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A mio padre che mi ha trasmesso


la passione per la ricerca.
A mia madre che traduce
dal latino come se fosse sardo.
A tutti quelli che si complicano la vita.
Ai miei soli Maestri: i pazienti.

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Ringrazio:
Donatella Pisu, per avermi sostenuta;
Patrizia Congiu, per avermi ascoltata e incoraggiata;
il professor Jan Van Hemert, neurologo,
per avermi avvantaggiato nella ricerca;
la dottoressa Melina Trupo, ipnotista,
per avermi consigliata;
il dottor Stefano Silvestri, psicologo,
per avermi incitato a scrivere;
il dottor Pierluigi Desanctis, omeopata,
per aver dato valore alla mia fantasia
ed alle mie capacità intuitive.

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GABRIELLA MEREU

LA MEDICINA
DELLA CONSAPEVOLEZZA
La terapia verbale

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Prefazione
Dopo anni di collaborazione con la dottoressa Gabriella Mereu, non è
difficile per me, ed è un onore, scrivere la prefazione di questo libro. La
scienza analogica è quella che studia la correlazione tra i fenomeni. E’ la
strada che la scienza moderna sta percorrendo oggigiorno. Non è da
sorprendersi che la percorra anche lei. Già durante gli studi universitari non
amava essere una conformista ma si domandava se era vero ciò che veniva
asserito scientificamente. Istintivamente cercava correlazioni, a lei
soddisfacenti, fra lo svolgersi degli eventi. Divenuta medico ha continuato a
praticare questa forma di ricerca sui suoi pazienti. L’indirizzarsi allo studio
della medicina olistica, alla grafologia ed all’omeopatia fu una conseguenza
logica. Ne derivò l’atteggiamento di approfondire perchè il paziente
adoperasse un vocabolo invece di un altro per descrivere i suoi sintomi.
Basandosi su un’attenta ricerca scoprì che determinati vocaboli, usati da
diversi pazienti, formano un vocabolario archetipico. Non è l’io
consapevole ad esprimere il vocabolo ma il lato inconsapevole del
paziente. Il sintomo così espresso è un segnale dell’inconscio che denuncia
un malfunzionamento, cioè che vi è qualcosa che non va nello stato
affettivo-emozionale del malato. Con le parole il paziente enuncia un
sintomo, la dottorezza Gabriella Mereu, usando i simboli archetipici e
tramite l’analogia, traduce al paziente ciò che l’inconscio desidera
comunicare. L’eccezionale di questo metodo sta nel fatto che la maggior
parte dei sintomi sparisce. L’assenza del sintomo è la guarigione. Questo
avviene contro ogni locica dell’attuale medicina. Lei non considera questa
una novità, infatti l’omeopatia è basata sugli stessi criteri. E’ andata oltre
dichiarando che anche le altre terapie potrebbero funzionare basandosi
sull’analogia. Pensate alla consapevolezza analogica delle case
farmaceutiche nella scelta dei colori, dei nomi e delle confezioni dei
medicinali, alla simbologia del camice bianco dei medici, all’effetto
amozionale-analogico dell’odore dell’ospedale. Le ricerche sul cancro
sono arrivate ad un binario morto come le ricerche sull’Aids dove troppo in
fretta si è detto che la causa è un retrovirus. Un vero ricarcatore è qualcuno
che mette un punto interrogativo dietro le sue affermazioni ed ha un’ostilità
verso la sicurezza. Sicrurezza significa paura. Per un vero ricercatore
l’attitudine alla curiosità è più forte della paura. Quest’innata ostilità verso
la sicurezza ha fatto in modo che la dottoressa Mereu sia al successo e che
incontri la logica diffidenza dei suoi colleghi conservatori, che preferiscono

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la pseudosicurezza alla reale curiosità scientifica. Questo libro è scritto per
il consumatore della sanità, il paziente, che è in grado di giudicare la
validità di una terapia senza bisogno di una tutela da parte delle istituzioni
ufficiali.

<<Gabriella va’ avanti per la tua strada e permettici di gioire al più


presto di un tuo secondo libro, da leggere semplicemente, magari sotto
l’ombrellone, per farci capire com’è il nostro stato di salute>>.

Ian Van Hermert, neurologo

Montecarlo 27 aprile 2000

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Introduzione
Questo mio volumetto sulla cura delle malattie non ha niente di
“scientifico”; ogni volta che intraprendo una cura non ho nessuna analisi di
laboratorio davanti, non ho nessuna misurazione, sto agendo
nell’imponderabile: la coscienza del paziente. Non ha senso, per me
esporre casistiche perchè i casi clinici sono tra i più disparati e perchè
agisco su un terreno che si manifesta attraverso una risposta dall’inconscio.
Questa varia da persona a persona e, nella stessa persona è variabile nel
tempo (ma il paziente spessissimo viene curato). Agisco proprio al
contrario dell’opinione comune: <<L’intervento è andato scientificamente
bene, ma il paziente è morto>>. Ho cercato di esprimermi in un linguaggio
chiaro e semplice, che è il linguaggio della verità, perchè mi possano
capire tutti. Vorrei trasmettere un importante messaggio: la terapia migliore
è quella che segue tre parametri: agire nel minor tempo possibile, essere
la meno traumatica possibile e la meno dispendiosa possibile. Curano
tutti: i medici con i farmaci, gli omeopati con i rimedi, i chirurghi, gli
agopuntori, gli sciamani, la medicina popolare.
Dietro questo fenomeno vi è un fatto molto semplice: il paziente si cura da
solo.
Questo mio libretto, che descrive una tecnica tratta da anni di ricerche,
vuole dimostrare essenzialmente che la medicina ed il medico sono solo dei
veicoli e che il medico dovrebbe funzionare solo da guida, perchè la
guarigione fisica si attui insieme alla consapevolezza ed alla evoluzione del
paziente.

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La nascita della terapia

Un giorno, durante una visita omeopatica ad un paziente che non riuscivo


a curare dalla sua allergia, mi venne un’idea: pensai, se l’omeopatia non è
un rimedio ma un principio, io allora questo principio potrei usarlo anche
solo verbalmente. Cioè, se come ho tante volte constatato durante la mia
esperienza di medico omeopata, l’origine della malattia è sempre, o quasi,
di origine psicosomatica, io potrei applicare la legge dei simili (curare il
male con lo stesso male) che è alla base della medicina omeopatica, non
con un preparato omeopatico, ma con le parole. Avevo altresì imparato che
la malattia è un’espressione che non fa altro che rivelare in maniera
metaforica un vissuto emozionale, che ha portato alla malattia stessa. A
questo punto pensai che avrei potuto fare omeopatia verbale se, sciogliendo
la metafora, avessi detto al paziente quale era il male morale che lo aveva
portato alla malattia. Per poter sciogliere la metafora bisogna avere doti e
conoscenze analogiche. Io ho la fortuna di averle perché, essendo grafologa,
da diciassette anni riesco a ricavare il carattere di una persona leggendone
e interpretandone la scrittura. La grafologia è, infatti, una scienza che si
applica su basi analogiche. Quel primo paziente di cui ho appena parlato e
che aveva una strana allergia alle arance, lo curai, infatti, sciogliendo una
metafora. Da allora (è successo quattro anni fa) curo quasi solamente così
dolori di tutti i tipi: vertigini, parestesie, emorragie, diarree, verruche e
altre eruzioni cutanee, rivelando il significato della malattia-espressione-
metafora.
Questa espressione-metafora me la rivela lo stesso paziente con un suo
linguaggio che, come ogni lingua, ha la caratteristica di un parlare collettivo
in cui ogni parola ha un preciso significato, simile per tutti gli individui che
l’adoperano. Ma il suo significato è celato dietro un’analogia: quest ultima,
manifesta un’espressione emozionale. Vi anticipo un esempio: il paziente
esprime spesso verbalmente la parola “appoggiare”: questa parola
manifesta l’esigenza non soddisfatta di avere un appoggio affettivo dal
prossimo. Questa espressione la ritrovo verbalmente nel dolore alla nuca,
quando la persona "non può appoggiare la testa sul cuscino” oppure,
fisicamente, nelle eruzioni cutanee come per esempio la psoriasi, che si
manifesta preferibilmente nei punti d’appoggio: ginocchia, gomiti, nuca,
natiche, talloni.
Il linguaggio metaforico del paziente è bellissimo e commovente e io l’ho
denominato “pazientese”. Più ne raffino la conoscenza più aumentano le

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mie capacità terapeutiche attraverso esso.

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Il linguaggio collettivo

Esiste un linguaggio collettivo con cui le persone si esprimono. Accanto


all’espressione verbale cosciente, vi è un’espressione incosciente che si
attua attraverso dei simboli e delle analogie. Nelle mie ricerche ho studiato
due espressioni di questo tipo: la prima è l’espressione grafologica, che si
realizza attraverso dei segni che si esprimono per via analogica, oltreché
collettivamente. La seconda è l’espressione verbale e fisica del paziente. In
essa ricerco, oltre al significato emozionale del paziente, preso
individualmente, anche un significato collettivo. Questo linguaggio rientra
nel concetto di inconscio collettivo già scoperto da Jung.

