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Luca Ricolfi

L'Enigma Della Crescita


Alla scoperta dell'equazione che governa il nostro futuro

2015 Mondadori Libri


Il libro

Fino a ieri sembrava che il problema della crescita riguardasse i paesi


poveri, o arretrati, o "in via di sviluppo". La grande crisi del 2007-2013,
la più grave dopo quella del 1929, ci sta invece mostrando che quel
problema riguarda innanzitutto le società "avanzate", molte delle quali
ancora stentano a uscire da una recessione che ormai dura da quasi sette
anni.
Ma se si guardano attentamente i dati degli ultimi cinquant'anni, e si
confrontano tra loro le storie dei paesi che attualmente fanno parte
dell'Ocse (il club dei paesi "sviluppati"), si scopre che la crescita era un
problema, anzi un vero e proprio enigma, già prima della crisi. Perché è
da mezzo secolo che l'insieme delle economie avanzate cresce a un
ritmo sempre più lento. Ma anche perché fra di esse ci sono sempre
stati paesi-gazzella e paesi-lumaca, con divari enormi fra i rispettivi
tassi di crescita: l'Italia, per esempio, era un paese-gazzella negli anni
'50 e '60, ed è divenuto un paese-lumaca negli ultimi vent'anni.
Qual è il segreto della crescita? Qual è il male che corrode i paesi
ricchi? E qual è la chiave che permette ad alcuni di essi di crescere
ancora, nonostante tutto?
È a questi interrogativi che il libro di Ricolfi prova a rispondere,
attraverso un racconto che, a tratti, finisce per assumere i contorni di un
giallo. Un giallo i cui protagonisti sono le teorie economiche, ma anche
i modelli elaborati dai demografi e dai biologi per individuare le leggi
che regolano l'evoluzione delle popolazioni e il ciclo di vita degli
organismi, dagli animali alle piante, dai pesci ai ricci di mare.
Un giallo alla fine del quale il lettore troverà un'equazione -
l'equazione della crescita - che non solo spiega perché le cose sono
andate come sono andate, ma ci lascia con un duplice messaggio. La
tendenza al declino, inteso come rallentamento del tasso di crescita, è
parte integrante del metabolismo delle società avanzate, come di
qualsiasi organismo vivente, e in questo senso ha qualcosa di
ineluttabile: il vero nemico della crescita economica è la crescita stessa.
Il limite cui ogni società tende, ossia il livello di benessere al quale i
suoi cittadini possono aspirare, non è però dato una volta per sempre,
perché dipende in modo decisivo dai fondamentali dell'economia:
capitale umano, tassazione delle imprese, qualità delle istituzioni.
Nessun paese è intrappolato nel proprio destino, e migliorare i
fondamentali è l'unica vera arma con cui un paese può contrastare la
tendenza al rallentamento.
L'equazione della crescita serve proprio a questo: ci suggerisce che
cosa dobbiamo cambiare, e che cosa possiamo aspettarci da ogni
cambiamento. E ci dice anche, nel caso del nostro paese, che questi
cambiamenti non possono più essere rimandati.

L'autore

Luca Ricolfi, sociologo, insegna Analisi dei dati all'università di


Torino. Editorialista della "Stampa", fra i suoi numerosi libri
ricordiamo: Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei
migliori (Milano 2005), Dossier Italia (Bologna 2006), Il sacco del
nord. Saggio sulla giustizia territoriale (Milano 2010), La Repubblica
delle tasse. Perché l'Italia non cresce più (Milano 2011). Da Mondadori
ha pubblicato: Illusioni italiche. Capire il paese in cui viviamo senza
dar retta ai luoghi comuni (2010).
A Paola, e alle pecore Suffolk
Introduzione

Gli alberi non possono crescere fino al cielo.


DAVID WARSH (2006)

Avevo in mente un altro libro, anzi non avevo in mente nessun libro.
Quando, quasi dieci anni fa, cominciai a lavorare sull'equazione della
crescita, non pensavo affatto di scrivere qualcosa sull'argomento.
Semplicemente mi ero incuriosito. Mi incuriosiva il fatto che, per tanti
decenni, l'Italia fosse cresciuta di più della media delle altre economie
avanzate, e invece da un po' di anni - più o meno dai primi anni
Novanta del secolo scorso - crescesse di meno, molto di meno. Un
handicap che il mio paese non poteva permettersi, né allora né oggi,
dato l'enorme debito pubblico accumulato nel tempo, un debito che
giusto negli anni della svolta, intorno al 1993-1994, aveva toccato il
120% del PIL.
Mosso da questa curiosità, decisi però di non seguire la strada degli
economisti. Il problema degli economisti, infatti, è che di fronte alle
grandi domande del nostro tempo (l'inflazione negli anni Settanta, la
disoccupazione negli anni Ottanta, il ristagno oggi) non hanno una
risposta, ma ne hanno molte. Troppe, e troppo diverse. E si capisce
anche perché: a seconda della diagnosi, cambia la terapia, e le terapie
non sono mai politicamente neutrali. Se sei di sinistra ti piacciono le
terapie basate sull'espansione dello Stato sociale, quindi sarai
keynesiano. Se sei di destra ti piacciono le terapie basate sulla riduzione
delle tasse, quindi sarai friedmaniano. Se sei liberale ti piacciono le
terapie basate sulla libera iniziativa e la contrazione dell'intervento
statale, quindi sarai hayekiano. E infatti non esiste, in natura, un
economista che abbia idee economiche in contrasto con il proprio
orientamento politico, uno studioso che dica per esempio: io sono a
favore dello Stato sociale, ma mi rendo conto che l'economia funziona
come dice Hayek; o viceversa un soggetto che dica: a me piacerebbe
abbassare le tasse e ridurre la spesa pubblica, ma mi rendo conto che
l'economia funziona come dice Keynes. Miracolosamente, ogni
economista ha le idee economiche che si attagliano alla sua ideologia
politica, come un abito che aderisce perfettamente al corpo di chi lo
indossa. E non occorre essere marxisti o psicologi per intuire in che
direzione viaggi la causalità, se siano cioè le convinzioni teoriche che
influenzano le ideologie, o siano viceversa le ideologie che - come una
calamita - attirano le teorie più coerenti con le convinzioni politiche.
È proprio perché il nesso fra teorie economiche e politiche che ne
conseguono è così stretto che gli economisti, ben più degli altri studiosi
di scienze sociali, appaiono divisi in sette, che essi chiamano scuole. Ed
è per lo stesso motivo che, considerata nel suo insieme, l'economia non
ha una risposta sul problema della crescita, così come la religione non
ha una risposta sul problema della divinità ma ne ha tante quante sono
le religioni.
Ma se la teoria economica non poteva avere la risposta alle mie
curiosità, dove andarla a cercare?
Fuori dalla teoria, più che fuori dall'economia. Nella vita, come nello
studio, le circostanze contano. E le circostanze, nel mio caso, sono che
faccio il sociologo, ho spesso lavorato con economisti, scienziati
politici e psicologi, e insegno una materia che si chiama "analisi dei
dati". Il mio lavoro, in altre parole, è raccogliere dati e analizzarli. Feci
dunque quello che sono abituato a fare. Cominciai a raccogliere dati sul
problema della crescita, certo guidato dalle teorie esistenti, ma senza un
occhio di riguardo per alcuna di esse. In modo alquanto empirico, o
eclettico, senza aderire ad alcun modello o spiegazione preesistente, ma
anche senza escluderne alcuna. Dopotutto, il terreno non era riserva di
caccia esclusiva degli econometrici e degli economisti applicati. Con lo
studio empirico della crescita, specie dopo i fondamentali lavori di
Robert Barro dei primi anni Novanta, si erano cimentate un po' tutte le
discipline sociali, compresa la psicologia. E anche qui i risultati erano
spesso discordanti, ma almeno potevano essere controllati, confrontati,
affinati.
Diversamente da quanto di solito accade in questo genere di studi,
tuttavia, decisi di concentrarmi su un periodo di anni non troppo lungo
e su un ambito di paesi non troppo ampio. La mia domanda iniziale,
infatti, era piuttosto circoscritta. Non volevo scoprire da che cosa, in
generale, dipende la "ricchezza delle nazioni", come in tanti - da Adam
Smith a Richard Lynn - avevano tentato di fare. No, volevo solo
scoprire come mai, nell'ambito delle società avanzate, l'Italia era
passata così repentinamente dai primi posti in classifica agli ultimi.
Inoltre, contrariamente a quanto pensano altri studiosi, non sono affatto
convinto che i meccanismi che governano la crescita siano uniformi,
ossia gli stessi nello spazio e nel tempo. Di qui la scelta di lavorare solo
sulle economie avanzate (gli attuali paesi OCSE, l'organizzazione che
riunisce i paesi più sviluppati) e sull'ultimo periodo di crescita
relativamente lungo e privo di crisi, i dodici anni che vanno dal 1995 al
2007.
Il risultato di questo lavoro, all'inizio condotto sporadicamente, poi in
modo via via più sistematico, è condensato nell'equazione della
crescita, che descrive in che modo, e in che misura, quattro differenti
forze (z1, z2, z3, z4) e una singola "controforza" - il reddito di partenza
y0 - influenzano il tasso di crescita (g) del reddito pro capite di
un'economia:
g = f(y0, z1, z2, z3, z4)

L'equazione permette, conoscendo il valore delle quattro forze e della


controforza, di prevedere molto accuratamente a che tasso si svilupperà
un determinato sistema economico-sociale.
È stato a questo punto, quando ho avuto tra le mani l'equazione della
crescita, che il libro che poteva essere è diventato un altro libro. Non
dirò qui che cosa sono esattamente z1, z2, z3, z4, per non togliere al
lettore il piacere di scoprirlo poco per volta, man mano che si inoltrerà
nel testo, ma dirò solo perché - a questo punto - il libro che poteva
essere è diventato un altro libro, un libro non previsto.
Osservando la struttura dell'equazione, notai un particolare che -
stranamente - non pare aver finora attirato l'attenzione degli studiosi,
nonostante esso fosse ben noto in quanto quasi sempre presente nella
maggior parte degli studi di questo tipo. Provo a spiegarlo in modo
informale. L'equazione della crescita contiene, a destra, un termine - il
reddito iniziale y0 - che è fatto della stessa stoffa di g, il termine che
compare a sinistra.
Che cos'è, infatti, g, ovvero il tasso di crescita?
Il termine g, nella maggior parte degli studi empirici sulle
determinanti della crescita, non è altro che l'incremento percentuale
medio annuo del reddito pro capite (y) in un certo periodo. In breve g, il
tasso di crescita, è una funzione di y, il reddito, perché g altro non è che
il tasso di crescita di y: se, in un dato anno, g vale 0,05, significa che -
in quell'anno - il reddito (y) è cresciuto del 5%.
Il fatto che g e y siano collegati rende l'equazione della crescita
potenzialmente "autonoma", ossia utilizzabile per fare delle previsioni
sul futuro. In concreto: usabile per simulare la traiettoria di un sistema
economico-sociale a partire da un certo punto nel tempo. Esattamente
come facciamo quando calcoliamo la crescita del nostro capitale a
partire da un certo investimento iniziale (y0) e un certo tasso di
interesse annuo (r). Conoscendo il capitale iniziale e il tasso di
interesse, possiamo determinare la traiettoria futura dei nostri risparmi.
È questa l'essenza della autonomia ("ricorsività", per i logici;
"autoregressività" per gli statistici), che richiede soltanto che esista una
regola, non importa quanto complessa, secondo cui lo stato del sistema
al tempo t dipende dal suo stato al tempo t-1 (ed eventualmente dai suoi
stati ancora più remoti). Nel caso dell'equazione della crescita tale
dipendenza si presenta così: c'è un reddito pro capite di partenza y0; il
reddito di partenza influenza - mediante l'equazione della crescita - il
tasso di crescita iniziale g0; il tasso di crescita g0 determina il nuovo
reddito y1; tale reddito - sempre mediante l'equazione della crescita -
influenza il nuovo tasso di crescita g1; che a sua volta determina il
nuovo reddito y2, e così via.
Naturalmente, per compiere questo piccolo gioco di prestigio in un
campo complesso come quello della crescita, occorre accettare alcune
ipotesi semplificatrici; per questo abbiamo detto che l'equazione della
crescita è "potenzialmente" autoregressiva. Ma se siamo disposti ad
accettarle - e vedremo che ci sono buone ragioni per accettarle - si può
fare un esercizio: usare l'equazione della crescita per calcolare, paese
per paese, come sarebbero andate le cose in futuro (ossia dopo il 2007)
se nulla fosse cambiato nei meccanismi fondamentali del sistema, e
inoltre ogni paese avesse mantenuto le caratteristiche strutturali che
possedeva al termine dell'ultimo periodo di crescita (1995-2007). In
altre parole: simulare il futuro delle economie avanzate sotto l'assunto
ottimistico che nessuna crisi o shock fosse intervenuto a disturbarne il
cammino.
È stato dopo aver condotto, paese per paese, queste "simulazioni del
suo destino" che questo libro ha cambiato drasticamente forma. Mi
sono reso conto, infatti, che a dispetto di tutte le medicine con cui ci
illudiamo di poter stimolare la crescita, quella del reddito di partenza
(y0) è di gran lunga la forza dominante che governa le traiettorie delle
nostre economie. E tale forza gioca nettamente e pesantemente contro
la crescita, e in questo senso è una controforza: un reddito di partenza
elevato è un formidabile freno alla crescita, un freno che si può
neutralizzare solo con enormi sforzi di trasformazione strutturale del
sistema economico-sociale, ossia cercando di modificare le altre
variabili (z1-z4) che influenzano la crescita. Si può interpretare il vento
contrario del reddito pro capite in tanti modi, per esempio come
contrazione dell'offerta di lavoro, o come eccesso di costi salariali, o
come deficit di motivazione. Resta però il fatto che le società avanzate
producono benessere, e il benessere contiene in sé le forze che
rallentano la spinta al suo incremento.
Gli esercizi di simulazione condotti su ciascuno dei paesi OCSE a
partire dalla situazione del 2007 (ultimo anno del periodo studiato)
forniscono risultati drammatici, per non dire sconvolgenti. Il tasso di
crescita medio delle economie avanzate era già avviato su un sentiero di
declino di circa 1 punto al decennio, e questo significa che - anche
senza la grande crisi iniziata nell'estate del 2007 - molte economie
avanzate sarebbero comunque entrate in stagnazione in tempi
relativamente brevi. Ma non basta: il nucleo dell'equazione della
crescita rivela che, rebus sic stantibus (ossia: se non si fa nulla), ogni
10.000 dollari di reddito pro capite in più costano circa 1 punto di
rallentamento del processo di crescita. Non ci sono abbastanza dati per
stabilire con sicurezza se, alla fine del periodo da noi studiato, il mondo
delle economie avanzate stesse scivolando verso un destino di
stagnazione (ossia di crescita molto lenta, diciamo intorno all'1%), o
fosse addirittura avviato verso un regime di crescita zero, ipotesi che a
mio avviso appare più compatibile con i dati a nostra disposizione. Le
simulazioni suggeriscono che la crescita di ogni paese abbia un suo
tetto, tanto più basso quanto peggiori sono le sue istituzioni economiche
e sociali (ossia le variabili z dell'equazione della crescita), e che - nel
giro di un paio di decenni - la maggior parte dei paesi sarebbe
comunque entrata in stagnazione. Insomma, se l'equazione della
crescita è corretta, la crisi non sarebbe la causa del ristagno attuale, ma
l'evento che ne ha anticipato i tempi, e ci avverte del pericolo prima che
sia troppo tardi.
Questo significa, a mio parere, che sono irrealistici sia i modelli
dominanti fra gli economisti, che per lo più ipotizzano una crescita
illimitata del reddito pro capite, sia i modelli della ormai ricca
tradizione ecologica, che vedono l'arresto della crescita come una
conseguenza quasi meccanica dell'esaurimento delle risorse naturali.
No, se la nostra ricostruzione ha qualche fondamento, il vero nemico
della crescita è la crescita stessa. È la crescita che ha ucciso la crescita.
Il nucleo dell'equazione della crescita è il feedback negativo fra livello
di benessere e spinta alla crescita. La crescita fa aumentare il benessere,
ma l'aumento del benessere fa lievitare i costi di produzione e riduce gli
incentivi a migliorare la propria condizione. Così la crescita prima
rallenta, poi diventa stagnazione, e infine si arresta. È questo il
meccanismo per cui, a parità di altre condizioni, i paesi più poveri
crescono di più dei paesi più ricchi. Da questo punto di vista la teoria
della crescita, più che dai modelli matematici degli economisti, spesso
stregati dal sogno di una crescita illimitata, ha molto da imparare dalla
vastissima letteratura matematico-statistica sulla dinamica delle
popolazioni. Qui l'idea centrale è che la crescita di una popolazione, sia
essa di piante, batteri, salmoni o tigri, debba comunque incontrare un
limite ben preciso. In alcuni modelli tale limite è costituito dal carattere
finito di alcune risorse dell'ambiente: una popolazione di ninfee in un
laghetto non può raddoppiare ogni notte per sempre, perché a un certo
punto riempirà tutta la superficie del laghetto e non avrà più spazio per
crescere. In altri modelli, come le equazioni di Lotka e Volterra, che
descrivono l'interazione fra una popolazione di prede e una popolazione
di predatori, è il comportamento stesso di una delle popolazioni che ne
limita la crescita: i predatori hanno bisogno delle prede per riprodursi,
ma a forza di divorare le loro prede non hanno cibo sufficiente per
continuare a crescere, così cominciano a diminuire di numero, fino a
permettere alla popolazione di prede di tornare a crescere, fornendo di
nuovo alimento alla popolazione dei predatori.
Nei sistemi economico-sociali cosiddetti avanzati, spiace doverlo
riconoscere, è in atto da tempo un meccanismo simile. L'impetuosa
crescita dei "glorious twenty-five", gli eroici venticinque anni che
vanno dal 1950 alla metà degli anni Settanta, ha generato un livello di
benessere così ampio e diffuso da attenuare progressivamente la spinta
a produrre reddito. È ovvio che, come tutte le cose di questo mondo,
anche la crescita economica è destinata a incontrare prima o poi degli
ostacoli esterni, come l'esaurimento del petrolio, l'inquinamento,
l'accumulazione dei rifiuti, la diffusione di nuove malattie. Ma
l'equazione della crescita non descrive questo (ovvio) tipo di limite,
l'equazione della crescita ci dice che non occorrerà aspettare così a
lungo per assistere alla fine della crescita, perché è la crescita stessa che
- dal suo interno - sprigiona le forze che la soffocano. L'arresto della
crescita è un evento che le società avanzate sono in grado di produrre
da sé, per il solo fatto che il principale prodotto della crescita - il
benessere - aumenta i costi e riduce l'esigenza di produrre ancora di più,
come può constatare chiunque, in una società avanzata, osservi la
diversa propensione al lavoro, allo studio e al sacrificio degli immigrati
rispetto ai nativi. Se ci fossero statistiche differenziate per il PIL degli
stranieri e quello dei nativi, probabilmente osserveremmo che - dentro
le nostre società - si riproduce, in piccolo, quel che accade nel mondo
fra economie emergenti ed economie mature: il PIL degli stranieri
cresce più in fretta, molto più in fretta, di quello dei nativi, perché
"loro", economicamente e in parte anche culturalmente, sono nella
condizione in cui noi eravamo negli anni Cinquanta, quando italiani,
tedeschi e giapponesi diedero vita ai rispettivi miracoli economici.
Questo non è un libro sulla grande crisi, se non altro perché è stato
iniziato prima del 2007, e partiva da un'altra domanda: quali sono le
determinanti della crescita? Il fatto curioso è che, a un certo punto, mi
sono accorto che lo strumento che avevo costruito per rispondere a
quella domanda - l'equazione della crescita - permetteva di rispondere
anche a una seconda domanda, che fino ad allora non mi ero mai fatto,
e cioè: come sarebbero andate le cose, dopo il 2007, se nessuno shock
fosse intervenuto a interrompere l'ordinato sviluppo delle società
avanzate?
Poiché la risposta è che, verosimilmente, saremmo comunque e
relativamente presto entrati in stagnazione, il libro non può che
concludersi con un dubbio. Un grande dubbio. La natura finanziaria
della crisi in corso forse ci sta nascondendo il nocciolo della crisi
stessa, che diventerà chiaro solo quando le nebbie delle perturbazioni
finanziarie si saranno diradate. Quel nocciolo è che le nostre società
non hanno più né l'energia né la volontà per continuare a crescere.
Alcune ci riusciranno ancora abbastanza a lungo perché hanno tutti i
fondamentali della crescita a posto, e avere buoni fondamentali è
l'unico antidoto che può compensare gli effetti rallentatori del
benessere. Altre società, invece, dovranno fermarsi prima, a livelli di
benessere decisamente inferiori, perché i loro fondamentali sono cattivi,
ed esse non trovano in sé stesse la determinazione per modificarli. Ma
tutte, temo, dovranno entrare nell'ordine di idee che forse c'è un tetto,
diverso per ogni società, oltre il quale la crescita non può andare. E che
tale tetto non viene da fuori, ma viene da dentro: anche per i sistemi
sociali, come per gli individui, più che gli ostacoli esterni sono i nostri
stessi successi che possono raffreddare i nostri sogni.
Al lettore

A chi si rivolge questo libro?


Me lo sono chiesto prima di iniziare a scriverlo, perché avevo un
problema, anzi un dilemma. Volevo che tutti potessero leggerlo, che
tutti potessero seguire il filo del ragionamento, capire (ed
eventualmente criticare) i passaggi dell'analisi. Ma sapevo che molti di
tali passaggi erano intricati, complessi, e inevitabilmente un po' tecnici.
Insomma dovevo scegliere: fare un libro divulgativo, senza spiegare
come ero arrivato a certe conclusioni, oppure fare un libro accademico,
accettabile per i colleghi ma incomprensibile ai più.
È stato allora che mi sono ricordato dell'anatra. Dello "stile
dell'anatra", come lo descrive Raffaele La Capria, uno dei miei scrittori
preferiti:
Ma se dovessi proprio dire qual è lo stile che preferisco, dirò che è
quello dell'anatra, che senza sforzo apparente fila via tranquilla e
impassibile sulla superficie, mentre sott'acqua le zampette palmate
tumultuosamente e faticosamente si agitano: ma non si vedono.
Ho provato, nel mio piccolo, a fare l'anatra. A scrivere un libro che si
potesse leggere come si guarda un'anatra scivolare sull'acqua di un
laghetto. Un libro in cui il lettore che desidera solo seguire un percorso
intellettuale, senza scrutare i dettagli, senza valutare la forza delle
prove, senza immergersi nel labirinto della statistica e della matematica,
avesse la libertà di entrare senza ostacoli. Ma, al tempo stesso, un libro
in cui al lettore curioso, al collega accademico, allo studioso di
economia o di statistica, non fosse preclusa una seconda possibilità.
Quella di dare un'occhiata allo "zampettio" sott'acqua, alle migliaia di
operazioni e di calcoli che sono stati necessari per individuare
l'equazione della crescita e sciogliere l'enigma che essa sembra
racchiudere in sé: come mai alcune società avanzate crescono ancora
vigorosamente, mentre altre paiono irrimediabilmente ferme?
A questo secondo tipo di lettore io consiglio di leggere tutto il libro,
comprese le note, i box lungo il testo, le appendici (o "anatre", come le
chiamo io pensando che contengono tutto lo zampettio che sta sotto il
testo). Al primo tipo di lettore, quello cui la mia attenzione è soprattutto
rivolta, consiglio di fare il contrario: leggere solo il testo, e ignorare
note, box e anatre-appendici, tutt'al più tornandoci in un secondo
tempo, per sciogliere un dubbio o approfondire un punto specifico.
Perché questa scelta? si chiederà qualcuno.
Lo confesso: per insofferenza, solo per insofferenza. Non mi piace il
rapporto che gli studiosi, specie accademici, hanno oggi con il pubblico
dei lettori. È un rapporto che pare conoscere due soli registri: ignorare il
pubblico, scrivendo unicamente sulle riviste accademiche, e
sottovalutare (per non dire disprezzare) il pubblico, facendo mera
divulgazione. Già, perché l'essenza della divulgazione, il suo lato
elitario, sta proprio qui: fornire ai lettori solo le conclusioni delle
proprie ricerche, spesso banalizzate per arrivare a tutti, senza spiegare
da dove quelle medesime conclusioni scaturiscano, e quindi chiedendo
implicitamente un atto di fede.
Ora che ho chiarito a chi si rivolge questo libro, mi resta da
ringraziare chi più mi ha aiutato a portarlo a termine, naturalmente
lasciando a me stesso la responsabilità di ogni errore e manchevolezza.
Il dipartimento di Sociologia dell'Università di Oxford, innanzitutto,
che mi ha dato la possibilità di spendere nel migliore dei modi il mio
anno sabbatico e di discutere alcune idee e alcuni risultati parziali, in
particolare una prima versione dell'equazione della crescita. La
Bodleian Library, che con le sue guglie, il suo silenzio e le sue
meravigliose postazioni di legno mi ha regalato le migliori giornate di
lavoro che uno studioso possa sognare. La Fondazione David Hume,
con il cui sostegno sono state condotte diverse ricerche parziali che
hanno formato altrettanti tasselli del libro. I colleghi metodologi e
statistici del dipartimento di Psicologia dell'Università di Torino, in
particolare Silvia Testa che più di qualsiasi altra persona mi ha aiutato
nella messa a punto della versione finale dell'equazione della crescita.
I

I numeri del declino

4-3-2-2-1... A prima vista sembra uno schema di gioco, come quelli


che si usano nel calcio. Invece è il riassunto di mezzo secolo di storia
economica. Della nostra storia, la storia delle "società avanzate", il
club1 dei paesi più ricchi del mondo riuniti nell'OCSE (Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico).2 Un insieme di 34 Stati
che, ancor oggi, produce quasi il 50% del PIL del mondo con meno del
18% della popolazione.
La sequenza 4-3-2-2-1 riassume, in pochi fatti stilizzati, l'andamento
delle economie avanzate negli ultimi 50 anni, ossia fra l'inizio degli
anni Sessanta del XX secolo, e l'inizio degli anni Dieci del XXI secolo.
Negli anni Sessanta il nucleo3 dei paesi OCSE cresceva a un ritmo
del 4%. Ma già nel decennio successivo, con la crisi del petrolio e
l'inflazione, il tasso di crescita del PIL pro capite era sceso un po' sotto
il 3%. Nei due decenni successivi, che sono anche quelli delle politiche
liberiste (Reagan e Thatcher) e della globalizzazione, il ritmo di crescita
scende ulteriormente, appena sopra il 2% negli anni Ottanta, appena
sotto il 2% negli anni Novanta. Infine, nel primo decennio di questo
secolo, il tasso di crescita scende di un altro scalino, e si porta
addirittura un po' al di sotto dell'1%: un ulteriore rallentamento cui
contribuisce la crisi iniziata nel 2007, ma che era in atto comunque, già
prima della crisi (vedi figura 1).
Figura 1 - Tasso di crescita delle economie avanzate (22 paesi sempre
OCSE)

Se, infatti, confrontiamo il tasso di crescita dei primi 7 anni del XXI
secolo (il periodo 2000-2007, dunque pre-crisi) con quello degli ultimi
7 anni del XX secolo (il periodo 1993-2000), possiamo constatare che
la decelerazione del ritmo di crescita dei paesi avanzati fra l'ultimo
decennio del Novecento e il primo del nuovo millennio è un fatto
anteriore alla crisi. Il tasso di crescita degli ultimi anni del secolo scorso
(1993-2000) era del 2,7%, quello dei primi anni di questo secolo (2000-
2007) è dell'1,9%. Come dire che, nel giro di meno di un decennio e
ancor prima della grande crisi, la velocità di crescita dei paesi avanzati
si era ridotta di quasi 1 punto percentuale, perdendo circa 1 / 3 della
propria velocità.4
Possiamo condensare questi fatti elementari dicendo che, considerate
nel loro complesso, le economie avanzate perdono velocità a un ritmo
di circa 1 punto al decennio. Il trend dura da circa mezzo secolo, e
presenta due sole, piccole, anomalie, che si manifestano come
scostamenti dal trend di lungo periodo: gli anni Settanta si situano un
po' al di sotto del trend, gli anni Novanta un po' al di sopra. Detto in
altre parole: cresciamo sempre più lentamente, ma negli anni Settanta la
decelerazione è stata particolarmente drammatica, mentre negli anni
Novanta siamo quasi riusciti a mantenere il ritmo del decennio
precedente. Vedremo alla fine di questo studio quali sono,
verosimilmente, le ragioni di questa piccola anomalia.
Il declino delle società avanzate è preoccupante, perché dura ormai
da mezzo secolo, è molto rapido, e pare progredire con un ritmo
implacabile. Se il trend degli ultimi 50 anni dovesse continuare, quel
che potremmo attenderci nei prossimi 10 è una crescita prossima a zero.
Il quadro si fa però ancora più deprimente per noi se, per un attimo,
distogliamo lo sguardo dalle nostre società, le cosiddette società
"avanzate", e ci volgiamo a tutte le altre. Possiamo chiederci, per
esempio, se anche gli altri paesi, sia quelli poveri sia quelli chiamati
"emergenti", siano stati coinvolti nel trend di rallentamento. È difficile
avere dati completi e affidabili su tutti gli Stati del mondo e per un
periodo di mezzo secolo, ma con i database esistenti qualcosa si può
fare. Se lavoriamo sui paesi del nucleo OCSE e li confrontiamo con gli
"altri" (il gruppo di tutti i paesi non-OCSE per cui abbiamo i dati
completi degli ultimi 50 anni),5 il quadro è piuttosto diverso da quello
delle società avanzate. Per tre decenni, dal 1960 al 1990, il PIL pro
capite degli "altri" (i paesi non-OCSE) è cresciuto a un tasso medio
relativamente stabile,6 prossimo al 2,5%. Poi però, grosso modo in
concomitanza con il decollo della globalizzazione, il loro tasso di
crescita è aumentato sensibilmente, portandosi al 3,2% negli anni
Novanta e addirittura al 5,4% nel decennio scorso, un ritmo
quest'ultimo che l'insieme delle economie avanzate non è mai riuscito a
tenere. Detto in poche parole: mentre la tendenza di lungo periodo delle
economie avanzate è il rallentamento, quella delle economie arretrate è
l'accelerazione.
Possiamo farci un'idea più diretta di questo mezzo secolo di storia
economica se, anziché confrontare i tassi di crescita dei vari decenni,
lavoriamo direttamente sul divario, ossia sul rapporto fra il PIL pro
capite dei paesi OCSE e dei paesi non-OCSE.
Figura 2 - Divario fra le economie avanzate e il resto del mondo
(medie mobili)

Un'occhiata al diagramma precedente consente di capire al volo come


sono andate le cose. L'ultimo mezzo secolo è nettamente suddiviso in
tre fasi, separate tra loro da due date storiche: il 1968, che ha sconvolto
le economie dell'Occidente, e il 1989, che ha sconvolto quelle del
mondo comunista.
Nella prima fase, che va dal 1960 al 1968, il vantaggio delle
economie avanzate è ulteriormente cresciuto, portando il divario da 7,3
a 8,7, un massimo storico mai più eguagliato in seguito. Questo
significa che, all'apogeo della loro crescita, i paesi OCSE avevano un
reddito pro capite quasi 10 volte superiore a quello dei paesi non-
OCSE. Nella fase di mezzo, che va dalla "rivoluzione" del 1968 a
quella del 1989, il divario non manifesta una tendenza uniforme: nei
primi anni, dal 1968 al 1982, diminuisce leggermente, mentre nella
seconda fase, dal 1982 al 1989, torna ad aumentare, pur senza
raggiungere più il livello del 1968. Nell'ultima fase, infine, la tendenza
principale è a un declino rapidissimo, che porta il divario da 8,5 nel
1989 a 4,5 nel 2011: un dimezzamento, in poco più di vent'anni.
Si può discutere a lungo se il punto di svolta, quello in cui i paesi
avanzati hanno cominciato a crescere meno di quelli arretrati, si situi
già nel 1968, o debba essere postdatato fino al 1989. Molto dipende
dalle fonti che si usano, dalla definizione di economie avanzate, e
soprattutto dai paesi che si includono nell'analisi.7 Ma resta il fatto che,
dopo il 1989, il divario si riduce a una velocità impressionante, con
un'unica brevissima pausa nel triennio 1996-1999.
La storia che abbiamo raccontato non dovrebbe stupire più di tanto.
La sostanza del processo descritto è che l'ultimo mezzo secolo è stato
caratterizzato prima da un aumento della diseguaglianza fra paesi, poi
da una sua riduzione. È vero, si sente spesso dire che le diseguaglianze
sono in aumento nel mondo, e persino che la crescita smisurata della
diseguaglianza è la causa ultima della crisi attuale. La realtà è che non
possiamo sapere se la diseguaglianza complessiva è aumentata o no,
perché mancano dati affidabili sul grado di diseguaglianza interna degli
oltre 200 Stati che formano il mondo.8 Quel che possiamo ricostruire
con precisione, invece, è l'evoluzione del grado di diseguaglianza fra
tutti gli Stati del mondo dal 1960 a oggi, misurata come di consueto con
l'indice di Gini.9
Figura 3 - La parabola della diseguaglianza fra Stati

Il pattern non potrebbe essere più chiaro. L'evoluzione del grado di


diseguaglianza fra i redditi medi pro capite degli Stati segue la
traiettoria di una parabola: prima una crescita, all'inizio rapida e poi
sempre più lenta, poi - dopo gli anni Settanta - una diminuzione, prima
lenta e in seguito sempre più rapida. Un andamento che dovrebbe
risultare familiare, visto che è quello che Kuznets aveva previsto, fin
dagli anni Cinquanta, per l'evoluzione della diseguaglianza interna a un
paese.10 A quanto pare la legge di Kuznets, o qualcosa che le somiglia,
funziona anche per il mondo nel suo insieme.
Di per sé, il fatto che chi è avanti corra meno di chi sta indietro non
solo non è un problema, ma potrebbe essere salutato come un fatto
positivo, come un meccanismo di riequilibrio fra paesi ricchi e paesi
poveri. Il problema non sta nella riduzione del divario, ma nel modo in
cui sta avvenendo: le economie avanzate non solo corrono meno delle
altre, ma corrono meno che in passato. Molto meno, sempre meno. Lo
schema 4-3-2-2-1 mostra che la perdita di velocità è cominciata almeno
40 anni fa, e vale circa 0,1 punti all'anno, più o meno 1 punto al
decennio. Dunque, già prima della crisi del 2007-2013 le economie dei
paesi avanzati erano pericolosamente vicine a un regime di stagnazione,
e questo in una situazione in cui molte di esse sono schiacciate da un
immenso debito pubblico e privato. Ciò vale, in particolare, per
l'eurozona: non solo perché, fra i paesi OCSE, quelli dell'eurozona sono
i più lenti, ma perché i mercati finanziari li trattano peggio degli altri.
Può sembrare strano, ma i dati di questi anni mostrano in modo
piuttosto inequivocabile che l'"equazione dello spread" è del tutto
diversa per i paesi con una vera Banca centrale (come il Giappone, gli
Stati Uniti, il Regno Unito) e per i paesi che, come i 17 paesi
dell'eurozona, non hanno una vera Banca centrale. Per i primi i tassi di
interesse richiesti dal mercato dipendono soprattutto dall'inflazione, per
i secondi sono estremamente sensibili al tasso di crescita: se un paese
ha discrete prospettive di crescita, i mercati tollerano un alto debito
pubblico, ma se le sue prospettive di crescita sono negative, i mercati
diventano estremamente esosi.11 Insomma, fra i paesi ad alto debito
pubblico, il lusso della non crescita possono permetterselo solo i paesi
che hanno una vera Banca centrale. Tutti gli altri devono prendere in
serissima considerazione la sequenza 4-3-2-2-1, e il futuro di crescita
zero che essa pare annunciare.
Di fronte a numeri tanto drammatici, si potrebbe pensare che, da
decenni, il problema centrale della letteratura sulla crescita sia
diventato il rapido declino delle economie avanzate. Ma non è così. In
un certo senso è esattamente il contrario. Gli studi empirici sulle
determinanti della crescita, fioriti soprattutto negli ultimi due decenni
sulla scia dei pionieristici lavori di Robert Barro e Xavier Sala-i-Martin,
si sono posti quasi sempre un altro problema: scoprire le condizioni che
avrebbero permesso ai paesi meno sviluppati di rincorrere, e
possibilmente raggiungere, quelli avanzati, il cosiddetto catching up. Di
qui si è sviluppato l'immenso arcipelago della "letteratura sulla
convergenza", con la sua distinzione fra s-convergenza e ß-
convergenza, fra ß-convergenza assoluta e ß-convergenza
condizionale:12 tutti strumenti volti a mettere a fuoco la questione di
fondo, ossia se le diseguaglianze di reddito pro capite13 o di
produttività fra paesi ricchi e paesi poveri stessero diminuendo oppure
no.
In concreto, questo significa cercare di scoprire le forze che spiegano
le differenze nei redditi pro capite dei vari paesi o, equivalentemente, le
differenze nei loro tassi di crescita di lungo periodo, cui quelle
differenze vanno evidentemente ricondotte. Di qui la scelta di lavorare
su insiemi molto ampi di paesi, avanzati e no, e la scarsa attenzione ai
paesi OCSE e alle loro specificità.14 Molto influenzata dai lavori dei
teorici della crescita, in particolare dall'economia dello sviluppo e dai
modelli di "crescita endogena",15 questa letteratura pare dare per
scontato che la crescita sia un processo potenzialmente illimitato, e che
i meccanismi che la governano siano universali, ovvero poco variabili
nel tempo e nello spazio.16
Questo libro adotta, per molti versi, la prospettiva opposta. Nelle
pagine seguenti mi concentrerò solo sulle società avanzate (i 34 paesi
OCSE), studiate nell'ultimo ciclo di crescita (1995-2007). Quel che
cercherò di individuare non sono le determinanti generali della crescita,
ma che cosa fa sì che - fra le società avanzate - alcune riescano ancora a
crescere e altre no. Infine, pur attirato dall'idea di una crescita illimitata
(e dai modelli matematici che la descrivono), non la darò affatto per
scontata. Che le nostre società abbiano ancora davanti a sé un
significativo tratto di sviluppo, o stiano invece per entrare in un regime
di stagnazione, o addirittura di arresto della crescita, è una questione
che non può essere decisa a tavolino, in base a considerazioni teoriche o
ideologiche, ma che merita di essere studiata a partire dai dati della
nostra storia recente. È quanto mi riprometto di fare in questo libro.
II

Teorie della crescita: da Solow a Solow

In principio era il modello di Harrod e Domar.1 Concepito in modo


indipendente dai due economisti intorno agli anni della seconda guerra
mondiale, il modello si proponeva di spiegare le fluttuazioni del tasso
di crescita all'interno del medesimo paese, ma sarà poi usato
ampiamente anche per spiegare le differenze di sviluppo fra paesi.
L'idea base è che il motore della crescita siano gli investimenti, i quali a
loro volta dipendono dal risparmio. Per far crescere un paese, dunque,
si deve stimolare il risparmio privato (per esempio abbassando le tasse),
oppure agire direttamente sul tasso di investimento, mediante gli
investimenti pubblici. La prima strada piace alla destra, nutrita di idee
liberiste, la seconda alla sinistra, nutrita di idee keynesiane.
Una decina di anni dopo Harrod e Domar è il turno di un'altra coppia,
Solow e Swan, che nel 1956, uno indipendentemente dall'altro,
formulano un nuovo modello.2 Anche qui lo scopo originario è di
analizzare come cresce un singolo paese, ma l'uso che del modello
verrà fatto da altri andrà ben oltre. Per quanto ultrasemplificato,
irrealistico, secondo alcuni persino tautologico,3 il modello di Solow è
diventato una sorta di pietra miliare: chiunque si occupi di crescita da lì
comincia, o da lì deve passare. Nella sua versione più semplice, quella
senza progresso tecnico, il modello di Solow dice sostanzialmente tre
cose.
1) Nel breve periodo la velocità di crescita di un paese dipende dal
suo tasso di risparmio, più è alto il risparmio e più velocemente cresce
il reddito per occupato.4
2) A un certo punto la crescita si stabilizza, e il sistema economico
entra in uno "stato stazionario", in cui tutte le grandezze si muovono in
modo bilanciato.5
3) Nello stato stazionario il reddito totale cresce senza limiti ma il
reddito per occupato non cresce più.
Questa versione del modello di Solow era indubbiamente un po'
cupa, e certamente poco realistica. Cupa perché metteva un tetto alla
crescita del benessere (qui inteso come PIL per addetto), irrealistica
perché assumeva una crescita illimitata della popolazione e quindi del
PIL, trascinato dall'aumento della popolazione. Un vago alone
malthusiano6 circondava il modello di Solow, anch'egli attirato
dall'idea di una crescita "geometrica" della popolazione, a fronte di
meccanismi frenanti. Per Malthus il meccanismo frenante fondamentale
era la crescita solo lineare dei mezzi di sussistenza, destinata a generare
povertà se non si fosse trovato il modo di limitare le nascite. Per Solow
era l'ipotesi di una produttività marginale del capitale decrescente
(un'idea forse reminiscente della marxiana "caduta tendenziale del
saggio di profitto"), da cui discendevano un progressivo rallentamento
degli investimenti e una crescita sempre più lenta del prodotto per
occupato, fino al suo completo arresto. Dove arresto significa, in buona
sostanza, che l'aumento del benessere, ovvero del reddito per abitante,7
incontra un tetto oltre il quale non può andare.
L'irrealismo del modello di Solow, in realtà, era bifronte, un po'
troppo pessimista per certi versi, un po' troppo ottimista per altri.
Troppo ottimista perché, pur prevedendo un tetto al reddito pro capite,
non prevedeva alcun limite all'aumento del reddito totale, la "torta"
complessiva del reddito nazionale. Nello stato stazionario la
popolazione continua a crescere senza limiti, la produttività di ogni
occupato non cresce più, e quindi - trascinato dall'aumento della
popolazione - il reddito nazionale cresce a sua volta senza limiti,
esattamente allo stesso tasso cui cresce la popolazione. Questo tipo di
irrealismo sarà notato soprattutto dai demografi, i cui modelli
prevedono invece che la popolazione - qualsiasi popolazione - incontri
un limite nel suo processo di crescita, dovuto alla scarsità delle risorse o
alla competizione fra specie.8 Di qui una serie di proposte per
introdurre nel modello di Solow ipotesi più realistiche sulla legge di
crescita della popolazione, proposte che tuttavia non ne avrebbero
modificato la conclusione fondamentale: alla fine, quando il sistema ha
raggiunto lo stato stazionario, il benessere smette di crescere.9 In
queste versioni "modificate" del modello la popolazione non cresce
esponenzialmente, ma secondo la curva prediletta dei demografi, la
cosiddetta curva a S o sigmoide.10
Figura 4 - Crescita secondo una curva a S
In queste varianti del modello di Solow sia la popolazione sia il
reddito all'inizio crescono velocemente, poi sempre più lentamente, fino
a raggiungere un tetto oltre il quale non è possibile andare. Però la
conseguenza fondamentale del modello originario resta in piedi: nello
stato stazionario il reddito per occupato, e quindi il benessere, non
cresce più.
È innanzitutto questo lato pessimistico del modello di Solow che, nei
decenni successivi, verrà messo in discussione da una lunga serie di
nuove teorie e nuovi modelli, che cercheranno di dimostrare che la
crescita può non fermarsi mai. L'idea di una traiettoria che avrebbe
portato inesorabilmente all'arresto della crescita non solo non poteva
piacere, ma appariva contraddetta dai fatti. Nella sua versione
originaria, senza progresso tecnico, il modello di Solow prevedeva che,
per ottenere un certo aumento del reddito prodotto, si dovessero
aumentare in misura corrispondente11 i due fattori produttivi
fondamentali, lavoro e capitale. L'osservazione delle statistiche
prodotte dalla contabilità nazionale dei vari paesi, e segnatamente di
quelle degli Stati Uniti, mostrava invece che gli aumenti di reddito
andavano molto al di là di ciò che ci si poteva attendere dati gli
incrementi osservati della forza lavoro (occupati in più) e dello stock di
capitale (investimenti). Questo scarto fra crescita osservata e crescita
prevista dal modello venne battezzato "residuo di Solow". Ma che cosa
era questo residuo?
Fu lo stesso Solow, in un articolo fondamentale del 1957, a suggerire
la risposta: se il prodotto cresceva troppo rapidamente, era perché le
tecnologie produttive non erano costanti, ma miglioravano
continuamente. Il residuo poteva e doveva essere interpretato come
"progresso tecnico". È così che prende piede una seconda versione del
modello, per la verità già considerata nell'articolo del 1956: il modello
di Solow "con progresso tecnico". Con questa variante il pessimismo
iniziale si capovolge nel suo contrario: se c'è progresso tecnico, e la
tecnologia migliora a un tasso costante, il destino finale delle economie
è di assestarsi su un sentiero di crescita perpetua, in cui il reddito per
addetto aumenta esattamente nella stessa misura in cui procede il
progresso tecnico. Ora non è solo la torta del reddito a crescere,
trascinata dall'aumento della popolazione occupata, ma è il benessere
che può aumentare senza limiti.
Si può dire che Solow avesse rimesso a posto le cose?
Assolutamente no. Anche in questa nuova versione il modello di
Solow lasciava aperti non pochi problemi. Il primo è che le variabili
fondamentali del modello, quelle che avrebbero dovuto spiegare la
crescita, erano a loro volta lasciate inspiegate. È vero che gli economisti
hanno un modo elegante per tirarsi fuori da simili problemi, e cioè di
affibbiare l'aggettivo "esogeno" a tutto ciò che non riescono a spiegare,
con ciò sottintendendo che sono altri scienziati sociali che devono
occuparsene. Nel modello di Solow sono esogeni il tasso di crescita
della popolazione, la velocità del progresso tecnico, la propensione al
risparmio (la quota di reddito nazionale destinata agli investimenti). Ma
l'espediente funziona bene quando è plausibile pensare che qualcosa sia
davvero esogeno, ossia esterno all'economia. Se la crescita dipende
anche dalle precipitazioni atmosferiche, può aver senso dire che sono i
meteorologi a doversene occupare. Se la crescita dipende dalla
popolazione, si può sperare che i demografi costruiscano un buon
modello (cosa che in effetti è avvenuta, come abbiamo visto). Ma se,
come accade con il modello di Solow, si dice che la crescita dipende dal
tasso di risparmio, è arduo lasciare ad altri il compito di spiegare perché
un paese in una certa epoca ha un determinato tasso di risparmio e non
un altro. Chi mai dovrebbe occuparsene, se non gli economisti?
E infatti non passerà molto tempo senza che altri economisti
raccolgano la sfida. Nel 1965, meno di dieci anni dopo il primo articolo
di Solow, due economisti, Cass e Koopmans, propongono un nuovo
modello di crescita. Nel modello di Cass-Koopmans, che si ispira a un
precedente contributo dell'economista e matematico Frank Ramsey, il
tasso di risparmio non è lasciato inspiegato (esogeno) ma diventa
endogeno,12 colmando così una lacuna del modello di Solow.
Ma la rinuncia a spiegare il tasso di risparmio non era il principale
limite del modello di Solow. Il tasso di risparmio, infatti, nel modello di
Solow conta solo prima che l'economia abbia raggiunto il suo stato
finale, quello in cui tutte le grandezze - reddito, consumi, investimenti -
evolvono in modo bilanciato. Nello stato finale, che gli economisti
chiamano "stato stazionario" (termine fuorviante, perché nello stato
stazionario può anche esserci crescita illimitata del reddito pro capite),
il modello di Solow prevede crescita zero se non c'è progresso tecnico,
mentre prevede crescita permanente se - come spesso si assume - il
progresso tecnico procede a un ritmo costante. Dunque, nello stato
finale l'unica fonte di crescita del benessere è il progresso tecnico, ma il
modello non se ne occupa, lasciando ad altri il compito di spiegarlo.
È chiaro che una simile lacuna non poteva lasciare indifferente la
comunità degli economisti. Tanto più che l'interpretazione di Solow,
ossia che dietro il "residuo" ci fosse il progresso tecnico, non era l'unica
possibile. Saranno Frank Hahn e Robert Matthews a notare, fin dal
1964, che il residuo è un concetto "pigliatutto" (catch all), e che il
problema è di capire che cosa si nasconde dentro il black box.13 E
infatti la storia della teoria economica dopo il 1957 è anche la storia dei
tentativi di aprire il black box, una sorta di grande "caccia al residuo"
che vede impegnate le menti migliori degli economisti.
Riassumere una storia così, che ha coinvolto migliaia di studiosi, è
ovviamente impossibile. Però, nonostante tutto, le sue svolte e le sue
linee fondamentali sono relativamente chiare e riconoscibili. Per aprire
il black box gli economisti hanno usato migliaia di munizioni, sotto
forma di modelli e apparati tecnici, ma poche armi fondamentali,
riconducibili ad alcune idee semplici e potenti.
La prima idea è che il problema stia nella funzione di produzione,
ossia nel modo in cui Solow ha espresso la relazione fra l'output e i
fattori produttivi fondamentali, capitale e lavoro. Nel modello di Solow
la crescita si ferma perché il capitale per addetto smette di crescere, e
questo accade perché la funzione di produzione è fatta in un certo
modo.14 Più precisamente: perché la forma della funzione implica che
la produttività marginale del capitale sia decrescente. Cambiando la
forma della funzione di produzione si può evitare questa implicazione
indesiderata e forse anche irrealistica, visto che nel mezzo secolo
successivo all'articolo del 1956 il reddito per abitante è aumentato quasi
sempre e quasi ovunque. Qui l'idea base è che il problema non sia
l'esistenza del progresso tecnico (trascurata dal modello di Solow) ma il
pessimismo vagamente malthusiano degli assunti sulla funzione di
produzione. Nel modello di Solow l'aumento del capitale mediante gli
investimenti è sempre meno redditizio, ossia sempre meno capace di
aumentare il prodotto per occupato, ed è questo che a un certo punto
induce a non investire più. Basta allora rimuovere questo assunto, e
sostituirlo con l'assunto che l'output sia proporzionale allo stock di
capitale, per rendere permanentemente redditizio l'investimento. È
questa la mossa dei modelli AK, così detti perché assumono la
proporzionalità fra output e capitale (Y = A · K): grazie a questa mossa
il reddito per occupato può crescere senza limiti, e la crescita diventa
perpetua.15
Il limite di questa mossa è che essa rinuncia a guardare dentro il
black box. Si può discutere molto sul significato del residuo di Solow, e
soprattutto sul modo di misurarlo, ma è difficile negarne l'esistenza. Se,
come è quasi sempre accaduto, l'aumento percentuale del reddito è
maggiore di quanto ci si potrebbe aspettare guardando all'andamento
delle ore lavorate e degli investimenti, una spiegazione bisogna
trovarla.
Arrivati a questo punto della nostra storia dobbiamo però introdurre
una distinzione importante. Il residuo di Solow è in realtà un concetto
bifronte. Nato in un contesto, quello della traiettoria di crescita di un
singolo paese, è poi esondato in un altro, quello delle differenze di
benessere e di crescita fra paesi differenti. Quando si dice che c'è un
residuo da spiegare, si possono intendere due cose distinte anche se
intimamente connesse:
a) il reddito pro capite di un paese cresce più (o meno) del previsto;
b) il reddito pro capite di un paese è maggiore (o minore) del
previsto.
Di qui una biforcazione della letteratura che, soprattutto a partire
dagli anni Novanta, si occupa sempre meno della crescita nel tempo di
un singolo paese, e sempre più delle differenze di crescita e di
benessere fra paesi diversi, dai più avanzati ai più poveri.16
Ma che cosa significa, esattamente, che il reddito pro capite non è
quello previsto?
"Previsto" significa prevedibile in base allo stock di capitale e di
forza lavoro impiegati nel processo produttivo. Perché è proprio questo
il nucleo logico irriducibile del modello di Solow, l'idea che vi sia
un'unica tecnologia per produrre, una sorta di tecnologia eterna e
universale: costante nel tempo e simile in tutti i paesi. Siamo arrivati
così allo snodo fondamentale. Una volta constatato che i conti non
tornano, perché il reddito pro capite osservato è diverso da quello
previsto dalla teoria, si aprono due strade.
La prima è di respingere l'ipotesi di una funzione di produzione
unica, e ammettere che la tecnologia è una variabile di cui occorre
rendere conto. Si tratterà allora di spiegare come cambia la tecnologia
(il progresso tecnico), o perché le tecnologie di un paese differiscono da
quelle di un altro. Un programma di ricerca al cui centro si trova la
misurazione, l'analisi e la spiegazione della "produttività totale dei
fattori" (o TFP, Total Factor Productivity): che cosa la fa crescere e
come mai, con gli stessi input, in un paese si produca più output che in
un altro. E poiché nel modello di Solow il progresso tecnico o non
esiste, o è esogeno (non spiegato), questa strada equivale ad
allontanarsi radicalmente dal modello di Solow. Con qualche
imprecisione, possiamo definire "neoschumpeteriana" questa via, per la
centralità che in essa - come nella classica visione di Schumpeter17 -
assumono le problematiche dell'innovazione e del progresso tecnico.
La seconda strada è di stare dentro il modello di Solow, mantenendo
l'ipotesi di una funzione di produzione unica, ma di trarne le dovute
conseguenze. Se la tecnologia è fissa, e si produce di più di quel che
essa sembra autorizzare, vuol dire che nel processo produttivo, oltre al
capitale e al lavoro, quasi di nascosto, entrano altri input. Si tratta di
scoprire di quali input si tratta, e di inserirli esplicitamente nella
funzione di produzione, "aumentando" il modello di Solow anziché
abbandonarlo. Possiamo definire "neosoloviana" questa linea di
pensiero.
Quel che queste due strade hanno in comune, e che allontana
entrambe (non solo la prima) dal modello di Solow, è che esse aspirano
a spiegare la crescita "dal di dentro", come un processo interno
all'economia e quindi potenzialmente pilotabile dalla politica
economica. In questo senso entrambe le idee che abbiamo esposto -
spiegare il progresso tecnico e aggiungere input - rientrano
nell'immensa tradizione delle teorie di "crescita endogena" (endogenous
growth), che hanno monopolizzato il dibattito degli ultimi 30 anni.
Crescita endogena ha significato, di volta in volta, introdurre nei
modelli ogni sorta di nuove variabili, nuovi meccanismi di trasmissione
della conoscenza, del progresso tecnico e dell'innovazione: investimenti
in capitale umano e "apprendimento dall'esperienza" (learning by
doing), infrastrutture materiali e istituzioni, politiche redistributive e
spesa sociale.18
Una tradizione indubbiamente ricca di risultati, ma anche -
inevitabilmente - molto politicizzata. Il fatto di concentrarsi sulle
determinanti della crescita interne all'economia fa sì che ogni risultato
sia politicamente spendibile per il solo fatto che si può immaginare una
politica economica che ne faccia uso.
È accaduto così con le teorie del capitale umano, il primo tipo di
input che si è provato ad aggiungere al capitale e al lavoro. Il capitale
umano è la quantità di conoscenza-istruzione-abilità incorporata nel
lavoro. Scoprire che gli investimenti in capitale umano innalzano il
tasso di crescita ha fornito più di un argomento alle politiche egualitarie
della sinistra. Così come ne ha forniti ogni scoperta di altre variabili pro
crescita in qualche modo connesse all'intervento statale, come la qualità
dell'assistenza sanitaria, il grado di eguaglianza, gli investimenti in
ricerca e sviluppo.
La stessa cosa è accaduta con i risultati che piacciono alla destra. Per
esempio, il fatto che la spesa pubblica e le tasse (in particolare quelle
sulle imprese) rallentano la crescita. O il fatto che la crescita è più
rapida dove i mercati sono flessibili e i diritti di proprietà sono più
tutelati.
A questa babele politico-scientifica ha contributo non poco un filone
di ricerca, quello delle regressioni à la Barro, dal nome del pioniere di
questo approccio.19 Un programma di ricerca ambizioso e sterminato,
basato sull'idea che, considerando tutti i paesi del mondo20 e tutte le
variabili concepibili, fosse possibile scoprire le vere determinanti della
crescita. Forse è troppo severo il giudizio finale di Tiago Mata e
Francisco Louçã, secondo cui questo filone di ricerca è ormai avviato
su un "binario morto" (a dead end). E sarebbe fin troppo facile
riproporre qui la perfida definizione - "a Kamasutra of variables" - che
Christopher Freeman riservò agli innumerevoli tentativi econometrici di
scoprire che cosa si celasse dietro il residuo di Solow. E tuttavia anche
a me pare che, se proviamo a seguire la storia del modello di Solow
fino ai giorni nostri, il contributo che è venuto dalla riflessione
economica sia più interessante di quello degli esercizi statistici.
Perché alla fine una battaglia fra economisti c'è stata e non è finita in
pareggio. Negli ultimi vent'anni la sfida fondamentale è diventata
quella di spiegare gli enormi divari di produttività fra paesi, nonché la
ragione per cui alcuni paesi li stanno riducendo a un ritmo vertiginoso
mentre altri non ci riescono. Se questo è il puzzle, è difficile non vedere
che fra le due idee guida che abbiamo ricordato - "aumentare" il
modello di Solow aggiungendo nuovi input, oppure abbandonare
l'assunto di tecnologia uniforme e prendere sul serio le differenze di
produttività - è quest'ultima che sta vincendo la gara. Fatti e rifatti i
calcoli, le differenze di produttività sono troppo grandi per essere
spiegate con la differente qualità del capitale umano, o con la diversa
dotazione di infrastrutture, o con una qualsiasi altra lista di nuovi input
da inserire nella funzione di produzione.21 E soprattutto resta
inspiegato il vero enigma della teoria della crescita: perché le grandi
nazioni che hanno fatto la storia del capitalismo, come l'Inghilterra o gli
Stati Uniti, hanno impiegato due secoli per raggiungere il benessere,
mentre ad altri paesi - come il Giappone, o la Corea del Sud - sono
bastati pochi decenni?
Di fronte a questa domanda le teorie del "revival neoclassico", che si
accontentano di aggiungere input alla funzione di produzione, restano
sostanzialmente mute.22 Alcuni tentativi di arricchire il modello a due
fattori di Solow con nuovi input (l'istruzione, la salute, le esternalità)
sono indubbiamente ingegnosi,23 altri sono veri e propri gioielli di
eleganza e raffinatezza intellettuale (è il caso del celebre test empirico
del modello di Solow proposto da Mankiw-Romer-Weil nel 1992). Ma
nessuno basta a fornire una risposta completamente soddisfacente. Una
possibile risposta viene invece dalle teorie che prendono sul serio le
differenze nella produttività totale dei fattori,24 prima fra tutte quella di
due premi Nobel per l'economia, Robert Lucas e Edward Prescott. E la
risposta è che, in questo secolo, il patrimonio di conoscenze
dell'umanità è enormemente cresciuto e, anche grazie alla
globalizzazione, è sostanzialmente "a disposizione" di chi intende
servirsene. Detto diversamente: le tecnologie che innalzano
drasticamente il livello della produttività possono essere importate, e
questo - paradossalmente - è il grande vantaggio dei paesi arretrati, o
ultimi arrivati (late comers), rispetto a quelli che hanno raggiunto il
benessere per primi (early entrants). Tanto più un paese è lontano dalla
"frontiera tecnologica", tanto più ha l'opportunità di accelerare il
proprio sviluppo, purché - e qui sta il nodo di politica economica - sia
disposto ad abbattere le barriere che proteggono i produttori interni
dalla concorrenza e ostacolano il trasferimento tecnologico.25
Che questa visione del processo di crescita abbia ancora a che fare
con l'impianto neoclassico e il modello di Solow è una questione in
parte nominalistica. A Prescott piace pensare che il suo sia ancora il
modello di crescita neoclassico, arricchito "con capitale immateriale e
differenze di TFP", ossia il vecchio modello del 1956 trasformato con
le due migliori idee maturate dopo Solow e di cui abbiamo parlato
poc'anzi. Ad altri la versione di Prescott potrà apparire lontanissima dal
modello neoclassico, di cui - in fondo - conserva solo l'ipotesi di una
funzione di produzione fatta in un certo modo, ovvero dotata di alcune
proprietà formali care ai modelli neoclassici.26 Resta il fatto che, negli
ultimi 50 anni, l'intera storia della teoria della crescita ha ruotato
intorno al modello di Solow, anche se - forse - più per merito dei suoi
limiti che delle sue virtù. Paradossalmente, sono proprio l'irrealismo e il
pessimismo del modello di Solow che hanno scatenato la gara per
cambiarlo, e per tanti anni hanno alimentato la ricerca sulla crescita.
Oggi quella ricerca è giunta ad alcuni punti fermi, ma nel frattempo il
panorama è completamente cambiato. E proprio quando gli economisti
sembrano aver trovato il modo di andare oltre il modello di Solow,
questo andare oltre appare meno necessario che cinquant'anni fa, perché
i "fatti stilizzati" che sembravano mettere in crisi il modello sembrano
aver fatto un significativo passo indietro, come un mare che si ritira.27
Allora il modello di Solow non convinceva perché prevedeva che i
paesi poveri crescessero più velocemente di quelli avanzati, e per quelli
avanzati prevedeva una crescita più lenta di quella che allora si poteva
osservare. Oggi il quadro è capovolto: i paesi avanzati ristagnano, come
se le loro economie fossero molto prossime ai rispettivi stati stazionari,
mentre i paesi un tempo definiti arretrati, poveri o in via di sviluppo
mostrano sorprendenti capacità di bruciare le tappe. Questo non
significa che Solow avesse ragione, e che i modelli di crescita più
recenti non siano stati un progresso. Significa però che se il modello di
Solow fosse stato inventato oggi, ben pochi si lamenterebbero del suo
scarso realismo, o del suo eccessivo pessimismo, perché i fatti con cui
oggi dobbiamo fare i conti appaiono singolarmente in sintonia con
alcune predizioni implicite in quel modello. Ed è curioso che,
nonostante siano almeno vent'anni che le cose sono cambiate, una parte
importante della letteratura sulla crescita si affanni ancora sul vecchio
problema di aiutare le economie arretrate a raggiungere quelle
avanzate, e non veda il nuovo problema che affligge queste ultime,
quello che abbiamo riassunto con lo schema 4-3-2-2-1: l'inesorabile
declino del tasso di crescita dei paesi più ricchi del mondo.
III

Lumache e gazzelle, perché?

