistiamo a parlare di politiche redistributive quando quello da ridistribuire è sempre
meno. Tanto più la torta è ampia tante più fette se ne possono ricavare. Più la torta è piccola e più sarà
difficile gestirla. Nei fatti le politiche a cui assistiamo sono politiche che non sono mai orientate a questo
approccio. Nella percezione comune del tema si sviluppa un confronto stucchevole tra quelli che
sostengono che le politiche redistributive siano determinanti e quelli che non ne vogliono sentire parlare. Il
dibattito è stucchevole perché gli uni hanno una percezione superficiale e gli altri egoistica. Le politiche di
redistribuzione sono un portato avanzato ma sono e devono essere funzione di una ricchezza presente e
non presunta. Per questo dobbiamo concentrarsi sui meccanismi di generazione della ricchezza che sono
dati dal mercato. Un paese efficiente e con una politica forte è un paese di persone occupate. SENTI
REGISTRAZIONE

Il tema dell’occupazione dovrebbe essere al centro del dibattito. L’occupazione che non si può costruire
sulla produzione del valore aggiunto. E da qui partire il tema dominante. Come dovrebbe essere fatto un
mercato efficace? La pretesa di controllare un mercato è come la pretesa di controllare un sentimento.
Bisogna evitare che un mercato produca patologia. Quindi bisogna anche fare delle previsioni. Questo non
può essere un dibattito lasciato a facile conclusione.

Un altro stereotipo da cui sarebbe opportuno allontanarsi è l’idea di una politica riformistica del mercato
che non riforma nulla. Il mercato del lavoro negli ultimi 10 anni è stato riformato 17 volte. Sembra un
accanimento. Il mercato del lavoro in Italia non è fermo perché la normativa non è adeguata, non per
motivi solo ascrivibili a questo. Ci sono delle materie che in Italia vengono riformate costantemente. Ma
come faccio a rendermi conto che la riforma che attuo è buona se la cambio subito.

Noi abbiamo nei confronti delle riforme un atteggiamento virale. L’impresa assume quando guadagna di
più. Si assumono persone laddove si sia raggiunto un delta favorevole. Le logiche del governo di mercato
dovrebbero essere ispirate alla ricchezza come condizione necessaria ma non sufficiente e nel momento in
cui questa ricchezza cresce pensare poi a ridistribuire. È l’ideale della concorrenza perfetta che deve essere
perseguito.

