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FRANCO BORGOGNO

THE VANCOUVER INTERVIEW.

FRAMMENTI DI VITA E OPERE

D’UNA VOCAZIONE PSICOANALITICA.

(Intervista di Christopher Fortune)

Prefazione di Endre Koritar


INDICE

Prefazione di Endre Koritar p.

Premessa dell’Autore

I. Un incontro fondante e le ragioni di un percorso

II. Le esperienze iniziali: luci e ombre

III. Scoperta e riscoperta di un compagno fondamentale:


Sándor Ferenczi

IV. Psicoanalisi come conversazione speciale e come


apprendimento progressivo dalle emozioni e
dall’esperienza relazionale

Bibliografia p.

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Prefazione

L’intervista di Franco Borgogno sulla “psicoanalisi come percorso

reciproco di analista e analizzando” è una metafora affascinante per il

cammino verso la conoscenza di sé che idealmente si sviluppa all’interno

dell’analisi. Percorsi, viaggi e l’idea della ricerca di un oggetto ideale non

sono metafora rara in letteratura e in mitologia, né lo è il tragitto come

allegoria della scoperta di sé. Nel Parsifal di Wagner, l’eroe parte alla

ricerca del Sacro Graal ma il suo vagare per il mondo non lo condurrà a

buon esito, anzi lo deluderà fino al momento in cui, ritornato a casa,

scoprirà che il Graal giace proprio lì, ossia dove il viaggio ha avuto inizio.

La ricerca del Graal è così un percorso interiore e non esteriore. Nel

Pellegrinaggio in Oriente, Herman Hesse narra di un gruppo di cercatori di

verità che organizzano un viaggio mistico verso oriente ma falliscono la

loro meta, in quanto i protagonisti pensano che l’illuminazione sia il

raggiungimento di una destinazione concreta, di una fonte reale da

rinvenire nel mondo, e non quindi una conquista di un “luogo interiore del

sé”, come Hesse spiega nelle ultime battute del suo libro per bocca del

vecchio servitore Leo. Gurdjieff nei suoi Incontri con uomini straordinari,

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Mann in La montagna incantata, Kubrick in 2001: Odissea nello spazio e

altri ancora adottano infine la metafora del percorso come tramite

allegorico per ritrarre l’uomo nella sua ricerca di senso, di verità, del

proprio vero sé. Borgogno si trova dunque in ottima compagnia

nell’affidarsi a questa metafora per raffigurare il lavoro psicoanalitico e

parlarcene.

Borgogno, in particolare, sottolinea come questo percorso debba essere

intrapreso da due persone e come comporti perciò, in realtà, due percorsi

alla scoperta di sé: quello dell’analizzando e quello dell’analista. Ciascuna

analisi implica di conseguenza non solo l’analisi del transfert ma anche

l’analisi del controtransfert. L’Autore segue infatti Paula Heimann, che

raccomanda di utilizzare il controtransfert quale strumento essenziale per

un’approfondita esplorazione della mente inconscia dell’analizzando.

Anche l’analista è così impegnato, congiuntamente all’analizzando, in un

analogo cammino interiore volto a esplorare i rispettivi mondi interni. Si

potrebbe infine ampliare ulteriormente questa prospettiva suggerendo che

di fatto in ogni analisi siano in corso e si intreccino ben quattro viaggi

simultanei.

In primo luogo noi apprendiamo di seduta in seduta gli eventi di vita

dell’analizzando : eventi spesso segnati dal trauma, dalla tragedia, dalla

deprivazione, dall’abuso e dall’abbandono perpetrati su di un individuo in

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condizioni di vulnerabilità. Ne veniamo di solito a conoscenza attraverso i

ricordi dell’analizzando (ricordi reali, ricordi schermo o fantasie vere e

proprie), attraverso le sue associazioni, le immagini oniriche, le ripetizioni

compulsive e le manifestazioni psicosomatiche, che tutte quante

caratterizzano e accompagnano il transfert, il controtransfert, i sogni, le

associazioni libere, le fantasticherie diurne, i lapsus o altri aspetti della

situazione analitica. Insieme, la coppia analitica può per questa via

ricostruire il passato infantile che è stato rimosso da un Io prevalentemente

conflittuale.

In secondo luogo, è il mondo interno delle relazioni d’oggetto

interiorizzate a emergere nello spazio analitico. Le rappresentazioni del Sé

e dell’oggetto vengono, come sappiamo, introiettate e quindi proiettate con

il risultato di esternalizzare sulla figura dell’analista, e sovente sulla sua

pelle, le relazioni oggettuali dominanti nel proprio mondo interno. Gli

oggetti che un tempo furono traumatici e che continuano nel presente a

traumatizzare l’analizzando vengono in sintesi a rifarsi vivi e a essere

rigiocati nei processi del transfert. La coppia apprende pertanto in questo

modo come è fatto il mondo interiore dell’analizzando: essenzialmente

attraverso le fantasie inconsce per come esse si presentano e si ripresentano

tramite il pensiero onirico, gli enacment, le associazioni o i lapsus.

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In terzo luogo, anche l’analista sogna il paziente. L’esame delle fantasie

inconsce dell’analista attraverso l’autoanalisi è esso stesso un viaggio a cui

egli non si può sottrarre: un viaggio che sempre l’analista deve

intraprendere al fine di capire il significato del suo controtransfert, dei suoi

enacment, dei suoi prodotti onirici, dei suoi lapsus e della sua reverie.

Anche l’analista, in breve, non differentemente dal suo analizzando, è

coinvolto in una vera e propria catena di enacment provocati dai suoi

sentimenti controtrasferali, dalla sua role responsiveness, dalle sue

identificazioni proiettive o dai suoi role-reversal.

In quarto luogo, la coppia analitica co-costruisce una terza area che è

l’esito delle proiezioni di entrambi e che viene a costituire la trama del loro

dialogo a livello conscio e inconscio, come suggerisce Bollas quando parla

d’essa come di una fonte specifica da cui proviene il senso delle cose. La

coppia analitica “si accorda” reciprocamente e finisce per sviluppare un

linguaggio particolare e originale che utilizza immagini oniriche simili ma

associate a oggetti interni differenti: è infatti proprio di qui che da una

relazione d’oggetto che tutto subito assomiglia a quelle più antiche si viene

a creare una diversa e nuova relazione d’oggetto. Tuttavia, dal momento

che sia l’analista che l’analizzando sono entrambi completamente presi

nell’atto di sognarsi l’un l’altro e di reciprocamente digerire-assimilare le

esperienze che l’analisi (idealmente) evoca, si rende lentamente possibile

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un nuovo inizio, di modo che può essere sconfitta la ripetizione compulsiva

che porta a rigiocare i comportamenti del passato nel presente e una nuova

storia può essere scritta.

Questo quarto percorso è il frutto del lavoro di working through che

analista e analizzando compiono sugli enacment del transfert e del

controtransfert nella lunga onda dell’analisi. Se nelle altre tre fasi del

cammino entrambi i partner della coppia analitica sono principalmente

impegnati nel rimettere in gioco il proprio passato e l’introspezione rimane

piuttosto inerte, catturata – si potrebbe dire – dal vortice delle ripetizioni,

delle compulsioni e del ri-attuarsi dell’esperienza traumatica nella

situazione presente a causa delle lotte generate dalle dinamiche di transfert

e controtranfert, in quest’ultima parte del cammino, al contrario, la coppia

tenta di ri-scrivere il passato grazie allo sviluppo di una nuova pelle

analitica in grado di contenere le precedenti vicissitudini catastrofiche e

frammentarie attraverso l’acquisizione della capacità di formazione dei

simboli e, quindi, di costruzione di nuove trame narrative. Borgogno si

riferisce a ciò quando parla della nascita del sé in analisi: un evento che si

può realizzare solo nel momento in cui l’inerte introspezione si viene a

trasformare, lasciando il posto a una più dinamica funzione di

autoriflessione e di reverie che rende accessibile la scoperta e l’espressione

del vero sé precedentemente rimosso.

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Borgogno crede fermamente che l’atteggiamento dell’analista e la sua

disponibilità recettiva nell’accogliere le proiezioni dell’analizzando siano la

chiave elettiva che consente di risvegliare e riavviare un processo

introspettivo stagnante e bloccato. La coscienza di sé che l’analista

raggiunge attraverso l’autoanalisi e la sua spontanea risposta alle proiezioni

dell’analizzando, assieme all’impegno di entrambi nel rivivere e sostenere

tutto il carico catastrofico e frammentario che le relazioni oggettuali del

passato portano con sé all’interno del transfert e del controtransfert,

permetteranno infine di trasformare quelle esperienze in una nuova trama

narrativa intrisa, questa volta, di speranza, poiché il nuovo inizio darà alla

luce un modo di essere più consono e confacente alla propria specificità.

L’intervista di Christopher Fortune a Borgogno è sostanzialmente una

sorta di role-reversal nel quale Borgogno assume la parte dell’analizzando

e Fortune quella dell’analista che esplora i percorsi analitici di Borgogno.

Nel suo primo percorso veniamo posti di fronte all’esperienza infantile

dell’Autore: lo scopriamo con una madre fragile, “fatta di pasta”, e un

padre alquanto dogmatico. Un percorso che Borgogno si ritroverà a

riattraversare nella sua prima esperienza di analisi e per certi versi nel

venire a contatto con quelle componenti del suo training analitico che egli

avverte altrettanto dogmatiche. Ambedue queste esperienze ricreeranno

quel clima infantile a lui conosciuto che, “annientando l’anima e

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svuotandola di ogni possibile autenticità e creatività individuale”,

favoriranno l’esternalizzazione dei prototipi relazionali del suo mondo

interno, finché nel terzo percorso l’Autore si sentirà sognato dal suo

secondo analista che, nello spazio analitico che gli offrirà, andrà finalmente

alla ricerca del vero sé dell’analizzando con cui si trova. Sarà questa

seconda analisi (che coincide sempre con il terzo percorso) a riuscire a

modificare la “friabile pasta” di sua madre nella duttile e nutriente “pasta

napoletana” ch’egli desidera, e gli ordini assoluti di suo padre (“conformati

a noi!”) nel più flessibile “sii te stesso” veicolato dall’atmosfera creata dal

suo nuovo analista….

È esattamente a questo punto che prende inizio il quarto percorso,

quello che Borgogno descrive come caratterizzato da leali e solidali

“compagni di viaggio” – Ferro, Bion Talamo, Bolognini e Vallino – che

partecipano con lui a nuovi e inediti cammini. È insieme a loro che ha

luogo quel nuovo inizio che lo porterà a introiettare e assimilare le opere di

Ferenczi, di Heimann e di Bion per sviluppare la propria personale visione

del lavoro psicoanalitico. Una visione maggiormente basata su di un

autentico soggettivo interessamento alla persona dell’analizzando (à la

Ferenczi) e non su di un interesse oggettivo e astinente per la mente del

paziente (à la Freud).

