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L'autore
Avevo in mente un altro libro, anzi non avevo in mente nessun libro.
Quando, quasi dieci anni fa, cominciai a lavorare sull'equazione della
crescita, non pensavo affatto di scrivere qualcosa sull'argomento.
Semplicemente mi ero incuriosito. Mi incuriosiva il fatto che, per tanti
decenni, l'Italia fosse cresciuta di più della media delle altre economie
avanzate, e invece da un po' di anni - più o meno dai primi anni
Novanta del secolo scorso - crescesse di meno, molto di meno. Un
handicap che il mio paese non poteva permettersi, né allora né oggi,
dato l'enorme debito pubblico accumulato nel tempo, un debito che
giusto negli anni della svolta, intorno al 1993-1994, aveva toccato il
120% del PIL.
Mosso da questa curiosità, decisi però di non seguire la strada degli
economisti. Il problema degli economisti, infatti, è che di fronte alle
grandi domande del nostro tempo (l'inflazione negli anni Settanta, la
disoccupazione negli anni Ottanta, il ristagno oggi) non hanno una
risposta, ma ne hanno molte. Troppe, e troppo diverse. E si capisce
anche perché: a seconda della diagnosi, cambia la terapia, e le terapie
non sono mai politicamente neutrali. Se sei di sinistra ti piacciono le
terapie basate sull'espansione dello Stato sociale, quindi sarai
keynesiano. Se sei di destra ti piacciono le terapie basate sulla riduzione
delle tasse, quindi sarai friedmaniano. Se sei liberale ti piacciono le
terapie basate sulla libera iniziativa e la contrazione dell'intervento
statale, quindi sarai hayekiano. E infatti non esiste, in natura, un
economista che abbia idee economiche in contrasto con il proprio
orientamento politico, uno studioso che dica per esempio: io sono a
favore dello Stato sociale, ma mi rendo conto che l'economia funziona
come dice Hayek; o viceversa un soggetto che dica: a me piacerebbe
abbassare le tasse e ridurre la spesa pubblica, ma mi rendo conto che
l'economia funziona come dice Keynes. Miracolosamente, ogni
economista ha le idee economiche che si attagliano alla sua ideologia
politica, come un abito che aderisce perfettamente al corpo di chi lo
indossa. E non occorre essere marxisti o psicologi per intuire in che
direzione viaggi la causalità, se siano cioè le convinzioni teoriche che
influenzano le ideologie, o siano viceversa le ideologie che - come una
calamita - attirano le teorie più coerenti con le convinzioni politiche.
È proprio perché il nesso fra teorie economiche e politiche che ne
conseguono è così stretto che gli economisti, ben più degli altri studiosi
di scienze sociali, appaiono divisi in sette, che essi chiamano scuole. Ed
è per lo stesso motivo che, considerata nel suo insieme, l'economia non
ha una risposta sul problema della crescita, così come la religione non
ha una risposta sul problema della divinità ma ne ha tante quante sono
le religioni.
Ma se la teoria economica non poteva avere la risposta alle mie
curiosità, dove andarla a cercare?
Fuori dalla teoria, più che fuori dall'economia. Nella vita, come nello
studio, le circostanze contano. E le circostanze, nel mio caso, sono che
faccio il sociologo, ho spesso lavorato con economisti, scienziati
politici e psicologi, e insegno una materia che si chiama "analisi dei
dati". Il mio lavoro, in altre parole, è raccogliere dati e analizzarli. Feci
dunque quello che sono abituato a fare. Cominciai a raccogliere dati sul
problema della crescita, certo guidato dalle teorie esistenti, ma senza un
occhio di riguardo per alcuna di esse. In modo alquanto empirico, o
eclettico, senza aderire ad alcun modello o spiegazione preesistente, ma
anche senza escluderne alcuna. Dopotutto, il terreno non era riserva di
caccia esclusiva degli econometrici e degli economisti applicati. Con lo
studio empirico della crescita, specie dopo i fondamentali lavori di
Robert Barro dei primi anni Novanta, si erano cimentate un po' tutte le
discipline sociali, compresa la psicologia. E anche qui i risultati erano
spesso discordanti, ma almeno potevano essere controllati, confrontati,
affinati.
Diversamente da quanto di solito accade in questo genere di studi,
tuttavia, decisi di concentrarmi su un periodo di anni non troppo lungo
e su un ambito di paesi non troppo ampio. La mia domanda iniziale,
infatti, era piuttosto circoscritta. Non volevo scoprire da che cosa, in
generale, dipende la "ricchezza delle nazioni", come in tanti - da Adam
Smith a Richard Lynn - avevano tentato di fare. No, volevo solo
scoprire come mai, nell'ambito delle società avanzate, l'Italia era
passata così repentinamente dai primi posti in classifica agli ultimi.
Inoltre, contrariamente a quanto pensano altri studiosi, non sono affatto
convinto che i meccanismi che governano la crescita siano uniformi,
ossia gli stessi nello spazio e nel tempo. Di qui la scelta di lavorare solo
sulle economie avanzate (gli attuali paesi OCSE, l'organizzazione che
riunisce i paesi più sviluppati) e sull'ultimo periodo di crescita
relativamente lungo e privo di crisi, i dodici anni che vanno dal 1995 al
2007.
Il risultato di questo lavoro, all'inizio condotto sporadicamente, poi in
modo via via più sistematico, è condensato nell'equazione della
crescita, che descrive in che modo, e in che misura, quattro differenti
forze (z1, z2, z3, z4) e una singola "controforza" - il reddito di partenza
y0 - influenzano il tasso di crescita (g) del reddito pro capite di
un'economia:
g = f(y0, z1, z2, z3, z4)
Se, infatti, confrontiamo il tasso di crescita dei primi 7 anni del XXI
secolo (il periodo 2000-2007, dunque pre-crisi) con quello degli ultimi
7 anni del XX secolo (il periodo 1993-2000), possiamo constatare che
la decelerazione del ritmo di crescita dei paesi avanzati fra l'ultimo
decennio del Novecento e il primo del nuovo millennio è un fatto
anteriore alla crisi. Il tasso di crescita degli ultimi anni del secolo scorso
(1993-2000) era del 2,7%, quello dei primi anni di questo secolo (2000-
2007) è dell'1,9%. Come dire che, nel giro di meno di un decennio e
ancor prima della grande crisi, la velocità di crescita dei paesi avanzati
si era ridotta di quasi 1 punto percentuale, perdendo circa 1 / 3 della
propria velocità.4
Possiamo condensare questi fatti elementari dicendo che, considerate
nel loro complesso, le economie avanzate perdono velocità a un ritmo
di circa 1 punto al decennio. Il trend dura da circa mezzo secolo, e
presenta due sole, piccole, anomalie, che si manifestano come
scostamenti dal trend di lungo periodo: gli anni Settanta si situano un
po' al di sotto del trend, gli anni Novanta un po' al di sopra. Detto in
altre parole: cresciamo sempre più lentamente, ma negli anni Settanta la
decelerazione è stata particolarmente drammatica, mentre negli anni
Novanta siamo quasi riusciti a mantenere il ritmo del decennio
precedente. Vedremo alla fine di questo studio quali sono,
verosimilmente, le ragioni di questa piccola anomalia.
Il declino delle società avanzate è preoccupante, perché dura ormai
da mezzo secolo, è molto rapido, e pare progredire con un ritmo
implacabile. Se il trend degli ultimi 50 anni dovesse continuare, quel
che potremmo attenderci nei prossimi 10 è una crescita prossima a zero.
Il quadro si fa però ancora più deprimente per noi se, per un attimo,
distogliamo lo sguardo dalle nostre società, le cosiddette società
"avanzate", e ci volgiamo a tutte le altre. Possiamo chiederci, per
esempio, se anche gli altri paesi, sia quelli poveri sia quelli chiamati
"emergenti", siano stati coinvolti nel trend di rallentamento. È difficile
avere dati completi e affidabili su tutti gli Stati del mondo e per un
periodo di mezzo secolo, ma con i database esistenti qualcosa si può
fare. Se lavoriamo sui paesi del nucleo OCSE e li confrontiamo con gli
"altri" (il gruppo di tutti i paesi non-OCSE per cui abbiamo i dati
completi degli ultimi 50 anni),5 il quadro è piuttosto diverso da quello
delle società avanzate. Per tre decenni, dal 1960 al 1990, il PIL pro
capite degli "altri" (i paesi non-OCSE) è cresciuto a un tasso medio
relativamente stabile,6 prossimo al 2,5%. Poi però, grosso modo in
concomitanza con il decollo della globalizzazione, il loro tasso di
crescita è aumentato sensibilmente, portandosi al 3,2% negli anni
Novanta e addirittura al 5,4% nel decennio scorso, un ritmo
quest'ultimo che l'insieme delle economie avanzate non è mai riuscito a
tenere. Detto in poche parole: mentre la tendenza di lungo periodo delle
economie avanzate è il rallentamento, quella delle economie arretrate è
l'accelerazione.
Possiamo farci un'idea più diretta di questo mezzo secolo di storia
economica se, anziché confrontare i tassi di crescita dei vari decenni,
lavoriamo direttamente sul divario, ossia sul rapporto fra il PIL pro
capite dei paesi OCSE e dei paesi non-OCSE.
Figura 2 - Divario fra le economie avanzate e il resto del mondo
(medie mobili)
È dunque dei paesi ricchi che vogliamo occuparci, perché sono loro -
non i paesi in via di sviluppo - il problema di oggi. Siamo noi, paesi
sviluppati, che abbiamo un problema di sviluppo,1 mentre i paesi "in
via di sviluppo" sono appunto incamminati su quella via. Forse non
suonerà politicamente corretto, ma oggi il problema della teoria della
crescita non è scoprire la miscela giusta per far decollare le economie
arretrate - tale miscela è già stata trovata2 - ma individuare i
"ricostituenti" che consentano alle economie avanzate di tornare a
crescere. Ed è strano, davvero molto strano, quanto lentamente questo
problema si sia fatto strada nella testa degli economisti, delle
organizzazioni internazionali, dei governi. Ancora pochissimi anni fa,
in un libro che è forse la più brillante ricostruzione della storia delle
teorie della crescita,3 David Warsh definiva la riflessione degli
economisti sulla crescita con queste parole:
Una specie di sfida, una sfida fra ricercatori ... per trovare ricette
nuove e pratiche capaci di favorire il decollo dello sviluppo nelle aree
del mondo in cui fino a ora si è fallito.