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Il pazientese

Il "pazientese” è un linguaggio emozionale. I termini della medicina


ufficiale con cui il malato esprime la sua patologia, pertanto, non
m’interessano. Molti medici fanno esattamente il contrario. Troncano il
discorso del paziente quando farcisce i suoi dolori e sintomi con quegli
aggettivi ed espressioni che, invece, per me sono importantissimi. Anch’io
facevo così all’inizio della mia professione. Oggi, se il malato accenna al
linguaggio forbito della medicina ufficiale lo prego di smettere e di
descrivermi la malattia come se fosse un analfabeta. Avevo già assunto
questa abitudine quando esaminavo il paziente con l’interrogatorio
omeopatico: per me, non esistono più le malattie ma “la malattia”.
Essa non è altro che l’espressione di un’afflizione del paziente che si
manifesta in diverso modo, sia nel linguaggio che nella sua espressione
fisica. Non posso considerare, quindi, la malattia a prescindere dalla
metafora del “pazientese”, dalla storia personale del malato, sia attuale che
passata. Tutti i malati sono diversi, tutte le storie sono diverse: pertanto, il
“pazientese” non ha regole fisse. Vi sono tuttavia delle parole che si
ripetono molto più spesso di altre e che, perciò, mi suggeriscono l’impronta
collettiva per poter denominare ciò linguaggio.
Eccole:
Palla - Si esprime in espressioni come: «sento come una palla» oppure
«ho una nocciolina, una pallina». Si può riferire sia ad una sensazione che
ad una neoformazione come una cisti, un tumore, un linfonodo gonfio ecc.
Ha spesso attinenza con un problema sessuale.
Poggiare - Si esprime con questo vocabolo la mancanza di appoggio
affettivo, morale, economico ecc. che si ha per il vuoto determinato da una
perdita affettiva. Oppure, con affezioni in punti d’appoggio: natiche, gomiti,
talloni, nuca, ginocchi ecc.
Costrizione - Analoga a questo vocabolo è la sensazione di morsa, di
pressione, di compressione: si riferisce al sentimento di essere sotto
l’autorità di qualcuno.
Condizionata - Si riferisce quasi sempre all’aria. Chi soffre per l’aria
condizionata si sente condizionato, cioè non libero.
Dolore “come se fossi pestato” o, analogamente, “come se avessi
ricevuto un colpo ”, comparsa di lividi spontanei, oppure facile comparsa
di lividi dopo traumi: sentimento di umiliazione per aver subito un’offesa.

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Si riferisce al sentimento che uno prova quando viene picchiato.
L'espressione «Ho un dolore che non mi fa girare» (la schiena, il collo)
si riferisce ad un sentimento di impossibilità a ribellarsi.
Dolori come bruciore, punture, fitte, significano rabbia.
Prurito - Si riferisce al fatto che una persona vorrebbe liberarsi di
qualcuno o di una situazione incresciosa che non sopporta. L’espressione
«sento una scossa di corrente» si riferisce alla voce del verbo “correre”
che, secondo il contesto, può significare: «ho paura di essere abbandonato»
oppure «sono stato abbandonato» oppure «vorrei andarmene». Se, invece di
«scossa», sente una «scarica di corrente» significa proprio che vorrebbe
scaricarsi di una situazione che l’opprime. Le affezioni da corrente d’aria o
da vento si riferiscono a questi significati.
Grasso - La comparsa di cisti di grasso sulla pelle, L'intolleranza ai
grassi, i lipomi ecc. si riferiscono alla sensazione di sporco, connesso a
sensi di colpa o a disgusto per essere stati a contatto con persone volgari o
a paura per pensieri lascivi dello stesso soggetto.
Ballare - Questo vocabolo si trova nelle espressioni “Sento che balla”,
riferito per esempio ad un occhio o ai muscoli o ad un dolore con
sensazione “come se ballasse”, come in certi dolori di testa. Si riferisce
spesso a persone che hanno molto il senso del dovere e che, perciò,
avrebbero bisogno di divertirsi per dimenticare questa preoccupazione.
Gonfio - Chi sente un gonfiore, chi si sente gonfio, spesso con sensazione
di calore e peggioramento con il caldo, significa che ha una passione che
può essere di genere sessuale oppure che lo fa arrabbiare.
Scoppiare - E' analogo al precedente e si riferisce al fatto che è, al
massimo, di una sofferenza passionale.
Bloccare - L’espressione “mi sento bloccato” si riferisce a sentimento di
mancanza di libertà. Le espressioni “sbando”, “storto” ecc. si riferiscono
a situazioni in cui si ha paura di perdere il controllo. Le dita storte dei
pazienti con l’artrite reumatoide hanno analogo significato: chi usa queste
espressioni, pretende che “tutto fili dritto”, è pignolo, preciso.
Analogo significato hanno le vertigini.
Questo sintomo si presenta in persone che si controllano molto o che
pretendono di controllare tutto. Le vertigini sono tipiche delle donne che
desiderano avere la casa perfettamente in ordine, situazione difficile da
raggiungere, specie in famiglia.
Strisciare, è un altro vocabolo interessante: rappresenta la paura o la
sensazione di andare in rovina.
Si ritrova, ad esempio, nei paralitici che dicono «mi viene da strisciare
la gamba». L’ho trovata anche in eruzioni cutanee a forma di strisce.

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Vermi, è un vocabolo che riguarda la paura di essere immondi, schifosi,
di non valere, appunto, come i vermi. Si materializza nella verminosi;
riguarda anche la sensazione “sentire vermi che strisciano”.
Fregare - È un vocabolo che si riferisce, a seconda dei contesti, ad un
significato sessuale o alla paura o sensazione di essere imbrogliati.
Accavallare, sovrapporre, schiacciare - Hanno un significato anch’esso
sessuale. L’ho trovato nelle espressioni “sento un muscolo accavallato”,
vedo sovrapposto”, “mi viene questo dolore quando accavallo le gambe”
e altre.
Premere - Può avere anch’esso un significato sessuale oltre che di
insofferenza ad un’autorità. Filo, cucire - Sono espressioni che si
riferiscono a sofferenze dovute ad un attaccamento affettivo.
Per esempio: «ho la sensazione di avere un filo nell'occhio» oppure «ho
questo disturbo quando cucio».
Irritare - Viene da una sentimento di irritazione quindi, quasi di rabbia
per qualcuno; per esempio: «mi sento un occhio irritato» «ho un dolore
come un’irritazione».
Tirare - Si ritrova nella sensazione di sentirsi tirare, per esempio, alla
schiena, alla coscia, ecc.
Si riferisce ad un sentimento di oppressione. Si verifica frequentemente
nelle sciatiche con l’espressione frequente: «sensazione di schiena bloccata
e di sentirsi tirare la gamba»
Piegare - E' un altro vocabolo frequentissimo, si ritrova nell’espressione
«non lo posso piegare» oppure «migliora o peggiora quando lo piego». Si
riferisce ad un dolore articolare; esprime un sentimento di rabbia-paura
perché il paziente è sottopposto ad autorità-obbligo.
Sollevare - Si riferisce ad un dispiacere che il paziente sente senza
possibilità di rimedio. Per esempio: «ho un dolore alla spalla, per cui non
posso sollevare il braccio».
Sentire, è un vocabolo incluso nella mancanza delle sensazioni, per
esempio: tattile, odorosa, gustativa. Indica, in maniera poetica, che la
persona ha perso un importante contatto affettivo con qualcuno, si esprime
così «non sento più». Non riesco a trovare la posizione. Questa
espressione si riferisce ad un dolore articolare, che non permette di trovare
una posizione giusta per attenuarlo. Si riferisce al fatto che la persona non
sa che decisione prendere e come comportarsi in una certa situazione.
Bolla, bollire - Si ritrova nelle espressioni «sento un rumore come una
pentola che bolle», e nelle espressioni «ho un dolore che mi fa sentire
bollente» oppure nelle eruzioni bollose della pelle. Esprime la presenza di
un forte desiderio inesaudito. In cagliaritano il verbo volere, desiderare, si

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esprime col termine “bolliri”.
Il “ pazientese” si esprime anche nelle dita delle inani e dei piedi. Esiste
una versione sarda della filastrocca che si canta ai bambini piccoli ed
incomincia così: «Piazza, mia bella piazza...». E questa: si prende il pollice
e si dice «Custu è su procu», poi l’indice «custu d’a mottu», poi il medio
«custu d’abbruschiau» poi l’anulare «custu si d’a pappau» poi il mignolo «e
a custu chi è pitticheddu non di d’anti lassau» che significa «Questo è il
porco, questo l’ha ucciso, questo l’ha arrostito, questo l’ha mangiato e a
questo, che è piccolino, non gliene hanno lasciato».
Quando vi è qualche affezione al pollice, per la donna, è di solito il
marito o il fidanzato, per l’uomo è la fidanzata o la moglie. Qualche volta è
qualche altro parente. Si riferisce sempre all’affetto più importante. Le altre
dita sono i figli. Le affezioni che colpiscono le dita si riferiscono, spesso,
ad una vicenda familiare come nella filastrocca. Il simbolo, pero, è spesso
sfumato: l’indice può significare il giudizio, la critica. Il medio il sesso;
l’anulare il matrimonio; il mignolo, oltre al figlio più piccolo, che vi è un
sentimento di perdita per qualcosa.

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L'origine della malattia:
l'immaginazione

Il pazientese è frutto della realtà interna della persona, della sua


immaginazione. Questa immaginazione è inconscia: il paziente la sviluppa a
partire dalla sua afflizione; mentre il malato descrive i suoi sintomi mi
rivela, contemporaneamente, il suo immaginario. Io lo ascolto come se fossi
a teatro: mi parla dall’inconscio e parla al mio inconscio; quindi, per poter
ricavare la metafora, spesso, entro in una leggera trance.
Faccio lo stesso quando interpreto la scrittura.
Il processo interno che, secondo me, porta alla malattia è questo:
emozione negativa-immaginazione-malattia. E' quindi il pensiero,
l’immaginazione, che porta alla malattia.
L’immaginazione sviluppa una metafora, che è la malattia stessa. Questa
metafora è, spessissimo, ironica ed anche tragicomica. Esprime l’emozione
negativa che ha portato alla malattia, in chiave umoristica. Sembra che il
paziente si voglia prendere in giro da solo. La metafora tragicomica sembra
voler indicare, già in sè, il processo della guarigione: trasformare una
tragedia in una rappresentazione comica. La risata è la chiave della
guarigione, ma la risata che guarisce deve essere “la risata di cuore”, quella
che proviene dall’aver capito una verità profonda. Man mano che nel
dialogo capisco la metafora, io stessa rido per poter avviare il paziente alla
sua risata.
Alla fine ridiamo assieme.