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Nel concludere l’intervista, Borgogno si serve della storia del “piccolo

orso”, che viene “imbacuccato” di troppi indumenti dai propri apprensivi

genitori affinché egli possa affrontare le molte ostilità del mondo che lo

circonda. Ma – come racconta la storia – egli incontra un dottore saggio

che gli consiglia di liberarsi del superfluo manto protettivo poiché possiede

già una sua pelliccia abbastanza solida (una pelle sufficientemente buona)

da proteggerlo dalle intemperie del tempo e dalle incombenze del mondo

esterno.

In questi suoi percorsi psicoanalitici, Borgogno si schiude

generosamente e senza riserve al suo pubblico rendendoci pienamente

partecipi dell’evoluzione che lo ha portato, negli anni, a divenire “a good

enough analyst”, con in più un pizzico di saggezza “tutta sua” che lascia ai

suoi ascoltatori la sensazione di essere stati nutriti a sazietà dall’ottima

pasta napoletana che ha sognato e “incontrato” nella sua seconda analisi.

L’Autore in aggiunta, invitandoci al momento del commiato a Roma al

futuro congresso Bion 2008, si congeda da noi con il sogno di prossimi

futuri “second thoughts”.

29-30 marzo 2007

Endre Koritar

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PREMESSA DELL’AUTORE

Questa intervista, condotta da Christopher Fortune, “psychohistorian

and Ferenczi scholar” *, ha avuto luogo in Vancouver il 22 marzo 2007 in

occasione dell’invito da parte della Western Branch Canadian

Psychoanalytic Society (IPA) e del suo presidente Endre Koritar a tenere

seminari teorici e clinici per i candidati al training e a discutere al loro

congresso annuale sia un mio lavoro personale (Becoming an individual: a

psychoanlyitc journey with a schizoid-deprived patient) sia un caso di

analisi portato da una collega canadese. L’organizzazione dell’intervista,

configurata come un “meet the author” data la concomitante uscita della

traduzione inglese del mio libro Psicoanalisi come percorso (1999), è stata

sponsorizzata – grazie a Christopher Fortune – dalla Simon Fraser

University, Institute for the Humanities, dal suo direttore Anne-Marie

Feenberg-Dibon e dall’“assistant professor” Samir Gandesha.

*
Christopher Fortune è, noto nella cerchia ferencziana ma non solo, come editor di The
Sándor Ferenczi e Georg Groddeck Correspondence (1921-1933), London, Open Gate
Press, 2002.

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La calorosa accoglienza degli psicoanalisti canadesi e la loro

determinazione a sostenere il mio modo personale di formulare il pensiero

freudiano, il progetto di Judith Dupont e di molti altri amici ferencziani di

pubblicare l’intervista in francese, spagnolo e inglese, sono stati incentivo

decisivo alla presente edizione per il pubblico italiano.

Voglio infine ringraziare Christopher Fortune, Endre e Danielle Koritar,

Fabio Rossi, Alessandra Capperdoni, nonché tutti i colleghi canadesi, per la

generosità con cui mi hanno ospitato e sostenuto nel mio non facile

esprimermi in un’altra lingua, facendomi sempre – potrei dire senza

esagerazione – “sentire a casa”.

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I.

UN INCONTRO FONDANTE E LE RAGIONI DI UN PERCORSO

C. FORTUNE: Donde deriva il titolo del tuo libro “Psicoanalisi come

percorso”, un libro che è – se ho ben capito – l’espressione pubblica

dell’intrecciarsi dentro di te del percorso della psicoanalisi, del percorso

di alcuni autori d’essa da te privilegiati e amati e, quindi, del tuo percorso

come persona e psicoanalista?

F. BORGOGNO: Sono sicuro che in questa tua domanda c’è il cuore di

quello che sarà il tema di quest’intervista, per cui non mi preoccuperò nel

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risponderti di andare al centro. Procederò, piuttosto, a braccio lasciandomi

ispirare dall’“associazione libera”, un “pivot” – come sai – del metodo

psicoanalitico, anche se oggi riconosciamo come le associazioni libere

siano “libere” soltanto fino a un certo punto. Per quanto mi riguarda io

utilizzerò qui con te e con voi l’associazione libera nel senso di “prendermi

la libertà” di affrontare con agio la tua domanda senza sentirmi pressato;

cosa che tu certamente non vuoi e che renderebbe sterile quest’incontro.

L’“associazione libera” è del resto affidarsi al preconscio lasciando che da

esso emerga una propria risposta senza volerla immediatamente

individuare.

Per risponderti partirò perciò da lontano, dagli inizi del mio percorso

come persona e come psicoanalista, sottolineando subito che l’aggettivo

“lontano” è per me un parametro molto importante. Un parametro utile –

cioè – per valutare il percorso di una disciplina o di un soggetto: un

paziente ad esempio o un autore…; il percorso di un pensiero, e così via.

Io come molti sono partito da lontano: mi sentivo lontano a me stesso e

rispetto al gruppo dei miei pari, lontano rispetto ai valori culturali e alle

aspettative del mio gruppo di riferimento…; e – nella mia idealizzazione

della psicoanalisi da adolescente qual ero (ho scoperto la psicoanalisi

quando avevo 16-17 anni) come risorsa che mi avrebbe avvicinato a me e

agli altri – ho sperato per l’appunto di incontrare attraverso essa qualcosa o

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qualcuno che mi avrebbe potuto riconciliare con la comunità esterna e

interna, diminuendo la dissociazione che avvertivo dentro di me. Non la

chiamavo naturalmente allora “dissociazione”: sentivo che qualcosa “mi

sbarrava la vista”, avvertivo me stesso come qualcuno che aveva un valore

ma nello stesso tempo mi sentivo niente e inesistente, con affanno cercavo

uno sguardo che mi riconoscesse.

Posso dirlo con due immagini per me importanti. Un’esperienza

dapprima… Un mattino, in vacanza, mi trovai solo in mezzo al mare grosso

non distante dalla riva: le onde alte e impetuose non mi spaventavano,

anche se ero consapevole di quanto fossero alte e impetuose. Sentii che

dovevo affidarmi senza paura… e lasciarmi trasportare dalla corrente… e,

nel sentire questo, percepii che ero vivo e che la vita, benché mi facesse

paura, era un mistero che mi attraeva.

Un sogno: sognai che il terreno davanti alla chiesa del paese da cui

proviene la mia famiglia paterna sprofondava sotto i miei piedi: con terrore

mi ritrovavo in un tempio indù in cui un bramino – guardandomi

intensamente – offriva a me, vergognoso e fuori posto rispetto a quel luogo,

una pietra verde a forma di rombo che nelle mie mani si illuminava e

illuminava l’ambiente circostante.

Col senno d’oggi quelle due esperienze che immediatamente avvertii

importanti erano il segno che mi sarei tuffato nella vita nonostante il non

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sentirmi completamente equipaggiato e, dunque, anche con rischio; e che

avrei incontrato prima o poi qualcuno o qualcosa che mi avrebbe dato la

speranza di avere un valore, riscattando la mia miseria e la mia vergogna.

Erano, in altre parole, due esperienze di futura integrazione che mi

annunciavano che sarebbero presto arrivate “buone cose”.

E così fu… perché individuai la fonte di queste buone cose nella

psicoanalisi. Sapevo in realtà assai poco di che si trattasse se non che

comportava la presenza di qualcuno – saggio – che ti avrebbe preso per

mano e ascoltato ed era, questo, un genere di cose molto distante dalla

cultura circolante nella mia famiglia, una famiglia anche in parte colta e

financo di nobili radici per parte paterna, ma usa ad affidarsi alla

Provvidenza celeste piuttosto che a quella umana, incarnata da persone.

Fu l’inizio della fiducia: per certi versi “cieca” perché il mio primo

analista era assolutamente silenzioso, ma uscii da quella prima esperienza

analitica con la sensazione che respiravo molto meglio e che possedevo

dentro di me un qualche “sacro fuoco”… per cimentarmi con coraggio

nella vita che mi avrebbe aspettato. Mi ritrovai cioè con l’immagine, o

meglio con l’idea, di essere stato aiutato poiché nessuno – intendo il mio

analista – aveva interferito con le mie scelte e con il mio cammino: avevo

potuto in sostanza essere me stesso… (ecco cosa intendo per

“idealizzazione”, se non si fosse capito); ma l’essere me stesso lo raggiunsi

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in verità solo successivamente grazie all’aiuto sostanzioso di una seconda

analisi avviata con un analista che tutto subito mi parve parlare troppo e in

modo strano…

Questo secondo analista disse ad esempio in prima seduta qualcosa

come “Rosso Borgogno, Rosso Bordeaux”… di fronte a un mio sogno in

cui acquistavo un’abat-jour dal colore rosso Bordeaux. Lui associò

evidentemente al mio sogno il vino… ed io… difendendomi dalla sua

risposta con il dire immediatamente che la mia famiglia non faceva il vino

(“Borgogno” in Italia è stata una famosa marca di Barolo e Barbaresco) se

non per proprio uso e consumo e nel passato… aggiunsi che nel sogno mi

ritrovavo subito dopo al mare e “raccoglievo anche una conchiglia che

ritenevo potesse essermi utile”. Al che lui disse che mi preparavo a

“difendere le mie palle” con vigore: “la conchiglia” – per lui – “era quella

dei pugili”… che li difende “dai colpi bassi”!

Fu, in breve, siffatto incontro – al di là del subitaneo sconcerto –

l’esordio di “una grande intesa” (ricordate la canzone italiana “Abat-jour”,

quella degli anni 40 diventata famosa in tutto il mondo attraverso i film

Ieri, oggi, domani [1963] e Prêt-à-porter [1994] come colonna sonora

dello spogliarello di Sophia Loren di fronte a Marcello Mastroianni) e di un

grande interesse e meraviglia per chi mi aveva risposto – senza quasi

conoscermi – descrivendomi con l’amore di un genitore come un “buon

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vino promettente”, per chi in sintesi – lo ripeto: “con l’amore di un

genitore” – mi aveva fatto credito. Il Barolo e il Barbaresco possono

diventare sempre più buoni e preziosi “invecchiando”, non è curioso?

Questa concessione, reciproca, di credito fu ben riposta e mai deludente:

non vi furono “porte chiuse” (spesso nella prima analisi trovavo

letteralmente la porta chiusa e non solo metaforicamente e nessuno mi

aveva avvertito e si sarebbe scusato) e da ciò imparai a riconoscere con lui

“i colpi bassi del mio destino”: un padre che mi affidava a Dio, alle

preghiere e alla provvidenza celeste disertando di confrontarsi con me e

una madre che si assentava all’improvviso mentalmente senza che si

sapesse il perché e che, sebbene per altri versi fosse persona creativa e

giocosa, non si lasciava spesso avvicinare canticchiando – per me

spudoratamente e irrispettosamente – “chi mi tocca mi guasta, sono fatta di

pasta!”.

Ecco Kit – per inciso – da dove deriva uno dei concetti principali del

mio libro Psicoanalisi come percorso, quello di “spoilt children”: non

bambini viziati e tirannici come hanno messo in rilievo gli psicoanalisti

inglesi, ma bambini spogliati, deprivati da caregivers che hanno introdotto

nei bambini le proprie aspettative e le proprie ansietà, estroiettando con le

loro (dei genitori) proiezioni qualcosa di specifico appartenente a loro (ai

bambini).