Era il 2006, ovvero l'ultimo anno prima della crisi dei mutui
subprime (agosto 2007), da cui sarebbe iniziata la più grave crisi
economica mondiale dopo quella del 1929. Eppure il problema che
quella crisi di lì a poco avrebbe reso evidente agli occhi di tutti, il
problema di identificare le forze che possono sostenere la crescita delle
società avanzate, era già sul tappeto da un paio di decenni. Ignorato dai
più, ma comunque evidente per chi avesse voluto notarlo.
Un'evidenza l'abbiamo già raccontata: all'inizio degli anni Novanta il
tasso di crescita delle economie avanzate aveva già percorso un bel
pezzo della sua traiettoria discendente: 4-3-2, ovvero crescita al 4%
negli anni Sessanta, al 3% (scarso) negli anni Settanta, al 2% negli anni
Ottanta. Ma c'era anche un motivo teorico che rendeva evidente
l'esistenza del problema: gli studi empirici sulla crescita avevano
identificato con relativa precisione l'equazione della crescita delle
economie arretrate, ma erano naufragati miseramente sull'equazione
della crescita delle società avanzate. I modelli matematici che
descrivevano accuratamente le forze che potevano spingere o frenare la
crescita nei paesi che ancora non avevano raggiunto elevati livelli di
benessere si scioglievano come neve al sole, se applicati all'insieme
ristretto delle economie avanzate.4
Questo fallimento era già chiaro nei primi anni Novanta, quando
Mankiw, Romer e Weil provarono a usare il modello di Solow per
spiegare le differenze di reddito pro capite fra paesi. L'equazione di
Mankiw, Romer e Weil (MRW, d'ora in poi) riconduceva le differenze
di benessere fra paesi a tre fattori:
a) il tasso di risparmio, che è alla base della capacità di un paese di
fare investimenti in capitale fisico;
b) il tasso di scolarizzazione, visto come un indicatore degli
investimenti in capitale umano;
c) il tasso di crescita della popolazione.
Il tentativo di MRW ebbe successo per i paesi in via di sviluppo, ma
fallì completamente per le economie avanzate. La medesima equazione
che, applicata ai paesi arretrati, si rivelava in grado di predirne piuttosto
accuratamente i tassi di crescita, perdeva ogni capacità predittiva se
applicata alle economie avanzate.
L'insuccesso del tentativo di MRW era tanto più clamoroso se si
pensa che, già allora, l'insieme delle economie più ricche del pianeta era
estremamente differenziato quanto alla capacità di crescere. C'erano
paesi avanzati che, nei decenni precedenti,5 erano cresciuti a ritmi
rapidissimi (sopra il 5%), come la Corea del Sud e il Giappone. E ce
n'erano altri, come la Svizzera e la Nuova Zelanda, che erano cresciuti a
ritmi molto lenti (fra l'1 e il 2%). Insomma: gazzelle e lumache. Fra il
paese più lento, la Nuova Zelanda, e il paese più veloce, la Corea del
Sud, il divario era di circa 1 a 6: appena sopra l'1% la lumaca Nuova
Zelanda, quasi il 7% la gazzella Corea del Sud.
Figura 5 - Tassi di crescita delle economie avanzate nel trentennio
1960-1990
L'equazione al lavoro
Per fortuna ci sono gli statistici. Gli statistici hanno messo a punto
tutta una serie di strumenti con cui è possibile misurare quanto varia un
fenomeno, e quale porzione di questa sua variabilità è attribuibile a
ciascuna delle forze che lo influenzano. Quindi la matassa si può
sgarbugliare.6
Intanto partiamo dall'inizio: le nostre 5 forze, considerate nel loro
complesso, sono in grado di spiegare l'84% della variabilità del tasso di
crescita, e questo lasciando fuori dall'equazione la "sesta forza", ossia
l'accelerazione degli investimenti diretti esteri (con quest'ultima la
variabilità spiegata salirebbe addirittura al 91%).
Consideriamo ora questo 84% spiegato dalle varie forze, e
chiediamoci quale frazione di esso è dovuta a ciascuna delle 5 forze in
campo. Ed ecco la risposta:
Figura 11 - Capacità esplicative delle 5 forze (percentuali di varianza
spiegata)
Il drago-balena
Arrivati a questo punto del nostro viaggio, tre conclusioni sono ben
ferme. Primo: le grandi forze che governano la crescita sono solo
cinque. Secondo: fra le 5 forze che contano, il reddito pro capite è di
gran lunga la forza più importante. Terzo: il segno del coefficiente del
reddito pro capite, di solito indicato con ß (beta), è negativo, il che
indica che più il reddito iniziale è alto più la crescita è lenta.
Che il reddito pro capite entri nell'equazione della crescita con segno
negativo, ossia come una forza frenante, non è una novità. Credo non
esista un solo studio sulla crescita che non abbia confermato questo
risultato. Si potrebbe anzi dire che, con il tempo, questo risultato è
diventato così scontato da costituire una sorta di punto di partenza di
qualsiasi analisi. Chiunque provi a costruire l'equazione della crescita
comincia, innanzitutto, con l'includere nell'equazione una qualche
misura del reddito pro capite di partenza, e si aspetta che ß sia negativo.
È solo dopo questa mossa iniziale che le varie teorie cominciano a
divergere.
Dunque, che un reddito pro capite elevato freni la crescita non è in
discussione. Quel che è in discussione, semmai, è come dobbiamo
interpretare questo risultato, ossia qual è il significato sostantivo del
fatto statistico. Questo è un problema molto interessante, ma anche
estremamente difficile. La teoria statistica è in grado, sotto certe
condizioni, di stabilire se una certa variabile ha un'influenza su un'altra,
ma non può mai - da sola - stabilire che cosa una certa variabile rileva o
misura. Sapere che il reddito pro capite influenza la crescita non ci dice
né attraverso quali meccanismi ciò avviene, né se è davvero il reddito
pro capite la forza che si nasconde dietro quella variabile. Una data
variabile, specie se molto pregnante, può essere una "proxy", ossia un
indicatore o un segnale, di molte e talora assai diverse altre variabili.1
Vale a livello micro, dove la razza di un individuo può essere una proxy
del suo reddito. Ma vale anche a livello macro, dove il reddito pro
capite di un paese può essere una proxy del suo benessere materiale, del
suo grado di civiltà, del suo livello tecnologico, o di qualsiasi altro
insieme di condizioni statisticamente correlate al reddito pro capite.
Fin qui noi abbiamo letto il reddito pro capite nel modo più scontato,
ossia come una misura del benessere o tenore di vita. Si tratta ora di
valutare se questa lettura è ragionevole, e soprattutto di capire in che
modo - ossia attraverso quali meccanismi - un reddito pro capite elevato
è in grado di rallentare la crescita. Non è raro, infatti, incontrare autori
che interpretano il reddito pro capite in tutt'altro modo, ossia non come
una misura del benessere ma come una proxy di variabili
sostanzialmente diverse dal benessere stesso.
Gli autori che si richiamano al modello neoclassico, per esempio,
interpretano un elevato reddito pro capite come segno di un'economia
matura.2 E, come sappiamo, per i neoclassici maturità significa
rendimenti decrescenti, dunque minore crescita della produttività e
conseguente rallentamento della crescita. Per loro non è il benessere in
sé a frenare la crescita, ma è semmai la crescita che porta con sé due
frutti di segno opposto: un migliore tenore di vita, ma anche una sorta
di esaurimento o logoramento della funzione di produzione, che con
l'accumulazione di capitale fisico3 e il connesso aumento del rapporto
capitale / lavoro diventa sempre meno capace di tradurre i nuovi
investimenti in incrementi di output. Visto con le lenti neoclassiche, il
reddito pro capite diventa semplicemente una proxy per l'intensità di
capitale, che è la vera forza che inesorabilmente rallenta la crescita.
Solo apparentemente meno pessimistica è la visione di quanti, dietro
il reddito pro capite, vedono semplicemente una misura di prossimità
alla frontiera tecnologica.4 In breve, il ragionamento è questo: se un
paese usa già le tecnologie migliori, può aumentare la produttività solo
con nuove invenzioni, perché chi è sulla frontiera tecnologica non ha
nessuno da imitare; se invece è lontano da tale frontiera, può accelerare
la crescita semplicemente imitando gli altri, ovvero copiando prodotti e
processi produttivi, importando tecnologia, acquistando licenze. Qui il
reddito pro capite è visto come proxy della vicinanza alla frontiera
tecnologica, una sorta di misura di quanto i processi produttivi di un
paese sono tecnicamente avanzati.
Ho definito pessimistiche queste interpretazioni del reddito pro capite
perché questo libro si occupa del destino delle società avanzate. Ma
naturalmente si potrebbe rovesciare il giudizio ponendosi dal punto di
vista delle economie arretrate, come in effetti fanno la maggior parte
degli studi empirici sulla crescita. In questo caso la preoccupazione
centrale diventa il ritardo dei paesi meno ricchi, e il segno negativo di ß
appare incoraggiante: anziché dire che più si è ricchi meno si cresce, si
può dire che meno si è ricchi e più si cresce. Il segno di ß viene
interpretato come prova di un processo di "convergenza condizionale",
che fa sì che - a parità di altre condizioni, ossia per valori simili di tutte
le altre forze - paesi ricchi e paesi poveri tendano verso un analogo
tenore di vita. E il valore assoluto di ß misura precisamente la velocità
di tale processo: più grande è ß, più è rapido l'avvicinamento di un
paese al suo reddito di equilibrio.5
Come abbiamo già ricordato, il problema centrale della letteratura
sulla crescita è il catching up, la capacità dei paesi poveri di
raggiungere i livelli di benessere dei paesi ricchi, e da questo punto di
vista il valore del parametro ß assume una sorta di significato profetico:
un valore di ß grande e negativo ci rassicura sulla inesorabilità del
cammino dell'eguaglianza.
Se però guardiamo le cose dal punto di vista delle società avanzate, il
quadro si fa meno incoraggiante. In società che crescono sempre più
lentamente, il fatto che il reddito pro capite sia un potente freno alla
crescita non è una buona notizia. Perché il reddito pro capite non
scende dal cielo, ma è un prodotto della crescita stessa, il che crea un
circolo che - se non viene spezzato - è destinato a portarci sempre più
vicini a un regime di stagnazione. Ecco perché è importante capire che
cosa si cela dietro il reddito pro capite.
Ma come possiamo fare?
Una possibile via è di prendere sul serio le interpretazioni per così
dire "tecnologiche" del reddito pro capite. Se davvero il reddito pro
capite misura il grado di maturità tecnologica, l'equazione della crescita
dovrebbe funzionare meglio (o quantomeno non troppo peggio)
sostituendo al reddito pro capite un indice di maturità tecnologica,
come l'intensità di capitale. E se invece quel che il reddito pro capite
misura è la prossimità alla frontiera tecnologica, l'equazione della
crescita dovrebbe funzionare meglio sostituendo al reddito pro capite
indicatori come il numero di brevetti, le spese per ricerca e sviluppo, o
il personale occupato nel settore della ricerca.