È dunque dei paesi ricchi che vogliamo occuparci, perché sono loro -
non i paesi in via di sviluppo - il problema di oggi. Siamo noi, paesi
sviluppati, che abbiamo un problema di sviluppo,1 mentre i paesi "in
via di sviluppo" sono appunto incamminati su quella via. Forse non
suonerà politicamente corretto, ma oggi il problema della teoria della
crescita non è scoprire la miscela giusta per far decollare le economie
arretrate - tale miscela è già stata trovata2 - ma individuare i
"ricostituenti" che consentano alle economie avanzate di tornare a
crescere. Ed è strano, davvero molto strano, quanto lentamente questo
problema si sia fatto strada nella testa degli economisti, delle
organizzazioni internazionali, dei governi. Ancora pochissimi anni fa,
in un libro che è forse la più brillante ricostruzione della storia delle
teorie della crescita,3 David Warsh definiva la riflessione degli
economisti sulla crescita con queste parole:
Una specie di sfida, una sfida fra ricercatori ... per trovare ricette
nuove e pratiche capaci di favorire il decollo dello sviluppo nelle aree
del mondo in cui fino a ora si è fallito.
Era il 2006, ovvero l'ultimo anno prima della crisi dei mutui
subprime (agosto 2007), da cui sarebbe iniziata la più grave crisi
economica mondiale dopo quella del 1929. Eppure il problema che
quella crisi di lì a poco avrebbe reso evidente agli occhi di tutti, il
problema di identificare le forze che possono sostenere la crescita delle
società avanzate, era già sul tappeto da un paio di decenni. Ignorato dai
più, ma comunque evidente per chi avesse voluto notarlo.
Un'evidenza l'abbiamo già raccontata: all'inizio degli anni Novanta il
tasso di crescita delle economie avanzate aveva già percorso un bel
pezzo della sua traiettoria discendente: 4-3-2, ovvero crescita al 4%
negli anni Sessanta, al 3% (scarso) negli anni Settanta, al 2% negli anni
Ottanta. Ma c'era anche un motivo teorico che rendeva evidente
l'esistenza del problema: gli studi empirici sulla crescita avevano
identificato con relativa precisione l'equazione della crescita delle
economie arretrate, ma erano naufragati miseramente sull'equazione
della crescita delle società avanzate. I modelli matematici che
descrivevano accuratamente le forze che potevano spingere o frenare la
crescita nei paesi che ancora non avevano raggiunto elevati livelli di
benessere si scioglievano come neve al sole, se applicati all'insieme
ristretto delle economie avanzate.4
Questo fallimento era già chiaro nei primi anni Novanta, quando
Mankiw, Romer e Weil provarono a usare il modello di Solow per
spiegare le differenze di reddito pro capite fra paesi. L'equazione di
Mankiw, Romer e Weil (MRW, d'ora in poi) riconduceva le differenze
di benessere fra paesi a tre fattori:
a) il tasso di risparmio, che è alla base della capacità di un paese di
fare investimenti in capitale fisico;
b) il tasso di scolarizzazione, visto come un indicatore degli
investimenti in capitale umano;
c) il tasso di crescita della popolazione.
Il tentativo di MRW ebbe successo per i paesi in via di sviluppo, ma
fallì completamente per le economie avanzate. La medesima equazione
che, applicata ai paesi arretrati, si rivelava in grado di predirne piuttosto
accuratamente i tassi di crescita, perdeva ogni capacità predittiva se
applicata alle economie avanzate.
L'insuccesso del tentativo di MRW era tanto più clamoroso se si
pensa che, già allora, l'insieme delle economie più ricche del pianeta era
estremamente differenziato quanto alla capacità di crescere. C'erano
paesi avanzati che, nei decenni precedenti,5 erano cresciuti a ritmi
rapidissimi (sopra il 5%), come la Corea del Sud e il Giappone. E ce
n'erano altri, come la Svizzera e la Nuova Zelanda, che erano cresciuti a
ritmi molto lenti (fra l'1 e il 2%). Insomma: gazzelle e lumache. Fra il
paese più lento, la Nuova Zelanda, e il paese più veloce, la Corea del
Sud, il divario era di circa 1 a 6: appena sopra l'1% la lumaca Nuova
Zelanda, quasi il 7% la gazzella Corea del Sud.
Figura 5 - Tassi di crescita delle economie avanzate nel trentennio
1960-1990

Fonte: Maddison (2010).


Dunque materiale per farsi delle domande ce n'era. Non solo il fatto
che il tasso di crescita delle economie avanzate rallentasse di circa un
punto ogni decennio, ma il fatto che alcune crescessero molto e altre
poco.
Ma l'attenzione era rivolta altrove. Allora, come in parte ancora oggi,
il problema centrale pareva essere quello del catching up: come far sì
che le economie arretrate raggiungano i livelli di benessere di quelle
avanzate. Un problema alla cui soluzione hanno dato contributi
fondamentali studiosi come l'economista turco Daron Acemoglu, con le
sue ricerche sull'eredità coloniale e la sua distinzione fra istituzioni
"estrattive", che inibiscono la crescita, e istituzioni "inclusive", che la
promuovono.6
Il problema di individuare le forze che governano la crescita delle
economie avanzate pare interessare una minoranza degli studiosi.
Eppure proprio i risultati dei modelli che cercano di individuare le forze
che sostengono la crescita nei paesi arretrati rendono evidente che
quello delle economie avanzate resta un puzzle irrisolto. La scoperta
fondamentale di quei modelli, infatti, è che per la crescita sono cruciali
le cosiddette "istituzioni economiche": protezione dei diritti di
proprietà, apertura commerciale, mercati del lavoro e prodotti ben
regolati. Tutte cose che variano molto da un paese all'altro nel mondo,
ma pochissimo all'interno del blocco delle economie avanzate, che sono
tali proprio perché hanno buone istituzioni economiche. E qualcosa che
non varia, o varia poco, non può spiegare qualcosa che varia molto.
Il divario nei tassi di crescita delle economie avanzate, già evidente
nel trentennio 1960-1990, è altrettanto evidente oggi.
Figura 6 - Tassi di crescita delle economie avanzate nell'ultimo
periodo di crescita (1995-2007)

Fonte: Maddison (2010).


Se consideriamo l'ultimo periodo di crescita, i dodici anni che vanno
dal 1995 al 2007, possiamo anzi notare che il divario fra il tasso di
crescita del paese più veloce (l'Estonia) e quello dei due paesi più lenti
(Italia e Giappone) è addirittura cresciuto. Italia e Giappone,
protagonisti dei due grandi miracoli economici del dopoguerra, sono
cresciuti al ritmo dell'1,1%, l'Estonia è cresciuta a un ritmo che sfiora
l'8%, l'Irlanda è cresciuta a un ritmo vicino al 6%.
Eppure sono tutte società avanzate, democratiche, pienamente
inserite nell'economia di mercato. Il fatto che appartengano tutte
all'OCSE significa precisamente che hanno istituzioni simili. Difficile
pensare che divari così ampi nei tassi di crescita siano spiegabili
proprio con le istituzioni. È dunque altrove che dobbiamo rivolgerci, se
vogliamo capire perché - ancora oggi - certe economie avanzate sono
gazzelle, mentre altre sono (o sono diventate) lumache.
E in parte sta già avvenendo, probabilmente anche sotto la spinta
della crisi di questi anni. Va in questa direzione, per esempio, il recente
studio di Hanushek e Woessmann sul ruolo dell'istruzione come fattore
di crescita dei paesi OCSE, che cerca di dimostrare proprio questo: che,
se quel che vogliamo spiegare è la crescita di lungo periodo delle
economie avanzate, le istituzioni economiche contano assai poco, ed è
molto più importante il capitale umano.
Noi però seguiremo una via un po' diversa. Anche per noi, come per
tutta la letteratura empirica sulla crescita, individuare l'equazione della
crescita è l'obiettivo fondamentale. Però a noi non interessa
"dimostrare" che qualcosa conta e qualcos'altro no. Il nostro puzzle è
completamente aperto. Siamo pronti a far spazio a qualsiasi variabile
che possa spiegare perché certe economie sono lumache, e altre invece
sono gazzelle. Mettiamo solo tre condizioni.
1) La crescita che ci interessa spiegare non è la crescita di lungo
periodo di tutti i paesi del mondo, ma la crescita delle economie
avanzate nell'ultimo periodo di crescita prima della grande crisi del
2008-2013. In breve, quel che noi cercheremo di capire sono le forze in
gioco nel periodo 1995-2007, al riparo dalle complicazioni politiche e
monetarie intervenute negli ultimi anni. Il nostro problema non è capire
che cosa muove le economie in un periodo di aggiustamenti forzati
come quello attuale, ma che cosa le ha sostenute o frenate nel più
recente periodo di crescita.
2) L'equazione non deve essere tautologica, o semitautologica, come
qualche volta accade nella letteratura sulla crescita e non solo.
Explanans ed explanandum non devono essere della stessa stoffa,
ovvero empiricamente affini. Così come nella teoria dell'azione è
proibito spiegare un comportamento con un'intenzione (principio di von
Wright:7 non posso dire "x è andato a votare perché aveva l'intenzione
di votare"), così noi ci vieteremo di introdurre nell'equazione della
crescita qualsiasi variabile prossimale,8 ossia troppo vicina a quel che
si cerca di spiegare. Non si tratta di una condizione ovvia, perché nel
campo degli studi sulla crescita la tentazione è sempre in agguato:
spiegare l'output (valore aggiunto) con gli input (capitale e lavoro), o
non rendersi conto che l'equazione che si stima è fondamentalmente
un'identità contabile. Questo tipo di svista o di leggerezza capitò anche
a Mankiw, Romer e Weil, nel loro peraltro brillantissimo saggio sulla
verifica empirica del modello di Solow, e ci vollero quasi quindici anni
perché qualcuno se ne accorgesse.9
3) Le variabili ammesse nell'equazione della crescita sono solo quelle
veramente importanti. Variabili capaci di accelerare o frenare la crescita
in una misura apprezzabile,10 e come tali resistenti alle mille diavolerie
che noi analisti dei dati possiamo escogitare per sbriciolare
un'equazione: togliere e aggiungere casi (ossia paesi o anni),
aggiungere e sopprimere variabili. Vogliamo poche variabili, e tutte
importanti. Nessun "Kamasutra of variables", nessuna indulgenza verso
le variabili-Lilliput, ossia verso quei fattori che forse spiegano qualcosa
e comunque spiegano poco.
Ora siamo pronti.
IV

L'equazione della crescita

O forse no. Forse non siamo tutti pronti. Proprio mentre mi


apprestavo a scrivere questo capitolo, mi è capitato tra le mani un
articolo di giornale. Si intitolava Cosa succede quando il cervello si
imbatte in un'equazione. Spiegava che, di fronte a un'equazione o a una
formula, il cervello dei matematici si attiva in modo diverso da quello
delle persone normali. Nei matematici e nei soggetti "matematicamente
ben istruiti", entra in azione un'area cerebrale speciale, che guida nella
corretta lettura dell'espressione matematica, la quale è composta da una
sequenza di lettere, numeri, parentesi, segni di operazioni, simboli
speciali. In tutti gli altri, i "non matematicamente ben istruiti", la
formula viene processata come una normale parola, da sinistra a destra,
come una qualsiasi sequenza di caratteri alfanumerici. Forse per questo,
perché, letta come fosse una parola, una formula non dice proprio
niente, la maggior parte dei lettori, quando incontra un'equazione,
semplicemente la salta.
Io ora dovrei presentarvi un'equazione, questa equazione.1
gn = 0,58 Hn + 0,48 Fn + 0,45 In - 0,45 Tn - 1,17 t(yn) + 3,0
Ma vorrei anche pregarvi di non saltarla, nel caso non foste
"matematicamente ben istruiti" (piuttosto leggete nelle pagine seguenti
la digressione su "che cosa è un'equazione"). Perché questo non è un
libro rivolto ai colleghi professori universitari (per questi ci sono le
appendici, o meglio le "anatre", come le chiamo io), ma è un libro
rivolto alle persone normali, che amano leggere ma non
necessariamente di matematica o di economia.
L'equazione che ho appena scritto è la più semplice e concisa fra le
equazioni con cui ho provato a risolvere l'enigma della crescita delle
economie avanzate nel periodo 1995-2007. In essa compaiono solo le 5
forze fondamentali che governano la crescita: H, F, I, T, t(y). Nel
prossimo capitolo impareremo a conoscerla e a capirla, ma per ora
cominciate a guardarla. Con calma, pezzo per pezzo, simbolo per
simbolo. Perché, fra poche pagine, sapremo esattamente che cosa
significa. E, ve lo garantisco, non vi sembrerà astrusa come vi appare
ora.
Digressione (per chi non sa o non ricorda più che cosa è
un'equazione)

Ma che cosa è un'equazione?


Un'equazione, tanto per cominciare, è un'espressione formata da un
insieme di simboli separati dal segno di eguaglianza (=). Essa, in fondo,
dice solo che qualcosa è eguale a qualcos'altro. È per questo, perché
rappresenta un'eguaglianza, che si chiama equazione.
Per esempio:
y=7
x = -a
x+a = 0
y = (x2 + a) b
sono tutte equazioni.
Esse risultano costruite con 4 ingredienti fondamentali (oltre al segno
di eguale, che ci deve essere sempre, altrimenti non siamo di fronte a
un'equazione).
- numeri (7, 0, 2)
- segni di operazioni (+, -)
- lettere dell'alfabeto (y, x, a, b)
- parentesi
La cosa più importante, in un'equazione, sono le lettere dell'alfabeto.
Di solito si usa l'alfabeto inglese, che ha più lettere (26), ma alle volte
siamo costretti a introdurre altri alfabeti, o perché le lettere dell'alfabeto
inglese non ci bastano, o anche, semplicemente, perché vogliamo
sottolineare una distinzione. Allora ricorriamo ad altri alfabeti: di solito
quello greco, ma talora anche quello ebraico, e persino quello gotico e
quello cirillico. Gli statistici, per esempio, usano le lettere greche (a, ß,
...,) per indicare le entità nascoste, o inosservabili, o "latenti". I
matematici, a loro volta, ricorrono alla prima lettera dell'alfabeto
ebraico (alef, scritta ?) per indicare i primi numeri transfiniti.2
Nella maggior parte dei casi, quando usiamo un'equazione, le lettere
indicano delle grandezze numeriche di cui non si conosce o non si
intende specificare il valore. Queste grandezze vengono spesso distinte
in due gruppi: grandezze fisse, chiamate "parametri" e indicate con le
prime lettere dell'alfabeto (a, b, c, ...), e grandezze che cambiano nello
spazio o nel tempo, chiamate "variabili" e indicate con le ultime lettere
dell'alfabeto (..., x, y, z).
Ed ecco che siamo in grado di capire meglio che cosa fa
un'equazione. Abbiamo già visto che, grazie al segno di eguale,
l'equazione dice che qualcosa è uguale a qualcos'altro. Ma se a sinistra
dell'equazione mettiamo un simbolo di variabile (per esempio y), e a
destra uno o più simboli di variabili o di parametri (per esempio a e x),
siamo in grado di usare l'equazione per rappresentare una relazione di
dipendenza fra grandezze.
Primo esempio: vogliamo dire che l'area di un rettangolo
(chiamiamola y) è il prodotto della base (x) per l'altezza (z). Possiamo
riassumere il tutto in un'equazione:
y=xz

Secondo esempio: vogliamo dire che l'area di un quadrato (y) è il


prodotto della lunghezza del lato (x) per sé stessa, ovvero è "il
quadrato" del lato (ecco perché l'elevamento al quadrato si chiama
così!). Di nuovo possiamo usare un'equazione:
y = x2

Finora abbiamo usato solo variabili. Introduciamo ora anche un


parametro numerico noto.
Terzo esempio: vogliamo dire che l'area di un cerchio (y) è uguale al
quadrato del raggio (r) moltiplicato per 3,14. Possiamo scrivere:
y = 3,14 r2

Oppure, se voglio esplicitare che il valore esatto della grandezza che


collega y a r2 è il numero irrazionale pi greco (p), posso scrivere:
y = p r2

dove diventa molto chiaro il diverso ruolo delle variabili y e r (che


variano) e del parametro p (che resta fisso). La nostra equazione, in
altre parole, rappresenta l'area di un qualsiasi cerchio, con un raggio di
lunghezza qualsiasi. Ma quali che siano i valori assunti dalle variabili r
e y, il parametro p che le collega resta fisso, e varrà sempre 3,14 (più le
sue infinite cifre decimali).
Dovremmo essere in grado, a questo punto, di apprezzare l'utilità di
un'equazione: un'equazione mi dice come una certa grandezza (y), che
mi interessa, dipende da altre grandezze (x1, x2, ..., xk). E me lo dice
mediante un'espressione, o forma funzionale, più o meno complessa,
che di solito contiene dei parametri fissi ma sconosciuti. Per esempio
l'equazione lineare:
y = b0 + b1 x1 + b2 x2

dice che una certa grandezza, denominata "variabile dipendente" (y),


dipende da altre due grandezze, denominate "variabili indipendenti" (x1
e x2), secondo un'espressione matematica molto semplice, che contiene
un certo numero di grandezze fisse, dette "parametri" (b0, b1, b2).
Un'equazione è uno strumento molto generale e potente per specificare
come qualcosa dipende da qualcos'altro: uno strumento per descrivere il
meccanismo che governa un fenomeno che ci interessa spiegare o
capire.
V

Le 5 forze che governano la crescita

Che cosa dice, la nostra equazione?


gn = 0,58 Hn + 0,48 Fn + 0,45 In - 0,45 Tn - 1,17 t(yn) + 3,0
Cominciamo, per ora, a raccontarlo solo con le parole.1 L'equazione
ci dice che c'è un fenomeno, il tasso di crescita del reddito pro capite g
(per "growth"), che varia di intensità da paese a paese, e che dipende da
5 forze, indicate con le lettere H, F, I, T, t(y): conoscendo l'intensità di
ciascuna di esse in un dato paese OCSE (il paese n-esimo) l'equazione
predice - vedremo più avanti con quale precisione - il suo tasso di
crescita nel periodo studiato (1995-2007).
Prima di rivelare che cosa sono queste 5 forze, vi faccio letteralmente
"vedere" l'equazione. E per farlo uso un pentagono "trafitto" da cinque
frecce.
Figura 7 - Le 5 forze che influenzano la crescita

Così forse vi è meno ostile. La figura mostra che c'è un fenomeno, g,


su cui agiscono 5 forze, con intensità diverse indicate dai numeretti che
accompagnano ogni forza. Per esempio, quel numero (0,58), che trovate
lungo la freccia che collega H a g, significa che l'impatto della forza H
sul tasso di crescita è pari a 0,58. Vedremo più avanti che cosa significa,
esattamente, un impatto pari a 0,58. Per ora, anche senza sapere che
cosa è H, e come si misura una forza che spinge o frena la crescita,
possiamo però già dire molto altro. Per esempio che alcune forze hanno
un impatto positivo, ovvero spingono la crescita, mentre altre hanno un
impatto negativo, ovvero la frenano. Le prime compaiono con il segno
più (+) nell'equazione (e nel diagramma), le seconde compaiono con il
segno meno (-). Dunque, H, F e I spingono, T e t(y) frenano. Possiamo
anche notare che le prime quattro forze e controforze - H, F, I, T -
hanno un'importanza analoga, visto che i loro coefficienti variano da
0,45 a 0,58. Solo la quinta forza, indicata con t(y), sembra avere un
impatto decisamente superiore, e di segno negativo (-1,17).
Ma quali sono queste 5 forze e controforze?
È arrivato il momento di spiegarlo. La prima è la qualità del "capitale
umano", che nell'equazione è rappresentata con la lettera H, come
"Human capital". Il capitale umano è probabilmente l'unica forza che
svolge un ruolo positivo importante sia nei paesi arretrati sia in quelli
avanzati. Secondo Hanushek e Woessmann, autori di alcuni studi
fondamentali al riguardo,2 la qualità del capitale umano - in particolare
sotto forma di padronanza delle conoscenze di base in matematica e
scienze - è la forza fondamentale che può sostenere la crescita dei paesi
OCSE. E in effetti anche nella nostra equazione, come si vede dal
valore del suo coefficiente (0,58), esso assume un ruolo importante.
La seconda forza fondamentale è il saldo degli "investimenti diretti
esteri", che nell'equazione viene rappresentata con la lettera F (da FDI,
Foreign Direct Investment). Questo tipo di forza, che misura il
contributo netto del capitale straniero all'accumulazione, è importante
soprattutto per spiegare le performance straordinarie dell'Irlanda e di
alcuni paesi dell'Est, come l'Estonia o le due Repubbliche sorte dalla
Cecoslovacchia, che sono cresciuti a ritmi molto elevati anche grazie a
un flusso costante di investimenti dall'estero.
La terza forza è la qualità delle "istituzioni economiche", I
("Institutions"), ossia il fatto di avere buone regole di funzionamento
dell'economia. Apparentemente è il medesimo ingrediente scoperto
dalla vasta letteratura sullo sviluppo, sempre focalizzata sui paesi
arretrati. Ma in realtà si tratta di un mix di condizioni un po' diverso.
Nelle analisi sulle economie arretrate le istituzioni economiche che
influenzano la crescita sono tipicamente la protezione dei diritti di
proprietà (tutela contro il rischio di esproprio) e l'apertura dei mercati,
ossia l'assenza di barriere agli scambi.3 Quando si analizzano le
economie avanzate, invece, contano di più altri aspetti, legati
soprattutto al funzionamento della giustizia civile e agli oneri
burocratici imposti alle imprese: tempo per gli adempimenti fiscali e
retributivi, anni necessari per recuperare i crediti in caso di fallimento,
costi per risolvere dispute contrattuali. La nostra variabile I è un indice
sintetico che misura questi ultimi tre aspetti.
La quarta forza fondamentale sono le "tasse", T ("Taxation"), il cui
ruolo è però negativo, di rallentamento della crescita. Alte tasse frenano
la crescita, basse tasse la promuovono. Però, attenzione: non tutti i tipi
di tasse hanno un effetto apprezzabile sulla crescita. È piuttosto
difficile, per esempio, provare che l'ampiezza della spesa pubblica o la
pressione fiscale complessiva rallentino la crescita.4 Come è difficile
trovare tracce di una relazione negativa fra crescita e tasse sul lavoro.
Le tasse che frenano la crescita sono quelle che gravano direttamente
sull'impresa e sui suoi utili.5 Questo spiega, per esempio, casi come
quello della Svezia e della Finlandia. Questi due paesi, nel periodo da
noi studiato (1995-2007), hanno realizzato una sorta di miracolo: alte
tasse e alta crescita. Ma lo hanno potuto realizzare perché le loro alte
tasse non erano quelle che frenano la crescita: in Svezia e in Finlandia
la pressione fiscale complessiva è molto alta, l'imposta sul valore
aggiunto è al 25%, le tasse sul lavoro non sono certo leggere ma le
imposte che gravano direttamente sulle imprese sono fra le più basse
d'Europa.
È forse il caso di notare che tre delle quattro forze indicate fin qui
hanno una precisa matrice teorica, ma anche ideologica. Detto
brutalmente: H (Human capital) piace al pensiero economico di sinistra,
che stravede per gli "investimenti in capitale umano"; T (Taxation)
piace al pensiero economico di destra, che sogna di sollevare i cittadini
dal fardello fiscale, I (Institutions) piace al pensiero liberale, convinto
che il motore della crescita siano la concorrenza e le liberalizzazioni. In
questo senso, non c'è niente di particolarmente nuovo nell'equazione
della crescita, se non il suo carattere salomonico. Anziché "dimostrare"
che quel che veramente conta è solo l'istruzione, o solo le tasse, o solo
la concorrenza, l'equazione della crescita suggerisce che nessuno di
questi tre fattori (d'ora in poi: i "fondamentali della crescita")6 può
essere escluso, ignorato o sottovalutato, perché non esiste un fattore
dominante, e anzi le principali forze e controforze messe in luce fin qui
hanno più o meno la medesima importanza. Più che dilaniarsi fra
keynesiani, monetaristi e istituzionalisti, gli studiosi di tutte le tendenze
farebbero forse meglio a concentrarsi sulla quinta forza, l'unica di cui
non abbiamo ancora parlato: t(y).
Che cos'è t(y)?
Vediamo se indovinate. Qual è la forza che più influisce sulla crescita
e che ha un effetto negativo, di freno o rallentamento?
È triste dirlo, ma t(y) non è altro che il "benessere", ossia il reddito
per abitante a parità di potere d'acquisto.7 Più un paese è ricco e meno
cresce, meno è ricco e più cresce. Quel coefficiente negativo, pari a -
1,17, indica precisamente che variazioni positive del benessere
producono rallentamenti del tasso di crescita.8
Anche questa non è una novità. Sappiamo tutti che, quando
decollano, i paesi arretrati crescono molto più in fretta delle economie
mature. Si sa anche abbastanza bene perché: nei paesi arretrati si
consuma poco e si investe molto, il costo del lavoro è bassissimo, lo
Stato sociale non esiste, i sindacati contano poco, le norme a protezione
del lavoro e dell'ambiente sono deboli o assenti, manca una legislazione
a tutela dei consumatori. Per non parlare di un'altra circostanza, forse
meno nota: la crescita del PIL si misura in termini monetari, e questo
fatto da solo basta a far decollare il PIL di qualsiasi paese in transizione
da società agricola a società industriale. Quel che accade, infatti, è che
grandi masse di contadini entrano nell'economia di mercato,
abbandonano i campi, cessano di sostenersi con i prodotti agricoli da
essi stessi prodotti (autoconsumo), ma le statistiche non registrano
questa contrazione del prodotto, ma solo l'aumento - spesso vertiginoso
- del reddito monetario, legato semplicemente al fatto che gli ex
contadini ora divenuti operai devono comprare i mezzi di sussistenza,
anziché fabbricarseli da sé. La crescita vertiginosa del PIL delle
economie arretrate, in altre parole, è in parte drogata dal meccanismo di
calcolo del reddito nazionale.
Dunque, che i paesi "in via di sviluppo" possano avere una marcia in
più non è una novità. La novità sta invece nel fatto che il medesimo
meccanismo di rallentamento della crescita dovuto al benessere operi
anche all'interno delle società avanzate, e sia anzi la forza più
importante che ne forgia il destino. E questo nonostante le società
avanzate siano tra loro piuttosto simili quanto a tutti i fattori che
"avvantaggiano" le società arretrate all'inizio del loro processo di
sviluppo: forza dei sindacati, costo del lavoro, Stato sociale, tasso di
investimento, regolamentazioni varie; e naturalmente percentuale di
addetti all'agricoltura, che è ovunque bassa e sostanzialmente
stazionaria.
Ed ecco dunque il problema. Perché, pur essendo tutte prive dei
"vantaggi" dell'arretratezza, alcune società avanzate crescono a ritmi
molto sostenuti, mentre altre ristagnano? Perché, nel periodo 1995-
2007, Italia e Giappone sono cresciute a un tasso medio dell'1%, mentre
la Finlandia è cresciuta quasi al 4%, l'Irlanda oltre il 5%, l'Estonia
all'8%?
È qui che l'equazione della crescita viene in soccorso. L'equazione
della crescita ci dice, in sostanza, che nell'ultimo periodo di crescita - i
dodici anni che vanno dal 1995 al 2007 - il tasso di crescita dei vari
paesi è dipeso dai valori delle 5 forze fondamentali che compaiono
nell'equazione. Se guardate attentamente il pentagono della crescita
(vedi figura 7), potete rendervi conto immediatamente che le condizioni
ideali per crescere sono: un basso reddito pro capite iniziale (y), un
flusso positivo di investimenti diretti dall'estero (F), il fatto di avere
valori favorevoli su quelli che potremmo chiamare i "fondamentali
della crescita": elevata qualità del capitale umano (H), buone istituzioni
economiche (I), basse tasse sui produttori (T). Specularmente, le
condizioni peggiori per crescere sono: un elevato reddito pro capite
iniziale, un consistente deflusso di investimenti verso l'estero, scarsa
qualità del capitale umano, cattive istituzioni economiche, alte tasse sui
produttori. Se i paesi OCSE hanno avuto tassi di crescita così diversi,
dall'1% dell'Italia all'8% dell'Estonia, e se nello zoo delle società
avanzate ci sono state gazzelle e lumache, è perché in questi 34 paesi il
mix di condizioni era radicalmente diverso da paese a paese.
Diverso per le condizioni di partenza, innanzitutto. Nel 1995, anno di
inizio della nostra storia, il reddito pro capite della Norvegia, il paese
più ricco, era circa il doppio di quello della Spagna, e ben cinque volte
quello della Turchia, il paese più povero. Ma diverso, anche, era lo stato
dei "fondamentali della crescita", ovvero capitale umano, istituzioni
economiche e tasse. Un paese come l'Italia, per esempio, era sotto la
media su tutti e tre i fondamentali, una circostanza aggravata -
paradossalmente - dal fatto di avere un livello di reddito abbastanza
alto, comunque significativamente superiore alla media dei paesi
OCSE: alla luce dell'equazione della crescita non può stupire che
questo paese sia cresciuto meno di qualsiasi altro. All'estremo opposto,
l'Estonia e la Corea del Sud erano sopra la media su tutti i
fondamentali, e in più avevano il "vantaggio" di essere sotto la media
sul reddito pro capite: le condizioni ideali per crescere, come infatti è
avvenuto. In mezzo, fra questi due estremi, stanno i paesi in cui forze e
controforze operano in direzioni opposte. Paesi nei quali il basso
reddito di partenza spinge la crescita, ma cattivi fondamentali la
rallentano, come la Turchia e la Spagna. E paesi nei quali l'alto reddito
frena la crescita ma i buoni fondamentali la sostengono, come
l'Australia e i tre paesi scandinavi.
Possiamo riassumere tutto ciò con un piccolo esercizio di
classificazione. I paesi possono essere suddivisi in quattro tipi, a
seconda che il loro reddito pro capite sia sopra o sotto la media e che i
loro fondamentali9 siano buoni o cattivi. Otteniamo così quattro
combinazioni, e altrettante famiglie di paesi.
Tabella 1 - Quattro tipi di paesi: tassi medi di crescita (1995-2007)

Reddito Fondamentali Buoni Cattivi Basso TASSO MEDIO


DI CRESCITA: 4,8%
Irlanda
Estonia
Ungheria
Slovacchia
Corea del Sud
Slovenia
Nuova Zelanda
Polonia
TASSO MEDIO
DI CRESCITA: 3,0%
Grecia
Portogallo
Spagna
Israele
Cile
Repubblica Ceca
Messico
Turchia
Alto TASSO MEDIO
DI CRESCITA: 2,4%
Finlandia
Norvegia
Austria
Belgio
Australia
Svezia
Svizzera
Francia
TASSO MEDIO
DI CRESCITA: 1,9%
Regno Unito
Canada
Stati Uniti
Danimarca
Olanda
Germania
Giappone
Italia
Per ciascuna delle quattro combinazioni abbiamo riportato sia il tasso
di crescita medio sia l'elenco dei paesi, in ordine decrescente dal più
veloce al più lento. I paesi che crescono di più (4,8%) sono quelli con
buoni fondamentali ma con un reddito di partenza basso, come Irlanda,
Estonia, Corea del Sud. I paesi che crescono di meno (1,8%) sono
quelli con la miscela opposta: cattivi fondamentali, reddito di partenza
elevato, come Italia, Giappone, Germania. In mezzo i paesi che
crescono a un tasso medio, vicino al 3%, perché le forze dell'equazione
della crescita tendono a elidersi: un reddito basso è neutralizzato da
cattivi fondamentali, e buoni fondamentali sono resi vani da un reddito
troppo elevato. Nel primo gruppo (paesi poveri frenati dall'inefficienza)
rientrano tipicamente i paesi mediterranei che saranno al centro della
crisi del 2007: Grecia, Portogallo, Spagna. Nel secondo gruppo (paesi
efficienti frenati dalla ricchezza) rientrano tipicamente i paesi
scandinavi: Finlandia, Norvegia, Svezia.
Può colpire, in questo elenco, l'inclusione della Germania fra le
economie mature e lente, in quanto afflitte da cattivi fondamentali. Ma
bisognerà ricordare che per buona parte del periodo da noi considerato
la Germania non aveva ancora fatto le riforme10 (mercato del lavoro e
spesa pubblica) per cui oggi viene lodata, e proprio per questo - perché
cresceva poco e stentava a varare le riforme - veniva considerata "il
malato d'Europa" (the sick man of Europe), una qualifica che la
Germania perse solo nel 2007, giusto l'ultimo anno da noi considerato.
Quanto alle altre economie mature vale la pena notare come la casella
peggiore (paesi ricchi con cattivi fondamentali) ospiti anche gli altri
due paesi entrati in stagnazione negli anni Novanta, ossia l'Italia, dal
2005 considerata anch'essa "malato d'Europa" e il Giappone, per il
quale si è ripetutamente parlato di "decennio perduto" (1990-2000).
Mentre la casella migliore (paesi ricchi con buoni fondamentali)
include, oltre agli Stati Uniti, tutti e tre i paesi scandinavi, Norvegia,
Svezia e Finlandia: una conferma del fatto che un'alta pressione fiscale
e un generoso Stato sociale sono compatibili con un tasso di crescita
più che soddisfacente (oltre il 3% nel caso dei tre paesi).11
VI

L'equazione al lavoro

Quelle condotte fin qui sono solo considerazioni qualitative. Aiutano


a capire alcuni casi, ma non sfruttano fino in fondo le possibilità
dell'equazione. Che sono davvero molte, e ci accompagneranno fino
alla fine di questo libro. È dunque giunto il momento di guardarla più
da vicino, per imparare a usarla.
Il senso generale dell'equazione si può riassumere così: se, dato un
paese (chiamiamolo paese n-esimo), sappiamo quali valori assumono in
esso le 5 forze fondamentali, siamo in grado di predire con una certa
precisione quale sarà il tasso di crescita di quel paese. Basterà fare i
calcoli, moltiplicando i valori di quel paese sulle 5 forze e controforze
per i rispettivi coefficienti e aggiungendo il numero 3, che compare al
fondo dell'equazione.
Però, sapere questo non ci basta. Sarebbe meglio capire che cosa
significa quel numero 3, e come si devono leggere i valori dei
coefficienti. Che cosa significa che il capitale umano ha un impatto
(positivo) di 0,58, mentre le tasse hanno un impatto (negativo) di 0,45?
Per capirlo dobbiamo fare una breve digressione sulle 5 forze che
governano la crescita, o meglio sul modo in cui misuriamo capitale
umano, investimenti e così via. Per prima cosa dobbiamo
familiarizzarci con questo righello:

Questo righello rappresenta la scala comune su cui sono misurate


tutte e cinque le nostre forze. Quale che sia la forza che prendiamo in
considerazione, noi l'abbiamo preventivamente trasformata in una scala
come quella del righello. Su questo genere di scala alcuni paesi
assumono valori positivi, altri valori negativi, mentre il valore 0
corrisponde alla media OCSE. Tutte le forze sono "riscalate" in modo
che lo zero corrisponda alla media OCSE. Se un paese ha un valore
positivo su una forza, vuol dire che - in quel paese - quella forza
assume valori maggiori della media OCSE; se ha un valore negativo,
vuol dire che assume valori minori. E se ha valore zero, vuol dire che
su quella forza il paese è perfettamente allineato alla media OCSE. Se,
per fare un esempio, un paese è zero sulla forza capitale umano,
significa che la qualità del suo capitale umano è media, ossia identica
alla media OCSE. Così sulle tasse: se sulla forza tasse il paese ha un
valore zero, significa che la sua pressione fiscale sulle imprese è
identica a quella media dei paesi OCSE. E analogamente per tutte le
altre forze e controforze.
Se un paese è "normale" su tutte le forze fondamentali, ossia ha un
reddito pro capite medio, una qualità dell'istruzione media, un regime di
tassazione medio, e così via, allora tutte le forze vanno a zero e
l'equazione assume questa forma:
gn = 0,58 · 0 + 0,48 · 0 + 0,45 · 0 - 0,45 · 0 - 1,17 · 0 + 3,0

Ma se tutte le forze hanno valore zero, ossia non spingono e non


frenano, allora tutti i prodotti si annullano, e l'equazione si semplifica
così:
gn = 3,0

Ecco spiegato quel misterioso 3 che compare al fondo dell'equazione.


Il valore 3 è il tasso di crescita del "paese rappresentativo", ovvero è la
velocità cui un paese crescerebbe se avesse valori medi, o "normali", su
tutte e cinque le forze da cui la crescita dipende. Si potrebbe anche dire
che quel 3% che compare in coda all'equazione è il tasso di crescita di
un ipotetico paese mediocre, che in nulla eccelle e in nulla è
gravemente deficitario: un paese che, sulle 5 forze e controforze,
riproducesse fedelmente i valori assunti dal superpaese formato
dall'insieme dei paesi OCSE.
Un paese "perfettamente mediocre" ovviamente non esiste, ma fra i
32 paesi OCSE da noi analizzati1 quello che più si avvicina all'ideal-
tipo della mediocrità è la Spagna. Reddito pro capite né alto né basso,
valori vicini alla media su tutte le altre forze che governano la crescita.
E infatti il tasso di crescita della Spagna è del 2,7%, non lontano
dunque dal valore che l'equazione prevede per il paese rappresentativo
dell'OCSE nel suo insieme.
Quella di avere media zero non è l'unica proprietà delle scale su cui
misuriamo le nostre 5 forze. L'altra proprietà essenziale è che la
distanza media dei vari paesi dal centro della scala è di 1 unità, in più o
in meno rispetto al centro. In breve tutte le scale hanno la medesima
estensione o, se preferite, la dispersione dei paesi lungo ciascuna delle 5
scale è la medesima. Questo permette di definire un concetto
fondamentale per l'uso dell'equazione della crescita: il concetto di
"spostamento sensibile". Definiamo spostamento sensibile uno
spostamento sulla scala pari a 1 unità. Uno spostamento che porti un
paese da 0 a 1, per esempio; oppure da 1 a 2; o da -1 a 0. In termini
qualitativi significa, grosso modo, passare da mediocre a buono (da 0 a
1), o da buono a ottimo (da 1 a 2), o da cattivo a mediocre (da -1 a 0).
Insomma, muoversi "abbastanza" lungo la scala, spostarsi - appunto -
sensibilmente.
Ebbene, i coefficienti che compaiono sull'equazione si interpretano
proprio così: uno 0,58, il coefficiente del capitale umano, indica che un
paese che avesse un vantaggio di 1 unità sulla scala del capitale umano
- un paese che fosse sensibilmente più istruito di un altro - crescerebbe
di 0,58 punti percentuali in più (naturalmente a parità di altre
condizioni). E un paese che, viceversa, avesse uno svantaggio di 1
punto, crescerebbe di 0,58 punti in meno. Mentre un paese che avesse
un vantaggio, poniamo, di 2 punti, crescerebbe a una velocità di 1,16
punti in più (2 · 0,58 = 1,16).
La stessa identica lettura si può applicare alle altre forze, con la sola
avvertenza che la direzione dell'effetto dipende anche dal segno del
coefficiente. Investimenti esteri e istituzioni economiche hanno segni
positivi, come il capitale umano. Ciò significa che un paese che,
rispetto a un altro, fosse "sensibilmente superiore" in capitale umano,
istituzioni economiche, flussi di investimenti esteri, crescerebbe di 0,58
+ 0,45 + 0,48 = 1,51 punti in più. Le tasse, invece, hanno un
coefficiente negativo (-0,45), così come il reddito pro capite (-1,17).
Ciò significa che un paese con tasse sulle imprese sensibilmente più
alte di un altro, avrebbe un tasso di crescita di 0,45 punti più basso; e un
paese il cui reddito medio fosse sensibilmente superiore a quello di un
altro, pagherebbe questo suo vantaggio con un tasso di crescita di 1,17
punti inferiore.
Tutto questo significa che l'equazione della crescita permette di
calcolare, conoscendo la posizione di un generico paese sulle 5 forze H,
F, I, T, y, quale è il tasso di crescita che è ragionevole aspettarsi. Ma
quanto sono accurate le predizioni dell'equazione?
Prendiamo, a titolo di esempio, la Finlandia: nel periodo 1995-2007 il
suo tasso di crescita medio è stato del 3,7%, la crescita prevista
dall'equazione è invece il 3,3%. In questo caso, dunque, l'equazione
sbaglia di 0,4, quattro decimali. In altri casi l'equazione sbaglia un po'
di più, in altri un po' di meno. Per esempio, per il paese più veloce,
l'Estonia, la crescita effettiva è stata del 7,9%, invece quella prevista è
"solo" del 6,6%. Per uno dei paesi più lenti, la Danimarca, l'errore è di
appena 1 decimale: la crescita effettiva è stata dell'1,9%, la crescita
prevista è del 2%. In media, l'equazione della crescita commette un
errore piuttosto piccolo, circa 0,45 punti percentuali,2 un errore di
entità simile a quello commesso nel caso della Finlandia.
Perché diciamo che un errore di 0,45 punti percentuali è piccolo?
Per vari motivi, ma prima di entrare nei dettagli userò di nuovo il mio
stratagemma preferito: farvi vedere le cose, in questo caso quanto sono
accurate le predizioni dell'equazione.
Figura 8 - Valori predetti e valori osservati del tasso di crescita
(modello con 5 forze)

Il diagramma mostra la relazione fra i valori osservati e i valori attesi,


o previsti. Più i valori sono allineati lungo la bisettrice, più il valore
osservato e il valore predetto risultano vicini. Come si vede, la
corrispondenza è notevole, salvo in un caso: quello dell'Ungheria, in cui
la crescita risulta sensibilmente inferiore al previsto (4,1 effettivo
contro 5,6 previsto). Torneremo fra poco su questa anomalia, perché per
essa c'è una spiegazione precisa.
Per ora ragioniamo sull'entità del nostro errore di previsione, per
capire se è davvero piccolo e quanto è piccolo. Per valutare se un errore
di 4 o 5 decimali è grande o piccolo dobbiamo avere dei termini di
paragone.
Il primo, più ovvio, è la variabilità del fenomeno che stiamo cercando
di spiegare. Sappiamo che, nel periodo osservato, i 32 paesi OCSE sono
cresciuti a un tasso medio del 3%. Ma quel che conta non è il tasso
medio, bensì quanto esso è variato fra un paese e l'altro. Se esso fosse
variato, poniamo, fra il 2% e il 4%, un errore di quasi mezzo punto
sarebbe abbastanza grande, visto che coprirebbe circa un quarto del
campo di variazione (2 punti, la differenza fra 4 e 2). In realtà il tasso di
crescita delle economie avanzate è variato fra l'1,1% di Italia e
Giappone e il 7,9% dell'Estonia. Il campo di variazione del tasso di
crescita è quindi di circa 7 punti: ecco perché 0,45 è un errore piccolo.
È piccolo perché il righello che ospita i tassi di crescita dei paesi è
molto più lungo dell'errore che commette l'equazione nel piazzare ogni
paese nella posizione giusta.

Possiamo farcene un'idea immaginando i paesi come tanti punti su


cui dei paracadutisti devono atterrare (nel disegno abbiamo riportato
solo le posizioni, prevista e osservata, della Finlandia). L'equazione
della crescita non fa atterrare ogni paracadutista esattamente nel punto
giusto, ma lo fa atterrare nel raggio di qualche millimetro, su un
territorio che ha un'estensione di quasi 7 centimetri, ossia il numero di
punti percentuali di crescita che separano la gazzella-Estonia dalla
lumaca-Italia.
Ma c'è un'altra ragione per cui un errore di qualche decimale è
piccolo. Per capire quale sia dobbiamo chiederci: quanto avrebbe
potuto essere piccolo in linea di principio, ossia costruendo il miglior
modello possibile?
La prima risposta che viene in mente è: avrebbe potuto essere nullo.
Si potrebbe pensare che, se avessimo individuato tutte le forze che
influenzano la crescita, e scelto i migliori indicatori per ciascuna di
esse, avremmo potuto ridurre il nostro errore di previsione a zero, o
molto vicino a zero.
Invece la risposta giusta è: circa 0,25. Ossia: per bene che avessimo
lavorato, non avremmo potuto prevedere i tassi di crescita con
un'accuratezza maggiore di 2-3 decimali. E la ragione è semplice, anche
se spesso dimenticata. Le stime internazionali sui tassi di crescita non
sono perfette ma contengono - com'è naturale che sia - un errore di
misurazione, piccolo ma non trascurabile. L'errore è dovuto alle
imperfezioni dei metodi statistici di calcolo del reddito nazionale, ma la
buona notizia è che l'entità di tale imperfezione si può stimare,3 e la
stima suggerisce valori non lontani da 0,25. Questo significa che
nemmeno le statistiche ufficiali sanno esattamente dove si collocano i
32 paesi OCSE sul righello. E un modello che prevedesse esattamente i
tassi di crescita delle statistiche ufficiali sarebbe un bluff, perché
prevederebbe in modo esatto qualcosa che è intrinsecamente inesatto.
In termini tecnici si dice: "codificherebbe rumore", ossia tenterebbe di
trovare un senso in qualcosa che senso non ha, perché è puramente
casuale.
Dunque ricapitoliamo. L'equazione della crescita commette un errore
di 4-5 decimali, ma non potrebbe comunque scendere al di sotto dei 2-3
decimali, perché questo è il grado di imprecisione dei dati che cerca di
riprodurre. Insomma, il limone è quasi completamente spremuto.
Non abbiamo però ancora detto una cosa importante: il limone si può
spremere ancora un po', perché quel pochissimo che non funziona ha
una spiegazione logica, una spiegazione che - se lo si desidera - si può
incorporare nell'equazione della crescita, rendendo le sue previsioni
ancora più accurate. Come spesso accade nella ricerca empirica, i casi
che non si adattano al modello hanno molto da insegnarci.
Vediamo dunque il caso più anomalo, quello dell'Ungheria, che
cresce del 4,1%, mentre il modello prevede una crescita del 5,6%.
Ebbene, il fatto interessante è che in questo paese il flusso degli
investimenti diretti esteri ha subito, nel periodo da noi studiato, una
variazione negativa più brusca che in qualsiasi altro paese. E il segno
negativo di tale variazione è precisamente quello che ci aspetteremmo
in base al segno degli "errori" dell'equazione della crescita: l'Ungheria è
cresciuta meno di quanto l'equazione della crescita predica, ma
l'Ungheria è anche il paese che ha avuto il deflusso maggiore di
investimenti diretti esteri, seguita dalla Nuova Zelanda e dalla Francia,
due paesi anch'essi caratterizzati da tassi di crescita effettivi meno
elevati di quelli previsti dall'equazione della crescita. In poche parole: i
tre paesi che hanno sperimentato il massimo deflusso di investimenti
(Ungheria, Nuova Zelanda, Francia), sono anche i tre paesi per i quali
l'equazione della crescita - proprio perché non tiene conto
dell'accelerazione degli investimenti esteri - appare troppo ottimista.4
Se nell'equazione della crescita avessimo inserito non solo il flusso
medio degli investimenti esteri nel periodo (la forza F), ma anche il suo
andamento, ossia la tendenza del flusso a crescere o a diminuire fra
l'inizio e la fine del periodo, anche le piccole anomalie del nostro
diagramma sarebbero scomparse, e quel che avremmo osservato è una
disposizione praticamente perfetta dei punti lungo la retta.
Figura 9 - Valori predetti e valori osservati del tasso di crescita
(modello con 5 + 1 forze).