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Sono sicuro Kit che vorrai ritornare su questo mio concetto

fondamentale che mi permette di unire molti autori della seconda

generazione, Heimann, Bion e Ferenczi, autori tra i miei “più preferiti”, e

di contrastare con le loro voci, spesso nel passato silenziate dalla nostra

comunità, alcuni dogmatismi freudiani e kleiniani. Lascio perciò a latere

questo argomento, per introdurre ancora qualcosa sul tipo di pasta di cui era

fatto il mio secondo analista.

Pasta verace doc, da napoletano di origine come lo immaginavo. Ma

seppi più tardi che era una mia fantasia il suo essere napoletano: una

fantasia che penso oggi potesse essere anche connessa al mio viverlo

all’inizio dell’analisi come una sorta di “grande star”. Non si dimentichi in

proposito che Sophia Loren rappresenta per noi italiani il prototipo dell’

“essere napoletano”.

Pasta verace doc, comunque: perché com’egli era si confaceva ai miei

desideri più profondi di un genitore equo e flessibile, forte e sensibile,

duttile e autorevole, serio e giocoso. Quando, per esempio, venni a sapere

all’ora della mia seduta che mio padre stava morendo e ch’era stato

ricoverato d’urgenza all’ospedale, arrivato da lui in seduta a Milano mi

rispedì immediatamente a Torino a casa mia perché in quella contingenza

avevo bisogno di mio padre piuttosto che dell’analista. Mio padre stava

morendo (come di fatto accadde) mentre lui – il mio analista – era in buona

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salute: noi avremmo quindi avuto tempo, ma non poteva essere disertato

l’appuntamento con mio padre. Allorché invece, anni dopo, mia madre

ebbe un’“ischemia transitoria” e dovetti andarla a prendere al treno (i suoi

vicini me l’avevano “spedita” dalla casa di vacanza al mare dove si

trovava), al momento dell’incontro e per alcuni giorni non mi riconobbe…

ma a detta di tutti fui in quell’occorrenza un “perfetto e squisito infermiere”

finché non si ristabilì. Ritornato in analisi dopo una settimana d’assenza,

nel bel mezzo del mio raccontare gli eventi e il mio shock per non essere

stato riconosciuto mi trovai preso da una corrente irresistibile, da un pianto

irrefrenabile che non riusciva ad arrestarsi e che anch’io non volevo

arrestare. Egli attese e alla fine della seduta, prima di accomiatarci, disse: «

ecco la sua “vista sbarrata” con cui si è descritto da ragazzo e che tutt’oggi

sporadicamente la preoccupa; ed ecco dove son originate le sue capacità di

infermiere e, dunque, il suo anelito a fare un percorso come analista ».

“Partendo da lontano”, come ho premesso, ho dato una prima risposta

alla tua domanda: da dove deriva il titolo del mio libro principale e il mio

riferirmi al percorso. Voglio solo aggiungere che il percorso – anche quello

psicoanalitico – è un percorso di vita, di “real life events” e non solo “lived

events”, come sensibilmente e acutamente sosteneva Ferenczi (1920-1932),

e che la storia è importante per capire chi siamo come persone e

professionisti, la storia delle relazioni familiari, della trasmissione affettiva

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da una generazione all’altra, e che al centro d’essa vi sono le

identificazioni…. una parte delle quali è inconscia. Il mio saggio secondo

analista mi aveva svelato questo mistero sapendo ch’era di questa stoffa

che era costituito il sé di una persona, che – se conosciuto-riconosciuto – è

il primo tesoro, non importa se la trama del tessuto sia ricca o povera: se

conosciuto e riconosciuto è un tesoro perché lo possiamo mettere in

circolazione nel rapporto con noi e con gli altri e farlo fruttificare.

Questo saggio secondo analista aveva perciò – per così dire – “aperto” i

miei sogni e le mie visioni…; li aveva resi significativi offrendomi la

possibilità di elaborare me stesso senza che rimanessi “sbarrato” per

l’assenza dell’ “altro di cui ognuno di noi ha bisogno per crescere” e a

causa delle “sue pre-concezioni e pre-giudizi su di te”.

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II.

LE ESPERIENZE INIZIALI: LUCI E OMBRE

C. FORTUNE: Franco, tu ci hai appena parlato del tuo background e, in

particolare, di come sei giunto alla psicoanalisi. Potresti estenderti

maggiormente sul tuo percorso di studioso della psicoanalisi e su come

hai alla fine deciso di diventare uno psicoanalista? L’ultima cosa che hai

appena detto concerneva «la possibilità di elaborare se stessi senza

rimanere sbarrati per l’assenza dell’ “altro di cui ognuno di noi ha

bisogno per crescere”» e «a causa delle sue (dell’altro) “pre-concezioni e

pre-giudizi”»: che cosa davvero intendi con questa affermazione? Nel tuo

“Psicoanalisi come percorso”, appena pubblicato nella nostra lingua, tu

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scrivi che hai dovuto lottare con fermezza per poter esprimere la tua voce

nel dibattito psicoanalitico in corso e per mantenere vivo il tuo “vero sé”

di fronte alle pressioni della comunità dei colleghi, ed ora hai sottolineato

quanto sia importante elaborare l’ “assenza dell’altro” e le “sue pre-

concezioni e i suoi pre-giudizi”. Io penso che questi due aspetti siano

strettamente collegati e mi è sembrato che tu per primo li abbia connessi

nella tua risposta. E’ davvero così? Ti ho capito bene?

F. BORGOGNO: Per risponderti partirò ora dalla mia esperienza come

studente post-universitario interessato ai processi mentali e, quindi, come

candidato psicoanalista interessato a capire le persone e la loro specifica

esperienza soggettiva al fine di aiutarli a gestire la loro sofferenza e, se

possibile, aiutarli a modularla e superarla, almeno in parte.

Appena specializzato in psicologia, e in concomitanza con l’esordio

della mia seconda analisi, iniziai – sulla scorta della mia lettura di

All’origine della nostra immagine del mondo di Roger Money-Kyrle

(1961) – a scrivere L’illusione di osservare (1978): un libro

sull’importanza del controtransfert nella scienza e in psicologia; in breve,

sul coinvolgimento di idee e affetti specialmente per quanto riguarda

l’osservazione psicologica. Credo che le ragioni profonde che mi spinsero a

questo studio fossero da ricercarsi nella mia esperienza di analisi appena

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avviata dove stavo con entusiasmo apprendendo e verificando su di me che

le “persone cambiano e così i loro pensieri”… “ma ci vuole tempo” e

soprattutto è necessario “incontrare un altro” che si occupi di te e un

“contesto diverso”… “da quello in cui prima eri cresciuto”.

Mi spiego meglio per chiarire come lo stavo apprendendo: stavo ad

esempio verificando l’importanza di avere vicino una “persona in carne e

ossa” che mi rispondeva, che mi insegnava delle cose ogni volta che la

incontravo e che rendeva con il suo ascolto generoso le mie associazioni

libere “creative”, precisando che esse sarebbero diventate creative anche

per me se imparavo a usarle in modo comunicativo e non dissociativo,

tenendo cioè conto che l’associazione libera freudiana era importante se

l’individuo che l’usava ne cercava il significato in rapporto all’altro e agli

eventi e ai contesti di vita che stava sperimentando. Senza un lavoro di

questo tipo, infatti, le associazioni libere rischiavano di divenire nient’altro

che “dissociazioni libere” e di rimanere perciò puramente un prodotto

narcisistico che non promuoveva neppure una comunicazione con se stessi:

stavo – in altri termini – imparando che un conto è l’oggetto interno di

fantasia, con cui tu ti metti in rapporto, e un conto è l’oggetto esterno con le

sue risposte e i suoi silenzi e, insieme a ciò, stavo imparando che per

comunicare bisogna fare uno sforzo verso l’altro, uscire dal proprio

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“bozzolo fusionale” proiettandosi verso l’esterno e “gettandosi senza

timore nel mondo” come soleva dire Heidegger.

Mi veniva peraltro rimandato dal secondo analista che le fantasie, le

immagini interne, non erano folli – cioè prive di senso – ma ricche di

ragioni che dovevano essere scoperte; che contenevano quindi una

percezione sana ma molte volte (per me, intendo) “muta”. Muta: perché in

passato non aveva ricevuto una risposta, perché era stata fraintesa, o perché

– detto con le parole di Bion (1962) – non era stata emozionalmente

“alfabetizzata” da chi avrebbe dovuto svolgere questo compito. Il compito

psicologico – lo specifico – di un genitore che individua le espressioni e i

bisogni del bambino, vi dà un senso e – se necessario – vi provvede. Mi

veniva in sostanza insegnato a vedere sia me stesso che gli altri… e tutto di

conseguenza s’arricchiva in me e attorno a me, e soprattutto mi veniva

insegnato – questa volta più autenticamente – che potevo “essere me

stesso”.

Non dimentico a questo proposito il giorno in cui il mio analista mi

disse: «lei continua a essere pressato in ciò che mi dice in risposta a cosa io

le dico da una sorta di fretta di cambiare: il suo problema è “essere”, non è

dover “diventare diverso”, “cambiare”». Fu un radicale mutamento di

prospettiva: “potevo essere me stesso”… e quanto era difficile esserlo e

acquistare il senso di avere importanza per quello che si è e si fa di per sé e

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per sé, visto che sino ad allora mi ero giocoforza dovuto specializzare nel

cambiare per andare bene rispetto alle aspettative e ai bisogni dei miei, che

mi avevano comunicato qualcosa del tipo: “devi cambiare, non va bene

come tu sei”.

Ora, però, metto da parte l’aspetto più personale, quello appartenente

alla mia vita privata, e passo invece agli anni come candidato dove il

pensiero di partenza a cui ho accennato prima in questa mia seconda

risposta – “il pensiero e le persone cambiano… ma ci vuole tempo e deve

esserci un contesto diverso perché ciò accada” – benché semplice e

condivisibile, e uno direbbe “certamente al centro dello spirito

psicoanalitico!”, non andava così tanto per la maggiore nell’istituto di

training dove mi stavo formando.

Mi spiego: Freud aveva già detto tutto, non c’era bisogno di leggere

molti altri autori… eccetto i più grandi che allora erano essenzialmente

alcuni freudiani e poi la Klein, la Klein e la Klein e pochi altri… per lo più

kleiniani. A Milano allora eravamo colonizzati dagli inglesi di Londra che,

sì, avevano importato un nuovo stile, uno stile sicuramente meno

improntato alle “dissociazioni libere” nella comunicazione fra analisti e più

attento al contesto nella lettura dei materiali… ma purtroppo il contesto che

loro avevano in mente poteva essere solo quello interno, per loro

“l’esclusivo” motore del transfert, poiché, se ci si riferiva al contesto reale

25
in cui uno viveva e soprattutto era cresciuto (incluso quello analitico),

rischiava di sentirsi dire ch’era sbagliato e, se uno persisteva in quest’idea,

che doveva riconsiderare di poter tornare in analisi… .