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La mappa anatomica della malattia

L’immaginazione è capricciosa, non si sa mai dove può andare a parare e


perché ora ha scelto un organo ora un altro. Penso che questo avvenga per
esigenze personali di espressione. Tuttavia, posso fare una mappa
approssimativa dei punti anatomici che corrispondono ad un’emozione.
Il collo e la caviglia corrispondono a sentimenti di schiavitù, la coscia,
l’inguine, la vescica, i genitali, e talvolta l’orecchio, ai sentimenti legati al
sesso. La pelle della faccia a sentimenti legati al l’immagine sociale di sè;
le spalle alla responsabilità; la schiena al dovere; le scapole alla libertà, le
natiche alla posizione sociale, matrimonio o ambiente di lavoro; le mani e i
piedi alla relazione col proprio partner; le braccia alla fatica, le gambe al
sentimento di poter affrontare gli avvenimenti, le ginoccia all’orgoglio.
L’ultima parola nella decodifica della metafora, indipendentemente dal
luogo anatomico, me la dà sempre il linguaggio verbale. Ho trovato qualche
volta, per esempio, il sentimento sessuale nella spalla, il sentimento di
amore materno nella coscia, di amore paterno nel piede.

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Il placebo

Dietro quasi tutte le malattie vi è un sentimento di paura. Anche quando


l’origine è la rabbia, è sempre la paura la vera causa di un male. Il
sentimento di colpa è paura anch’esso: è il timore di fare del male o di
essere persone ignobili. Il placebo è, quindi, una medicina contro la paura,
guarisce perché rassicura. Dietro ad ogni tipo di medicina e di farmaco,
quindi, vi è l’ombra dell’effetto placebo, la cui intensità e presenza, varia
da malato a malato secondo il tipo di relazione col suo medico. L’effetto
placebo è legato alla coscienza individuale e, quindi, è del tutto
imponderabile, per questo non credo alla misurabilità del placebo
nell’esperimento a doppio cieco per saggiare gli effetti di un farmaco.
Per contro, invece, credo che un medico possa fare ammalare di più o
mantenere il paziente nella malattia, solo incutendogli il sentimento della
paura. Ho visto tanti malati impauriti che mi riferivano frasi del genere: «Se
non fa così finisce sulla sedia a rotelle», «se non fa subito questa terapia le
viene il cancro». Questo non è curare, questo è solo cercare di mantenere un
potere.
Il medico non può mai decidere di stabilire un decorso di malattia o di
guarigione perché questolo decide solo l’inconscio del malato, però, con le
sue parole, può suggestionarlo e influire positivamente o negativamente
sulla malattia.
La suggestione del medico, dovrebbe, quindi, essere solo e sempre
positiva.
Vi narro, adesso, due episodi a me capitati che mi hanno fatto molto
riflettere sull’effetto placebo. Venne un giorno da me una ragazza che
lamentava dei forti dolori all’addome. Dato che indugiavo nella visita si
irritò con me. Presi allora un flacone di soluzione fisiologica, di quelli che
accompagnano certe confezioni di antibiotici, e le iniettai praticamente
acqua. Nell’atto di praticarle l’iniezione dissi «Vedrà che come terminerò
quest’iniezione lei si sentirà molto meglio». La ragazza si rilassò, disse che
le erano passati completamente i dolori, mi salutò scusandosi per il suo
comportamento.
Un’altra volta mi telefonò una mia affezionata paziente chiedendomi
qualcosa per la febbre. Era allergica a tutti i farmaci, aveva provato anche
le medicine omeopatiche ma non aveva trovato quella che facesse per lei.
Allora, per telefono, le diedi questa ricetta: «Grattugi molto formaggio
vecchio in acqua molto calda e beva tutto». Fece quello che le dissi sotto

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gli occhi meravigliati dei parenti a cui disse «Io a quella dottoressa ci
credo». La febbre le calò con una grande sudorazione.
La ricetta l’avevo appena appresa da un libro di “medicina popolare
sarda”. Placebo? Potenza della medicina popolare? Questo episodio
meriterebbe da solo una ricerca.

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Il terreno

La mia è una medicina di terreno, come anche l’omeopatia, l’agopuntura


e tutte le medicinecosiddette alternative. L’alternatività della cura rispetto a
quella della medicina ufficiale è infatti, il concetto filosofico: imputare la
responsabilità della malattia ad un terreno di base.
Ci si chiede: «Se mi succede un incidente o sempre il solito incidente, è
colpa mia o degli altri?» Allora io penso che si debba stabilire se una
patologia deriva da un batterio o da un terreno. Nella disquisizione tra
Pasteur e Bernard il primo stabilì che la responsabilità era principalmente
del batterio, il secondo che era del terreno. Vinse Pasteur, solo perché
appoggiato dagli accademici che, come è noto, sanno sempre dove è la
verità. Pare che Pasteur sul letto di morte avesse ammesso: «E più
importante il terreno».
Il terreno che io cerco di curare è quello psichico attraverso la
consapevolezza. Il mio fine, e la mia speranza, è che il malato, partendo
dalle malattie più lievi, quelle che io tratto col mio metodo verbale che
dà risultati spesso immediati, si renda conto, in maniera pratica, del
principio che la malattia proviene da se stesso e dai suoi meccanismi
inconsci.
Capisca, cioè, il concetto di terreno psichico e comprenda che
possiede un legame mente-corpo, che attraverso questo legame può e
deve curarsi da solo ed estendere questo principio anche alle malattie
più gravi. Questo fine, per me, è più importante della terapia stessa.
Siccome in questa maniera posso curare dappertutto, curo così, dove mi
capita: per la strada, sulla spiaggia, in treno, nei salotti, e naturalmente, nei
nei vari ambulatori che frequento in Sardegna e nelle altre parti d’Italia.
Devo insistere, però, per far capire al malato l’importanza della cura che
gli ho somministrato. Devo precisare come sia guarito, in verità, da solo e
come in quella stessa maniera potrebbe curarsi anche in futuro,
eventualmente per qualche altra patologia. Gli dico che la cura si attua
perché entra in contatto con se stesso. Lo avverto di approfittare del
sintomo per conoscersi meglio e che col sintomo ci può anche giocare. Gli
consiglio di considerare se gli passa aggiustando una relazione che non va
beneo cambiando un lavoro che non sopporta. Gli spiego come il sintomo
venga dalla nostra natura più profonda che è la più saggia; il suo scopo è
una dimostrazione e un insegnamento che, in quanto viene dalla nostra

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natura, è divino e perciò essendo divino, se il sintomo è causato, come
spesso succede, da una repressione di tipo religioso la verità non sta nella
religione, ma nel sintomo e, pertanto, questo dimostra che la religione e Dio
sono due concetti separati.

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L’aiuto della grafologia

La grafologia è una scienza interpretativa su base analogica che mi ha


molto aiutata nello sviluppo della mia tecnica terapeutica. Oltre al fatto che
con essa mi esercito nell’analogia da diciasette anni, mi serve per vedere in
quale terreno psicologico e, quindi, in quale contesto emozionale può
essersi sviluppata la malattia. L’interpretazione del carattere dalla grafia è
immediata. Mi aiuta a capire le possibili risorse di guarigione del paziente,
il suo comportamento durante la seduta terapeutica e mi guida nelle mie
ricerche. Comparando, inoltre, la grafia del paziente con quella di altre
persone con cui è in relazione patogena, posso capire le dinamiche e dare
dei consigli di comportamento.

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I soggetti più a rischio di malattia

Dall’esame della grafia mi sono fatta un'idea generale di quali siano i


soggetti più a rischio di malattia secondo il loro carattere.
In generale, ho notato che sono i più formali e i più rigidi. Ambedue
questi tipi di persone soffocano l’inconscio. Quest’ultimo, allora, si
manifesta sotto forma di malattia. I più colpiti dalle malattie sono i figli di
militari o chi ha passato la fanciullezza in collegi gestiti da religiosi.
Si ammalano molto di più anche coloro che hanno avuto dei genitori
troppo rigidi. Come ho già detto, la malattia è frutto di una immaginazione.
L’immaginazione viene dal vocabolo “immagine” che porta con sè il
concetto di bugia, in quanto l’immagine non è la realtà. La realtà del
paziente è un’altra: è quella della logica ferrea ed innocente del bambino
che in lui si lamenta. Si lamenta dell’immaginazione legata ad una
suggestione collettiva, ad una repressione di tipo politicoreligioso, ad una
rigidità di concezioni che non fa parte della sua mentalità. Il bambino
ragiona e apprende giorno dopo giorno. La sua realtà è in continuo
mutamento e vive nell’oggi.
La rigidità è cristallizzata negli infelici ricordi del passato e,
conseguentemente, nella paura di un altrettanto infelice futuro. Ciò che è
imposto fa parte della mentalità adulta: essendo spesso fatta solo di
apparenza è, anch'essa, una sorta di bugia. E il segno della malattia cronica.
Le persone, spesso, si ammalano per una bugia. Infatti, i bugiardi sono più
portati alle malattie; la malattia dice la verità: i pazienti che si ammalano
(lo vedo dagli esami grafologici) sono i bugiardi. Non sto parlando di una
bugia attiva, cioè che appartiene a chi la dice, ma alla bugia passiva, cioè a
chi non dice a se stesso la verità; ma dietro la bugia vi è spesso la paura.
Spesso, mettendo il paziente in ipnosi e facendolo ragionare come un
bambino, ottengo la guarigione perché ho smascherato la sua bugia.