Introducendo questa sesta forza - l'accelerazione degli investimenti


esteri - l'errore di previsione sarebbe sceso ancora, da 0,45 a 0,33,
portandosi a un palmo dal minimo assoluto - circa 0,25 - al di sotto del
quale non ha senso andare, perché significherebbe pretendere di
spiegare l'errore di misurazione.
Perché abbiamo preferito l'equazione con 5 forze, e abbiamo deciso
di trascurare la sesta forza,5 ovvero l'accelerazione degli investimenti?
Per due motivi. Innanzitutto, per una ragione estetica, perché
preferiamo modelli semplici. Ma in secondo luogo anche per una
ragione sostanziale: è ragionevole pensare che l'accelerazione degli
investimenti non sia una vera forza, come tutte le altre, ma sia una sorta
di variabile catch all, o black box, in cui confluiscono decine di fattori
differenti. Quando gli investimenti esteri accelerano o decelerano
bruscamente in un paese, questo segnala che alcune condizioni chiave
del fare impresa stanno migliorando o peggiorando, ma non ci dice
quali. Può trattarsi di rivolgimenti politici, variazioni improvvise del
costo del denaro, innalzamento o caduta di barriere commerciali,
introduzione o ritiro di incentivi. Insomma, la dinamica degli
investimenti esteri è spesso un riassunto di molte cose, perché sintetizza
un complesso di cambiamenti, ma è al tempo stesso un riassunto muto,
perché non ci dice di quali cose si tratta.
Lasciamo dunque da parte la "sesta forza", e concentriamoci sulle
cinque fondamentali. Quel che dobbiamo ancora capire è quanto
ciascuna di esse contribuisca a spiegare la variabilità del tasso di
crescita dei paesi OCSE che, come abbiamo visto, è molto ampia. A
questo scopo non basta guardare i coefficienti, perché la rete delle
interrelazioni fra le forze è piuttosto complessa, e la capacità esplicativa
che si può attribuire a una forza dipende anche dalle sue relazioni con
tutte le altre.
Se, per esempio, due forze sono molto strettamente (ma
inversamente) correlate, può succedere che i loro coefficienti di impatto
siano entrambi elevati, ma che la capacità esplicativa delle due forze
considerate insieme sia di poco superiore a quella di ciascuna di esse
considerata singolarmente, e questo per il buon motivo che le due forze
veicolano più o meno la medesima informazione. E nel nostro caso le
complicazioni di questo genere sono numerose: il reddito pro capite, in
particolare, è fortemente correlato con tutte le altre forze, ora con segno
positivo (capitale umano, buone istituzioni economiche, alte tasse), ora
con segno negativo (investimenti diretti esteri). Insomma, la matassa
delle forze è piuttosto ingarbugliata, come si vede dalla figura seguente.
Figura 10 - Legami tra le 5 forze (coefficienti di correlazione
maggiori di 0,3)

Per fortuna ci sono gli statistici. Gli statistici hanno messo a punto
tutta una serie di strumenti con cui è possibile misurare quanto varia un
fenomeno, e quale porzione di questa sua variabilità è attribuibile a
ciascuna delle forze che lo influenzano. Quindi la matassa si può
sgarbugliare.6
Intanto partiamo dall'inizio: le nostre 5 forze, considerate nel loro
complesso, sono in grado di spiegare l'84% della variabilità del tasso di
crescita, e questo lasciando fuori dall'equazione la "sesta forza", ossia
l'accelerazione degli investimenti diretti esteri (con quest'ultima la
variabilità spiegata salirebbe addirittura al 91%).
Consideriamo ora questo 84% spiegato dalle varie forze, e
chiediamoci quale frazione di esso è dovuta a ciascuna delle 5 forze in
campo. Ed ecco la risposta:
Figura 11 - Capacità esplicative delle 5 forze (percentuali di varianza
spiegata)

Come si vede, il reddito pro capite è, di gran lunga, la forza


dominante. In realtà, più che una forza che agisce positivamente o
negativamente sulla crescita, il benessere raggiunto da un paese può
essere più utilmente pensato come una forza che resiste. Una sorta di
zavorra. Come in fisica la forza d'inerzia, per cui qualcosa va avanti
senza che nessuna forza continui a spingerlo, o rallenta semplicemente
perché è pesante, ed è la sua stessa massa che lo frena.
Dunque il benessere, da solo, spiega il 61,1% del totale. Il restante
38,9% è abbastanza equamente suddiviso fra le restanti forze e
controforze, che si conquistano ciascuna circa il 10%. La forza che
spiega di più (13,5% del totale) è il capitale umano, che tuttavia conta
circa cinque volte meno del reddito. Le altre forze contano ancora di
meno: 9,2% gli investimenti esteri, 8,1% le istituzioni economiche,
8,1% la controforza delle tasse.
La conclusione sembra obbligata: la crescita varia con la qualità dei
fondamentali di un'economia, ma l'impatto di tutte queste forze messe
insieme non basta a bilanciare la forza d'inerzia che il benessere reca
con sé.
VII

Lilliput: le forze che "non" governano la crescita

Torneremo più avanti sulla forza negativa fondamentale, il benessere.


Prima di proseguire, tuttavia, dobbiamo soffermarci su un risultato
implicito della nostra equazione. Nessuno può stupirsi che tra le forze e
le controforze da noi individuate vi siano il capitale umano, le
istituzioni economiche, le tasse sulle imprese, gli investimenti esteri:
esiste un'ampia letteratura economica che spiega come e perché queste
forze possono influenzare il tasso di crescita. Però qualcuno potrà
stupirsi delle forze che non compaiono nell'equazione. La ricerca sulla
crescita, e più in generale sulle origini della "ricchezza delle nazioni", è
infatti molto più ricca di quanto la nostra equazione lasci immaginare.
Specialmente negli ultimi venti anni, economisti, sociologi e persino
psicologi hanno formulato anche altre teorie, talora alternative talora
complementari rispetto a quelle cui le variabili delle nostra equazione
rimandano. Vediamo le più importanti.
Investimenti in ricerca e sviluppo. Questa è probabilmente la teoria
più influente e condivisa. Forse, più che di una teoria, sarebbe corretto
parlare di un fascio di teorie e di modelli, non sempre coerenti fra loro,
che in gran parte si richiamano a idee generali sviluppate da Arrow e da
Schumpeter intorno alla metà del secolo scorso.
Per alcuni, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono un
fondamentale fattore di crescita perché alimentano il progresso tecnico,
il quale a sua volta aumenta la produttività, consentendo di produrre di
più a parità di input. Non solo, ma anche quando non producono
innovazione, le attività di ricerca e sviluppo rendono molto più agevole
il "trasferimento tecnologico". In parole povere: aiutano a copiare,
imitare, importare tecnologie da altri paesi.
Per altri autori, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono la via
fondamentale per introdurre nel mercato nuovi prodotti, rivoluzionando
la struttura della domanda e dell'offerta e quindi il sistema dei prezzi.
Questa visione, tuttavia, non conduce necessariamente a considerare
tali investimenti come un fattore di crescita: nulla assicura, infatti, che
l'effetto positivo dell'immissione di nuovi prodotti superi l'effetto
negativo dell'uscita dal mercato delle imprese meno efficienti o meno
innovative. Il meccanismo schumpeteriano della "distruzione creatrice"
è un gioco di cui non è possibile determinare a priori il saldo, che può
essere a somma positiva, se la creazione supera la distruzione, o a
somma negativa, se è quest'ultima a prevalere.1
Nel complesso, gli studi sul ruolo degli investimenti in ricerca e
sviluppo mostrano la profonda, e tuttora irrisolta, ambivalenza della
letteratura economica sul ruolo del progresso tecnico. Quasi nessuno
contesta l'idea che il progresso tecnico sia un bene, ma non tutti sono
certi che esso favorisca la crescita. E questo non solo per il ruolo
distruttivo delle innovazioni tecnologiche, che fanno sparire imprese e
distruggono posti di lavoro, ma perché la concorrenza stessa e la caduta
delle barriere alla circolazione della conoscenza non producono effetti
univoci. La concorrenza fra imprese stimola l'innovazione, perché
consente agli innovatori di percepire extraprofitti temporanei a scapito
dei concorrenti. Ma la possibilità dei concorrenti di imitare gli
innovatori rende poco conveniente l'investimento in ricerca e sviluppo,
a meno che l'imitazione non sia scoraggiata da norme restrittive su
brevetti, licenze, proprietà intellettuale. Un discorso analogo riguarda le
relazioni commerciali fra paesi: per un paese vicino alla "frontiera
tecnologica", che usa le migliori tecnologie disponibili, può anche
essere conveniente innovare ancora di più, ma se la conoscenza può
circolare liberamente da un paese all'altro, ad avvantaggiarsi delle
innovazioni saranno soprattutto i paesi più lontani dalla frontiera
tecnologica che, proprio perché partono da una situazione "arretrata",
potranno sperimentare tassi di crescita molto più alti di quelli dei paesi
avanzati. Una sorta di meccanismo del free rider, per cui i costi
dell'azione (investire in ricerca) sono sostenuti da alcuni, ma i suoi
benefici sono goduti da tutti. Come hanno spiegato in particolare Lucas
e Prescott, è così che si sono prodotti gli ultimi miracoli economici, in
particolare quelli del Giappone e della Corea del Sud.2
Conti pubblici. Soprattutto negli ultimi anni, sotto la spinta della crisi
economica mondiale, l'attenzione degli studiosi è stata attirata dal ruolo
dei conti pubblici. Anche qui, tuttavia, non esiste una tesi dominante e
condivisa. Chi si richiama a Keynes sottolinea il ruolo potenzialmente
positivo della spesa pubblica in deficit, specie se temporanea e
composta prevalentemente da investimenti in infrastrutture. Chi si
richiama a von Hayek e alla scuola austriaca sottolinea invece il ruolo
di freno alla crescita di un alto livello del rapporto fra debito pubblico e
PIL. L'idea dei primi è che per promuovere la crescita si debba
sostenere la domanda aggregata, e che quando il mercato non ce la fa
debba essere il governo, con la spesa pubblica, a fornire la domanda
mancante. L'idea dei secondi è che un debito pubblico elevato bruci
risorse (per il pagamento degli interessi) e aumenti il costo del denaro,
rendendo più difficile alle imprese ottenere prestiti dalle banche e dalle
famiglie.3 La tesi che il debito pubblico sia un freno alla crescita si
deve soprattutto a Reinhart e Rogoff che, in uno studio molto discusso e
controverso,4 hanno anche congetturato l'esistenza di una soglia:
secondo i due studiosi, un paese difficilmente può crescere con un
rapporto debito / PIL superiore al 90%.
Diseguaglianza e Stato sociale. Ancora meno conclusive sono le idee
degli economisti riguardo al ruolo dello Stato sociale, e più in generale
della distribuzione del reddito. Qui l'evidenza empirica è ben poco
univoca, e conseguentemente il peso delle convinzioni ideologiche è
molto forte. Per i progressisti, un welfare generoso ed efficiente
favorisce la crescita in quanto sostiene la domanda di consumo e crea
importanti esternalità positive: una forza lavoro istruita e in buona
salute, coesione sociale, servizi e infrastrutture funzionali all'attività
economica. Per i conservatori, uno Stato sociale pesante, con una
elevata capacità di correggere le diseguaglianze di reddito attraverso la
tassazione e i sussidi, riduce la propensione al risparmio, diminuisce
l'incentivo al lavoro, mortifica l'iniziativa individuale, indebolisce il
senso di responsabilità, tutti meccanismi che tendono ad abbassare il
tasso di crescita.
Ci sono delle ragioni per cui il puzzle della diseguaglianza non è
facile da risolvere. Quando si cerca di misurare l'impatto dello Stato
sociale, è difficile separare il suo effetto da quello della pressione
fiscale. Se il coefficiente di impatto è positivo (cosa che accade
piuttosto raramente), si può ritenere che un welfare generoso favorisca
la crescita, ma se l'impatto è negativo è difficile stabilire se quel che
stiamo misurando non sia invece la pressione fiscale, visto che di
norma il welfare è pagato con le tasse. È ragionevole pensare che il
coefficiente rifletta un impatto positivo del welfare e uno negativo della
tassazione, e che l'assenza di un impatto significativo derivi dal fatto
che i due meccanismi tendono a elidersi.5
Ancora più controversi sono i risultati quando si cerca di capire se la
diseguaglianza nella distribuzione del reddito ha un impatto positivo o
negativo sulla crescita.6 Su questo le opinioni degli economisti paiono
soggette ad ampie fluttuazioni. Negli anni Cinquanta e Sessanta era
abbastanza diffusa l'idea di un conflitto fra crescita ed eguaglianza.
Secondo questa visione, la crescita comporterebbe un prezzo in termini
di maggiore diseguaglianza e, simmetricamente, l'ideale
dell'eguaglianza comporterebbe un prezzo in termini di minore
crescita.7 Questa visione resterà dominante fino alla fine degli anni
Ottanta, quando esplode la letteratura sui benefici dell'eguaglianza.8
Già a metà del decennio, in una rassegna della letteratura, Roland
Benabou nota che tutti gli studi convergono sull'idea che per stimolare
la crescita ci voglia più eguaglianza, e che la diseguaglianza non
favorisca affatto la crescita di lungo periodo.9 Nel 2000, tuttavia, il
pendolo torna improvvisamente indietro. Una studiosa americana,
Kristin Forbes, adotta un nuovo approccio econometrico alla stima
dell'equazione della crescita e ritiene di dimostrare la tesi contraria: per
stimolare la crescita ci vuole più, non meno, diseguaglianza. La
conclusione è disappointing, ma il disappunto non impedisce alla
brillante econometrica di smontare uno per uno tutti i lavori che
avevano creduto di dimostrare che per crescere ci vuole più
eguaglianza. E rifacendo i calcoli, con gli stessi modelli e dati simili, il
risultato è sempre lo stesso: se anziché stimare l'equazione della
crescita con i rozzi strumenti degli anni Novanta si adotta il più
sofisticato approccio moderno, tutti i risultati cambiano di segno e la
diseguaglianza torna ad apparire, come all'inizio della storia, come una
determinante positiva della crescita.
Dopo l'articolo della Forbes10 la letteratura si è rimessa in moto, ma
gli studiosi sono diventati molto più cauti. La tesi secondo cui la
diseguaglianza frena la crescita ricompare qua e là, ma accompagnata
da vari caveat: l'impatto è dubbio,11 o riguarda solo i paesi poveri, o
addirittura è opposto per i paesi poveri e i paesi ricchi. Quest'ultima, al
momento, pare l'opinione prevalente: la diseguaglianza è un ostacolo
alla crescita nei paesi poveri, ma è uno stimolo nei paesi ricchi.12
Corruzione. Come la diseguaglianza, anche la corruzione è stata
oggetto di lunghe controversie riguardo alla sua relazione con la
crescita.13 E anche qui si notano interessanti fluttuazioni. Fino agli
anni Ottanta l'opinione prevalente è che gli effetti sulla crescita siano
prevalentemente positivi: la corruzione è vista come un meccanismo
che olia gli ingranaggi dell'economia ("greasing the wheels"
hypothesis), in quanto aggira le rigidità della burocrazia, abbassa i costi
di informazione, abbrevia i tempi di attesa.14 Dagli anni Novanta,
invece, sembra prevalere l'idea che gli effetti della corruzione sulla
crescita siano essenzialmente negativi.15 La corruzione è vista
soprattutto come un meccanismo che getta sabbia ("sand the wheels"
hypothesis) negli ingranaggi dell'economia, in quanto può rallentare le
procedure anziché accelerarle, favorire lo sviluppo di settori protetti a
scapito di quelli più dinamici e aperti alla concorrenza, distorcere la
stessa allocazione dei talenti.
Anche qui, come nel caso della diseguaglianza, la letteratura più
recente tende a essere prudente. Un'idea che comincia a emergere, per
esempio, è che gli effetti della corruzione sulla crescita possano essere
diversi a seconda del grado di sviluppo e del tipo di istituzioni
prevalenti in un paese.16 Complessivamente, l'attenzione si sposta dagli
effetti diretti della corruzione, molto difficili da rilevare, agli effetti
indiretti e ai loro canali di trasmissione. E il quadro che emerge è
decisamente complesso: la corruzione danneggia la crescita
scoraggiando l'investimento e favorendo l'instabilità politica, ma la
favorisce riducendo alcune voci della spesa pubblica e favorendo
l'apertura commerciale.17
Capitale sociale. Il concetto di "capitale sociale" è fra i più usati nelle
scienze sociali,18 e al tempo stesso è fra i più controversi, confusi e
meno chiaramente definiti.19 Anche se l'espressione "capitale sociale"
risale a quasi un secolo fa, la sua massiccia introduzione nel lessico
delle scienze sociali risale solo all'inizio degli anni Novanta, e
precisamente al fortunato libro di Robert Putnam, Making democracy
work, sulla tradizione civica nelle regioni italiane. Questa origine del
concetto ne ha in gran parte segnato il destino. Nella sua analisi, infatti,
Putnam usava il concetto di capitale sociale per spiegare il differente
grado di sviluppo economico delle regioni italiane, e attribuiva il
sottosviluppo delle regioni del Sud a una carenza - appunto - di capitale
sociale. Di qui l'idea che fra le determinanti della crescita si debba
includere anche il capitale sociale, un'idea che da allora non
abbandonerà più gli studiosi, soprattutto economisti e sociologi. Di qui,
anche, una serie innumerevole di discussioni sulla definizione del
concetto, e un notevole numero di studi per provare il legame causale
fra capitale sociale e crescita.
Quel che è interessante è che, nonostante autorevoli studiosi (fra essi
il premio Nobel per l'economia Robert Solow) rifiutino il concetto, e
nonostante esistano almeno tre diverse definizioni di capitale sociale,20
i risultati della ricerca empirica sono convergenti e i pareri degli
studiosi relativamente concordi sul punto chiave: il capitale sociale è un
fattore che favorisce la crescita. I dubbi non riguardano il segno della
relazione (se il capitale sociale ostacoli o sostenga la crescita) ma
l'entità del suo impatto, le condizioni perché esso sia significativo, i
canali di trasmissione. Secondo diversi studi, per esempio, il capitale
sociale sostiene la crescita ma lo fa indirettamente, influenzando i
livelli di criminalità, la propensione a innovare, il grado di sviluppo
finanziario, la diffusione dell'istruzione secondaria.21 Altri studi
mostrano che il capitale sociale non si comporta come un complemento
bensì come un sostituto di buone istituzioni formali: il suo contributo
alla crescita è apprezzabile solo là dove le istituzioni formali non
funzionano bene.22 Altri studi, infine, mostrano che è essenziale
distinguere diversi aspetti del capitale sociale, e che esiste anche un
"lato oscuro" (a dark side) del capitale sociale.23 Stephen Knack e
Philip Keefer, per esempio, in uno studio su 29 economie di mercato
mostrano che l'appartenenza a gruppi formali non è connessa alla
performance economica, mentre la cooperazione civica lo è. In uno
studio sui cittadini di 54 regioni europee, Sjoerd Beugelsdijk e Sjak
Smulders mostrano che i legami sociali esterni alla famiglia (bridging
social capital) sostengono la crescita, mentre quelli interni alla rete
familiare (bonding social capital) non hanno effetti.24
Insomma, la letteratura sul capitale sociale è impegnata a dimostrare
che il capitale sociale è un fattore di crescita, ma ha qualche difficoltà a
isolare gli aspetti del capitale sociale che possono produrre questo
risultato.
Quoziente di intelligenza. Qualche anno fa due professori di
psicologia, uno inglese (Richard Lynn), l'altro finlandese (Tatu
Vanhanen), fecero notare che - stranamente - tutta la letteratura
economica sulla crescita parte da un presupposto non dimostrato: e cioè
che il livello medio di intelligenza sia il medesimo in tutte le nazioni.
Nel 1980, per esempio, Richard Easterlin, uno dei più autorevoli
studiosi dei processi di sviluppo e di crescita, affermava:
Io penso che possiamo tranquillamente trascurare il punto di vista
secondo cui la mancata diffusione del moderno sapere tecnologico sia
dovuta a significative differenze fra le nazioni nel grado di intelligenza
delle loro popolazioni. A mia conoscenza non esistono studi che
stabiliscano in modo conclusivo l'esistenza di differenze, poniamo, nel
valore del QI [quoziente di intelligenza] fra i popoli del mondo.25
La stessa opinione è stata ribadita da altri economisti, per esempio
Eric Hanushek e Dennis Kimko, anch'essi citati da Richard Lynn e Tatu
Vanhanen nel loro libro IQ and Global Inequality, forse il più
sistematico tentativo di dimostrare non solo che le differenze di
intelligenza fra nazioni esistono, ma che esse spiegano una parte
considerevole delle diseguaglianze, non solo economiche, fra le
nazioni.
Le idee di Lynn e Vanhanen sono indubbiamente poco politically
correct, e le argomentazioni statistiche addotte per provare un impatto
causale del QI sulla "ricchezza delle nazioni" sono assai deboli, per non
dire ingenue.26 E tuttavia, una considerazione non partigiana della tesi
di Lynn e Vanhanen dovrebbe, a mio parere, tenere anche conto di
alcuni elementi di forza della loro tesi.
Primo: i test di intelligenza basati sul QI rilevano effettivamente
differenze non trascurabili nei valori medi dei popoli. Secondo:
nessuno, finora, è stato in grado di provare che tali differenze siano
interamente ed esclusivamente dovute a distorsioni nella struttura dei
test, che favorirebbero alcune culture a scapito di altre. Terzo: il libro di
Lynn e Vanhanen è stato duramente criticato dai difensori della teoria
delle basi ambientali dell'intelligenza, ma è stato anche validato in sede
psicometrica27 e vigorosamente difeso da altri studiosi dell'intelligenza
e delle differenze individuali.
Va infine considerato che, anche se si fosse in grado di dimostrare
che il quoziente di intelligenza non misura l'intelligenza, e che in realtà
non esistono differenze di intelligenza fra i popoli, bisognerebbe
comunque fare i conti con gli studi che hanno utilizzato con successo il
QI per prevedere il tasso di crescita.28 Secondo alcuni di essi, il QI
prevede la crescita meglio delle misure del capitale umano
normalmente utilizzate dagli economisti, un fatto che - come minimo -
richiede un'interpretazione: se i test di intelligenza sono così criticabili,
che cosa misurano per entrare in modo tanto incisivo nell'equazione
della crescita?
Ricapitolando, possiamo dire che, oltre alle nostre 5 forze
fondamentali, la letteratura sulla crescita ha individuato almeno sei-
sette forze o meccanismi che possono influenzare il tasso di crescita:
investimenti in ricerca e sviluppo, conti pubblici, diseguaglianza, Stato
sociale, corruzione, capitale sociale, intelligenza. È dunque giunto il
momento di spiegare perché esse non compaiono nella nostra
equazione. La ragione è molto semplice: nessuna delle forze "assenti" è
abbastanza forte da entrare nell'equazione della crescita insieme alle 5
forze fondamentali. Questo non significa che le teorie cui le forze
minori rimandano siano errate, ma semplicemente che l'impatto delle
forze minori - se e quando esiste - è di entità troppo piccola per essere
provato con sufficiente sicurezza. Possiamo farci un'idea dell'entità di
tale impatto provando a far entrare ciascuna forza minore
nell'equazione della crescita, e misurando il suo coefficiente di impatto
quando quella forza viene aggiunta alle 5 forze fondamentali.29
Ricordiamo, a titolo di paragone, che l'impatto delle 5 forze
fondamentali varia fra un minimo di 0,45 e un massimo di -1,17 punti
di crescita.
Ed ecco i risultati.
Tabella 2 - Coefficienti di impatto delle forze minori

Impatto Significatività Ricerca e sviluppo


Deficit dei conti pubblici
Diseguaglianza
Stato sociale
Corruzione
Capitale sociale
Intelligenza
-0,08
-0,10
0,06
0,03
-0,01
0,10
0,06
(0,48)
(0,41)
(0,67)
(0,81)
(0,95)
(0,43)
(0,75)
Come si vede, nessuna delle forze minori riesce a superare un
impatto di 0,10, nessun coefficiente è statisticamente significativo, e
talora il segno dell'impatto è opposto a quello della teoria. È questo, in
particolare, il caso degli investimenti in ricerca e sviluppo, il cui segno
è negativo anziché positivo come ipotizzato dalla letteratura.30
Il massimo che si può dire, sulla base dei nostri tentativi di
"aumentare" il modello base, è che - forse - un piccolo contributo alla
crescita, dell'ordine di 1 decimale, viene fornito dal capitale sociale,
inteso come fiducia negli altri, mentre un piccolo freno alla crescita
viene fornito dal deficit dei conti pubblici (-0,10). Un risultato, questo,
poco in armonia con l'idea di matrice keynesiana secondo cui la spesa
in deficit promuoverebbe la crescita, e semmai più compatibile con la
tesi di Reinhart e Rogoff, secondo cui un elevato debito pubblico è un
pesante handicap per la crescita.31
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, come mai le forze deboli
compaiano invece così spesso nella letteratura sulla crescita. La verità è
che non lo so, e che il tema meriterebbe una ricerca a sé stante. Per quel
che riesco a capire, la popolarità delle teorie deboli potrebbe essere
legata all'azione congiunta di almeno quattro fattori.
Primo. La maggior parte degli studi cerca di spiegare la crescita di
tutti i paesi del mondo nel periodo medio-lungo, noi invece lavoriamo
sui soli paesi OCSE nel periodo medio-breve. È possibile che quel che
conta per spiegare la differenza fra il Giappone e il Mozambico negli
ultimi 30 anni non conti per spiegare la differenza fra il Giappone e la
Finlandia negli ultimi 10.
Secondo. Forse le teorie deboli sono così gettonate perché quasi tutte
hanno un enorme potere di seduzione ideologica. Talora gli studiosi
sono interessati a dimostrare tesi politiche o morali più che a scoprire
come funziona la realtà: uno strano meccanismo mentale vuole che le
cose ritenute buone vadano tutte insieme, e così quelle cattive.
Corruzione e diseguaglianza devono per forza ostacolare la crescita,
intelligenza e coesione sociale devono promuoverla. Quanto allo Stato
sociale dipende dal punto di vista politico: ai socialisti piace dimostrare
che favorisce la crescita, ai liberisti che la frena.
Terzo. Talora si confondono effetti diretti ed effetti indiretti. Una
forza può agire positivamente sulla crescita attraverso altre forze che
mette in moto, e nello stesso tempo non esercitare alcun effetto
autonomo o diretto. Lo Stato sociale, per esempio, certamente favorisce
la crescita attraverso gli investimenti in capitale umano, ma se
considerato a parità di altre circostanze - istruzione, tasse, istituzioni
economiche - pare non esercitare alcun effetto, o addirittura svolgere un
ruolo di freno. La nostra equazione non si occupa di qualsiasi genere di
effetti, ma dei soli effetti diretti, ossia degli impatti ceteris paribus,
tenendo costanti gli altri fattori rilevanti.
Quarto. Ma probabilmente la ragione più importante per cui spesso,
nella letteratura empirica, le forze deboli appaiono meno deboli di
quello che sono è l'omissione di variabili rilevanti. È curioso, ma la
maggior parte dei tentativi di stimare un'equazione della crescita ha
trascurato due variabili di grande impatto - la pressione fiscale sulle
imprese e gli investimenti diretti esteri - mentre non ha esitato a
includere nell'equazione ogni sorta di altra variabile potenzialmente
connessa alla crescita. Di qui il doppio rischio, ben noto alla letteratura
statistica ed econometrica,32 di scoprire effetti che non ci sono (falsi
positivi, li chiamerebbe un medico) e di non accorgersi di effetti che ci
sono (falsi negativi).
Proprio per evitare questi rischi, nella costruzione dell'equazione
della crescita noi abbiamo posizionato piuttosto in alto l'asticella che
una forza deve superare per entrare nell'equazione: almeno 1 / 3 di
punto percentuale (0,33). Se una forza non è in grado di spostare il
tasso di crescita di almeno un terzo di punto, non può entrare
nell'equazione della crescita. Di forze di questo tipo, teoricamente
giustificate e sufficientemente influenti, noi ne abbiamo trovate solo
cinque: reddito pro capite, capitale umano, tasse, istituzioni di mercato,
investimenti diretti esteri.33 Una volta costruita l'equazione con queste
5 forze, non è stato possibile individuarne nemmeno una che superasse
l'asticella di 0,33. Non è stato possibile considerando le teorie
alternative più importanti, ma non è stato possibile nemmeno usando
teorie meno note, meno ortodosse, o meno politicamente corrette, anche
se alcune di queste si sono rivelate forse più promettenti delle teorie in
voga: la teoria weberiana che collega lo sviluppo capitalistico al tipo di
religione, per esempio, ha un discreto sostegno empirico, come ne
hanno le teorie che vedono l'economia sommersa come fattore di
crescita, in quanto meccanismo di autoriduzione della pressione
fiscale.34
Tutte le forze analizzate, però, sono lillipuziane se commisurate alle
forze-base, e soprattutto al gigante che sovrasta tutto e tutti, il reddito
pro capite.
Figura 12 - Tre tipi di forze (coefficienti di impatto)

La figura vi dà un'idea degli ordini di grandezza. C'è una superforza,


il reddito, che governa la crescita frenandola. Ci sono quattro forze che
possono influenzarla positivamente o negativamente, ovvero capitale
umano, tasse sulle imprese, istituzioni economiche, investimenti diretti
esteri. E poi ci sono decine di altre microforze (noi abbiamo riportato
solo quelle più spesso evocate) di cui non si è affatto sicuri che contino,
e che comunque restano abbondantemente al di sotto della soglia critica
di 0,33. Fra le più deboli delle forze che contano (le tasse e le
istituzioni: impatto 0,45) e la più forte delle forze che non contano (il
deficit dei conti pubblici: impatto 0,10) c'è un rapporto di quasi 5 a 1.
A quanto pare, la teoria della crescita è un club molto esclusivo.
VIII

Il drago-balena

Arrivati a questo punto del nostro viaggio, tre conclusioni sono ben
ferme. Primo: le grandi forze che governano la crescita sono solo
cinque. Secondo: fra le 5 forze che contano, il reddito pro capite è di
gran lunga la forza più importante. Terzo: il segno del coefficiente del
reddito pro capite, di solito indicato con ß (beta), è negativo, il che
indica che più il reddito iniziale è alto più la crescita è lenta.
Che il reddito pro capite entri nell'equazione della crescita con segno
negativo, ossia come una forza frenante, non è una novità. Credo non
esista un solo studio sulla crescita che non abbia confermato questo
risultato. Si potrebbe anzi dire che, con il tempo, questo risultato è
diventato così scontato da costituire una sorta di punto di partenza di
qualsiasi analisi. Chiunque provi a costruire l'equazione della crescita
comincia, innanzitutto, con l'includere nell'equazione una qualche
misura del reddito pro capite di partenza, e si aspetta che ß sia negativo.
È solo dopo questa mossa iniziale che le varie teorie cominciano a
divergere.
Dunque, che un reddito pro capite elevato freni la crescita non è in
discussione. Quel che è in discussione, semmai, è come dobbiamo
interpretare questo risultato, ossia qual è il significato sostantivo del
fatto statistico. Questo è un problema molto interessante, ma anche
estremamente difficile. La teoria statistica è in grado, sotto certe
condizioni, di stabilire se una certa variabile ha un'influenza su un'altra,
ma non può mai - da sola - stabilire che cosa una certa variabile rileva o
misura. Sapere che il reddito pro capite influenza la crescita non ci dice
né attraverso quali meccanismi ciò avviene, né se è davvero il reddito
pro capite la forza che si nasconde dietro quella variabile. Una data
variabile, specie se molto pregnante, può essere una "proxy", ossia un
indicatore o un segnale, di molte e talora assai diverse altre variabili.1
Vale a livello micro, dove la razza di un individuo può essere una proxy
del suo reddito. Ma vale anche a livello macro, dove il reddito pro
capite di un paese può essere una proxy del suo benessere materiale, del
suo grado di civiltà, del suo livello tecnologico, o di qualsiasi altro
insieme di condizioni statisticamente correlate al reddito pro capite.
Fin qui noi abbiamo letto il reddito pro capite nel modo più scontato,
ossia come una misura del benessere o tenore di vita. Si tratta ora di
valutare se questa lettura è ragionevole, e soprattutto di capire in che
modo - ossia attraverso quali meccanismi - un reddito pro capite elevato
è in grado di rallentare la crescita. Non è raro, infatti, incontrare autori
che interpretano il reddito pro capite in tutt'altro modo, ossia non come
una misura del benessere ma come una proxy di variabili
sostanzialmente diverse dal benessere stesso.
Gli autori che si richiamano al modello neoclassico, per esempio,
interpretano un elevato reddito pro capite come segno di un'economia
matura.2 E, come sappiamo, per i neoclassici maturità significa
rendimenti decrescenti, dunque minore crescita della produttività e
conseguente rallentamento della crescita. Per loro non è il benessere in
sé a frenare la crescita, ma è semmai la crescita che porta con sé due
frutti di segno opposto: un migliore tenore di vita, ma anche una sorta
di esaurimento o logoramento della funzione di produzione, che con
l'accumulazione di capitale fisico3 e il connesso aumento del rapporto
capitale / lavoro diventa sempre meno capace di tradurre i nuovi
investimenti in incrementi di output. Visto con le lenti neoclassiche, il
reddito pro capite diventa semplicemente una proxy per l'intensità di
capitale, che è la vera forza che inesorabilmente rallenta la crescita.
Solo apparentemente meno pessimistica è la visione di quanti, dietro
il reddito pro capite, vedono semplicemente una misura di prossimità
alla frontiera tecnologica.4 In breve, il ragionamento è questo: se un
paese usa già le tecnologie migliori, può aumentare la produttività solo
con nuove invenzioni, perché chi è sulla frontiera tecnologica non ha
nessuno da imitare; se invece è lontano da tale frontiera, può accelerare
la crescita semplicemente imitando gli altri, ovvero copiando prodotti e
processi produttivi, importando tecnologia, acquistando licenze. Qui il
reddito pro capite è visto come proxy della vicinanza alla frontiera
tecnologica, una sorta di misura di quanto i processi produttivi di un
paese sono tecnicamente avanzati.
Ho definito pessimistiche queste interpretazioni del reddito pro capite
perché questo libro si occupa del destino delle società avanzate. Ma
naturalmente si potrebbe rovesciare il giudizio ponendosi dal punto di
vista delle economie arretrate, come in effetti fanno la maggior parte
degli studi empirici sulla crescita. In questo caso la preoccupazione
centrale diventa il ritardo dei paesi meno ricchi, e il segno negativo di ß
appare incoraggiante: anziché dire che più si è ricchi meno si cresce, si
può dire che meno si è ricchi e più si cresce. Il segno di ß viene
interpretato come prova di un processo di "convergenza condizionale",
che fa sì che - a parità di altre condizioni, ossia per valori simili di tutte
le altre forze - paesi ricchi e paesi poveri tendano verso un analogo
tenore di vita. E il valore assoluto di ß misura precisamente la velocità
di tale processo: più grande è ß, più è rapido l'avvicinamento di un
paese al suo reddito di equilibrio.5
Come abbiamo già ricordato, il problema centrale della letteratura
sulla crescita è il catching up, la capacità dei paesi poveri di
raggiungere i livelli di benessere dei paesi ricchi, e da questo punto di
vista il valore del parametro ß assume una sorta di significato profetico:
un valore di ß grande e negativo ci rassicura sulla inesorabilità del
cammino dell'eguaglianza.
Se però guardiamo le cose dal punto di vista delle società avanzate, il
quadro si fa meno incoraggiante. In società che crescono sempre più
lentamente, il fatto che il reddito pro capite sia un potente freno alla
crescita non è una buona notizia. Perché il reddito pro capite non
scende dal cielo, ma è un prodotto della crescita stessa, il che crea un
circolo che - se non viene spezzato - è destinato a portarci sempre più
vicini a un regime di stagnazione. Ecco perché è importante capire che
cosa si cela dietro il reddito pro capite.
Ma come possiamo fare?
Una possibile via è di prendere sul serio le interpretazioni per così
dire "tecnologiche" del reddito pro capite. Se davvero il reddito pro
capite misura il grado di maturità tecnologica, l'equazione della crescita
dovrebbe funzionare meglio (o quantomeno non troppo peggio)
sostituendo al reddito pro capite un indice di maturità tecnologica,
come l'intensità di capitale. E se invece quel che il reddito pro capite
misura è la prossimità alla frontiera tecnologica, l'equazione della
crescita dovrebbe funzionare meglio sostituendo al reddito pro capite
indicatori come il numero di brevetti, le spese per ricerca e sviluppo, o
il personale occupato nel settore della ricerca.
In realtà, quel che succede è che - comunque si effettui la sostituzione
- la capacità predittiva dell'equazione della crescita si deteriora
sensibilmente: di circa 15 punti usando l'intensità di capitale, di quasi
20 punti usando il migliore fra gli indicatori di vicinanza alla frontiera
tecnologica.6 Fallite le interpretazioni "tecnologiche", sembra
ragionevole ipotizzare che il reddito pro capite misuri effettivamente il
benessere, o meglio qualche aspetto del benessere che, non sappiamo
ancora precisamente per quali vie, ha la capacità di frenare la crescita.
Quel che ci resta da fare, a questo punto, è capire che cosa - nel
benessere - ha la capacità di rallentare la crescita. Un modo assai
semplice di scoprirlo è di ricorrere alla medesima tecnica di
sostituzione, usando come sostituti del reddito pro capite i principali
aspetti del benessere potenzialmente responsabili di un rallentamento
della crescita. Se, sostituendo al reddito pro capite uno o più di tali
aspetti, l'equazione dovesse reggere, allora saremmo nella condizione di
capire qualcosa di più del meccanismo che si annida nel parametro ß.
Ma di che cosa è fatto il benessere delle società ricche?
Un'analisi empirica degli indicatori del benessere mostra che gli
ingredienti fondamentali che caratterizzano le società più ricche e
progredite sono almeno quattro:
a) un costo del lavoro elevato, che si riflette in buoni salari e stipendi;
b) uno scarso ricorso all'economia sommersa, con il suo corredo di
lavoro nero, basse retribuzioni, sfruttamento;
c) una buona qualità dell'assistenza sanitaria, e quindi una
popolazione in buona salute;
d) un elevato tasso di istruzione della popolazione.
E, in effetti, un elementare controllo statistico conferma che, una
volta noti questi elementi, il reddito pro capite reale (a parità di potere
d'acquisto) può essere predetto in modo molto accurato.7 Per capire
meglio perché il benessere frena la crescita, possiamo dunque provare a
riscrivere l'equazione della crescita sostituendo al reddito pro capite -
che è una variabile black box, concettualmente muta - i suoi ingredienti
costitutivi, ossia il costo del lavoro, l'ampiezza dell'economia sommersa
e la qualità dell'assistenza sanitaria (il tasso di istruzione della
popolazione può essere trascurato, perché entra già nell'equazione della
crescita come capitale umano).
Il risultato è sorprendente: la capacità predittiva dell'equazione resta
praticamente invariata,8 e i tre aspetti del benessere entrano tutti in
modo statisticamente significativo nell'equazione.
Tabella 3 - Aspetti del benessere che influenzano la crescita
Effetto sulla crescita
Costo nominale del lavoro
Economia sommersa
Mortalità infantile
-0,79
+0,31
+0,27
I segni e i moduli dei coefficienti ci aiutano a capire che cosa può
frenare e che cosa può favorire la crescita. L'elemento più importante è
il costo del lavoro che, ovviamente, esercita un effetto negativo (-0,79),
in quanto aumenta i costi di produzione e riduce la competitività. Meno
immediata è l'interpretazione degli altri due effetti: sia l'economia
sommersa sia la mortalità infantile paiono favorire la crescita.9 Perché?
Per capirlo, bisogna chiedersi quali sono le condizioni che
tipicamente si accompagnano a un'estesa economia sommersa e a
un'elevata mortalità infantile. Si potrebbe pensare che tali condizioni
siano solo le classiche condizioni di ipersfruttamento della
manodopera: imprese che sottopagano gli operai e violano le norme in
materia di sicurezza del lavoro, evasione fiscale e contributiva, ampie
fasce di popolazione che vivono in condizioni di povertà estrema. Se
però pensiamo a come si viveva e si lavorava negli anni Cinquanta in
molte società occidentali, o a come si vive e si lavora oggi in molte
società dell'Est europeo, è difficile non aggiungere un altro tassello al
quadro dell'arretratezza. Le società meno ricche, ma in transizione
verso il benessere, sono società che - proprio perché le condizioni di
partenza sono dure - esprimono una fortissima spinta individuale e
collettiva all'automiglioramento. Sono società nelle quali la
disoccupazione non è quasi mai volontaria (ossia dovuta al fatto che si
rifiutano i lavori "bassi" o inadeguati), i sacrifici sono la norma, il
risparmio è ampio ma la ricchezza è ancora modesta, l'assenteismo è
contenuto, l'impegno lavorativo è massimo, al limite dello
stakanovismo. E, last but not least, sono società giovani, in cui la
maggior parte della popolazione lavora o aspira a trovare
un'occupazione. Non è sorprendente che in tali condizioni la crescita
abbia una marcia in più.
Ed ecco che cominciamo a mettere a fuoco il puzzle della crescita. La
crescita, poco per volta, aumenta il benessere. Il benessere, a sua volta,
"toglie", una per una, le condizioni che hanno consentito alla crescita di
dispiegarsi: un basso costo del lavoro, una scarsa regolamentazione
dell'attività economica, una disponibilità al sacrificio dei lavoratori, sia
dipendenti sia autonomi (si pensi ai contadini e agli artigiani di un
tempo), un'età media relativamente bassa. Di qui quello che, in
cibernetica, si chiama un "feedback negativo", o circuito di retroazione:
Figura 13 - Retroazione del benessere sulla crescita

La povertà sospinge la crescita, ma la crescita - fortunatamente - fa


diminuire la povertà. In questo modo è la crescita stessa che,
progressivamente, erode le condizioni che l'hanno resa possibile.
A questo punto mi viene in mente un'immagine zoomorfa: mi si
disegna nella mente un animale immaginario, fatto di due creature
lontanissime fra loro: un terribile drago che sputa fuoco dalle fauci e
una placida balena che emette il suo classico getto d'acqua dal dorso.
Proviamo a unirli: avremo il drago-balena, un animale in grado di
produrre sia il fuoco sia l'elemento che lo spegne, l'acqua.
Figura 14 - Il drago-balena ((c) Dario Ziarati)

La crescita è questo. Un processo che genera dal suo interno le


condizioni che lo rendono sempre più difficile, faticoso, contrastato. Ma
fino a che punto? La crescita è destinata a fermarsi, o può proseguire
ancora a lungo?
È quel che cercheremo di scoprire nel resto di questo libro.
IX

Ottimisti e pessimisti: la matematica della crescita

Prima di affrontare la nostra domanda - cresceremo ancora? -


dobbiamo volgere brevemente lo sguardo alla storia dell'economia.
Anche se sotto nomi diversi, il problema della crescita è sempre stato al
centro della riflessione economica. E fin dall'inizio gli economisti sono
sempre stati divisi in due fazioni: da una parte gli ottimisti, che vedono
la crescita come un processo capace di autoalimentarsi senza fine;
dall'altra i pessimisti, che la vedono invece come un processo che
incontra ostacoli sempre più grandi, e dovrà quindi prima o poi
interrompersi.
Certo, ci sono state epoche in cui prevalevano nettamente i
pessimisti: era così nel cuore dell'Ottocento, a dispetto della rivoluzione
industriale e dell'impetuoso sviluppo del capitalismo. E ci sono state
altre epoche, per esempio la seconda metà del Novecento, in cui a
prevalere erano gli ottimisti, affascinati dall'idea di una crescita
costante delle economie, e preoccupati semmai degli squilibri che la
crescita talora portava con sé. Ma non credo sia mai esistita un'epoca in
cui gli uni o gli altri fossero completamente assenti dalla scena. E anche
se non sono mancate figure di tipo scettico o agnostico - né ottimisti né
pessimisti - ogni epoca ha avuto i suoi drappelli, più o meno nutriti, di
ottimisti e di pessimisti.
È stato così fin dai tempi dei classici, agli albori della scienza
economica. Era ottimista Adam Smith, il fondatore dell'economia
politica, che vedeva nella crescente specializzazione e divisione del
lavoro un fondamentale fattore di accrescimento della "ricchezza delle
nazioni". E, a suo modo, era ottimista anche Marx, forse l'autore che
più di qualsiasi altro è stato capace di descrivere lo slancio del
capitalismo, la sua forza dirompente, la sua tendenza a superare ogni
ostacolo. È vero, Marx prevedeva anche la fine del capitalismo e il suo
superamento da parte del comunismo, ma concepiva questo evento
essenzialmente come un brusco trauma politico-sociale - la rivoluzione
proletaria - non certo come un lento spegnersi della crescita.
Erano invece pessimisti Thomas Malthus, David Ricardo e tutto
sommato anche John Stuart Mill. Per loro, non meno che per i loro
successori marginalisti o "neoclassici", l'economia era la scienza delle
risorse scarse, e nulla faceva presagire che la rivoluzione industriale
potesse durare all'infinito: prima o poi la terra, le miniere, le risorse
naturali si sarebbero esaurite. Come ci ricorda David Warsh nella sua
brillante ricostruzione della storia delle idee sulla crescita, a metà
Ottocento gli economisti classici erano già arrivati al concetto di "stato
stazionario", a immaginare, come ebbe a scrivere John Stuart Mill, "un
paese che abbia alla fine raggiunto pienamente il livello di ricchezza
compatibile con il sistema delle sue leggi e delle sue istituzioni".
Racconta David Warsh:
L'Olanda veniva spesso citata come esempio di nazione che aveva
raggiunto questo limite naturale della sua ricchezza. Si aveva cioè
l'impressione che, alternando brevi periodi di crescita con altrettanto
limitati periodi di recessione, l'Olanda rimanesse di anno in anno
praticamente nella stessa posizione, cioè senza diventare né più ricca né
più povera. ... I teorici della metà del diciannovesimo secolo avevano
familiarità con la prospettiva dell'esistenza di uno stato "maturo" della
società.1
Ma gli economisti sono economisti. Quindi non si accontentano di
esprimere i loro stati d'animo e le loro visioni del futuro dell'umanità,
ma cercano di argomentare i rispettivi pessimismi e ottimismi. Lo
facevano già ai tempi di Malthus, e lo faranno sempre di più nei due
secoli che ci separano dal suo celebre Saggio sul principio di
popolazione, uscito nel 1798. In esso Malthus argomentò il suo
pessimismo sul futuro dell'economia con un preciso ragionamento
matematico, uno dei primi esercizi di questo tipo in campo economico.
Secondo Malthus, le risorse tendono a crescere secondo una
progressione aritmetica: 1, 2, 3, 4, 5...; mentre la popolazione tende a
crescere secondo una progressione geometrica: 1, 2, 4, 8, 16... Di qui
una diminuzione costante della quantità di risorse per abitante, e un
futuro di impauperimento crescente.
Sulla stessa lunghezza d'onda, vent'anni dopo, si muove David
Ricardo, cui si deve il cosiddetto "modello del grano", una delle prime
rappresentazioni formali del processo economico dopo il celebre
Tableau di Quesnay, nonché la prima formulazione della "legge dei
rendimenti decrescenti": a ogni apporto di un'ulteriore unità di un
fattore produttivo - terra, lavoro o capitale - corrisponde un aumento via
via minore del prodotto. Secondo Ricardo, la messa a coltura di terreni
sempre più poveri, di giacimenti e miniere sempre meno ricche, non
potrà che condurre l'economia verso la stagnazione.
Al pessimismo dei modelli di Malthus e di Ricardo si
contrappongono le celebri equazioni con cui Marx, nel secondo libro
del Capitale, descrive i meccanismi della "riproduzione" (semplice e
allargata) dei due settori fondamentali dell'economia, quello che
produce beni di consumo e quello che produce beni capitali. Pur
consapevole della ricorrente possibilità di crisi, Marx vede
nell'accumulazione di capitale e nel progresso tecnico le forze
fondamentali2 in grado di allargare la scala della produzione, almeno
finché il proletariato non provvederà a fermare il gioco.
Dunque gli economisti, già nella prima metà del XIX secolo, portano
argomentazioni analitiche a sostegno delle loro visioni del futuro. E da
allora continueranno a farlo senza sosta, sorretti dallo spettacolare
affinamento degli strumenti matematici dell'economia e
dell'econometria. La discussione fra ottimisti e pessimisti uscirà sempre
più dai registri della letteratura, della filosofia della storia, o della
semplice osservazione della realtà, per assumere un contenuto tecnico-
matematico via via più marcato. Ma il fatto notevole è che,
fondamentalmente, il nucleo di tutta la discussione ruoterà intorno a un
unico nodo, a un unico grande interrogativo, da cui in ultima analisi
tutto dipende: i rendimenti dei fattori del processo produttivo3 sono
crescenti o decrescenti?
Per rendimenti decrescenti si intende una situazione simile a quella di
un campo di grano, di una miniera, o di un pozzo di petrolio:
applicando input crescenti (per esempio lavoro) al processo di
estrazione, il prodotto - ossia il materiale estratto - aumenta, ma lo fa in
misura sempre minore. Per rendimenti crescenti si intende una
situazione simile a quella di una fabbrica moderna, in cui il lavoro è
scientificamente organizzato e rigorosamente diviso: aumentando la
scala della produzione, migliorano l'organizzazione e la tecnologia, e il
numero di "pezzi" per lavoratore aumenta. È chiaro che in un mondo in
cui prevalgono i rendimenti decrescenti il prodotto per occupato tende a
crescere a un ritmo sempre più lento, fino al completo arresto. In un
mondo in cui prevalgono i rendimenti crescenti, invece, il prodotto per
occupato aumenta illimitatamente, e la crescita può continuare
indisturbata. Ecco perché la discussione fra pessimisti e ottimisti ha
finito, fin dai tempi di John Stuart Mill, per assumere le vesti di una
discussione sulla funzione di produzione, ossia sull'equazione che
collega gli input agli output del processo produttivo.
Se la funzione è a rendimenti decrescenti, com'era in Ricardo e come
sarà in Solow, il futuro della crescita è a tinte fosche, e la traiettoria del
reddito pro capite che possiamo aspettarci è simile4 a quella della
figura seguente, che rappresenta un processo di crescita che incontra un
tetto.
Figura 15 - Crescita del reddito pro capite con il modello neoclassico
(curva di Solow)

La chiamerò "curva di Solow" (figura 15).