Non era tutto così ovviamente, spirava – fra alcuni dei nostri maestri –

una certa “brezza rinfrescante”, ma questa qui da me tratteggiata in una

forma che può sembrare caricaturale era davvero la visione dominante…;

una visione che contrastava per più versi con il mio apprendimento

analitico e con come io andavo intendendo la psicoanalisi…, sia con la mia

pratica sia con le mie letture. Insegnando fra l’altro in quegli anni Freud e

la Klein in una scuola tipo Tavistock connessa alla cattedra di

Neuropsichiatria dell’Università di Torino, a una nuova lettura di questi

autori insieme agli studenti – una lettura finalizzata a leggerli nel percorso

immedesimandosi in loro stessi per comprendere il loro sviluppo teorico e

clinico – mi trovavo numerose volte critico nei confronti di Freud e ancora

di più della Klein.

Certamente non era la critica il fine di questi seminari di studio, ma

“apprendere dall’esperienza di chi ci aveva preceduto”: dai loro iniziali

tentativi di comprendere, dalle loro emozioni, dalle loro idee, dalle loro

difficoltà, insomma dal loro percorso. Ciò nonostante a una nuova lettura,

finalizzata in questo senso, non era possibile non rendersi conto di come i

“nostri genitori psicoanalitici”, benché desiderosi di introdurre una nuova

26
psicologia fondata sugli affetti e sulla relazione, erano alquanto “fobici” nei

confronti della relazione e degli affetti, di fronte ai quali sovente ponevano

una sorta di diktat che più avanti negli anni ho definito “no-entry”. Vi

erano, ossia, cose che potevano essere viste e ascoltate, ma parimenti vi

erano altre cose che non erano viste, non erano ascoltate e che, al limite,

non dovevano proprio essere viste e ascoltate…; e queste riguardavano

soprattutto le emozioni infantili, le percezioni corrette dei bambini, la loro

storia relazionale assai spesso poco felice; il loro contributo al lavoro

terapeutico e al lavoro dell’analista e così via.

L’ascolto offerto era pertanto “one-sided” e in quel tipo di ascolto

l’analista e i genitori erano per definizione nel giusto, non sbagliavano,

avevano ragione, sapevano…; e – oltre a tutto ciò – mi sembrava che

talvolta sia Freud ma in particolare la Klein non facessero una “differenza

fra diritti e doveri dei bambini e degli adulti”, “dei pazienti e dei loro

terapeuti”, e che non raramente non avessero proprio nessuna idea di che

cosa fosse un bambino piccolo e di che cosa fosse essere una buona madre

o un buon padre.

Conseguentemente mi sentivo nuovamente fuori posto come all’interno

della mia famiglia, mi sentivo nuovamente chiedere una fiducia “cieca” e

una rinuncia ai miei moti immedesimativi più immediati… ma questa volta

non rimasi solo a perseguire questi pensieri segreti che non dovevano

27
essere espressi ai grandi. Trovai sintonico con questi pensieri critici segreti

il “gruppo dei pari” (e che gruppo dei pari: fra i miei compagni di training,

compagni dei miei anni, vi erano Antonino Ferro, Stefano Bolognini,

Parthenope Bion Talamo, e un po’ più “grande” di noi Dina Vallino…!)…

e imparai così come fosse importante il “gruppo dei fratelli e delle

sorelle”… e quanto importante fosse la condivisione con loro e il sentirsi

da loro riconosciuti. Devo dire oggi che fui fortunato, perché

frequentemente se si guarda alla storia della psicoanalisi il gruppo dei

fratelli è stato più impietoso e feroce dei nostri stessi progenitori

nell’affossare senza remore – per gelosia e per invidia – i propri compagni

di percorso.

Ma come mi spiegavo tutto ciò? Me lo spiegavo con una certa troppa

severità e troppa indifferenza: una sorta di coté anti-emotivo e anti-

relazionale circolante nella psicoanalisi e nella comunità psicoanalitica.

Una comunità dove ancora negli anni della mia formazione – ma continua a

succedere tutt’oggi – se offri la mano te la si può lasciar cadere; dove non

sempre vieni salutato… come se il saluto e l’affettuosità fossero “un di

più”, non necessari…; dove non è d’uso dirti che vai bene, che hai delle

capacità e delle risorse ma sei sempre sotto esame… specialmente se vuoi

andare avanti; dove l’atmosfera è – in sintesi – carica di Super-io e di “do

and dont’s” e, soprattutto, è carica dell’idea che uno cresce nel dolore…,

28
che è la fonte del pensiero e di ogni buona cosa se è tollerato e modulato

dall’individuo.

Per farla breve, tutto ciò mi divenne via via intollerabile perché una

famiglia orientata in questo senso – aristocratica e severa – l’avevo già

avuta e perché, per l’esperienza analitica che andavo facendo, mi ero

convinto che la crescita e il pensiero non nascono prevalentemente dal

dolore ma se vieni riconosciuto, se ricevi una risposta generosa e positiva,

se c’è un altro che ti fa credito, se l’altro più anziano di te si ricorda di che

cosa vuol dire essere bambini piccoli, bambini in crescita, puberi,

adolescenti e così via…, se questi può e sa immedesimarsi con le tue

esigenze, le tue ansie, i tuoi dolori…, se sa parlarti da questo punto di vista

ed è capace nel parlarti di non spaventarti e di elaborare dentro di sè la forte

tendenza a “identificarsi con l’aggressore” nel suo ruolo formativo,

ripetendo con te nei panni del più svantaggiato l’esperienza ricevuta

quando lui stesso era bambino e adolescente.

Eccoci così a Ferenczi (1931; 1932ab), alle idee da lui portate avanti

nella comunità psicoanalitica; ma prima di aprire quell’importante capitolo

della mia storia su cui so che tu mi farai delle domande, vorrei ancora dire

qualcosa rispetto a Paula Heimann, come ho già detto prima “un altro mio

mentore”, per accennare ad altri elementi importanti nel mio modo di

vedere le cose.

29
Quando scrissi L’illusione di osservare (1978), come alfieri

dell’importanza del coinvolgimento dell’analista e della sua risposta

emozionale al paziente in un dato momento dell’analisi avevo considerato a

fondo tre autori: il Racker di “Transference and Countertransference”

(1968), il Devereux di “From anxiety to method in the behavioral sciences”

(1967) e la Paula Heimann del famoso saggio del 1949 sul controtransfert

(1949). Il caso volle tuttavia che qualche anno più tardi giungessi a sapere

che Paula Heimann, dopo aver rotto con la Klein proprio con la

pubblicazione di questo saggio (dal momento che per la Klein se uno aveva

sentimenti di controtransfert era probabile che dovesse ritornare in analisi

in quanto non ben addestrato ad accogliere le identificazioni proiettive del

paziente), era andata assai più avanti nell’esplorare l’area dei fenomeni

soggettivi che occorrevano nell’analista nell’hic et nunc e nell’ “onda

lunga” del suo rapporto con il paziente, arrivando a modificare in modo

sensibile e deciso a partire dalla sua pratica clinica la visione che in

precedenza ne aveva fino a ritenere importante la presa d’atto consapevole

della loro quotidiana presenza non soltanto per capire i vari sé del paziente

e il suo mondo intrapsichico (i suoi affetti non solo “subjectively lived”, ma

davvero talvolta indotti dagli altri all’interno di “real life events”: una

differenza per nulla da poco), ma per farsi cosciente dell’aspetto

30
pragmatico delle sue interpretazioni e dei suoi silenzi, di ciò che uno dice e

fa al di là delle parole e del silenzio, di come, cioè, metacomunica.

L’analista – era giunta a dire Paula Heimann verso la fine del suo

percorso – poteva persino permettersi di comunicare al paziente una parte

del suo pensiero concernente il modo in cui era arrivato a formulare la sua

interpretazione… : sia per invitare il paziente a una collaborazione alla

formulazione stessa dell’interpretazione (per comunicargli che l’analista

non è onnisciente ma dipende pur sempre dall’aiuto – fondamentale – che

il paziente gli offre) sia per indicargli, con l’essere disponibile a vivere con

lui un’esperienza a lui medesimo sconosciuta, che il pensiero e il

significato autentici sorgono da un “lavoro di squadra” che molto si può

avvalere del contributo del paziente; e come, in ragione di ciò, i suoi stessi

(del paziente) stati mentali soggettivi (affettivi e cognitivi) – se egli li può

usare – siano estremamente arricchenti per la sua comprensione di lui

stesso e dei potenziali suoi sé, in parte taciti e inespressi (Heimann 1942-

80; 1978; 1981ab).

Ma a questo punto – oltre allo scoprire che più che i contenuti erano

importanti nell’analisi “le funzioni” che l’analista svolge con l’interpretare

e “i suoi metamessaggi inconsci” – la mia domanda era diventata: perché in

psicoanalisi si ricorda solo l’inizio di un percorso di un autore (di uno

psicoanalista per esempio) e non tutto ciò che viene dopo … (sto parlando

31
di Paula Heimann, ma avrei potuto parlare anche di Bion o di Ferenczi:

tutti e tre hanno avuto nella psicoanalisi un analogo destino a questo

riguardo, ricevendo un riconoscimento solo per ciò che concerne il loro

percorso classico, iniziale, mentre tutto il resto – potremmo dire “la fase

più adulta” del loro pensiero – è stata per lo più ignorata e quasi sempre

designata “tarda”, in senso peggiorativo)? Perché non si può dare un valore

al suo cambiare posizione e idee…? Perché non si può essere stati curiosi

dell’evoluzione dei percorsi dei nostri colleghi tanto più quando questi si

mostravano critici dei passi clinici e delle posizioni teoriche

precedentemente assunte?

Ma ritorniamo ancora ai cambiamenti che hanno caratterizzato il

percorso di Paula Heimann: al suo, da un certo momento in avanti, non

essersi più soffermata esclusivamente sui contenuti delle interpretazioni,

ma aver posto l’accento sulle funzioni che l’analista svolge e sui

metamessaggi ch’egli veicola interpretando o stando zitto. A quando iniziò

a dire che le interpretazioni erano “richiamo al contatto” e “alla

reciprocità”; “conferma e testimonianza del desiderio del paziente di avere

un rapporto” e quindi “segno della sua capacità di stabilirlo (anche quando

questa era elementare ed egli non sapeva affatto di essere in rapporto e di

stare parlando del rapporto)”; “dimostrazione – infine – di come l’analista

cercasse di capire il paziente nella sua specificità e lo spronasse a

32
partecipare all’incontro, al pensiero, alla novità, al gioco in cui consiste

qualsivoglia psicoterapia” (Heimann, 1970; 1975). Dicendo e facendo

intendere mentre sottolineava il valore delle funzioni dell’analista – sto

riprendendo qui il suo pensiero in modo personale – che l’analista,

attraverso le interpretazioni o i suoi silenzi, può altresì porre un divieto, un

no-entry al paziente: può, cioè, dire al paziente “fatti più in là”, “così non

mi piaci”, “queste cose non le voglio proprio sentire, non devi parlarne”,

“questo è un qualcosa che non rientra negli argomenti che qui si devono

affrontare”, “se ti esprimi così sei cattivo”, “stai esagerando, le cose non

sono andate così, sono solo fantasie, hai frainteso”, “mi fai soffrire”, “mi

fai morire”… .