20-05-2021

L’ultima volta ci siamo confrontati sul tema della concorrenza perfetta e di quelli che sono in qualche modo
l’insieme delle condizioni che in termini più o meno legittimi che finiscono per dover generare gli interventi
da compiere nel tentativo di correggere le distorsioni del mercato. Oggi però proviamo a cercare di capire
quali sono o quali dovrebbero essere queste distorsioni del mercato. Interveniamo a correzione del
mercato. In determinati frangenti non si può lasciar fare al mercato (esempio dei vaccini). L’esempio però è
un esempio che non esaurisce affatto il tema. adesso ci mettiamo nella scomoda posizione di chi è
chiamato a dovere o volere intervenire proprio nella prospettiva di dover correggere quello che fa il
mercato. La domanda diventa: quali sono, a nostro giudizio, le dinamiche di mercato su cui è indispensabile
intervenire? Dov’è che il solo mercato non ci piace? Mettiamoci sulla scomoda poltrona di un ministro
dell’economia di un paese ad economia avanzata. Ad esempio il mercato delle telecomunicazioni. È un
mercato oligopolistico e quindi in mano a pochi. Ma più in generale la domanda che dovremmo farci è: ma
quali sono gli obiettivi che deve raggiungere il mercato? Si parte da un mercato che però è più utile alle
necessità, tipo quello sanitario o quello scolastico. Lo scopo è che il maggior numero di cittadini acceda a un
mercato essenziale. Formalmente questa è una cosa largamente condivisibile. È chiaro che ci interessa
molto di più in qualità di osservatori e pianificatori pianificare un mercato essenziale. In un certo senso
anche il mercato delle telecomunicazioni è essenziali. Ma quanti sono e quali sono questi mercati? Il
mercato delle auto di lusso ci interessa il giusto. Regolare il mercato delle Ferrari è utile ma viviamo lo
stesso se non succede. Qual è il perimetro dei mercati essenziali? Quali sono? Il mercato farmaceutico è un
argomento molto complicato costruito su una premessa. La premessa è che l’industria farmaceutica è
un’industria ad alto capitale. Per avere risultati nell’ambito farmaceutico devi investire molto denaro. Come
fai a dire alle grandi aziende farmaceutiche, che non sono dei filantropi, di regolamentare il prezzo dei loro
prodotti? Quelli ti dicono di produrteli da solo. Chi detiene la possibilità di produrre qualcosa di
estremamente difficile da trovare, come chi fa ricerca, sa che a volte non si arriva a nulla. L’unico modo per
essere certi che la ricerca produca effetti vantaggiosi è quella di investire tanto denaro. Quindi il mercato
farmaceutico è un mercato oligopolistico, quindi di pochi. Quindi il mondo che da un anno e mezzo fa a
botte con il virus ha prodotto un po' più di 10 vaccini. Se non è un mercato oligopolistico quello. Mentre il
mercato delle telecomunicazioni ha un’origine pubblica. È particolarmente complesso anche solo indagare
un mercato. Non è che esiste il mercato per come viene scritto sui giornali tipo “il mercato libero
dell’energia elettrica”. Libero mercato l’energia è un ossimoro. Il mercato dell’energia elettrica è uno dei
mercati più oligopolistici di sempre. Parlare di mercato in sé è una sciocchezza. NON ESISTE IL MERCATO.
Esistono mercati che hanno caratteristiche totalmente diverse. Prima di esprimersi bisogna capire il
mercato. L’idea del mercato come viene spesso rappresentato da presunti economisti non esiste. Non si
può paragonare il mercato dell’arte con il mercato dei prodotti agricoli. Non c’è nessuna correlazione tra i
due. Oltre a definire le modalità di come si organizza il mercato come argomento astratto è capire che non
esiste IL mercato ma tanti mercati ed è difficile capire se un mercato debba essere regolamentato o meno
sulla sola base del suo essere un mercato strategico. Non basta definire un mercato di pubblico interesse
perché questo sia regolamentato secondo le indicazioni del pubblico interesse . L’esempio del mercato
farmaceutico è l’esempio pratico. Tutti riteniamo che un farmaco salva vita o cambia vita debba avere un
costo basso, ma nella sostanza quello che sta succedendo ci dimostra che qualora ci sia un grande
investimento di denaro, la possibilità di irrigimentare quel mercato è impossibile. Quindi non esiste un
mercato ma tanti mercati e per capirli bisogna conoscerne la struttura. Qual è l’elemento alla base del
funzionamento di un mercato? è la transazione, ovvero il momento dello scambio. La natura delle
transazioni in economia è una natura estremamente varia. Ci sono transazioni economiche di vario tipo ed
esito. Come definiremmo il rapporto che esiste all’interno, per esempio di questa nostra dimensione. Un
corso universitario è l’esito di un meccanismo transattivo articolato. Ci sono dei meccanismi transattivi
relativamente semplici. Vado al mercato, compro un kg di pomodori e vado a casa. in realtà le cose stanno
diversamente perché esiste una filiera dove si coltivano i pomodori, chi li coltiva, chi sono i grossisti che
intercettano la transazione di pomodoro, in che modo questi gestiscono il rapporto con gli altri ecc.. però la
filiera del pomodoro è una filiera abbastanza lineare. È composta da un insieme di soggetti che hanno una
struttura a cascata. Chi coltiva il terreno dove stanno i pomodori vede la propria produzione condizionata
da alcuni fattori. Si pensi all’inquinamento. Quindi la filiera del pomodoro che appare così semplice in realtà
vede intervenire alcuni fattori che non trovano remunerazione all’interno della filiera. Però dando per
buono che dobbiamo fare un’analisi statistica sull’andamento del clima o una valutazione sulle falde
acquifere, la filiera del pomodoro potrebbe essere definita una filiera lineare proprio perché abbiamo
identificato i passaggi della produzione del pomodoro. Ci sono delle filiere che non sono lineari. Torniamo
all’esempio farmaceutico. È una filiera non lineare. Noi investiamo molti soldi in ricerca e la ricerca ci può
