Sei sulla pagina 1di 4

DISTURBO DI PANICO: ATTACCO DI PAURA O ATTACCO ACUTO DI SOLITUDINE?

Dott. Gianni Francesetti IpsiG- Istituto Internazionale di Psicopatologia e Psicoterapia della


Gestalt- Torino

L'interesse per il tema nasce una ventina di anni fa attraverso lo studio fenomenologico e gestaltico
dell'esperienza di pazienti che soffrono di attacchi di panico. Tale linea di ricerca è sfociata nella
pubblicazione di un libro: “Attacchi di panico e post-modernità”, Franco Angeli, 2005, che espone
un collegamento tra l'esperienza fenomenologica della clinica e il contesto sociale.
L'altra radice di questo tema è più recente e rappresenta un dialogo di studi delle convergenze tra
questo modello sviluppato negli ultimi due decenni e l'approccio alle neuroscienze affettive di Jaak
Panksepp; Antonio Alcaro, docente di metodologia della ricerca all'Università di Torino, ha portato
avanti lo studio di Jaak Panksepp, sfociato in un articolo pubblicato sul giornale della SPR, Società
di Ricerca per la Psicoterapia.
Il nucleo portante della tesi sostenuta da Francesetti può essere così sintetizzata: se vogliamo
comprendere profondamente i pazienti che soffrono di disturbo di panico non è sufficiente
considerare questa sofferenza come una paura irrazionale, irragionevole e esagerata.
Dobbiamo aprire l'esplorazione clinica a una dimensione implicita, di solito indicibile e
negletta, quella della solitudine. Se vogliamo entrare in una clinica che arriva alla radice del
disturbo non possiamo fermarci alla paura. La paura è un'emozione secondaria a partire da una
radice primaria che è un certo tipo di solitudine negata; ciò che è negato, dissociato, messo da parte
è anche indicibile e ciò che è indicibile non arriva nella relazione e, quindi, non è elaborabile e
superabile.
La diagnosi di disturbo di panico si distingue dall'attacco di panico, che non è una categoria
diagnostica ma una manifestazione che può trovarsi in diverse diagnosi, come in un Disturbo Post
Traumatico da Stress, in situazioni mediche con disfunzioni ormonali ( per esempio disfunzioni
della ghiandola surrenale e della tiroide che mettono in circolo ormoni eccitanti), o in una fobia
specifica.
Il disturbo di panico è una situazione clinica complessa caratterizzata dall'insorgenza di attacchi di
panico inaspettati, sorprendenti, e senza ragioni. Il paziente arriva dopo aver avuto questa
esperienza catastrofica e intensa di cui non si dà ragione né spiegazione; per questo chi ha un
esordio di un disturbo di panico non si rivolge allo psicologo, ma va al pronto soccorso, perché
l'attacco di panico inaspettato insorge con caratteristiche acute. Il DSM afferma che è un attacco
acuto di paura caratterizzato da tutta una sintomatologia fisica (è un'esperienza fisica prima di
tutto ) con diverse manifestazioni, prime tra tutte una fame d'aria molto caratteristica, cioè il
bisogno di respirare e l'insufficienza della possibilità di essere soddisfatti dal proprio respiro; tra gli
altri sintomi vi sono tachicardia, sintomi gastrointestinali come nausea, conati di vomito, impulso a
correre in bagno, sudorazione improvvisa, caldo-freddo sulla pelle, parestesie, formicolii in varie
parti del corpo, vertigini, sensazioni di svenimento, depersonalizzazione e derealizzazione. Le due
grandi paure dell'attacco di panico sono la paura di impazzire e la paura di morire.
Quando accade un'esperienza così forte e inaspettata in una vita sostanzialmente buona, il paziente
si rivolge al medico del pronto soccorso che, dopo vari esami, gli comunica che non ha nulla,
lasciando uno scarto enorme con ciò che ha vissuto. L'esperienza diviene inelaborabile per cui
cercherà da quel momento di controllare che non ritorni un altro attacco; il paziente comincia a
temere il ripetersi di quell'esperienza e a evitare i luoghi in cui è accaduto il primo attacco di panico.
Le strategie di evitamento messe in atto dal paziente cambiano la geografia della sicurezza, ciò che
era accessibile ora non lo è più.
Altro vissuto che inizia a manifestarsi è la necessità di essere accompagnati da qualcuno di cui si ha
fiducia quando si esce, cambiando così la geografia affettiva.
Le caratteristiche principali sono quindi un esordio improvviso con sintomatologia acuta, paura
del ripetersi dell'attacco di panico, strategie di evitamento e strategie di accompagnamento.
Il disturbo di panico è cambiato nel corso degli anni: fino agli anni Novanta l'esordio era compreso
tra la tarda adolescenza e i 30-35 anni, negli ultimi dieci anni l'esordio è anticipato fino
all'adolescenza e anche alla pre-adolescenza. Frequentemente negli ultimi tempi disturbi di panico
con insorgenza acuta in pre-adolescenza e in adolescenza sono paucisintomatici, che non significa
che la situazione sia meno complessa. Oggi, quindi, il disturbo di panico si caratterizza per un
esordio più precoce, più corporeo e definito in modo meno ampio dal punto di vista sintomatologico
e quindi più difficile in relazione alla diagnosi.
Vi è in genere consenso tra gli scienziati e i clinici nel considerare il disturbo di panico una risposta
esagerata alla paura, innescata da un'eccessiva attivazione dell'amigdala e della relativa rete neurale
della paura. Questa concezione è insufficiente a capire profondamente i nostri pazienti.