Sono per l’appunto tutte queste osservazioni e sollecitazioni prodotte

dalla lettura di Paula Heimann che iniziarono a imprimersi nella mia mente

portandomi alla fin fine a pensare che tutto ciò che lei aveva messo in luce

rispetto alle funzioni e ai metamessaggi poteva essere utilizzato non

unicamente nel proprio lavoro con i pazienti, ma anche per rileggere in

modo nuovo i diversi “missing link” che caratterizzano “la stessa storia

della psicoanalisi” e per capire – disidealizzandoli – i nostri usi e costumi

(non vi sarebbe cioè una sola famiglia di Edipo ma tante famiglie edipiche

quanti sono gli individui, le une diverse dalle altre per via del ceppo storico

da cui ognuna d’esse proviene) e lo stesso nostro modo di muoverci (oggi

33
talvolta non diverso da quello passato), all’interno delle comunità

psicoanalitiche locali a cui apparteniamo e nei confronti delle realtà sociali

in cui ci muoviamo.

Nostra storia, nostra famiglia di Edipo, nostri usi e costumi in molti

sensi per niente encomiabili, ma rispetto ai quali è imperativo non

indugiare più nel fare ammenda delle proprie mancanze e dei propri limiti

come del resto hanno fatto tutte le altre discipline nel loro sviluppo e nella

loro crescita. Nessuna disciplina scientifica è nata infatti “fatta e finita”….

ma ha potuto crescere solamente a partire dal riconoscere i propri errori e

dal sapere modificare le proprie concezioni con l’ampliarsi delle

osservazioni e delle esperienze (Borgogno, 2004).

34
III.

SCOPERTA E RISCOPERTA DI UN COMPAGNO

FONDAMENTALE: SÁNDOR FERENCZI

C. FORTUNE: Con la piega che ha preso il tuo discorso, penso che

siamo all’ “eccoci a Ferenczi”, come tu hai detto prima, a un autore che

so avere esercitato una notevole influenza sull’evoluzione del tuo pensiero.

So anche che tu sei uno dei membri costituenti della recente “International

Sándor Ferenczi Foundation” (insieme con Haynal, Bonomi, Mészáros,

Széckacs, Kelley Laine) e che da più di dieci anni sei riconosciuto come

35
una figura influente di quel movimento di pensiero, a cui peraltro

appartengo anch’io. Come hai incontrato Ferenczi? Quando e perché è

diventato per te importante? Quali delle sue idee hanno lasciato in te

maggiormente un segno, “trasformando” – potremmo dire – il tuo

pensiero, il tuo sviluppo, la tua pratica? In che rapporto vedi oggi Ferenczi

con Freud...? Puoi dire qualcosa su tutti questi punti… e sottolineare che

cosa del lavoro di Ferenczi è ai nostri giorni così attuale tanto da averlo

fatto ritornare ufficialmente come una figura assolutamente pregnante nel

dibattito contemporaneo?

F. BORGOGNO: Mi sono imbattuto in Ferenczi nel 1970 quando scrissi

la mia tesi di laurea focalizzata sull’aggressività e sull’istinto di morte,…

ma ne avevo letto un solo articolo, “The unwelcome child and his death

instinct”, del 1929 (Ferenczi, 1929a), non sapendo bene come inquadrarne

le tesi principali con le considerazioni metapsicologiche più classiche e più

in voga su cui si basava il mio lavoro di tesi (Borgogno, 1970-71). Scrissi

comunque a margine dell’articolo “terrific” ma lo misi in sostanza da

parte… perché confuso dal fatto che questo articolo nella letteratura era

citato come un articolo a sostegno dell’istinto di morte freudiano. A me

sembrava non lo fosse, che tutt’al più (e al contrario) parlasse dell’istinto di

morte dei genitori, di una loro passione di morte avversa al vivere e che in

36
aggiunta spegneva la vita del bambino soffocandola. Ma allora questi

concetti erano rivoluzionari (so che è unpolite, ma noi allora in Piemonte

dicevamo “erano arabo”, qualcosa cioè di molto distante da noi); bisognava

avere coraggio a restarci su … ma io non avevo ancora la stoffa per farlo,

avevo appena iniziato l’analisi… e – più di ogni altra cosa – credo che le

parole di Ferenczi mi avessero spaventato… perché Ferenczi parlava di

“bambini asmatici”, “che s’ammalavano a livello bronchiale”, di “bambini

che avevano la ‘febbre’ troppo bassa” (“too less” is always something

similar to “too much”), che “diventavano pessimisti” e “svogliati rispetto

al vivere” e che “soffrivano da grandi di una certa impotenza sessuale”.

E butta caso io di alcuni di questi sintomi soffrivo o avevo sofferto:

l’asma e le malattie bronchiali, la temperatura bassa e abnorme; e – come

molti adolescenti – avevo anch’io una visione triste e severa della vita

contro cui però combattevo; e spesso, inoltre, ero svogliato e sentivo che

mi mancava qualcosa che non sapevo cosa fosse… anche se (ma forse

proprio perché), programmato com’ero a una crescita forzata e anticipata,

avevo speso senza risparmiarmi molte delle mie forze e in qualche

momento ne ero pertanto del tutto privo. Non potevo quindi proprio dire

che volessi morire … che non avessi “voglia di vivere”; ma Ferenczi in

quell’articolo parlava anche di odio e di impazienza della madre, di essere

indesiderati, non voluti… tutto perciò deve essermi parso alquanto

37
coincidente con la mia persona, con la mia esperienza…, e però – lo ripeto

– mi fu difficile allora credervi… .

Quando poi Ferenczi fra le righe di questo lavoro parla di “non-

esistenza”, di sentirsi “non-esistenti”, non preparati alla vita, dovetti

nuovamente riconoscermi: a margine ho nuovamente messo a fianco di

quelle righe un punto esclamativo; ma esso è seguito da un punto

interrogativo. Era qualcosa, cioè, che per certi versi non mi riguardava?

Sicuramente, per certi versi, ma col senno di poi potrei dire che

qualcosa di quanto diceva Ferenczi non potevo e non sapevo allora proprio

pensarlo; … era in pratica troppo doloroso pensare che i miei, sì, mi

avevano voluto, ma insieme a ciò avevano voluto un bambino che per molti

aspetti doveva essere diverso da quello che loro volevano, un bambino che

sarebbe dovuto cambiare. E tanto per incominciare io ero diverso, non

facevo l’università che loro avrebbero voluto che io facessi

(giurisprudenza), non facevo la tesi che la maggior parte degli studenti era

invitata a fare, “seguivo – praticamente – un mio percorso”.

Era una sorta di sfida questo atteggiamento ma pure un mio modo di

esprimere al mondo che volevo esistere… ed esistere a mio modo…, ma il

“modo mio” non l’avevo ancora trovato…; e se dovessi dirlo con le parole

d’oggi come mi sentivo allora, direi ch’ero “senza parole” o meglio che

“talora parlavo anche tanto”, ma innanzi tutto con me (scrivevo fra l’altro

38
poesie!) e non sapevo in sostanza affatto donde sorgessero quelle parole, in

specie quelle delle poesie, e perché erano mie… cosa c’entrassero con me.

Tentavo probabilmente, per così dire, un’autoanalisi in mancanza di un

analista.

Ero, in definitiva, un orfano, un “orfano di rêverie”, alla ricerca di

qualcuno o qualcosa che ne fosse portatore… perché un domani la rêverie

la possedessi anch’io e potessi trasformare la “poesia”, che è un pensiero e

una scrittura più privata, in “prosa”, ossia in un pensiero e una scrittura più

“pubblicizzabili” e condivisibili con gli altri e con se stessi.

Fu così “tutta un’altra musica” quando più tardi rilessi Ferenczi agli

inizi degli anni 80 in concomitanza con il mio training psicoanalitico e

ancora di più fu tutta un’altra musica quando, diventato un “associate

member” e poi un “full member” della Società Psicoanalitica Italiana,

mentre preparavo i miei primi seminari alla sezione milanese dell’istituto

nazionale di training (siamo alla fine degli anni 80) lo rilessi più volte

sistematicamente nel “percorso”, dai primi scritti agli ultimi, applicando

alla lettura di Ferenczi l’esperienza psicoanalitica che avevo maturato con i

pazienti…; un metodo che ho applicato – lo ripeto – anche ad altri autori (a

Freud prima di tutto, ma anche a Paula Heimann e a Wilfred R. Bion).

Scopersi all’atto pratico in quegli anni più cose. Quanto in primis fosse

sostanziale osservare e considerare la nascita e la crescita di un pensiero;

39
quanto tempo, quindi, ci voglia perché le proprie idee preconsce si rendano

più consapevoli e utilizzabili nel proprio lavoro (ciò vale anche per le idee

psicoanalitiche) e come inoltre sia sostanziale che vi sia qualcuno che creda

in esse e che vi dia credito. Come infine sia essenziale che il portatore

stesso delle idee creda in ciò che osserva e giunge a pensare.

Quando parlo di “quanto tempo” ho in mente – lo ribadisco – “tempi

molto lunghi”… non brevi: così procede il pensiero e la conoscenza

scientifica e, non diversamente da essi, la crescita di una persona. I pensieri

– come Bion (1961) ha detto – sono grezzi e rudimentali e, per diventare

pensieri effettivi (pensieri cioè capaci di essere utilizzati), hanno bisogno di

“uno che li pensi”, di “un pensatore” e questo si deve ripetere a ogni tappa

del loro sviluppo, infinitamente. Il “pensatore” poi non può ridursi a un

solo individuo: c’è infatti “bisogno di un altro e di una comunità”, di un

altro e di una comunità che ti confermino e ti aiutino in quello che pensi…

“mettendo” naturalmente del loro, cosicché una disciplina, ma anche un

soggetto, sono il frutto di una comunità e non tanto dunque di una persona

sola o di se stessi.

C’è un ambiente – potremmo dire in altri termini – che è “attorno a te”

ma parimenti “dentro di te” fin dagli inizi della vita. Ogni individuo “nasce,

del resto, alla vita psichica”, a una vita psichica che a lui è “pre-esistente” e

così accade per ogni pensiero che si organizza in una disciplina. Nasce in

40
“uno specifico contesto”, che a lui pre-esiste e si sviluppa in un contesto a

lui contemporaneo: un contesto che potrà variare nel tempo, così come nel

tempo potranno variare i potenziali portatori di quel pensiero.