In realtà, quel che succede è che - comunque si effettui la sostituzione
- la capacità predittiva dell'equazione della crescita si deteriora
sensibilmente: di circa 15 punti usando l'intensità di capitale, di quasi
20 punti usando il migliore fra gli indicatori di vicinanza alla frontiera
tecnologica.6 Fallite le interpretazioni "tecnologiche", sembra
ragionevole ipotizzare che il reddito pro capite misuri effettivamente il
benessere, o meglio qualche aspetto del benessere che, non sappiamo
ancora precisamente per quali vie, ha la capacità di frenare la crescita.
Quel che ci resta da fare, a questo punto, è capire che cosa - nel
benessere - ha la capacità di rallentare la crescita. Un modo assai
semplice di scoprirlo è di ricorrere alla medesima tecnica di
sostituzione, usando come sostituti del reddito pro capite i principali
aspetti del benessere potenzialmente responsabili di un rallentamento
della crescita. Se, sostituendo al reddito pro capite uno o più di tali
aspetti, l'equazione dovesse reggere, allora saremmo nella condizione di
capire qualcosa di più del meccanismo che si annida nel parametro ß.
Ma di che cosa è fatto il benessere delle società ricche?
Un'analisi empirica degli indicatori del benessere mostra che gli
ingredienti fondamentali che caratterizzano le società più ricche e
progredite sono almeno quattro:
a) un costo del lavoro elevato, che si riflette in buoni salari e stipendi;
b) uno scarso ricorso all'economia sommersa, con il suo corredo di
lavoro nero, basse retribuzioni, sfruttamento;
c) una buona qualità dell'assistenza sanitaria, e quindi una
popolazione in buona salute;
d) un elevato tasso di istruzione della popolazione.
E, in effetti, un elementare controllo statistico conferma che, una
volta noti questi elementi, il reddito pro capite reale (a parità di potere
d'acquisto) può essere predetto in modo molto accurato.7 Per capire
meglio perché il benessere frena la crescita, possiamo dunque provare a
riscrivere l'equazione della crescita sostituendo al reddito pro capite -
che è una variabile black box, concettualmente muta - i suoi ingredienti
costitutivi, ossia il costo del lavoro, l'ampiezza dell'economia sommersa
e la qualità dell'assistenza sanitaria (il tasso di istruzione della
popolazione può essere trascurato, perché entra già nell'equazione della
crescita come capitale umano).
Il risultato è sorprendente: la capacità predittiva dell'equazione resta
praticamente invariata,8 e i tre aspetti del benessere entrano tutti in
modo statisticamente significativo nell'equazione.
Tabella 3 - Aspetti del benessere che influenzano la crescita
Effetto sulla crescita
Costo nominale del lavoro
Economia sommersa
Mortalità infantile
-0,79
+0,31
+0,27
I segni e i moduli dei coefficienti ci aiutano a capire che cosa può
frenare e che cosa può favorire la crescita. L'elemento più importante è
il costo del lavoro che, ovviamente, esercita un effetto negativo (-0,79),
in quanto aumenta i costi di produzione e riduce la competitività. Meno
immediata è l'interpretazione degli altri due effetti: sia l'economia
sommersa sia la mortalità infantile paiono favorire la crescita.9 Perché?
Per capirlo, bisogna chiedersi quali sono le condizioni che
tipicamente si accompagnano a un'estesa economia sommersa e a
un'elevata mortalità infantile. Si potrebbe pensare che tali condizioni
siano solo le classiche condizioni di ipersfruttamento della
manodopera: imprese che sottopagano gli operai e violano le norme in
materia di sicurezza del lavoro, evasione fiscale e contributiva, ampie
fasce di popolazione che vivono in condizioni di povertà estrema. Se
però pensiamo a come si viveva e si lavorava negli anni Cinquanta in
molte società occidentali, o a come si vive e si lavora oggi in molte
società dell'Est europeo, è difficile non aggiungere un altro tassello al
quadro dell'arretratezza. Le società meno ricche, ma in transizione
verso il benessere, sono società che - proprio perché le condizioni di
partenza sono dure - esprimono una fortissima spinta individuale e
collettiva all'automiglioramento. Sono società nelle quali la
disoccupazione non è quasi mai volontaria (ossia dovuta al fatto che si
rifiutano i lavori "bassi" o inadeguati), i sacrifici sono la norma, il
risparmio è ampio ma la ricchezza è ancora modesta, l'assenteismo è
contenuto, l'impegno lavorativo è massimo, al limite dello
stakanovismo. E, last but not least, sono società giovani, in cui la
maggior parte della popolazione lavora o aspira a trovare
un'occupazione. Non è sorprendente che in tali condizioni la crescita
abbia una marcia in più.
Ed ecco che cominciamo a mettere a fuoco il puzzle della crescita. La
crescita, poco per volta, aumenta il benessere. Il benessere, a sua volta,
"toglie", una per una, le condizioni che hanno consentito alla crescita di
dispiegarsi: un basso costo del lavoro, una scarsa regolamentazione
dell'attività economica, una disponibilità al sacrificio dei lavoratori, sia
dipendenti sia autonomi (si pensi ai contadini e agli artigiani di un
tempo), un'età media relativamente bassa. Di qui quello che, in
cibernetica, si chiama un "feedback negativo", o circuito di retroazione:
Figura 13 - Retroazione del benessere sulla crescita
ASSUNTI COMUNI
Assunto 1. Il prodotto Y, ossia il reddito nazionale o output
dell'economia, si divide in consumo e investimento: Y = C + I.
Assunto 2. Le dimensioni del prodotto Y (quanto reddito si produce)
dipendono dalle quantità di lavoro (L) e di capitale (K) immesse nel
processo produttivo: Y = f(K, L).
Assunto 3. La funzione di produzione f(K, L), ossia la tecnologia con
cui si produce, è "omogenea di grado 1".Si tratta di un assunto un po'
tecnico, che in sostanza significa questo: se si raddoppiano, triplicano,
quadruplicano, entrambi i fattori produttivi (ossia il capitale K e il
lavoro L) l'output a sua volta raddoppia, triplica, quadruplica. Si può
anche dire che i rendimenti di scala (da non confondersi con la
produttività marginale dei singoli fattori) sono costanti.8
Assunto 4. Ogni anno lo stock di capitale preesistente diminuisce di
una frazione costante (d), per esempio del 5%, ossia si logora e si
deprezza.
Assunto 5. Ogni anno una frazione costante (s) del prodotto Y viene
risparmiata e investita, e va quindi ad aumentare lo stock di capitale.
Assunto 6. La forza lavoro cresce a un tasso costante (n) e viene
completamente utilizzata nel processo produttivo.
Assunto 7. La funzione di produzione è una Cobb-Douglas:
Y = A Ka L(1 - a)
Siamo entrati, come si vede, nel regno dei "modelli AK", che si
chiamano così proprio perché si basano sull'assunto di stretta
proporzionalità fra capitale e prodotto, dove Y è il prodotto, K è il
capitale, e A è la costante di proporzionalità che li collega,
trasformando il capitale in prodotto. Nelle economie moderne l'ordine
di grandezza di tale costante, talora denominata "output-capital ratio"
(rapporto fra valore dell'output e reddito) è tipicamente compresa fra 1 /
2 e 1 / 3, il che in concreto significa che ci vogliono da 2 a 3 unità di
capitale per produrre 1 unità di reddito.16
Una funzione del genere dice che, se aumento lo stock di capitale -
poniamo - del 7%, anche l'output prodotto aumenterà del 7%. È come
affermare che, ai fini della produzione, conta solo il capitale e non il
lavoro. Non importa quanto lavoro entra nel processo produttivo, conta
solo quanto capitale viene immesso o, se preferite, con quanto capitale
è equipaggiata ogni unità di lavoro. Un modo molto semplice ed
elegante di arrivare al modello AK è di partire dalla funzione di
produzione Cobb-Douglas (quella del modello di Solow) e attribuire al
parametro a, che misura l'importanza relativa del capitale, il valore
limite di 1 (vedi box).17
Non resta, a questo punto, che rifare i calcoli e vedere che cosa
succede. Si tratta, cioè, di ripetere esattamente il procedimento seguito
da Solow nel suo articolo del 1956, usando però la più semplice
funzione AK al posto della più complessa funzione Cobb-Douglas.
Ebbene, il risultato è di una sconcertante semplicità. L'equazione che
descrive la legge di movimento del reddito pro capite, o benessere,
assume una forma semplicissima:18
gt = B + D = costante
L'equazione di Chapman-Richards
Sì, nel luna park dei demografi esiste almeno un modello capace di
generare entrambi i tipi di curve, quella pessimistica e quella
ottimistica. Non solo, ma tale modello è così generale e flessibile che,
come casi speciali, è in grado di generare non solo le curve di Solow e
di Romer, ma anche le curve "miste" Romer-Solow (equazione di
Verhulst e simili) e Solow-Romer (equazione anti-Verhulst e simili),
nonché infinite forme intermedie fra i vari tipi di curve (vedi figura 19).
Per curva di Solow intendiamo una curva concava pura (senza punti
di flesso). Per curva di Verhulst intendiamo una curva sigmoide, non
necessariamente dotata di un asintoto inferiore.1 Per curva di Romer
intendiamo una curva convessa pura (senza punti di flesso). Per curva
anti-Verhulst intendiamo una curva "tangentoide", che va all'infinito ma
ha un punto di flesso. È il caso di notare fin d'ora che esistono vari tipi
di curve della famiglia Verhulst (simmetriche e non, con o senza
pavimento, ma tutte con un soffitto), e che l'equazione di moto del
modello di Solow può generare sia una curva di tipo concavo (curva di
Solow) sia una curva di tipo sigmoide (curva di Verhulst). Quel che
accomuna le due curve è che nel tratto finale sono entrambe curve di
Solow, con la concavità rivolta verso il basso.
Figura 19 - Le quattro curve fondamentali
Ancora Solow
La prima cosa che salta all'occhio è che il "destino" dei vari tipi è
decisamente diverso. In alto i paesi con buoni fondamentali (tipi
Estonia e Svezia) che - nel lunghissimo periodo - paiono puntare verso
un reddito pro capite che sfiora i 100.000 dollari. Più in basso i paesi
ricchi con cattivi fondamentali (tipo-Giappone), che tendono a
convergere verso redditi decisamente più bassi, dell'ordine di 70.000
dollari. E infine, più in basso ancora, i paesi poveri con pessimi
fondamentali (tipo-Cile), che mediamente possono aspirare a redditi
dell'ordine di 50.000 dollari.