Se invece i rendimenti sono crescenti, come sosterranno soprattutto i
teorici della "crescita endogena", il processo di aumento del reddito pro
capite non incontra alcun limite particolare, perché il progresso tecnico
e la diffusione della conoscenza sono sempre in grado di rendere più
efficienti i processi produttivi, migliorare i prodotti, immettere sul
mercato nuovi beni e servizi. Il futuro della crescita è roseo, e la
traiettoria del reddito pro capite è quella di una curva che va all'infinito.
La chiamerò "curva di Romer" (figura 16), dal nome dello studioso
che, negli ultimi trent'anni, più di ogni altro ha contribuito a diffondere
l'idea che la conoscenza sia un bene speciale,5 capace di apportare
vantaggi a tutta l'umanità e di rendere permanente la crescita.
Arrivati a questo punto, la domanda è la seguente: che cosa è
ragionevole aspettarsi per il futuro delle economie avanzate? Un futuro
alla Solow o un futuro alla Romer?
Figura 16 - Crescita del reddito pro capite con il modello AK (curva
di Romer)

Per capire il meccanismo che governa le due curve faremo


riferimento ai due più semplici modelli in grado di generarle: il modello
di Solow senza progresso tecnico e il modello AK nella sua versione
più elementare. I due modelli hanno in comune sette assunti molto
semplici e intuitivi (vedi box), ma differiscono fra loro su un punto
cruciale, ossia sulla forma esatta della funzione di produzione.
Che cos'è la funzione di produzione? La funzione di produzione è
un'equazione6 che descrive in modo sintetico e compatto come varia il
prodotto aumentando o diminuendo i fattori produttivi, tipicamente
capitale e lavoro.
Ora il punto interessante è che, combinando tra loro gli assunti, e
specificando la forma esatta della funzione di produzione, è possibile
ricavare le equazioni che descrivono come il sistema economico
evolverà nel tempo. Questo tipo di equazioni si chiamano "equazioni di
moto", e permettono di studiare la traiettoria futura di tutte le variabili
del modello, nel nostro caso capitale, lavoro e reddito.7 Conoscendo i
valori iniziali di tali variabili, nonché i valori dei parametri che
caratterizzano il sistema, è possibile simularne il futuro e quindi
rispondere alla domanda: la crescita si fermerà oppure no?
Modello di Solow e modello AK

ASSUNTI COMUNI
Assunto 1. Il prodotto Y, ossia il reddito nazionale o output
dell'economia, si divide in consumo e investimento: Y = C + I.
Assunto 2. Le dimensioni del prodotto Y (quanto reddito si produce)
dipendono dalle quantità di lavoro (L) e di capitale (K) immesse nel
processo produttivo: Y = f(K, L).
Assunto 3. La funzione di produzione f(K, L), ossia la tecnologia con
cui si produce, è "omogenea di grado 1".Si tratta di un assunto un po'
tecnico, che in sostanza significa questo: se si raddoppiano, triplicano,
quadruplicano, entrambi i fattori produttivi (ossia il capitale K e il
lavoro L) l'output a sua volta raddoppia, triplica, quadruplica. Si può
anche dire che i rendimenti di scala (da non confondersi con la
produttività marginale dei singoli fattori) sono costanti.8
Assunto 4. Ogni anno lo stock di capitale preesistente diminuisce di
una frazione costante (d), per esempio del 5%, ossia si logora e si
deprezza.
Assunto 5. Ogni anno una frazione costante (s) del prodotto Y viene
risparmiata e investita, e va quindi ad aumentare lo stock di capitale.
Assunto 6. La forza lavoro cresce a un tasso costante (n) e viene
completamente utilizzata nel processo produttivo.
Assunto 7. La funzione di produzione è una Cobb-Douglas:
Y = A Ka L(1 - a)

dove A è un fattore di scala che dipende dalle unità di misura di Y, K


e L, mentre a è un parametro che esprime l'importanza relativa del
capitale nel processo produttivo ovvero la sua produttività marginale.
ASSUNTI DISTINTI
- modello di Solow: 0 < a < 1
- modello AK: a = 1
Per a = 1 la funzione Cobb-Douglas coincide con il modello AK.
Infatti:
Y = A Ka L(1 - a) = A K1 L(1 - 1) = A K1 · L0 = A K

I primi a condurre questo genere di esercizio furono, come abbiamo


già ricordato, Robert Solow e Trevor Swan, che nel medesimo anno e
indipendentemente l'uno dall'altro formularono sostanzialmente il
medesimo schema di analisi, in due articoli usciti entrambi nel 1956. Di
tutta questa elaborazione, tuttavia, nelle discussioni dei decenni
successivi è sopravvissuto soprattutto un pezzo particolare, ossia quella
parte del saggio di Solow in cui:
a) non si introduce ancora il progresso tecnico;
b) si adotta una funzione di produzione di tipo Cobb-Douglas (vedi
box).
Torneremo fra poco su questa scelta della funzione di produzione. Per
ora basterà dire che, nella funzione Cobb-Douglas, esiste un parametro
cruciale (lo chiameremo a) che determina l'importanza relativa del
capitale e del lavoro nel generare l'output: se a si avvicina a 1 il capitale
è molto più importante del lavoro, se a si avvicina a 0 è il lavoro a
essere importante. Nel suo modello, Solow si limita ad assumere che a
sia compreso fra 0 e 1, una scelta apparentemente innocente ma che in
realtà ha un'implicazione cruciale: con a compreso fra 0 e 1 la
produttività marginale di entrambi i fattori - capitale e lavoro - risulta
decrescente, il che significa che incrementi unitari di un singolo input si
traducono in incrementi sempre minori dell'output. Insomma, è sempre
più difficile "spremere" le macchine e gli uomini per estrarne un
prodotto.
Sotto queste ipotesi, Solow è in grado di individuare le "equazioni di
moto" del sistema economico,9 fra cui quella che governa la crescita
del reddito per addetto (y), una misura concettualmente molto simile al
nostro reddito per abitante, o benessere.10
Da questa equazione è possibile, con alcuni passaggi matematici,11
ricavarne un'altra, che interessa più direttamente il nostro discorso:

L'equazione collega due grandezze fondamentali, evidenziate in


grassetto: il livello del reddito per abitante al tempo t (yt) e il suo tasso
di crescita fra il tempo t e il tempo t + 1(gt). Come si vede, l'equazione
implicita nel modello di Solow non è altro che una forma possibile
dell'equazione della crescita, non molto diversa da quella con cui
abbiamo lavorato nella prima parte di questo lavoro12 (vedi capitoli IV
e V). Più esattamente, l'equazione di Solow ci restituisce il nucleo
dell'equazione della crescita, ovvero ci dice che cosa succede in un
singolo paese se fra le determinanti della crescita consideriamo solo il
reddito per abitante.
Poiché a destra del segno di uguale compaiono solo yt e i tre
parametri13 B, D e a, che si suppongono noti, l'equazione afferma che,
conoscendo il valore assunto dal reddito per abitante in un dato anno
(yt), è possibile ricavare il suo tasso di crescita fra l'anno corrente e
l'anno successivo (gt). E ovviamente - combinando le due informazioni
- diventa possibile calcolare anche il reddito che verrà prodotto nel
nuovo anno: se so che il reddito oggi è 20.000 dollari, e crescerà del 5%
in un anno, è immediato calcolare che il reddito dell'anno prossimo sarà
di 21.000 dollari, ossia 20.000 più il 5% di 20.000. Da qui posso
ripartire per calcolare il nuovo tasso di crescita e il reddito che ne
deriverà l'anno successivo ancora. E così via indefinitamente, fino a
tracciare l'intera storia futura del reddito.
È importante notare una cosa, però. I valori dei tre parametri a, B, D
non sono completamente liberi, perché essi hanno una precisa
interpretazione economica, che ne limita il campo di variazione. Il
parametro a rappresenta la produttività marginale del capitale (la sua
importanza relativa rispetto al lavoro), che, come abbiamo visto, deve
essere compresa fra 0 e 1. I due parametri B e D, a loro volta,
dipendono da altre costanti del modello (tasso di crescita della
popolazione, tasso di risparmio, deprezzamento del capitale, unità di
misura del reddito e dei fattori produttivi) che impongono a B di essere
positivo e a D di essere negativo.14 Detto altrimenti, se si accettano gli
assunti economici del modello di Solow, a deve giacere fra 0 e 1, B
deve essere maggiore di zero, D deve essere minore di zero.
Di qui una conseguenza molto importante: se il parametro a è
compreso fra 0 e 1, l'esponente di y è necessariamente negativo, e
poiché B è positivo ciò implica che la relazione fra reddito pro capite e
tasso di crescita sia inversa: più alto è il reddito pro capite e più
lentamente cresce l'economia. Proprio il risultato che noi abbiamo già
trovato nei capitoli precedenti, quando abbiamo cercato di identificare
le forze e le controforze che governano la crescita.
Non è tutto. L'equazione di Solow permette anche di stabilire se
esiste un punto di arresto, oltre il quale l'economia non cresce più,
nonché di tracciare la curva che descrive la traiettoria del sistema nel
tempo, in base al suo reddito di partenza e ai suoi parametri
caratteristici.
Ebbene, il risultato sconcertante ottenuto da Solow nel 1956 è che, in
assenza di progresso tecnico, il sistema è destinato a fermarsi, perché
l'accumulazione di capitale ha un tetto oltre il quale non può andare, e
quando l'accumulazione si ferma anche il reddito pro capite è destinato
a non crescere più. Il processo di crescita, in altre parole, assume
necessariamente la classica forma concava,15 con un asintoto superiore
o "tetto", che abbiamo denominato curva di Solow e illustrato più sopra
(vedi figura 15). Nel caso del reddito pro capite, tale tetto è dato
dall'espressione:
y* = (- D / B)a/(a - 1)

dove y* è appunto il tetto, o soffitto, o reddito di arresto. Raggiunto


y*, la torta del reddito nazionale non aumenta più, e la crescita del
benessere si ferma per sempre. Con Solow, o meglio con il suo modello
di crescita senza progresso tecnico, i pessimisti hanno trovato un
modello che illustra perfettamente la loro visione delle cose.
E gli ottimisti?
Per passare dal pessimismo all'ottimismo, basta cambiare un piccolo
dettaglio. Manteniamo tutti e sei i nostri assunti, compreso quello sulla
forma generale della funzione di produzione, che anche qui sarà a
rendimenti di scala costanti (assunto 3). Ma anziché usare una funzione
di produzione in cui la produttività marginale del capitale è decrescente
(come la Cobb-Douglas) ne usiamo una in cui non lo è. Più
esattamente, usiamo una funzione di produzione in cui il prodotto Y è
strettamente proporzionale allo stock di capitale:
Y = AK

Siamo entrati, come si vede, nel regno dei "modelli AK", che si
chiamano così proprio perché si basano sull'assunto di stretta
proporzionalità fra capitale e prodotto, dove Y è il prodotto, K è il
capitale, e A è la costante di proporzionalità che li collega,
trasformando il capitale in prodotto. Nelle economie moderne l'ordine
di grandezza di tale costante, talora denominata "output-capital ratio"
(rapporto fra valore dell'output e reddito) è tipicamente compresa fra 1 /
2 e 1 / 3, il che in concreto significa che ci vogliono da 2 a 3 unità di
capitale per produrre 1 unità di reddito.16
Una funzione del genere dice che, se aumento lo stock di capitale -
poniamo - del 7%, anche l'output prodotto aumenterà del 7%. È come
affermare che, ai fini della produzione, conta solo il capitale e non il
lavoro. Non importa quanto lavoro entra nel processo produttivo, conta
solo quanto capitale viene immesso o, se preferite, con quanto capitale
è equipaggiata ogni unità di lavoro. Un modo molto semplice ed
elegante di arrivare al modello AK è di partire dalla funzione di
produzione Cobb-Douglas (quella del modello di Solow) e attribuire al
parametro a, che misura l'importanza relativa del capitale, il valore
limite di 1 (vedi box).17
Non resta, a questo punto, che rifare i calcoli e vedere che cosa
succede. Si tratta, cioè, di ripetere esattamente il procedimento seguito
da Solow nel suo articolo del 1956, usando però la più semplice
funzione AK al posto della più complessa funzione Cobb-Douglas.
Ebbene, il risultato è di una sconcertante semplicità. L'equazione che
descrive la legge di movimento del reddito pro capite, o benessere,
assume una forma semplicissima:18
gt = B + D = costante

Il punto da notare è che, in questa equazione, è del tutto sparito il


reddito pro capite y. L'equazione, in altre parole, contiene solo i
parametri B e D, che sono delle costanti. Questo equivale a dire che il
reddito pro capite y cresce a un tasso costante. Se, per esempio, la
somma B + D vale 0,03, significa che il reddito pro capite y cresce a un
tasso annuo pari a 0,03, ossia al ritmo del 3%. Attenzione, però: un
tasso costante, non un tasso dipendente dal livello di benessere già
raggiunto, e tantomeno un tasso decrescente al crescere del reddito,
com'era nel modello di Solow. Ma crescita a un tasso costante, se il
tasso è positivo, significa che non c'è un tetto. Crescita senza limite.
Crescita perpetua. Crescita per sempre.
E così, con una piccolissima mossa, quella di assegnare al parametro
a il valore 1, anche gli ottimisti hanno ottenuto quello che volevano: ora
il sistema evolve secondo la curva di Romer, senza tendere a uno stato
stazionario (vedi figura 16).
Il modello AK è solo un esempio, il più elementare, delle strategie
con cui gli ottimisti hanno provato a rovesciare le fosche previsioni dei
pessimisti.19 Come tale può apparire irrealistico, ma lo è meno di
quanto appaia a prima vista. Ci sono vari modi per renderlo plausibile,
ma il più semplice è di reinterpretare il termine K come misura non solo
del capitale in senso classico (macchinari, attrezzature, stabilimenti...)
ma di tutto il capitale, fisico, umano e immateriale, lasciando al termine
L solo il significato di forza lavoro per così dire "bruta", al netto della
sua qualificazione, interamente incorporata nel capitale K. Se K
rappresenta il capitale in senso lato, si può anche immaginare che quel
che conta per generare reddito non sia il numero di braccia impiegate,
ma il grado di qualificazione dei lavoratori e il livello delle tecnologie
adottate nel processo produttivo.20 Questa interpretazione del modello
AK è stata autorevolmente proposta dal premio Nobel Robert Lucas nel
1988, in un famoso articolo dal titolo On the Mechanics of Economic
Development.
Un'altra giustificazione del modello AK e del suo assunto di
proporzionalità fra capitale e prodotto è basata sul concetto di
"esternalità positive", un'idea che risale ad Alfred Marshall.
Un'esternalità positiva è, in sostanza, un vantaggio che un'impresa
riceve senza sostenere direttamente un costo: può essere una nuova
infrastruttura che la collega meglio ai mercati di sbocco o di
rifornimento, oppure l'acquisizione di un lavoratore i cui costi di
formazione sono stati sostenuti da un'altra impresa, o ancora la scoperta
più o meno casuale di migliorie nel processo produttivo. Se ci sono
esternalità di questo tipo può succedere che la produttività marginale
del capitale nella singola impresa continui a seguire la legge dei
rendimenti decrescenti, ma che nell'economia considerata nel suo
insieme i rendimenti siano costanti, o addirittura crescenti. Questa idea,
dopo Marshall, è riemersa più volte come un fiume carsico nella storia
del pensiero economico. Negli anni Venti del XX secolo con Allyn
Young e il suo famoso saggio Increasing Returns and Economic
Progress; negli anni Sessanta con Kenneth Arrow e il suo concetto di
learning by doing, ma anche con Marvin Frankel, autore di un modello
AK che ambisce a combinare i vantaggi dei modelli di Harrod-Domar e
di Solow-Swan. E infine negli anni Ottanta con Paul Romer e i suoi
modelli di crescita endogena basata sulla diffusione della conoscenza.
Nei contributi precedenti le esternalità sono perlopiù pensate come
effetti involontari o non intesi, come opportunità di miglioramento
dell'efficienza del capitale non deliberatamente perseguiti. Ma c'è anche
un altro filone della letteratura sulle esternalità, che non le pensa come
un pasto gratis che sbuca dal nulla, bensì come risultato di interventi
intenzionali, dei privati e soprattutto dello Stato, volti ad aumentare
l'efficienza dei processi produttivi e a inventare nuovi prodotti. Questa
linea di pensiero individua nel settore della ricerca e sviluppo lo
strumento che può vincere il trend decrescente della produttività del
capitale, trasformando i rendimenti decrescenti in rendimenti costanti o
addirittura crescenti. Anche in questo caso un impulso fondamentale è
arrivato dagli studi di Paul Romer, presto seguiti da altri studi sul ruolo
degli investimenti in ricerca e sviluppo.21
La controversia fra modelli neoclassici alla Solow, basati sui
rendimenti decrescenti, e modelli di crescita endogena alla Romer,
basati su rendimenti costanti o addirittura crescenti, è tuttora in corso e
divide gli economisti,22 anche per i suoi più o meno nascosti risvolti
politici. Le teorie di crescita endogena hanno esercitato un forte appeal
non tanto per il loro ottimismo, ma perché hanno aperto un enorme
spazio all'intervento della politica nell'economia, contribuendo a
diffondere l'idea che l'intervento pubblico potesse aiutare in modo
sostanziale lo sviluppo economico con gli incentivi e l'offerta di ogni
genere di bene pubblico: più istruzione, più salute, più fondi alla
ricerca, più infrastrutture materiali e immateriali. La loro filosofia è
sostanzialmente keynesiana, ed entra in felice risonanza con le teorie
dell'intervento pubblico.
Il successo delle teorie di crescita endogena, tuttavia, non ha segnato
la sconfitta definitiva del pessimismo neoclassico. C'è un punto, infatti,
su cui il pessimismo neoclassico si rovescia in ottimismo, mentre il
contrario succede all'ottimismo dei modelli di crescita endogena, e in
particolare dei modelli AK. I modelli alla Solow, è vero, prevedono un
rallentamento della crescita, ma l'altra faccia del rallentamento - la
faccia positiva - è la convergenza fra economie avanzate ed economie
in via di sviluppo.23 È proprio perché l'investimento in capitale è a
rendimenti decrescenti che le economie avanzate sono destinate a
essere "agganciate" da quelle dei paesi arretrati: nelle economie
avanzate la produttività del capitale cresce più lentamente che in quelle
arretrate, e questo conferisce un vantaggio ai paesi meno ricchi. Nei
modelli AK, invece, non c'è convergenza, né assoluta né condizionale
(ossia a parità di caratteristiche di due economie): proprio perché il
ritmo di crescita non dipende dal livello di reddito già raggiunto,
un'economia in ritardo è destinata a rimanerlo per sempre, almeno
finché non cambia i suoi fondamentali rendendoli migliori di quelli
delle economie che insegue.
Così, alla fine del nostro viaggio, la teoria economica ci lascia con il
dubbio da cui eravamo partiti: hanno ragione gli ottimisti o i pessimisti?
Sfortunatamente, la teoria economica non ha una risposta, ma ne ha
due. E, cosa più grave, la scelta fra le due risposte è, per così dire,
cablata negli assunti matematici della teoria. Basta cambiare il valore di
un parametro nella funzione di produzione e tutto cambia, facendoci
passare da una curva che implode (la curva di Solow) a una curva che
esplode (la curva di Romer). Così, chi sceglie un modello di crescita
neoclassico è inesorabilmente condotto a prevedere l'arresto della
crescita, a meno di introdurre artificiosamente e dall'esterno una fonte
inesauribile di progresso tecnico. Chi invece adotta un modello AK, o
uno dei tanti modelli di crescita endogena, è altrettanto inesorabilmente
condotto a profetizzare un futuro di crescita senza fine. Pessimismo e
ottimismo dipendono da un minuscolo dettaglio della funzione di
produzione. Un dettaglio su cui, di norma, gli economisti decidono a
priori, in base alle loro preferenze teoriche, come un paziente che,
conoscendo le inclinazioni dei suoi possibili medici o psicologi, li
sceglie in base alla cura che intende farsi prescrivere.
È chiaro che è un vicolo cieco, e che dobbiamo trovare un'altra
strada. Come dice un antico proverbio cinese: se vuoi entrare in un
pentagono e non ci riesci da nessuno dei cinque lati, cerca il sesto.
X

Foreste, salmoni e predatori

Il nostro sesto lato è la demografia. O meglio, sono i modelli di


crescita sviluppati dai demografi, e più in generale dalle discipline che
studiano le popolazioni di organismi viventi, non importa se costituite
da animali, vegetali o microrganismi.1 Modelli che sono stati creati per
descrivere i processi di crescita più diversi: l'evoluzione dei parametri
fisici (lunghezza, peso, volume, diametro, ecc.) di un singolo
organismo vivente, la crescita del numero di membri di una
popolazione, le fluttuazioni di due o più popolazioni in interazione
reciproca.
Anche se, come vedremo, alcuni modelli matematici sono comuni o
possono apparire simili, c'è una grande differenza fra il modo in cui
economisti e demografi2 affrontano il problema della crescita. Il
percorso degli economisti segue un tipico tracciato: prima si formula
una teoria, poi la teoria viene tradotta in un modello matematico, infine
si studiano le proprietà del modello e se ne ricavano le conclusioni. Può
anche accadere, ma non è particolarmente frequente, che il modello e le
sue predizioni siano posti a confronto con i dati, ossia con la storia reale
di uno o più sistemi economici. Spesso chi fa questo secondo tipo di
lavoro, il lavoro sporco sui dati, non è il medesimo studioso che ha
formulato la teoria. E può persino accadere che chi ha formulato la
teoria non sia d'accordo con chi l'ha messa alla prova sui dati, specie se
i dati non la supportano, e talora persino quando i dati sembrano
confermarla. È precisamente quel che è successo con il modello di
Solow. Il modello fu formulato in termini astratti nel 1956 da Solow,
nel 1992, ovvero 36 anni dopo, Mankiw, Romer e Weil provarono
(apparentemente con successo) a sottoporlo a un test su dati reali, ma
sia Solow sia altri studiosi ripudiarono energicamente le prove
empiriche portate a suo sostegno.3
Ancora più interessante è quanto succede quando qualcosa non
funziona in una teoria, e ancora una volta il caso di Solow è istruttivo.
Quando ci si accorse che le economie reali crescevano molto di più di
quanto il modello prevedesse, gli economisti si divisero repentinamente
in due fronti. Gli ortodossi, ansiosi di difendere il modello (e il suo
impianto neoclassico), escogitarono ogni sorta di variante per salvarlo:
alcuni, riprendendo uno spunto dello stesso articolo di Solow del 1956,
spiegarono le anomalie introducendo la variabile esogena progresso
tecnico; altri si diedero ad "aumentare" la funzione di produzione
introducendo nuove forme di capitale, in particolare il capitale umano. I
critici, desiderosi di falsificare il modello, passarono direttamente alla
costruzione di modelli alternativi, non più basati sull'assunto dei
rendimenti decrescenti: di qui la letteratura sulla crescita endogena e la
popolarità dei modelli AK.
Quel che è interessante, in questo modo di procedere, è il suo
razionalismo, per non dire il suo apriorismo. Le contrapposizioni sono
innanzitutto fra teorie molto astratte, che fondamentalmente generano
due scenari opposti: uno scenario pessimistico di "spegnimento" della
crescita, se si adotta l'approccio neoclassico puro, senza progresso
tecnico; e uno scenario ottimistico di crescita perpetua, se si adottano i
modelli AK, o si corregge il modello neoclassico con l'artificio di un
progresso tecnico esogeno e senza fine. Due scenari ben rappresentati
dalle due curve opposte che li descrivono, la curva di Solow e la curva
di Romer.
Alquanto diverso è l'approccio prevalente fra i demografi e più in
generale fra i biologi e gli studiosi di dinamica delle popolazioni.
Anch'essi studiano la crescita, che qui può riguardare qualsiasi tipo di
organismo vivente: persone, ma anche salmoni, ricci, batteri, piante,
foreste, insetti, animali-preda e animali-predatore. E tuttavia lo fanno in
un modo decisamente meno ideologico degli economisti; un modo più
empirico e meno astratto, più attento ai meccanismi della realtà e meno
ossessionato dalle teorie.4
Sospingono in questa direzione almeno due elementi. Il primo è che,
occupandosi relativamente poco di società umane, i biologi e gli
studiosi di dinamica delle popolazioni possono molto più facilmente
ignorare le conseguenze socio-politiche delle loro teorie. Sapere che
una foresta cresce a un tasso costante o decrescente non ha conseguenze
così coinvolgenti come sapere che un'economia è destinata a
svilupparsi o a fermarsi per sempre. Il secondo elemento che differenzia
i biologi e i demografi dagli economisti è l'esistenza di un consenso di
fondo sulle caratteristiche generali del processo di crescita. Per i biologi
e i demografi è ovvio, e quindi è dato per scontato, che né i singoli
organismi, né le popolazioni possono crescere illimitatamente, se non
altro perché lo spazio a loro disposizione è finito. A seconda delle
caratteristiche delle popolazioni studiate e del loro ambiente, la curva
della crescita può cambiare notevolmente profilo, ma non sussiste alcun
dubbio che, in ultima analisi, ossia nel lungo periodo, la crescita stessa
abbia un limite superiore assoluto, un tetto o soffitto oltre il quale non
può andare. Tanto è vero che, in determinati ambiti di studio, tale tetto
prende anche un nome ben preciso: si chiama "capacità portante", e
indica il numero massimo di individui che un certo ambiente può
reggere.
Questa idea, che la crescita incontri un limite insuperabile, lascia
sullo sfondo il dilemma crescita-arresto che appassiona gli economisti,
e sposta l'attenzione su un altro versante. Una volta stabilito che la
crescita di una popolazione non possa essere illimitata, il problema
diventa quello di individuare i meccanismi che ne governano
l'evoluzione e soprattutto di tradurli in equazioni matematiche. È qui
che il lavoro dei demografi diventa molto utile per noi sia sul piano
concettuale, sia su quello matematico. Nella visione dei demografi, e
ancora più in quella dei biologi, è dato per scontato che qualsiasi
processo di crescita sia la risultante di due forze contrastanti, una in
qualche modo "banale", l'altra no. La forza banale è la mera
riproduzione, di cellule, organismi, popolazioni, un meccanismo che
tendenzialmente (ossia in assenza di forze di segno opposto) darebbe
luogo a una crescita esponenziale perpetua, come nel modello
malthusiano di esplosione della popolazione. La forza non banale è
invece l'insieme dei meccanismi che ostacolano e rallentano la crescita.
La crescita, scrive il grande biologo Ludwig von Bertalanffy parlando
del singolo organismo, è il risultato dell'interazione fra "sintesi e
distruzione, anabolismo e catabolismo dei materiali costitutivi del
corpo". E delle due forze, la forza che spinge e la forza che frena,
quella di gran lunga più importante, quella di cui vale la pena
occuparsi, è chiaramente la seconda, perché - come ebbe a notare più di
un secolo fa il grande anatomista Charles Minot - "l'invecchiamento
comincia alla nascita". L'idea, ci spiega il premio Nobel per la
fisiologia e la medicina Peter Medawar,5 è che ogni organismo o
popolazione abbia un proprio tasso di crescita intrinseco,
corrispondente al suo accrescimento in assenza di forze di
rallentamento. Tale tasso è massimo all'inizio, quando l'organismo o la
popolazione hanno dimensioni minime o trascurabili, ma poi declina
inesorabilmente, sotto l'azione delle forze che ostacolano la crescita.
Ecco perché la tendenza alla decelerazione della crescita è stata
battezzata "legge di Minot", e lo studio delle forze che ne sono
responsabili assume un'importanza fondamentale.
In quest'area di studi, tuttavia, il tipico meccanismo di rallentamento
della crescita non è di natura puramente meccanica, come possono
essere l'esaurimento di una miniera, il declino di fertilità di un terreno
agricolo, o il soffocamento di una popolazione di ninfee perché lo
stagno che le contiene è troppo piccolo (se non altro perché ha una
superficie finita). Specialmente fra gli studiosi di dinamica delle
popolazioni, il rallentamento della crescita è visto come il prodotto dei
comportamenti delle popolazioni che agiscono e interagiscono in un
certo ambiente, della distribuzione spaziale dei loro membri, oltreché
dei parametri biologici che caratterizzano la specie o le specie
coinvolte. Il rallentamento, in altre parole, è la risultante di meccanismi
interni,6 una sorta di prodotto congiunto o sottoprodotto naturale della
crescita stessa.
Nei modelli detti rispettivamente "scramble" e "contest", per
esempio, la forma della curva di evoluzione di una singola popolazione
dipende dal modo - egualitario o diseguale - in cui i suoi membri
accedono a un ammontare di risorse scarse. Se l'accesso è
sostanzialmente uniforme la numerosità della popolazione evolve
secondo una certa famiglia di modelli matematici - il cui capostipite è il
cosiddetto "modello di Ricker" - e l'eventuale diminuzione delle risorse
può determinare un improvviso crollo della popolazione, fino
all'estinzione. Se invece l'accesso alle risorse è asimmetrico, perché
esistono individui o gruppi dominanti, la numerosità della popolazione
evolve secondo un'altra famiglia di modelli - il cui capostipite è il
cosiddetto "modello di Beverton-Holt" - e il numero di membri si
stabilizza più facilmente, l'estinzione è meno probabile, la riduzione
delle risorse ha effetti meno catastrofici.7
Nei modelli preda-predatore, formulati da Lotka e Volterra negli anni
Venti, la dinamica di due popolazioni è regolata dalle attività di
predazione: l'abbondanza di prede alimenta la crescita dei predatori, ma
l'attività di predazione di questi ultimi fa diminuire il numero delle
prede, riducendo il cibo a loro disposizione e facendone diminuire il
numero; per parte loro le prede, decimate dai predatori, ricominciano a
crescere quando questi ultimi sono a loro volta diminuiti a causa della
scarsità di prede; sicché un tipico esito di questi meccanismi è
l'oscillazione delle due popolazioni intorno ai loro valori di equilibrio,
senza che nessuna delle due prenda definitivamente il sopravvento.
Questo modo di pensare la crescita ha portato biologi e demografi a
mettere a punto un vastissimo repertorio di modelli matematici, capaci
di rappresentare processi anche qualitativamente molto diversi. Modelli
in cui il tempo cambia in modo continuo e modelli in cui il tempo varia
in modo discreto. Modelli di crescita del singolo organismo e modelli
di crescita di un aggregato di organismi.8 Modelli di interazione fra i
membri della medesima specie e modelli di interazione fra più specie.
Modelli in cui la competizione è per le risorse, e modelli in cui - come
nelle famose equazioni di Lotka e Volterra - due o più specie si
affrontano nelle vesti di prede e di predatori.
Ecco perché, anziché fare una scelta secca fra curva di Solow e curva
di Romer, preferiamo affrontare il nostro interrogativo - possono ancora
crescere le società avanzate? - con un'incursione nel paradiso dei
modelli matematici dei demografi. La matematica della crescita è un
mondo affascinante, che ci riserverà non poche sorprese.
Prima sorpresa: il più famoso modello demografico inventato dopo
Malthus, la curva di Verhulst (o curva logistica), non sceglie affatto fra
le due curve ma le combina.
Figura 17 - Curva di Verhulst: prima accelera, poi decelera

Il modello, concepito nel 1838, nasce dall'idea che la curva di


sviluppo di una popolazione possa alternare una fase di crescita
accelerata, che ha luogo quando la popolazione è piccola e l'ambiente
che la può contenere è relativamente libero, e una fase di crescita
sempre più lenta - fino all'arresto - quando la popolazione è divenuta
troppo numerosa e proprio per questo trova un limite nell'affollamento
dell'ambiente o nella scarsità delle risorse a disposizione di ogni
membro. In breve: prima curva di Romer (convessa), poi curva di
Solow (concava). Come si può vedere accostando le tre figure (figure
15, 16, 17), è proprio quel che fa l'equazione di Verhulst.
Seconda sorpresa: anche se danno per scontato che la crescita abbia
un limite, non sempre demografi e biologi usano modelli matematici
che prevedono un asintoto superiore, ossia un punto raggiunto il quale
la crescita si arresta. Esistono organismi o popolazioni che, almeno per
un tratto della loro esistenza, possono crescere in modo esponenziale,
ossia apparentemente senza limiti. È il caso di alcuni tipi di piante, che
dopo una fase di decelerazione possono entrare in una fase di crescita
accelerata, un caso descritto da Bredenkamp e Gregoire in un articolo
del 1988, apparso su "Forest Science". Ma è anche il caso di alcune
specie di ricci marini, per esempio i ricci rossi che vivono sulla costa
occidentale del continente nordamericano (Strongylocentrotus
franciscanus), un caso descritto e analizzato da Ebert e Southon in un
articolo del 2003 sul "Fishery Bulletin".
Quando questo accade, anche gli studiosi di dinamica delle
popolazioni possono essere indotti a adottare modelli matematici "non
asintotici", modelli cioè che ammettono traiettorie di crescita prive di
un tetto, come la funzione di Tanaka, o l'equazione di Richards, o la più
recente equazione di Schnute.9 E anche se la maggior parte dei teorici
continua a pensare che un vero modello di crescita deve prevedere un
asintoto, non manca chi - come Oscar García in un importante
contributo del 1997 sulla classificazione delle curve di crescita - fa
notare che la presenza di un asintoto superiore (un "tetto") non è un
requisito matematico tassativo di un modello di crescita.
Insomma, specie in scienza forestale, non si può escludere a priori
che un processo di crescita segua il profilo della curva di Romer, e
neppure che inverta la classica sequenza accelerazione-decelerazione
che caratterizza la curva di Verhulst. Quando questo accade, la curva di
crescita assume un aspetto simile a quello della funzione tangente della
trigonometria.
Figura 18 - Curva anti-Verhulst: prima decelera, poi accelera

La chiameremo curva anti-Verhulst, visto che costituisce una sorta di


capovolgimento della dinamica della curva di Verhulst.
È proprio questo il caso descritto da Bredenkamp e Gregoire nel loro
articolo del 1988: prima la foresta soffoca, perché le piante competono
fra loro per lo spazio e la luce, poi proprio la mortalità indotta dalla
competizione permette una sorta di rinascita della foresta, innescando
una fase di crescita accelerata. Insomma, prima curva di Solow
(decelerazione), poi curva di Romer (accelerazione), l'esatto contrario
di quel che accadeva con la classica curva di Verhulst.
Il punto veramente interessante per noi, però, non è il fatto che anche
biologi e demografi abbiano i loro modelli, né il fatto che siano
tantissimi (nella sua monumentale opera del 1988 Kiviste ne contò e
mise alla prova ben 75), e neppure il fatto che alcuni di essi si
comportano alla Solow, altri alla Romer.
Se così fosse, saremmo da capo: se vogliamo "dimostrare" che la
crescita è destinata a fermarsi adottiamo un modello matematico del
primo tipo (con asintoto), se vogliamo "dimostrare" che la crescita è
perpetua ne adottiamo uno del secondo tipo (senza asintoto). No, il
punto cruciale, quello che rende i modelli dei demografi quanto mai
adatti a rispondere al nostro interrogativo - la crescita si fermerà oppure
no? - è il grado di integrazione matematica di tali modelli. Specie negli
ultimi due decenni la ricerca matematica in ambito demografico non si
è limitata a moltiplicare i modelli, ma ha messo in atto un potente
sforzo per unificarli. Oggi il mondo dei modelli di crescita è una rete
estremamente complessa e sofisticata di modelli collegati fra loro,
spesso figli di supermodelli più generali. Non è raro, per esempio,
incontrare modelli tradizionalmente considerati separati e distinti, che
tuttavia si rivelano casi speciali di un unico modello più ampio, che li
comprende tutti.
Questa opera di unificazione e collegamento fra modelli ha ricevuto
un impulso fondamentale soprattutto a partire dagli anni Novanta, e ha
riguardato sia i modelli in cui il tempo varia in modo continuo,
prediletti dai biologi e dagli studiosi di scienza forestale, sia i modelli in
cui il tempo varia in modo discreto (tipicamente: di anno in anno),
prediletti dagli studiosi di dinamica delle popolazioni, comprese le
specie marine più o meno soggette alla pesca (il lettore curioso può
trovarne un breve schizzo nella quinta "anatra"). Fatto sta che oggi, nel
mondo degli studiosi della crescita, si contano ormai almeno un
centinaio di modelli dinamici, per lo più finemente intrecciati fra loro:
una vera e propria Disneyland della ricerca matematica sui processi
evolutivi.
Perché l'integrazione matematica fra i modelli è un vantaggio?
La ragione è semplice, e possiamo illustrarla tornando a quelle due
curve che ci parevano così diverse, la curva di Solow e la curva di
Romer. Se esse non fossero le rappresentazioni di due teorie distinte e
incomunicanti, ma fossero figlie di un medesimo modello matematico,
che a seconda dei valori dei suoi parametri può generare sia l'una sia
l'altra come casi speciali, e magari anche una bella lista di casi
intermedi o misti, allora potremmo semplicemente stimare i parametri
di quel modello, e constatare che i valori ottenuti corrispondono all'uno
o all'altro processo. Potremmo, in altre parole, prendere i nostri dati
sulla crescita del reddito nelle società avanzate, individuare l'equazione
che ne governa l'andamento, e stabilire se i parametri ottenuti segnalano
una curva alla Solow o una curva alla Romer.
Ma esiste un tale modello?
XI

L'equazione di Chapman-Richards

Sono stanco di avere o di ascoltare opinioni su opinioni! Voglio che


le cose stesse mi diano ragione o torto.
FRIEDRICH NIETZSCHE (1880)

Sì, nel luna park dei demografi esiste almeno un modello capace di
generare entrambi i tipi di curve, quella pessimistica e quella
ottimistica. Non solo, ma tale modello è così generale e flessibile che,
come casi speciali, è in grado di generare non solo le curve di Solow e
di Romer, ma anche le curve "miste" Romer-Solow (equazione di
Verhulst e simili) e Solow-Romer (equazione anti-Verhulst e simili),
nonché infinite forme intermedie fra i vari tipi di curve (vedi figura 19).
Per curva di Solow intendiamo una curva concava pura (senza punti
di flesso). Per curva di Verhulst intendiamo una curva sigmoide, non
necessariamente dotata di un asintoto inferiore.1 Per curva di Romer
intendiamo una curva convessa pura (senza punti di flesso). Per curva
anti-Verhulst intendiamo una curva "tangentoide", che va all'infinito ma
ha un punto di flesso. È il caso di notare fin d'ora che esistono vari tipi
di curve della famiglia Verhulst (simmetriche e non, con o senza
pavimento, ma tutte con un soffitto), e che l'equazione di moto del
modello di Solow può generare sia una curva di tipo concavo (curva di
Solow) sia una curva di tipo sigmoide (curva di Verhulst). Quel che
accomuna le due curve è che nel tratto finale sono entrambe curve di
Solow, con la concavità rivolta verso il basso.
Figura 19 - Le quattro curve fondamentali

Prima di presentare il modello superflessibile messo a punto dai


demografi, tuttavia, dobbiamo fare un passo di lato, e dire qualche cosa
sulla cassetta degli attrezzi degli studiosi della crescita. Quando si cerca
di individuare la traiettoria nel tempo di una data grandezza, sia essa la
numerosità di una popolazione, la lunghezza di una tartaruga o, come
nel nostro caso, il reddito per abitante di un'economia, lo strumento
fondamentale non è l'equazione che descrive direttamente ed
esplicitamente la traiettoria stessa, ossia un'espressione della forma: y =
f(t; p), che collega direttamente il livello del reddito (y) al trascorrere
del tempo (t) e a un certo numero di parametri (riassunti dalla lettera p).
Tale equazione è utile, ma il suo grafico (d'ora in poi: "diagramma y-
t") non è in grado di mostrarci direttamente, ossia in modo immediato e
intuitivo, quali sono le caratteristiche qualitative del processo che
stiamo studiando. Per cogliere pienamente le caratteristiche di un
processo di crescita, accanto al diagramma y-t, che descrive la
traiettoria del livello di y nel tempo, dobbiamo introdurre due nuovi
strumenti, forse ancora più importanti: il diagramma d-t, che descrive
l'evoluzione nel tempo degli incrementi assoluti di y, ossia la velocità
con cui cambia y (dove d è il simbolo che, in matematica, indica le
variazioni infinitesimali); e il diagramma g-y, che mostra come il tasso
di crescita dipende dal livello di y (dove g è il simbolo che, nella
letteratura sulla crescita, indica l'incremento percentuale del reddito per
abitante). Un quadro completo, insomma, richiede tre diagrammi
distinti.
Prima di descriverli in astratto, ossia da un punto di vista matematico,
vediamoli subito all'opera su un esempio concreto, quello della classica
equazione di Verhulst che, come sappiamo, descrive un processo
inizialmente accelerato e poi decelerato (vedi figura 19, in alto a
sinistra).
Il primo diagramma (y-t) mostra l'evoluzione nel tempo (t) della
grandezza che stiamo studiando (y), evoluzione che nel nostro esempio
- quello di una curva di tipo Verhulst - assume la classica forma
sigmoide, o "a ogiva": possiamo chiamarlo semplicemente "diagramma
della traiettoria".
Il secondo diagramma (d-t) mostra l'evoluzione nel tempo delle
variazioni di y, ossia la sua velocità di crescita (matematicamente: la
derivata di y rispetto al tempo). In altre parole, ci rivela se il processo è
accelerato, decelerato, o alterna fasi di accelerazione e di decelerazione.
In quest'ultimo caso la curva presenta un punto di svolta, che indica
l'esatto momento del tempo in cui si passa da una fase all'altra. Nel caso
del nostro esempio, il processo è prima accelerato, poi decelerato, e il
punto di svolta è al tempo tf , indicato da una linea verticale sia nel
diagramma y-t sia nel diagramma d-t. Il punto tf , o punto di flesso, è il
momento del tempo in cui la curva di crescita (primo diagramma)
mostra un cambiamento qualitativo, ossia un passaggio fra due diversi
regimi di crescita (in questo caso da accelerazione a decelerazione, ma
con altre curve di crescita potrebbe essere il passaggio inverso). Non
tutti i processi di crescita hanno un punto di flesso, ma quando questo
accade il diagramma d-t lo rivela chiaramente, informandoci anche sul
momento (presente, passato o futuro) in cui il modello prevede un
cambio di regime. Possiamo chiamarlo "diagramma della velocità", o
della crescita assoluta.
Figura 20 - I tre diagrammi fondamentali: traiettoria (y-t), velocità (d-
t), accrescimento (g-y)

Il diagramma più importante, però, è forse il terzo (g-y). Esso ci dice


qual è, per ogni livello di y, il tasso di crescita relativo (g) che il nostro
modello prevede. La crescita relativa, è importante sottolinearlo, è cosa
diversa dalla crescita assoluta. Se un dato anno il reddito pro capite
aumenta di 1000 dollari e l'anno prima era di 20.000 dollari, la crescita
assoluta è 1000, la crescita relativa è 0,05 (il 5%), perché 1000 è il 5%
di 20.000. Il diagramma g-y rappresenta la crescita relativa, mentre la
crescita assoluta era catturata dal diagramma d-t.
C'è però anche un'altra importante differenza fra gli ultimi due
diagrammi, il diagramma d-t della crescita assoluta e il diagramma g-y
della crescita relativa. Nel diagramma d-t, sull'asse orizzontale compare
il tempo (t), nel diagramma g-y compare invece la grandezza che
stiamo studiando (y). Dunque, il diagramma g-y ci informa sul ritmo
della crescita non già in funzione del tempo, ma in corrispondenza di
diversi livelli di sviluppo. Possiamo chiamarlo "diagramma di
accrescimento", o della crescita relativa.
L'inclinazione della curva g-y permette di distinguere, al volo, tre
casi fondamentali: se la curva è piatta, y evolve a un tasso costante
(crescita esponenziale), come nel modello malthusiano della
popolazione, nel modello AK, o nel modello di Solow con progresso
tecnico; se la curva è inclinata positivamente (caso rarissimo) y evolve
a un tasso sempre più rapido (crescita iperesponenziale) e il sistema
tende a esplodere; se, come nel nostro esempio e come quasi sempre
avviene, la curva è inclinata negativamente, allora y evolve a un tasso
sempre più lento (crescita ipoesponenziale).
Ma il diagramma di accrescimento non ci dice solo questo. Restiamo
sul caso di gran lunga più frequente, quello di una crescita
ipoesponenziale, come quella della curva di Verhulst. Osservate la retta
del diagramma g-y (terzo riquadro della figura 20), e notate che essa
attraversa sia l'asse delle ordinate g (nel punto r), sia l'asse della ascisse
y (nel punto y*). Ebbene, quando questo accade (non accade sempre), è
possibile dare un preciso significato ai due punti r e y*.
Il punto r si chiama "tasso di crescita intrinseco", e rappresenta, per
così dire, il ritmo di crescita "alla nascita". Esso, infatti, non è altro che
il valore di g quando y è zero, il che in concreto significa: quando le
forze frenanti connesse all'aumento di y non hanno ancora fatto la loro
comparsa.
Il punto y*, invece, è il punto in corrispondenza del quale la crescita
è zero, e quindi il processo si arresta. Il valore assunto da y* è la
"capacità portante", e indica il tetto oltre il quale y non può andare: se
lo facesse, il tasso di crescita diventerebbe negativo, riportando y al suo
valore di equilibrio y*.
Ma l'attraversamento dell'asse delle ascisse è solo un'eventualità. Se
il processo di crescita non ha un tetto, o almeno non mostra di averlo
nell'intervallo di osservazione, il diagramma g-y assume un aspetto
nettamente diverso (figura 21, a destra).
Figura 21 - Diagrammi g-y di processi limitati e illimitati

Ora la curva che collega y e g, pur rimanendo inclinata


negativamente, non passa più per l'asse delle ascisse, ma resta
stabilmente al di sopra di esso. La curva g-y pare "posarsi" su una retta
orizzontale che giace al di sopra dell'asse delle x, e così delimita la
regione al di sotto della quale il tasso di crescita g non scenderà mai.
Ogni traiettoria ha la sua curva di accrescimento caratteristica e,
simmetricamente, dalla forma della curva di accrescimento (diagramma
g-y) si può risalire alla traiettoria corrispondente (diagramma y-t). Un
percorso che non è solo intuitivo e visivo, ma riflette relazioni
matematiche precise tra le equazioni corrispondenti ai tre diagrammi.2
Ecco perché il diagramma g-y, o diagramma di accrescimento, è così
importante. Guardandolo, possiamo capire molto, se non tutto, del
processo che governa la crescita.
Nel mondo dei biologi e dei demografi il diagramma di
accrescimento è sempre inclinato negativamente, perché - come recita
la legge di Minot - l'invecchiamento "comincia alla nascita". E anche
noi, prima ancora di introdurre questo strumento, eravamo incappati
nello stesso genere di risultato. È successo una prima volta, quando
abbiamo stimato l'equazione della crescita scoprendo che, a parità di
altre condizioni, più alto è il reddito pro capite iniziale e più basso è il
tasso di crescita. Ed è successo una seconda volta quando abbiamo
presentato il modello di Solow, e anche in quel caso abbiamo trovato
che esso implica una relazione inversa fra reddito per addetto e tasso di
crescita.
Quel che cambia fra l'esempio che abbiamo utilizzato per illustrare il
diagramma di accrescimento (la curva di Verhulst), e i due casi reali che
abbiamo già incontrato (la nostra equazione della crescita "empirica" e
il modello teorico di Solow) è solo la forma esatta della relazione fra g
e y.
Mentre il diagramma g-y della curva di Verhulst è dato da una retta, i
diagrammi corrispondenti ai nostri due casi reali ci mostrano curve
sempre discendenti, ma non linearmente. Il diagramma g-y
dell'equazione della crescita rappresenta una curva logaritmica, nota
come curva di Gompertz, che attraversa anch'essa l'asse delle ascisse
(ma non quello delle ordinate). Il diagramma g-y del modello di Solow,
a sua volta, rappresenta una curva simile a quella di Gompertz3,
generata però da una funzione potenza e dotata di un parametro in più
(il parametro a che compare in esponente di y; vedi figura 22).
E ora veniamo al punto. Per quanto siano piuttosto flessibili, né la
forma da noi adottata né quella adottata da Solow sono veramente
generali. Se la relazione fra tasso di crescita e reddito è inversa, la curva
g-y di Gompertz deve per forza attraversare l'asse orizzontale in un
qualche punto y*, e quindi vincola il processo di crescita del reddito pro
capite ad avere un tetto, un punto oltre il quale y non può andare in
quanto al di là di esso la crescita si trasforma in decrescita (quando la
curva scende sotto l'asse orizzontale g cambia di segno).
Figura 22 - Diagrammi di accrescimento di Verhulst, Gompertz e
Solow
Non molto diversamente vanno le cose con il modello di Solow. Qui
è il significato economico dei parametri a e D a costringerci entro uno
schema simile al precedente. Basta riandare all'espressione esplicita del
modello di Solow per accorgersi che sia il parametro D sia l'esponente
di y, ossia (a - 1) / a, sono vincolati a essere negativi, il che obbliga
anche la curva g-y di Solow ad attraversare - prima o poi - l'asse delle y.
Conclusione: sia l'equazione di Gompertz, sia l'equazione di Solow
obbligano il processo di crescita ad avere un tetto. Dunque, possono
generare solo traiettorie concave (alla Solow) o sigmoidali (alla
Verhulst),4 ma in nessun modo sono in grado di generare gli altri due
tipi fondamentali di traiettorie - la Romer e la anti-Verhulst - che invece
un tetto non ce l'hanno. Detto in altre parole: se il processo che governa
la crescita del reddito per abitante fosse illimitato, le equazioni di
Gompertz e di Solow non riuscirebbero a catturarlo, perché sono tarate
per rappresentare processi asintotici, ossia dotati di un tetto.
Ma noi non vogliamo imporre una teoria ai dati, bensì usare i dati per
scegliere fra teorie rivali. Dunque abbiamo bisogno di una equazione
più generale, una equazione abbastanza flessibile e comprensiva da non
escludere nessuno dei quattro tipi di traiettorie possibili. Una equazione
il cui diagramma di accrescimento sia libero di attraversare oppure no
l'asse delle ascisse, e la cui traiettoria y-t possa assumere ciascuna delle
quattro forme base (vedi figura 19).
Siamo arrivati così al punto cruciale. Nel mondo dei demografi
un'equazione di tal genere esiste. Anzi ne esistono almeno due: la curva
di Schnute e la curva di Chapman-Richards generalizzata. La prima,
inventata nel 1981, è l'equazione prediletta degli studiosi "acquatici",
che si occupano di pesci, ricci, conchiglie, nonché degli effetti
dell'azione dell'uomo sulle specie marine. La seconda, frutto di una
vicenda intellettuale durata oltre un secolo, è la prediletta degli studiosi
"terrestri", in particolare di quanti si occupano di piante e foreste. Le
due equazioni sono sostanzialmente equivalenti quanto a capacità di
adattarsi a un insieme di dati, ma sono profondamente diverse per la
forma matematica che assumono. Noi adotteremo la seconda, quella
terrestre di Chapman-Richards, perché essa non solo è in grado di
assumere ciascuna delle quattro forme-base, ma consente di generare
direttamente, come casi speciali, tutti e tre i modelli con cui abbiamo
lavorato fin qui:
a) il modello di Gompertz, con cui abbiamo costruito la nostra
equazione della crescita;
b) il modello di Solow (senza progresso tecnico);
c) il modello AK.
Ciò significa che, adottandola, noi ci mettiamo nella posizione di non
scegliere a priori fra il pessimismo dei neoclassici (modelli alla Solow)
e l'ottimismo dei teorici della crescita endogena (modelli alla Romer), e
anzi ci apriamo a uno spettro virtualmente infinito di ipotesi sulla forma
dell'equazione della crescita.
Ed ecco l'equazione "miracolosa", espressa come equazione del
diagramma di accrescimento:
gy = B yH + D

Si tratta, a prima vista, di un'equazione molto simile a quella del


modello di Solow e abbastanza diversa dalle altre equazioni incontrate
fin qui. L'unica differenza evidente è che qui l'esponente di y è
denominato H, mentre in Solow era il rapporto (a - 1) / a, ossia una
grandezza necessariamente negativa se a è compreso fra 0 e 1.
Ma la somiglianza fra equazione di Solow ed equazione di Chapman-
Richards è ingannevole. Per capire come mai, dobbiamo raccontare
brevemente la storia di entrambe.
La storia comincia nel 1898, con il filosofo e biologo evoluzionista
Herbert Spencer.5 Anche lui si chiede: perché la crescita individuale è
limitata? E nella sua opera The Principles of Biology, appoggiandosi in
parte nientemeno che a Galileo, abbozza una risposta: i processi
anabolici (quelli che sostengono la crescita) si sviluppano a un ritmo
proporzionale alla superficie del corpo, mentre quelli catabolici (che
frenano la crescita) si sviluppano a un ritmo proporzionale alla massa, e
poiché la superficie è una funzione quadratica (esponente 2) della
taglia, mentre la massa è una funzione cubica (esponente 3), a prevalere
non potranno che essere i processi catabolici, in quanto governati
dall'esponente più alto.
Ragionamenti simili a quelli di Spencer riappaiono nel 1920, in un
articolo in lingua tedesca di August Pütter, cui si deve una delle prime
classificazioni delle curve di crescita. A questo articolo si appoggerà,
nel 1957, Ludwig von Bertalanffy, nello scritto in cui formalizza
l'intuizione originaria di Spencer e crea quella che, da allora in poi, sarà
chiamata l'equazione di von Bertalanffy:
dy / dt = B y2/3 + D y

dove dy / dt è la variazione di y nell'unità di tempo (la derivata di y


rispetto al tempo, in termini matematici), mentre B e D sono due
parametri, il primo positivo il secondo negativo.
L'equazione, fissando a 2 / 3 il valore dell'esponente di y, formalizza
l'intuizione fondamentale - di Spencer e di von Bertalanffy - secondo
cui i processi anabolici sono più lenti di quelli catabolici in ragione di 2
a 3, in quanto proporzionali rispettivamente alla superficie e alla massa
del corpo.
Apparentemente, l'equazione di von Bertalanffy ha ben poco a che
fare con le equazioni di Solow e di Chapman-Richards, ma non è così.
Per capire perché basta osservare che l'equazione di von Bertalanffy
descrive la variazione assoluta delle dimensioni dell'organismo
nell'unità di tempo (dy / dt), mentre l'equazione della crescita descrive
la loro variazione relativa (g), ossia il loro incremento percentuale,
sempre nell'unità di tempo. Per passare dall'una all'altra basta dunque
dividere la prima per y, ottenendo così:
g = B y - 1/3 + D

Ed eccoci tornati a qualcosa che somiglia molto, anzi moltissimo,


all'equazione di Solow. Anche nell'equazione di Solow B è positivo.
Anche nell'equazione di Solow D è negativo. E anche nell'equazione di
Solow l'esponente di y, dato da (a - 1) / a, è necessariamente negativo,
dal momento che si assume che a sia compreso fra 0 e 1. La vera
differenza è che l'equazione di von Bertalanffy ha due soli parametri (B
e D), perché il valore dell'esponente di y è fissato a priori, in base a
considerazioni biologiche (H = -1 / 3), mentre Solow lo lascia
relativamente libero (H < 0).
Più o meno negli stessi anni in cui von Bertalanffy mette a punto la
sua equazione, prendendosi la responsabilità di fissare a priori il valore
dell'esponente H, altri autori si muovono in una direzione diversa, più
empirista e pragmatica. Anziché cercare di determinare in modo
puntuale il valore numerico di H, si accontentano di delimitare il range
in cui sia H sia gli altri due parametri (B e D) possono variare.
Un primo esempio lo abbiamo già visto, è quello di Solow, che nel
suo articolo del 1956 usa una variante dell'equazione in cui B è
positivo, D è negativo, e H può assumere qualsiasi valore negativo. Il
risultato è una curva dotata di un tetto, con o senza punto di flesso a
seconda del valore del parametro a, che rappresenta la produttività
marginale del capitale. Se a è minore di 0,50 la traiettoria è concava
(curva di Solow), se a è maggiore di 0,50 è sigmoidale (curva pseudo-
Verhulst, con flesso, senza pavimento), ma in entrambi i casi il tratto
finale è di tipo Solow.
Un secondo esempio è quello di Richards, che in un celebre articolo
del 1959, non solo non fissa il valore del parametro H (come invece
aveva fatto von Bertalanffy), ma considera il caso speculare in cui tutti i
segni dei parametri sono ribaltati: B negativo, D positivo, H abilitato ad
assumere qualsiasi valore positivo. Il risultato è un tipo molto generale
di curva di Verhulst, che conserva la forma a S della curva originaria
(con un soffitto e un pavimento), ma le consente di assumere un'infinità
di profili diversi, spostando in avanti o all'indietro il punto di flesso,
ossia il momento in cui la curva passa da una fase di accelerazione a
una di decelerazione.
Con queste varianti ed estensioni, l'equazione originaria di von
Bertalanffy diventa molto più flessibile e capace di generare traiettorie
qualitativamente diverse, e infatti da allora comparirà quasi sempre con
nomi composti, che rimandano agli autori che più hanno contribuito
alla sua comprensione e diffusione: equazione di Bertalanffy-Richards,
di Chapman-Richards, di Bertalanffy-Chapman-Richards. E tuttavia,
arrivati a questo punto della nostra storia,6 siamo intorno al 1960, la
nostra equazione non è ancora completamente "libera". La curva di
crescita può avere due asintoti, uno superiore e uno inferiore, oppure
averne uno solo (quello superiore). Può avere o non avere punti di
flesso. In sostanza: può generare sia curve di tipo concavo (alla Solow),
sia uno spettro molto ampio di curve a S, o sigmoidali (alla Verhulst).
Ma c'è una cosa che non può fare: andarsene all'infinito, senza un
asintoto che faccia da tetto alla crescita. In poche parole, la curva non
può generare traiettorie di tipo Romer o di tipo anti-Verhulst. La curva è
costretta ad avere un tetto.
È strano, ma sono dovuti passare altri 40 anni perché qualcuno si
rendesse conto che la medesima equazione, se si accettano particolari
combinazioni dei parametri, è in grado di generare anche traiettorie di
crescita illimitata, senza alcun tetto o asintoto superiore. E non è forse
un caso che questa scoperta sia avvenuta in ambito forestale, dove è più
comune osservare processi di crescita accelerati e apparentemente
illimitati, come quello già ricordato di una foresta che si rigenera dopo
una moria di piante.
Nel 1997, in un articolo pubblicato sulla rivista "Forest Ecology and
Management", Yuancai, Marques e Macedo distinguono fra il caso
standard preso in considerazione nella maggior parte degli studi
forestali, ossia quello di una crescita sigmoidale (curva di Verhulst), con
un punto di flesso e almeno un asintoto superiore, e due casi speciali,
assai meno noti e studiati.
Il primo caso speciale è quello di una crescita con un asintoto
superiore ma senza punto di flesso, in breve quello di una curva di
crescita concava (alla Solow, secondo la nostra terminologia). Si tratta
di un caso poco considerato in scienza forestale ma non privo di
interesse, visto che descrive bene sia l'accrescimento di alcune specie
vegetali (in particolare gli eucalyptus),7 sia la relazione fra diametro e
altezza di alcune piante.8 In realtà il caso è nuovo solo per gli studiosi
di scienza forestale, visto che la curva concava è uno dei due tipi di
curve che possono essere generati dall'equazione del modello di Solow
(l'altra, come sappiamo, è di tipo Verhulst).9
Il secondo caso speciale, invece, è del tutto inedito, e si ha quando B
e D sono entrambi positivi, e H è minore di -1. In questo caso, la forma
della traiettoria diventa quella di una curva anti-Verhulst, con un punto
di flesso ma senza alcun tetto: il processo di crescita è illimitato, e la
curva del diagramma g-y giace sempre al di sopra dell'asse delle
ascisse.
Con il contributo del 1997 di Yuancai e coautori la strada era ormai
aperta. Dopo il loro articolo, la consapevolezza della potenza e
flessibilità di questo strumento analitico si farà sempre più evidente,
specie in scienza forestale, dove si stima che il 90% degli studi utilizzi
l'equazione di Chapman-Richards.10 A questo esito contribuiscono, tra
gli altri, due studiosi cinesi, Lei e Zhang, che in un articolo del 2004 di
taglio essenzialmente matematico dimostrano che anche molte altre ben
note equazioni di crescita, ivi compresa la curva di Gompertz, sono casi
speciali dell'equazione di Chapman-Richards.
L'unico caso trascurato da queste analisi, perché di scarso interesse
per la scienza forestale,11 è quello in cui B e D sono positivi, H è
negativo, ma anziché essere minore di -1 è compreso fra 0 e -1.
Curiosamente, nelle discussioni sull'equazione di Chapman-Richards
questa combinazione di parametri viene sempre ignorata, e nell'unico
caso a me noto in cui se ne fa una menzione esplicita (in un articolo di
altri due studiosi cinesi di scienza forestale, uscito nel 2003 sul "Journal
of Forestry Research") è solo per dire che il caso esiste, è uno degli otto
possibili, ma non interessa la scienza forestale.12
Qui ci aspetta però una sorpresa, anzi una piacevole sorpresa: con
questi valori dei parametri, l'equazione di Chapman-Richards ci
restituisce l'unico tipo di curva che ci mancava, ossia la curva di Romer.
Una curva che, come sappiamo, è caratterizzata dal fatto di non avere
né un tetto, né un punto di flesso, e quindi è perfetta per rappresentare
un processo di crescita illimitata, così caro a una parte degli economisti,
ma così estraneo alla mentalità degli studiosi di dinamica delle
popolazioni, sempre molto legati all'archetipo della curva di Verhulst.
Con Richards, già avevano ammesso la possibilità di una crescita con
tetto ma senza flesso (curva di Solow). Con Yuancai, Marques, Macedo
avevano ammesso la possibilità opposta, quella di una crescita con
flesso ma senza tetto (curva anti-Verhulst). Ma immaginare una curva
priva di entrambi, una curva alla Romer, forse era troppo.
Un processo alla Romer, senza flesso e senza tetto, può presentarsi in
due varianti principali. La prima è quella di una crescita esponenziale
pura (a un tasso costante), come nel modello malthusiano di
accrescimento della popolazione, o nel modello AK di crescita
illimitata del reddito pro capite. La seconda è quella di una crescita
ipoesponenziale, in cui il tasso di crescita declina nel tempo ma resta
sempre positivo. Il confine fra i due casi è dato dal valore del parametro
H: se H è 0, la crescita è esponenziale; se H è compreso fra 0 e -1, la
crescita è ipoesponenziale. In entrambi i casi il sistema non si ferma
mai.
Siamo così arrivati, finalmente, al punto che ci sta a cuore:
l'equazione di Chapman-Richards, se non si pongono particolari
restrizioni sui suoi parametri,13 è in grado di rappresentare tutti i più
importanti processi di crescita descritti in letteratura, compresi quelli
che non hanno un tetto. Più esattamente, è in grado di riprodurre curve
limitate, con e senza flesso, e curve illimitate, anch'esse con e senza
flesso: in breve, tutti e 4 i tipi fondamentali da noi considerati (vedi
figura 19).
Ma non basta. Assegnando valori opportuni ai suoi parametri (e in
particolare all'esponente H), dall'equazione di Chapman-Richards,
come conigli dal cilindro di un prestigiatore, sbucano fuori alcuni fra i
modelli più usati in biologia, in demografia e in economia. Fra essi:
l'equazione di Verhulst, più o meno generalizzata; il modello di von
Bertalanffy; il modello "monomolecolare", detto anche di Mitscherlich;
il modello di Gompertz; il modello di Solow; il modello AK e le sue
varianti; i modelli di crescita illimitata cari agli studiosi di scienza
forestale (vedi box).
Così il quadro è completo. L'equazione di Chapman-Richards non
parteggia né per gli ottimisti, né per i pessimisti. Come un camaleonte,
è in grado di adattarsi agli uni e agli altri, può rivelare curve che
muoiono, come quelle del modello di Solow, o curve eterne, come
quelle dei teorici della crescita endogena.
L'equazione di Chapman-Richards è un arbitro imparziale. Non ci
resta, dunque, che farla reagire ai dati empirici, e prendere nota di
quello che ha da dirci.
Per equazione di Chapman-Richards, o di Bertalanffy-Richards, o di
Bertalanffy-Chapman-Richards, si intende la seguente equazione
differenziale:
dy / dt = B yH + 1 + D y

sviluppata soprattutto in biologia, in scienza forestale e in scienza


della pesca.
L'equazione presenta la seguente soluzione:
y (t) = (C · e - D H - B / D) - 1/H

con C costante di integrazione, che dipende dalle condizioni iniziali


Se non si pongono limiti ai valori dei suoi parametri (H, D, B),
l'equazione di Chapman-Richards può occupare ben 12 regioni dello
spazio dei parametri. Le regioni si distinguono fra loro in base al segno
di D e di B e, nel caso di H (il parametro di forma, o parametro
"allometrico"), in base al fatto che H sia positivo, compreso fra 0 e -1, o
inferiore a -1.
Il numero di regioni si riduce da 12 a sole 5 se imponiamo due
condizioni:
a) che il tasso di crescita iniziale sia positivo;
b) che all'aumentare di y il tasso di crescita sia decrescente (legge di
Minot) o tutt'al più costante.
Ecco le regioni, con le loro principali caratteristiche qualitative:
Regione Parametri Tipo di curva Flesso Tetto Pavimento H D B 1 H
> 0 + + + - Verhulst (generalizzata) sì sì sì 3 - + 4 - - -1 < H < 0 + +
Romer no no no 6 + - - + Verhulst (pseudo) sì sì no 8 - - H < -1 + +
anti-Verhulst sì no no 10 + - - + Solow no sì no 12 - - Le cinque regioni
che rispettano le condizioni (a) e (b) sono le regioni 2, 5, 7, 9, 11,
evidenziate in neretto.
A esse corrispondono le curve di Verhulst (logistica generalizzata, 2
asintoti), Romer, Verhulst (1 solo asintoto), anti-Verhulst, Solow. Tutte -
eccetto la Romer - sono ampiamente utilizzate in scienza forestale.
L'equazione di Solow (con funzione di produzione Cobb-Douglas e
senza progresso tecnico) corrisponde ai casi 7 e 11.
Alcune curve di crescita classiche si possono ottenere come casi
speciali, semplicemente fissando in modo opportuno il parametro H e
conferendo i segni corretti ai parametri D e B. Fra esse le curve di
Mitscherlich (H = -1), von Bertalanffy (H = -1 / 3), Gompertz (H ? 0),
Malthus (H = 0), logistica (H = 1).
XII

Ancora Solow

Ma quali dati empirici?