Non mi soffermo oltre su questo punto che sta alla base di molti miei

lavori e che definisce il mio concetto di “percorso”, per cui vado

direttamente alla seconda cosa che ho scoperto applicando questo concetto

di percorso a Ferenczi…e che, come certamente ricordate, mi ha fatto dire

“tutta un’altra musica”. Tutt’altra musica per due motivi: perché se cambi il

metodo, se leggi cioè nel percorso, quello che puoi osservare è molto

diverso da ciò che puoi osservare se estrapoli un solo momento di qualcosa

o di qualcuno dal suo insieme nel tempo (questo è un motivo per cui l’“hic

et nunc” in psicoanalisi può condurre a una percezione errata se non si tiene

conto dell’ “onda lunga” in cui l’hic et nunc è inserito); perché Ferenczi –

letto nel percorso – fa sentire al lettore che sta, sin dagli esordi, suonando

un’ “altra musica in psicoanalisi”: che è diversa da quella che suona Freud

o che perlomeno ne è un complemento che può “esserci” nell’opera di

Freud ma che da Freud non è sviluppata.

Cercherò in poche parole di dire perché è “un’altra musica” in rapporto

a quella suonata da Freud. Prendiamo alcuni dei suoi primi scritti, che sono

– se si vuole – il suo “biglietto da visita” in psicoanalisi. Il primo, per

esempio, sull’eiaculazione precoce del 1908, dove Ferenczi diversamente

41
dagli studiosi dell’epoca la studia a partire dagli effetti fisici e psichici

ch’essa ha nelle donne, considerando che il piacere delle donne, il loro

benessere fisico e psichico non è considerato… perché il partner

socialmente più avvantaggiato ne approfitta per far prevalere i suoi bisogni

e i suoi interessi. Qui Ferenczi dà voce a un soggetto al tempo poco

considerato: le “donne”, come poco dopo – ma già prima di diventare

psicoanalista – dà voce agli “emarginati” e ai “bambini”; mostra inoltre

come si orienterà il suo lavoro teorico e pratico futuro, sottolineando come

gli analisti tendano a “essere dei masturbatori e degli eiaculatori precoci”

che in quanto tali finiscono per non accogliere “l’altro da sé”….imponendo

con le interpretazioni qualcosa che riguarda loro stessi più che l’altro. Il suo

è – in sintesi – fin dal suo primo scritto psicoanalitico un inequivocabile

appello a “più ascolto dell’altro” e a “più considerazione della relazione fra

il paziente e l’analista e viceversa” (Ferenczi, 1908).

Su quest’ultimo aspetto – la necessità di “più considerazione sulla

relazione tra paziente e analista e viceversa” – verterà per l’appunto un

altro dei suoi primi lavori, del 1912, dal titolo “Sintomi transitori nel corso

dell’analisi”. Cosa dice Ferenczi in questo lavoro? Che i “sintomi

transitori” del paziente nella seduta nascono all’interno della relazione

paziente e analista: sono una risposta cioè a qualcosa che l’analista ha detto

e ha fatto, o non ha detto e non ha fatto. Se l’analista può considerarli in

42
questa luce…riconoscendo la matrice interpersonale degli accadimenti di

un’analisi…può comprendere – “in miniatura” – come è sorta la sofferenza

del paziente in passato, conoscendo per questa via sia l’ambiente

interpsichico che allora lo accolse e ne accompagnò la crescita sia le

reazioni di piacere o dispiacere del paziente ad esso, incluse le sue

successive difese e i conflitti che ne sono derivati. Credo salti all’occhio di

tutti la modernità del suo pensiero, che esplorava con pazienza e sensibilità

il dialogo fra paziente e analista (è Ferenczi che ha parlato di “dialoghi fra

gli inconsci” intendendo che fra una persona e l’altra nella conversazione

avvengono “diversi dialoghi”, sostenuti dalle parole o anche

indipendentemente e aldilà delle parole), osservando come esso fosse

intriso di relazione e come la relazione promuovesse comunque benessere e

malessere, che doveva essere senza esitazione e senza remore intercettato e

capito (Ferenczi, 1912). Prima di diventare psicoanalista, va qui

rammentato che Ferenczi aveva scritto sull’amore (1899), da lui ritenuto –

ahimè! – un soggetto poco studiato dalla scienza… nonostante la sua

fenomenologia fatta – come lui già allora diceva – di molta “turbolenza

emozionale” e di estrema “facilità a generare piccole e meno piccole

catastrofi psichiche”. Ferenczi, già allora, aveva in mente il trauma:

decisamente un suo successivo “cavallo di battaglia” (Borgogno, 2000)!

43
Accenno ancora a un altro suo lavoro iniziale, scritto “in mezzo” ai due

che ho citato, nel 1909, che riguarda l’ “introiezione”. Anche questo scritto

è un biglietto da visita “impressive”: l’introiezione è per lui, infatti, un

processo psichico fondamentale, di pari importanza rispetto alla proiezione

(il processo che Freud e i primi psicoanalisti studiavano). Dato però che il

bambino non è l’adulto (e ciò secondo lui doveva urgentemente essere

tenuto in conto dagli analisti, che non lo facevano), l’introiezione è un

processo – egli lo mise subito in evidenza fin da questo lavoro – assai più

importante della proiezione poiché il bambino cresce ponendo dentro di sé

cose che gli provengono dall’esterno e, quindi, i caregivers avrebbero

dovuto avere molta più cura – in ragione dell’enorme fragilità e

permeabilità infantili – di quanto gli offrono: cibo, cure, parole, affetti. Ciò

che perciò viene da Ferenczi messo in risalto in questo scritto – è a partire

da questo lavoro che incomincia a sostenerlo, lo ribadisco – è che

l’introiezione è una fonte non esclusivamente di vita ma anche di morte:

che si può – per dirlo crudamente – fin dai primi giorni di vita “mangiare

merda” o qualcosa di velenoso ed essere pertanto affamati dai propri

genitori, che non sono come la teoria classica finiva per sostenere “buoni

per definizione” (Ferenczi, 1909).

Il bambino molto piccolo inoltre – Ferenczi chiarisce – è “affamato di

oggetti e affetti” indispensabili per il suo sviluppo e, a causa della sua

44
giovane età, prende tutto dentro di sé senza poter selezionare e difendersi

rispetto a ciò che prende dentro. Ma cosa prende dentro di sé, rifletteva

Ferenczi? Non soltanto le cose materiali, ma il modo in cui queste – cibo e

parole, per esempio – gli erano porte ed era di qui che sorgevano a suo

avviso le successive identificazioni del bambino e la sua visione di sé e del

mondo.

Attento dunque alla trasmissione inter-psichica Ferenczi – dulcis in

fundo – veniva a dire alla comunità dei colleghi che vi era una “pragmatica

della comunicazione” di cui ci si doveva fare consapevoli, una “pragmatica

della comunicazione” sempre importante ma assai più importante per

quanto riguardava le “menti in formazione”: le menti dei bambini...ma

anche quelle degli allievi e dei pazienti. Menti in formazione assai più

suscettibili di quelle adulte di venire plasmate dagli “ordini ipnotici

inconsci” dei caregivers: ordini ipnotici “materni” – con intelligenza

suggeriva – se fondati sulla fascinazione, sull’insinuazione e sulla

seduttività, “paterni” invece se fondati sull’intimidazione e

sull’intimazione. Ordini – entrambi – che vengono assimilati dal bambino

piccolo diventando operativi nel suo stare al mondo senza che egli ne abbia

alcuna consapevolezza: alcuna consapevolezza di alloggiarli dentro di sé,

finché non sarà incontrato qualcuno che li “scioglierà” visualizzandoli e

dandovi parola.

45
Adesso mi fermo sull’importanza di Ferenczi e su quanto sia attuale

la sua prospettiva teorica e clinica, permettendomi ancora di aggiungere

due elementi. Il primo concerne di nuovo il percorso: Ferenczi intuì tutto

ciò fin dall’inizio del suo percorso ma ci vollero anni e anni affinché

potesse lui stesso credere in ciò che intuiva consolidando questa sua

originale visione (si vedano i 3 volumi della sua corrispondenza con Freud

[Freud e Ferenczi, 1908-14; 1914-19; 1919-33] – ineguagliabili se

rapportati agli altri carteggi – e il Diario clinico [1932b] ). La comunità

psicoanalitica, dal canto suo, ha avuto bisogno di più di 20 anni per iniziare

lentamente ad esaminare le sue tesi sull’ “importanza dell’altro e della

relazione” (vedi Paula Heimann e Bion, nella mia ottica per questo

“compagni di percorso” di Ferenczi) e più di 50 anni per potere rifare

emergere la sua opera e studiarla con rinnovato interesse e apprezzamento.

Il secondo elemento riguarda invece il “trauma” che sarà l’argomento

principe su cui si incentrerà la sua riflessione degli ultimi 5 o 6 anni di vita,

fra il 1927 e il 1933.

Che dire del “trauma in Ferenczi”: che esso è psichico, riguarda gli

affetti, è cumulativo e non dovuto a un singolo evento; che è tale – e cioè

un trauma – non tanto perché è accaduto ma perché non ha trovato un

ambiente che lo ha riconosciuto e messo in parole porgendo un aiuto. È,

perciò, come a più riprese l’ho definito, essenzialmente un “trauma per

46
omissione di soccorso”: omissione di quel soccorso che dovrebbe essere

fisiologico nei momenti della crescita e che tuttavia, purtroppo, molte volte

non viene dato, accompagnandosi talora a questa omissione di soccorso una

lesività aggiuntiva determinata dal fatto che i genitori negano di frequente

completamente la loro inadempienza e crudeltà facendo sentire il bambino

che le ha subite “pazzo”, “inattendibile”, “cattivo”, e in breve

“responsabile” (Borgogno 2005).

Trauma, per concludere, è per Ferenczi non solo qualcosa che è

accaduto, ma qualcosa che sarebbe dovuto accadere ma non è accaduto....

perché – per la miseria e l’infelicità della condizione umana – chi lo ha

generato, il trauma, non ha frequentemente potuto e saputo lui stesso

riconoscerlo, evitare di infliggerlo, e provvedervi; e, in definitiva, per

rinominare un concetto principale del mio libro, ciò che per eccellenza può

essere generatore di “spoilt children”. Generatore di “spoilt children” a

causa del suo introdurre e, concomitantemente, sottrarre qualcosa

“nell’anima” o “dall’anima” dei bambini e altresì – indicava Ferenczi –

nell’anima e dall’anima infantile dei “bambini negli adulti” (Borgogno,

1994; Borgogno, Vallino, 2006).

47
IV.

PSICOANALISI COME CONVERSAZIONE SPECIALE E COME

APPRENDIMENTO PROGRESSIVO DALLE EMOZIONI E

DALL’ESPERIENZA RELAZIONALE

C. FORTUNE: Che cos’è, quindi, per te, Franco, la psicoanalisi? Tu hai

suggerito, in tutto quanto ci hai comunicato nella tua presentazione, che la

psicoanalisi e, in generale, la terapia ch’ essa offre sono costituiti

essenzialmente dallo sforzo che la persona fa per capire se stessa e, prima

di ciò, dallo sforzo ch’essa fa per imparare a esprimersi e a parlare. Per

me, ma credo per tutti noi qui riuniti ad ascoltarti, sarebbe interessante

48
che tu esplicitassi meglio sia i processi in gioco in questo “achievement” e,

in aggiunta, come pensi quindi di aiutare il paziente a passare da un

linguaggio sostanzialmente più narcisistico a un linguaggio via via più

“sociale”, nel senso – intendo dire – di un linguaggio che rispetti

innanzitutto l’ “autentica e reciproca alterità”. E, ancora, chi secondo te

ai nostri giorni può realmente trarre beneficio dalla psicoanalisi; e quali

sono, a tuo avviso, i fattori terapeutici elettivi coinvolti nel trattamento

psicoanalitico?