C'è un altro aspetto del diagramma y-t che vale la pena sottolineare:
le traiettorie si intersecano in più punti. Questo vuol dire che un paese
povero non solo può raggiungere un paese ricco ma può superarlo, se i
suoi fondamentali sono migliori: è quanto succede, sia pure di poco,
nella corsa del tipo-Svezia e del tipo-Estonia, con quest'ultimo che - pur
partendo da molto più in basso - tende a un reddito finale leggermente
superiore a quello del primo. Ed è quel che, molto più clamorosamente,
pare verificarsi nella rincorsa del tipo-Estonia verso il tipo-Giappone:
se le tendenze del periodo 1995-2007 fossero rimaste invariate dopo il
2007, e tali permanessero nei prossimi decenni, il tipo-Estonia
raggiungerebbe e supererebbe il tipo-Giappone prima del 2050.
Queste intersezioni fra traiettorie sono una logica conseguenza della
struttura dei modelli alla Solow: il sistema tende indefinitamente verso
il suo reddito di arresto, ma quale sia questo reddito di arresto non
dipende in alcun modo dal reddito iniziale ma soltanto dalla qualità dei
fondamentali. Con il linguaggio degli studi sulla crescita: non c'è s-
convergenza, perché i vari paesi tendono verso stati finali diversi; c'è
però ß-convergenza, perché due paesi con i medesimi fondamentali
convergono verso il medesimo livello finale di benessere.
Usare l'equazione della crescita per guardare al futuro lontano di un
paese (o di un gruppo di paesi) non è però l'unico modo per capirne la
dinamica. Oltre al futuro remoto, ci sono anche il passato e il futuro
prossimi. Più esattamente, ogni processo di sviluppo che segue
l'equazione della crescita può essere caratterizzato mediante il suo
apogeo e il suo reddito di stagnazione. L'apogeo è il punto della sua
traiettoria in cui la crescita raggiunge la sua velocità massima, per poi
iniziare a decelerare. Il reddito di stagnazione è il livello di reddito pro
capite superato il quale la crescita scende sotto l'1% annuo. Si potrebbe
dire che apogeo e reddito di stagnazione permettono di definire sia il
momento in cui un paese raggiunge la maturità (apogeo), sia il punto in
cui inizia la sua vecchiaia (ingresso in stagnazione).
Lo strumento chiave per individuare l'apogeo è il diagramma d-t
(figura 28), che mostra come varia nel tempo la velocità di crescita.
Figura 28 - Quattro tipi di paesi: evoluzione degli incrementi di
reddito
Fin qui abbiamo sempre ignorato, volutamente, gli anni della grande
recessione, ovvero il periodo che va dal 2007 al 2013. Quel che ci
interessava, infatti, non era costruire una spiegazione della crisi, un
compito che inevitabilmente divide gli studiosi.1 Più semplicemente
volevamo capire se, almeno per le società avanzate e almeno per
l'ultimo periodo di aumento sostenuto del reddito pro capite (1995-
2007), era possibile individuare le forze fondamentali che governano la
crescita. E il risultato della nostra analisi non è stato dei più
incoraggianti: per crescere occorrono buoni fondamentali economici,
ma la crescita, nella misura in cui genera benessere, ha in sé stessa la
forza che tende a spegnerla.
Dunque la crisi del 2007-2013 non ha invertito una tendenza
ascendente, ma ha accelerato un declino. All'inizio del terzo millennio,
mentre il resto del mondo cresceva a ritmi sempre più sostenuti, le
economie dei paesi più ricchi stavano già rallentando il passo. La crisi
ha solo fatto precipitare le cose.
E ora?
Ora gli osservatori sono divisi. I politici, comprensibilmente,
promettono il ritorno della crescita. Si dividono sulle ricette per uscire
dalla recessione, le cosiddette "exit strategy", ma sono concordi nel
prospettare un ritorno più o meno rapido alla crescita. La credenza in un
ritorno della crescita è una necessità politica, specie per i governanti,
perché gli elettori non gradiscono un futuro di stagnazione, ma è anche
una necessità economica, perché molti paesi sono pesantemente
indebitati con l'estero, e solo un ritorno alla crescita consentirà loro di
pagare i debiti accumulati negli anni, evitando il fallimento.
Le menti degli economisti sono un po' più libere. La maggior parte di
essi pensa che per tornare a crescere basti mettere in atto le politiche
economiche appropriate, anche se non sono affatto d'accordo fra loro su
quali esse siano. Alcuni vogliono più spesa e più deficit, altri più
austerità per rimettere in ordine i bilanci, altri meno tasse sui produttori,
altri più regole (specie sulla finanza), altri soprattutto liberalizzazioni e
riforme strutturali.
Un piccolo drappello di economisti, invece, si va convincendo che
l'era della crescita sia definitivamente tramontata, e che i paesi più
ricchi, in particolare gli Stati Uniti, stiano entrando in un'era di
stagnazione.
È questa l'idea esposta, per esempio, da Tyler Cowen nel suo
fortunato pamphlet The Great Stagnation (pubblicato come e-book
all'inizio del 2011), o da Niall Ferguson nel suo libro The Great
Degeneration, una spietata ricostruzione storica della decadenza delle
istituzioni economiche dell'Occidente. Ma è anche la tesi di un accurato
lavoro accademico di Robert Gordon, uscito come working paper nel
2012 con il titolo Is US Growth Over? Faltering Innovation Confronts
the Six Headwinds.
L'idea base di Gordon è che la crescita, intesa come aumento costante
del reddito pro capite, sia un fenomeno storico circoscritto, durato circa
250 anni, fra il 1750 e i primi anni Duemila. Prima, nei secoli - se non
nei millenni - anteriori al 1750, la crescita era lentissima o inesistente.
E così sarà in futuro, quando saremo usciti dalla grande recessione.
L'era della crescita è una parentesi, una piccola parentesi nella storia
dell'umanità.
Anche Gordon, come noi in questo lavoro, giunge alle sue
conclusioni prescindendo dalla crisi del 2007-2013. La sua analisi,
tuttavia, è limitata agli Stati Uniti, ossia al paese situato sulla frontiera
dell'innovazione tecnologica, e si focalizza su un'unica variabile
fondamentale: il ritmo del progresso tecnico. Secondo Gordon la
crescita sostenuta degli ultimi 250 anni, un processo che ha coinvolto
non solo gli Stati Uniti ma buona parte delle economie occidentali, è il
risultato di tre grandi impulsi, ricevuti da altrettante "rivoluzioni
industriali": la rivoluzione dell'acciaio e delle ferrovie (1750-1830), la
rivoluzione delle grandi innovazioni come elettricità, motore a scoppio,
acqua corrente nelle case (1870-1900), la rivoluzione dei computer e
delle telecomunicazioni (1960-2000).
Secondo Gordon, non solo l'ultima rivoluzione è molto meno incisiva
delle altre due, ma anche il progresso tecnico futuro sarà di entità
limitata, per almeno due ragioni di fondo. Primo: in molti ambiti, per
esempio la velocità dei trasporti, è difficile concepire miglioramenti
sostanziali. Secondo: la maggior parte delle innovazioni degli ultimi
anni, per esempio i gadget elettronici, hanno un impatto assai modesto
sulla qualità della vita. Una tesi, quest'ultima, che Gordon illustra con
un esempio molto efficace: fra le cose inventate dopo il 1970 non ve n'è
neppure una per la quale si sarebbe disposti a rinunciare all'acqua
corrente nelle case, una delle grandi innovazioni della seconda
rivoluzione industriale (1870-1900).
C'è poi un terzo modo di vedere le cose, dopo quello dei politici e
quello degli economisti, che si deve soprattutto a sociologi, letterati,
filosofi, o economisti attratti dalla filosofia. Per alcuni la grande
recessione del 2007-2013, più che un dramma da superare, è
un'occasione da cogliere, una sorta di opportunità unica di riflessione
collettiva. Forse, anziché chiederci come tornare a crescere, dovremmo
cominciare a pensare che siamo cresciuti troppo (così Serge Latouche,
il guru della "decrescita felice"), o semplicemente che siamo cresciuti
"abbastanza", come sostengono in uno splendido libro - How Much is
Enough? - Robert e Edward Skidelsky.2 Qui la domanda fondamentale
è: come mai, nonostante lo spettacolare aumento del prodotto per
occupato, continuiamo a lavorare tanto? Perché non si è realizzata la
profezia di Keynes,3 che immaginava una diminuzione continua del
tempo di lavoro, e un corrispondente aumento del tempo libero?
Su questa lunghezza d'onda si muovono in molti. È una linea di
pensiero che riprende idee della filosofia morale, come il concetto di
"vita buona" di Aristotele, racchiuso soprattutto nell'Etica nicomachea.
Questa visione del mondo, che contrappone la vita contemplativa a
quella attiva, la ricerca disinteressata della verità al perseguimento
dell'utile, si ritrova energicamente difesa nel libro di Robert e Edward
Skidelsky, ma riappare anche in altre forme, per esempio nella critica
romantica e comunitaria alla logica del mercato, un fiume carsico
sempre esistito e sempre riemergente, ma che ha tratto speciale vigore
dalla globalizzazione prima (dalla fine degli anni Ottanta), e dal suo
presunto fallimento poi, ovvero a partire dal 2007. Ne sono testimoni,
in Europa, autori come il filosofo-sociologo polacco Zygmunt Bauman,
instancabile censore della modernità e della mercificazione; e in
America i pensatori del filone comunitario, come il filosofo morale
Michael Sandel, autore di una importante opera antiliberale e
neoaristotelica sulla teoria della Giustizia (Justice: What's the Right
Thing to Do?), nonché di un libro contro il mercato, significativamente
intitolato: What Money Can't Buy: The Moral Limits of Markets.
Vista da questa angolatura, la crisi del 2007-2013 si presenta
soprattutto come un'occasione mancata. In una recente intervista
rilasciata al quotidiano "la Repubblica",4 per esempio, Sandel si
dichiara deluso che lo shock della crisi non abbia insegnato niente:
Anch'io ho creduto che [la crisi] poteva segnare la fine della fiducia
acritica nei mercati. Invece c'è stata solo una discussione molto angusta
sulle regole della finanza. Non abbiamo avuto un dibattito pubblico su
un tema fondamentale: in che misura i mercati servono l'interesse
generale. Il potere del pensiero mercatista, la sua forza anche
nell'immaginazione popolare, non si limita alla convinzione che il
mercato crea benessere. C'è di più: lo associa a un'idea di libertà. È un
inganno. ... Abbiamo bisogno di un vigoroso dibattito pubblico che
affronti il significato di una vita buona, ne abbiamo bisogno eticamente.