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Perché acuto, perché cronico

La malattia acuta è quella che dura per poco tempo, quella cronica dura
molti anni o anche tutta la vita. Alla luce di quello che adesso so, e ho
appena detto, potrei già fare un’ipotesi sul perché certe malattie sono acute,
come ad esempio l’influenza, e da acute possono diventare croniche, come
per esempio la bronchite. Altre sono già considerate croniche ad vitam,
come per esempio il diabete. Le malattie acute, secondo l’esame che ho
fatto su certi pazienti, derivano da un’emozione passeggera, per esempio un
mal di gola. Le acute recidivanti, invece, derivano da un'emozione latente
nell’inconscio che si risveglia in seguito ad uno stimolo con un valore
simbolico emozionale o che poggia su una credenza popolare: un mal di
testa da vento, un dolore reumatico da umido un mal di gola da corrente
d’aria, una rinite da pollini. Le malattie croniche sono tali, da quel che ho
visto dai miei studi di comparazione grafologica su scritti dei pazienti,
perché poggiano su un terreno patogeno di tipo psicologico, un terreno
depressivo che sviluppa una malattia cronica. L’origine della cronicità
della malattia in alcuni casi potrebbe però, essere un’altra e la spiegazione
molto più banale della precedente. Questa mi è venuta in mente dopo aver
letto nel bellissimo libro “La mia voce ti accompagnerà” di come lo
psichiatra Erickson era riuscito a guarire un’acne. L’autore narra di un caso
di acne in un adolescente, guarito senza medicinali, solo perché il paziente
non si era guardato allo specchio per due settimane. Mi hanno poi riferito
della guarigione spontanea di malattie croniche come lupus e tumori, solo
perché il malato “non ci aveva più pensato dopo aver cambiato vita”. Mi è
allora venuto da pensare che la convinzione che una determinata malattia
sia inesorabilmente cronica non fa altro che confermare, nell’inconscio
del paziente, la sua cronicità: se il paziente non ci pensasse più
potrebbe anche guarire spontaneamente.
E se le analisi e i controlli a cui sono sottoposti i malati non servissero
ad altro che a confermare in loro, attraverso la paura - sentimento
origine della malattia stessa - la cronicità di essa?”

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La mimica del paziente

Come omeopata ho imparato ad osservare, durante la visita, la mimica


del paziente. Il suo portamento, il modo di guardare, quello di rispondere
alle domande sono una conferma, spesso, di quello che rivela la sua
scrittura ed in concordanza col significato della metafora fisico-verbale
rivelata dalla sua malattia. Per svolgere la terapia verbale devo penetrare
nel suo immaginario, devo riuscire a capire quali tipi di pensieri inconsci,
legati al suo carattere, potrebbero averlo portato alla sua malattia. Devo
inserire i suoi sintomi, che sono frutto della sua immaginazione inconscia,
nel suo contesto personale; quindi mi servono quattro elementi: la sua
metafora sintomatico-verbale, la scrittura, la sua mimica e l’afflizione che
l’ha portato alla malattia. Spesso qualcuno di questi mi manca, ma riesco lo
stesso ad attuare la terapia, per esempio quando la attuo al telefono con le
persone che sono lontane. La mimica più interessante e significativa è
quella di risposta alla terapia; quando dico al paziente: «Adesso pensi a
questo e a quest’altro e vediamo se le passa il dolore», la risposta è diversa
da paziente a paziente. C’è chi capisce subito e si mette in posizione di
raccoglimento, come se stesse pregando; mi accorgo che il suo sguardo si fa
accogliente e mentre pensa guarda di traverso; in questo caso, quasi sempre,
la risposta terapeutica è buona.
C’è chi non ha intenzione di ubbidirmi, fa fìnta di farlo per compiacermi
e pensa che io non me ne accorga. Si mette quasi in posizione militare di
ubbidienza, mi fa sì con la testa, mi guarda freddamente e con lo sguardo in
avanti, da cui si vede che non sta pensando, non assume la posizione di
raccoglimento, sta solo attendendo di dirmi che la terapia non ha funzionato.
Con questi devo ribadire che non gli sto dando l’Aspirina, e che il lavoro di
guarigione lo deve fare da sè. C’è un terzo caso molto curioso di un mio
paziente che, mentre mi guarda con compatimento, dice che non capisce ciò
di cui gli sto parlando e che non crederà mai alla mia terapia; che un
medico così non l’ha mai visto ecc. ecc., intanto gli sparisce il sintomo:
l’inconscio ha lavorato a sua insaputa.
Un altro tipo di mimica è la postura e il modo di muoversi di certi
pazienti colpiti al sistema muscolo scheletrico e neurologico. Certi tic da
problemi neurologici, certi modi di camminare rispecchiano la personalità
del paziente e l’afflizione che l’ha portato alla malattia. Sono i più teatrali
fra tutti i pazienti. Purtroppo, la caratteristica che li accomuna è che quando
sciolgo loro la metafora, non ridono mai. Non penso che non sappiano più

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ridere perché hanno una malattia grave penso, al contrario, che hanno una
malattia grave perché non sanno ridere. Certi ridono ma non sanno ridere. Il
loro modo di fare dello spirito non è sentito, non è convincente, non sono in
grado di fare una rappresentazione liberatoria della loro espressione
patologica con una risata. A questo fatto potrebbe essere dovuto il loro
sintomo più comune: il ripetere sempre i soliti gesti e la loro rigidità.

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La rigidità

La rigidità è il sintomo ed il vocabolo più frequente del pazientese. Lo


sento nelle espressioni «mi sento le gambe rigide» oppure «ho le dita
rigide». Analogo a questo significato è il vocabolo “duro”, «mi sento un
indurimento nella gamba» oppure «mi sento un indurimento nella
mammella». La rigidità e la durezza sono i sintomi più frequenti nelle
malattie croniche. Li ritrovo nelle malattie neurologiche: parkinson,
sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica. Nelle malattie croniche del
connettivo: lupus, sclerodermia, artrite reumatoide, nei tumori, nella
sarcoidosi, nell’enfisema polmonare ecc.
Nella rigidità, a differenza degli altri vocaboli del pazientese, il malato
si definisce, mentre nelle altre espressioni esprime in quale stato
emozionale si trova; nel termine “rigidità” si descrive inconsapevolmente in
una sua caratteristica di carattere e di comportamento: è rigido sia nella
malattia che nella personalità. Questo dato l’ho ricavato dallo studio della
scrittura del paziente.
Il sintomo rigidità, durezza, rappresenta un modo di affrontare o non
affrontare affatto i problemi in maniera rigida. Un modo sofferente e,
quindi, sbagliato di rappresentarsi la vita. Questo modo di vedere
l’esistenza e gli avvenimenti dolorosi si cristallizza nel paziente sotto forma
di un sentimento cronico di paura-rabbia, da cui non sa uscire. Questo modo
di vedere la vita poggia, a sua volta, su certe credenze rigide, sostenute da
una certa cultura morale religiosa. La rigidità delle credenze ha origine,
anche più frequentemente, da un certo tipo di personalità che è, appunto,
“rigida”. Il carattere orgoglioso e testardo è più portato alle malattie in
generale, ma più frequentemente alle malattie croniche. Il modo in cui viene
educato fa il resto.
La vita è mutamento. Il mutamento è causato frequentemente da
avvenimenti dolorosi, le personalità rigide hanno paura del mutamento e
non ne sanno cogliere la bellezza. Anziché gioire di esso si ammalano.

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La risata

La risposta terapeutica più bella è la risata del paziente dopo che gli
rimando la sua metafora. Quasi sempre so che guarirà. Con il riso mi dice
tante cose: che si è sentito compreso e che ha capito nel profondo del suo
animo la terapia, che ha preso le distanze dall’afflizione che l’ha portato
alla malattia perché la vede come una rappresentazione, che non ha più
paura, ma soprattutto, finalmente, c’è un paziente che si diverte mentre
viene curato.

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Una risposta a chi è andato dallo psicanalista

Questo mio approccio può apparire molto semplicistico a chi ha fatto


anni di analisi. A tutti questi vorrei rispondere che è sì semplice, ma agisce
a livelli profondi perché è analogico. Io non pretendo di fare così
psicoterapia, ma solo di diffondere la consapevolezza attraverso la terapia.
Vi è un legame tra la mente ed il corpo, si può insegnare il valore
emozionale del sintomo e come il paziente può trarre da esso una guida per
fare un esame su se stesso. C’è gente che non accetta la mia terapia, e
quando la attuo non funziona su tutti, ma c’è anche gente che non andrebbe
mai in analisi e, d’altronde, gli analisti più bravi e più corretti sanno dire di
no in certi casi. La mia terapia è in concordanza con quelle attuate dalla
nuova corrente di pensiero psichiatrica che, anziché cercare la causa prima
di un problema, (questo comporta un’analisi che si trascina per anni)
risolve il problema con una “ristrutturazione”; ristrutturare significa
prendere atto del problema vedendolo in maniera diversa, per cui vengono
contemporaneamente cambiati i sentimenti rispetto al problema stesso.
Quest’ultima terapia richiede solo poche sedute. Quando il paziente ride e
guarisce so che ha attuato, appunto, una “ristrutturazione” dell’immagine del
suo sintomo fisico legato al suo problema emozionale. Il sintomo fisico è
conseguente alla sua immaginazione inconscia che, in quanto tale, non può
essere controllata e obbiettivata.
Se invece il paziente la rende obbiettiva e consapevole, ecco che avviene
la guarigione. Non c’è bisogno di cercare la causa organica del sintomo
perché esso è andato via senza bisogno di farmaci, che sarebbero l’unica
alternativa alla mia terapia e che lascerebbe il paziente con i suoi problemi,
senza un minimo di consapevolezza e anche intossicato. Semplice e breve
non vuol dire superficiale come lungo e difficile non vuol dire efficace.