F. BORGOGNO: Potrei partire da Freud nel risponderti, dicendo con lui che

la psicoanalisi è una “conversazione”, una “conversazione speciale”, ma

vorrei subito aggiungere che, seppure le parole siano fondamentali, esse

non bastano in quanto in una conversazione vi è molto di più – come ho già

cercato di dire – che non soltanto parole. Vi sono infatti le “transazioni

affettive” di cui trasuda la nostra presenza “in carne ed ossa” (un aspetto

non eludibile!) e, quindi, quel che Winnicott definiva l’importanza dei

“gesti”: “gesti di riconoscimento” intendo, “gesti di conferma”… e “di

convalida psichica” che dimostrano che “tu sei esistente per un altro”

(Lettera di Winnicott a Melanie Klein, 17 novembre 1952, in Winnicott,

1978). Tutto ciò – lo premetto – peraltro non ha niente a che fare col

“buonismo”: conferma, riconoscimento e convalida li si può ottenere anche

attraverso l’espressione di un sentimento di rabbia e di odio da parte

49
dell’altro… se odio e rabbia sono in un momento del trattamento i

sentimenti in gioco che richiedono con urgenza un loro riconoscimento. La

conversazione psicoanalitica ha bisogno così, principalmente, di autenticità

e non di ipocrisia e di falso sé… poiché i pazienti intercettano

inconsciamente molto bene i veri sentimenti del terapeuta, anche se –

manifestando “cripticamente” nelle loro osservazioni questa loro

percezione (come sosteneva Ferenczi [1919]) – finiscono per nasconderla

persino a se stessi oltre che agli altri.

Freud nel definire la psicoanalisi una “conversazione speciale”

intendeva porre in risalto quanto il “mettere in parole” l’inconscio aiuti e

ampli la crescita di un individuo e la sua consapevolezza di sé nel mondo.

Mettere in parole, dare cioè rappresentazione verbale alle proprie vicende

emozionali inconsce, era per lui il fattore terapeutico elettivo, il “fattore

curativo specifico” che contraddistingueva la psicoanalisi rispetto ad altre

forme di psicoterapia che si accontentavano di un risultato favorevole senza

voler indagare le ragioni che avevano determinato un miglioramento e che

cosa, invece, nell’infanzia e nell’attualità aveva causato e causa la

sofferenza nevrotica del paziente, la sua malattia. Nonostante ciò, Freud

sapeva comunque che il mettere in parole non era sufficiente, ma la sua

personalità lo rendeva maggiormente “amico” delle parole che non dei

sentimenti, e in particolar modo dei sentimenti più infantili che sono di

50
pertinenza del bambino piccolo (come ho più volte osservato Freud non

aveva gli strumenti per compiere la necessaria “discesa alle madri” e per

avvicinarsi a ciò che io ho chiamato “mondo della nursery”: lui stesso

peraltro lo sapeva tanto da definirsi un “conquistador” piuttosto che un

terapeuta eccellente).

Ma se uno va a Psicoterapia, del 1904, constata con evidenza come

lui non ignorasse che le parole non bastano e che è “la generosità di un

altro cuore” che in fin dei conti apre e fa accedere al “mistero di un'altra

persona”. Nel passaggio a cui mi sto qui riferendo, egli – contraddicendo la

sua affermazione precedente secondo cui la psicoanalisi procede

essenzialmente “per via di levare” e non “per via di porre” – cita infatti

l’Amleto di Shakespeare che, prendendosi gioco dell’arroganza di

Guilderstein e della sua presunzione di capire il segreto del malumore di

Amleto, esclama:

“Why, look you now, how unworthy a thing you make of me! You
would play upon me; … you would pluck out the heart of my
mystery; you would sound me from the lowest note to the top of my
compass; and there is much music, excellent voice, in this little
organ; yet you cannot make it speak. ‘Sblood, do you think I am
easier to be played on than a pipe? Call me what instrument you

51
will, though you can fret me, you cannot play upon me’ (Act III,
Scene 2)”.*

Esattamente per questo motivo, io preferisco nel definire la

psicoanalisi porre in evidenza – e in ciò mi associo a Ferenczi – ch’essa

è prima di tutto un apprendimento da un’“esperienza emozionale”

speciale, in cui il motto greco «“conosci te stesso” diviene – in senso

relazionale – “lavora con un altro per capire chi tu sei”». Un’esperienza

vissuta – va aggiunto – al cui interno sia il paziente che l’analista si

fanno portatori di un ambiente le cui caratteristiche (di quello dell’uno e

di quello dell’altro) devono tuttavia essere diverse in quanto è questa

diversità – il “contrasto” tra questi due ambienti, osservava Ferenczi –

lo specifico fattore curativo della psicoanalisi (Ferenczi, 1929b) . Come

vedete, ritorno a dire – come ho già fatto in tutte le mie risposte

precedenti – quanto l’“altro” sia rilevante perché la psicoanalisi non si

riduca a un’esperienza prettamente “solipsistica” dove uno cresce

appoggiandosi per lo più a sé. Fu in parte di questo tipo – lo ricordo – la

mia prima esperienza di analisi.

*
Ebbene, guardate ora, come dappoco voi mi stimate! Voi vorreste sonare su di me (…)
vorreste strappare il cuore del mio mistero; vorreste sonarmi dalla mia nota più bassa
fino alla cima del mio registro; e c’è di molta musica, una voce eccellente, in questo
piccolo organo, e pure voi non potete farlo parlare. Per il sangue di Cristo, credete che
io sia più facile a sonarsi d’uno zufolo? Chiamatemi col nome dello strumento che
volete, benché voi mi pizzichiate, voi non potete sonarmi (Freud, 1904, p. 262).

52
Ecco perché, d’altra parte, la soggettività dell’analista è nella mia

visione irrinunciabile. Una posizione che, in quanto so essere per alcuni

discutibile, voglio seppure succintamente chiarire un po’ di più affinché

chi mi ascolta non mi fraintenda. Il paziente – è a questo riguardo un

mio punto di partenza – porta in analisi fin dalle prime sedute

l’ambiente in cui è cresciuto nell’infanzia e nell’adolescenza; non porta

esclusivamente se stesso e i vari aspetti del suo sé, ma altresì i vari tipi

di oggetto con cui è stato a contatto nella sua vita, che piano piano – gli

uni e gli altri – si attivano nelle sedute e divengono centrali. Porta ossia

ciò che Freud chiamava “transfert” anche se noi oggi – a distanza di un

secolo da quando lui ne aveva formulato il concetto – siamo

maggiormente in grado di comprenderne le complesse manifestazioni,

di immaginare identificandoci i “prototipi relazionali inconsci di base”

su cui esso si fonda e di accorgerci di come noi stessi inevitabilmente lo

influenziamo. Penso però – e qui faccio un inciso – che, per intendere le

manifestazioni di transfert in questo senso, l’analista debba possedere

nel suo armamentario teorico l’idea che il benessere e il malessere

psichico di una persona non nascono “nel vacuum” ma entro peculiari

relazioni interpersonali che sono state e sono fondanti, in quanto

costituiscono il materiale delle identificazioni inconsce. Una visione

53
che non sono affatto sicuro che tutti seguano e abbiano in mente come

elemento fondante nel loro modo di lavorare con i pazienti.

Anche l’analista, naturalmente, proseguendo sul filo principale

del mio discorso, non differentemente dal paziente, porta un ambiente:

un “ambiente specializzato” che è costituito non soltanto da ciò che

chiamiamo setting (la situazione temporale e spaziale in cui avviene

l’analisi, caratterizzata dall’essere costante e continuativa e al riparo –

nei limiti del possibile – da interferenze) ma dalla sua persona, che fa

parte anch’essa di questo setting e che dev’essere anch’essa

caratterizzata dalla costanza e dalla continuità, oltre che dall’evitare

interferenze idiosincratiche di sua pertinenza e non finalizzate alla

comprensione e alla cura del paziente. L’analista, pur tuttavia, sebbene

finalizzi il suo esserci nel senso che ho detto, porta “tutta la sua

persona” perché è proprio dalla sua “persona nella sua globalità” che

sorge la sua comprensione: dal suo corpo voglio dire, dalla sua pancia,

dal suo cuore e quindi, ma spesso solo in un secondo momento, dalla

sua mente. La sua formazione – lo preciso per chi non lo sa o non lo ha

così chiaro in mente – dovrebbe averlo preparato a trasformare la sua

reazione emotiva e corporea personale in qualcosa che lo informa su

“chi è il paziente in un dato momento” e “chi è lui”, e “perché avviene

qualcosa proprio in quel momento e non in un altro”. “Who, which, to

54
whom, why and how” erano per l’appunto secondo la Heimann gli

interrogativi che si deve porre l’analista per comprendere le dinamiche

del transfert all’interno della seduta e nell’onda lunga dell’analisi

(Heimann, 1955; 1959; 1970).

Per dirlo con altre parole, la partecipazione e il coinvolgimento

dell’analista dovrebbero essere da lui sottoposti a un lavoro di

elaborazione (working through) in modo tale che egli, distinguendo fra

ciò che lo riguarda e ciò che riguarda il paziente, può giungere a

modulare la sua risposta affettiva in un’interpretazione capace di

informare il paziente su se stesso, sui suoi bisogni, sulle sue ansie, sulla

sua storia, sul suo mondo interno e, in sostanza, sul tipo di relazione

inconscia che sta proponendo e sulle ragioni per cui sta proponendo

quel tipo di relazione e non un’altra. Potremmo così affermare che

l’analista “usa la sua specificità per capire la specificità del paziente” e

che la sua “specializzazione” (prima ho parlato di psicoanalisi come

“offerta di un ambiente speciale”) consiste proprio in quest’operazione

– affettiva e cognitiva al tempo stesso – fondata sul lasciarsi impregnare

dal paziente, sul risuonare internamente con l’esperienza che il paziente

porta per giungere attraverso una necessaria “donazione d’anima” – in

un momento successivo e sulla base di un apprendimento emozionale a

partire dall’esperienza stessa – a qualcosa che permetta al paziente di

55
capire di più chi egli sia… e che cosa gli sta accadendo e, per questa

via, di integrare maggiormente in un’unità significativa i vari aspetti

della sua personalità e della sua storia.