Personalmente, trovo che vi sia molto di ragionevole nella critica
romantica alla logica del mercato, e che il revival aristotelico in
filosofia morale non sia né casuale né ingiustificato. Che il nostro modo
di vita abbia da tempo, e ben prima della crisi, imboccato una strada
pericolosa è abbastanza evidente, e diventa del tutto chiaro appena
alziamo la testa sopra l'orizzonte delle nostre società opulente
(Galbraith), omologate (Marcuse), consumiste (Baudrillard), e in
definitiva "arrivate".5 Lo ha fatto di recente il grande geografo e
antropologo Jared Diamond in uno straordinario libro intitolato Il
mondo fino a ieri, che mostra in modo plastico, attraverso un confronto
fra i modi di vita di decine di comunità, grandi e piccole, moderne e
tradizionali, quante cose le società avanzate abbiano da imparare (oltre
che da insegnare) rispetto a quelle arretrate, e quanto le prime risultino
eccentriche, specialissime, per non dire strane, o WEIRD, una parola
inglese che è anche l'acronimo di Western, Educated, Industrialized,
Rich, Democracies. E anche nella letteratura non mancano i ritratti
critici del nostro modo di vivere, di studiare, di lavorare, di consumare,
di competere.6
C'è un punto, tuttavia, in cui la critica romantica del mercato non mi
convince, ed è la sua generalità, o forse sarebbe meglio dire il suo
carattere generico e sommario. Dire che la crescita è finita, il mercato
ha fallito, e che dobbiamo fare tesoro di questo fallimento per ripensare
i nostri modi di vita, è un modo semplicistico di vedere le cose.
Intanto non è vero che il mercato abbia fallito, o meglio non è vero
per tutti. Negli ultimi 25 anni, dalla caduta del Muro di Berlino a oggi,
la globalizzazione dei mercati ha permesso ad alcuni miliardi di
persone di uscire dalla miseria. E anche negli anni della crisi, il resto
del mondo (tutte le economie eccetto quelle "avanzate" dei 34 paesi
OCSE) ha continuato a crescere a un ritmo sostenuto, superiore al 3%
annuo. La crisi e la sua durata, in altre parole, non sono un problema
del mercato in generale, bensì delle società avanzate. Sono i paesi
OCSE che sono rimasti intrappolati nella crisi e stentano a uscirne.
Ma neppure questo è del tutto esatto. Dopo la prima recessione,
quella del 2008-2009, e nonostante la ricaduta del 2011 (il temuto
double dip, o "doppio tuffo"), la maggior parte dei paesi OCSE ha
ripreso a crescere, sia pure a un ritmo minore che in passato. Nel
quadriennio 2010-2013 il PIL pro capite di Turchia, Estonia e Cile è
cresciuto a un ritmo prossimo al 4.5%, quello di Corea, Slovacchia,
Polonia intorno al 3%, quello di Germania, Giappone, Israele, Svezia,
Messico intorno al 2%, quello di Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda,
Canada, Austria, Svizzera sopra l'1%. Si tratta di 17 paesi in tutto, la
metà esatta dei paesi OCSE, che non sono in stagnazione.
Il problema, dunque, riguarda i restanti paesi OCSE, i quali si
dividono nitidamente in due gruppi: 11 paesi in stagnazione, che
crescono ma a un ritmo inferiore all'1%, e 6 paesi in recessione
permanente, che negli ultimi quattro anni hanno avuto un tasso di
crescita negativo (minore di -0,5%). Questo significa che il problema
vero, l'incapacità di uscire dalla trappola della crisi, riguarda
essenzialmente una piccola frazione delle economie avanzate, che a
loro volta rappresentano una piccola frazione delle economie coinvolte
nei processi di globalizzazione. I paesi "intrappolati", in definitiva,
sono solo i 4 PIGS "mediterranei" (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna)
più 2 piccoli paesi europei, la Slovenia e il Lussemburgo.
Che cosa hanno in comune i 6 paesi intrappolati?
Non certo il livello del reddito, nel gruppo ci sono infatti paesi ricchi
(Lussemburgo e Italia) e paesi poveri (Portogallo e Slovenia). E
neppure la qualità dei fondamentali economici (quelli della Slovenia
sono buoni, quelli dell'Italia sono cattivi). L'unico elemento comune ai
6 paesi è il fatto che all'inizio della crisi (2008) facevano già tutti parte
dell'eurozona, una caratteristica condivisa con i tre più lenti fra gli 11
paesi in stagnazione, ossia Olanda, Belgio e Irlanda. In breve: i 9 paesi
OCSE a crescita più lenta (negativa o vicinissima a zero) sono tutti
nell'eurozona, mentre nessuno dei 9 paesi a più alta crescita ne fa parte.
Sembrerebbe, dunque, che dopo il 2007 nell'equazione della crescita
di un paese abbia fatto irruzione una nuova variabile, che prima non
contava affatto: avere o non avere una Banca centrale nazionale o, il
che è lo stesso, stare fuori o dentro l'eurozona. E in effetti le cose
stanno proprio così. Negli ultimi 4 anni di crescita pre-crisi (2004-
2007) i paesi con l'euro e quelli senza erano divisi da un gap di crescita
di circa 0,4 punti (a favore dei paesi non euro), nel quadriennio 2010-
2013 il gap si è allargato enormemente, portandosi a oltre 2 punti.
Si potrebbe supporre che questo risultato dipenda da un unico paese
dell'euro, la Grecia, il cui tasso di crescita ha avuto un vero e proprio
tracollo (-5,6% all'anno negli ultimi 4 anni), o che le differenze di
crescita fra paesi euro e non-euro siano in realtà dovute ad altre
variabili che influenzano la crescita, come il livello di benessere e la
qualità dei fondamentali economici. Ma non è così: ristimando
l'equazione della crescita limitatamente al quadriennio 2010-2013,
l'effetto euro permane: la crescita dipende positivamente da buoni
fondamentali (specialmente la qualità delle istituzioni di mercato), ed è
ostacolata sia dal benessere sia dall'appartenenza all'eurozona.7
Quest'ultima variabile, l'appartenenza all'eurozona, verosimilmente
altro non è che una rozza misura del rischio di mancata restituzione dei
debiti, pubblici e privati. Se un paese appartiene all'eurozona e non ha
buoni fondamentali, viene percepito come potenzialmente insolvente,
perché dietro di esso non vi è una Banca centrale pronta a fungere da
prestatore di ultima istanza. Di qui la pressione congiunta di mercati e
istituzioni europee perché il paese stesso riduca deficit e debito, di qui
le politiche di austerità, di qui una permanenza più lunga nel limbo dei
paesi in decrescita.
Quindi, ricapitolando: il resto del mondo continua a crescere, anche
le società avanzate (i paesi OCSE) hanno ripreso più o meno
faticosamente a farlo, restano indietro solo un piccolo numero di paesi
europei, affetti da mali di diversa natura ma tutti accomunati dalla loro
appartenenza all'eurozona.
Dobbiamo concludere che l'era della crescita non è affatto finita?
Non esattamente. Il fatto che la maggior parte dei paesi del mondo sia
sostanzialmente fuori dalla recessione non cancella il fatto che il tasso
di crescita delle economie avanzate risulta sempre più lento. Nei primi
3 anni del decennio attuale, dal 2011 al 2013, l'insieme dei 34 paesi
OCSE è cresciuto a un tasso medio annuo dello 0,9%, che è già un
ritmo di stagnazione. Dieci anni prima, nel triennio 2001-2003,
cresceva a un ritmo circa doppio, pari all'1,7%, il che pare confermare
l'osservazione con cui abbiamo aperto questo libro: il tasso di crescita
delle economie avanzate diminuisce di circa 1 punto ogni decennio.8
Vista in questa prospettiva, la stagnazione attuale non appare il frutto
imprevisto di una crisi durata troppo a lungo, ma l'esito finale di un
processo iniziato oltre mezzo secolo fa, tra la fine degli anni Cinquanta
e l'inizio degli anni Sessanta. La vera novità, rispetto agli anni pre-crisi,
è che ora le economie avanzate appaiono molto più polarizzate che in
passato: la crisi ha lasciato sostanzialmente invariata la tendenza al
declino delle economie avanzate considerate nel loro insieme, ma ha
aumentato fortemente la divaricazione, al loro interno, fra paesi euro e
paesi non-euro.9 Forse, più che chiederci quando usciremo dalla crisi,
dovremmo domandarci se non ne siamo già usciti, e se la ragione per
cui continuiamo a pensarci dentro di essa è che eravamo abituati a tassi
di crescita sensibilmente superiori. Quando il tasso di crescita medio di
un gruppo di paesi relativamente eterogeneo scende al di sotto dell'1%,
è fisiologico che vi sia sempre qualche paese in recessione, e diventa
difficile distinguere fra recessione, crescita zero e stagnazione.
Detto ancora più crudamente. Per paesi come Grecia, Spagna, Italia,
Portogallo ha perfettamente senso chiedersi quando usciranno dalla
recessione, perché la loro crescita è da anni negativa, ma per la maggior
parte dei paesi OCSE la vera domanda è un'altra: torneranno mai ai
ritmi di crescita del passato?
XV
La deriva signorile
È qui, quando ci si interroga sul futuro dei paesi arrivati, che diventa
importante la diagnosi sulla malattia che affligge tante economie
avanzate. La crisi del 2007-2013 è davvero il segno di un fallimento del
mercato, come pensano i critici del capitalismo? E la stagnazione che
pare attenderci è davvero la logica conseguenza di un esaurimento del
progresso tecnico, come sembrano suggerire le analisi storiche
dell'economista Robert Gordon?
Sono domande cui non si può rispondere in poche righe, e forse
neppure in tante. Quel che mi sento di dire, tuttavia, è che la nostra
ricostruzione dell'equazione della crescita suggerisce una diagnosi un
po' diversa dalle precedenti.
La tesi del fallimento del mercato, che vede l'origine della crisi
nell'esplosione delle diseguaglianze e nello strapotere della finanza, non
sembra fare adeguatamente i conti con due dati di fatto.