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L’andamento della terapia

La cura può essere attuata sia con la patologia in atto sia in sua assenza.
Dopo il messaggio verbale i sintomi possono comportarsi in diverso modo:
possono sparire immediatamente e non tornare più, anche se la persona li
aveva da lunghissima data, possono accentuarsi subito e poi sparire,
possono sparire solo dopo un certo tempo, possono sparire per poi tornare
e sparire di nuovo etc... Il decorso dei sintomi dopo questa terapia ricorda
del tutto quello della somministrazione omeopatica solo che in questo caso,
siccome non ho somministrato niente per via orale, è chiaro che il lavoro lo
fa il paziente non il farmaco. Anche in tanti altri casi in cui si somministra
il farmaco il lavoro di guarigione lo fa comunque il paziente, solo che in
quei casi questo non è chiaro mentre nella terapia verbale è
perfettamente evidente. Essendo inoltre eliminato ogni veicolo materiale
di terapia non si può dire che sto somministrando un placebo. L’unico
placebo potrei essere io stessa, se il paziente crede in me.

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Le allergie: una suggestione collettiva

Le allergie sono per me la patologia più. semplice da eliminare. Al


telefono, in ambulatorio con un discorso scherzoso o in leggera ipnosi non è
difficile eliminarla, basta che il paziente sia disposto ad ascoltarmi e sia
aperto a quello che gli devo dire. E' proprio un paziente allergico che mi ha
dato il via per sviluppare la mia attuale terapia. Ero stata insospettita dalla
strana allergia all’arancia e a tutti gli alimenti arancioni di un mio paziente.
Poiché i sintomi, un dolore di stomaco ed un mal di testa, si scatenavano
anche solo quando guardava qualcosa di arancione, ne avevo dedotto che
era solo allergico al colore e che il colore era un simbolo. Era arrivato,
inoltre, con un enorme elenco scritto di analisi di laboratorio che
testimoniava come fosse allergico a tanti alimenti color arancione. Da
allora, incominciai a guardare le analisi di laboratorio con prove allergiche
in maniera più critica e scoprii che spessissimo non collimavano con la
diagnosi clinica di allergia. Adesso, (da molto) non le guardo più. Da
quello che ho potuto constatare per i risultati terapeutici interpretando le
allergie in chiave metaforica, posso dire che la maggior parte delle
allergie sono niente altro che il prodotto di una suggestione collettiva
legata più che altro ad un vocabolo: il peccato, con tutte le sue
implicazioni analogiche: sporco, grasso, rosso, piccante, animale, nero,
carne ecc... Tutti questi ultimi vocaboli sono altrettanti attributi posseduti
dai cibi e dalla materia che trascinano con loro il significato di “peccato”.
Mi spiego meglio: «Perché un innocente pomodoro, una fragola, dei
crostacei, dei peperoni, delle ciliegie, delle angurie dovrebbero dare
allergia?» «Perché sono rossi come la proibizione, come il semaforo, come
è rossa la lussuria, come il vestito, non a caso rosso, di Valeria Marini nella
famosa pubblicità per un combustibile. Perché i cibi piccanti fanno male
anche presi in piccola quantità e ogni tanto? Perché non li sopporta il
fegato?» Mi sembra un’assurdità.
Io penso per la stessa parola “piccante”, quindi, peccaminoso. - E la
polvere perché causa le allergie? “Perché sporca” è la risposta ovvia di
tutti i pazienti. Ma allora se è risaputo che la polvere è sporca per tutte le
persone, come mai non in tutti causa allergie? -
Perché, per alcuni, la parola sporco ha un forte significato suggestivo-
emozionale, per altri no.
E il grasso perché fa male? Perché, se grasso, sarà anche sporco e quindi

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peccaminoso anch’esso.
E la carne del ragù? Peccaminosa. E il nero di alcuni indumenti?
Allergenico anch’esso perché, come è noto, si dice “nero come il peccato”.
E il polline? E tutte le allergie che si manifestano in primavera? Sono da
peccato perché la primavera è la stagione degli amori. Ma il cibo più
peccaminoso in assoluto è la pizza che, infatti, causa frequentemente
allergie. E' peccaminosissima perché è rossa, è unta, è piccante... ed è
buona. Quindi, è un piacere mangiarla ed il piacere è peccato. Dietro alla
diffusione delle allergie, come delle altre malattie, c’è il nostro vero Dio
che è in noi, ci parla e ci sorride deridendoci; se Lo sappiamo riconoscere
ci perdona e ci guarisce. Oltre al simbolo generale di peccato, molte
sostanze allergiche hanno come causa immaginativa anche una vicenda
personale che li ha portati all’intolleranza. Vi faccio un esempio: due
pazienti diverse, vedove, in cui l’allergia per la polvere si era manifestata
dopo la morte dei mariti. Prima, la definizione di polvere era, oltre quella
generica “che sporcava” anche “nera” come il suo lutto. Nell’altra, “la
polvere è impalpabile eppure c’è”, riferendosi a come sentiva ancora la
presenza del marito, nonostante la sua morte. Non tutti i casi di allergie,
però, sono legati al tema del peccato; ne ho trovato tante altre strane legate,
invece, alla storia immaginativa del paziente: allergia all’acqua, ai
conservanti, agli additivi, ai kiwi, alle zanzare, alla sabbia, al sole, alle
piume, alla lana, ai tessuti sintetici, al latte, ai latticini, alle creme, ai
profumi, ai vari cosmetici ecc. Tutti trascinano con sé un significato
particolare per quel paziente in esame. Nella terapia adopero sempre la
metafora individuale e, se questa non la ricavo dal paziente, uso quella
generica: per esempio il peccato.

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Casi clinici

Non si può capire il pazientese senza descrivere i casi clinici. Ogni


patologia o sintomo singolo è, per me, il risultato delle esigenze
immaginative inconscie di espressione del paziente, per cui lo stesso
dispiacere in un paziente può essere espresso come un mal di testa e, in un
altro paziente, in altro modo per esempio, con un dolore reumatico. Il fatto
più importante per me è il linguaggio verbale con cui esprime la sua
malattia; non metterò quindi i casi clinici sotto un ordine patologico ma
semplicemente seguendo il filo della mia memoria. Gli psichiatri non ce
l’abbiano con me se per loro racconto fatti banali. Li invito però a scrivere
un libro simile al mio per l’utilità di tutti.

Venne un giorno una donna con un mal di testa di cui soffriva da


trent’anni, con la sensazione che il cervello le ballasse. La sua cefalea
migliorava se si tirava i capelli. Mi feci raccontare i suoi dispiaceri: aveva
un marito estremamente geloso - che adesso era morto - che l’accusava di
tradirlo dicendo che lei aveva tanti amanti quanticapelli in testa. La signora,
invece, aveva vissuto una vita sacrificata che si divideva tra la
frequentazione della chiesa e la cura dei figli,
Io allora le chiesi: «Si è molto sacrificata, signora?»
«Sì», mi rispose.
«Sa perché le balla il cervello in testa?»
«Perché?».
«Perché non ha mai ballato. Sa perché migliora quando si tira i capelli?»
«No»
«Perché così si sta portando via tutti gli amanti di cui l’accusava suo
marito».
La paziente ebbe immediatamente le vertigini e si dovette tenere alla
scrivania. Uscì frastornata dallo studio, tornò dopo un mese, il mal di testa
era notevolmente migliorato. Mi ringraziò e mi portò delle immaginette di
Santina Campana.

Una ragazza di ventiquattro anni aveva delle croste in testa che


diventavano pruriginose quando si lavava i capelli. Le chiesi: «Quale è il
motivo per cui queste croste diventano pruriginose?»
Mi rispose: «Si inteneriscono con l’acqua e siccome diventano tenere mi
danno prurito». L’aggettivo “tenero” corrispondeva a come lei

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principalmente vedeva la madre che, infatti, era una donna “tenera”.
La crosta poi ha la caratteristica di essere attaccata alla pelle come lei è
“attaccata” alla madre. Glielo dissi: le croste guarirono in pochi giorni.

Venne da me una giovane signora che aveva una paralisi incipiente alle
gambe e camminava con difficoltà, aveva anche un dolore alla schiena. Le
chiesi: «Che sensazione ha di dolore?».
Mi rispose che sentiva come qualcosa che premeva: «Chi è che preme?»
«L’ariete” mi rispose.
«Che caratteristiche ha l’ariete?».
«E' cornuto».
«Chi è cornuto?»
«F... un mio amico, mi ha offesa»
«Si metta F...nella schiena». Il mal di schiena le cessò immediatamente.
La paralisi, invece, era dovuta a dei vicini di casa che la criticavano
continuamente. Ne parlammo.
Tornò dopo un mese guarita definitivamente dal mal di schiena e dalla
paralisi. Aveva, nel frattempo, anche cambiato casa.

A Napoli venne da me un ragazzo che aveva un dolore alla schiena che si


irradiava ad una gamba. Gli chiesi: «In quali circostanze si manifesta il
dolore?». «Quando uso delle scarpe “dure”».
Sapevo per esperienza che i sintomi che si manifestano in relazione con
l’uso delle scarpe, sono dovuti al coniuge o al fidanzato.
Gli chiesi: «Ha un carattere “duro” la sua fidanzata?».
«Si, è molto litigiosa».
«Vada a fare una camminata di dieci minuti pensando che nelle scarpe ha
la fidanzata e torni a dirmi come va».
Tornò senza più dolore.