Nella prima parte di questo studio la nostra domanda cruciale era:
quali sono, e quanto contano, le forze che influenzano la crescita?
Proprio perché la domanda di fondo era solo questa, ci siamo
accontentati di lavorare con dati cosiddetti "cross-section", che si
limitano a confrontare fra loro i diversi paesi. La nostra variabile da
spiegare era il tasso di crescita medio nell'ultimo periodo di crescita
(1995-2007), le nostre variabili esplicative erano le caratteristiche
medie dei vari paesi in quel periodo: qualità del capitale umano,
pressione fiscale, istituzioni economiche, investimenti esteri, più
svariate decine di variabili di controllo con cui abbiamo messo alla
prova la robustezza dell'equazione della crescita.
Equazione che, per semplicità, è stata costruita adottando una
specificazione Gompertz, di gran lunga la più usata negli studi di
questo tipo:
gn = B ln(yn) + D + [?1 Hn + ?2 Fn + ?3 In + ?4 Tn]

dove gn è il tasso di crescita medio del paese n-esimo nel periodo


1995-2007, ln(yn) è il logaritmo del reddito per abitante all'inizio del
periodo (nel 1995), D è una costante, e l'espressione fra parentesi
quadre rappresenta le altre forze e controforze fondamentali che
agiscono sulla crescita.
Ora però dobbiamo fare tre nuove mosse. La prima è di considerare
tutta la parentesi quadra come un'unica variabile (zn), di media zero in
quanto le 4 forze H, F, I e T sono standardizzate (vedi cap. VI).
L'equazione, così alleggerita, diventa:
gn = B ln(yn) + D + zn

dove zn rappresenta i fondamentali di un paese. Se zn è vicino a zero


vuol dire che quel paese è normale, ossia assomiglia alla media dei
paesi OCSE. Se zn è maggiore di zero vuol dire che quel paese ha
buoni fondamentali economici, se zn è minore di zero vuol dire che
quel paese ha cattivi fondamentali economici. Questa riscrittura ci
permette di concentrare l'attenzione sul cuore dell'equazione, ossia su
quel che succede al paese medio, normale, o "rappresentativo":
gn = B ln(yn) + D

Ma quella così ottenuta altro non è che l'equazione del diagramma g-


y, con la sola differenza che qui l'unità di tempo non è l'anno ma è un
periodo di 12 anni. Volendo, potremmo anche tracciare il diagramma g-
y associato all'equazione della crescita:
Figura 23 - Diagramma di accrescimento (curva g-y): come varia il
tasso di crescita all'aumentare del reddito

E osservando il diagramma potremmo scoprire che la curva, a un


certo punto, quando il reddito pro capite raggiunge 68.900 dollari,1
taglia l'asse delle ascisse, con conseguente arresto della crescita.
Ma sarebbe un giochino troppo facile, e per niente leale. Come
abbiamo visto nel capitolo precedente, la curva di Gompertz contiene
un termine logaritmico che "spinge" verso il basso - il termine B ln(yn)
- e, come si sa, la funzione logaritmo non ha asintoto inferiore
(pavimento): man mano che il reddito cresce, e noi ci spostiamo verso
destra sul diagramma g-y, il tasso di crescita è costretto a scendere
(perché B è negativo), e questo senza alcun limite, senza alcun
pavimento che fermi la sua corsa verso l'abisso della decrescita. Ecco
perché, prima o poi, g è costretto ad andare sott'acqua, a scendere sotto
il livello del mare dato dall'asse delle ascisse. Ma è l'equazione di
Gompertz che lo costringe, perché l'equazione è fatta in modo tale che,
se il segno del parametro B è negativo (e in tutta la letteratura sulla
crescita lo è), non c'è modo di evitare il punto di arresto y*.
Ed eccoci alla nostra seconda mossa. Noi non vogliamo decidere a
priori se il sistema delle economie avanzate è destinato a fermarsi
oppure no. Vogliamo lasciargli la possibilità di dar torto ai pessimisti,
restituendoci un diagramma g-y che non scende mai sotto la linea del
mare. Quindi, nonostante l'ottima prova che ha dato di sé, non possiamo
vincolarci all'equazione di Gompertz. Dobbiamo sostituirla con
un'equazione più flessibile, o meglio più neutrale. Un'equazione che
possa anche comportarsi come quella di Gomperzt, ma che non sia
obbligata a farlo. Un'equazione che sia capace di scendere sotto la linea
del mare, ma anche di non tuffarsi mai nelle sue acque.
È chiaro, in base alla storia che abbiamo raccontato nel precedente
capitolo, che l'equazione di Chapman-Richards è proprio ciò di cui
abbiamo bisogno:

Si noti che l'equazione di Chapman-Richards non esclude quella di


Gompertz, ma la generalizza. Se le cose stessero come prevede
l'equazione di Gompertz, la Chapman-Richards si trasformerebbe in
equazione di Gompertz semplicemente facendo tendere a zero il
parametro H. Se avesse ragione Solow, H assumerebbe un valore
negativo, con B positivo e D negativo. Se avessero ragione i difensori
del modello AK, l'equazione si trasformerebbe in quella di una retta
orizzontale (gn = costante), facendo andare esattamente a zero2 il
parametro H. Se, più in generale, avessero ragione quanti (come
Romer) pensano che la crescita possa proseguire illimitatamente, il
parametro H assumerebbe un valore negativo ma i parametri D e B
avrebbero segno opposto (B < 0, D > 0). In breve: poiché l'equazione di
Chapman-Richards è in grado di assumere ciascuna delle quattro
forme3 fondamentali - Verhulst, Solow, Romer, anti-Verhulst -
possiamo stabilire, stimando i parametri dell'equazione, quale delle
quattro forme è maggiormente compatibile con la storia recente delle
economie avanzate.
Non è tutto, però. Se vogliamo rispondere a una domanda così
fondamentale - la crescita ha un tetto oppure no? - dobbiamo anche
sfruttare in modo più completo l'informazione disponibile. Questa è la
nostra terza mossa: anziché usare solo i dati medi del periodo 1995-
2007, lavorando su 32 osservazioni (i paesi OCSE), useremo anche i
dati dei singoli anni, portando il numero totale delle nostre osservazioni
da 32 a 384 (32 paesi × 12 anni = 384 osservazioni).4 La nostra base
empirica non sarà più una matrice in cross-section con 32 paesi, ma
sarà una matrice mista, o "pooled", che sfrutta contemporaneamente la
variabilità spaziale e temporale dei dati. Conseguentemente il nucleo
della nostra equazione diventa:
dove il doppio pedice nt (paese n-esimo, anno t-esimo) ha sostituto il
pedice singolo (paese n-esimo) della vecchia equazione in cross-
section, e i due parametri B e D sono stati rimpiazzati dai termini Bnt e
Dnt.
L'equazione è identica alla Chapman-Richards, con la sola variante
che al posto dei termini B e D (che erano fissi), ora compaiono due
termini, Bnt e Dnt , che possono5 variare nello spazio e nel tempo e in
questo modo consentono ai vari paesi di avere un'equazione di moto
specifica, distinta da quella del paese rappresentativo dell'OCSE nel suo
insieme.
Il termine cruciale che governa Bnt e Dnt continua a essere, come
nelle analisi precedenti, la variabile composta znt , che assorbe tutte le
variabili che, oltre al reddito, possono influire sul tasso di crescita di un
paese. Alcune variano sia nello spazio sia nel tempo (imposta societaria
e investimenti diretti esteri), altre - quelle più lente - variano solo nello
spazio (capitale umano e istituzioni economiche), altre infine variano
solo nel tempo.6
Ora siamo pronti. Possiamo stimare i parametri dell'equazione di
Chapman-Richards, e scoprire chi ha ragione. Stimare i parametri H, B,
e D, infatti, significa individuare la forma dell'equazione della crescita,
e quindi porci in condizione di scegliere fra le quattro forme
fondamentali: Verhulst, Solow, Romer, anti-Verhulst (vedi box a pp.
124-125). Una scelta, è importante sottolinearlo, che non vogliamo
effettuare a priori, in base alle nostre convinzioni teoriche, ma che
preferiamo affidare ai dati, ossia alla storia dei 32 paesi OCSE nel
periodo 1995-2007.
Ebbene, se si conduce questa operazione, si trova che la
combinazione migliore, quella in cui la curva si adatta meglio ai dati, è
quella in cui B è positivo, mentre D e H sono entrambi negativi:

Ma questa combinazione di segni per B, D, H è precisamente quella


prevista dal modello di Solow. Ciò significa che i parametri del nucleo
dell'equazione stimata sono compatibili con il modello di Solow senza
progresso tecnico, di cui - a quanto pare - condividono il pessimismo
implicito: il sistema si muove verso il suo stato stazionario, raggiunto il
quale il reddito pro capite cesserà di crescere.
Ma c'è di più. Dal momento che i parametri dell'equazione di
Chapman-Richards hanno una relazione matematica precisa con i
parametri del modello di Solow (vedi "anatra" 4), possiamo spingerci
molto oltre la mera stima di un'equazione che si adatta ai dati, e provare
a tradurre i nostri 3 parametri H, B, D nei parametri di Solow.
Cominciamo dal parametro chiave dell'equazione di Chapman-
Richards, quello che compare in esponente: un valore di H pari a -0,235
corrisponde a un valore di a pari a 0,81, che rientra perfettamente nel
campo dei valori previsti dal modello di Solow7 (ricordiamo che a è la
produttività marginale del capitale - l'esponente di K nella funzione
Cobb-Douglas - e quindi deve essere compreso fra 0 e 1). Il fatto che il
valore di a sia piuttosto alto (0,81) ci dice, implicitamente, che il valore
di 1 - a, la produttività marginale del lavoro, è piuttosto basso (0,19).
Un risultato compatibile con l'intuizione secondo cui, al giorno d'oggi,
quel che conta non è quante braccia lavorano ma con quanto capitale
sono attrezzate.8
Ma anche il parametro D può, entro certi limiti, essere tradotto nel
modello di Solow. Da esso e dal parametro H, infatti, è possibile
ricavare il termine (n + d) del modello di Solow, dove n è il tasso di
crescita demografica e d è il coefficiente di deprezzamento del capitale.
Un semplice calcolo restituisce per tale somma un valore pari a 0,12,
che si interpreta così: la somma del tasso di crescita demografica (n) e
del tasso di deprezzamento del capitale (d) è pari al 12%. Dal momento
che, nel periodo considerato, il tasso di crescita della popolazione
OCSE è un po' inferiore all'1%, se ne ricava che quasi tutto quel 12% è
attribuibile al deprezzamento del capitale. Un risultato incompatibile
con le ipotesi più volte avanzate nella letteratura, secondo cui d può
ragionevolmente valere il 5%, il 6% o il 7%, ma che potrebbe anche
essere letto come un indizio dell'inattualità di tali ipotesi: se si pensa a
quanto rapidamente invecchiano computer, software e macchinari
moderni, c'è da chiedersi se il tasso di deprezzamento odierno del
capitale sia più vicino al classico valore del 5% (un capitale che dura 20
anni) o al valore dell'11% trovato per via empirica (un capitale che dura
10 anni scarsi).
Comunque si vogliano leggere i risultati trovati, un punto resta
fermo: l'insieme dei paesi OCSE nell'ultimo periodo di crescita (1995-
2007) si è mosso come se obbedisse al modello di Solow, e come se tale
modello presentasse tre peculiarità: assenza di progresso tecnico, bassa
produttività marginale del lavoro, elevato tasso di deprezzamento del
capitale.
Ancora Solow, dunque, dopo più di mezzo secolo dall'articolo del
1956.
E ancora von Bertalanffy, tutto sommato. Anche lui, implicitamente,
era pessimista quando prevedeva la prevalenza dei processi catabolici
(di invecchiamento) su quelli anabolici (di espansione). È per questo
che aveva vincolato H a valere -1 / 3. E colpisce che il valore da noi
stimato per H, pari a circa -1 / 4, non sia poi così lontano dal valore
ipotizzato "a tavolino" dal grande biologo austriaco, quasi a indicarci
che la crescita delle economie segue un percorso, almeno all'apparenza
e almeno superficialmente, non troppo dissimile da quello
dell'invecchiamento di un organismo.
Figura 24 - Traiettoria del reddito pro capite (diagramma y-t)

Dunque, i parametri dell'equazione di Chapman-Richards la piazzano


molto vicina all'antica equazione di von Bertalanffy, nel cuore della
regione in cui si muoveva il modello di Solow. La "regione di Solow",
tuttavia, è a sua volta suddivisa in due sottoregioni,9 che ospitano due
distinti tipi di curve, entrambe dotate di un tetto, la prima senza flesso
(curva di tipo Solow, H < -1), l'altra con flesso (curva di tipo Verhulst,
H compreso fra -1 e 0).
È a quest'ultima che corrisponde l'equazione stimata. Ciò significa
che, secondo la variante dell'equazione di Chapman-Richards che
meglio si adatta ai dati, il meccanismo che governa l'evoluzione delle
società avanzate fra il 1995 e il 2007 è quello di una crescita mista,
prima accelerata, poi decelerata, infine sostanzialmente "piatta".
Possiamo farcene una prima idea mediante il diagramma y-t del
processo di crescita, che possiamo simulare in avanti (dopo il 2007), ma
anche all'indietro, in modo da farci un'idea più generale del tipo di
traiettoria fin qui percorsa dalle economie avanzate (figura 24).
Si vede bene che, nella storia del reddito pro capite, c'è un momento
in cui la curva smette di impennarsi verso l'alto e comincia a ripiegare:
è questo che si intende per punto di flesso. Quale sia esattamente tale
punto si può determinare matematicamente, calcolando il punto di
massimo della derivata dell'equazione che descrive la traiettoria della
crescita. Ma si può anche vedere direttamente sul diagramma d-t (figura
25), che - lo ricordiamo - riporta gli incrementi annui assoluti del
reddito pro capite.
Figura 25 - Traiettoria degli incrementi di reddito pro capite
(diagramma d-t)

Come si può notare osservando la gobba della curva, il picco degli


incrementi è già passato, e coincide con l'anno 1998. In concreto questo
significa che, prima di quella data, in un tipico paese OCSE era
ragionevole attendersi non solo che il reddito aumentasse, ma anche che
a un aumento di una certa entità seguisse - l'anno successivo - un
aumento di entità maggiore. Dopo il 1998 non più: nel decennio 1998-
2007 il reddito pro capite, pur continuando ad aumentare, ha
progressivamente perso velocità, cosicché aspettarsi incrementi
crescenti è divenuto irragionevole.
Questo risultato è importante perché ci mostra un fatto che spesso
dimentichiamo. E cioè che, nel 2007-2008, quando le economie
avanzate sono entrate nel tunnel della depressione in cui tuttora ci
troviamo, un'importante inversione di tendenza era già avvenuta dieci
anni prima. Avevamo l'impressione di correre, ma forse non ci eravamo
accorti che da tempo avevamo già cominciato a rallentare la nostra
corsa.
Resta da capire fin dove possiamo arrivare. O meglio, fin dove
potevamo arrivare, prima che la crisi cambiasse tutto. Il nostro esercizio
di simulazione, vogliamo sottolinearlo, è condotto volutamente a partire
dalle tendenze pre-crisi. Noi non ci chiediamo come andranno le cose
in futuro - questo nessuno può saperlo, se non altro perché dipenderà
anche dalla politica - ma ci facciamo domande più elementari.
Era giustificata l'euforia pre-crisi? Quali erano le tendenze delle
società avanzate negli anni a cavallo del millennio? E soprattutto: che
cosa era ragionevole aspettarsi dopo il 2007 se, per miracolo, i
meccanismi della crescita in atto nel periodo 1995-2007 fossero rimasti
gli stessi anche negli anni a venire?
La risposta a queste domande è interamente contenuta nel terzo
attrezzo dei demografi, il diagramma di accrescimento g-y, che descrive
la cosiddetta "legge di Minot" (figura 26).
Figura 26 - Benessere e declino del tasso di crescita (diagramma g-y)

Il diagramma mostra come varia il tasso di crescita del reddito


all'aumentare del reddito stesso. Il fatto che il diagramma sia inclinato
negativamente indica che, man mano che il benessere di una società
aumenta, il tasso di crescita del benessere rallenta anch'esso. L'idea di
una crescita a un tasso costante, come per esempio quella ipotizzata dal
modello AK, pare non avere alcun riscontro nei dati: se la crescita
avvenisse a un tasso costante il diagramma g-y sarebbe piatto.
Ma l'informazione più preziosa che ci dà il diagramma g-y è un'altra.
Osserviamo le due rette orizzontali che intersecano la curva. La prima,
situata in corrispondenza di un tasso di crescita dell'1%, ci permette di
individuare il livello di reddito superato il quale un paese medio (ossia:
con i fondamentali né buoni né cattivi) entra in stagnazione, nel senso
che cresce solo di qualche decimale all'anno. Tale livello è situato (anzi,
era situato, prima della crisi) a 48.000 dollari, un livello che nel 2007
solo la Norvegia aveva, sia pure di poco, superato. La seconda linea
orizzontale, situata "a livello del mare" (in corrispondenza di un tasso
di crescita nullo), ci permette di calcolare il reddito di arresto, ovvero il
tetto che limita la crescita di un'economia: quel soffitto che si
indovinava nella prima curva (diagramma y-t) e che ora siamo in grado
di determinare con precisione. Ebbene, secondo la nostra simulazione il
tetto della crescita è a 73.800 dollari, non molto distante dal valore
(68.900) ottenuto con la nostra vecchia equazione, quella che lavorava
solo sulle differenze fra paesi.
Dunque, ricapitolando. Il tipico paese OCSE, con reddito pro capite
medio e fondamentali né buoni né cattivi, ha raggiunto la sua velocità
massima di crescita, il suo "apogeo", nell'anno 1998, quando il suo
reddito pro capite era di circa 24.000 dollari (più o meno il reddito della
Grecia oggi) e cresceva al ritmo di 700 dollari all'anno. All'inizio della
crisi, fra il 2007 e il 2008, il suo reddito era salito a 30.000 dollari, e
cresceva a un ritmo sempre più lento (poco più del 2% all'anno). Se le
cose fossero continuate come nel periodo "felice" 1995-2007, una volta
oltrepassata la soglia dei 48.000 dollari - un evento previsto per il 2038
-, sarebbe entrato in un regime di stagnazione, con una crescita inferiore
all'1%. Il reddito di arresto, ossia il livello oltre il quale la crescita si
sarebbe interrotta del tutto, era collocato in prossimità dei 70.000
dollari pro capite.
Ma l'OCSE non è un paese, e al suo interno le differenze fra paesi
sono notevoli, talora abissali. Non solo e non tanto in termini di reddito
e ricchezza, ma in termini di fondamentali: capitale umano, pressione
fiscale, istituzioni economiche, capacità di attirare capitali dall'estero. E
i fondamentali, lo abbiamo visto nella prima parte di questo studio, una
loro importanza ce l'hanno. La crescita dipende (negativamente) dal
benessere raggiunto, ma dipende in modo cruciale anche dalle altre
forze e controforze che agiscono su di essa.
È dunque ai singoli paesi che ora dobbiamo rivolgere la nostra
attenzione.
XIII

Il destino delle società avanzate

Nell'equazione della crescita, lo abbiamo visto, la forza fondamentale


è il reddito pro capite, ovvero il benessere già raggiunto. Da sola,
questa forza spiega una quota notevole (circa 2 / 3) delle differenze nei
tassi di crescita: a parità di altre condizioni un paese ricco cresce molto
più lentamente di un paese relativamente povero (stiamo comunque
parlando di economie avanzate). Il benessere, infatti, si comporta come
una specie di forza d'inerzia, una zavorra che diventa via via più
pesante. La crescita è come l'ascesa di un alpinista: man mano che si
avvicina alla vetta, l'aria si fa sempre più rarefatta, il respiro diventa
sempre più difficile, e lo zaino sembra pesare sempre di più.
Fortunatamente, però, il reddito pro capite non è l'unica forza che
governa la crescita. E infatti nell'equazione della crescita, come
abbiamo visto, compaiono anche i fondamentali dell'economia (z). Più
precisamente, ci sono ragioni per pensare che i fondamentali possano
modificare il coefficiente B, che rappresenta la produttività totale dei
fattori (TFP) e regola l'impatto del reddito pro capite sul tasso di
crescita:
dove la funzione ? sta a indicare che il valore del coefficiente B non è
fisso ma dipende dalla qualità dei fondamentali.1
Questo implica che un paese ricco può contrastare il rallentamento
della crescita dotandosi di buoni fondamentali. E naturalmente anche il
contrario: un paese meno ricco degli altri può vanificare il suo
vantaggio rassegnandosi a cattivi fondamentali. Concretamente, vuol
dire che sia il reddito di arresto sia il reddito di stagnazione di un
singolo paese possono essere notevolmente diversi da quelli del paese
rappresentativo dell'insieme dei paesi OCSE. Se, per ogni paese,
rifacessimo l'esercizio di simulazione che abbiamo condotto per il
paese medio OCSE, otterremmo altrettante traiettorie del reddito pro
capite, con le loro rispettive curve caratteristiche (diagrammi della
velocità e del tasso di accrescimento).
Ma i paesi da noi studiati sono ben 32. Un'analisi paese per paese
sarebbe lunghissima, e ci sommergerebbe di grafici e tabelle: meglio
ragionare per tipi di paesi. Lo abbiamo già fatto nel capitolo V,
distinguendo i paesi in base al benessere e alla qualità dei fondamentali
nel periodo 1995-2007. Qui dobbiamo solo introdurre una piccola
variante: poiché quel che vogliamo simulare è l'evoluzione di un paese
a partire dall'ultimo anno pre-crisi (il 2007), i paesi saranno classificati
in base alla loro situazione al termine del periodo 1995-2007, anziché
in base alla loro situazione nell'intero periodo.2 Abbiamo dunque: paesi
poveri con buoni fondamentali (tipo-Estonia), paesi poveri con cattivi
fondamentali (tipo-Cile), paesi ricchi con buoni fondamentali (tipo-
Svezia), paesi ricchi con cattivi fondamentali (tipo-Giappone).
Una volta classificati i paesi in quattro tipi, possiamo - per ogni tipo -
calcolare la media delle due variabili chiave (reddito e qualità dei
fondamentali) in ciascun gruppo e simulare l'evoluzione del relativo
tipo a partire dalla situazione nel 2007. Prima di presentare le
simulazioni, tuttavia, occorre dire qualcosa sulla situazione dei vari
gruppi di paesi.
I due gruppi di paesi con buoni fondamentali (tipi definiti Estonia e
Svezia) hanno fondamentali molto simili, anche se leggermente
migliori nel gruppo dei paesi poveri. I due gruppi con cattivi
fondamentali (tipi Giappone e Cile), invece, sono estremamente
differenziati sia fra di loro sia al loro interno. Tendenzialmente, i
fondamentali sono particolarmente cattivi nei paesi poveri (specie in
Messico e Turchia), e un po' meno cattivi nei paesi ricchi, con
l'importante eccezione dell'Italia, il paese ricco con i peggiori
fondamentali.
Tabella 4 - Quatto tipi di paesi nel 2007

Reddito Fondamentali Buoni Cattivi Basso TIPO-ESTONIA


Ungheria
Estonia
Corea del Sud
Slovenia
Slovacchia
TIPO-CILE
Polonia
Grecia
Portogallo
Repubblica Ceca
Israele
Cile
Turchia
Messico
Alto TIPO-SVEZIA
Irlanda
Australia
Finlandia
Norvegia
Austria
Regno Unito
Svezia
Svizzera
Nuova Zelanda
Belgio
TIPO-GIAPPONE
Canada
Olanda
Germania
Francia
Stati Uniti
Danimarca
Giappone
Spagna
Italia
La tabella riporta, per ogni tipo, le liste di paesi che ne fanno parte,
ordinati da quello con i migliori fondamentali a quello con i peggiori
(sempre indicato in corsivo, all'interno di ogni gruppo). Come si vede i
quattro tipi non coincidono perfettamente con quelli che avevamo
individuato per il periodo 1995-2007 considerato nel suo insieme:
alcuni paesi hanno cambiato gruppo, o perché i loro fondamentali sono
cambiati o perché il loro reddito è cresciuto a un ritmo eccezionalmente
veloce o eccezionalmente lento.
Ed ecco, per cominciare, le traiettorie che l'equazione della crescita
traccia per ogni tipo di paese (diagramma y-t).
Figura 27 - Quattro tipi di paesi: traiettorie del reddito

La prima cosa che salta all'occhio è che il "destino" dei vari tipi è
decisamente diverso. In alto i paesi con buoni fondamentali (tipi
Estonia e Svezia) che - nel lunghissimo periodo - paiono puntare verso
un reddito pro capite che sfiora i 100.000 dollari. Più in basso i paesi
ricchi con cattivi fondamentali (tipo-Giappone), che tendono a
convergere verso redditi decisamente più bassi, dell'ordine di 70.000
dollari. E infine, più in basso ancora, i paesi poveri con pessimi
fondamentali (tipo-Cile), che mediamente possono aspirare a redditi
dell'ordine di 50.000 dollari.
C'è un altro aspetto del diagramma y-t che vale la pena sottolineare:
le traiettorie si intersecano in più punti. Questo vuol dire che un paese
povero non solo può raggiungere un paese ricco ma può superarlo, se i
suoi fondamentali sono migliori: è quanto succede, sia pure di poco,
nella corsa del tipo-Svezia e del tipo-Estonia, con quest'ultimo che - pur
partendo da molto più in basso - tende a un reddito finale leggermente
superiore a quello del primo. Ed è quel che, molto più clamorosamente,
pare verificarsi nella rincorsa del tipo-Estonia verso il tipo-Giappone:
se le tendenze del periodo 1995-2007 fossero rimaste invariate dopo il
2007, e tali permanessero nei prossimi decenni, il tipo-Estonia
raggiungerebbe e supererebbe il tipo-Giappone prima del 2050.
Queste intersezioni fra traiettorie sono una logica conseguenza della
struttura dei modelli alla Solow: il sistema tende indefinitamente verso
il suo reddito di arresto, ma quale sia questo reddito di arresto non
dipende in alcun modo dal reddito iniziale ma soltanto dalla qualità dei
fondamentali. Con il linguaggio degli studi sulla crescita: non c'è s-
convergenza, perché i vari paesi tendono verso stati finali diversi; c'è
però ß-convergenza, perché due paesi con i medesimi fondamentali
convergono verso il medesimo livello finale di benessere.
Usare l'equazione della crescita per guardare al futuro lontano di un
paese (o di un gruppo di paesi) non è però l'unico modo per capirne la
dinamica. Oltre al futuro remoto, ci sono anche il passato e il futuro
prossimi. Più esattamente, ogni processo di sviluppo che segue
l'equazione della crescita può essere caratterizzato mediante il suo
apogeo e il suo reddito di stagnazione. L'apogeo è il punto della sua
traiettoria in cui la crescita raggiunge la sua velocità massima, per poi
iniziare a decelerare. Il reddito di stagnazione è il livello di reddito pro
capite superato il quale la crescita scende sotto l'1% annuo. Si potrebbe
dire che apogeo e reddito di stagnazione permettono di definire sia il
momento in cui un paese raggiunge la maturità (apogeo), sia il punto in
cui inizia la sua vecchiaia (ingresso in stagnazione).
Lo strumento chiave per individuare l'apogeo è il diagramma d-t
(figura 28), che mostra come varia nel tempo la velocità di crescita.
Figura 28 - Quattro tipi di paesi: evoluzione degli incrementi di
reddito

L'apogeo più antico (1990) è quello del tipo-Giappone, che ha


iniziato a decelerare circa 25 anni fa. Si tratta del tipo di formazione
sociale meno adatto alla crescita, perché combina cattivi fondamentali e
un alto reddito pro capite, ovvero tutte le possibili forze frenanti.
All'altro estremo troviamo il tipo-Estonia, che invece pare possedere il
mix ideale per crescere, ossia buoni fondamentali e un reddito
relativamente basso: il suo apogeo era previsto nel 2017. A metà strada
fra questi due tipi estremi stanno il tipo-Svezia (apogeo 1994) e il tipo-
Cile (apogeo 2006), in cui forze e controforze tendono a bilanciarsi: nel
tipo-Cile cattivi fondamentali sono compensati da un basso reddito, nel
tipo-Svezia un alto reddito è compensato da buoni fondamentali.
Ed eccoci al punto forse più interessante, l'ingresso in stagnazione.
Qui lo strumento chiave per capire è il diagramma di accrescimento
(curva g-y), che mostra come varia il tasso di crescita (g) al variare del
reddito (y).
Figura 29 - Benessere e declino del tasso di crescita
La prima linea orizzontale indica un tasso di crescita dell'1%, ossia il
punto di ingresso in stagnazione. La seconda linea orizzontale, o livello
del mare, indica il punto di arresto. Il diagramma, in altre parole, è in
grado di dirci - per ogni tipo di paese - quali sono i livelli di reddito che
segnano, rispettivamente, l'ingresso in stagnazione e l'arresto della
crescita.
In questo tipo di rappresentazione, contrariamente a quanto accadeva
con quelle precedenti, quel che conta sono esclusivamente i
fondamentali. Di conseguenza le curve nitidamente distinguibili sono
solo tre: quella in alto, che caratterizza i paesi tipo-Estonia e tipo-
Svezia, i cui fondamentali sono simili e decisamente buoni; quella
intermedia, che caratterizza i paesi tipo-Giappone, con fondamentali
cattivi ma non pessimi; e infine quella in basso, che caratterizza i paesi
tipo-Cile, con fondamentali pessimi. La curva alta, quella dei paesi
tipo-Estonia e tipo-Svezia, incontra la retta di stagnazione a 55-60.000
dollari, un livello che un paese ricco come la Norvegia si apprestava a
superare già nel 2017. La curva intermedia, quella dei paesi tipo-
Giappone, incontra la retta di stagnazione già a 48.000 dollari, più o
meno nel 2030. E infine la curva bassa, quella dei paesi tipo-Cile
prevede un ingresso in stagnazione già a 37.000 dollari, verso il 2047.
Ed ecco il quadro completo, separatamente per i quattro paesi-tipo.
Tabella 5 - Traiettorie di quattro tipi di paesi (reddito in dollari 2005)

Tipo Apogeo Ingresso in stagnazione Reddito di stagnazione Reddito


di arresto Estonia 2017 2057 61,3 92,7 Cile 2006 2047 37,1 56,1 Svezia
1994 2035 56,6 85,7 Giappone 1990 2031 48,6 73,5 Come si vede, ogni
paese mostra di avere una meta finale diversa, e anche i tempi di
ingresso in stagnazione sono estremamente differenziati, dal 2031 del
tipo-Giappone al 2057 del tipo-Estonia.
Che dire?
La lezione che si ricava da questo esercizio è piuttosto chiara. Non
importa qual è il livello iniziale di benessere di un paese, perché il suo
destino non dipende da quanto precocemente o tardivamente inizia a
crescere, bensì dalla qualità dei suoi fondamentali: capitale umano,
pressione fiscale sulle imprese, istituzioni economiche, capacità di
attirare investimenti diretti esteri. E a seconda del valore di questi
parametri, il futuro di un paese può essere diversissimo. I paesi più
virtuosi come l'Estonia e la Svezia, possono puntare su un reddito finale
che sfiora i 100.000 dollari, e sono destinati a entrare in stagnazione
tanto più tardi quanto più sono giovani: un paese come l'Estonia è
giovane perché nel 2007 non aveva ancora raggiunto il suo apogeo,
molti paesi scandinavi non lo sono più perché il loro apogeo l'hanno già
raggiunto diversi decenni fa, e la loro parabola è diventata
inesorabilmente discendente.
Quanto ai paesi meno virtuosi, quelli tipo-Giappone (un gruppo in cui
rientrano anche Stati Uniti, Germania, Francia e Italia) sono a un passo
dalla stagnazione e dovranno accontentarsi di un reddito finale del 20%
più basso, poco più di 70.000 dollari. I paesi tipo-Cile, infine, possono
ancora crescere per qualche decennio ma solo perché partono da livelli
di reddito modesti: il reddito finale cui possono aspirare è ancora più
basso di quello dei paesi tipo-Giappone, e in molti casi - per esempio
quelli di Cile, Messico e Turchia - non raggiunge la metà di quello dei
paesi con i fondamentali migliori (meno di 50.000 dollari). Nel
complesso, la stragrande maggioranza dei paesi OCSE sono già entrati
nella fase di maturità e si avviano, più o meno rapidamente a seconda
del loro reddito attuale, a entrare nella stagione della vecchiaia.
Noi oggi siamo sconvolti da una crisi che è iniziata nell'agosto 2007,
ed è già durata di più di quella del 1929. È probabile che questo evento,
quali che siano state le sue cause, finirà per traslare verso il basso i
sentieri di crescita di tutte le economie avanzate, rendendo più lento il
loro cammino, e meno ambiziosi i traguardi cui potranno aspirare. Ma il
punto essenziale della nostra analisi è che le società avanzate erano
stabilmente incamminate su un sentiero di declino già prima della crisi.
Non se ne erano accorte, ma era già così. E a giudicare dal diagramma
d-t del paese rappresentativo, la crescita dei paesi OCSE aveva
raggiunto il suo apogeo già nel 1998, circa 10 anni prima della crisi
(vedi figura 25).
Abituati ad anni di crescita ininterrotta, i cittadini delle società
avanzate lamentano che negli anni della crisi le loro economie siano
cresciute al modestissimo tasso medio dell'1%. Ma l'equazione della
crescita già prevedeva, per il decennio attuale, un ritmo di sviluppo
inferiore al 2%. Questo significa che, anche se il periodo "felice" 1995-
2007 fosse proseguito indisturbato, saremmo comunque cresciuti poco,
forse neppure un punto in più di quanto siamo cresciuti effettivamente.
La realtà è che la crisi si è abbattuta su economie in rallentamento,
alcune delle quali erano già arrivate in prossimità del loro reddito di
stagnazione. Forse, più che vedere la crisi come una tempesta che si è
abbattuta su un corpo vigoroso, dovremmo cominciare a pensarla come
un trauma che ha colpito un organismo in declino. Sì, proprio un
organismo, perché anche i sistemi sociali sono organismi, sia pure di
una specie particolare. C'è un tempo in cui crescono rigogliosi, sospinti
dal mero fatto di essere giovani. Poi viene il momento in cui
raggiungono il massimo della forza e del vigore, quello che si suole
chiamare l'apogeo, il punto più alto di una civiltà o di una stella. Da
quel momento comincia il declino, prima sotto forma di rallentamento,
poi sotto forma di stagnazione: un regime, quest'ultimo, che annuncia la
fine della crescita, ma anche la vicinanza al traguardo finale.
È questo, a quanto pare, il messaggio che l'equazione della crescita ci
trasmette: ogni società, a seconda dei suoi fondamentali, può e deve
aspirare a un traguardo diverso, ma tutte sono destinate, prima o poi, a
fermarsi. Quanto per ciascuna sia alto quel traguardo, e quanto a lungo
duri il tempo della "giovinezza", dipende dalle caratteristiche di ogni
singolo sistema sociale, e innanzitutto dalla sua capacità di
automodificarsi, di alterare i propri fondamentali. Chi ci riesce può
puntare più in alto, chi non ci riesce - o ci rinuncia - si dovrà rassegnare
a fermarsi prima.
XIV

Dopo il 2007: fra crisi e stagnazione

Fin qui abbiamo sempre ignorato, volutamente, gli anni della grande
recessione, ovvero il periodo che va dal 2007 al 2013. Quel che ci
interessava, infatti, non era costruire una spiegazione della crisi, un
compito che inevitabilmente divide gli studiosi.1 Più semplicemente
volevamo capire se, almeno per le società avanzate e almeno per
l'ultimo periodo di aumento sostenuto del reddito pro capite (1995-
2007), era possibile individuare le forze fondamentali che governano la
crescita. E il risultato della nostra analisi non è stato dei più
incoraggianti: per crescere occorrono buoni fondamentali economici,
ma la crescita, nella misura in cui genera benessere, ha in sé stessa la
forza che tende a spegnerla.
Dunque la crisi del 2007-2013 non ha invertito una tendenza
ascendente, ma ha accelerato un declino. All'inizio del terzo millennio,
mentre il resto del mondo cresceva a ritmi sempre più sostenuti, le
economie dei paesi più ricchi stavano già rallentando il passo. La crisi
ha solo fatto precipitare le cose.
E ora?
Ora gli osservatori sono divisi. I politici, comprensibilmente,
promettono il ritorno della crescita. Si dividono sulle ricette per uscire
dalla recessione, le cosiddette "exit strategy", ma sono concordi nel
prospettare un ritorno più o meno rapido alla crescita. La credenza in un
ritorno della crescita è una necessità politica, specie per i governanti,
perché gli elettori non gradiscono un futuro di stagnazione, ma è anche
una necessità economica, perché molti paesi sono pesantemente
indebitati con l'estero, e solo un ritorno alla crescita consentirà loro di
pagare i debiti accumulati negli anni, evitando il fallimento.
Le menti degli economisti sono un po' più libere. La maggior parte di
essi pensa che per tornare a crescere basti mettere in atto le politiche
economiche appropriate, anche se non sono affatto d'accordo fra loro su
quali esse siano. Alcuni vogliono più spesa e più deficit, altri più
austerità per rimettere in ordine i bilanci, altri meno tasse sui produttori,
altri più regole (specie sulla finanza), altri soprattutto liberalizzazioni e
riforme strutturali.
Un piccolo drappello di economisti, invece, si va convincendo che
l'era della crescita sia definitivamente tramontata, e che i paesi più
ricchi, in particolare gli Stati Uniti, stiano entrando in un'era di
stagnazione.
È questa l'idea esposta, per esempio, da Tyler Cowen nel suo
fortunato pamphlet The Great Stagnation (pubblicato come e-book
all'inizio del 2011), o da Niall Ferguson nel suo libro The Great
Degeneration, una spietata ricostruzione storica della decadenza delle
istituzioni economiche dell'Occidente. Ma è anche la tesi di un accurato
lavoro accademico di Robert Gordon, uscito come working paper nel
2012 con il titolo Is US Growth Over? Faltering Innovation Confronts
the Six Headwinds.
L'idea base di Gordon è che la crescita, intesa come aumento costante
del reddito pro capite, sia un fenomeno storico circoscritto, durato circa
250 anni, fra il 1750 e i primi anni Duemila. Prima, nei secoli - se non
nei millenni - anteriori al 1750, la crescita era lentissima o inesistente.
E così sarà in futuro, quando saremo usciti dalla grande recessione.
L'era della crescita è una parentesi, una piccola parentesi nella storia
dell'umanità.
Anche Gordon, come noi in questo lavoro, giunge alle sue
conclusioni prescindendo dalla crisi del 2007-2013. La sua analisi,
tuttavia, è limitata agli Stati Uniti, ossia al paese situato sulla frontiera
dell'innovazione tecnologica, e si focalizza su un'unica variabile
fondamentale: il ritmo del progresso tecnico. Secondo Gordon la
crescita sostenuta degli ultimi 250 anni, un processo che ha coinvolto
non solo gli Stati Uniti ma buona parte delle economie occidentali, è il
risultato di tre grandi impulsi, ricevuti da altrettante "rivoluzioni
industriali": la rivoluzione dell'acciaio e delle ferrovie (1750-1830), la
rivoluzione delle grandi innovazioni come elettricità, motore a scoppio,
acqua corrente nelle case (1870-1900), la rivoluzione dei computer e
delle telecomunicazioni (1960-2000).
Secondo Gordon, non solo l'ultima rivoluzione è molto meno incisiva
delle altre due, ma anche il progresso tecnico futuro sarà di entità
limitata, per almeno due ragioni di fondo. Primo: in molti ambiti, per
esempio la velocità dei trasporti, è difficile concepire miglioramenti
sostanziali. Secondo: la maggior parte delle innovazioni degli ultimi
anni, per esempio i gadget elettronici, hanno un impatto assai modesto
sulla qualità della vita. Una tesi, quest'ultima, che Gordon illustra con
un esempio molto efficace: fra le cose inventate dopo il 1970 non ve n'è
neppure una per la quale si sarebbe disposti a rinunciare all'acqua
corrente nelle case, una delle grandi innovazioni della seconda
rivoluzione industriale (1870-1900).
C'è poi un terzo modo di vedere le cose, dopo quello dei politici e
quello degli economisti, che si deve soprattutto a sociologi, letterati,
filosofi, o economisti attratti dalla filosofia. Per alcuni la grande
recessione del 2007-2013, più che un dramma da superare, è
un'occasione da cogliere, una sorta di opportunità unica di riflessione
collettiva. Forse, anziché chiederci come tornare a crescere, dovremmo
cominciare a pensare che siamo cresciuti troppo (così Serge Latouche,
il guru della "decrescita felice"), o semplicemente che siamo cresciuti
"abbastanza", come sostengono in uno splendido libro - How Much is
Enough? - Robert e Edward Skidelsky.2 Qui la domanda fondamentale
è: come mai, nonostante lo spettacolare aumento del prodotto per
occupato, continuiamo a lavorare tanto? Perché non si è realizzata la
profezia di Keynes,3 che immaginava una diminuzione continua del
tempo di lavoro, e un corrispondente aumento del tempo libero?
Su questa lunghezza d'onda si muovono in molti. È una linea di
pensiero che riprende idee della filosofia morale, come il concetto di
"vita buona" di Aristotele, racchiuso soprattutto nell'Etica nicomachea.
Questa visione del mondo, che contrappone la vita contemplativa a
quella attiva, la ricerca disinteressata della verità al perseguimento
dell'utile, si ritrova energicamente difesa nel libro di Robert e Edward
Skidelsky, ma riappare anche in altre forme, per esempio nella critica
romantica e comunitaria alla logica del mercato, un fiume carsico
sempre esistito e sempre riemergente, ma che ha tratto speciale vigore
dalla globalizzazione prima (dalla fine degli anni Ottanta), e dal suo
presunto fallimento poi, ovvero a partire dal 2007. Ne sono testimoni,
in Europa, autori come il filosofo-sociologo polacco Zygmunt Bauman,
instancabile censore della modernità e della mercificazione; e in
America i pensatori del filone comunitario, come il filosofo morale
Michael Sandel, autore di una importante opera antiliberale e
neoaristotelica sulla teoria della Giustizia (Justice: What's the Right
Thing to Do?), nonché di un libro contro il mercato, significativamente
intitolato: What Money Can't Buy: The Moral Limits of Markets.
Vista da questa angolatura, la crisi del 2007-2013 si presenta
soprattutto come un'occasione mancata. In una recente intervista
rilasciata al quotidiano "la Repubblica",4 per esempio, Sandel si
dichiara deluso che lo shock della crisi non abbia insegnato niente:
Anch'io ho creduto che [la crisi] poteva segnare la fine della fiducia
acritica nei mercati. Invece c'è stata solo una discussione molto angusta
sulle regole della finanza. Non abbiamo avuto un dibattito pubblico su
un tema fondamentale: in che misura i mercati servono l'interesse
generale. Il potere del pensiero mercatista, la sua forza anche
nell'immaginazione popolare, non si limita alla convinzione che il
mercato crea benessere. C'è di più: lo associa a un'idea di libertà. È un
inganno. ... Abbiamo bisogno di un vigoroso dibattito pubblico che
affronti il significato di una vita buona, ne abbiamo bisogno eticamente.
Personalmente, trovo che vi sia molto di ragionevole nella critica
romantica alla logica del mercato, e che il revival aristotelico in
filosofia morale non sia né casuale né ingiustificato. Che il nostro modo
di vita abbia da tempo, e ben prima della crisi, imboccato una strada
pericolosa è abbastanza evidente, e diventa del tutto chiaro appena
alziamo la testa sopra l'orizzonte delle nostre società opulente
(Galbraith), omologate (Marcuse), consumiste (Baudrillard), e in
definitiva "arrivate".5 Lo ha fatto di recente il grande geografo e
antropologo Jared Diamond in uno straordinario libro intitolato Il
mondo fino a ieri, che mostra in modo plastico, attraverso un confronto
fra i modi di vita di decine di comunità, grandi e piccole, moderne e
tradizionali, quante cose le società avanzate abbiano da imparare (oltre
che da insegnare) rispetto a quelle arretrate, e quanto le prime risultino
eccentriche, specialissime, per non dire strane, o WEIRD, una parola
inglese che è anche l'acronimo di Western, Educated, Industrialized,
Rich, Democracies. E anche nella letteratura non mancano i ritratti
critici del nostro modo di vivere, di studiare, di lavorare, di consumare,
di competere.6
C'è un punto, tuttavia, in cui la critica romantica del mercato non mi
convince, ed è la sua generalità, o forse sarebbe meglio dire il suo
carattere generico e sommario. Dire che la crescita è finita, il mercato
ha fallito, e che dobbiamo fare tesoro di questo fallimento per ripensare
i nostri modi di vita, è un modo semplicistico di vedere le cose.
Intanto non è vero che il mercato abbia fallito, o meglio non è vero
per tutti. Negli ultimi 25 anni, dalla caduta del Muro di Berlino a oggi,
la globalizzazione dei mercati ha permesso ad alcuni miliardi di
persone di uscire dalla miseria. E anche negli anni della crisi, il resto
del mondo (tutte le economie eccetto quelle "avanzate" dei 34 paesi
OCSE) ha continuato a crescere a un ritmo sostenuto, superiore al 3%
annuo. La crisi e la sua durata, in altre parole, non sono un problema
del mercato in generale, bensì delle società avanzate. Sono i paesi
OCSE che sono rimasti intrappolati nella crisi e stentano a uscirne.
Ma neppure questo è del tutto esatto. Dopo la prima recessione,
quella del 2008-2009, e nonostante la ricaduta del 2011 (il temuto
double dip, o "doppio tuffo"), la maggior parte dei paesi OCSE ha
ripreso a crescere, sia pure a un ritmo minore che in passato. Nel
quadriennio 2010-2013 il PIL pro capite di Turchia, Estonia e Cile è
cresciuto a un ritmo prossimo al 4.5%, quello di Corea, Slovacchia,
Polonia intorno al 3%, quello di Germania, Giappone, Israele, Svezia,
Messico intorno al 2%, quello di Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda,
Canada, Austria, Svizzera sopra l'1%. Si tratta di 17 paesi in tutto, la
metà esatta dei paesi OCSE, che non sono in stagnazione.
Il problema, dunque, riguarda i restanti paesi OCSE, i quali si
dividono nitidamente in due gruppi: 11 paesi in stagnazione, che
crescono ma a un ritmo inferiore all'1%, e 6 paesi in recessione
permanente, che negli ultimi quattro anni hanno avuto un tasso di
crescita negativo (minore di -0,5%). Questo significa che il problema
vero, l'incapacità di uscire dalla trappola della crisi, riguarda
essenzialmente una piccola frazione delle economie avanzate, che a
loro volta rappresentano una piccola frazione delle economie coinvolte
nei processi di globalizzazione. I paesi "intrappolati", in definitiva,
sono solo i 4 PIGS "mediterranei" (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna)
più 2 piccoli paesi europei, la Slovenia e il Lussemburgo.
Che cosa hanno in comune i 6 paesi intrappolati?
Non certo il livello del reddito, nel gruppo ci sono infatti paesi ricchi
(Lussemburgo e Italia) e paesi poveri (Portogallo e Slovenia). E
neppure la qualità dei fondamentali economici (quelli della Slovenia
sono buoni, quelli dell'Italia sono cattivi). L'unico elemento comune ai
6 paesi è il fatto che all'inizio della crisi (2008) facevano già tutti parte
dell'eurozona, una caratteristica condivisa con i tre più lenti fra gli 11
paesi in stagnazione, ossia Olanda, Belgio e Irlanda. In breve: i 9 paesi
OCSE a crescita più lenta (negativa o vicinissima a zero) sono tutti
nell'eurozona, mentre nessuno dei 9 paesi a più alta crescita ne fa parte.
Sembrerebbe, dunque, che dopo il 2007 nell'equazione della crescita
di un paese abbia fatto irruzione una nuova variabile, che prima non
contava affatto: avere o non avere una Banca centrale nazionale o, il
che è lo stesso, stare fuori o dentro l'eurozona. E in effetti le cose
stanno proprio così. Negli ultimi 4 anni di crescita pre-crisi (2004-
2007) i paesi con l'euro e quelli senza erano divisi da un gap di crescita
di circa 0,4 punti (a favore dei paesi non euro), nel quadriennio 2010-
2013 il gap si è allargato enormemente, portandosi a oltre 2 punti.
Si potrebbe supporre che questo risultato dipenda da un unico paese
dell'euro, la Grecia, il cui tasso di crescita ha avuto un vero e proprio
tracollo (-5,6% all'anno negli ultimi 4 anni), o che le differenze di
crescita fra paesi euro e non-euro siano in realtà dovute ad altre
variabili che influenzano la crescita, come il livello di benessere e la
qualità dei fondamentali economici. Ma non è così: ristimando
l'equazione della crescita limitatamente al quadriennio 2010-2013,
l'effetto euro permane: la crescita dipende positivamente da buoni
fondamentali (specialmente la qualità delle istituzioni di mercato), ed è
ostacolata sia dal benessere sia dall'appartenenza all'eurozona.7
Quest'ultima variabile, l'appartenenza all'eurozona, verosimilmente
altro non è che una rozza misura del rischio di mancata restituzione dei
debiti, pubblici e privati. Se un paese appartiene all'eurozona e non ha
buoni fondamentali, viene percepito come potenzialmente insolvente,
perché dietro di esso non vi è una Banca centrale pronta a fungere da
prestatore di ultima istanza. Di qui la pressione congiunta di mercati e
istituzioni europee perché il paese stesso riduca deficit e debito, di qui
le politiche di austerità, di qui una permanenza più lunga nel limbo dei
paesi in decrescita.
Quindi, ricapitolando: il resto del mondo continua a crescere, anche
le società avanzate (i paesi OCSE) hanno ripreso più o meno
faticosamente a farlo, restano indietro solo un piccolo numero di paesi
europei, affetti da mali di diversa natura ma tutti accomunati dalla loro
appartenenza all'eurozona.
Dobbiamo concludere che l'era della crescita non è affatto finita?
Non esattamente. Il fatto che la maggior parte dei paesi del mondo sia
sostanzialmente fuori dalla recessione non cancella il fatto che il tasso
di crescita delle economie avanzate risulta sempre più lento. Nei primi
3 anni del decennio attuale, dal 2011 al 2013, l'insieme dei 34 paesi
OCSE è cresciuto a un tasso medio annuo dello 0,9%, che è già un
ritmo di stagnazione. Dieci anni prima, nel triennio 2001-2003,
cresceva a un ritmo circa doppio, pari all'1,7%, il che pare confermare
l'osservazione con cui abbiamo aperto questo libro: il tasso di crescita
delle economie avanzate diminuisce di circa 1 punto ogni decennio.8
Vista in questa prospettiva, la stagnazione attuale non appare il frutto
imprevisto di una crisi durata troppo a lungo, ma l'esito finale di un
processo iniziato oltre mezzo secolo fa, tra la fine degli anni Cinquanta
e l'inizio degli anni Sessanta. La vera novità, rispetto agli anni pre-crisi,
è che ora le economie avanzate appaiono molto più polarizzate che in
passato: la crisi ha lasciato sostanzialmente invariata la tendenza al
declino delle economie avanzate considerate nel loro insieme, ma ha
aumentato fortemente la divaricazione, al loro interno, fra paesi euro e
paesi non-euro.9 Forse, più che chiederci quando usciremo dalla crisi,
dovremmo domandarci se non ne siamo già usciti, e se la ragione per
cui continuiamo a pensarci dentro di essa è che eravamo abituati a tassi
di crescita sensibilmente superiori. Quando il tasso di crescita medio di
un gruppo di paesi relativamente eterogeneo scende al di sotto dell'1%,
è fisiologico che vi sia sempre qualche paese in recessione, e diventa
difficile distinguere fra recessione, crescita zero e stagnazione.
Detto ancora più crudamente. Per paesi come Grecia, Spagna, Italia,
Portogallo ha perfettamente senso chiedersi quando usciranno dalla
recessione, perché la loro crescita è da anni negativa, ma per la maggior
parte dei paesi OCSE la vera domanda è un'altra: torneranno mai ai
ritmi di crescita del passato?
XV