Primo. Negli ultimi decenni la diseguaglianza è indubbiamente
aumentata all'interno di diverse economie avanzate, e segnatamente
negli Stati Uniti, ma in altre è diminuita, per esempio in Francia,
Spagna, e Turchia, giusto per menzionare alcuni grandi paesi europei.1
Se consideriamo il complesso dei paesi OCSE per cui sono disponibili
serie storiche sufficientemente lunghe e affidabili, il saldo resta incerto,
specie se consideriamo la diseguaglianza complessiva (misurata
dall'indice di Gini) e non solo, come da qualche tempo è diventato di
moda, la quota di reddito nazionale di cui si appropria l'1% più ricco
della popolazione. Una misura, quest'ultima, che descrive un aspetto
parziale del fenomeno - la formazione di un ceto di super-ricchi - ma
che in diverse società avanzate è controbilanciato da tendenze che
vanno nella direzione opposta (non si spiegherebbe, altrimenti, la
costanza o addirittura la diminuzione dell'indice di Gini che si osserva
in parecchi paesi).
Secondo. I mercati finanziari hanno indubbiamente colpito
l'economia mondiale nel suo insieme, se non altro perché la
globalizzazione ha reso fortemente interdipendenti le economie di tutto
il mondo, ma dopo la grande recessione del 2008-2009 a soffrire per le
intemperanze dei mercati finanziari sono stati i medesimi paesi -
Irlanda più i 4 PIGS mediterranei - che proprio sulla generosità (o sulla
miopia?) dei mercati finanziari, avevano fondato la loro crescita dagli
anni Novanta in poi. La corsa di Irlanda e Spagna è stata finanziata con
i bassi tassi di interesse sul mercato immobiliare, quella della Grecia,
del Portogallo e dell'Italia con i tassi di interesse "tedeschi" sui titolo di
Stato. Forse, se un rimprovero si può rivolgere ai mercati finanziari non
è quello di avere fermato la crescita drogata di alcune economie
periferiche ma, semmai, è quello di essersi fidati troppo a lungo di paesi
che stavano crescendo sul debito.
Quanto agli altri paesi, che hanno surplus commerciali, conti pubblici
in ordine, fondamentali economici a posto, valute nazionali, o qualche
combinazione di questi punti di forza, essi non sembrano soffrire
particolarmente per le bizzarrie e gli eccessi della finanza. Insomma: la
speculazione e i mercati finanziari non attaccano tutti, ma solo i paesi
vulnerabili. Che a loro volta sono tali non già perché la politica è stata
sopraffatta dal mercato, ma perché la politica non ha fatto il suo
mestiere, che nell'era della globalizzazione è quello di rendere il proprio
paese in grado di competere con gli altri.2
Ma anche la tesi della stagnazione come esaurimento del progresso
tecnico non sembra fare completamente i conti con la realtà. Vediamo
perché.
Chiunque studi l'equazione della crescita trova una relazione negativa
fra PIL pro capite e tasso di crescita. Chi è più ricco meno cresce. Ma
come si interpreta questa relazione?
Abbiamo visto che, secondo l'interpretazione standard, il livello del
PIL pro capite andrebbe letto come una misura di prossimità alla
frontiera tecnologica, ossia come un indicatore della capacità di
innovare i processi produttivi e inventare nuovi prodotti. Di qui una
conseguenza a prima vista sorprendente: essere lontani dalla frontiera
tecnologica, essere "arretrati", conferisce un insperato vantaggio ai
paesi inseguitori, perché li pone in condizione di copiare prodotti,
importare tecnologie, imitare processi produttivi e assetti istituzionali, il
che li porta a crescere a una velocità maggiore di quella che ha
permesso ai paesi ricchi di conseguire il proprio benessere. Vista
dall'angolatura dei paesi poveri, la globalizzazione è quel processo che
permette loro di "bruciare le tappe", percorrendo in pochi decenni una
strada che ai paesi di prima industrializzazione è costata un paio di
secoli.
Ma questa lettura, come abbiamo argomentato nel capitolo sul drago-
balena, non è priva di difficoltà. Diversi indizi empirici fanno ipotizzare
che il reddito pro capite funzioni nell'equazione della crescita non già
perché misura la distanza dalla frontiera tecnologica ma perché riflette
altre condizioni che ostacolano la crescita. Fra queste: un elevato costo
del lavoro, un alto livello di regolamentazione dell'economia,
un'ipertutela dei consumatori, una scarsa spinta della popolazione al
sacrificio e al miglioramento delle proprie condizioni di vita. Tutte
condizioni che, da oramai molto tempo, distinguono i paesi OCSE
arrivati dai paesi inseguitori, o paesi catching up.
La teoria del rallentamento del progresso tecnico, in altre parole,
sembra ignorare che gli aumenti del PIL per abitante non dipendono
solo dalle tecnologie adottate, ma anche - se non soprattutto - dalla
spinta (si può dire così?) che gli abitanti di un paese intendono
imprimere alle loro vite. È innanzitutto tale spinta che è venuta a
mancare nei paesi ricchi, più o meno vicini alla frontiera tecnologica.
Negli ultimi trent'anni, con la globalizzazione dei mercati e delle
comunicazioni, il mondo è molto cambiato, e il cambiamento ha
profondamente inciso sui paesi ricchi. Ne ha modificato le economie,
ma anche la cultura, la mentalità, i costumi.3
Nei paesi arrivati, o paesi WEIRD, il benessere di base delle famiglie,
fatto di alti redditi e cospicui patrimoni accumulati lungo le
generazioni, è oggi così ampio che consente un'attitudine verso lo
studio, il lavoro e il guadagno del tutto diversa dal passato, e comunque
diversa da quella dei paesi inseguitori. Nessuna società ha ancora
risolutamente imboccato la strada immaginata da Keynes, quella di una
drastica riduzione del tempo di lavoro a favore del tempo libero, ma
qualcosa sta già andando, anzi è già andato, in quella direzione. Se, per
esempio, anziché l'orario di lavoro in una giornata-tipo (tuttora di circa
8 ore) consideriamo il quantum di lavoro erogato dal cittadino medio
nell'arco della sua vita, non possiamo non notare che la quota di tempo
dedicata al lavoro si è enormemente ridotta. Oggi molti giovani iniziano
a lavorare dopo i 30 anni, mentre diversi sistemi pensionistici
consentono (o consentivano fino a pochi anni fa), un ritiro dal lavoro
intorno ai 60 anni, a fronte di una speranza di vita cresciuta in modo
spettacolare dai tempi di Keynes. Fatta 100 la durata della vita espressa
in ore di veglia (dalle 8 alle 24), nel giro di un secolo il tempo di lavoro
medio della popolazione è approssimativamente passato dal 35% al
20%, sostanzialmente in linea con le previsioni di Keynes,4 che
immaginava un dimezzamento del tempo di lavoro entro il 2030.
L'errore di Keynes, di cui parlano Robert e Edward Skidelsky nel già
citato How Much is Enough?, non è stato di aver previsto un aumento
del tempo libero che poi non si è verificato, ma di non aver capito che
tale tempo libero addizionale non si sarebbe materializzato come
riduzione dell'orario di lavoro, bensì come aumento degli anni in cui
non si lavora, o perché si studia o perché si è andati precocemente in
pensione o perché si vive più lungo che in passato: è l'espansione dello
Stato sociale (più anni senza lavorare), non la contrattazione sindacale
(orari di lavoro più corti), il fattore decisivo che ha inverato la profezia
di Keynes.
Ci sarebbe da chiedersi, anzi, se una parte delle società avanzate non
stiano silenziosamente acquistando tratti neofeudali o, se preferite, tratti
tipici delle "società signorili",5 nettamente divise in una minoranza di
privilegiati esenti dal lavoro manuale (signori, guerrieri, sacerdoti), e in
una maggioranza di sudditi condannati a lavorare tutta la vita.
Pensiamo, per fare un esempio, ai giovani dei ricchi paesi del Nord, o
anche a quelli di paesi mediterranei come l'Italia e la Spagna. Una
pubblicistica piuttosto ripetitiva e impregnata di luoghi comuni li
dipinge da anni come una generazione perduta, un esercito di
disoccupati senza futuro e senza speranza. Ed effettivamente il lavoro
non si trova.
Ma c'è anche un altro modo di descrivere le cose. Nelle società
arrivate, la maggior parte dei giovani usufruiscono, per la prima volta
nella storia, di un triplice privilegio.
Innanzitutto, sono liberi di studiare poco e male, dedicando le loro
migliori energie al divertimento e alle relazioni sociali, l'esatto
contrario di ciò che capita ai loro coetanei cinesi, vividamente descritti
nel libro-denuncia (Battle Hymn of the Tiger Mother) di Amy Chua, la
"mamma tigre" che ha provato a impartire un'educazione cinese a due
figlie cresciute negli Stati Uniti.
In secondo luogo, possono prolungare indefinitamente il periodo
degli studi, ritardando così l'ingresso nel mercato del lavoro, in alcune
società anche ben oltre i 30 anni.
Infine, una volta entrati sul mercato del lavoro, possono ritardare di
anni e anni l'inizio di una vera carriera lavorativa. Essi non cercano un
lavoro qualsiasi, ma un lavoro che sia all'altezza delle loro aspirazioni,
o delle competenze che ritengono di aver acquisito negli anni dello
studio. Detto in altre parole, possono esercitare il privilegio dell'attesa,
che in ogni ambito del mercato è un segno di forza del venditore: chi
può attendere il compratore giusto, sia esso l'acquirente di un immobile
o il datore di lavoro, si colloca per ciò stesso in una posizione di forza.
Una forza che, ai giovani, deriva dai patrimoni delle famiglie e dalla
disponibilità dei genitori ad accompagnarne l'ingresso nel mercato del
lavoro. In questo senso la disoccupazione giovanile esiste, ma non è
disoccupazione classica. Una parte considerevole di essa è
disoccupazione volontaria, nel senso che la teoria economica attribuisce
a questa espressione. Il disoccupato volontario è "disoccupato" perché
cerca più o meno attivamente un lavoro, ma è "volontario" perché può
scegliere di non accettare alcune offerte di lavoro, quelle meno coerenti
con le proprie aspirazioni. Di fronte alle offerte di lavoro che percepisce
come inadeguate, o insoddisfacenti, si può permettere il lusso di
rifiutarle e aspettare.
Ma tali offerte esistono. Come fa la società a coprire i posti di lavoro
che non interessano ai giovani, specie quelli del ceto medio o dei ceti
più elevati?
È qui che interviene il concetto di "società signorile". I posti di lavoro
peggiori, o semplicemente non gratificanti, esistono in tutte le società
moderne. Nessuna società può fare a meno di operai edili, facchini,
fattorini, lavapiatti, camerieri, baristi, cuochi, idraulici, elettricisti,
spazzini, domestici, badanti per gli anziani, solo per fare qualche
esempio. Questo strato della piramide delle professioni, a seconda di
come lo si definisce e a seconda del tipo di società, può assorbire fra il
20 e il 40% della forza lavoro, e richiede un continuo ricambio. Ossia
crea di continuo nuove occasioni di lavoro. Chi va a occupare queste
posizioni, che alla maggior parte dei giovani (e anche degli adulti) di
oggi non interessano?