Sempre a Napoli, venne da me un giovane affetto da dolore ai piedi con


sensazione di bruciore. La diagnosi era “polinevrite”; questo dolore lo
affliggeva da molti mesi, aveva consultato vari specialisti e fatto molte
analisi. Venne da me perché sono la consulente di un neurologo a cui si era
rivolto.
Gli chiesi: «Come peggiora il bruciore?».
«Lavando i piedi nel bidet», mi rispose.
Il bidet lo misi subito in relazione con i genitali. Diedi poi un’occhiata
alla sua scrittura e vidi che aveva le caratteristiche di un passionale
represso. Gli dissi solo: «Ha il sesso nei piedi. Non le bruciano i piedi, in

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verità a lei “brucia il sesso”, perciò peggiora lavandosi nel bidet».
Con i napoletani non ho bisogno di molte spiegazioni, in genere mi
capiscono subito. Il dolore cessò immediatamente e non gli tornò più.

A Roma, sempre al seguito dello stesso neurologo, venne da me una


signora che aveva un dolore all’alluce quando si metteva le scarpe e,
usando una sua espressione, «scontrava col dito dentro la scarpa». Le dissi:
«Sa che l’alluce è suo marito? Lei si scontra con lui?».
Mi rispose: «Sì, è vero, ci bisticcio spesso». «Allora si metta la scarpa
e, contemporaneamente, pensi che scontra con suo marito».
Il dolore le cessò immediatamente.

Una mia amica, un giorno, mi invitò a cena e mi fece visitare sua figlia di
sei anni. Aveva un dolore in corrispondenza dell’alluce del piede destro
dove era cresciuta una verruca dura. Quando camminava sentiva dolore
come una puntura, e poi aggiunse «Sento anche come una molla». Capii
subito cosa voleva intendere e le dissi: «Cammina e pensa che ti “mollano”,
cioè che ti senti abbandonata». Il dolore le passò immediatamente, la
verruca andò via nel corso di dieci giorni.

Una signora venne da me con le mani colpite da una dermatite secca e


desquamante. Diceva di avere un’allergia ai detersivi. Sapevo che si era da
poco separata dal marito. Le dissi: «Chi se ne lava le mani di te, tuo
marito?». L’allergia le sparì dopo due giorni. Mi riferisce di aver detto:
«Lui se ne lava le mani di me? Allora io me ne lavo le mani di lui», dopo
che batté le mani e dopo due giorni guarì.

Nella spiaggia di Cagliari, il “Poetto”, mi presentarono una signora che


aveva un dolore alla spalla destra. Le chiesi: «Quando le viene questo
dolore?».
«Quando frego», disse; intendeva dire “quando pulisco”. Il fatto che
avesse adoperato proprio quel vocabolo mi portò a capire. Le chiesi: «Si
sente fregata, signora? Si sente sfruttata?».
«Sì», mi rispose, «E' sempre stato il problema della mia vita».
Allora le dissi: «Vada a fare il gesto di pulire e pensi che nel dolore alla
spalla ha il sentimento di essere sfruttata».
Il dolore le cessò immediatamente. Dopo un mese, ripassando di là, fui
chiamata da una signora che non mi ricordavo di conoscere. Era lei che mi
diceva che il dolore alla spalla da quel momento era cessato e non era più
tornato.

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Sempre nella spiaggia del “Poetto”, una mia collega, dopo che si era
divertita a sentire i miei casi clinici, mi disse: «Allora curami questa cisti
che ho sotto la pianta del piede da circa tre mesi, e che mi fa male quando
cammino».
Toccai la cisti per verificare. Le chiesi se avesse qualche dispiacere o
pensiero che la tormentava. Mi disse: «Ho paura delle malattie».
Le chiesi: «Com’è il tuo dolore?».
«E' un dolore puntorio».
«Hai un “puntore” nella cisti che ti dà un dolore puntorio», le dissi.
Lei rise. In seguito mi disse che la cisti e il dolore scomparvero dopo
due giorni. Per chi non conoscesse il dialetto cagliaritano, “puntore”
significa malattia.

Un giorno, stavo conversando con un paziente a casa sua quando mi disse


che era allergico al profumo.
Gli chiesi: «Che sintomi di allergia hai?».
Mi rispose: «Mi “gira la testa” anche quando sento un minimo di profumo
nell’ambiente».
Chiesi alla figlia di portarmi un profumo, glielo spruzzai addosso
cantando «Quel fascino Camay che fa girar la testa».
L’allergia cessò immediatamente e non tornò più. Aveva introiettato lo
slogan televisivo.

Una signora, durante una cena, mi disse di avere un’allergia ad un


profumo che si manifestava con delle chiazze rosse. Mi mostrò il collo
dove aveva delle chiazze rosse che erano della grandezza di una moneta da
cento lire. Le chiesi: «Qual è il nome del profumo?».
«La Dolce Vita», mi disse.
Le chiesi: «Desideravi fare una dolce vita?».
«Sì», mi rispose.
Allora, quando vai a casa, spruzzati il profumo e pensa a quanto è bella
“La dolce vita”. L’allergia le cessò.

Una mia collega, un giorno, mi telefonò perché la figlia quattordicenne


aveva un dolore alle mani; la ragazzina mi disse che aveva una sensazione
come se le mani “scoppiassero”.
Le dissi: «Le tue mani scoppiano perché sei innamorata?». Negava.
Mentre continuava a negare le chiesi «Passato?». «Sì», rispose.

Una mia amica, un giorno, mi telefonò e mi disse che aveva un torcicollo.


Le chiesi: «Chi ti ha torto il collo?».

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«Mia madre, mi rispose, ho appena finito di litigare con lei». Mi disse
che, dopo la telefonata con me, le sparì il dolore.

Una signora venne da me lamentando un dolore alle caviglie.


Le chiesi: «Mi descriva questo dolore».
«Sento come gocce che cadono».
«Da dove cadono le gocce?».
La signora ebbe un guizzo negli occhi e mi disse: «Dal tetto della mia
casa di paese. E' la mia preoccupazione fissa».
Il dolore le cessò.

Un giorno, una ragazza mi disse che soffriva di allergie ai crostacei. Le


veniva la diarrea dopo che li mangiava. Indagai; scoprii che aveva avuto un
padre molto avaro che non avrebbe sopportato che lei mangiasse un cibo
così caro. Le dissi di andare la sera stessa al mercato, mangiare i crostacei
e, contemporaneamente, pensare a quanto era avaro il padre. L’allergia le
cessò definitivamente.

Venne da me, un giorno, una signora accompagnata dalla figlia


adolescente. La ragazza soffriva di allergia quando si metteva dei pantaloni
neri. Si riempiva di chiazze rosse e pruriginose.
Le dissi: «Sai perché ti succede questo? Perché il nero è peccato!».
La ragazza pianse e disse: «Infatti, ho un senso di colpa perché non mi
sono confessata».
Le dissi di rimettersi i pantaloni; la sera ebbe un peggioramento, insistei
perché continuasse a indossare i pantaloni. Mi disse in seguito che
l’allergia le sparì.
Nella spiaggia del Poetto, sotto l’ombrellone, una ragazza mi disse che
da vent’anni soffriva di un ' dolore alla nuca che peggiorava se poggiava la
testa sul cuscino.
Le dissi: «Ti viene perché non ti puoi appoggiare a tua madre».
Il dolore non le tornò più.

Un giorno, venne da me un bambino che aveva un’allergia al ragù; si


riempiva di chiazze pruriginose dopo che lo mangiava. Gli feci il discorso
del peccato. La sera stessa mangiò il ragù e, da allora,lo mangia quando
vuole senza conseguenze.

A Milano, visitai una signora che aveva uno strano sintomo: la bocca, in
certe ore del giorno, le si riempiva di saliva acquosa. Parlava molto,
parlava troppo. Ad un certo punto della visita la interruppi e le dissi: «Sa

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perché ha molta acqua in bocca? Perché il sintomo significa “Acqua in
bocca” cioè che deve stare zitta». La signora non si offese, il disturbo
diminuì. Ho ricevuto i suoi auguri questo Natale.

Venne da me una signora di circa sessantacinque anni, nubile. Lamentava


un dolore alla schiena. Le chiesi: «Mi descriva questo dolore»
«E' come se una vertebra sfregasse contro l’altra» «E perché non ha mai
“sfregato” con nessuno», le dissi.
Il dolore cessò.
Dopo sei mesi tornò perché cadeva quando camminava. Le chiesi:
«Come fa a cadere? Mi spieghi come cammina».
«Quando cammino, mi si accavalla un piede sotto l’altro e allora cado».
«E perché non ha mai “accavallato” con nessuno». Il disturbo cessò.
Alludevo, naturalmente, al sesso.
A Napoli, visitai una ragazza che aveva un’allergia allo smalto: dopo che
lo metteva si riempiva di chiazze nel collo e nel petto.
Le dissi: «Cosa fa lo smalto?».
«Copre», mi rispose.
Io colsi subito l’analogia e le chiesi: «A chi dice bugie?».
«Alla mamma, quando devo uscire col mio fidanzato».
Allora, si rimetta lo smalto e pensi che lo smalto è coprente come le
bugie che dice a sua madre. Lo fece e l’allergia non arrivò né allora né
dopo.
Venne da me, un giorno, una signora con una parodontopatia. I denti erano
diventati doloranti e sensibili alle temperature. Le chiesi di descrivermi,
con le sue parole, l’affezione.
Mi disse: «I denti sono spogli e sono sensibili al caldo ed al freddo. La
gengiva abbandona i denti perché si ritrae ed il dente rimane senza una base
d’appoggio. La gengiva si ritrae e lascia spoglio il dente».
La descrizione corrispondeva in metafora, al sentimento di non sentirsi
appoggiata dal marito ed alla paura che lui l’abbandonasse. Confermò che
soffriva di quei timori. I denti si rinsaldarono ed il dolore sparì.