La deriva signorile

È qui, quando ci si interroga sul futuro dei paesi arrivati, che diventa
importante la diagnosi sulla malattia che affligge tante economie
avanzate. La crisi del 2007-2013 è davvero il segno di un fallimento del
mercato, come pensano i critici del capitalismo? E la stagnazione che
pare attenderci è davvero la logica conseguenza di un esaurimento del
progresso tecnico, come sembrano suggerire le analisi storiche
dell'economista Robert Gordon?
Sono domande cui non si può rispondere in poche righe, e forse
neppure in tante. Quel che mi sento di dire, tuttavia, è che la nostra
ricostruzione dell'equazione della crescita suggerisce una diagnosi un
po' diversa dalle precedenti.
La tesi del fallimento del mercato, che vede l'origine della crisi
nell'esplosione delle diseguaglianze e nello strapotere della finanza, non
sembra fare adeguatamente i conti con due dati di fatto.
Primo. Negli ultimi decenni la diseguaglianza è indubbiamente
aumentata all'interno di diverse economie avanzate, e segnatamente
negli Stati Uniti, ma in altre è diminuita, per esempio in Francia,
Spagna, e Turchia, giusto per menzionare alcuni grandi paesi europei.1
Se consideriamo il complesso dei paesi OCSE per cui sono disponibili
serie storiche sufficientemente lunghe e affidabili, il saldo resta incerto,
specie se consideriamo la diseguaglianza complessiva (misurata
dall'indice di Gini) e non solo, come da qualche tempo è diventato di
moda, la quota di reddito nazionale di cui si appropria l'1% più ricco
della popolazione. Una misura, quest'ultima, che descrive un aspetto
parziale del fenomeno - la formazione di un ceto di super-ricchi - ma
che in diverse società avanzate è controbilanciato da tendenze che
vanno nella direzione opposta (non si spiegherebbe, altrimenti, la
costanza o addirittura la diminuzione dell'indice di Gini che si osserva
in parecchi paesi).
Secondo. I mercati finanziari hanno indubbiamente colpito
l'economia mondiale nel suo insieme, se non altro perché la
globalizzazione ha reso fortemente interdipendenti le economie di tutto
il mondo, ma dopo la grande recessione del 2008-2009 a soffrire per le
intemperanze dei mercati finanziari sono stati i medesimi paesi -
Irlanda più i 4 PIGS mediterranei - che proprio sulla generosità (o sulla
miopia?) dei mercati finanziari, avevano fondato la loro crescita dagli
anni Novanta in poi. La corsa di Irlanda e Spagna è stata finanziata con
i bassi tassi di interesse sul mercato immobiliare, quella della Grecia,
del Portogallo e dell'Italia con i tassi di interesse "tedeschi" sui titolo di
Stato. Forse, se un rimprovero si può rivolgere ai mercati finanziari non
è quello di avere fermato la crescita drogata di alcune economie
periferiche ma, semmai, è quello di essersi fidati troppo a lungo di paesi
che stavano crescendo sul debito.
Quanto agli altri paesi, che hanno surplus commerciali, conti pubblici
in ordine, fondamentali economici a posto, valute nazionali, o qualche
combinazione di questi punti di forza, essi non sembrano soffrire
particolarmente per le bizzarrie e gli eccessi della finanza. Insomma: la
speculazione e i mercati finanziari non attaccano tutti, ma solo i paesi
vulnerabili. Che a loro volta sono tali non già perché la politica è stata
sopraffatta dal mercato, ma perché la politica non ha fatto il suo
mestiere, che nell'era della globalizzazione è quello di rendere il proprio
paese in grado di competere con gli altri.2
Ma anche la tesi della stagnazione come esaurimento del progresso
tecnico non sembra fare completamente i conti con la realtà. Vediamo
perché.
Chiunque studi l'equazione della crescita trova una relazione negativa
fra PIL pro capite e tasso di crescita. Chi è più ricco meno cresce. Ma
come si interpreta questa relazione?
Abbiamo visto che, secondo l'interpretazione standard, il livello del
PIL pro capite andrebbe letto come una misura di prossimità alla
frontiera tecnologica, ossia come un indicatore della capacità di
innovare i processi produttivi e inventare nuovi prodotti. Di qui una
conseguenza a prima vista sorprendente: essere lontani dalla frontiera
tecnologica, essere "arretrati", conferisce un insperato vantaggio ai
paesi inseguitori, perché li pone in condizione di copiare prodotti,
importare tecnologie, imitare processi produttivi e assetti istituzionali, il
che li porta a crescere a una velocità maggiore di quella che ha
permesso ai paesi ricchi di conseguire il proprio benessere. Vista
dall'angolatura dei paesi poveri, la globalizzazione è quel processo che
permette loro di "bruciare le tappe", percorrendo in pochi decenni una
strada che ai paesi di prima industrializzazione è costata un paio di
secoli.
Ma questa lettura, come abbiamo argomentato nel capitolo sul drago-
balena, non è priva di difficoltà. Diversi indizi empirici fanno ipotizzare
che il reddito pro capite funzioni nell'equazione della crescita non già
perché misura la distanza dalla frontiera tecnologica ma perché riflette
altre condizioni che ostacolano la crescita. Fra queste: un elevato costo
del lavoro, un alto livello di regolamentazione dell'economia,
un'ipertutela dei consumatori, una scarsa spinta della popolazione al
sacrificio e al miglioramento delle proprie condizioni di vita. Tutte
condizioni che, da oramai molto tempo, distinguono i paesi OCSE
arrivati dai paesi inseguitori, o paesi catching up.
La teoria del rallentamento del progresso tecnico, in altre parole,
sembra ignorare che gli aumenti del PIL per abitante non dipendono
solo dalle tecnologie adottate, ma anche - se non soprattutto - dalla
spinta (si può dire così?) che gli abitanti di un paese intendono
imprimere alle loro vite. È innanzitutto tale spinta che è venuta a
mancare nei paesi ricchi, più o meno vicini alla frontiera tecnologica.
Negli ultimi trent'anni, con la globalizzazione dei mercati e delle
comunicazioni, il mondo è molto cambiato, e il cambiamento ha
profondamente inciso sui paesi ricchi. Ne ha modificato le economie,
ma anche la cultura, la mentalità, i costumi.3
Nei paesi arrivati, o paesi WEIRD, il benessere di base delle famiglie,
fatto di alti redditi e cospicui patrimoni accumulati lungo le
generazioni, è oggi così ampio che consente un'attitudine verso lo
studio, il lavoro e il guadagno del tutto diversa dal passato, e comunque
diversa da quella dei paesi inseguitori. Nessuna società ha ancora
risolutamente imboccato la strada immaginata da Keynes, quella di una
drastica riduzione del tempo di lavoro a favore del tempo libero, ma
qualcosa sta già andando, anzi è già andato, in quella direzione. Se, per
esempio, anziché l'orario di lavoro in una giornata-tipo (tuttora di circa
8 ore) consideriamo il quantum di lavoro erogato dal cittadino medio
nell'arco della sua vita, non possiamo non notare che la quota di tempo
dedicata al lavoro si è enormemente ridotta. Oggi molti giovani iniziano
a lavorare dopo i 30 anni, mentre diversi sistemi pensionistici
consentono (o consentivano fino a pochi anni fa), un ritiro dal lavoro
intorno ai 60 anni, a fronte di una speranza di vita cresciuta in modo
spettacolare dai tempi di Keynes. Fatta 100 la durata della vita espressa
in ore di veglia (dalle 8 alle 24), nel giro di un secolo il tempo di lavoro
medio della popolazione è approssimativamente passato dal 35% al
20%, sostanzialmente in linea con le previsioni di Keynes,4 che
immaginava un dimezzamento del tempo di lavoro entro il 2030.
L'errore di Keynes, di cui parlano Robert e Edward Skidelsky nel già
citato How Much is Enough?, non è stato di aver previsto un aumento
del tempo libero che poi non si è verificato, ma di non aver capito che
tale tempo libero addizionale non si sarebbe materializzato come
riduzione dell'orario di lavoro, bensì come aumento degli anni in cui
non si lavora, o perché si studia o perché si è andati precocemente in
pensione o perché si vive più lungo che in passato: è l'espansione dello
Stato sociale (più anni senza lavorare), non la contrattazione sindacale
(orari di lavoro più corti), il fattore decisivo che ha inverato la profezia
di Keynes.
Ci sarebbe da chiedersi, anzi, se una parte delle società avanzate non
stiano silenziosamente acquistando tratti neofeudali o, se preferite, tratti
tipici delle "società signorili",5 nettamente divise in una minoranza di
privilegiati esenti dal lavoro manuale (signori, guerrieri, sacerdoti), e in
una maggioranza di sudditi condannati a lavorare tutta la vita.
Pensiamo, per fare un esempio, ai giovani dei ricchi paesi del Nord, o
anche a quelli di paesi mediterranei come l'Italia e la Spagna. Una
pubblicistica piuttosto ripetitiva e impregnata di luoghi comuni li
dipinge da anni come una generazione perduta, un esercito di
disoccupati senza futuro e senza speranza. Ed effettivamente il lavoro
non si trova.
Ma c'è anche un altro modo di descrivere le cose. Nelle società
arrivate, la maggior parte dei giovani usufruiscono, per la prima volta
nella storia, di un triplice privilegio.
Innanzitutto, sono liberi di studiare poco e male, dedicando le loro
migliori energie al divertimento e alle relazioni sociali, l'esatto
contrario di ciò che capita ai loro coetanei cinesi, vividamente descritti
nel libro-denuncia (Battle Hymn of the Tiger Mother) di Amy Chua, la
"mamma tigre" che ha provato a impartire un'educazione cinese a due
figlie cresciute negli Stati Uniti.
In secondo luogo, possono prolungare indefinitamente il periodo
degli studi, ritardando così l'ingresso nel mercato del lavoro, in alcune
società anche ben oltre i 30 anni.
Infine, una volta entrati sul mercato del lavoro, possono ritardare di
anni e anni l'inizio di una vera carriera lavorativa. Essi non cercano un
lavoro qualsiasi, ma un lavoro che sia all'altezza delle loro aspirazioni,
o delle competenze che ritengono di aver acquisito negli anni dello
studio. Detto in altre parole, possono esercitare il privilegio dell'attesa,
che in ogni ambito del mercato è un segno di forza del venditore: chi
può attendere il compratore giusto, sia esso l'acquirente di un immobile
o il datore di lavoro, si colloca per ciò stesso in una posizione di forza.
Una forza che, ai giovani, deriva dai patrimoni delle famiglie e dalla
disponibilità dei genitori ad accompagnarne l'ingresso nel mercato del
lavoro. In questo senso la disoccupazione giovanile esiste, ma non è
disoccupazione classica. Una parte considerevole di essa è
disoccupazione volontaria, nel senso che la teoria economica attribuisce
a questa espressione. Il disoccupato volontario è "disoccupato" perché
cerca più o meno attivamente un lavoro, ma è "volontario" perché può
scegliere di non accettare alcune offerte di lavoro, quelle meno coerenti
con le proprie aspirazioni. Di fronte alle offerte di lavoro che percepisce
come inadeguate, o insoddisfacenti, si può permettere il lusso di
rifiutarle e aspettare.
Ma tali offerte esistono. Come fa la società a coprire i posti di lavoro
che non interessano ai giovani, specie quelli del ceto medio o dei ceti
più elevati?
È qui che interviene il concetto di "società signorile". I posti di lavoro
peggiori, o semplicemente non gratificanti, esistono in tutte le società
moderne. Nessuna società può fare a meno di operai edili, facchini,
fattorini, lavapiatti, camerieri, baristi, cuochi, idraulici, elettricisti,
spazzini, domestici, badanti per gli anziani, solo per fare qualche
esempio. Questo strato della piramide delle professioni, a seconda di
come lo si definisce e a seconda del tipo di società, può assorbire fra il
20 e il 40% della forza lavoro, e richiede un continuo ricambio. Ossia
crea di continuo nuove occasioni di lavoro. Chi va a occupare queste
posizioni, che alla maggior parte dei giovani (e anche degli adulti) di
oggi non interessano?
È ovvio: gli immigrati. Nelle società arrivate i posti di lavoro
peggiori sono riservati in massima parte agli immigrati, che sono ben
contenti di occuparli perché per loro, anche quando sono pagati poco o
vengono assunti in nero, i relativi redditi, e spesso anche le condizioni
di vita associate a quei posti, costituiscono comunque un grande
progresso rispetto alla loro condizione di partenza. È così che le nostre
società assumono tratti neoschiavistici, in singolare contrasto con la
retorica buonista e politicamente corretta che informa ogni discorso
pubblico sulla popolazione immigrata.6 Al vertice della piramide
sociale un'élite che lavora poco, o fa lavori altamente gratificanti, e
manda i propri figli in giro per il mondo a studiare, come i rampolli
della nobiltà europea nei secoli passati. Alla base della piramide un
esercito di immigrati, che svolge tutti i lavori che né l'élite né il ceto
medio sono disposti a svolgere, ma per lo più non gode del diritto di
voto, e in questo ricorda la condizione degli schiavi nell'antica Grecia,
sul cui lavoro poggiava la "democrazia degli antichi".
Non è tutto, però. In alcune fra le società avanzate la deriva signorile
si manifesta nella loro vocazione consumistica. Se molte di esse non
crescono, o crescono poco, non è solo perché la spinta
all'automiglioramento e all'avanzamento sociale, che negli anni
Cinquanta e Sessanta coinvolgeva la maggior parte dei cittadini, ora
sopravvive solo nella minoranza immigrata, ma perché la
globalizzazione sta rendendo molte delle società mature sempre più
parassitarie, sistemi sociali che producono sempre di meno e
consumano sempre di più, sia nella forma classica dell'acquisto di beni
e servizi sul mercato, sia nella forma moderna di una partecipazione
sempre più ampia ai benefici del welfare, dalla scuola alla sanità, dalle
assicurazioni sociali al reddito di cittadinanza.7 Per non parlare di
quella forma specialissima di consumo opulento che consiste
nell'estensione del tempo dedicato ad attività piacevoli, gratificanti o
capaci di conferire prestigio, un fenomeno che Thorstein Veblen aveva
già descritto alla fine dell'Ottocento ne La teoria della classe agiata, e al
quale aveva riservato un nome speciale (conspicuous leisure) per
distinguerlo dal più scontato fenomeno del consumo ostentatorio di
beni e servizi (conspicuous consumption).
Nella nuova divisione internazionale del lavoro, la produzione di
merci e i corrispondenti posti di lavoro stanno migrando sempre di più
verso i paesi emergenti. Simmetricamente, le economie avanzate si
stanno specializzando nella produzione di servizi, e preferiscono
importare dall'estero molti beni che, ove venissero prodotti in casa,
avrebbero un prezzo troppo elevato. Un trend aggravato dal fatto che
molti dei servizi che circolano nelle nostre società opulente fino a ieri si
pagavano, e quindi avevano dietro di sé posti di lavoro retribuiti e
produttori in carne e ossa, mentre oggi circolano gratuitamente sulla
rete e quindi hanno perso ogni capacità di sostenere l'occupazione e i
redditi. A beneficio, ancora una volta, del mondo del consumo, e a
detrimento di quello della produzione, o quantomeno della produzione
per il mercato.
Ecco perché dicevo che il volto di molte società avanzate (non tutte,
però: un'importante eccezione è la Germania, e in parte l'Austria) sta
diventando quello di una società signorile, o neofeudale. Se non
suonasse come un ossimoro, la si potrebbe chiamare una società
signorile di massa. Una società in cui un vasto ceto medio si è abituato
a standard di vita che è sempre meno in grado di mantenere, perché la
produzione - specie quella vera, fatta di cose che si toccano - è migrata
al di fuori dei propri confini fisici e sociali. Fuori dei confini fisici, in
quanto molto di quello che si produce oggi nel mondo non viene più
prodotto entro le società più ricche, ma importato dalle economie
emergenti. Fuori dei confini sociali, in quanto buona parte dei beni e
servizi la cui produzione costa più fatica, o semplicemente dà meno
soddisfazioni, è ormai delegata alla popolazione straniera, ospite più o
meno tollerato delle società arrivate. E forse, per certi versi, anche fuori
dei confini giurisdizionali, visto che una fetta sempre meno trascurabile
del nostro consumo è fatta di beni e servizi immateriali, che circolano
gratuitamente, o a prezzi irrisori, in quel luogo virtuale o non-luogo
sottratto alle leggi che è Internet.
Può sembrare che tutto questo non faccia che confermare le profezie
più pessimistiche sul "tramonto dell'Occidente", come quella di
Spengler, o sulla "crisi della civiltà", come quella di Huizinga, per il
quale la civiltà coincideva con quella occidentale, se non con quella
europea. Molto, però, dipende dall'angolo da cui si guardano le cose.
Visto da un inglese, il passaggio avvenuto nei primi anni del Novecento
da un mondo a guida britannica a un mondo a guida americana può
essere apparso come un declino della civiltà. Così oggi, visto da un
americano, il passaggio del testimone della crescita dagli Stati Uniti alla
Cina e all'India può apparire anch'esso come un segno di crisi, di
esaurimento di una civiltà. Eppure in entrambi i casi i valori e i modelli
di vita che vincono, e si diffondono da un angolo all'altro del pianeta,
restano quelli del mondo occidentale. Più che declinare, la civiltà
occidentale pare spostarsi, o cambiare dimora. All'inizio del XX secolo
ha attraversato l'Atlantico per installarsi negli Stati Uniti; 100 anni
dopo, all'inizio del XXI secolo, sembra proseguire il suo viaggio verso
ovest questa volta attraversando il Pacifico, per installarsi in Cina e in
India. Quella che a noi pare una drammatica crisi della civiltà forse è
solo, o prevalentemente, una sorta di migrazione, uno "spostamento" di
civiltà.
Il problema è che, quando la civiltà li abbandona, i luoghi in cui ha
prosperato cambiano natura. Più che ospitare il melanconico declino
della civiltà, tendono a diventare altro da sé. Alcune fra le nostre società
avanzate, non necessariamente le più ricche (emblematico il caso dei
paesi mediterranei), tendono ad assumere alcuni dei tratti tipici delle
società signorili. Si può descrivere tutto ciò come la progressiva
affermazione della cultura dei diritti,8 una sorta di neoumanismo
planetario che mira a generalizzare lo status di signore, oppure
osservare malinconicamente il declino della cultura della
responsabilità9 e il lento passaggio dall'era della "mente liberal" a
quella della "mente servile", per riprendere l'efficace formula di
Kenneth Minogue.10 Resta il fatto che la deriva signorile è una
tendenza reale, un processo che sta cambiando alle radici la nostra
civiltà. Possiamo compiacercene o dolercene, idealizzare il passato o
lodare il presente, ma forse è giunto il tempo di prenderne atto.
Che fare?

La tesi di questo libro non è che le società avanzate, gli attuali paesi
OCSE, entreranno tutte in stagnazione nel giro di qualche decennio.
Quel che abbiamo fatto, in questo studio, è di provare a rispondere a
una domanda più circoscritta: che cosa sarebbe successo se, dopo il
2007, nulla fosse cambiato nei meccanismi che avevano governato la
crescita nell'ultimo periodo felice, il dodicennio che va dal 1995 al
2007?
La risposta a questa domanda, che volutamente lascia fuori la crisi
del 2007-2013, è che alcune economie sarebbero entrate in stagnazione
molto presto, altre molto tardi, ma tutte prima o poi avrebbero dovuto
rallentare e infine fermarsi, perché la crescita aumenta il benessere e il
benessere è il principale ostacolo alla crescita. Con un'importante
differenza, però: i paesi con cattivi fondamentali si sarebbero fermati su
un reddito di stato stazionario relativamente basso, quelli con buoni
fondamentali su un reddito decisamente alto.
Ora la crisi ha scompaginato le carte, e dire qualcosa sul futuro delle
economie avanzate è diventato ancora più difficile di prima. Si può
pensare che la crisi abbia abbassato il reddito di equilibrio di tutti i
paesi, o di molti di essi. Ma si può anche pensare che, nel lungo
periodo, il ruolo frenante del benessere si attenui. Benessere, infatti,
significa innanzitutto un costo del lavoro più elevato che altrove (da cui
uno svantaggio competitivo rispetto ai paesi poveri), e tutto fa pensare
che fra qualche decennio, quando molti paesi emergenti o in via di
sviluppo avranno raggiunto standard di vita occidentali, quel divario
sarà diventato molto minore di oggi.
Se è impossibile indovinare come andranno le cose in generale, c'è
però almeno una domanda cui, invece, è possibile provare a rispondere:
che cosa può fare una società avanzata per aumentare il suo tasso di
crescita?
Nel porre questo interrogativo, naturalmente, do per scontato che
tornare a crescere (o continuare a farlo) sia ancora un obiettivo
desiderabile per molte, se non tutte, le società avanzate. E spiego
brevemente perché.
Il primo, ovvio, argomento pro-crescita è che molte società avanzate
sono ancora lontane dagli standard di vita delle società arrivate, che
guidano la classifica dei paesi OCSE: giusto per dare un'idea, nel 2013
il reddito dei tre paesi OCSE meno ricchi, ossia Messico, Turchia e
Cile, era circa 1 / 4 di quello della Norvegia, il paese più ricco dopo il
Lussemburgo.
Il secondo argomento è che alcuni paesi, in particolare i PIGS
mediterranei, sono costretti a crescere semplicemente per evitare il
fallimento. Se non vogliono fallire e precipitare nella povertà, devono
pagare i loro debiti,1 ma l'unico modo per pagarli è tornare a crescere.
Il terzo argomento è che anche nelle società più ricche esistono
sacche di povertà e altri gravi problemi sociali che si potrebbero
affrontare assai meglio se il reddito nazionale crescesse ancora.
Il quarto e ultimo argomento è che, senza crescita, le tensioni sociali
rischiano di diventare drammatiche. Se la torta del reddito nazionale
non aumenta, la vita di un sistema sociale diventa un gioco a somma
zero: non si può migliorare la propria condizione senza peggiorare
quella di qualcun altro. Il che, in sostanza, significa che il nucleo
dell'azione politica diventa la redistribuzione del reddito: più arbitrio
dei governanti nell'allocazione delle risorse, meno libertà per individui
e imprese. Di qui tensioni sociali, invidia di classe, aumento dei
conflitti interni. Nessuna società moderna, finora, ha ancora imparato a
convivere con un ammontare di risorse che resta costante nel tempo, o
addirittura si restringe ogni anno.
Ma torniamo alla nostra domanda. Ammesso che, almeno per alcune
società, la crescita sia ancora un obiettivo desiderabile, che cosa può
fare un paese per migliorare le proprie prospettive in tal senso?
Qui l'equazione della crescita ha ancora molte cose da dire. La più
rilevante è che mentre i parametri dell'equazione mostrano una certa
stabilità, le variabili che entrano nell'equazione, e quindi regolano la
velocità della crescita, non sono affatto immodificabili. Detto in altre
parole: se un paese vuole crescere di più, o anche solo contrastare il
rallentamento della crescita che l'aumento del benessere porta con sé,
può benissimo farlo. Un paese può fare investimenti in istruzione, può
ridurre le tasse, può migliorare le proprie istituzioni di mercato. Alcuni
paesi, per esempio la Germania, l'hanno fatto, sia prima sia durante la
crisi, e ne hanno già raccolto i frutti sotto forma di un aumento del tasso
di crescita. Altri paesi, la maggior parte, hanno fatto poco o nulla, o
addirittura hanno permesso il deterioramento dei propri fondamentali, e
ora crescono meno di prima. Insomma, nessun paese è completamente
intrappolato nel proprio destino, perché la struttura economica di un
paese non è data una volta per sempre, ma può essere modificata
dall'azione dei governi, delle forze sociali, e naturalmente anche
dall'impegno dei singoli.
Che fare, dunque?
A questa domanda, sfortunatamente, siamo portati un po' tutti a
rispondere secondo le nostre preferenze politico-ideologiche. Anche chi
accettasse pienamente la "verità" dell'equazione della crescita, ovvero
credesse nella sostanziale correttezza delle nostre stime, avrebbe di
fronte a sé almeno tre opzioni di fondo: più istruzione, meno tasse sulle
imprese e sul lavoro, migliori istituzioni economiche. E non è difficile
indovinare quale sceglierebbe: se è di sinistra, punterà sugli
investimenti in capitale umano; se è di destra, sulla riduzione delle
aliquote; se è un liberale, sulle riforme che promuovono efficienti
istituzioni di mercato.
Io penso, invece, che dovremmo ragionare diversamente. Non
dovremmo chiederci quale politica ci piace di più, ma quale può
funzionare meglio. Le tre politiche implicitamente incorporate
nell'equazione della crescita, infatti, non sono così intercambiabili come
possono apparire a prima vista. Due elementi, in particolare, rendono
diverso, per i vari paesi, il rango di convenienza delle varie politiche.
Il primo elemento è il tempo necessario perché una politica dispieghi
i propri effetti.
Un miglioramento del capitale umano, per esempio, non può produrre
effetti apprezzabili prima di 15-20 anni, il tempo necessario perché una
riforma del sistema scolastico, delle università e dei centri di ricerca si
trasmetta al mercato del lavoro. Puntare tutte le proprie carte
sull'istruzione è una politica lungimirante, ma purtroppo ha scarsissime
possibilità di incidere sul tasso di crescita nel breve e nel medio
periodo.
Se si punta sulle istituzioni di mercato, invece, i tempi possono essere
meno lunghi, ma molto dipende da quel che si fa: liberalizzare il
mercato del lavoro e delle professioni può aumentare la produttività del
sistema nel giro di pochi anni, riformare la giustizia e la burocrazia può
produrre effetti apprezzabili solo nel medio periodo.
Se, infine, la leva su cui si intende agire sono le tasse, gli effetti
possono essere relativamente rapidi: una riduzione delle aliquote,
specie se concentrata sull'imposta societaria,2 può fornire una spinta
all'economia in tempi piuttosto brevi, come mostrano i due casi di
scuola, ovvero le grandi riduzioni fiscali dell'era Thatcher-Reagan.
Detto per inciso, non si può escludere che sia stato proprio questo
impulso, basato sulla riduzione delle tasse, il fattore decisivo che - fra
gli anni Ottanta e gli anni Novanta - ha generato l'unica significativa
anomalia nel trend di raffreddamento della crescita in atto da più di
mezzo secolo: dal 1960 a oggi il tasso di crescita delle economie
avanzate è sempre diminuito di circa un punto ogni decennio, con la
sola eccezione degli anni Novanta, in cui il rallentamento è stato di
pochi decimali. Stando alla nostra equazione, un paese che desiderasse
ottenere, in un paio di anni, un incremento del tasso di crescita di 1
punto percentuale, dovrebbe abbassare l'aliquota societaria di circa 12
punti, una misura tutt'altro che insostenibile, se si pensa che l'aliquota
dell'Irlanda è circa 15 punti al di sotto dell'aliquota media OCSE.
Il secondo elemento che influisce sull'efficacia di una politica è il
contesto socio-economico, in particolare il fatto di avere una Banca
centrale nazionale oppure no: in breve, essere nell'eurozona o fuori di
essa. Abbiamo già visto che, a parità di altre condizioni, un paese euro
cresce di circa 1,5 punti in meno di un paese non-euro. Ma non si tratta
solo di questo. Alcuni indizi empirici fanno pensare che, negli anni
immediatamente successivi alla recessione del 2008-2009, i paesi euro
e i paesi non-euro non differiscano solo per il loro tasso di crescita
tendenziale, ma anche per le sue determinanti.
Nell'eurozona, i paesi che meglio sono riusciti a fronteggiare la crisi
sono quelli che combinano un'elevata qualità del capitale umano e conti
pubblici relativamente in ordine: Germania, Finlandia, Austria, Olanda,
Belgio e Francia, ossia l'Europa del Nord eccetto Lussemburgo e
Irlanda. I paesi che meno sono stati in grado di fronteggiare la crisi
sono quelli caratterizzati da bassa qualità del capitale umano e
deterioramento dei conti pubblici: Portogallo, Grecia, Spagna, ovvero
l'Europa del Sud eccetto l'Italia. In una posizione intermedia Italia,
Irlanda e Lussemburgo, ossia i tre paesi che non è possibile assegnare a
nessuno dei due gruppi precedenti. L'Italia è mediocre sia sui conti
pubblici sia sul capitale umano, mentre Irlanda e Lussemburgo
appaiono speculari: l'Irlanda ha un ottimo livello di istruzione ma ha
dovuto gravemente deteriorare i conti pubblici per salvare le sue
banche, il Lussemburgo ha buoni conti pubblici ma anche il peggior
capitale umano dell'eurozona.
Tabella 6 - Tre tipi di paesi nell'eurozona

Velocità di crescita (2010-2012) Accelerazione (rispetto al 2001-


2007) Paesi del Nord 1,5 0,1 Paesi mediocri -0,4 -1,2 Paesi del Sud -1,6
-3,5 Totale eurozona 0,5 -0,9 Come si vede dallo specchietto
riassuntivo, nel triennio 2010-2012 l'eurozona nel suo insieme è già
entrata in un regime di stagnazione (crescita media +0,5%), e ormai
cresce di quasi un punto meno di prima (-0,9%). Solo i paesi del Nord
hanno ripreso a crescere a un ritmo simile a quello precedente (1,5%),
mentre tutti gli altri sono tuttora in decrescita. I tre paesi del Sud
(Grecia, Spagna e Portogallo), in particolare, sono lontanissimi dal loro
tasso di crescita del passato: crescevano al ritmo medio del 2%, ora
decrescono di circa 1,5 punti all'anno.
Le cose vanno un po' diversamente per i paesi OCSE fuori
dell'eurozona, un insieme di 20 nazioni, di cui 19 mai entrate, e una -
l'Estonia - entrata solo nel 2011. Anche qui ci sono differenze fra paesi
che si sono ripresi e paesi che stentano a uscire dalla crisi ma,
contrariamente a quanto accadeva nella zona euro, la variabile chiave
sembra essere il livello della pressione fiscale sulle imprese, misurata
con l'imposizione totale sul profitto commerciale (il cosiddetto TTR, o
Total Tax Rate). Se dividiamo i paesi in tre gruppi in base alle politiche
fiscali attuate nel triennio 2010-2012, confrontate con quelle del
settennato felice 2001-2007, il quadro che emerge è piuttosto nitido:3
Figura 30 - Crescita e tasse nei paesi non-euro

Mediamente, i paesi che hanno aumentato le tasse crescono molto più


lentamente di prima (-2,3); i paesi che le hanno lasciate sostanzialmente
invariate crescono leggermente meno che in passato; infine, i paesi che
le hanno ridotte in modo apprezzabile crescono appena un po' più di
prima. Sembra dunque che, per tornare a crescere come in passato,
occorra una riduzione di qualche punto del TTR. Una stima di larga
massima suggerisce che il ritorno al ritmo precedente la crisi richieda
una riduzione del TTR dell'ordine di 5 punti, più del triplo della
riduzione effettivamente messa in atto dai paesi dell'eurozona (-1,4%).
Ed eccoci, finalmente, al cuore della nostra domanda: che cosa può
fare un paese per contrastare la tendenza al rallentamento della
crescita?
La prima risposta è: dipende. Dipende, per esempio, dal fatto di avere
o no una valuta nazionale: i paesi dell'eurozona non possono non porsi
il problema dei conti pubblici, anche se i tempi e i modi per risanarli
possono variare in un range piuttosto ampio. Dipende, poi, dalla fretta
che un paese ha: se può aspettare 20 anni, è razionale puntare
soprattutto sul miglioramento del capitale umano; se vuole dei risultati
meno lontani, può cercare di riformare le sue istituzioni di mercato; se
vuole risultati a brevissimo termine, la via maestra è la riduzione delle
tasse, in particolare quelle che gravano sui profitti e sul lavoro
(riassunte nel livello del TTR).
Ma il punto fondamentale, il punto di partenza di tutto, dovrebbe
essere di tipo diagnostico. Un paese che vuole tornare a crescere, o
crescere di più, dovrebbe - per prima cosa - individuare la sua classe di
opportunità. Ora, che cos'è la "classe di opportunità" di un paese?
La classe di opportunità di un paese non è altro che l'insieme dei suoi
handicap o, se preferite, dei suoi ritardi. Più un paese è indietro in un
certo ambito, e più ha la possibilità di automigliorarsi, modificando sé
stesso. Quello che la teoria economica afferma per il trasferimento di
tecnologia, e cioè che i paesi arretrati hanno il "vantaggio" di poter
crescere imitando quelli avanzati, vale altrettanto bene per le tecnologie
istituzionali, ossia per gli assetti economici, sociali, culturali, giuridici
che distinguono tra loro i vari paesi e influenzano il tasso di crescita di
ciascuno. Naturalmente è vero che nessun assetto istituzionale può
essere trasferito meccanicamente e in blocco, come si trasferisce una
tecnologia vera e propria, ma questo non impedisce a un paese di
ispirarsi alle migliori pratiche (le cosiddette best practices) prevalenti
nei paesi che funzionano, adottando e adattando a sé stesso le più
promettenti. Ecco perché è importante conoscere la propria classe di
opportunità: solo dopo averla individuata, un paese è in grado di
imboccare la strada più promettente per tornare a crescere.
È impossibile dire con sicurezza che cosa conterà veramente in
futuro. E tuttavia non sembra azzardato immaginare che i tre
fondamentali che governano l'equazione della crescita, capitale umano,
istituzioni economiche e tasse, continuino a giocare un ruolo di primo
piano anche domani. Lo hanno giocato in passato, hanno continuato a
giocarlo negli anni della crisi, è verosimile che possano giocarlo in
futuro. Se le cose stanno così, diventa immediato determinare la classe
di opportunità di ogni paese: basterà, per ciascuno, individuare gli
ambiti in cui ha più strada da percorrere, ossia posizioni da risalire
rispetto agli altri paesi. Se un paese ha problemi su tutti i fondamentali
è in classe di opportunità 3, se ne ha su due è in classe 2, se ne ha su
uno solo è in classe 1, e se infine non ne ha nessuno è in classe 0.
Tabella 7 - I problemi delle società avanzate: 4 classi di opportunità

Classe Paesi Capitale umano Tasse Istituzioni 3 Messico • • •


Lussemburgo • • Polonia • • Turchia • • 2 Cile • • Israele • • Giappone •
• Italia • • Grecia • Portogallo • Norvegia • Canada • Australia • Nuova
Zelanda • Germania • 1 Belgio • Spagna • Francia • Stati Uniti •
Svizzera • Ungheria • Svezia • Slovacchia • Repubblica Ceca • 0 Paesi
con buoni fondamentali: Islanda, Irlanda, Corea del Sud, Finlandia,
Estonia, Slovenia, Olanda, Danimarca, Austria, Regno Unito. Come si
può vedere nella tabella 7, l'unico paese in classe 3 è il Messico, che ha
problemi su tutti i fronti: capitale umano, tasse, istituzioni economiche.
I paesi in classe 2 sono 7: Polonia, Turchia, Cile e Israele hanno
soprattutto problemi di capitale umano e di istituzioni economiche, il
Lussemburgo di capitale umano e di tasse, Italia e Giappone di tasse e
di istituzioni economiche.
La classe 1 è quella che ospita più paesi (ben 16), spesso con
problemi assai diversi: fra i paesi dell'attuale eurozona, Grecia e
Portogallo hanno innanzitutto problemi di capitale umano, Germania,
Francia, Spagna e Belgio problemi di alte tasse, la Slovacchia problemi
di cattive istituzioni economiche. Fra i paesi che non fanno parte
dell'eurozona, 5 hanno tasse troppo alte (Norvegia, Canada, Australia,
Nuova Zelanda, Stati Uniti), 4 hanno istituzioni economiche
insoddisfacenti (Svizzera, Svezia, Ungheria, Repubblica Ceca).
Restano, infine, 10 paesi in classe 0 (buoni fondamentali nei tre
ambiti), tutti in Europa eccetto la Corea del Sud: Irlanda, Finlandia,
Austria, Olanda, Estonia, Slovenia nell'eurozona, Regno Unito,
Danimarca, Islanda fuori di essa.
La collocazione dei 34 paesi OCSE in classi di opportunità, è ovvio,
contiene alcuni margini di arbitrarietà. Dipende dalle fonti statistiche
utilizzate, dalla scelta degli indicatori e delle soglie, dal periodo
considerato. Non dubitiamo che altri possano, in futuro, ripetere il
nostro esercizio ottenendo risultati un po' diversi, con qualche paese
che cambia di classe. Il punto che ci premeva sottolineare, tuttavia, è
soprattutto metodologico, per non dire filosofico.
L'equazione della crescita ci ha mostrato che, con l'aumento del
benessere, continuare a produrre reddito diventa sempre più difficile.
Non solo: usando l'equazione della crescita per simulare il futuro delle
società avanzate dopo il 2007, ci siamo resi conto che le nostre società
erano avviate su un sentiero di declino già prima della crisi, e che in
tutte la crescita del benessere era destinata a incontrare un tetto, un
soffitto al di là del quale non poteva spingersi.
Non dobbiamo stupircene, né spaventarci. Un paese, specie se ha
raggiunto un elevato benessere, può anche pensare di fermarsi
semplicemente perché è "arrivato", ovvero perché è cresciuto
"abbastanza", secondo l'efficace espressione di Robert e Edward
Skidelsky. Così come può accettare di incamminarsi su un sentiero di
decrescita, più o meno volontaria e più o meno felice, secondo la
discutibile utopia di Serge Latouche.
Non c'è nulla di male nelle retoriche romantiche e anticapitalistiche,
che sognano un'umanità liberata dalla schiavitù del lavoro, della
produzione per la produzione, dell'arricchimento senza limiti. Il sogno
ha sfiorato un po' tutti: non solo i "regressisti", attratti - forse un po'
ingenuamente - dal mito di una vita semplice, naturale, libera dalle
costrizioni della modernità, ma anche i progressisti, che nel progresso
tecnico-scientifico hanno sempre visto la forza fondamentale capace di
togliere l'umanità dal suo stato di alienazione, sfruttamento, dipendenza
dalla natura.
È stato il sogno di Keynes che, nel 1930, riflettendo sulle
"prospettive economiche per i nostri nipoti" immaginava un incremento
della produttività così spettacolare da rendere quasi superfluo il lavoro.
Allora, immaginava Keynes,
per la prima volta dalla sua creazione l'uomo si troverà di fronte al
suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure
economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la
scienza e l'interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene,
piacevolmente e con saggezza.
Ma era anche stato, poco meno di un secolo prima, il sogno di Marx e
Engels, che ne L'ideologia tedesca così dipingevano la fine della
divisione del lavoro nella società comunista:
nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività
esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società
regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile
di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia,
il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo
criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né
pescatore, né pastore, né critico.
Il sogno di Prometeo, rubare il fuoco agli dei per affrancare l'umanità,
così come il mito opposto, quello della vita semplice, pastorale o
agreste, sono due costanti che attraversano tutta la storia della cultura
occidentale, dai miti greci al Faust di Goethe, dalle Bucoliche di
Virgilio al buon selvaggio di Rousseau. Due costanti legate da un unico,
comune, filo nascosto: l'idea di uno "stato finale", o di equilibrio, in cui
l'umanità possa finalmente trovarsi a casa, presso di sé, sottratta alle
mille forze che sempre le hanno impedito di diventare sé stessa.
Il problema, dunque, non sta nel mito dello stato stazionario, un mito
che in fondo accomuna regressisti e progressisti, nemici e amici della
modernità. Il problema è che la storia, o meglio la storia
dell'economia,4 ci sta offrendo lo stato stazionario prima dell'arrivo. La
macchina si è fermata, e questo in sé non sarebbe una tragedia, ma il
punto è che - a quanto pare - non eravamo ancora arrivati a
destinazione.
Rallentamento, declino, arresto della crescita possono anche non
essere un problema per alcuni paesi, i paesi più ricchi, o per i ceti
superiori all'interno di ogni singolo paese. Il problema è che, anche se si
accetta l'utopia di uno stato stazionario "felice", da quel traguardo
siamo ancora abbastanza lontani. Se a qualcosa è servita la crisi, è stato
a dimostrare quanto le società avanzate siano ancora lontane da tale
condizione, e quanto poco siano pronte a fermarsi già ora.
E tuttavia, rallentamento e declino non sono l'unica possibilità che
abbiamo di fronte. L'equazione della crescita ci mostra anche la
seconda faccia della luna: le altre grandi forze che influenzano la
crescita - capitale umano, pressione fiscale, istituzioni economiche -
sono tutte governabili. Se vogliamo, possiamo intervenire per
modificarle, e i risultati che otterremo saranno tanto migliori quanto più
saremo stati capaci di individuare le nostre debolezze e i nostri ritardi:
nessun sistema economico-sociale è impermeabile al cambiamento, e
nel gioco della crescita gli handicap possono diventare opportunità,
l'arretratezza - come notava il grande storico dell'economia Alexander
Gerschenkron più di mezzo secolo fa - può trasformarsi in un
vantaggio:
L'industrializzazione è sempre parsa tanto più promettente quanto più
grande era lo stock di innovazioni tecnologiche che il paese arretrato
poteva rilevare dal paese più avanzato. Le tecnologie prese a prestito ...
sono state uno dei fattori più importanti che hanno assicurato un elevato
ritmo di sviluppo in una società arretrata.5
Quel che è cambiato, rispetto ai tempi di Gerschenkron, è che oggi
l'imitazione di cui dobbiamo essere capaci non è tanto di prodotti e di
tecnologie, ma di istituzioni e di politiche. Se vogliono tornare a
crescere, le società avanzate in crisi devono modificare radicalmente le
proprie istituzioni, dal mercato del lavoro alla burocrazia, e puntare
decisamente sulle uniche due politiche che possono fare la differenza:
più investimenti in capitale umano, meno tasse sulle imprese.
Da italiano, vorrei aggiungere: la ricetta fondamentale per uscire
dalla crisi è non fare come l'Italia, stare il più lontano possibile
dall'atteggiamento italiano.
Qual è il nucleo dell'atteggiamento italiano?
È qualcosa che ci viene da lontano, dalla nostra storia. Da secoli
invasi, dominati, calpestati dallo straniero, noi italiani abbiamo
maturato la convinzione che il mondo esterno sia la chiave di tutto. Ieri
accoglievamo lo straniero come un liberatore, perché non riuscivamo a
immaginare alcun modo di liberarci che non fosse quello di cambiare
padrone. Oggi coltiviamo l'idea che non solo i nostri mali, ma anche la
nostra salvezza, possano provenire esclusivamente dall'esterno. Così
non solo attribuiamo i nostri guai alla crisi, ai mercati finanziari, ai
vincoli europei, alla moneta comune, ma ci illudiamo che dalla crisi
potremo uscire grazie agli altri: la ripresa dell'economia mondiale, che
dobbiamo solo "agganciare"; le autorità europee, che dovrebbero essere
un po' più flessibili sui nostri conti pubblici; la Banca centrale europea,
che dovrebbe darci una mano acquistando buoni del Tesoro. Il
vittimismo e il fatalismo sono ormai parte integrante del carattere
nazionale,6 una sorta di DNA da cui ci è difficile liberarci.
Eppure ci si deve provare. Ci dobbiamo provare noi italiani, ci
devono provare i paesi che non pensano di essere già arrivati.
Certo, tutti dobbiamo fare i conti con il meccanismo del drago-
balena, per cui la crescita crea benessere, e il benessere tende a
spegnere la crescita. Ma nessuna delle economie avanzate è obbligata a
soccombere: i draghi si possono anche sfidare, e in giro per il mondo
c'è chi ha già cominciato a farlo.
Anatre

1. Fonti e definizioni

Le analisi condotte in questo libro si basano su otto fonti principali:


Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (OCSE), Fondo
monetario internazionale (FMI), Banca mondiale (BM), Penn Tables,
database di Maddison, UNCTAD (United Nations Conference for Trade
and Development), Pwc (PricewaterhouseCoopers), KPMG.
Le stime dell'equazione della crescita coinvolgono 1 variabile
dipendente (il tasso di crescita g) e 6 variabili indipendenti, o "forze" (il
reddito pro capite y, e le altre determinanti della crescita).
A seconda del contesto, queste sette variabili vengono indicate con
due notazioni diverse.
Significato delle variabili Notazione 1 Notazione 2 Tasso di crescita g
g Reddito y y Capitale umano H z1 Tassazione delle imprese T z2
Qualità istituzioni economiche I z3 Saldo degli investimenti diretti
esteri F z4 Accelerazione degli investimenti diretti esteri A z5 La
notazione 1 è quella prevalentemente usata nel testo. La notazione 2 è
quella usata nell'appendice sulle stime.
Le variabili g, y, T, F (fast variables) possono variare sia nello spazio
sia nel tempo, e quindi possono comparire con due pedici, per il paese
(n) e per l'anno (t).
Le variabili H e I (slow variables), invece, si modificano molto
lentamente. Vista la brevità del periodo da noi considerato (12 anni),
sono state considerate costanti nel tempo. Esse compaiono quindi con
un solo pedice, quello relativo al paese (n).
Le definizioni delle variabili sono del tutto simili nelle versioni del
modello in "cross-section" (versione CROSS) e "pooled" (versione
POOLED).
Il tasso di crescita annuale al tempo t (gt) è definito come incremento
percentuale del reddito pro capite fra l'anno t e l'anno t - 1:
gt = (yt - yt - 1) / yt
Il tasso di crescita del periodo 1995-2007 è la media aritmetica dei 12
tassi di crescita annuali.
Il reddito pro capite a parità di potere di acquisto (yt) è quello
risultante dalle Penn Tables (versione 2012). Nelle analisi CROSS il
reddito si riferisce al 1995, ossia all'anno a partire dal quale viene
calcolato il primo tasso di crescita (1995-1996) del periodo 1995-2007.
Nelle analisi POOLED il reddito è quello dell'anno di appoggio, ossia
dell'anno sulla base del quale viene calcolato il tasso di crescita.
Il capitale umano (z1) coincide con una delle variabili usate da
Hanushek e Woessmann nelle loro "growth regressions", e
precisamente con la percentuale di studenti delle scuole primarie e
superiori che raggiungono o superano un livello base di abilità (basic
skills) in matematica e scienze (Hanushek, Woessmann 2011).
La tassazione sulle imprese (z2) è misurata in due modi. Nelle analisi
POOLED è semplicemente l'aliquota dell'imposta societaria, quale
rilevato dalla KPMG fin dal gennaio 1993.1 Nel caso delle analisi
CROSS, invece, abbiamo preferito combinare due fonti distinte: la
fonte KPMG, i cui dati si estendono dal 1993 a oggi, e la fonte Pwc, i
cui dati partono solo dal 2005. Le due fonti sono state combinate
costruendo una media fra la tassazione sulle imprese nel 1995 secondo
KPMG e la tassazione nel 2005 secondo Pwc. La tassazione sulle
imprese, secondo la fonte Pwc, è data dal TTR (Total Tax Rate) al netto
della tassazione sul lavoro.
Nelle regressioni CROSS la variabile z2 compare come media fra la
pressione fiscale all'inizio dell'anno considerato e la pressione fiscale
all'inizio dell'anno precedente.
La qualità delle istituzioni economiche (z3) è stata misurata
combinando, mediante un'analisi in componenti principali, tre
indicatori di "amichevolezza" delle istituzioni economiche (burocrazia,
fisco, giustizia civile) nei confronti dell'attività di impresa:
a) numero di ore di lavoro necessarie a un'impresa per pagare le tasse
sul lavoro (fonte Pwc);
b) numero di anni necessari per recuperare i crediti in caso di
fallimento dell'impresa (fonte BM, indagine Doing Business);
c) costo per risolvere dispute contrattuali in percentuale del valore
della disputa (fonte BM, indagine Doing Business).
Per ciascuno dei tre indicatori abbiamo utilizzato il dato più remoto
disponibile (2006 per la fonte Pwc, 2003 per la fonte Doing Business).
Il flusso degli investimenti diretti esteri (z4) è stato calcolato come
differenza fra flussi in entrata e flussi in uscita, facendo una media
ponderata fra i saldi degli anni dal 1998 al 2003, con decadimento
esponenziale dei pesi (fonte UNCTAD).2
L'accelerazione degli investimenti diretti esteri (IDE) entro il periodo
da noi studiato (z5) è stata misurata con i residui di regressione della
variazione del saldo degli IDE (dal 1995-1997 al 1997-2003) sul suo
livello medio misurato con la z4. Ciò fa sì che la z4 e la z5 siano tra
loro ortogonali.
2. Organizzazione dei dati

I dati sono organizzati in quattro database, di cui 3 in cross-section e


uno in modo spazio-temporale, o pooled (paese × anno).
Database 1

È organizzato in cross-section (record: paese o insieme di paesi, N =


135) e contiene le serie 1959-2011 della popolazione, del reddito (a
parità di potere di acquisto), del reddito pro capite dei più importanti
paesi o insiemi di paesi del mondo.
Per il periodo fino al 2007 abbiamo usato le stime del database di
Maddison (versione 2010), che presenta dati dall'anno 1 d.C. al 2008
per tutti i paesi del mondo, talora parzialmente aggregati tra loro.3 Per
gli ultimi 4 anni (dal 2008 al 2011) abbiamo prolungato le serie di
Maddison raccordandole con quelle della BM e dell'OCSE.
Lo chiameremo MAD.
È la base dei dati presentati nel capitolo I, in particolare quelli sul
divario e la diseguaglianza fra paesi.
Database 2

È organizzato in cross-section (record = paese Ocse, N = 34) e


contiene alcune centinaia di variabili che possiamo classificare in due
gruppi:
a) variabili che potrebbero influire sulla crescita, ma non compaiono
nella nostra equazione (capitolo VII);
b) variabili utilizzate per l'analisi degli anni della crisi (capitolo XIV
e capitolo conclusivo "Che fare?").
Lo chiameremo OCSE.
Database 3

È organizzato in cross-section (N = 32), e contiene le 7 variabili


fondamentali con cui abbiamo stimato l'equazione della crescita nella
versione CROSS (vedi Anatra 3).
I 32 casi corrispondono a tutti i paesi aderenti all'OCSE nel 2012 (34
paesi) eccetto Islanda e Lussemburgo, la cui popolazione non raggiunge
il milione di abitanti.
Le fonti utilizzate sono:
a) le Penn Tables (versione 2012) per il reddito pro capite a parità di
potere d'acquisto (y) e il tasso di crescita (g);
b) Hanushek e Woessmann (2011) per il capitale umano (z1);
c) KPMG e Pwc per la pressione fiscale sulle imprese (z2);
d) BM (Doing Business) e Pwc per la qualità delle istituzioni
economiche (z3);
e) UNCTAD (2013) per il saldo degli investimenti diretti esteri e la
sua dinamica (z4 e z5).
Lo chiameremo CROSS.
Database 4

È organizzato in versione POOLED (N = 384), con 32 paesi e 12


anni (1996-2007). Contiene le 7 variabili fondamentali (correnti e
ritardate) con cui abbiamo stimato l'equazione della crescita nella
versione POOLED.
Le fonti sono le medesime del database 3.
Lo chiameremo POOL.
3. Stime
La stima dell'equazione della crescita presenta i consueti problemi e
sottoproblemi econometrici che si incontrano in questo tipo di studi:
simultaneità, endogeneità, errori di misurazione nei regressori, cattiva
specificazione, eterogeneità, variabili omesse.4 A questi problemi, cui
prestano particolare attenzione gli econometrici, si aggiungono poi altri
problemi, come la presenza di outlier e la robustezza delle stime, che da
diversi decenni sono ai primi posti in campi adiacenti all'econometria,
come la psicometria e l'analisi dei dati.5
Per tenere conto di queste numerose e interconnesse fonti di
distorsione, in questo studio abbiamo adottato alcune misure
precauzionali, che possiamo riassumere così.
Primo: restrizione dell'ambito di osservazione. Anche noi, come altri
studiosi, siamo convinti che la tradizione delle "regressioni alla Barro"
si sia spinta un po' troppo in là nell'ampliare il numero di paesi presi in
considerazione e la lunghezza del periodo di osservazione. Studiare
quasi tutti i paesi del mondo su periodi di 20-30 anni equivale a fare
l'assunzione "eroica" che i parametri del modello non varino né nello
spazio né nel tempo. L'assunzione è audace perché l'evidenza empirica
suggerisce invece che economie avanzate ed economie arretrate
possano funzionare secondo pattern diversi (Grier, Tullock 1989;
Mankiw, Romer, Weil 1992; Durlauf, Kourtellos, Minkin 2001;
Bernanke, Gürkaynak 2002; Hanushek, Woessmann 2011). Quanto al
ruolo del tempo, è perlomeno lecito dubitare che i parametri strutturali
che governano la crescita delle economie avanzate (il nostro oggetto di
studio) siano rimasti costanti, poniamo, prima e dopo gli shock
petroliferi degli anni Settanta, o prima e dopo il decollo della
globalizzazione (inizio anni Novanta).
Sul piano statistico, la nostra doppia restrizione (studiare solo i paesi
OCSE, e considerare solo i 12 anni dal 1996 al 2007), presenta almeno
due vantaggi: innanzitutto, riduce fortemente i problemi di eterogeneità;
in secondo luogo attenua quelli di "causalità inversa", ovvero il rischio
di distorsioni connesse al fatto che alcune variabili indipendenti (per
esempio lo stock del capitale umano) possono essere non solo cause ma
anche effetti della crescita.
Secondo: strumentare. In tutte le stime dell'equazione della crescita le
tre variabili fast (y, z2, z4) sono sempre strumentate, o implicitamente
(attraverso la loro sostituzione con sé stesse ritardate di uno o due anni),
o esplicitamente, ricorrendo a procedure di stima basate sulle variabili
strumentali. Gli strumenti adottati, tuttavia, sono di tipo "interno" (le
medesime variabili ritardate di 1 o più periodi), perché anche noi, come
Mankiw, Romer e Weil nel loro celebre articolo del 1992, riteniamo che
trovare buoni strumenti "esterni" sia un'impresa quasi disperata. Meglio
strumenti imperfetti ma ragionevoli, che veri strumenti altamente
discutibili.6
Terzo: più di una stima. Nel nostro lavoro abbiamo stimato diverse
varianti dell'equazione della crescita, e per alcune di esse siamo ricorsi
a più di un metodo di stima, o a più di una definizione delle
osservazioni devianti.
Quanto alla forma dell'equazione della crescita, le varianti
fondamentali sono tre: la forma Gompertz, utilizzata nel capitolo VI
con dati in cross-section;7 la forma Richards a intercetta (D) costante e
coefficiente (B) variabile (Richards-1), stimata su dati panel e utilizzata
per le simulazioni dei capitoli XII e XIII; la forma Richards a intercetta
variabile e coefficiente costante (Richards-2) usata nelle stime panel di
tipo econometrico.