Quali sono i problemi e il limiti del considerare questo disturbo come una paura esagerata?

• I risultati clinici che derivano da questa prospettiva sono insoddisfacenti: 1/3 di tutti i
pazienti trattati continuano a avere attacchi di panico persistenti e altri sintomi del disturbo
di panico; diverse meta-analisi riportano l'alta probabilità di recidive dopo il trattamento.
• Contrariamente alla paura, il disturbo di panico è accompagnato dalla mancanza (possibile
soppressione) dell'attivazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), che solitamente
nelle reazioni di paura rilascia cortisolo e prepara a reazioni di attacco-fuga.
• I farmaci ansiolitici hanno uno scarso effetto, mentre ce l'hanno nelle reazioni di paura; i
farmaci antidepressivi sono efficaci nel DP
• La tipica intensa fame d'aria del disturbo di panico non è una reazione che si verifica nella
paura acuta di fronte a un pericolo

Risulta quindi opportuno guardare il disturbo di panico da un'altra prospettiva.


Se si considera l'etimologia in cui è custodita la storia significativa della parola, il termine “panico”
deriva dal dio greco “Pan”, unico dio mortale dell'Olimpo greco; figlio di Ermes e di una bellissima
ninfa, che giunta al termine della gravidanza va a cercare un luogo appartato nella foresta per dare
alla luce suo figlio, in un prato erboso vicino a un ruscello; iniziano le doglie e, finalmente,
partorisce il suo bambino che guarda subito con lo sguardo amorevole di una madre, ma ciò che
vede è un mostro, metà uomo e metà caprone. La madre, inorridita dalla vista del suo bambino,
scappa e lascia Pan da solo nella foresta.
In questa narrazione mitologica è racchiuso il tema centrale che è radicale nell'esperienza del
disturbo di attacco di panico: l'essere precocemente sovraesposti all'ambiente senza una
mediazione affettiva, un filtro, che renda possibile affrontare il mondo. Pan nasce ferito
nell'esposizione al mondo che lascia senza fiato. Quindi la paura è un'emozione secondaria, ma la
radice esperienziale nel disturbo di panico è una solitudine, è lo scoprirsi senza protezione nel
sentirsi sovraesposti al mondo.