Venne da me una ragazza adolescente. Aveva le vertigini quando si


sollevava in piedi.
Le dissi: «Sollevati e pensa: devo controllare tutto». La vertigine non
cessò subito ma alcuni giorni dopo.
Una signora si lamentava di una cistite da una settimana con sensazione
di qualcosa che premeva quando andava ad urinare. Le chiesi come
andavano i rapporti sessuali.

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Mi rispose: «Certe volte mio marito proprio nonlo sopporto».
Allora le dissi: «Quando si sente premere pensi che è il sesso di suo
marito».
La cistite le cessò dopo alcuni giorni.

Un giorno mi telefonò da Napoli, una collega che mi disse che da qualche


mese non sentiva più gli odori.
Le chiesi: «Chi non senti più?»
«Mio marito» mi rispose, «da quando mi ha tradita». «Vai in cucina ed
odora qualche spezia».
Tornò dopo poco al telefono: sentiva di nuovo gli odori.

Venne da me una ragazza che non sentiva più gli odori dopo una rinite.
Le dissi: «Chi non senti più?»
Mi rispose: «Una mia amica, non parla più con me, non mi saluta più».
Pianse; dopo che smise di piangere le feci odorare uno shampoo. Aveva
riaquistato immediatamente l’odorato.

Così, è andata la cura di una mia allergia. Soffrivo di una terribile


intolleranza ai peperoni. Da venticinque anni, anche quando ne mangiavo un
po’, avevo dei conati di vomito con forti dolori addominali. Andai a
Milano per farmi ipnotizzare da una mia collega. Nemmeno a farlo apposta,
a casa sua mi offrì una pizza al peperone.
Andai in ipnosi subito. Allora mi chiese: «Chi è il peperone?».
«E' Paperone».
«Chi è Paperone?».
«E’ mamma».
«Perché?».
«Perché è piccola, con gli occhiali, conserva i soldi ed è bisbetica come
Paperone».
A questo punto rigettai la pizza al peperone. Con solo un’altra seduta di
ipnosi mi scomparve l’allergia. Raccontai l’episodio a mia sorella; mi
telefonò dopo una settimana e mi disse: «Ho letto “Topolino”, mamma è
incredibilmente rassomigliante a Paperone!».

Un giorno, in spiaggia, sentii un signore lamentare un dolore ad un piede.


Il dolore gli veniva anche quando camminava solo per cinquanta metri.
Dopo essermi presentata come medico, gli chiesi: «Com’è il suo dolore?».
«È come se avessi uno zoccolo di cavallo».
«Che carattere ha il cavallo?».
«Se è educato è bravo altrimenti si imbizzarrisce facilmente».

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«Chi si imbizzarrisce dei suoi parenti?».
«Mio figlio».
«Allora cammini pensando che ha il figlio nel piede». Mi guardò stupito,
ma fece quello che gli dissi. Andò, tornò dopo una camminata di mezz’ora
dicendo che non sapeva spiegarlo, ma il dolore gli era passato.

Venne da me un signore con la diagnosi di “Sclerosi laterale


amiotrofica”, sentiva un senso di pesantezza alla mano destra. Aveva fatto il
panettiere, mestiere molto duro, e adesso era in pensione.
Gli dissi: «Metta nella sua mano il sentimento che non ha più voglia di
lavorare».
«Ma io ho voglia di lavorare».
«Metta lo stesso questo sentimento». Dopo qualche minuto la mano si
alleggerì; a quanto pare, non aveva voglia di lavorare.

Una mia conoscente si lamentava di un dolore al collo che le veniva con


l’umido. Le chiesi: «Cosa fa l’umido?»
«Costringe le vene» mi disse.
«Chi costringe te?».
Si arrabbiò «Non mi costringe nessuno!».
Tornai due giorni dopo a trovarla: il dolore al collo le era notevolmente
diminuito dopo che si era arrabbiata. Mi accolse sorridente e divertita:
aveva capito la terapia.

Ricevetti, un giorno, una telefonata da una signora che aveva una cefalea
con sensazione di palpebra pesante ad un occhio. Le dissi: «Sta chiudendo
un occhio per qualcosa che le fa suo marito?».
La cefalea le migliorò immediatamente.
Più tardi, seppi che sospettava un tradimento da parte del coniuge.

Un giorno, venne da me una farmacista che mi chiese di riceverla in


studio l’indomani. Aveva un’allergia alla bigiotteria, disturbo di cui
soffrivo anch’io. La misi in leggera ipnosi e le dissi di immaginare la
sezione microscopica della pelle con tutti quegli strati di cellule uno sopra
l’altro, con lo strato corneo in alto che non lasciava passare niente, per cui
non era possibile che lei soffrisse di questa allergia perché il metallo non
poteva passare oltre tutti quegli strati di cellule. Senza rendermene conto, in
quel momento, stavo facendo la terapia anche a me. Io sono guarita, lei no.
La farmacista non si ricordava l’Istologia.

Un giorno, ricevetti nel mio studio odontoiatrico, una signora che aveva

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un cordone di gengiva cresciuto dall’interno della guancia che si metteva tra
i molari. Era, pertanto, costretta a masticario e per questo si faceva sempre
più grosso e dolorante. Le feci la solita domanda: «Come va con i
parenti?», mi rispose «Mi criticano malamente ed io devo stare zitta».
Le dissi: «Sa perché ha quel cordone di gengiva? Perché sta “mordendo
il freno”».
Il cordone le andò via nel giro di un mese; l’ho incontrata dopo due anni
per la strada: non gli era più ricresciuto.

Venne da me una signora che si era appena separata dal marito. In seguito
alla separazione aveva sofferto di un’allergia di natura ignota che si
manifestava con una eruzione diffusa al viso. La paziente diceva che, in
seguito a quest’eruzione, sembrava un “koala”. Le chiesi di definirmi un
koala.
Mi rispose: «E' un animale protetto in via d’estinzione».
Le risposi: «È la protezione di suo marito che è in via d’estinzione a
causa della separazione?».
Rise e mi confermò che era così. In seguito, mi disse che l’allergia le
tornò un’altra volta; ma che le passò dopo aver pensato alla nostra
conversazione.

A Napoli, visitai un giovane con distrofia muscolare. Aveva difficoltà nei


movimenti che mimavano il gesto di volare. Gli chiesi da chi o da che cosa
non poteva volare o liberarsi, mi rispose: «Da mio padre».
Gli dissi: «Faccia il gesto di volare, pensando che non si può liberare da
suo padre».
Il paziente migliorò subito.

Incontrai, un giorno, un signore che aveva da più di vent'anni un mal di


testa che veniva sempre scatenato dal vento freddo. Il vento, come la
corrente, mi richiama per analogia il sentimento di abbandono. Questo
sentimento era, in effetti, una paura di cui questo signore aveva sempre
sofferto ed era legato al suo rapporto con la madre. Gli spiegai il
significato del mal di testa, non gli venne più. In certi casi, la terapia
verbale può sembrare crudele. Ma non vi dimenticate che sto
somministrando omeopatia verbale. Cioè, sto agendo col principio: “dare il
male per curare il male”. I pazienti, d’altronde, sembra che non si offendano
mai.

Venne da me una signora per una cura dentaria. Nonostante le avessi


drenato l’ascesso, continuava a sentire molto dolore. Allora, chiesi come

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fosse questo dolore e mi rispose: «E' come se sentissi il dente di sopra più
grosso che batte contro quello di sotto». Indagai. Venni a sapere di un
inquilino della paziente che abitava al piano di sopra e che era suscettibile
e prepotente. Dissi alla signora di proiettare la rabbia per l’inquilino nel
dente dolorante; il dolore diminuì immediatamente.

Una ragazza tornò dopo due anni perché lamentava un dolore in


corrispondenza di un dente a cui avevo chiuso i canali. L’esame
radiografico mi confermava che la cura era andata bene.
Le chiesi: «Che dolore sente al dente?».
Mi rispose: «Sento un dolore fastidioso».
«Chi le dà fastidio?».
«Dei miei parenti».
«Si metta i parenti nel dente».
Il dolore le cessò. In passato, mi era capitato che in casi del genere
avevo dovuto rifare la terapia endodontica, ma il dolore non era sparito.
Un giorno, venni chiamata a visitare un bambino di cinque anni che aveva
un dolore ad un molare. Il dente era sano, il dolore era causato dalla rabbia.
Gli dissi: «Chi ti ha fatto arrabbiare?».
«Mia cugina».
«Metti tua cugina nel dente».
Il dolore gli cessò dopo qualche minuto.

Un giorno, ero a passeggio per Roma quando fuichiamata al cellulare da


un mio amico psicologo. «Gabriella vieni, che c’è un caso per te: un
paziente delirante». Andai nel suo studio, c’era un ragazzo che, come mi
vide, disse: «Il sole ha le macchie».
Io risposi: «Esiste un sole senza macchie».
Lui mi disse: «E la luna?».
«Ma cosa vuoi che sia la luna in confronto al sole!». A questo punto, mi
guardò in maniera diversa e mi fece la prima domanda sensata: «Che
mestiere fai?» era uscito dal delirio. Avevo parlato conlui in pazientese.

Una signora venne da me perché soffriva di ponfi pruriginosi da circa


quattro anni. Si erano manifestati, per la prima volta, dopo una
“permanente”. Indagai. La signora era piemontese e si era trasferita in
Sardegna col matrimonio; era figlia unica e sempre preoccupata per i
genitori che vivevano in Piemonte. Pertanto, desiderava tornare nella sua
terra, ma ragioni di famiglia la costringevano a restare in Sardegna. Le feci
notare la coincidenza tra la parola “permanente” e il suo problema di

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permanenza in Sardegna.
Rise e guarì.