dove NLLS indica la stima di un'equazione non lineare nei parametri


mediante il metodo dei minimi quadrati, e 2SLS e GMM stanno, come
di consueto, per metodo delle variabili strumentali (minimi quadrati a
due stadi) e metodo dei momenti generalizzato.
Il termine y0 indica il reddito nell'anno di appoggio, che nel caso dei
modelli in cross-section è il 1995, nel caso dei modelli su dati panel è
l'anno t - 1. Il termine z (nelle due varianti zn e znt) è una combinazione
lineare delle variabili che misurano i fondamentali dell'economia, ossia
z1, z2, z3, z4 e, nel caso della stima CROSS, anche z5. Il termine ct è
una combinazione lineare di variabili dummy che serve a tenere conto
della congiuntura.8 La funzione ?(znt) è una funzione che dipende dalle
variabili che costituiscono znt e permette al termine Bnt di variare nello
spazio (fra paesi) e nel tempo (fra anni).
Quarto: più di un database, più di un dataset. Sia le stime in cross-
section (32 paesi, database 3), sia quelle su dati panel (32 paesi × 12
anni, database 4) sono state condotte su differenti insiemi di casi,
cercando di minimizzare l'influenza delle osservazioni devianti. La
stima dell'equazione Gompertz è stata effettuata sia su 32 casi, sia su
31, eliminando l'Ungheria (il caso più anomalo del database). Le stime
dell'equazione di Richards sono state condotte su 356 casi (92,3% delle
osservazioni, 28 outliers soppressi) ma, per controllo, sono state
ripetute su un dataset quasi completo, ovvero privato di un unico outlier
(la Corea del Sud nel 1998) la cui natura di outlier è incontrovertibile.
Gli outlier del database POOLED sono stati individuati sia in base
all'ampiezza dei residui di regressione, sia in base al grado di normalità
della distribuzione dei residui.9
I parametri B e D sono sempre frutto di stime. Il parametro H è stato
stimato con l'equazione Richards-1 e "passato" alla Richards-2 (la
funzione di perdita del modello econometrico è sostanzialmente piatta
rispetto a H, il che sconsiglia una determinazione endogena di H).
Le tre equazioni hanno funzioni diverse. L'equazione Gompertz ha
essenzialmente la funzione di determinare l'importanza relativa delle
quattro forze fondamentali che influenzano il tasso di crescita.
L'equazione Richards-1 ha tre funzioni distinte: stabilire se l'equazione
della crescita è di tipo Verhulst, Solow, Romer o anti-Verhulst (capitolo
XII); fornire una stima del parametro H; stimare i parametri per le
simulazioni dei capitoli XII e XIII.
L'equazione Richards-2, infine, ha la funzione di controllare che gli
impatti individuati in cross-section reggano con una specificazione più
generale (equazione di Richards), con procedure di stima più rigorose
(GMM e 2SLS, quest'ultima su due insiemi di casi) e su un dataset più
ricco (dati POOLED).10
Ed ecco la tabella dei risultati delle analisi.
Gompertz Richards-1 Richards-2 GMM 2SLS A B A B H - - -0,235
[0,235] [0,235] [0,235] D 10,161 (0,000) 9,876 (0,000) -0,0981 -0,0967
(0,000) -0,0954 (0,000) -0,1026 (0,000) B -2,401 (0,000) -2,303 (0,000)
0,2691 0,2653 (0,000) 0,2616 (0,000) 0,2764 (0,000) b1 0,585 (0,000)
0,660 (0,000) 0,374 0,0086 (0,000) 0,0079 (0,000) 0,0093 (0,000) b2
0,452 (0,000) 0,394 (0,001) 0,192 0,0044 (0,000) 0,0033 (0,013)
0,0033 (0,035) b3 0,452 (0,000) 0,419 (0,001) 0,168 0,0030 (0,011)
0,0029 (0,017) 0,0044 (0,002) b4 0,483 (0,000) 0,549 (0,000) 0,091
0,0038 (0,012) 0,0029 (0,197) 0,0034 (0,114) b5 0,399 (0,000) - - - - -
N 32 31 356 356 356 383 Adj. R2 0,907 0,877 0,497 0,470 0,490 0,331
Shapiro-Wilk 0,398 0,139 0,381 0,219 0,355 0,000 Errore medio
0,3317 0,4106 1,07 1,07 1,06 1,40 Hansen J - - - p = 0,071 p = 0,071 p
= 0,064 Le significatività sono eccezionalmente buone nel caso della
stima in cross-section, e reggono il passaggio alle stime econometriche.
L'unico coefficiente la cui significatività statistica non è sempre
soddisfacente è quello degli investimenti diretti esteri, che
verosimilmente ha risentito più degli altri della soppressione degli
outlier.11 I valori del test di Shapiro-Wilk, del tutto insoddisfacenti nel
caso 2SLS con eliminazione di 1 solo outlier (colonna B), ma
decisamente buoni nelle analisi sui dataset ridotti, confermano
l'opportunità di lavorare su un dataset ridotto.
Le stime dei parametri D, B, H consentono anche, entro certi limiti,
di ricavare alcuni parametri caratteristici del modello di Solow:
produttività marginale del capitale (a), reddito di equilibrio (y*), tasso
di convergenza (ß), parametro malthusiano (µ), ovvero somma del tasso
di crescita della popolazione (n) e del tasso di deprezzamento del
capitale (d), che con questa specificazione non sono stimabili
separatamente.
Gompertz Richards-1 Richards-2 GMM 2SLS A B A B a - - 0,8099
[0,8099] [0,8099] [0,8099] y* 68,9 72,9 73,8 73,3 73,2 67,9 ß 0,02401
0,02303 0,0230 0,0227 0,0224 0,0241 µ - - 0,1211 0,1194 0,1178
0,1267 apogeo - - 1998,1 1997,8 1997,7 1995,2 N 32 31 356 356 356
383 Come si vede, nonostante le diversità di equazione, procedura di
stima, dataset, i risultati sono piuttosto coerenti. Il reddito di equilibrio
y* è compreso fra 67,9 e 73,8. Il tasso di convergenza è
straordinariamente stabile (tra il 2,2 e il 2,4%), e sostanzialmente in
linea con i valori trovati in letteratura, quasi sempre ancorati al
"leggendario" valore del 2% (Abreu, de Groot, Florax 2005). Il valore
del parametro malthusiano µ, sempre piuttosto vicino al 12%, è invece
sensibilmente superiore ai valori normalmente ipotizzati o stimati in
letteratura, spesso prossimi alla metà del valore da noi trovato (un fatto
che si può leggere come inadeguatezza del modello, oppure come
indizio di un deprezzamento del capitale più rapido che in passato).
L'anno di apogeo stimato, infine, è sempre (tranne nella stima che
include 27 outlier su 28: ultima colonna) vicinissimo a 1998, ossia
all'anno di apogeo effettivo: è precisamente in quell'anno, infatti, che la
velocità di crescita media dei paesi OCSE ha toccato il suo massimo
storico.
4. Modello di Solow
Si fa presto a dire "modello di Solow". In realtà, di modelli di Solow,
ce ne sono parecchi, stando al suo bellissimo articolo del 1956, A
Contribution to the Theory of Economic Growth. Ma nessuno di essi
coincide con ciò che, di norma, gli viene attribuito nei testi di
economia.
Non è grave, perché le differenze fra le molte versioni del modello di
Solow non sono particolarmente importanti, ma crea un mucchio di
confusione, soprattutto nella notazione.
Vediamo dunque di fare un po' di ordine.
In una parte della letteratura successiva il modello di Solow viene
presentato partendo da una funzione di produzione Cobb-Douglas
scritta così:

dove Y è il prodotto, K e L sono i fattori di produzione (capitale e


lavoro), a è un parametro che riflette l'importanza relativa del capitale
rispetto al lavoro nel processo produttivo, A è un parametro che dipende
sia dalle unità di misura delle variabili (Y, K, L) sia dall'efficienza della
tecnologia.
Talora, invece, il termine At viene accorpato al lavoro e il modello
diventa:

e il prodotto At Lt viene interpretato non come numero di unità


(grezze) di lavoro impiegate nel processo produttivo ma come numero
di unità effettive, o "unità di efficienza", termine con il quale si designa
l'entità dell'input di lavoro tenuto conto delle conoscenze tecnologiche
che esso incorpora.
In altri casi ancora, il termine A è costante (non dipende dal tempo), o
addirittura scompare:

oppure:
Queste ultime due forme vengono usate quando si fa riferimento al
modello di Solow nella sua versione più semplice, quella senza
progresso tecnico (che è anche quella usata da noi).
Molto raramente, per non dire quasi mai, la funzione di produzione
del modello di Solow viene presentato nella sua forma originaria, che
non imponeva affatto il ricorso a una funzione di produzione Cobb-
Douglas. La funzione di produzione ipotizzata da Solow:
Y = F(K,L)

è molto generale, e impone solo la costanza dei rendimenti di scala:


? Y = F(? K, ? L)

il che, in sostanza, significa che una modificazione di entrambi gli


input di una fattore ? determina una variazione dell'output della
medesima entità.
È solo a un certo punto dell'articolo che Solow considera alcuni tipi
particolari di funzioni (3 in particolare), tra cui anche la funzione Cobb-
Douglas.
Ma anche per quanto riguarda l'equazione fondamentale che "muove"
il sistema la letteratura successiva si discosta dal modello originario di
Solow.
Nell'articolo del 1956 l'equazione di moto fondamentale è:
dK / dt = s Yt = s F(Kt, Lt)

che in sostanza dice che la variazione dello stock di capitale (ossia


l'investimento) è una frazione costante (s) del prodotto Y, dove il
simbolo s sta per saving (risparmio) e indica che il reddito risparmiato
(non consumato) è interamente investito.
Nella letteratura successiva l'equazione diventa invece:
dK / dt = s Yt - d Kt = s F(Kt, Lt) - d Kt

dove compare il nuovo termine d K, che indica la diminuzione dello


stock capitale dovuta al suo deprezzamento, assunto pari a una frazione
costante (d). Curiosamente il termine d compare in quasi tutta la
letteratura successiva, ma è del tutto assente nell'articolo del 1956 su
cui tale letteratura afferma di appoggiarsi. Solow comincerà a prendere
sul serio il problema del deprezzamento del capitale solo l'anno dopo
(1957), nell'articolo Technical Change and the Aggregate Production
Function.
Già solo a considerare queste tre scelte (3 forme della funzione di
produzione, presenza o assenza di progresso tecnico, inclusione o meno
del termine d nell'equazione di moto del capitale) otteniamo 3 × 2 × 2 =
12 varianti del modello di Solow.
Si potrebbe aggiungere, su un piano meno matematico e più
economico, o interpretativo, che il termine L in Solow rappresenta gli
occupati totali, mentre in molti lavori successivi rappresenta la
popolazione, il che consente di interpretare il rapporto Y / L come
reddito per abitante (una scelta che abbiamo fatto anche noi).
Considerate tutte queste possibilità, compresa l'ultima (occupati o
popolazione) ci sono ben 24 modi di formalizzare e interpretare il
modello di Solow. Per quanto ci riguarda il "nostro" Solow è quello
che:
a) usa una funzione di produzione Cobb-Douglas;
b) non usa le unità di efficienza (L A), e quindi interpreta A come
livello della tecnologia;
c) non introduce il progresso tecnologico (At è una costante, e quindi
si può scrivere A);
d) interpreta L come popolazione, e quindi Y / L come reddito per
abitante.
Conseguentemente, le due equazioni base del modello di Solow
diventano:

Da queste due equazioni di partenza, assumendo una crescita


demografica costante e pari a n, si possono ricavare tutte le equazioni di
moto del sistema economico, dove per "equazione di moto" intendo
un'equazione che descrive l'evoluzione di una delle tre variabili chiave
(Y, K, L) o dei loro rapporti, in particolare:
y=Y/L

k=K/L

x=K/Y=k/y

Se la funzione di produzione è Cobb-Douglas, il modello di Solow


può essere svolto così.
1. Sfruttando il fatto che la funzione di produzione è omogenea di
grado 1, la si riscrive in termini "intensivi", ossia come relazione fra il
reddito per addetto (y) e il capitale per addetto (k):
y = A ka

dove il fattore lavoro è scomparso in quanto L / L = 1.


Si noti che, dopo questa riscrittura, diventa particolarmente semplice
definire le tre grandezze relative y, k e x l'una in funzione dell'altra.

Come si vede dalla tabella, una volta nota una sola delle tre
grandezze y, k, x, è immediato ricavare le altre due.
2. L'equazione di moto del sistema, che descrive gli incrementi
assoluti del capitale (dK / dt), viene divisa per Kt, e diventa quindi
un'equazione che descrive gli incrementi relativi del capitale (gK),
ovvero l'incremento percentuale annuo dello stock di capitale:
dK / dt / Kt = gK = s Yt / Kt - d

3. Assumo che il fattore lavoro (L) cresca a un tasso costante, pari a


n:
Lt = ent

4. Conoscendo il tasso di crescita del fattore lavoro (gL = n),


l'equazione degli incrementi relativi del capitale (gK) può essere
trasformata in un'equazione degli incrementi relativi del capitale per
addetto (gk):
gk = gK - gL = s Yt / Kt - d - n = s Yt / Kt - (d + n) =

= s Yt / Kt - µ = s / xt - µ

dove, per comodità, abbiamo posto d + n = µ.


Si vede bene che il tasso di crescita del capitale dipende
(inversamente) dal rapporto capitale / prodotto (x), e l'equazione di
moto del sistema contiene due soli parametri: il tasso di risparmio s e il
parametro malthusiano µ, che condensa in sé i due fondamentali
processi di deterioramento del sistema: la crescita della popolazione,
che riduce l'ammontare di reddito nazionale a disposizione di ogni unità
di lavoro, e il deprezzamento del capitale, che costringe a reinvestire
una frazione del reddito prodotto per mantenere costante lo stock di
capitale.
5. Una volta scritta l'equazione di moto del capitale (k), grazie alla
funzione di produzione e alle relazioni fra y, k, x che essa induce
possiamo ricavare le equazioni di moto di ciascuna delle tre grandezze,
e anche scriverle sotto forma di equazioni differenziali autonome.
Prima di procedere, un'osservazione. Se si è interessati all'analisi
empirica, l'utilità delle tre equazioni non è la medesima. Mentre infatti
esistono statistiche nazionali e internazionali abbastanza accurate (e
abbastanza lunghe) per il reddito e la popolazione (o la forza lavoro), lo
stesso non si può dire per lo stock di capitale.12 Un controllo empirico
del modello di Solow, quindi, può essere effettuato facilmente se quel
che si vuole riprodurre è la serie storica del reddito, o del reddito per
addetto, ma è molto più difficile da progettare se quel che si intende
riprodurre è la serie storica del capitale, o del rapporto capitale /
prodotto. Nonostante ciò, curiosamente, la letteratura sul modello di
Solow ha quasi sempre snobbato l'equazione di moto di y,
concentrandosi invece sull'equazione di moto di k e, più raramente, su
quella di x.
6. Vediamo ora, separatamente, le tre equazioni di moto di k, x, y. Per
l'equazione di moto di k basta partire dall'equazione che abbiamo già
ricavato (punto 4):
gk = s / xt - µ
e sostituire a xt la sua espressione in funzione di kt (vedi specchietto
del punto 1):
x = A - 1 k(1 - a)

Dopo la sostituzione, si ottiene:

Questa equazione non è altro (riprendendo la terminologia del


capitolo XI) che l'equazione di accrescimento dell'intensità di capitale.
Essa ci dice, per ogni possibile livello raggiunto da k a un dato istante t,
a che tasso esso crescerà nel periodo immediatamente successivo.
Da questa equazione, naturalmente, possiamo risalire all'equazione
differenziale soggiacente semplicemente moltiplicando per kt:

Questa è un'equazione differenziale (non lineare) di Bernoulli, di cui


esiste una soluzione generale in forma chiusa (Sato 1963; Jones 2002;
Irmen 2004; Lei, Zhang 2004). Se, come nel caso del modello di Solow,
i coefficienti di k e ka dell'equazione in forma canonica13 sono del
medesimo segno, la soluzione assume questa forma:

dove k0 indica lo stock iniziale di capitale pro capite.


La soluzione permette, una volta noti sia lo stock iniziale di capitale
pro capite (k0) sia i valori dei coefficienti (sA, - µ) posti davanti a kta e
kt, di ricavare la traiettoria di k nel tempo.
7. Una volta individuata una delle tre equazioni differenziali che ci
interessano (quella in k), si può usare la chain rule per ricavare le altre
due (quella in x e quella in y):
dx / dt = (dx / dk)(dk / dt)

dy / dt = (dy / dk)(dk / dt)

Poiché dk / dt è nota, si tratta solo di usare le relazioni funzionali di x


e y con k (specchietto del punto 1) per ricavare le due relative derivate.
8. Il risultato sono le due equazioni seguenti:

La prima descrive la dinamica del rapporto capitale / prodotto (x), ed


è una semplice equazione differenziale lineare non omogenea a
coefficienti costanti.
La seconda descrive la dinamica del reddito pro capite (y), ed è
anch'essa, come l'equazione dell'intensità di capitale, un'equazione
differenziale non lineare di Bernoulli, sempre a coefficienti costanti.
9. Dalle due equazioni precedenti, dividendo rispettivamente per x e
per y, possiamo ottenere le corrispondenti equazioni di crescita relativa:

È il caso di notare che quest'ultima equazione fa dipendere il tasso di


crescita del reddito pro capite (gy) dal livello raggiunto dal reddito
stesso (yt), due quantità entrambe facilmente ricavabili dalle serie
storiche dei conti nazionali della maggior parte dei paesi (e della totalità
dei paesi OCSE). Come abbiamo visto nel capitolo XI, questa
equazione è un caso speciale dell'equazione di Chapman-Richards:

da cui differisce, essenzialmente, perché pone limiti piuttosto


stringenti ai valori (segno e ordine di grandezza) dei tre parametri H, B
e D.
10. Le tre equazioni differenziali in k, x, y descrivono la dinamica del
sistema economico prima del raggiungimento dello stato stazionario
che, nel caso di assenza di progresso tecnico, implica l'invarianza nel
tempo di k, x, y. Dalle medesime equazioni, tuttavia, è facile ricavare
anche i valori dei rispettivi stati stazionari (basta annullare le relative
derivate, e trascurare il caso in cui il capitale e il reddito sono zero).
Eccoli:
k* = A1/(1 - a) (s / µ)1/(1 - a)

x* = s / µ
y* = A1/(1 - a) (s / µ)a/(1 - a)

Si può osservare che dei 4 parametri fondamentali del modello di


Solow (s, µ, A, a) i primi due influenzano tutte e tre le variabili del
sistema (k, x, y), mentre gli ultimi due (A, a) influenzano il reddito pro
capite e il capitale per addetto finali ma non il rapporto capitale /
prodotto di stato stazionario.
Il saggio di risparmio (s) innalza i valori finali di y* e k*, mentre il
tasso di crescita della popolazione (n), incorporato nel parametro
malthusiano µ, li abbassa. A parità di altre condizioni, sono destinati a
diventare più ricchi quei paesi che hanno il maggior saggio di risparmio
e la minore crescita demografica.
11. Dalla meccanica interna del modello di Solow è anche possibile
ricavare due parametri impliciti ulteriori: ß e ?.
Il parametro ß esprime la velocità di convergenza all'equilibrio (cioè
allo stato stazionario) ed è dato dal prodotto fra la produttività
marginale del lavoro (1 - a) e il parametro malthusiano µ:
ß = (1 - a) µ

Il parametro ? esprime la cosiddetta "golden rule" del risparmio


(Phelps 1961, 1966), ossia il livello ottimale di propensione al
risparmio:
?=a

Si può ricavare massimizzando la funzione che, nello stato


stazionario, collega il consumo pro capite al risparmio:
c* = y* (1 - s)

Il risultato, ?, si interpreta come il saggio di risparmio s* che assicura


che, date le altre caratteristiche del sistema (A e µ), nello stato
stazionario il consumo pro capite sia il massimo possibile.
5. Il luna park dei demografi
È strano, ma non esiste un termine, una singola parola, per designare
la vastissima area di studi che si occupa della crescita degli organismi
viventi. Di crescita si occupano discipline generali come la demografia,
la dinamica delle popolazioni, l'ecologia, la biologia, la zoologia, la
genetica delle popolazioni, ma anche discipline specifiche, definite dal
particolare tipo di organismi e di popolazioni studiate, per esempio la
demografia umana, la scienza forestale, la scienza della pesca.
Nel corso di questo libro noi siamo ricorsi perlopiù a una scorciatoia
terminologica, quella di usare il termine demografia in senso ampio, per
riferirci al complesso di questi settori di studio. Il riferimento a un
ambito così vasto di studi ci è servito a isolare un tipo di equazione,
l'equazione di Chapman-Richards, abbastanza generale da includere
come casi speciali molte differenti ipotesi sulla evoluzione delle
economie dei paesi avanzati. La nostra, tuttavia, non è certo l'unica
scelta possibile. Il luna park dei demografi comprende molte più
attrazioni di quelle che abbiamo raccontato fin qui. Perché la storia di
queste discipline è la storia di un doppio movimento.
C'è stato un primo lungo periodo che ha visto una straordinaria
proliferazione di modelli matematici di crescita. Questo periodo inizia
nella prima metà dell'Ottocento, con l'invenzione delle curve di
Gompertz (1825) e di Verhulst (1838) che possono essere usate sia per
descrivere i processi di crescita di un organismo, sia per descrivere
l'evoluzione di una singola popolazione; prosegue negli anni Venti del
Novecento con le equazioni di Lotka e Volterra, che descrivono
l'interazione fra una popolazione di prede e una di predatori (Lotka
1925; Volterra 1926); prosegue ancora fra gli anni Trenta e gli anni
Cinquanta soprattutto con i contributi di due biologi: il britannico Peter
Medawar (premio Nobel nel 1960) e l'austriaco Ludwig von
Bertalanffy, membro del Circolo di Vienna, fondatore della teoria dei
sistemi, e inventore di uno dei più importanti modelli di crescita di un
singolo organismo (Bertalanffy 1957); e infine esplode fra gli anni
Cinquanta e gli anni Ottanta con l'invenzione di centinaia di modelli di
crescita, sviluppati negli ambiti disciplinari più diversi: biologia
marina, scienza della pesca, scienza forestale, studio dei
microorganismi, ecologia umana e animale, dinamica delle popolazioni.
Già alla fine degli anni Ottanta, per esempio, Kiviste ne contava ben 75
nel solo delimitato campo della scienza forestale, una disciplina molto
sviluppata, con riviste scientifiche iperspecializzate,14 soprattutto in
paesi con vasti territori boschivi, come il Canada e la Finlandia. Per non
parlare dell'iperproduzione di modelli nelle riviste dedicate alle specie
marine, che si occupano dei meccanismi di accrescimento di singoli
organismi (per esempio le dimensioni dei ricci) e delle fluttuazioni delle
popolazioni di pesci.15
Fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, in particolare, viene
sviluppata l'importante distinzione16 fra due tipi di meccanismi di
competizione fra i membri di una specie: la competizione egualitaria
(detta "di tipo scramble"), tendenzialmente catastrofica per la
sopravvivenza della specie, e la competizione con dominanza (detta "di
tipo contest"), tendenzialmente portatrice di stabilità.17 Questo filone
di ricerca origina soprattutto dagli studiosi di tipo "acquatico", e porterà
alla messa a punto di modelli dinamici via via più complessi, perlopiù
figli dei due modelli considerati capostipiti18 di questa letteratura: il
modello di Ricker, prototipo della competizione di tipo scramble
(Ricker 1954), e il modello di Beverton-Holt, prototipo della
competizione di tipo contest (Beverton, Holt 1957). Da qui si
svilupperanno alcune importanti generalizzazioni dei modelli-base,
come il modello di Maynard Smith e Slatkin e il modello di Hassell,
entrambi proposti intorno alla metà degli anni Settanta (Maynard
Smith, Slatkin 1973; Maynard Smith 1974; Hassell 1975).
Considerando anche il modello di Skellam (proposto nel 1951) e la
versione alle differenze finite dell'equazione logistica (May 1976), il
quadro è il seguente.
Modello Equazione Parametri Riferimenti Quadratico (logistica) yt +
1 = A y + B y2 2 May (1976) Skellam yt + 1 = A (1 - eBy) 2 Skellam
(1951) Ricker yt + 1 = y eA + By 2 Ricker (1954) Beverton-Holt yt + 1
= A y / (1 + B y) 2 Beverton, Holt (1957) Maynard Smith yt + 1 = A y /
(1 + B yC) 3 Maynard Smith, Slatkin (1973), Maynard Smith (1974)
Hassell yt + 1 = A y / (1 + B y)C 3 Hassell (1975) In questo tipo di
letteratura, come si vede dal prospetto, l'equazione che descrive il
processo di crescita è un'equazione alle differenze finite, in cui il livello
di una popolazione al tempo t + 1 è determinato dal suo livello al tempo
t.
Ma esiste anche un'altra linea di sviluppo dei modelli di crescita, che
invece lavora principalmente con le equazioni differenziali. Anch'essa
poggia sui lavori dei classici, da Gompertz a von Bertalanffy, ma si
sviluppa soprattutto in ambito biologico, sia fra gli studiosi "acquatici",
che si occupano di pesci, ricci, specie marine in genere, sia fra gli
studiosi "terrestri", che analizzano la crescita di foreste, piante, animali,
ivi compresi i fossili di organismi vissuti milioni di anni fa.19 Qui i
contributi più importanti consistono nell'individuazione di nuove
equazioni di crescita, spesso più complesse, più generali o più flessibili
di quelle classiche. Alcune di queste equazioni sono assai note: è il caso
di quelle di Chapman-Richards, di Schnute e di Weibull. Altre, non
meno importanti, hanno avuto minor fortuna, verosimilmente perché i
loro autori hanno pubblicato i propri risultati in lingue poco diffuse: è il
caso delle equazioni di Korf e di Levakovic, messe a punto negli anni
Trenta l'una in Cecoslovacchia l'altra in Serbia (Zeide 1993). La
stragrande maggioranza dei contributi di questo filone lavora con
equazioni che, o per la loro struttura, o per le restrizioni imposte ai loro
parametri, sono adatte a descrivere processi di crescita dotati di un
limite superiore, dove la presenza di tale limite può significare due
cose: o che l'organismo converge asintoticamente verso un livello finale
di qualche suo parametro (peso, altezza, diametro) o, più raramente, che
il processo di crescita prevede anche un arresto o una fase
discendente.20
Assai meno interesse, del tutto comprensibilmente, hanno ricevuto i
processi di crescita privi (o meglio apparentemente privi), di un limite
superiore. Ci sono due eccezioni importanti, tuttavia. La prima
l'abbiamo già vista nel capitolo XI, ed è l'equazione di Chapman-
Richards che, per particolari combinazioni dei suoi parametri, appare
del tutto priva di un tetto che ne limiti la crescita. Questo caso è stato
portato all'attenzione della ricerca forestale dal caso delle foreste che si
rigenerano, aiutate da una moria di piante che restituisce spazio a quelle
superstiti. Ma il caso forse più interessante viene dal filone acquatico, e
in particolare dagli studi di Thomas Ebert su una particolare specie di
ricci di mare (Strongylocentrotus franciscanus), che sembrano
accrescersi secondo una traiettoria priva di asintoto, come se - finché
vivono - potessero aumentare di dimensione indefinitamente (Ebert et
al. 1994, 1999; Ebert, Southon 2003). L'assenza di un asintoto esclude
la stragrande maggioranza delle curve utilizzate nella letteratura
biologica, e suggerisce a Ebert di utilizzare una speciale equazione,
dovuta a Masao Tanaka, che prevede precisamente un accrescimento
infinito (Tanaka 1982, 1988). La medesima equazione comparirà,
qualche anno dopo, come concorrente delle più classiche equazioni con
asintoto superiore, in uno studio sulla crescita e la mortalità di una
particolare conchiglia21 nella California settentrionale (Rogers-Bennet,
Rogers, Schultz 2007).
Con l'equazione di Schnute (1981) e l'equazione di Tanaka (1982), la
fase di proliferazione volge al termine ed entriamo in un'era nuova. Il
parco modelli è diventato così ampio che l'esigenza che si impone, poco
per volta, è quella di introdurre un po' di ordine. Anziché dedicarsi a
inventare l'ennesima equazione, diversi studiosi si pongono il compito
di unificare il più possibile quel che è stato prodotto.
Nonostante alcuni precedenti,22 l'opera di unificazione fra modelli ha
ricevuto un impulso fondamentale soprattutto dopo il 1990, e ha
riguardato sia i modelli in cui il tempo varia in modo continuo,
prediletti dai biologi e dagli studiosi di scienza forestale, sia i modelli in
cui il tempo varia in modo discreto (tipicamente: di anno in anno),
prediletti dagli studiosi di dinamica delle popolazioni, comprese le
specie marine più o meno soggette alla pesca.
Nel primo ambito (tempo continuo) un contributo di grande spessore
è venuto soprattutto da due studiosi, Boris Zeide e Oscar García, che
hanno ricondotto a unità 10 fra le più importanti equazioni di crescita,
fra cui le assai note e usatissime equazioni di Verhulst, Gompertz,
Mitscherlich, Richards.23 Essi hanno mostrato che, fondamentalmente,
esiste un'unica equazione-madre, da cui derivano due sottoequazioni
(Richards e Levakovic I), da cui a loro volta derivano 4 + 4
sottoequazioni, secondo la seguente gerarchia:
Figura 31 - Unificazione di Zeide-García

I due gruppi principali - Richards e Levakovic I - differiscono,


fondamentalmente per la velocità con cui agiscono le forze del declino,
più rapidamente con l'equazione di Richards, più lentamente con quella
di Levakovic. Le equazioni situate nel gradino più basso, a loro volta,
altro non sono che casi speciali delle due equazioni intermedie, da cui si
ottengono fissando uno dei relativi parametri.
Nel secondo ambito (tempo discreto), molto lavoro è stato fatto
soprattutto sui cosiddetti "modelli di competizione intraspecifica", in
cui i membri di una medesima specie accedono a uno stock di risorse
limitato. Qui il contributo fondamentale all'unificazione e al
collegamento fra modelli è probabilmente quello di Martinez, Gonzáles
e Espíndola. In un saggio molto denso uscito nel 2009 sulla rivista
"Physica", i tre autori mostrano che i 7 principali modelli di crescita
discreti possono essere generati da un'unica equazione, basata su una
generalizzazione della funzione logaritmo naturale. Qui però il risultato
non è solo una gerarchia di modelli, dal più generale ai più specifici, ma
è una struttura più complessa che - seguendo in parte gli autori -
possiamo provare a rappresentare così.
Figura 32 - Unificazione di Martinez, Gonzáles e Espíndola

Al livello più alto troviamo l'equazione madre, che può assumere le


forme più diverse a seconda del valore di due parametri fondamentali (?
e q, nella notazione degli autori). Dall'equazione madre derivano 4
equazioni di livello intermedio, ottenute fissando uno dei due parametri
fondamentali. E infine, al livello più basso, compaiono tre equazioni
ciascuna delle quali può essere ottenuta in due modi: o dall'equazione
immediatamente sovrastante, fissandone l'unico parametro rimasto
libero, oppure a partire dal modello di Hassell (uno dei 4 figli diretti
dell'equazione madre), anche qui fissandone un singolo parametro.
Da queste due grandi operazioni di unificazione restano fuori ben
pochi modelli, e probabilmente nessuno che non sia facilmente
approssimabile con i "magnifici 10" nel caso continuo e i "magnifici 7"
nel caso discreto.
Non è tutto, però. Accanto a quest'opera di unificazione e
integrazione fra equazioni di cui spesso erano sconosciute le parentele,
ora si sviluppa anche un lavoro di altro tipo, che potremmo definire di
collegamento. Anziché mostrare che l'equazione A e l'equazione B sono
unificate dall'equazione C di cui sono casi speciali, si cerca di gettare
un ponte fra il mondo dei modelli discreti, prediletti dagli studiosi
acquatici e dai demografi in senso stretto, e quello dei modelli continui,
particolarmente diffusi in biologia.
Qui l'idea fondamentale è che sotto ogni modello discreto che
descrive come cambia la numerosità di una popolazione fra un anno e
quello successivo, vi possa e vi debba essere un modello più
fondamentale, che descrive i comportamenti degli individui che
costituiscono quella popolazione. Un programma di ricerche che, a
prima vista, sembra richiamare gli analoghi (e di poco precedenti)
tentativi di "microfondare" l'economia e la sociologia,24 ma che in
realtà si sviluppa lungo linee alquanto diverse. Da un lato, con Royama
prima, con Brännström e Sumpter poi, l'obiettivo è quello di derivare
ogni equazione alle differenze finita classica, che descrive come evolve
l'intera popolazione, da un'equazione soggiacente che descrive le
interazioni fra gli individui che di quella popolazione fanno parte
(Royama 1992; Brännström, Sumpter 2005); un approccio, questo, che
può essere esteso ai modelli predatore-preda (Cosner et al. 1999;
Thieme, Yang 2000). Dall'altro, con Geritz e Kisdi, l'obiettivo è di
generare ogni equazione alle differenze finite, che descrive quel che
succede fra un anno e l'altro, dall'equazione differenziale che descrive
quel che succede all'interno del medesimo anno (Geritz, Kisdi 2004).
La storia che abbiamo provato a raccontare, naturalmente, è ben lungi
dall'essere terminata. Non abbiamo dubbi che il luna park dei
demografi non mancherà, in futuro, di offrirci nuove e interessanti
attrazioni. La speranza è che qualcuna di esse si riveli fruttuosa anche
per chi studia la crescita delle economie e delle società umane.
Note

I. I numeri del declino

1. Ho parlato di "club" per sottolineare il fatto che i criteri di


ammissione all'OCSE non sono né automatici né completamente
espliciti, ma dipendono in modo cruciale dal consenso dei membri già
appartenenti al club: un elevato PIL pro capite non è sufficiente per
l'ingresso, come mostra per esempio l'esclusione di Singapore, un paese
più ricco della Svizzera; e un regime democratico non è sempre
necessario, come mostrano i casi di Spagna e Portogallo, retti da
dittature fasciste fino alla metà degli anni Settanta.
2. L'OCSE, cui aderiscono paesi di tutti i continenti eccetto l'Africa,
nasce nel 1960 e prende il posto di una precedente organizzazione
esclusivamente europea, l'OECE. All'inizio ne fanno parte 20 paesi (i
18 paesi OECE più Stati Uniti e Canada), che salgono a 24 fra il 1964 e
il 1973, con l'ingresso di Giappone, Finlandia, Australia e Nuova
Zelanda. Nel ventennio che va dal 1974 al 1993 nessun nuovo paese
viene ammesso al club, sicché nei primi anni Novanta i paesi membri
sono ancora solo 24. Fra il 1994 e il 2010, anche in seguito alla
dissoluzione dell'Unione Sovietica e all'ingresso di molti dei paesi
satelliti dell'URSS nell'economia di mercato, vengono ammessi altri 10
paesi, portando a 34 il totale.
È forse il caso di aggiungere che in questo libro, con l'espressione
"società avanzate", ci riferiremo sempre all'insieme dei 34 paesi OCSE
come risulta al 2012 (salvo nei casi in cui, a causa delle loro piccole
dimensioni, escluderemo Lussemburgo e Islanda). Questa definizione si
sovrappone solo in parte a quella di "paesi sviluppati" della Banca
mondiale, basata esclusivamente sul reddito pro capite (soglia 12.616
dollari nel 2012).
3. Per "nucleo" dei paesi OCSE intendo l'insieme di 24 paesi che
erano già entrati nel 1973. Questa restrizione si è resa necessaria a
causa della lunghezza (più di mezzo secolo, dal 1960 al 2011) del
periodo da noi esaminato. Nella prima parte di tale periodo molti paesi
attualmente nell'OCSE non esistevano come paesi indipendenti
(Estonia), o non erano nati (Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca), o
semplicemente non erano economie di mercato (Polonia, Ungheria). Il
peso del nucleo dei 24 paesi OCSE sull'insieme di tutti e 34 i paesi
avanzati, calcolato nel 1990 (primo anno dell'era successiva alla caduta
del muro di Berlino), è pari al 91,5% del PIL e all'80,1% della
popolazione (dati Penn Tables).
I dati su cui si basano le figure 1-3 di questo capitolo sono tratti dal
monumentale database di popolazione e PIL (a parità di potere
d'acquisto) costruito da Maddison dall'anno 1 d.C. al 2008 (Maddison
2010), da noi integrato con i dati più recenti della Banca mondiale e del
Fondo monetario internazionale (vedi Anatra 2).
Nelle figure 1 e 2 di questo capitolo il nucleo dei paesi OCSE è
costituito dai 24 paesi già presenti nel 1973, eccetto Islanda e
Lussemburgo, che nel database di Maddison sono accorpati ad altri
piccoli e piccolissimi paesi europei. La Germania è stata inserita nel
nucleo nella sua versione attuale, inclusiva della Germania Est.
4. I calcoli sulle velocità di crescita sono stati effettuati mediante i
dati 1959-2008 del database di Maddison, integrati - per il periodo
2007-2011 - con i dati del Fondo monetario internazionale (vedi Anatra
2). I saggi di crescita sono tassi annuali composti stabilizzati, ottenuti
confrontando il PIL pro capite di un triennio centrato su un dato anno,
con quello del corrispondente triennio di T anni prima. Il tasso di
crescita degli anni Sessanta, per esempio, si ricava confrontando il PIL
pro capite medio nel 1969-1970-1971 con quello del triennio 1959-
1960-1961, secondo la formula:
gt = 100 [(yt / yt - T)1/T - 1]

dove yt è il PIL pro capite nel triennio centrato sull'anno t, mentre yt -


T è il PIL pro capite del triennio centrato sull'anno t - T. La scelta di
lavorare su trienni consente di attenuare le eventuali distorsioni
connesse alla diversa fase del ciclo in cui potrebbero trovarsi l'anno
iniziale e l'anno finale.
5. L'insieme degli "altri paesi" da noi considerato è costituito da tutti i
paesi che rispettano i due seguenti requisiti:
1) non avere alcuna sovrapposizione con l'insieme degli attuali 34
paesi OCSE;
2) avere un record completo 1959-2011 nel database MAD (cfr. nota
3 e Anatra 2).
I paesi che rispettano entrambi i requisiti precedenti sono 103, con un
peso sul totale dei paesi non OCSE pari al 90,5% in termini di PIL e al
93,1% in termini di popolazione nel 2011. È il caso di segnalare che
questa definizione di "altri paesi" lascia completamente fuori sia
l'URSS (l'Estonia fa parte dell'OCSE) sia diversi paesi satelliti (in
quanto anch'essi entrati nell'OCSE dopo il grande rimescolamento del
1989-1990).
6. Il tasso medio nei 30 anni dal 1960 al 1990 è stato del 2,4%, con
un massimo negli anni Settanta (2,8%) e un minimo negli anni Ottanta
(1,9%).
7. La nostra analisi, basata su dati Maddison, lascia fuori - per
mancanza di serie storiche disaggregate e complete - la maggior parte
dei paesi appartenenti alla sfera d'influenza sovietica (cfr. nota
precedente). Se, anziché lavorare su insiemi puri (22 paesi del nucleo
OCSE contro 103 paesi mai-OCSE), includessimo negli "altri paesi"
anche l'URSS, osserveremmo una curva simile ma un po' meno
pessimistica, perché nel ventennio 1968-1989 le economie legate a
Mosca perdevano colpi, creando l'illusione di un Occidente in ascesa.
Usando dati e definizioni in parte diverse, Prescott e Parente arrivano a
una conclusione simile alla nostra: le disparità di reddito fra i paesi
industrializzati e gli altri hanno cominciato a ridursi dal 1970 (Prescott,
Parente 2000).
8. La credenza in un "aumento esponenziale" delle diseguaglianze
interne si basa, in realtà, su un fatto importante ma parziale: l'enorme
aumento, in molte società avanzate, del differenziale fra reddito medio
dei top manager e reddito medio degli operai. Ma il grado di
diseguaglianza di un sistema sociale dipende da tutta la distribuzione
dei redditi, non dal solo livello di reddito dell'1% o dell'1‰ più ricco.
Per essere provata, la tesi dell'aumento delle diseguaglianza negli ultimi
decenni richiederebbe l'effettuazione ripetuta di indagini sui bilanci
familiari rigorose e confrontabili nel tempo, una condizione che ben
pochi paesi sono stati in grado di assicurare. Per farsi un'idea più
aggiornata delle tendenze delle diseguaglianze interne ai paesi si può
consultate il sito del Luxembourg Income Study
(www.lisproject.org/keyfigures.htm), che fornisce dati armonizzati sul
grado di diseguaglianza di una trentina di paesi, quasi tutti appartenenti
all'OCSE. Se, per ogni paese, si confronta l'ultimo dato disponibile con
il dato più remoto (di solito risalente a qualche decennio prima) il
quadro è questo: su 30 paesi, 16 mostrano effettivamente un aumento
della diseguaglianza, ma 6 non mostrano alcuna tendenza precisa, e 8
mostrano una diminuzione.
Poiché la diseguaglianza fra paesi è molto più ampia delle
diseguaglianze entro i paesi (Prescott, Parente 2000), non è azzardato
supporre che la spettacolare diminuzione delle diseguaglianze fra paesi
degli ultimi decenni abbia ridotto anche la diseguaglianza globale,
specie dopo il 2000 (Galbraith 2012).
Per un inquadramento del problema della misurazione della
diseguaglianza a livello globale, cfr. Atkinsons, Brandolini (2009), che
tuttavia presentano dati fermi al 1992. Dati più recenti sono stati
pubblicati dalla Banca mondiale e dal Luxembourg Income Study, con i
seguenti risultati: su 28 paesi OCSE per cui si hanno dati sia negli anni
Novanta sia negli anni Dieci del Duemila, 14 paesi mostrano una
tendenza all'aumento, 11 alla diminuzione, 3 nessuna tendenza.
9. La serie storica della diseguaglianza fra tutti gli Stati del mondo è
stata costruita a partire dal database MAD, costruendo la più fine
partizione possibile di tutti i territori del mondo. Ciò ha costretto a
usare sia aggregazioni corrispondenti a Stati estinti (come l'URSS, la
Cecoslovacchia e la Iugoslavia), sia aggregazioni corrispondenti agli
insiemi di micro-Stati individuati da Maddison. L'indice di Gini è stato
calcolato trattando ogni Stato come un insieme di individui dotati del
medesimo reddito.
10. Cfr. Kuznets (1955). Sul nesso fra livello del reddito e grado di
diseguaglianza, cfr. Barro (2000).
11. Cfr. Ricolfi (2012).
12. Per un quadro di questa letteratura, cfr. Barro (1991), Barro, Sala-
i-Martin (1995, 1996), Barro (2003).
13. In realtà la variabile dipendente di questi studi non è sempre il
reddito pro capite (o il suo logaritmo), ma spesso è una sua variante.
Nella letteratura legata al controllo del modello di Solow la variabile
dipendente è talora la produttività, ossia il reddito per unità di lavoro
(anziché per abitante). Nella letteratura empirica, tipicamente basata su
"regressioni alla Barro", ossia su analisi in cross-section sugli Stati, la
variabile dipendente è quasi sempre il tasso di crescita di medio o lungo
periodo.
14. Fra i non molti lavori che hanno preso in qualche considerazione
le differenze fra economie OCSE e non-OCSE, cfr. Mankiw, Romer,
Weil (1992), Nonneman, Vanhoudt (1996), Bernanke, Gürkaynak
(2002), Felipe, McCombie (2005), Hanushek, Woessmann (2011).
15. Sull'economia dello sviluppo, cfr., per esempio, i classici Lewis
(1955), Myrdal (1957), Hirshman (1958). Sul concetto di crescita
endogena, cfr. Romer (1986, 1990).
16. È interessante, a questo proposito, la posizione assunta da Solow
stesso trenta anni dopo la formulazione del suo modello. Di fronte al
proliferare di studi empirici che ambivano a controllarne la validità con
regressioni su dati cross-section, Solow faceva notare sia i problemi
econometrici di questo approccio (simultaneità e variabili omesse) sia
la difficoltà di descrivere con un unico modello esperienze di crescita
tanto diverse (Solow 1994). Cfr. cap. X, nota 3.
II. Teoria della crescita: da Solow a Solow

1. Il modello, di ispirazione keynesiana, si chiama così dai nomi dei


suoi due autori, Roy F. Harrod e Evsey Domar, che lo svilupparono in
modo indipendente in due articoli (Harrod 1939; Domar 1946).
2. Cfr. Solow (1956), Swan (1956). La storia delle idee non è stata
generosa con Trevor Swan, eminente economista australiano:
nonostante il contributo di Solow e Swan al modello sia simile, e
nonostante lo stesso Solow abbia ampiamente riconosciuto l'apporto di
Swan, la maggior parte degli economisti si riferisce al modello citando
il solo Solow, una convenzione cui ci atterremo anche noi solo per
evidenziare la natura Solow-centrica del dibattito sulla crescita. Per una
interessante ricostruzione del contributo e dei meriti di Swan, cfr.
Dimand, Spencer (2009).
3. Cfr. Felipe, McCombie (2005). Secondo i due autori, i tentativi di
usare il modello di Solow per spiegare le differenze internazionali di
reddito fra paesi sono sostanzialmente tautologici, perché il buon
adattamento del modello ai dati riflette una mera identità contabile. La
critica è rivolta in particolare a Mankiw, Romer e Weil, che in un
celebre articolo del 1992 avevano provato a testare il modello con i dati
di crescita di un centinaio di paesi (Mankiw, Romer, Weil 1992).
4. Nel modello di Solow, come in altri modelli sviluppati dagli
economisti, il reddito pro capite non è il reddito per abitante ma il
reddito per occupato. I due concetti sono strettamente collegati, ma
risultano perfettamente intercambiabili solo se il tasso di occupazione è
una costante che non varia né nel tempo né nello spazio.
5. Con l'espressione "stato stazionario" (steady state) gli economisti
intendono la situazione in cui un'economia ha raggiunto un assetto per
cui tutte le sue grandezze fondamentali evolvono in modo equilibrato, il
cosiddetto "sentiero di crescita bilanciata" (BGP, Balanced Growth
Path). L'espressione è un po' fuorviante, perché si applica sia al caso in
cui un'economia si ferma sia al caso in cui cresce a un ritmo costante
senza alterare i rapporti fra le sue grandezze fondamentali (reddito,
capitale, lavoro, ecc.), sia - infine - al caso in cui le variabili
economiche evolvono tutte a tassi costanti ma non necessariamente
eguali tra loro.
In questo testo noi useremo l'espressione "stato stazionario" (steady
state) nel suo significato standard, ossia come sinonimo di "crescita
bilanciata" (BGP), non importa se in regime di crescita zero o a tassi
costanti. Riserveremo invece i termini "arresto" e "stagnazione" a due
casi speciali di stato stazionario: la crescita del reddito pro capite a
tasso zero, e la crescita del reddito pro capite a un tasso inferiore all'1%
(non importa se costante, decrescente o oscillante).
6. L'affinità sostanziale ma anche matematico-formale fra la visione
di Solow e quella di Malthus è stata notata qualche anno fa da Andreas
Irmen, in una interessante nota sulle soluzioni matematiche dei relativi
modelli di crescita (Irmen 2004).
7. Qui e in seguito useremo sempre in modo intercambiabile i
concetti di reddito pro capite e reddito per occupato, anche se il primo -
inteso come reddito per abitante - non coincide esattamente con il
secondo (cfr. nota 4).
8. Sul nesso fra la visione degli economisti e quella degli studiosi
delle popolazioni umane e animali, cfr. capp. IX, X e XI.
9. Queste modificazioni del modello di Solow si basano, in sostanza,
sulla sostituzione dell'ipotesi di crescita della popolazione a un tasso
costante con l'ipotesi di crescita a un tasso decrescente. Ma poiché
quest'ultimo tende a zero, il risultato finale è che nello stato stazionario
smettono di crescere sia la popolazione, sia il reddito pro capite, sia il
reddito totale.
10. Le proposte di modifica dell'equazione che governa la crescita
della popolazione si basano quasi tutte su due tipi di curva a S: la
logistica e la curva di Richards, che è una generalizzazione della prima.
Cfr. Dongham (1998), Mingari Scarpello, Ritelli (2003), Accinelli,
Brida (2005), Guerrini (2006), Ferrara, Guerrini (2008).
11. Più precisamente, il modello di Solow prevede che l'output
(reddito, Y) sia legato ai fattori di produzione (capitale e lavoro, K e L)
dalla seguente relazione: Y = A Ka L1 - a, con A e a parametri fissi. Ciò
comporta che un raddoppio dell'output si possa ottenere o per semplice
raddoppio delle quantità di lavoro e di capitale, oppure aumentando il
capitale e il lavoro in proporzioni diverse ma tali da comportare il
raddoppio di Y: per esempio, con a = 0,5, un raddoppio di Y può essere
ottenuto triplicando K e aumentando L di 1 / 3.
12. Nel modello di Ramsey-Cass-Koopmans la quota di reddito
consumata (e quindi la quota risparmiata, che è il suo complemento) è
determinata endogenamente risolvendo un problema di allocazione
ottimale del consumo fra presente e futuro. Cfr. Ramsey (1928), Cass
(1965), Koopmans (1965).
13. Così Tiago Mata e Francisco Louçã definiscono il residuo di
Solow nella loro ricostruzione dei nessi fra teoria della crescita e teorie
del ciclo economico (Mata, Louçã 2009).
14. Nel modello di Solow la funzione di produzione è una Cobb-
Douglas, che quindi rispetta le cosiddette "condizioni di Inada", in
particolare l'assunto di produttività marginale decrescente dei singoli
fattori di produzione (Inada 1963).
15. Nella letteratura sulla crescita l'espressione "modello AK" non è
usata in modo uniforme da tutti gli autori. Nella sua versione più
semplice un modello AK si limita ad assumere la proporzionalità fra
output e capitale, e a rimuovere il fattore lavoro dalla funzione di
produzione (Myles 2007). Esistono però anche usi più ampi
dell'espressione modello AK o teoria AK, in cui la proporzionalità fra
output e capitale viene mantenuta senza sopprimere il fattore lavoro,
per esempio aggiungendo il capitale umano e la conoscenza fra i fattori
di produzione (McGrattan 1998).
16. Fino alla fine degli anni Ottanta la letteratura è particolarmente
attenta agli ostacoli che possono rallentare la crescita di un singolo
paese e, sulla scia di Keynes, si concentra sui problemi connessi alle
carenze di domanda effettiva (Hansen 1938; Robinson 1962). Dalla fine
degli anni Ottanta, con Baumol prima, con Barro e Sala-i-Martin poi,
l'attenzione si sposta invece sulle differenze di crescita fra paesi
(Baumol 1986; Barro 1991; Barro, Sala-i-Martin 1995).
17. Per Schumpeter il motore fondamentale dello sviluppo
economico sono i processi di innovazione promossi dagli imprenditori
(Schumpeter 1911).
18. Per una rassegna dei principali indirizzi, cfr. Myles (2000, 2007),
McGrattan (1998).
19. L'approccio delle cosiddette "regressioni cross-country", o "alla
Barro", si afferma negli anni Novanta ma risale, in realtà, ad alcuni
contributi del decennio precedente (Kormendi, Meguire 1985; Baumol
1986). Gli studi empirici che hanno lavorato seguendo l'approccio di
Barro sono ormai parecchie centinaia. Per una rassegna dei principali
risultati, cfr. Sala-i-Martin (1997), Myles (2007). Per un bilancio critico
conviene riferirsi alla letteratura econometrica, da sempre diffidente nei
confronti di questo approccio. Cfr. Anatra 3.
20. In realtà, ovviamente, questa letteratura considera tutti i paesi per
cui si hanno dati, ma il numero e l'importanza dei paesi inclusi fanno sì
che i campioni delle regressioni alla Barro coprano buona parte della
popolazione e del PIL mondiali.
21. Sull'impossibilità di spiegare le differenze nei tassi di crescita
senza introdurre differenze nella TFP, cfr. Prescott, Parente (2000), che
criticano i tentativi di salvare il modello di crescita neoclassico
introducendo una seconda forma di capitale, in particolare i lavori di
Mankiw, Romer, Weil (1992) e Young (1995).
22. L'espressione "revival neoclassico" è stata utilizzata da Klenow e
Rodriguez-Clare a proposito di un celebre saggio del 1992 di Mankiw,
Romer e Weil, in cui i tre autori cercavano di difendere il modello di
Solow (l'ortodossia neoclassica) dai sempre più frequenti e agguerriti
attacchi dei nuovi modelli di "crescita endogena" (Klenow, Rodriguez-
Clare 1997).
23. Mi riferisco, in particolare, ai tentativi di includere nella funzione
di produzione la salute della forza lavoro (Barro 1996; Bloom,
Canning, Sevilla 2004; Knowles, Owen 1995; van Zon, Muysken 2001,
2005), il know-how (Nonneman, Vanhoudt 1996), o vari tipi di
esternalità (Klenow, Rodriguez-Clare 2004).
24. Anche questo filone della ricerca economica, come quello delle
regressioni alla Barro, ha prodotto una mole notevole di risultati
empirici. Cfr., per esempio, l'ampio lavoro di Bernanke e Gürkaynak,
che riconsidera assai criticamente il tentativo di salvare il modello di
Solow condotto dieci anni prima da Mankiw, Romer, Weil (Bernanke,
Gürkaynak 2001).
25. Del problema delle differenze tecnologiche fra paesi, prima di
Prescott e Parente, si era occupato Lucas (1988, 1993) per spiegare i
miracoli asiatici. Cfr. anche Jorgerson (1995), e i lavori di Rosenberg
(1982) e Pack, Nelson (1999) sui miracoli del Giappone e della Corea
del Sud, citati in Prescott, Parente (2000).
26. Mi riferisco, in particolare, al rispetto delle condizioni di Inada, in
particolare l'assunto di rendimenti di scala costanti e di produttività
marginale decrescente dei singoli fattori (Inada 1963).
27. L'espressione "fatti stilizzati" venne coniata da Kaldor nel 1961,
per sottolineare - in polemica con l'astrattezza e il formalismo dei
modelli neoclassici - l'importanza per la teoria economica di partire da
una chiara, ancorché sommaria, individuazione dei fatti rilevanti di cui
si intende render conto (Kaldor 1961).
III. Lumache e gazzelle, perché?