Questa prospettiva dà senso ad almeno cinque elementi del disturbo di panico:

• L'agorafobia, dal greco “agorà”: piazza e “fobia”: paura; questa si accompagna spesso al
disturbo di panico

• La difficoltà a rimanere soli, le limitazioni ai movimenti, e la necessità di essere


accompagnati; questi aspetti rimandano alla solitudine indicibile e alla necessità della
vicinanza nel proprio essere sovraesposti al mondo

• Il momento dell'esordio: dalla pre-adolescenza all'età di giovane adulto, dall'Oikos, la casa,


il luogo intimo, alla Polis, la piazza, il posto di molti; questo passaggio genera vulnerabilità,
perché caratterizzato da un movimento di separazione. Spesso l'esordio avviene tra l'ultimo
anno di scuole superiori, dove si vive nell' “Oikos”, nella classe, dove si sperimenta un
luogo intimo di appartenenza, all'università, dove si diventa un numero di matricola e si vive
in una “Polis” più ampia esposti senza mediazione affettiva; in questo passaggio incrociamo
la struttura sociale, perché se la struttura sociale ha un dispositivo rituale che accompagna il
giovane nel diventare adulto allora il giovane non è da solo, il suo vissuto individuale viene
letto, accompagnato, tradotto e condiviso dalla struttura sociale. L'anticiparsi di esordi di
disturbi di panico con una specificità corporea potrebbe essere dettato dall'utilizzo di
smartphone che inizia sempre più precocemente tra i 10 e gli 11 anni; i social media sono
una finestra tra il privato e il mondo senza filtro e mediazione, che espongono il ragazzino al
mondo senza mediazione affettiva di appartenenza e attraverso un'esperienza
decorporeizzata, diversa rispetto all'uscire e incontrare gli amici sulla panchina nel mondo
reale.

• Morire e impazzire, esperienze del disturbo di panico, sono le due situazioni esistenziali di
separazione radicale dalla comunità umana; la paura di morire e impazzire è secondaria, il
paziente riporta l'esperienza di morire e impazzire, non la paura; follia e morte sono le due
esperienze concrete vissute dal paziente che testimoniano la separazione nella prospettiva
della solitudine

• L'esperienza della fame d'aria e del soffocamento di solito non attivano il sistema della
paura

Le Neuroscienze affettive di Jaak Panksepp - un corrispettivo neuroscientifico al modello clinico


di Francesetti e un corrispettivo clinico al lavoro neuroscientifico di Panksepp
Gli studi neuroetologici di Panksepp hanno studiato sette sistemi emozionali di base, tra cui due
sistemi separati di allarme nei mammiferi:
1. Il sistema della PAURA, sistema neurologico attivato da una minaccia esterna nell'ambiente,
che provoca la risposta “fly or fight”
2. Il sistema del PANICO, attivato dalla separazione dal supporto sociale/affettivo che fa da
mediazione al mondo; provoca il sistema di comunicazione più antico nei mammiferi, la
“separation call”. Questo sistema dimostra come nessuno può affrontare il mondo da solo
senza sentirsi radicato in un'appartenenza.
3.
Il disturbo di panico esordisce, in questa prospettiva, quando accade nella vita di una persona una
rottura, una separazione, un passaggio evolutivo di crescita da appartenenze radicate fondate e
condivise a una sovraesposizione al mondo che è insopportabile.
Perché allora i pazienti con disturbo di panico non ci dicono che si sentono soli e non riconoscono
nessuna causa psicologica o significato ai loro attacchi? Perché non esprimono una “separation
call”, perché non chiamano qualcuno?
In realtà lo fanno, seppur in un modo indicibile. All'inizio della terapia il paziente non dirà mai che
si sente solo, altrimenti non avrebbe il disturbo di panico. Il disturbo di panico è una solitudine
negata, non formulata, dissociata, non legittimata nella storia, ma espressa negli atti, senza le
parole.
Non ha le parole perché è mancata, nella storia biografica del paziente, la legittimazione dei
suoi sentimenti di solitudine e di bisogno di supporto nell'esporsi al mondo. Il sentimento di
solitudine essendo dissociato non è nominabile né riconoscibile, quindi il paziente, posto di fronte
al tema della solitudine negherà.
Il tipo di solitudine che il paziente scopre gradualmente è specifico: L'ESPERIENZA DI ESSERE
SOLI, SOVRAESPOSTI AL MONDO, SENZA UNA MEDIAZIONE PROTETTIVA
SUFFICIENTE.
Le parole di una paziente: “Sono terrorizzata di morire”... dopo alcuni mesi “Non esattamente..ho
paura di morire da sola” “Ho scoperto oggi che il punto non è che ho paura di morire. Il punto è
che sono così sola che potrei morire, da sempre nella mia vita”.
Un'altra paziente: “Ora mi rendo conto di essere sempre stata sola, è triste...Non so come sia stato
possibile per me non sentirlo..”
Un paziente: “Non avrei mai pensato di poter provare alcun tipo di solitudine, sono sempre stato
un punto di riferimento per i miei amici, la persona su cui contare. Fino al panico ero autonomo,
dopo invece non potevo muovermi senza qualcuno con me...Ma non avevo ancora capito. Ora,
finalmente, sento che ho bisogno della vicinanza e dell'abbraccio di qualcuno. Mi costa molto
ammetterlo, vorrei che non fosse così anche se non so perché”.