portare lontano o da nessuna parte. Quindi c’è una filiera della ricerca che incrocia lo sfruttamento della
ricerca. Ad esempio l’acido ialuronico. Perché sono state condotte a delle ricerche che hanno portato alla
scoperta dell’acido ialuronico. Che obiettivi aveva chi ha condotto quella ricerca? Non è stato scoperto per
curare le rughe ma per lubrificare le articolazioni e le strutture del corpo. È nato quindi per tutt’altra
funzione, eppure viene largamente utilizzato nell’industria della cosmetica. Quindi nasce nell’ambito
dell’industria della ricostruzione articolare e dermatologica, eppure oggi ci si fa altro. È la dimostrazione più
lampante di come sia asimmetrico il rapporto tra ricerca e sfruttamento della ricerca. Siamo di fronte ad un
evidente asimmetria. L’investimento della ricerca dell’acido ialuronico era fatto da strutture che si
muovevano nel settore delle strutture articolari. Quindi la filiera farmaceutica non è lineare come quella del
pomodoro. La conseguenza è che la transazione a valle del processo è una transazione completamente
diversa perché mentre la filiera del pomodoro è fatta in maniera che di partenza questo costi 5 centesimi
dalla produzione che lo vende al grossista a 15 che lo vende al distributore a 60 e il distributore lo vende al
supermercato a 1 euro e 15 che lo vende a 1, 50 euro. Il prezzo finale è la risultante di un processo a
cascata. L’acido ialuronico l’investimento lo fa l’azienda nel settore dell’intervento riguardo di ordine
articolare, quindi questo è lo sviluppo relativo, ma il fattore aggiunto passa all’altro. Una volta venduto il
brevetto il prodotto assume un altro valore non prevedibile. Quindi alcune filiere sono asimmetriche e
imprevedibili. Alcune filiere sono anche abbastanza complesse da capire. Noi facciamo parte di una filiera
poco immediata da capire. Come funziona l’università? esiste un soggetto pubblico, l’università, che riceve
una serie di finanziamenti che la sostengono. Le università cercano di produrre un risultato che ha una
doppia prospettiva. Una parte del risultato è rappresentato dalla ricerca e l’altra dalla didattica. La ricerca
ha esito incerto, la didattica anche. Sebbene esistano strumenti che consentono di misurare l’efficacia del
sistema, quanti studenti si laureano in corso? Si dà per presupposto che il modo di misurare l’efficienza del
sistema sia rappresentato dalle performance di chi il sistema lo utilizza. Qui il dubbio non è sul prezzo finale
ma su come misurare gli esiti. Non è detto che il valore aggiunto prodotto dall’insegnamento universitario
sia dato dal risultato per cui io mi laureo in tot anni. Sarebbe più sensato associare questo ragionamento sul
placement lavorativo di queste persone ma su questo ricadono altre questioni come la struttura
territoriale. La filiera dell’istruzione è di interpretazione difficile. Pensiamo quanto sia difficile ragionare
sulla filiera della giustizia. L’Italia ha una così detta giustizia lenta. Questi esempi ci servono per
comprendere che non solo non esiste un mercato, non solo esistono tanti mercati ma sono costituiti da
diverse filiere a loro volta strutturate diversamente. La filiera corta non è sempre sinonimo di efficienza. Sul
piano ortofrutticolo è efficiente una filiera corta, su quello vaccinale no perché non avrebbe controllo. Ad
esempio, io sono un professore e ho il diritto di insegnamento libero. Se invece di fare una lezione sui
mercati faccio una lezione che inneggia al terrorismo, c’è un comitato di facoltà che mi richiama. Ad
esempio, la rete unica. Il problema nell’ambito del sistema delle telecomunicazioni è il problema storico tra
l’efficienza della rete che sarebbe preferibile fosse unica e potente e gli sfruttatori della rete che sono gli
operatori delle telecomunicazioni che prediligono il numero elevato. La struttura delle telecomunicazioni è
molto complicata perché bisogna mettere d’accordo tutta una serie di soggetti su chi paga cosa. Se esistono
tipologie più o meno teoriche di mercato, quindi due pratiche monopolio e oligopolio, una teorica che è la
concorrenza perfetta, possiamo affermare che non esiste un solo tipo di mercato ma tantissimi e questi
presentano caratteristiche diverse. Prendiamone due che sono agli antipodi: i mercati finanziari e quello del
lavoro. I mercati finanziari sono speculativi per definizione. Perdere o guadagnare nei mercati finanziari è il
premio o il rischio di chi fa speculazione. È legittimo che si guadagni o perda molto sui mercati finanziari . È
opportuno regolamentarli ma su questo ci sarebbe molto da dire. Ci sarebbe molto da dire sulle monete
virtuali che alla fine servono sostanzialmente per scopi illeciti. Ma lì la regola speculativa è la base. Se il
mercato del lavoro diventa speculativo come i mercati finanziari, un ipotetico imprenditore un giorno sta su
una barca e l’altro sotto un ponte. La struttura del mercato del lavoro cambia da paese a paese. Il nostro
paese ha la caratteristica di avere un mercato di lavoro particolarmente ingessato. Spesso si cerca di
regolamentarlo ma la questione che si deve affrontare è trovare il lavoro, soprattutto nel caso in cui sei
stato licenziato. Se sono occupato presso Pippo e perdo il lavoro non trovo occupazione. Questo è il
problema. Nel nostro paese ci siamo concentrati tanto sulle garanzie ma il lavoro non lo abbiamo creato.
Questo perché alla fine di tutti non abbiamo capito come funziona la filiera del lavoro del nostro paese.
Malgrado si sia fatto un grande sforzo normativo di regolamentare il mercato del lavoro, resta il fatto che
rimane poco dinamico. Alla base della comprensione dei fatti economici ci sono i problemi della struttura. È
a partire dalla componente statica che uno valuta i processi. È la comprensione della filiera che ci spiega
come è fatto il mercato e quindi com’è la transazione finale. Il prezzo come espressione finale dell’efficienza
del mercato non è assoluto.