È ovvio: gli immigrati. Nelle società arrivate i posti di lavoro
peggiori sono riservati in massima parte agli immigrati, che sono ben
contenti di occuparli perché per loro, anche quando sono pagati poco o
vengono assunti in nero, i relativi redditi, e spesso anche le condizioni
di vita associate a quei posti, costituiscono comunque un grande
progresso rispetto alla loro condizione di partenza. È così che le nostre
società assumono tratti neoschiavistici, in singolare contrasto con la
retorica buonista e politicamente corretta che informa ogni discorso
pubblico sulla popolazione immigrata.6 Al vertice della piramide
sociale un'élite che lavora poco, o fa lavori altamente gratificanti, e
manda i propri figli in giro per il mondo a studiare, come i rampolli
della nobiltà europea nei secoli passati. Alla base della piramide un
esercito di immigrati, che svolge tutti i lavori che né l'élite né il ceto
medio sono disposti a svolgere, ma per lo più non gode del diritto di
voto, e in questo ricorda la condizione degli schiavi nell'antica Grecia,
sul cui lavoro poggiava la "democrazia degli antichi".
Non è tutto, però. In alcune fra le società avanzate la deriva signorile
si manifesta nella loro vocazione consumistica. Se molte di esse non
crescono, o crescono poco, non è solo perché la spinta
all'automiglioramento e all'avanzamento sociale, che negli anni
Cinquanta e Sessanta coinvolgeva la maggior parte dei cittadini, ora
sopravvive solo nella minoranza immigrata, ma perché la
globalizzazione sta rendendo molte delle società mature sempre più
parassitarie, sistemi sociali che producono sempre di meno e
consumano sempre di più, sia nella forma classica dell'acquisto di beni
e servizi sul mercato, sia nella forma moderna di una partecipazione
sempre più ampia ai benefici del welfare, dalla scuola alla sanità, dalle
assicurazioni sociali al reddito di cittadinanza.7 Per non parlare di
quella forma specialissima di consumo opulento che consiste
nell'estensione del tempo dedicato ad attività piacevoli, gratificanti o
capaci di conferire prestigio, un fenomeno che Thorstein Veblen aveva
già descritto alla fine dell'Ottocento ne La teoria della classe agiata, e al
quale aveva riservato un nome speciale (conspicuous leisure) per
distinguerlo dal più scontato fenomeno del consumo ostentatorio di
beni e servizi (conspicuous consumption).
Nella nuova divisione internazionale del lavoro, la produzione di
merci e i corrispondenti posti di lavoro stanno migrando sempre di più
verso i paesi emergenti. Simmetricamente, le economie avanzate si
stanno specializzando nella produzione di servizi, e preferiscono
importare dall'estero molti beni che, ove venissero prodotti in casa,
avrebbero un prezzo troppo elevato. Un trend aggravato dal fatto che
molti dei servizi che circolano nelle nostre società opulente fino a ieri si
pagavano, e quindi avevano dietro di sé posti di lavoro retribuiti e
produttori in carne e ossa, mentre oggi circolano gratuitamente sulla
rete e quindi hanno perso ogni capacità di sostenere l'occupazione e i
redditi. A beneficio, ancora una volta, del mondo del consumo, e a
detrimento di quello della produzione, o quantomeno della produzione
per il mercato.
Ecco perché dicevo che il volto di molte società avanzate (non tutte,
però: un'importante eccezione è la Germania, e in parte l'Austria) sta
diventando quello di una società signorile, o neofeudale. Se non
suonasse come un ossimoro, la si potrebbe chiamare una società
signorile di massa. Una società in cui un vasto ceto medio si è abituato
a standard di vita che è sempre meno in grado di mantenere, perché la
produzione - specie quella vera, fatta di cose che si toccano - è migrata
al di fuori dei propri confini fisici e sociali. Fuori dei confini fisici, in
quanto molto di quello che si produce oggi nel mondo non viene più
prodotto entro le società più ricche, ma importato dalle economie
emergenti. Fuori dei confini sociali, in quanto buona parte dei beni e
servizi la cui produzione costa più fatica, o semplicemente dà meno
soddisfazioni, è ormai delegata alla popolazione straniera, ospite più o
meno tollerato delle società arrivate. E forse, per certi versi, anche fuori
dei confini giurisdizionali, visto che una fetta sempre meno trascurabile
del nostro consumo è fatta di beni e servizi immateriali, che circolano
gratuitamente, o a prezzi irrisori, in quel luogo virtuale o non-luogo
sottratto alle leggi che è Internet.
Può sembrare che tutto questo non faccia che confermare le profezie
più pessimistiche sul "tramonto dell'Occidente", come quella di
Spengler, o sulla "crisi della civiltà", come quella di Huizinga, per il
quale la civiltà coincideva con quella occidentale, se non con quella
europea. Molto, però, dipende dall'angolo da cui si guardano le cose.
Visto da un inglese, il passaggio avvenuto nei primi anni del Novecento
da un mondo a guida britannica a un mondo a guida americana può
essere apparso come un declino della civiltà. Così oggi, visto da un
americano, il passaggio del testimone della crescita dagli Stati Uniti alla
Cina e all'India può apparire anch'esso come un segno di crisi, di
esaurimento di una civiltà. Eppure in entrambi i casi i valori e i modelli
di vita che vincono, e si diffondono da un angolo all'altro del pianeta,
restano quelli del mondo occidentale. Più che declinare, la civiltà
occidentale pare spostarsi, o cambiare dimora. All'inizio del XX secolo
ha attraversato l'Atlantico per installarsi negli Stati Uniti; 100 anni
dopo, all'inizio del XXI secolo, sembra proseguire il suo viaggio verso
ovest questa volta attraversando il Pacifico, per installarsi in Cina e in
India. Quella che a noi pare una drammatica crisi della civiltà forse è
solo, o prevalentemente, una sorta di migrazione, uno "spostamento" di
civiltà.
Il problema è che, quando la civiltà li abbandona, i luoghi in cui ha
prosperato cambiano natura. Più che ospitare il melanconico declino
della civiltà, tendono a diventare altro da sé. Alcune fra le nostre società
avanzate, non necessariamente le più ricche (emblematico il caso dei
paesi mediterranei), tendono ad assumere alcuni dei tratti tipici delle
società signorili. Si può descrivere tutto ciò come la progressiva
affermazione della cultura dei diritti,8 una sorta di neoumanismo
planetario che mira a generalizzare lo status di signore, oppure
osservare malinconicamente il declino della cultura della
responsabilità9 e il lento passaggio dall'era della "mente liberal" a
quella della "mente servile", per riprendere l'efficace formula di
Kenneth Minogue.10 Resta il fatto che la deriva signorile è una
tendenza reale, un processo che sta cambiando alle radici la nostra
civiltà. Possiamo compiacercene o dolercene, idealizzare il passato o
lodare il presente, ma forse è giunto il tempo di prenderne atto.
Che fare?
La tesi di questo libro non è che le società avanzate, gli attuali paesi
OCSE, entreranno tutte in stagnazione nel giro di qualche decennio.
Quel che abbiamo fatto, in questo studio, è di provare a rispondere a
una domanda più circoscritta: che cosa sarebbe successo se, dopo il
2007, nulla fosse cambiato nei meccanismi che avevano governato la
crescita nell'ultimo periodo felice, il dodicennio che va dal 1995 al
2007?
La risposta a questa domanda, che volutamente lascia fuori la crisi
del 2007-2013, è che alcune economie sarebbero entrate in stagnazione
molto presto, altre molto tardi, ma tutte prima o poi avrebbero dovuto
rallentare e infine fermarsi, perché la crescita aumenta il benessere e il
benessere è il principale ostacolo alla crescita. Con un'importante
differenza, però: i paesi con cattivi fondamentali si sarebbero fermati su
un reddito di stato stazionario relativamente basso, quelli con buoni
fondamentali su un reddito decisamente alto.
Ora la crisi ha scompaginato le carte, e dire qualcosa sul futuro delle
economie avanzate è diventato ancora più difficile di prima. Si può
pensare che la crisi abbia abbassato il reddito di equilibrio di tutti i
paesi, o di molti di essi. Ma si può anche pensare che, nel lungo
periodo, il ruolo frenante del benessere si attenui. Benessere, infatti,
significa innanzitutto un costo del lavoro più elevato che altrove (da cui
uno svantaggio competitivo rispetto ai paesi poveri), e tutto fa pensare
che fra qualche decennio, quando molti paesi emergenti o in via di
sviluppo avranno raggiunto standard di vita occidentali, quel divario
sarà diventato molto minore di oggi.
Se è impossibile indovinare come andranno le cose in generale, c'è
però almeno una domanda cui, invece, è possibile provare a rispondere:
che cosa può fare una società avanzata per aumentare il suo tasso di
crescita?
Nel porre questo interrogativo, naturalmente, do per scontato che
tornare a crescere (o continuare a farlo) sia ancora un obiettivo
desiderabile per molte, se non tutte, le società avanzate. E spiego
brevemente perché.
Il primo, ovvio, argomento pro-crescita è che molte società avanzate
sono ancora lontane dagli standard di vita delle società arrivate, che
guidano la classifica dei paesi OCSE: giusto per dare un'idea, nel 2013
il reddito dei tre paesi OCSE meno ricchi, ossia Messico, Turchia e
Cile, era circa 1 / 4 di quello della Norvegia, il paese più ricco dopo il
Lussemburgo.
Il secondo argomento è che alcuni paesi, in particolare i PIGS
mediterranei, sono costretti a crescere semplicemente per evitare il
fallimento. Se non vogliono fallire e precipitare nella povertà, devono
pagare i loro debiti,1 ma l'unico modo per pagarli è tornare a crescere.
Il terzo argomento è che anche nelle società più ricche esistono
sacche di povertà e altri gravi problemi sociali che si potrebbero
affrontare assai meglio se il reddito nazionale crescesse ancora.
Il quarto e ultimo argomento è che, senza crescita, le tensioni sociali
rischiano di diventare drammatiche. Se la torta del reddito nazionale
non aumenta, la vita di un sistema sociale diventa un gioco a somma
zero: non si può migliorare la propria condizione senza peggiorare
quella di qualcun altro. Il che, in sostanza, significa che il nucleo
dell'azione politica diventa la redistribuzione del reddito: più arbitrio
dei governanti nell'allocazione delle risorse, meno libertà per individui
e imprese. Di qui tensioni sociali, invidia di classe, aumento dei
conflitti interni. Nessuna società moderna, finora, ha ancora imparato a
convivere con un ammontare di risorse che resta costante nel tempo, o
addirittura si restringe ogni anno.