Per come sin qui l’ho formulata l’esperienza psicoanalitica

potrebbe risultare però fin troppo lineare e semplice. Voglio pertanto

aggiungere a questo punto quanto Ferenczi giunse a capire di essa più

di settant’anni fa rendendoci la sua visione particolarmente attraente e

più vicina alla nostra attuale sensibilità. Lo dico in breve: la situazione

psicoanalitica, il campo psicoanalitico, si devono assai spesso

“ammalare della stessa malattia di cui il paziente e il suo campo

familiare si sono ammalati nel passato”. Se si lascia che ciò accada – e

non si pone di fronte a ciò un “no-entry” (cosa che frequentemente

avviene) – l’analista può comprendere in modo vivido su di sé,

letteralmente sulla sua pelle, che cosa è accaduto al paziente; quali

attori e forze in gioco fossero presenti nella sua infanzia e nella sua

adolescenza, e sulla base di questa esperienza vissuta può, oltre a

riconoscerla permettendo così al paziente medesimo di riconoscerla (è

questa l’importante funzione analitica che io chiamo di

“testimonianza”), darvi una risposta diversa da quanto successe in

passato e mostrare di conseguenza al paziente che – come diceva Bion

in Cogitations (1992), pronunciandosi a questo riguardo molto

56
similmente a Ferenczi – l’analista è autenticamente disponibile ad

attraversare la “medesima crisi emozionale” di cui lui soffre e ha

sofferto pervenendo tuttavia – attraverso essa – a una risposta affettiva

differente dalla sua, e cioè a una diversa gestione del dolore psichico

implicato, che indica soluzioni e compromessi di vita alternativi

rispetto a quelli da lui trovati nel passato.

Avete forse ora a disposizione, dopo ciò che ho aggiunto, un altro

tassello per capire quanto Ferenczi concretamente intendeva osservando

che è il “contrasto tra il passato e il presente” la “via di guarigione par

excellence”. Desidero però, per chiudere su questo aspetto e avviarmi a

concludere, sottolineare come in questa sua visione Ferenczi anticipasse

molto pensiero venuto dopo di lui e, addirittura, molto pensiero

psicoanalitico contemporaneo.

Winnicott, per esempio, che – in stretta assonanza con Ferenczi a

proposito di come funziona una “buona analisi” – scrisse in “Fear of

breakdown” del 1963 che il trauma (lui non lo chiamava così in questo

scritto, anche se di fatto parla attraverso il breakdown di un tipo di

trauma, quello che in particolare concerne a mio avviso gli “spoilt

children”) deve ri-accadere nel presente (has to happen again in the

present), deve ripetersi (has to be repeated) nell’analisi, poiché –

quando è accaduto nell’infanzia (when it happened in the first periods

57
of the life) – i genitori non c’erano, erano, cioè, assenti psichicamente

(the parents where not there: that is that they were psychically absent)

e l’Io del bambino prematuro, e troppo fragile, non aveva potuto

esperimentarlo e affrontarlo (and the premature and too fragile Ego of

the child was not able to experience and afford it), risultandone perciò

travolto e annichilito (annihilated), in uno stato di vera e propria agonia

mentale (in a real state of psychic agony). Egli qui, proprio come

Ferenczi (1932b), sosteneva che molto frequentemente il trauma, per

poter essere ricordato dal paziente, si deve riattualizzare nelle sedute a

partire da qualcosa di improprio e doloroso che avviene nella relazione

analitica e che è l’analista, che ne è peraltro l’artefice involontario

(l’artefice involontario di un “assassinio d’anima”), che lo deve

riconoscere e individuare prima che lo possa fare il paziente.

L’analista in sintesi – egli osservava – non può che essere

anch’egli traumatico, ma differentemente dagli oggetti del passato –

quando ciò accade – non nega le sue mancanze e i suoi errori ma “vi

provvede”, offrendo così al paziente l’opportunità di percepire

consapevolmente il trauma, di comprenderlo e di condividerlo con un

altro, che si assume la sua parte di responsabilità (Winnicott, 1963).

Come avete probabilmente potuto constatare, segnalando la

vicinanza di pensiero tra Ferenczi e Winnicott ho nuovamente portato

58
alla ribalta del mio discorso gli “spoilt children”, l’importanza

dell’ambiente per così dire “provvidente” (e non solo facilitante,

quindi), i lunghi e complessi tempi necessari per arrivare alla

comprensione degli eventi analitici e della storia del sé del paziente; ma

in questa aggiunta che ho fatto ho desiderato altresì fare emergere un

altro elemento su cui mi sembra di aver meno insistito che voglio

riprendere perché non vada perso dalla vostra attenzione. Si tratta

essenzialmente del fatto che, nella visione della psicoanalisi che

propongo, ogni esperienza analitica – per essere effettiva ed efficace –

comporta ciò che noi oggi chiamiamo “enactment” (un concetto che

hanno coniato gli americani – Jacobs, Ogden, Renik e molti altri –

portandolo via via alla popolarità), ovverosia l’impossibilità di una

comprensione analitica senza una parte di “azione interpersonale”

inconscia, ignota allo stesso analista mentre la pone in atto. In questa

luce (anche su questo Ferenczi anticipava la sensibilità contemporanea)

la comprensione – se avviene, sì, grazie alla capacità dell’analista di

intercettare le cicatrici psichiche del paziente (Lettera di Freud a

Ferenczi, 16 settembre 1930, in Freud e Ferenczi, 1919-1933) a partire

da piccoli e impercettibili segni all’interno dell’incontro analitico

(deducibili da qualcosa concernente il corpo del paziente, lo stile delle

sue parole, l’atmosfera da lui creata nel rapporto, ma anche da qualcosa

59
che l’analista avverte dentro di sé e dentro il proprio corpo senza

saperselo spiegare) e, soprattutto, grazie alla sua disponibilità a

immergersi generosamente nel campo, nel vivo della seduta (operazioni

entrambe essenziali per potere orientarsi nell’individuare la qualità del

dolore presente in un dato momento o periodo dell’analisi e le

dinamiche di transfert e controtransfert che vi corrispondono) – la

comprensione, dicevo, non è affatto un risultato immediato e scontato

ma piuttosto il prodotto di un “emotional working through in progress”

che deve accettare il non capire e anche il sentirsi “imbrigliati-

imbrogliati” dalle vicende in corso; e dunque, per andare all’osso, la si

può raggiungere solo in un secondo momento, e après coup, grazie a

una “trasformazione” dello stesso analista, e non mentre l’esperienza

accade come molti psicoanalisti hanno desiderato che fosse per molto

tempo e continuano a tutt’oggi a desiderare che sia.

A chiusura, cosa voglio e cosa posso ancora dirvi?

Semplicemente ribadire che cosa è per me psicoanalisi e, quindi,

raccontarvi una breve favola, la favola di Orsetto, che poeticamente mi

sembra concentrare molto di ciò che ho detto circa l’utilità della

psicoanalisi come forma di terapia.

60
Vengo al primo punto, sottolineando che la psicoanalisi è

essenzialmente una forma di educazione, un’educazione alla vita e al

vivere che può in parte “immunizzare”, come affermava Ferenczi

(1929a), se è capace di contenere la sofferenza senza duplicarla, se è

capace di tollerare la paura senza farla divenire terrore, se è capace di

mantenere la speranza anche nei momenti bui e di difficoltà potendo

intravedere – anche quando è in germe – un futuro per il paziente e la

sua vita, e naturalmente anche per l’esperienza di analisi che sta

facendo con noi. E’, in altri termini, un apprendimento dall’esperienza

delle emozioni e delle relazioni, che quando funziona genera una

“nuova fiducia” e un “nuovo inizio” favorendo il risveglio e

l’integrazione di “aspetti dissociati e alienati del sé” (un tema che verrà

ripreso da M. Balint [1933; 1968]).

La psicoanalisi è sicuramente anche un modo per rendere più

“giocoso e libero” il proprio pensiero, se il paziente può ritrovare

nell’analista una persona che onestamente e sinceramente è impegnata

nel combattere e astenersi “from the oppressive element of super-io-rity

(super-ego-rity) which can make us even more phobic and frightened in

our deep emotional involvement with the life, with the others and

ourselves”. Può infine essere la via attraverso cui recuperare le proprie

parti esiliate (in specie quelle infantili) – “the role-reversal and the

61
dissociation of the self” costituiranno il tema del mio lavoro per l’IPA

Congress di Berlino a fine luglio 2007, che ho discusso ultimamente

insieme a Massimo Vigna-Taglianti (Borgogno, Vigna-Taglianti, 2007)

– se l’analista può ospitarle e “interpretarle” a lungo, nel senso di

esserne lui il portatore finché il paziente, disidentificandosi dalle figure

di adulto in cui forzatamente ha dovuto identificarsi nella sua esistenza

(talvolta per sopravvivere), non sarà in grado di riappropriarsene

riconoscendo come nel passato le abbia dovute espellere dalla

consapevolezza e vi abbia dovuto rinunciare, qualche volta addirittura

mai entrandovi in contatto, non trovando esse uno spazio psichico che

le accogliesse e che accordasse loro una reale cittadinanza dandovi

nome, valore e significato.

Passo adesso – a mo’ di congedo – alla favola d’Orsetto

descrivendone, prima di riportarla, gli antecedenti: che è stata

raccontata dopo un cospicuo periodo di analisi a un analizzando ancora

spaventato dal vivere pienamente la vita senza conformare la sua

intimità agli altri, un analizzando che da bambino aveva sofferto d’asma

e di diverse forme di orticaria in connessione a una non calibrata e

ansiosa invasività di mandati e regole (narcisistici e spesso proiettivi)

da parte dei suoi genitori, essi stessi carenti di genitori capaci di invitare

alla crescita senza paura. La favola è la seguente: «C’era una volta un

62
piccolo orso che aveva sempre freddo, era sempre raffreddato, pativa

continuamente di male alla gola e di bronchite. La mamma e il papà,

vieppiù preoccupati per la sua cagionevole salute, lo avevano esortato

(talora “con le buone”, talora “con le cattive”) a indossare la maglia di

lana, la camicia felpata, il gilet a trecce, il golfino spesso, le muffole, il

cappello caldo, le calze d’alpino, gli scarponcini rivestiti e così via. Una

“sorta di crescendo” che apparentemente tutto subito aveva migliorato

le cose, ma tuttavia Orsetto seguitava ad aver freddo e a trovarsi spesso

a letto costipato, con la febbre e pieno di catarro, sinché un giorno – su

suggerimento di alcuni vicini di casa – non si recò dal dott. Orso,

specialista in vie respiratorie di piccoli orsi che crescono, il quale

inaugurò per lui una nuova ricetta di cura. “Orsetto – gli disse il dottore

– questa è la mia medicina: Togliti la maglia di lana. Togliti la camicia

felpata. Togliti il gilet e il golfino spessi, e insieme ad essi saluta le

muffole e il cappello morbido e, non dimenticare, di dare altrettanto

l’addio a calze e scarpe pesanti, perché tu nella vita hai da giocare e

camminare”. Orsetto, di primo acchito sbalordito, protestò e fece

rimostranze poiché così avrebbe avuto più freddo e si sarebbe ammalato

di più in quanto privo di ogni protezione. Il dott. Orso, comunque,

convinto della sua medicina, resistette ai suoi lamenti e gli rispose

63
sorridente: “Ti sbagli Orsetto perché in questo momento, anche se non

lo sai, indossi la tua vera pelliccia”».

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