1. I concetti di sviluppo e di crescita non sono perfettamente


equivalenti, in quanto lo sviluppo comporta cambiamenti qualitativi
essenziali della struttura economica, in particolare il passaggio da
società agricola a società industriale. Il confine fra i due concetti,
tuttavia, è labile e controverso, se non altro perché anche le società
industriali o moderne possono subire grandi trasformazioni, come negli
ultimi decenni è accaduto per molti paesi OCSE. In questo studio i
termini sviluppo e crescita sono usati in modo intercambiabile.
2. Ci riferiamo qui soprattutto agli studi empirici condotti su
campioni molto ampi di paesi. Nonostante le conclusioni di tali studi
spesso divergano su vari punti, vi è un ampio consenso almeno su due
fattori di crescita: il capitale umano e la qualità delle istituzioni
economiche. Sul ruolo del capitale umano, cfr. i lavori di Hanushek
(Hanushek, Kimko 2000; Hanushek, Woessmann 2008, 2011). Sul
ruolo delle istituzioni, oltre ai classici studi di Robert Barro e Daron
Acemoglu (Barro 1991, 1996; Acemoglu, Johnson, Robinson 2001,
2005), cfr. Zak, Knack (2001), Glaeser et al. (2004).
3. Cfr. Warsh (2006).
4. Mentre gli studi generali sulla crescita sono numerosissimi, sono
davvero pochi quelli dedicati specificamente ai paesi avanzati. Cfr. cap.
I, nota 14.
5. Mi riferisco al trentennio 1960-1990, ossia al periodo
immediatamente precedente il saggio di Mankiw, Romer, Weil, che è
del 1992. La definizione di economie avanzate adottata nella figura 5
include tutti i paesi che facevano parte dell'OCSE nel 1996, con la sola
eccezione di Islanda e Lussemburgo (meno di 1 milione di abitanti), e
di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria (che fino all'inizio degli anni
Novanta non erano economie di mercato).
6. Sul ruolo dell'eredità coloniale, cfr. Acemoglu, Johnson, Robinson
(2000), interessante anche sotto il profilo metodologico. Più in
generale, sul ruolo delle istituzioni come determinanti della crescita,
cfr. Acemoglu (2005) e, per una presentazione divulgativa della teoria,
il recente volume Why Nations Fail (Acemoglu, Robinson 2012).
7. Cfr. il classico Explanation and Understanding (von Wright 1971).
8. In analisi dei dati una variabile può essere considerata
"prossimale" rispetto a un'altra quando le due variabili hanno uno
stretto legame logico, semantico, o funzionale. In tali casi un'elevata
correlazione fra di esse ha uno scarso potere informativo, perché è
dovuta all'affinità o alla dipendenza funzionale fra le due variabili.
L'uso di variabili prossimali di altre è spesso utile in psicometria, per
validare strumenti di misurazione, ma è quasi sempre fuorviante in
ambito causale. Sui rischi del ricorso a variabili prossimali nelle analisi
basate sulla regressione, cfr. Gordon (1968), O'Brien (2007).
9. Cfr. Felipe, McCombie (2005).
10. Consideriamo "apprezzabile" uno spostamento di almeno 1 / 3 di
punto percentuale per una deviazione standard della variabile
indipendente. Questo significa che se la variabile dipendente è il tasso
di crescita e le variabili indipendenti sono tutte standardizzate, una
variabile viene ammessa nell'equazione di regressione se il modulo del
suo coefficiente di impatto è almeno pari a 0,33 e la significatività non
supera la soglia di 0,05.
IV. L'equazione della crescita

1. Nel testo riportiamo solo il nucleo dell'equazione che, a destra del


segno di eguale, include unicamente le 5 forze fondamentali, più la
costante (intercetta). Non riportiamo qui né il termine di errore, né il
termine che rappresenta le variabili omesse, la "sesta forza" di cui
parliamo nel capitolo VI.
2. Con l'espressione "numeri transfiniti", introdotta da Georg Cantor,
si intende un tipo particolare di numeri che estendono al caso di insiemi
con infiniti elementi i concetti di numero cardinale e ordinale
dell'aritmetica ordinaria. In questo ambito, i numeri "aleph con zero" e
"aleph con 1" designano i due primi numeri transfiniti.
V. Le cinque forze che governano la crescita

1. Per i dettagli statistici, cfr. Anatra 3.


2. Vedi Hanushek, Kimko (2000), Hanushek, Woessmann (2008,
2011).
3. Riguardo all'apertura dei mercati è il caso di distinguere almeno
due aspetti: le barriere commerciali e le barriere all'importazione di
tecnologia. Sul primo punto, cfr. Sachs, Warner (1995, 1998),
Greenaway, Morgan, Wright (2002); sul secondo, Rosenberg (1982),
Romer (1993), Parente (1994), Pack, Nelson (1999), Parente, Prescott
(1999), Prescott, Parente (2000).
4. La difficoltà principale discende dal fatto che, se il bilancio
pubblico non è troppo lontano dal pareggio, la pressione fiscale
complessiva è difficilmente distinguibile da variabili come la spesa
pubblica complessiva o i consumi pubblici. Sulle difficoltà di
individuare correttamente gli effetti delle tasse e delle spese, cfr.
Slemrod (1995), Kneller, Bleany, Gemmel (1999), Fölster, Henrekson
(2001), Sala-i-Martin, Doppelhofer, Miller (2004), Myles (2007). Non
stupisce, quindi, che nella letteratura sugli effetti del bilancio pubblico
(spesa e tasse), convivano risultati opposti: per alcuni tasse e spesa
hanno scarsi o nulli effetti sulla crescita (Easterly, Rebelo 1993;
Mendoza, Milesi-Ferretti, Asea 1997); per altri hanno un chiaro effetto
di rallentamento (Grier 1997; Fölster, Henrekson 2001; Lee, Gordon
2005). Un'analisi molto articolata delle politiche fiscali, ma limitata agli
Stati Uniti, si trova in Blanchard, Perotti (2002).
5. Mi riferisco in particolare a due misure: l'imposta societaria,
calcolata dalla KPMG, e le imposte sulle imprese calcolate dal Pwc. Sul
ruolo della "corporate tax", cfr. Myles (2007), Lee, Gordon (2005),
Leibfritz, Thornton, Bibbee (1997). Sul caso dei paesi scandinavi, cfr.
Ricolfi (2011).
6. Anche la quarta forza, gli investimenti diretti esteri (IDE, o in
inglese FDI, Foreign Direct Investments), ha un ruolo importantissimo
nel sostenere la crescita, ma preferiamo non considerarla tra i
fondamentali perché in grande misura dipende dalle altre tre forze: gli
stranieri investono in un paese se il paese ha buone istituzioni
economiche, un regime fiscale favorevole, una forza lavoro qualificata.
7. Non lo indichiamo con y ma con t(y), perché nell'equazione di
regressione non abbiamo inserito y ma una sua trasformazione, ovvero
il logaritmo naturale del reddito, anch'esso - come le altre variabili -
standardizzato (media 0 e varianza 1).
8. L'impatto negativo del benessere sul tasso di crescita dipende
dall'entità del benessere stesso. In via generale, per un paese OCSE di
media ricchezza, l'equazione della crescita suggerisce che un aumento
del reddito pro capite di 10.000 dollari all'anno costi, in termini di
crescita annua del PIL, una riduzione del tasso di crescita di circa 1
punto.
9. Per "fondamentali", qui intendiamo le quattro forze diverse dal
reddito che influenzano la crescita: capitale umano (H), tasse sulle
imprese (T), istituzioni economiche (I), investimenti diretti esteri (F).
10. Ci riferiamo, in particolare, alle cosiddette "riforme Hartz" del
mercato del lavoro (attuate fra il 2003 e il 2005 dal governo rosso-verde
del cancelliere Schröder) e alla riduzione del peso della spesa pubblica
sul PIL (scesa dal 42,2 al 38,1% fra il 2003 e il 2007). I giudizi sulle
riforme della Germania sono molto differenziati: fra quelli positivi vedi,
per esempio, Bini Smaghi (2013), fra quelli negativi Bagnai (2012).
11. Nel periodo 1995-2007 la Finlandia è cresciuta al 3,71%, la
Svezia al 2,91%, la Norvegia al 2,47% (tasso medio: 3,03%).
VI. L'equazione al lavoro

1. Le nostre stime dell'equazione della crescita sono basate sui paesi


con una popolazione superiore al milione di abitanti: ciò esclude
Lussemburgo e Islanda, e porta il totale dei paesi OCSE da 34 a 32.
Questa scelta, piuttosto comune negli studi sull'equazione della crescita
(Hanushek, Woessmann 2011), talora è resa obbligata dalla mancanza
di dati: nelle stime del PIL a parità di potere d'acquisto (PPP) di Angus
Maddison, per esempio, mancano le serie storiche di Islanda e
Lussemburgo, che vengono aggregati ad altri paesi minori dell'Europa.
2. Questa valutazione dell'errore è basata sul modello di regressione
che include, fra i regessori, solo il logaritmo del reddito pro capite
nell'anno iniziale (1995) e le quattro forze introdotte fin qui (H, F, I, T).
L'errore è definito come la media degli scarti assoluti fra tasso di
crescita osservato e tasso di crescita predetto.
3. Per stimare l'errore di misurazione abbiamo analizzato il grado di
congruenza fra i tassi di crescita del PIL pro capite ricavabili dalle Penn
Tables (2 versioni) e dal database di Maddison (2 versioni). La stima è
stata effettuata applicando il modello della teoria classica dei test alle
due fonti meno congruenti (Lord, Novick 1968).
4. Ci si potrebbe chiedere se la relazione tra dinamica degli
investimenti esteri ed errori di previsione dell'equazione della crescita
sussista anche per i paesi che hanno sperimentato i flussi positivi più
elevati, come l'Irlanda, l'Estonia, e la Repubblica Ceca. La risposta è
che in questo caso il grado di corrispondenza fra la dinamica degli
investimenti e gli errori (negativi) dell'equazione della crescita dipende
in modo critico da come si misura la dinamica degli investimenti, e
rispetta le aspettative solo nel caso dell'Estonia e della Repubblica
Ceca, ma non in quello dell'Irlanda.
5. La sesta forza è stata esclusa sia nella valutazione della capacità
predittiva dell'equazione della crescita, sia nella ricostruzione dei
contributi delle varie forze e controforze alla spiegazione dei tassi di
crescita del dodicennio 1995-2007. Essa è però stata considerata ai fini
della stima dei coefficienti di impatto delle altre forze, che altrimenti
sarebbero risultati distorti (la sesta forza è correlata ad alcune delle altre
forze, e quindi "sporca" i relativi coefficienti).
6. I procedimenti con cui si può decomporre la varianza di una
variabile all'influenza di due o più variabili indipendenti sono
molteplici e soggetti a una certa arbitrarietà, soprattutto a causa del
"paradosso di Gordon" (Gordon 1968). Noi abbiamo proceduto in due
stadi. Nel primo abbiamo ripartito la varianza spiegata fra il contributo
del reddito e quello dei 4 "fondamentali" dell'economia (H, F, T, I), nel
secondo abbiamo ripartito la varianza spiegata da questi ultimi nel
contributo di ciascuno di essi.
VII. Lilliput: le forze che non governano la crescita

1. Cfr. Aghion, Howitt (1998).


2. Cfr. anche Banerjee, Duflo (2003).
3. Sul ruolo negativo del debito pubblico, e sull'opportunità di
procedere ad aggiustamenti di bilancio, cfr. Daveri, De Romanis
(2004), Reinhart, Rogoff (2010a), Alesina, Favero, Giavazzi (2013).
4. Cfr. Reinhart, Rogoff (2009, 2010a, 2010b). I lavori di Reinhart e
Rogoff hanno suscitato un vivace dibattito perché sembravano
giustificare le politiche di austerità e in uno di essi è stato scoperto un
errore statistico (peraltro abbastanza marginale). Per una discussione
critica, cfr., per esempio, Panizza, Presbitero (2012), Brighella (2013).
Al momento l'evidenza empirica disponibile pare indicare che, almeno
per i paesi dell'area euro, un debito elevato (prossimo al 100% del PIL)
abbia effettivamente un impatto negativo sul tasso di crescita (Baum,
Checherita-Westphal, Rother 2013).
5. Cfr. capitolo V, nota 4.
6. La difficoltà di prevedere il segno della relazione dipende dal fatto
che una variazione del grado di diseguaglianza si propaga lungo diversi
canali, alcuni dei quali conducono a un aumento della crescita, altri a
una diminuzione. Vedi Barro (2000), Banerjee, Duflo (2003).
7. Questa visione della relazione fra crescita e diseguaglianza è talora
attribuita a Nicholas Kaldor e Simon Kuznets (Forbes 2000), ma più
che una tesi precisa sembra essere stata una sorta di communis opinio
del pensiero economico. Recentemente, una variante "aumentata" della
curva di Kuznets s è stata proposta da James Kenneth Galbraith e Kum
(Galbraith, Kum 2003; Galbraith 2012).
8. Il primo studio che pare rompere il consenso dei decenni
precedenti è quello di Murphy, Shleifer, Vishny (1989), in cui i tre
autori, richiamandosi alla teoria del "big push" di Rosenstein-Rodan,
sottolineano l'importanza di un mercato interno ampio (e quindi di una
scarsa concentrazione della ricchezza) ai fini della crescita.
9. Sul periodo fino al 1996, cfr. Benabou (1996), Perotti (1996). Per
una lista completa dei più importanti lavori pro uguaglianza pubblicati
nel corso dell'intero decennio 1990-2000, cfr. Forbes (2000). Fra i
pochi lavori in controtendenza si possono segnalare Banerjee, Newman
(1993) e Li, Zou (1998).
10. L'articolo della Forbes esce nel 2000 sulla "American Economic
Rewiew", ma in realtà circolava come paper non pubblicato fin dal
1997. Per questo abbiamo incluso l'articolo di Robert Barro del 2000 su
"ineguaglianza e crescita" fra i contributi successivi al lavoro della
Forbes, che Barro conosceva perfettamente dal momento che lo cita sia
nel testo sia in bibliografia.
11. Questa conclusione scettica, in particolare, sembra inevitabile ove
si consideri la recente e importante critica di David Roodman alle stime
della Forbes, che sarebbero viziate dal ricorso a un numero eccessivo di
variabili strumentali (Roodman 2009).
12. A mia conoscenza, il primo a sostenere la tesi di effetti di segno
opposto a seconda del livello di sviluppo è stato Robert Barro, in un
articolo del 2000 (Barro 2000), le cui conclusioni sono state confermate
in un più ampio studio successivo (Barro 2008).
13. Per un'ampia rassegna degli studi sul nesso fra corruzione e
crescita, cfr. Pellegrini, Gerlagh (2004, 2008) e Hodge et al. (2011).
14. Cfr., per esempio, Leff (1964), Huntington (1968), Lui (1985),
Beck, Mahler (1986); in controtendenza Myrdal (1968).
15. Cfr., per esempio, Mauro (1995), Tanzi (1998), Pellegrini,
Gerlagh (2004), Fisman, Svensson (2007).
16. Fra gli autori che non approdano a conclusioni univoche, cfr.
Rock, Bonnett (2004), Svensson (2005), Mendez, Sepulveda (2006),
Aidt, Dutta, Sena (2008).
17. Sono queste le conclusioni di uno degli studi più ampi e
statisticamente sofisticati degli ultimi anni: Hodge et al. (2011).
18. Secondo l'economista Luigi Guiso, i contributi di economia che
hanno a che fare con il capitale sociale appaiono al ritmo di 20-30 per
settimana (Guiso 2011).
19. Critiche e riserve sul concetto di capitale sociale sono state
espresse, per esempio, dai due Nobel per l'economia Robert Solow e
Kenneth Arrow (Solow 1995, 2000; Arrow 2000). Uno dei problemi
fondamentali della definizione di capitale sociale è che esso si
sovrappone in parte ad altri concetti, in particolare quelli di capitale
umano, coesione sociale, corruzione, ineguaglianza (gli ultimi due,
ovviamente, come indicatori di debolezza del capitale sociale). Per un
bilancio sistematico, cfr. Dasgupta, Serageldin (2000), Grootaert, van
Bastelaer (2002), de Blasio, Sestito (2011). Sulle possibili
formalizzazioni del concetto nel quadro dei modelli di crescita, cfr.
Chou (2006).
20. Le tre accezioni principali sono: fiducia negli altri,
partecipazione, reti di relazioni (Guiso 2011). Per "partecipazione" i
sociologi intendono soprattutto associazionismo volontario, gli
scienziati politici impegno pubblico. Alcuni autori, infine, preferiscono
distinguere il capitale sociale in senso stretto, denominato "civil social
capital", dal capitale sociale come insieme di istituzioni, denominato
"government social capital". Cfr. Collier (1998).
21. Per una rassegna di tali studi, cfr. i riferimenti contenuti in Guiso
(2011). Sul nesso fra capitale sociale e crescita, cfr. la recente rassegna
contenuta in Musai, Abhari, Fakhr (2011).
22. Cfr. Knack, Keefer (1997), Ahlerup, Olsson, Yanagizawa (2009).
23. Sul "lato oscuro" del capitale sociale, cfr. Beugelsdijk, Smulders
(2009).
24. Vedi Knack, Keefer (1997), Beugelsdijk, Smulders (2009).
25. Cfr. Easterlin (1981), citato in Lynn (2006, p. 1).
26. L'ingenuità statistica dello studio di Lynn e Vanhanen sta nel fatto
che l'impatto del QI sulla crescita viene per lo più appurato con
correlazioni e regressioni semplici, senza controllare se la relazione è
spuria, ossia dovuta alle molte e importanti variabili omesse (Ram
2007).
27. Cfr. Rindermann (2007a, 2007b).
28. Cfr. Jones, Schneider (2006, 2010), Ram (2007), Jones (2011,
2012).
29. Diamo di seguito le definizioni operative e le fonti delle nostre
forze minori:
- Ricerca e sviluppo = brevetti per milione di abitanti (OCSE-Imf)
- Deficit conti pubblici = Indebitamento netto della Pubblica
Amministrazione su PIL (OCSE-Imf)
- Diseguaglianza = Quota reddito del 20% più ricco su quota reddito
del 20% più povero (OCSE-Imf)
- Stato sociale = Spesa per consumi pubblici e prestazioni sociali in
denaro su PIL (OCSE-Imf)
- Corruzione = corruzione percepita (Transparency)
- Capitale sociale = Fiducia generalizzata (World Value Survey)
- Intelligenza = Punteggio PISA in matematica (OCSE)
Per quanto riguarda l'intelligenza, abbiamo anche provato a
introdurre direttamente nell'equazione il quoziente di intelligenza quale
risulta dalle stime di Lynn e Vanhanen ma il relativo coefficiente di
impatto risulta negativo, come se l'intelligenza media di un popolo
rallentasse la crescita. In realtà il problema è di natura essenzialmente
statistica: l'elevata correlazione fra la misura del QI (dovuta a Lynn e
Vanhanen) e la stima del capitale umano (dovuta a Hanushek e
Woessmann) rende indistinguibili i due effetti: un caso da manuale del
paradosso di Gordon (Gordon 1968).
30. È il caso di notare che il segno negativo permane se, anziché
usare come proxy degli investimenti in ricerca e sviluppo, si utilizzano
altre variabili, come le unità di lavoro impegnate nella ricerca o la quota
di PIL spesa in ricerca e sviluppo.
31. Va detto, tuttavia, che la sostanza del nostro risultato è che
l'impatto diretto del deficit, ammesso che esista (il coefficiente non è
statisticamente significativo), è molto modesto mentre la tesi dei critici
di Keynes pare suggerire una relazione negativa ben più stringente fra
crescita e squilibrio dei conti pubblici (Reinhart, Rogoff, 2009, 2010b;
Reviglio 2010).
32. Ci riferiamo, in particolare, a tre problemi: il problema statistico
delle correlazioni spurie e soppresse (Lazarsfeld 1946; Rosenberg
1968), il problema econometrico delle variabili omesse (Green 1993), il
problema logico-interpretativo sollevato dal paradosso di Gordon
(Gordon 1968).
33. Non consideriamo una forza vera e propria la "sesta forza"
individuata nel capitolo VI, che sembra più logico interpretare come
proxy di un insieme più ampio di microforze che favoriscono l'attività
di impresa e quindi attirano gli investimenti esteri.
34. Fra le variabili che sembrano avere un impatto di entità
apprezzabile sulla crescita, oltre a religione ed economia sommersa, si
può segnalare la quota di reddito nazionale che va al lavoro, il cui
effetto pare essere di freno (un altro indizio antikeynesiano: la quota dei
salari sembra funzionare più come sottrazione di reddito ai profitti, e
quindi all'investimento, che come sostegno alla domanda di consumo).
Riportiamo di seguito i coefficienti di impatto e le significatività delle
quattro variabili religione cattolica, religione protestante, economia
sommersa, e quota dei redditi da lavoro.
Coefficiente impatto Significatività Religione cattolica -0,08 0,29
Religione protestante 0,14 0,09 Economia sommersa 0,21 0,16 Quota
del reddito nazionale spettante al lavoro -0,30 0,01 Il risultato sulla
religione protestante non è nuovo in letteratura (cfr. De Long 1988).
VIII. Il drago-balena

1. Nella letteratura metodologica si parla, a questo proposito, di


"block booking" e "variabili black box" (Rosenberg 1968; Ricolfi
1993).
2. Cfr. Barro (2003).
3. Cfr. Solow (1956) e cap. II.
4. Cfr. Hanushek, Woessmann (2011, p. 436).
5. Per l'interpretazione di ß come velocità di convergenza, cfr. Barro,
Sala-i-Martin (1992), Sala-i-Martin (1996).
6. L'indicatore migliore è il logaritmo delle unità di lavoro (ULA)
addette alla ricerca per milione di abitanti. Con esso la capacità
predittiva dell'equazione della crescita scende "solo" di 16,6 punti, ossia
dal 91,5% al 74,9% (con gli altri indicatori il calo è sempre compreso
fra 20 e 25 punti). Nel caso del capitale per addetto, l'entità della
riduzione è più incerta, perché i dati sullo stock di capitale sono meno
completi e affidabili. Sul punto, cfr. Maddison (1995), Doblin (1991),
D'Adda, Scorcu (2003), Kamps (2006), Madsen, Mishra, Smith (2012).
7. In realtà, per predire il reddito pro capite bastano i primi tre
ingredienti del benessere. La regressione multipla del logaritmo del
reddito pro capite su costo del lavoro, economia sommersa e mortalità
infantile fornisce coefficienti pari rispettivamente a 0,680, - 0,194, -
0,232. L'R2 corretto è pari a 0,923, e il coefficiente di correlazione
multipla è pari a 0,965. Come si vede dai segni dei coefficienti il costo
del lavoro è un indicatore diretto di benessere, mentre l'economia
sommersa e la mortalità infantile sono indicatori inversi.
8. L'R2 corretto passa da 0,91 a 0,89.
9. Questo risultato non è nuovo, anche se nuova è l'interpretazione da
noi suggerita. Di un possibile effetto negativo della salute sulla crescita
parlano, per esempio, Acemoglu, Johnson (2007) e Vu, Mukhopadhaya
(2011).
IX. Ottimisti e pessimisti: la matematica della crescita

1. Warsh (2007, pp. 91-92).


2. Per la verità, nella descrizione di Marx è presente anche un'altra
forza, la caduta tendenziale del saggio di profitto, che tende a deprimere
gli investimenti. L'esistenza e l'operare di questa controforza, forse non
a caso qualificata come "tendenziale", non vale tuttavia a scalfire il
quadro complessivamente "faustiano" dell'ascesa del capitalismo.
3. La discussione sui rendimenti crescenti o decrescenti risente
purtroppo di un'ambiguità e di un'oscillazione terminologica che
possono risultare fuorvianti. La medesima parola, "rendimenti"
(returns), è usata per caratterizzare sia la scala della produzione sia il
ruolo dei fattori produttivi. Si distingue fra rendimenti di scala costanti,
decrescenti o crescenti a seconda che un aumento uniforme - per
esempio un raddoppio - di tutti i fattori della produzione comporti un
aumento dell'output di entità proporzionale, o meno che proporzionale,
o più che proporzionale. Quando si parla del ruolo dei fattori produttivi,
invece, si distingue fra rendimenti costanti, decrescenti o crescenti di un
singolo fattore in base al fatto che incrementi successivi e della
medesima entità di tale fattore generino sempre i medesimi incrementi
di output, o incrementi via via minori, o incrementi via via maggiori. È
a questa nozione di rendimenti che ci si riferisce quando si dice che,
con le funzioni di produzione neoclassiche (per esempio, l'onnipresente
Cobb-Douglas), la produttività marginale del capitale è decrescente.
4. A rigore bisognerebbe dire che la parte finale della traiettoria della
curva è simile a quella della figura. Per alcuni tipi di funzione di
produzione e per alcuni valori dei relativi parametri, infatti, è possibile
che la curva - pur terminando come nella figura - presenti anche un
punto di flesso, avvicinandosi alla forma generale di una curva a S, tipo
la curva di Verhulst. È questo, in particolare il caso del modello di
Solow con funzione di produzione Cobb-Douglas (e senza progresso
tecnico), nel caso in cui il parametro a sia compreso fra 0,5 e 1. Da
questo punto di vista la curva di Solow (che non ha punto di flesso) è
solo un caso speciale del modello di Solow (che invece può avere o non
avere un flesso).
5. Il tratto che rende speciale la conoscenza è la "non rivalità", ossia
il fatto che può essere utilizzata simultaneamente da più soggetti senza
che ciò comporti un minore godimento da parte di altri.
6. Per esempio, l'equazione Y = 3 K + 2 L è una funzione di
produzione, di forma lineare. Essa dice che, se aumento il capitale K di
un'unità, il prodotto Y aumenterà di 3 unità, mentre se aumento il
lavoro L di un'unità, il prodotto Y aumenterà di 2 unità. I tipi di
funzione di produzione più usati in economia sono la Cobb-Douglas,
illustrata nel box di p. 90, e la CES (Constant Elasticity of
Substitution).
7. Nel modello di Solow il reddito entra in due forme, come reddito
nazionale (Y) e come reddito pro capite (y). Nelle nostre analisi
l'equazione di moto fondamentale riguarda y non Y.
8. Sulla distinzione fra rendimenti di scala e rendimenti dei singoli
fattori produttivi, cfr. cap. IX, nota 3.
9. Cfr. Anatra 4.
10. Nel modello di Solow la forza lavoro è interamente occupata, e
quindi (a meno di cambiamenti della struttura demografica) il reddito
per occupato diventa proporzionale al reddito per abitante.
11. Cfr. Anatra 4.
12. Nei capp. IV e V avevamo presentato un'equazione che, se si
trascurano le variabili che rappresentano i fondamentali dell'economia
(H, F, T, I), si presenta così:
gt = B ln(yt) + D
Come si vede, l'unica differenza rispetto all'equazione di Solow è il
termine che rappresenta il reddito pro capite y. Nella formulazione dei
capp. IV e V, molto usata negli studi empirici, il reddito pro capite è
trasformato con la funzione logaritmo naturale, e l'equazione di moto
del sistema segue la cosiddetta "legge di Gompertz". Nella
formulazione di Solow il termine che rappresenta il reddito pro capite è
trasformato mediante l'esponente H = (a - 1) / a, che - essendo a
compreso fra 0 e 1 - può assumere solo valori negativi:

Si può dimostrare che, per H che tende a zero, il modello di Solow si


riduce a quello di Gompertz, di cui costituisce dunque una
generalizzazione (vedi Anatra 4).
13. In realtà, nel caso del modello di Solow con funzione di
produzione Cobb-Douglas, i parametri che descrivono il funzionamento
del sistema economico non sono 3 ma 5 e cioè: n (tasso di crescita della
popolazione o della forza lavoro), s (quota del reddito nazionale
risparmiata e investita), d (tasso di deprezzamento del capitale), A e a
(parametri della Cobb-Douglas). I due parametri B e D dell'equazione
riportata nel testo dipendono dai 5 parametri fondamentali secondo le
seguenti relazioni:
B = a s A1/a

D = - a (n + d)

Poiché tutti i parametri (eccetto n) sono necessariamente positivi, e


poiché l'unico parametro potenzialmente negativo (n) è sovrastato dal
parametro del deprezzamento del capitale (d), ne segue che B deve
essere > 0 e D deve essere < 0.
Nel testo abbiamo preferito la formulazione con 3 soli parametri (B,
D, a) per rendere più immediatamente evidente la struttura
dell'equazione.
14. Cfr. nota precedente.
15. L'equazione di moto del modello di Solow obbliga il processo a
terminare con la forma concava che abbiamo chiamato curva di Solow,
ma non esclude la presenza di un punto di flesso, nel qual caso la
traiettoria diventa sigmoidale (con un punto di flesso e un solo asintoto,
quello superiore). Questa eventualità si verifica quando il parametro a è
minore di 0,50.
16. Le stime del rapporto output / capitale sono molto incerte, perché
i dati sullo stock di capitale sono largamente incompleti e poco
comparabili. Cfr. cap. VIII, nota 6.
17. Un modo alternativo è di postulare che vi sia progresso tecnico è
che la sua dinamica sia tale da compensare esattamente la riduzione
della produttività marginale del capitale (D'Adda, Scorcu 2003).
18. Se a = 1, l'esponente di y nell'equazione gt = By(a - 1)/a + D
diventa zero.
19. Il modello AK fa parte, in realtà, della più ampia famiglia dei
modelli di "endogenous growth", che non sempre si riducono - in
termini matematici - alla semplice struttura Y = AK. Fra essi è il caso di
ricordare il modello della "distruzione creativa" attraverso l'innovazione
(Schumpeter 1911), i modelli di diffusione della conoscenza (Arrow
1962; Romer 1986), i modelli del cosiddetto "revival neoclassico"
basati sull'introduzione del capitale umano nella funzione di produzione
(Lucas 1988; Mankiw-Romer-Weil 1992), i modelli che ampliano la
funzione di produzione introducendovi input addizionali prodotti dal
governo (Myles 2007), e infine i modelli che rappresentano
esplicitamente il settore della ricerca e sviluppo (Romer 1990;
Grossman, Helpman 1991; Aghion, Howitt 1992). Per una rassegna, cfr.
Myles (2007) e, in chiave critica, Jones (1995), Klenow, Rodriguez-
Clare (2005).
20. Su questa linea, per esempio, Ellen McGrattan, in un saggio
esplicitamente rivolto a difendere i modelli AK (McGrattan 1998).
21. Cfr., in particolare, Romer (1990), Grossman, Helpman (1991),
Aghion, Howitt (1992).
22. Sulla controversia fra critici e difensori dei modelli AK, cfr.
McGrattan (1998).
23. La letteratura sulla crescita distingue fra s-convergenza
(convergenza dei livelli di reddito per abitante) e ß-convergenza
(tendenza dei paesi poveri a crescere più rapidamente di quelli ricchi).
Quest'ultima viene qualificata come "condizionale" se è subordinata al
fatto che i paesi che convergono abbiano fondamentali simili.
X. Foreste, salmoni e predatori

1. Mi riferisco, in particolare, alla biologia, all'ecologia, e più in


generale alle discipline specializzate nello studio di particolari classi di
organismi e popolazioni, per esempio le foreste e i pesci, di cui si
occupano decine di riviste scientifiche.
2. Qui e in seguito con i termini "demografi" e "demografia" ci
riferiremo sempre non solo ai demografi e alla demografia in senso
stretto, ma più in generale agli studi sui processi di crescita (individuale
e collettiva) di organismi viventi di qualsiasi tipo.
3. Fin dal 1994, per esempio, Solow confessava senza mezzi termini
che non trovava "confidence-inspiring" il programma di ricerca delle
regressioni cross-section, e in particolare il tentativo di provare la
validità del suo (di Solow!) modello da parte di Mankiw, Romer, Weil
(1992). E nel 2001, in un saggio dedicato a un bilancio della letteratura
empirica sulla crescita, spiegava che per parte sua aveva sempre inteso
la teoria della crescita come la ricerca di un modello dinamico che
potesse spiegare l'evoluzione nel tempo di una sola economia (Solow
2001). Entrambe le prese di posizione di Solow sono citate da Felipe e
McCombie in quella che, probabilmente, è la più severa critica al
revival neoclassico basato su regressioni cross-section (Felipe,
McCombie 2005).
4. Per una presentazione esplicita di questa filosofia, cfr. Lei, Zhang
(2006).
5. Charles Minot espose per la prima volta le sue idee in una serie di
articoli usciti nella rivista divulgativa "Popular Science Monthly",
ripubblicati nel 1908 con il titolo The Problem of Age, Growth and
Death. Sul contributo di Minot e la sua "legge", cfr. Medawar (1941),
Medawar, Medawar (1983).
6. Sul punto, cfr. Zeide (1993, p. 596).
7. Sulle varie famiglie di modelli provenienti dalla demografia, dalla
biologia e dalla dinamica delle popolazioni, cfr. Anatra 5.
8. Sulla distinzione fra modelli di evoluzione individuali e modelli di
evoluzione di popolazioni, cfr. Huston, DeAngelis, Post (1988),
favorevoli ai modelli individuali, e Zeide (1993), che rivaluta il ruolo
dei modelli aggregati. È interessante, e forse non casuale, il
parallelismo con gli analoghi dibattiti sulle microfondazioni della
macroeconomia e della macrosociologia, nonché sul connesso
"problema dell'aggregazione", sviluppatisi soprattutto negli anni
Ottanta e Novanta. Per l'economia, cfr. Janssen (1993), Hoover (2010),
per la sociologia Hetcher (1983), Coleman (1990).
9. Vedi Anatra 5.
XI. L'equazione di Chapman-Richards

1. Le curve che, lato sensu, si possono definire di tipo Verhulst sono


tutte le curve sigmoidali, o "a ogiva", la cui traiettoria presenta sia un
punto di flesso sia (almeno) un asintoto superiore. Fra di esse rientrano,
in particolare: la curva di Verhulst vera e propria, o curva logistica
classica; la curva di Verhulst generalizzata, o curva logistica
generalizzata, introdotta da Richards nel 1959; la curva che
chiameremo pseudo-Verhulst (in quanto manca l'asintoto inferiore),
introdotta da von Bertalanffy e prevista come caso speciale dal modello
di Solow (per a > 0,5). Per una classificazione sistematica, cfr. il box a
fine capitolo.
2. L'equazione della traiettoria (curva y-t) è y = f(t). L'equazione
della velocità (curva d-t) è la derivata di f(t) rispetto al tempo: dy / dt =
f?(t). Il collegamento fra le varie equazioni è dato dall'equazione
differenziale dy / dt = h(y), che rappresenta la velocità di crescita in
funzione del livello di y anziché del tempo. Una volta costruita
l'equazione differenziale, la si può dividere per y, e il risultato è
precisamente l'equazione di accrescimento (curva g-t): g = h(y) / y,
dove il tasso di crescita relativa g è ottenuto dividendo la derivata dy /
dt per il livello y.
3. Un'importante differenza fra il diagramma g-y della curva di
Gompertz e quello della curva di Solow è che, dopo l'attraversamento
dell'asse delle ascisse, la curva di Gompertz diminuisce illimitatamente,
mentre quella di Solow è dotata di un asintoto inferiore.
4. Ricordiamo che noi usiamo l'espressione "curva di Verhulst" per
qualsiasi curva sigmoidale dotata di un punto di flesso e di (almeno) un
asintoto superiore (cfr. nota 1). In questa accezione, anche la curva di
Gompertz rientra nella famiglia, e corrisponde al tipo pseudo-Verhulst
(manca l'asintoto inferiore).
5. Qui e in seguito seguiamo in gran parte le interessanti ricostruzioni
di Zeide (1993) e Yuancai, Marques, Bento (2001).
6. Nel 1959 esce l'articolo di Richards, sul "Journal of Experimental
Botany". Nel 1961 segue un fondamentale contributo statistico di
Chapman, il cui interesse è rivolto alla dinamica delle popolazioni di
pesci sfruttate dalla pesca. Cfr. Richards (1959), Chapman (1961).
7. Cfr. Amaro et al. (1998).
8. Cfr. Huang, Titus, Wiens (1992), Fang, Bailey (1999).
9. Ci riferiamo alla curva pseudo-Verhulst (1 punto di flesso e 1
asintoto inferiore) che compare quando, nel modello di Solow, il
parametro a è maggiore di 0,50. Cfr. nota 1.
10. Cfr. Lei, Zhang (2004).
11. Gli studiosi di scienza forestale sono i maggiori utenti
dell'equazione di Chapman-Richards, ma per essi è sempre stato
difficile allontanarsi dal modello classico di crescita, quello che prevede
sia un tetto alla crescita sia un punto di flesso che separa una regione di
accelerazione da una regione di decelerazione, secondo il classico
profilo della curva di Verhulst. Si potrebbe anche dire che, nel tentativo
di allontanarsi dalla curva di Verhulst, biologi e studiosi di dinamica
delle popolazioni si sono spinti fino a rimuovere l'asintoto inferiore e il
punto di flesso, ma non fino a quello di rimuovere l'asintoto superiore.
12. Vedi Zhao-gang, Feng-ri (2003).
13. Salvo la restrizione che il processo di crescita non sia
iperesponenziale. Nella nostra ricostruzione il parametro B non è un
parametro chiave, perché il suo segno è stato assunto sempre opposto a
quello del parametro C. Quest'assunzione è necessaria se le curve
devono rispettare la legge di Minot, che postula l'inclinazione negativa
del diagramma g-y.
XII. Ancora Solow

1. Qui e nel resto del libro tutte le valutazioni in dollari devono


intendersi in dollari 2005 a parità di potere di acquisto (PPP:
Purchasing Power Parity), secondo le definizioni delle Penn Tables.
2. In realtà, se si adotta l'equazione di Chapman-Richards,
l'eventualità di una crescita a un tasso costante si può presentare con
due combinazioni di parametri: H = 0 e B + D > 0, oppure B = 0 e D >
0.
3. Dal punto di vita matematico, le forme non sono quattro ma
cinque, perché la curva di tipo Verhulst si può presentare in due forme,
con e senza asintoto inferiore. Cfr. cap. XI e box di pp. 124-125.
4. In realtà, il numero effettivo di osservazioni da noi utilizzato per
stimare l'equazione della crescita con dati panel (paese-anno) è
lievemente inferiore, perché nelle analisi abbiamo soppresso 28
osservazioni devianti. Cfr. Anatra 3.
5. Diciamo "possono" variare perché, nei vari esercizi di stima che
abbiamo condotto, uno dei due parametri B e D viene sempre lasciato
fisso. Cfr. Anatra 3.
6. Nell'equazione della crescita, oltre alla variabile che esprime lo
stato dei fondamentali di un'economia (znt), abbiamo incluso anche un
termine che cattura la specificità del ciclo economico, ossia il fatto di
essere in anni di espansione, stagnazione o recessione (per i dettagli,
cfr. Anatra 3).
7. Le relazioni che collegano H e a sono: H = (a - 1) / a; a = 1 / (1 -
H).
8. Resta aperto, naturalmente, il problema di interpretare il termine
che rappresenta il capitale (K), che potrà essere letto sia in modo
tradizionale (come capitale fisico), sia in modo moderno (come capitale
immateriale, incorporato nella forza lavoro e nell'organizzazione
produttiva).
9. Si tratta delle regioni 7 e 11 dello spazio dei parametri, le uniche
regioni ammissibili in cui B è positivo e D è negativo. Vedi box di pp.
124-125.
XIII. Il destino delle società avanzate

1. Il significato del coefficiente B si comprende meglio se lo si


interpreta alla luce del modello di Solow, nel cui contesto esso va letto
come B = a s A1/a, un'espressione in cui - accanto al tasso di risparmio
(s) e alla produttività del capitale (a), compare esplicitamente il
parametro A, che rappresenta la produttività totale dei fattori (cfr.
Anatra 4).
2. Più esattamente, i paesi sono stati classificati in base al livello del
reddito pro capite nel 2007, e in base alla qualità dei fondamentali negli
ultimi 6 anni (2002-2007) del periodo da noi considerato (questo per
non far dipendere un'intera traiettoria futura e passata dalle
caratteristiche del paese in un singolo anno). La tipologia così costruita
è fortemente connessa al tasso di crescita medio del periodo (?2 =
0,620).
XIV. Dopo il 2007: fra crisi e stagnazione

1. Sulla crisi del 2007-2013 le interpretazioni si sprecano. Con


qualche semplificazione, possono però essere classificate in due filoni:
il filone keynesiano-progressista, che attribuisce la crisi alla
deregolamentazione dei mercati finanziari e all'aumento della
diseguaglianza, e il filone liberista, che la attribuisce alle politiche
pubbliche, basate sul credito facile e l'indebitamento. Sulla prima linea
di pensiero si collocano, per esempio, i due premi Nobel Paul Krugman
(2012) e Joseph Stiglitz (2012), sulla seconda Salin (2009), Taylor
(2009) e Rajan (2010).
2. Robert Skidelsky, economista, è il principale biografo di Keynes. Il
figlio Edward insegna filosofia all'Università di Exeter.
3. Nel saggio Possibilities for our Grandchildren, scritto nel 1928 ma
pubblicato un paio di anni dopo (a crisi del 1929 iniziata), Keynes
aveva profetizzato che nel giro di un secolo, grazie all'aumento della
produttività, l'orario di lavoro si sarebbe dimezzato (Keynes 1930).
4. Cfr. l'intervista rilasciata al quotidiano italiano "La Repubblica", 2
giugno 2013 (Sandel 2013).
5. Le definizioni della nostra società richiamate nel testo sono state
proposte, nell'ordine, da John Kenneth Galbraith (The affluent society è
del 1964), da Herbert Marcuse (One Dimensional Man è del 1964) e da
Jean Baudrillard (La société de consommation è del 1970).
6. Nella letteratura la critica romantica al mondo moderno precede la
piena affermazione della società del benessere: si pensi a Huxley
(Brave New World è del 1932) e a Orwell (il romanzo 1984 esce nel
1948). Nella cultura italiana, probabilmente, il caso più emblematico di
reazione romantica alla società industriale è quello di Pier Paolo
Pasolini, con la sua critica al concetto di "sviluppo" (Pasolini 1975).
7. Un esercizio di stima condotto sul turbolento quadriennio 2010-
2013 mostra i seguenti risultati:
- a parità di altre condizioni, i paesi euro crescono di circa 1,5 punti
meno degli altri;
- buone istituzioni di mercato favoriscono la crescita;
- nei paesi euro la variabile cruciale per la crescita è la qualità del
capitale umano, nei paesi non-euro la variabile chiave è la bassa
pressione fiscale.
Le stime sono ottenute con regressioni OLS, in cui la variabile
dipendente è il tasso di crescita medio 2010-2013 (dati reali per il
triennio 2010-11-12, previsioni OCSE per il 2013). Le variabili
indipendenti sono relative al periodo 2008-2011.
8. I tassi medi di crescita sono leggermente diversi da quelli
presentati nel capitolo I perché qui consideriamo i 34 paesi OCSE
attuali, mentre là lavoravamo sui 22 paesi per i quali si hanno dati
comparabili dagli anni Cinquanta a oggi.
9. Su questo, cfr. il capitolo conclusivo ("Che fare?"), in particolare i
dati della tabella 6 e della figura 30.
XV. La deriva signorile

1. Per un quadro più dettagliato delle tendenze della diseguaglianza


interna alle economie avanzate, cfr. Milanovic (2011, 2012) e cap. I,
nota 8.
2. Cfr., per esempio, Alesina, Perotti (1997), Alesina, Favero,
Giavazzi (2013), Bini Smaghi (2013).
3. Sulla deriva culturale delle società contemporanee si vedano, ad
esempio, Berger, Berger, Kellner (1973) oppure, in un'ottica liberale e
conservatrice, le diagnosi del filosofo politico australiano Kenneth
Minogue, consegnate in due testi classici, The liberal mind e The
servile mind, separati da quasi mezzo secolo di storia (Minogue 1963,
Minogue 2010).
4. Il calcolo tiene conto di tre diversi fattori. Primo: il calo della
quota di popolazione agricola, che era costituita da famiglie in cui tutti i
membri lavoravano (e lo facevano per quasi tutta la vita). Secondo: la
riduzione del monte-ore lavorate annualmente come conseguenza della
riduzione dell'orario giornaliero, della riduzione della settimana
lavorativa (soppressione del sabato e di parte del venerdì), dell'aumento
dei giorni di ferie. Terzo: l'allungamento della speranza di vita, finora
non accompagnato da un allungamento della vita lavorativa.
5. Uso qui una terminologia, basata sui concetti di "consumo
improduttivo", "consumo signorile", "società signorile",
particolarmente cara a Claudio Napoleoni, che di essa si è servito sia
per descrivere la sopravvivenza, e anzi l'espansione, del consumo
signorile entro le moderne società capitalistiche, sia per ricostruire la
storia della "tradizione eterodossa", espressione con cui Napoleoni
designava quel filone del pensiero economico - Malthus, Sismondi,
Rosa Luxemburg, Keynes - che attribuisce un ruolo essenziale al
consumo improduttivo (Napoleoni 1962, 1970).
6. Nell'insieme dei paesi OCSE la quota di stranieri è strettamente e
positivamente correlata al livello di benessere (correlazione intorno a
0,70), e in molti paesi ricchi supera ormai il 10%, spesso con tassi di
occupazione più elevati di quelli della popolazione nativa.
7. Curiosamente, questa dimensione della diseguaglianza è raramente
menzionata. Eppure si tratta di uno degli squilibri mondiali più marcati:
i paesi OCSE, con il 18% della popolazione mondiale, assorbono il
53,5% del PIL mondiale, ma beneficiano di circa il 70% del welfare.
8. Una presentazione ampia e articolata di questo punto di vista si
trova in Rodotà (2012).
9. Sull'espansione della cultura dei diritti e il declino speculare della
cultura dei doveri suonano oggi profetiche le considerazioni di Thomas
Humphrey Marshall in Citizenship and Social Class, una conferenza
tenuta a Cambridge nel lontano 1949 (ora in Marshall 1950, tr. it.
2002). Altrettanto lucide, in proposito, le considerazioni di Peter
Berger, Brigitte Berger, Hansfried Kellner nel saggio On the
Obsolescence of the Concept of Honour, che descrive la lenta
sostituzione del concetto medievale di "onore" con quello moderno di
"dignità umana" (Berger, Berger, Kellner 1973).
10. Vedi Minogue (1963, 2010).
Che fare?

1. C'è anche chi dice di no, che possiamo limitarci a non pagare i
nostri debiti. Nessuno, però, è ancora riuscito a spiegare come questo si
possa fare senza costi altissimi, in un mondo in cui divisione del lavoro
e globalizzazione hanno reso le economie del pianeta interdipendenti
come mai in passato.
2. Tutte le prove che abbiamo effettuato sull'equazione della crescita
suggeriscono che, fra i vari tipi di imposta, quelle sui redditi di impresa
(in particolare l'imposta societaria) siano le più dannose per la crescita.
Più esattamente, la nostra stima è che un punto in più o in meno di
aliquota societaria riduca o innalzi il tasso di crescita di 0,083 punti, il
che significa che alzare il tasso di crescita di 1 punto (per esempio
dall'1 al 2% annuo), "costa" circa 12 punti di aliquota societaria in
meno, un risultato sostanzialmente in accordo con Lee, Gordon (2005).
3. I 20 paesi OCSE non-euro (inclusa l'Estonia) sono stati divisi in tre
gruppi in base alla variazione del TTR fra il 2008 e il 2012, e per ogni
gruppo di paesi è stata calcolata la variazione del tasso di crescita fra gli
ultimi 7 anni di crescita sostenuta (2001-2007) e il triennio 2010-2012.
Ecco i risultati completi:
Numero paesi Variazione del TTR (2008-2012) Variazione tasso di
crescita (2010-2012 rispetto al 2001-2007) Più tasse 4 4,5 -2,3 Tasse
più o meno invariate 11 -0,9 -0,7 Meno tasse 5 -7,1 +0,6 Totale paesi
senza euro 20 -1,4 -0,7 I paesi con i maggiori inasprimenti fiscali sono
Estonia, Islanda, Polonia e Regno Unito; quelli con i maggiori
alleggerimenti sono Canada, Danimarca, Israele, Turchia, Giappone; i
paesi con variazioni contenute sono Svizzera, Messico, Stati Uniti,
Repubblica Ceca, Norvegia, Nuova Zelanda, Cile, Svezia, Australia,
Ungheria, Corea del Sud.
4. Quanto alla storia vera e propria, la credenza che fosse finita è
durata lo spazio di un mattino, quello seguito alla caduta del Muro di
Berlino e al collasso dei regimi comunisti: nel 1992 Francis Fukuyama
pubblica The End of History and the Last Man, ma già a partire
dall'anno successivo la tesi della fine della storia cede il passo a quella
dello "scontro di civiltà" (clash of civilizations), soprattutto grazie a una
serie di interventi di Samuel Huntington (Huntington 1993, 1996).
5. Cfr. Gerschenkron (1962, p. 87).
6. Sul carattere degli italiani, nonostante la notevole produzione
successiva, resta tuttora insuperato, a mio parere, l'affresco tracciato da
Luigi Barzini jr giusto mezzo secolo fa (Barzini 1964).
Anatre

1. I dati della KPMG coprono quasi interamente il periodo (1996-


2007, estremi inclusi) e l'insieme di paesi (32 paesi OCSE) da noi
studiati. Nei pochi casi in cui il dato era mancante (per lo più perché il
paese era di recente costituzione, come nel caso di alcuni paesi dell'Est
nati dopo la caduta del Muro di Berlino) il dato mancante è stato
stimato con una serie di regressioni cross-section "a ritroso", condotte a
partire dagli anni completi.
2. Il periodo considerato per costruire la z4 (1998-2003) è
leggermente spostato verso l'inizio dell'intervallo di osservazione
(1996-2007) per tenere conto del ritardo con cui gli investimenti esteri
influenzano il tasso di crescita. La funzione di decadimento
esponenziale scelta per la ponderazione è w = 0,70t, con t che varia fra
0 e 5 passando dal 2003 (w = 1) al 1998 (w = 0,16807).
3. Cfr. https://sites.google.com/site/econgeodata/maddison-data-on-
population-gdp.
4. La letteratura sui problemi metodologici delle "growth
regressions" è molto ampia e ha talora dato luogo a dibattiti alquanto
aspri. Cfr., per esempio, sui problemi di endogeneità: Fölster,
Henrekson (2001); su variabili omesse, specificazione, robustezza,
controversia EBA (Extreme Bound Analysis): Islam (1995), Leamer
(1983), Levine e Renelt (1992), Sala-i-Martin (1994, 1997); sui
problemi di eterogeneità dei grandi campioni di paesi: Grier, Tullock
(1989); sui limiti di vari tipi di stimatori usati con dati panel: Kiviet
(1995).
5. Mi riferisco all'amplissima letteratura sulla Exploratory Data
Analysis (EDA), originata da Tukey (1977), al ripensamento del
modello della regressione alla luce del problema degli outlier (Belsley,
Kuh, Welsch 1980) e, più in generale, alla "rivoluzione empirista" in
psicometria e analisi dei dati (Ricolfi 2002).
6. Ci riferiamo qui, naturalmente, non alla possibilità di trovare
strumenti nel contesto generale degli studi sulla crescita, ma solo al
caso delle regressioni sui paesi OCSE. Del tutto diverso il caso dei
paesi non-OCSE, dove per esempio l'eredità coloniale offre eccellenti
possibilità di costruire veri strumenti (Acemoglu, Johnson, Robinson
2001).
7. La forma Gompertz è stata da noi introdotta in modo empirico, in
quanto è particolarmente semplice ed è la più usata nella letteratura che
lavora con "equazioni alla Barro". Essa, tuttavia, può anche essere fatta
discendere dal modello di Solow, purché si accetti l'assunto di una
funzione di produzione Cobb-Douglas e si introducano alcune
approssimazioni (Barro, Sala-i-Martin 1992).
8. Nelle stime pooled l'effetto della congiuntura è stato valutato
mediante 2 dummy (bassa e alta congiuntura) nel caso delle stime con
l'equazione Richards-1, e mediante 9 dummy (su 12 anni) nel caso delle
stime con l'equazione Richards-2 (anni esclusi: 2001, 2002, 2003).
9. I 28 outlier sono stati individuati attraverso la stima di un modello
di regressione Richards-1 contenente regressori analoghi a quelli
impiegati nelle stime in cross-section (z5 inclusa).
Le stime sono state replicate 40 volte aumentando ogni volta di una
unità il numero di record eliminati. I 40 candidati all'eliminazione erano
ordinati in base al modulo dei residui di regressione. A ogni ciclo è
stato effettuato un test di normalità dei residui (Shapiro-Wilk) ed è stato
calcolato il numero di residui standardizzati maggiori di 2 in modulo. Il
numero di record da eliminare è stato determinato in corrispondenza del
valore più elevato della probabilità del test di Shapiro-Wilk (0,661),
dopo aver controllato che a quel livello di riduzione del dataset il
numero di residui con modulo maggiore di 2 corrispondesse al valore
atteso (circa 4).
10. Le prime due variabili fast, il reddito y0H(n,t) e le tasse z2 (n,t -
1), entrano nel modello con 1 anno di ritardo (il termine y0 indica il
reddito nell'anno di appoggio); il saldo degli investimenti esteri entra
invece nel modello con un ritardo di 2 anni, z4 (n,t - 2), poiché si è
ipotizzato che l'impatto degli investimenti sul tasso di crescita avvenga
più lentamente nel tempo.
Abbiamo considerato esogene (indipendenti cioè dalla componente di
errore) le due variabili slow ed endogene le tre variabili fast.
L'endogeneità è stata gestita attraverso il ricorso a variabili strumentali
(Wooldridge 2002). Il reddito nell'anno di appoggio elevato alla H, y0H
(n,t), è stato strumentato con il secondo ritardo del reddito, y(n,t - 2). Il
termine z2 (n,t - 1) è stato strumentato con il suo primo ritardo, z2(n,t -
2). Per la z4(n,t - 2) sono stati considerati più strumenti: i suoi primi
due ritardi z4(n,t - 3), z4(n,t - 4), e l'accelerazione degli investimenti
esteri, z5 (Shea partial R2 rispettivamente pari a: 0,55, 0,91 e 0,20).
Per controllare che i regressori (le esogene e le endogene
strumentate) fossero indipendenti dalla componente di errore legata ai
paesi abbiamo confrontato con il test di Hausman le stime del modello
a effetti fissi (che non assume l'ortogonalità tra regressori ed effetto
"individuale", ovvero effetto paese n-esimo) con quelle del modello a
effetti random in cui viene assunta l'ortogonalità (i modelli sono stati
stimati con la procedura xtivreg di Stata). Il test è risultato non
statisticamente significativo [chiquadro (12) = 13,08, p ? 0,3631],
consentendo di trattare l'effetto paese come componente dell'errore.
Non abbiamo considerato le stime del modello a effetti random come
definitive perché la procedura adottata non consente stime robuste degli
errori standard. Si è quindi ristimato il medesimo modello con la
procedura ivreg2 di Stata in cui sono possibili stime robuste con lo
stimatore 2SLS, e soprattutto stime efficienti e consistenti (in caso di
eterogeneità di forma arbitraria) con lo stimatore GMM (Baum,
Schaffer, Stillman 2002; 2007).
11. La significatività statistica del coefficiente b4 nelle stime 2SLS si
deteriora man mano che vengono soppressi outlier: con il dataset
completo (N = 384) la significatività è ancora buona (p = 0,026), ma
peggiora progressivamente con l'eliminazione di 1 outlier (p = 0,114),
20 outlier (p = 0,155), 28 outlier (p = 0,197). Un confronto con i
risultati delle stime GMM, in cui la significatività torna a essere
accettabile, suggerisce che una parte del problema possa stare
nell'incompleto controllo dell'eteroschedasticità quando lo stimatore è
2SLS.
12. Cfr. cap. VIII, nota 6.
13. Mi riferisco qui alla forma k? + a k = b ka, dove k? è la derivata
di k rispetto al tempo.
14. Alcuni esempi: "Canadian Journal of Forest Research", "Journal
of the Fisheries Research Board of Canada", "Silva Fennica", "Journal
of Forest Science", "Forest Ecology and Management", "Journal of
Forestry Research", "Forest Science". Attualmente nel mondo le riviste
scientifiche dedicate alla ricerca forestale sono almeno 80.
15. Si pensi, per esempio, a "Journal of the Fisheries Research Board
of Canada", "Canadian Journal of Fisheries and Aquatic Sciences",
"Fisheries Investigations", "Fishery Bulletin". Le riviste scientifiche
dedicate alla pesca, alla biologia marina e alle discipline collegate sono
attualmente diverse decine.
16. La distinzione fra i due tipi fondamentali di competizione -
scramble e contest - si deve a Nicholson (1954).
17. Per un bilancio recente di questo tipo di studi, cfr. Johst,
Berryman, Lima (2008).
18. Fra i capostipiti, in realtà, bisognerebbe considerare anche un
altro modello, spesso trascurato, che appartiene al filone "contest": il
modello di Skellam (Skellam 1951). La minore attenzione riservata al
modello di Skellam si deve, probabilmente, al fatto che non esiste
un'espressione matematica in forma chiusa per il punto di equilibrio del
sistema.
19. Cfr., a titolo di esempio, lo studio delle caratteristiche fisiche e
del ciclo di vita di un adrosauro (dinosauro erbivoro) vissuto nel tardo
Cretaceo (Cooper et al. 2008).
20. Queste possibilità possono essere modellizzate, per esempio,
usando funzioni sigmoidali "flessibili" o l'equazione di Weibull (Yang,
Kozak, Smith 1978; Yin et al. 2003).
21. Si tratta della Haliotis rufescens (red abalone in inglese, "orecchio
di mare" in italiano) diffusa non solo nell'oceano ma anche nel
Mediterraneo.
22. Cfr., per esempio, il saggio di Grosenbaugh sulle funzioni
sigmodi (Grosenbaugh 1965), o le proposte di generalizzazione del
modello di von Bertalanffy (Bhattacharya 1966; Cloern, Nichols 1978).
23. Cfr. Zeide (1993), García (1997, 2005).
24. Cfr. cap. X, nota 8.
Riferimenti bibliografici

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