Ma torniamo alla nostra domanda. Ammesso che, almeno per alcune
società, la crescita sia ancora un obiettivo desiderabile, che cosa può
fare un paese per migliorare le proprie prospettive in tal senso?
Qui l'equazione della crescita ha ancora molte cose da dire. La più
rilevante è che mentre i parametri dell'equazione mostrano una certa
stabilità, le variabili che entrano nell'equazione, e quindi regolano la
velocità della crescita, non sono affatto immodificabili. Detto in altre
parole: se un paese vuole crescere di più, o anche solo contrastare il
rallentamento della crescita che l'aumento del benessere porta con sé,
può benissimo farlo. Un paese può fare investimenti in istruzione, può
ridurre le tasse, può migliorare le proprie istituzioni di mercato. Alcuni
paesi, per esempio la Germania, l'hanno fatto, sia prima sia durante la
crisi, e ne hanno già raccolto i frutti sotto forma di un aumento del tasso
di crescita. Altri paesi, la maggior parte, hanno fatto poco o nulla, o
addirittura hanno permesso il deterioramento dei propri fondamentali, e
ora crescono meno di prima. Insomma, nessun paese è completamente
intrappolato nel proprio destino, perché la struttura economica di un
paese non è data una volta per sempre, ma può essere modificata
dall'azione dei governi, delle forze sociali, e naturalmente anche
dall'impegno dei singoli.
Che fare, dunque?
A questa domanda, sfortunatamente, siamo portati un po' tutti a
rispondere secondo le nostre preferenze politico-ideologiche. Anche chi
accettasse pienamente la "verità" dell'equazione della crescita, ovvero
credesse nella sostanziale correttezza delle nostre stime, avrebbe di
fronte a sé almeno tre opzioni di fondo: più istruzione, meno tasse sulle
imprese e sul lavoro, migliori istituzioni economiche. E non è difficile
indovinare quale sceglierebbe: se è di sinistra, punterà sugli
investimenti in capitale umano; se è di destra, sulla riduzione delle
aliquote; se è un liberale, sulle riforme che promuovono efficienti
istituzioni di mercato.
Io penso, invece, che dovremmo ragionare diversamente. Non
dovremmo chiederci quale politica ci piace di più, ma quale può
funzionare meglio. Le tre politiche implicitamente incorporate
nell'equazione della crescita, infatti, non sono così intercambiabili come
possono apparire a prima vista. Due elementi, in particolare, rendono
diverso, per i vari paesi, il rango di convenienza delle varie politiche.
Il primo elemento è il tempo necessario perché una politica dispieghi
i propri effetti.
Un miglioramento del capitale umano, per esempio, non può produrre
effetti apprezzabili prima di 15-20 anni, il tempo necessario perché una
riforma del sistema scolastico, delle università e dei centri di ricerca si
trasmetta al mercato del lavoro. Puntare tutte le proprie carte
sull'istruzione è una politica lungimirante, ma purtroppo ha scarsissime
possibilità di incidere sul tasso di crescita nel breve e nel medio
periodo.
Se si punta sulle istituzioni di mercato, invece, i tempi possono essere
meno lunghi, ma molto dipende da quel che si fa: liberalizzare il
mercato del lavoro e delle professioni può aumentare la produttività del
sistema nel giro di pochi anni, riformare la giustizia e la burocrazia può
produrre effetti apprezzabili solo nel medio periodo.
Se, infine, la leva su cui si intende agire sono le tasse, gli effetti
possono essere relativamente rapidi: una riduzione delle aliquote,
specie se concentrata sull'imposta societaria,2 può fornire una spinta
all'economia in tempi piuttosto brevi, come mostrano i due casi di
scuola, ovvero le grandi riduzioni fiscali dell'era Thatcher-Reagan.
Detto per inciso, non si può escludere che sia stato proprio questo
impulso, basato sulla riduzione delle tasse, il fattore decisivo che - fra
gli anni Ottanta e gli anni Novanta - ha generato l'unica significativa
anomalia nel trend di raffreddamento della crescita in atto da più di
mezzo secolo: dal 1960 a oggi il tasso di crescita delle economie
avanzate è sempre diminuito di circa un punto ogni decennio, con la
sola eccezione degli anni Novanta, in cui il rallentamento è stato di
pochi decimali. Stando alla nostra equazione, un paese che desiderasse
ottenere, in un paio di anni, un incremento del tasso di crescita di 1
punto percentuale, dovrebbe abbassare l'aliquota societaria di circa 12
punti, una misura tutt'altro che insostenibile, se si pensa che l'aliquota
dell'Irlanda è circa 15 punti al di sotto dell'aliquota media OCSE.
Il secondo elemento che influisce sull'efficacia di una politica è il
contesto socio-economico, in particolare il fatto di avere una Banca
centrale nazionale oppure no: in breve, essere nell'eurozona o fuori di
essa. Abbiamo già visto che, a parità di altre condizioni, un paese euro
cresce di circa 1,5 punti in meno di un paese non-euro. Ma non si tratta
solo di questo. Alcuni indizi empirici fanno pensare che, negli anni
immediatamente successivi alla recessione del 2008-2009, i paesi euro
e i paesi non-euro non differiscano solo per il loro tasso di crescita
tendenziale, ma anche per le sue determinanti.
Nell'eurozona, i paesi che meglio sono riusciti a fronteggiare la crisi
sono quelli che combinano un'elevata qualità del capitale umano e conti
pubblici relativamente in ordine: Germania, Finlandia, Austria, Olanda,
Belgio e Francia, ossia l'Europa del Nord eccetto Lussemburgo e
Irlanda. I paesi che meno sono stati in grado di fronteggiare la crisi
sono quelli caratterizzati da bassa qualità del capitale umano e
deterioramento dei conti pubblici: Portogallo, Grecia, Spagna, ovvero
l'Europa del Sud eccetto l'Italia. In una posizione intermedia Italia,
Irlanda e Lussemburgo, ossia i tre paesi che non è possibile assegnare a
nessuno dei due gruppi precedenti. L'Italia è mediocre sia sui conti
pubblici sia sul capitale umano, mentre Irlanda e Lussemburgo
appaiono speculari: l'Irlanda ha un ottimo livello di istruzione ma ha
dovuto gravemente deteriorare i conti pubblici per salvare le sue
banche, il Lussemburgo ha buoni conti pubblici ma anche il peggior
capitale umano dell'eurozona.
Tabella 6 - Tre tipi di paesi nell'eurozona
1. Fonti e definizioni
oppure:
Queste ultime due forme vengono usate quando si fa riferimento al
modello di Solow nella sua versione più semplice, quella senza
progresso tecnico (che è anche quella usata da noi).
Molto raramente, per non dire quasi mai, la funzione di produzione
del modello di Solow viene presentato nella sua forma originaria, che
non imponeva affatto il ricorso a una funzione di produzione Cobb-
Douglas. La funzione di produzione ipotizzata da Solow:
Y = F(K,L)
k=K/L
x=K/Y=k/y
Come si vede dalla tabella, una volta nota una sola delle tre
grandezze y, k, x, è immediato ricavare le altre due.
2. L'equazione di moto del sistema, che descrive gli incrementi
assoluti del capitale (dK / dt), viene divisa per Kt, e diventa quindi
un'equazione che descrive gli incrementi relativi del capitale (gK),
ovvero l'incremento percentuale annuo dello stock di capitale:
dK / dt / Kt = gK = s Yt / Kt - d
= s Yt / Kt - µ = s / xt - µ
x* = s / µ
y* = A1/(1 - a) (s / µ)a/(1 - a)
D = - a (n + d)
1. C'è anche chi dice di no, che possiamo limitarci a non pagare i
nostri debiti. Nessuno, però, è ancora riuscito a spiegare come questo si
possa fare senza costi altissimi, in un mondo in cui divisione del lavoro
e globalizzazione hanno reso le economie del pianeta interdipendenti
come mai in passato.
2. Tutte le prove che abbiamo effettuato sull'equazione della crescita
suggeriscono che, fra i vari tipi di imposta, quelle sui redditi di impresa
(in particolare l'imposta societaria) siano le più dannose per la crescita.
Più esattamente, la nostra stima è che un punto in più o in meno di
aliquota societaria riduca o innalzi il tasso di crescita di 0,083 punti, il
che significa che alzare il tasso di crescita di 1 punto (per esempio
dall'1 al 2% annuo), "costa" circa 12 punti di aliquota societaria in
meno, un risultato sostanzialmente in accordo con Lee, Gordon (2005).
3. I 20 paesi OCSE non-euro (inclusa l'Estonia) sono stati divisi in tre
gruppi in base alla variazione del TTR fra il 2008 e il 2012, e per ogni
gruppo di paesi è stata calcolata la variazione del tasso di crescita fra gli
ultimi 7 anni di crescita sostenuta (2001-2007) e il triennio 2010-2012.
Ecco i risultati completi:
Numero paesi Variazione del TTR (2008-2012) Variazione tasso di
crescita (2010-2012 rispetto al 2001-2007) Più tasse 4 4,5 -2,3 Tasse
più o meno invariate 11 -0,9 -0,7 Meno tasse 5 -7,1 +0,6 Totale paesi
senza euro 20 -1,4 -0,7 I paesi con i maggiori inasprimenti fiscali sono
Estonia, Islanda, Polonia e Regno Unito; quelli con i maggiori
alleggerimenti sono Canada, Danimarca, Israele, Turchia, Giappone; i
paesi con variazioni contenute sono Svizzera, Messico, Stati Uniti,
Repubblica Ceca, Norvegia, Nuova Zelanda, Cile, Svezia, Australia,
Ungheria, Corea del Sud.
4. Quanto alla storia vera e propria, la credenza che fosse finita è
durata lo spazio di un mattino, quello seguito alla caduta del Muro di
Berlino e al collasso dei regimi comunisti: nel 1992 Francis Fukuyama
pubblica The End of History and the Last Man, ma già a partire
dall'anno successivo la tesi della fine della storia cede il passo a quella
dello "scontro di civiltà" (clash of civilizations), soprattutto grazie a una
serie di interventi di Samuel Huntington (Huntington 1993, 1996).
5. Cfr. Gerschenkron (1962, p. 87).
6. Sul carattere degli italiani, nonostante la notevole produzione
successiva, resta tuttora insuperato, a mio parere, l'affresco tracciato da
Luigi Barzini jr giusto mezzo secolo fa (Barzini 1964).
Anatre