25-05-2021

Ragioniamo insieme su un aspetto del nostro oggetto di interesse che in qualche modo abbiamo già
trattato. Abbiamo finito per comprendere che in estrema sintesi la geografia politico economica si occupa
di analizzare le transazioni di natura politica ed economica che avvengono in un determinato contesto
territoriale. Abbiamo speso del tempo nel ragionare sul concetto di territorio, sulle logiche di mediazione
che non è nient’altro che il processo che porta alla realizzazione della transazione. La vita di tutti noi è un
continuo sviluppo di transazioni. L’esame anche è un’operazione transattiva. È una transazione in cui
esistono due parti che hanno un interesse diverso. Ci sono transazioni che non riguardano l’ambito
economico. Ci sono transazioni corrispettive che non hanno dimensione strettamente economica. C’è un
reato che è fatto così: traffico di influenze. Il traffico di influenze è il reato che commette un individuo
quando mette a disposizione di altre persone i propri rapporti nella prospettiva di far ottenere a colui che
ne sarebbe il beneficiario un vantaggio. Le transazioni corrispettive (io do qualcosa a qualcuno e qualcuno
da qualcosa a me) sebbene possano avere natura politico-economica di fatto non passano necessariamente
attraverso un prezzo. Nel traffico di influenze nessuno tira fuori soldi ma stiamo sviluppando una
transazione che porta un’utilità. È un esempio classico che ci permette di capire come il concetto di
transazione sia un concetto molto ampio e sfuggente. Anche nell’ambito del Codice penale del nostro paese
esistono degli istituti in cui l’accusa rappresentata da un giudice dello stato, sviluppa una transazione con la
difesa dell’eventuale imputato attraverso una procedura chiamata patteggiamento. Da una parte
l’imputato accetta la condanna e ilo giudice accetta un ridimensionamento della pena richiesta. In questo
caso non abbiamo nemmeno uno scambio di utilità. Quindi il mondo è dominato dalle transazioni. Dopo di
che la transazione si deve materializzare. Comportamenti transattivi non significa che si arrivi ad una
transazione. Alle volte le transazioni si compiono ma poi non vengono rispettate le regole transattive (es:
vaccini). Qual è l’esperienza umana in cui si realizza il massimo della mancata transazione? La guerra
rappresenta l’esasperazione del concetto. Possiamo fare un esempio di Guerra nel mondo? Israele e
Palestina non è una guerra. Il prof molto maliziosamente dice di no. La struttura militare di Israele è più
performante di quella della Palestina. Esiste un’asimmetria nelle potenzialità. Ma la domanda è: Israele
vuole fare una guerra? E i Palestinesi vogliono farla? In realtà no perché quella non è una guerra. Molti lo
definiscono più come un conflitto. È una questione irrisolta non una guerra. È un conflitto fra due parti. Le
due parti quanti interlocutori hanno? La prima operazione da fare è identificare le parti in gioco. La mappa
è il territorio. sulla mappa esistono luoghi fisici rilevanti. In questa storia quali sono i luoghi fisici rilevanti?
Uno dei territori interessati è la Cisgiordania. Da cosa scaturisce e come comincia questa ennesima puntata
del conflitto istraelino-palestinese? Il casus belli è che gli israeliti vogliono cacciare i palestinesi dal quartiere
di sheik jarrah. Il conflitto inizia molto prima delle Guerre mondiali.

La prossima volta ragioniamo di luoghi e di parti.

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