Considerare il disturbo di panico come un attacco acuto di solitudine, invece che come una paura
esagerata, ha delle implicazioni profonde per la psicoterapia:

• SOLITUDINE: Anche se la paura è l'emozione predominante nell'esperienza del paziente, i


temi collegati alla solitudine, alla sovraesposizione al mondo, ai passaggi di vita verso
l'autonomia che creano una disarmonia tra l'esporsi troppo e il non essere abbastanza
sostenuti da appartenenze che reggono, andrebbero attentamente e gradualmente esplorati;

• PASSAGGI DI VITA: Anche se l'insorgenza del DP di solito è vissuta dal paziente senza
alcuna connessione con gli eventi della vita, è collegata a processi di separazione: o a un
passaggio di vita verso una maggiore autonomia e esposizione (oikos → polis) o una perdita
di qualcuno/qualcosa di rilevante per la mediazione tra il paziente e il mondo

• APPARTENENZA RELAZIONALE: anche se la domanda esplicita del paziente è quella di


tornare al più presto al funzionamento autonomo di prima, il clinico deve collocare tale
domanda sullo sfondo di un bisogno di maggiore appartenenza. Il terapeuta deve lavorare
sull'appartenenza più che spingere il paziente all'autonomia, movimento che rischia di
svalutare sia il paziente che non ce la fa sia se stesso come terapeuta. Il paziente non ha
bisogno di essere spinto all'autonomia o di essere spronato ma di un terreno su cui
appoggiarsi, primo tra tutti l'appartenenza terapeutica, grande strumento di trasformazione
degli affetti di solitudine.

Perché, nonostante la mole di indizi nella ricerca e nel lavoro clinico, il disturbo di panico è
stato considerato un attacco acuto di paura senza riconoscere l'esperienza della solitudine che
è implicata?
Potrebbe essere il risultato sia di una pressione individuale (una solitudine negata nella propria
storia dal paziente) sia di una pressione sociale (la negazione dei bisogni di legami relazionali e
intimi) in cui tutti noi siamo profondamente immersi. Non a caso, in un contesto sociale senza
rituali di passaggio, senza accompagnamenti, con una svalutazione del legame sociale intimo e del
bisogno dell'altro, il disturbo di panico è profondamente cresciuto come incidenza negli ultimi anni.
La dimensione sociale può avere un valore validante della sofferenza del paziente. Quando
incontriamo la ragazzina con disturbo di panico che si sente fuori dalla norma, inadeguata, malata,
incapace di fare ciò che gli altri fanno, mantenere uno sguardo in cui riusciamo a cogliere nel suo
disturbo un'intensificazione di qualcosa che tutti noi viviamo e che in lei precipita per ragioni
contingenti e il segnale di una sofferenza sociale invisibile, allora riusciremo a trasmetterle un
atteggiamento che non la svaluta, ma che valida il valore del suo vissuto.

La paura della dipendenza dal terapeuta è tipica nell'avvio della terapia con paziente con disturbo di
panico, perché c'è la paura di toccare quel vissuto di fondo della propria esperienza che è il bisogno
dell'altro. E' importante validare questo timore della dipendenza, che altro non è che un'inclinazione
della paura di separarsi. Posso così trasmettere al paziente l'idea che gradualmente si potrà costruire
un luogo su cui può appoggiarsi, e che quello stesso luogo gli consentirà di separarsi.

Potrebbero piacerti anche