Una mia amica, a cui ho raccontato parecchi dei miei casi e che mi ha
sempre ascoltato molto interessata, sta imparando anche lei a cimentarsi
nella cura con amici e parenti. Questi sono i casi risolti da lei.

Suo cognato aveva una cisti di grasso in una palpebra. Lei le chiese:
«Vedi qualcosa di volgare o di sporco?».
Lui rispose: «Sì, un mio collega che fruga nella spazzatura, non lo
sopporto».
La cisti gli andò via. Sua sorella aveva da un mese un mal di gola con
sensazione di grattamento.
Le chiese: «Devi dire qualcosa a qualcuno e non ne hai il coraggio?»
«Sì a quella, “me la devo grattare”» rispose.
Il mal di gola andò via il giorno dopo.

Una sua amica si rivolse a lei perché il suo bambino di nove anni aveva i
vermi nelle feci. Lei le chiese: «Cosa fanno i vermi?».
Lamica rispose: «Succhiano il sangue».
«Chi succhia il sangue?».
«L’amante di mio marito». Senza che il bambino sapesse niente della
conversazione della madre, guarì dai vermi: il giorno della conversazione
la signora li aveva visti vivi nelle feci, il giorno dopo erano tutti morti.
Questo è un altro caso di cura di un bambino attraverso un genitore.

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L'allergia ai farmaci

Negli anni cinquanta esisteva una trovata pubblicitaria: mentre guardava


un film la gente non sapeva di ricevere dei messaggi subliminali che,
potentissimi, arrivavano nell’inconscio. Questi messaggi erano costituiti da
un unico fotogramma che, per una frazione di secondo, riproduceva la
fotografia di un prodotto per esempio una birra. Questo fotogramma
penetrava nell’inconscio, la persona non lo percepiva, ma all’uscita del
cinema aveva una gran voglia di birra. Pare che abbiano proibito questo
sistema e che non si usi più, ma dato che non lo possiamo controllare, non
sappiamo se questo è vero. Potrebbe essere anche che certi messaggi ce li
facciano arrivare in altra maniera. Avete precedentemente letto il caso di
quella signora che era allergica al nome del profumo “La dolce vita”. Io
credo che certe allergie ai farmaci siano date dallo stesso meccanismo:
l’allergia al loro nome. Analogamente a quella trovata pubblicitaria, il
nome dei farmaci potrebbe funzionare nella stessa maniera dato che il
significato del nome del farmaco è, spesso, inerente alla patologia del
paziente.
Per esempio: Valium potrebbe significare “Tu vali”. Si dà ai depressi.
Aspirina potrebbe voler dire “Tu aspirerai”. Si dà a chi ha l’influenza e,
spesso, il naso tappato. Froben starebbe per “Ti faccio del bene”. Si dà
come antinfiammatorio.
Uniplus potrebbe voler dire: “ho un potere in più” ecc. le persone, la
maggior parte delle volte, non coscientizzano questo fatto; il nome,
comunque, penetra lo stesso nel loro inconscio e questo potrebbe essere una
buona cosa per la terapia. Ma se le persone con quel nome avessero dei
problemi?
Vediamo delle strane coincidenze:
Mi hanno parlato di una ragazza che ha avuto un collasso con l’Uniplus:
aveva due fidanzati.

Un’anziana signora prendeva il Sedatol per dormire, ma siccome lo


pronunciava “Sedotal”, si eccitava. Due signore avevano il problema di
fare del bene e non essere riconosciute; col Froben avevano rialzi pressori,
una di queste era veneta e quindi vi era una coincidenza anche con il suo
accento dialettale: “Frobèn”.

Una signora era allergica al Tantum Verde, le avevano tolto l’utero e non

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poteva più avere bambini.

Una mia paziente era allergica “alla vitamina”, l'ho detto seguendo la sua
espressione. Le chiesi che problemi aveva con “la vitamina”.
Mi rispose sospirando: «La vita mia!».
Era agli arresti domiciliari per droga.
Un signore era allergico al Broncomunal. Era un fascista.

Una ragazza era allergica al Bactrim. Il padre la picchiava


frequentemente.

Una signora era allergica al Tenormin. Aveva paura di piombare in una


diminuzione del tenore di vita giacché, da bambina, era stata povera.

A Napoli, visitai una signora che era allergica al Naprosyn. Le chiesi


quale parola napoletana le ricordava il Naprosyn.
Mi rispose: «'nna pizza».
La pizza, come ho già detto, è un alimento che spesso scatena le allergie.

Alcuni miei colleghi, medici di base e farmacisti, mi riferiscono che


esistono due farmaci, l'Aulin eil Mesulid, che hanno la stessa composizione
chimica: il Nimesulide. Il primo è molto più richiesto del secondo. L'Aulin
ricorda molto la parola"Aulico" che significa anche "signore", "raffinato",
“nobile”. Mesulid richiama il suono di “Mesu” che, in sardo, significa
“metà”.

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La cura dei bambini: curare i genitori

L’idea della cura dei bambini attraverso i genitori mi venne affrontando


uno strano caso clinico. Una madre mi portò la figlia di otto anni che
soffriva di vaginite. E' da molto che penso che la vaginite non sia dovuta ad
un contagio sessuale ma ad una inconscia protesta della donna alla
maldestrezza sessuale e mancanza sentimentale degli uomini. Comunque,
siccome la bambina non poteva aver avuto un contagio di tipo sessuale,
pensai che la malattia della bambina fosse data da un influsso proveniente
dalla madre, anche se questo non potevo spiegarmelo “scientificamente”.
Interrogai la madre: soffriva di tradimenti da parte del marito; le dissi che
la vaginite della figlia poteva essere dovuta a questo fatto: la bambina guarì
in poco tempo. Ho notato, anche se non so spiegarmelo, questo fatto: i
bambini soffrono spessissimo di malattie che, nella loro espressione,
sono lo specchio di un conflitto, di un dispiacere, di un’emozione che
viene dai loro genitori. Questo avviene anche per gli animali domestici nei
confronti dei loro padroni. La mia cura consiste semplicemente nel parlare
ai genitori per renderli consapevoli. Nei casi in cui l’ho fatto la malattia è
scomparsa, qualche volta, senza che i bambini sapessero del colloquio coi
genitori.

Una volta venne da me una signora con un bambino di quattro anni che
soffriva di un'eczema pruriginoso da due anni; le varie pomate al cortisone
non lo avevano guarito.
Chiesi alla madre: «Quando peggiora il prurito?» Mi rispose: «Quando
tocca la terra».
Dissi alla madre: «Nel simbolismo collettivo la terra equivale alla
madre, quindi, il bambino ha problemi con lei».
La madre pianse e mi disse: «Penso che lei abbia ragione perché
l’eczema si è manifestato da quando ho affidato il bambino a dei parenti
perché io ho incominciato a lavorare».
Telefonai dopo un mese: dal giorno della visita l’eczema aveva
incominciato a diminuire, dopo due mesi era cessato del tutto.

Un giorno, venne da me una signora con un bambino di nove anni. Mi


chiese come poteva curare l’alluce destro di suo figlio che era dolorante
per delle profonde spaccature nella pelle. Chiesi alla signora che dispiaceri
aveva il marito. Mi disse: «Litiga con i colleghi».

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Risposi: «Quando torna a casa dica a suo marito che la dermatite
nell’alluce di suo figlio è la causa dei suoi bisticci sul lavoro».
La dermatite sparì nel giro di pochi giorni.

Venne da me una giovane signora con una bambina che teneva il collo
piegato a destra in posizione antalgica. Mi disse che la bambina si era
svegliata quella mattina con il collo rigido e dolorante per cui non lo poteva
muovere.
Chiesi alla signora chi la limitava nella libertà, perché il dolore al collo
della bambina era dovuto a questo. La signora fece la benefica risata e
disse: «I miei suoceri».
Dopo dieci minuti la bambina non aveva più niente: poteva girare e
piegare il collo come voleva. Andai a trovare un giorno una mia conoscente
che si era separata da poco dal marito; mi disse che la figlia più giovane,
adolescente, soffriva di frequenti emorragie dal naso.
Le dissi: «Questo succede perché sta perdendo “il suo sangue” che è il
padre». La bambina, da quel giorno, non ebbe più niente.

Mi venne a trovare, un giorno, un’altra mia conoscente anch'essa separata


dal marito. Il bambino di nove anni aveva frequenti emorragie dall'ano
quando andava in bagno. Per questo, l'avevano già operato di fibromi al
retto, ma le emorragie erano tornate. La madre era venuta per un consulto; le
diedi la stessa risposta del caso precedente: «Il bambino si immagina di
perdere “il suo sangue” che è il padre». Le emorragie diminuirono sino a
cessare del tutto.
In tutti i casi descritti, tranne quello della vaginite, i bambini erano
presenti al colloquio, ma nel sciogliere la metafora mi sono rivolta ai
genitori e non so se i bambini potessero essere capaci di capire il mio
linguaggio. Penso, perché è successo anche in altri casi qui non descritti, di
aver agito attraverso i genitori.

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I parenti

La causa più frequente delle malattie, per me, non sono i virus, ma i
parenti. E', infatti, sempre da una relazione, da un legame che si sviluppano
i sintomi. Questo fatto è rivelato dalla lettura dei casi clinici che, per me,
come ho già detto, equivale alla lettura della metafora malattia, allo studio
comparato delle grafie dei pazienti coi loro parenti e alle circostanze in cui
le patologie sono incominciate e si mantengono. In ordine di pato- genicità,
la persona più pericolosa come causa di malattie mentali e fisiche, è la
mamma. La suocera e il marito stanno a pari merito, poi ci sono i cognati, il
consorte e, in ultimo, i figli, specialmente quando si fanno più grandi e
quando i genitori invecchiano. La statistica segue proprio quel detto “Più i
parenti sono vicini più fanno male”. Anche i colleghi di lavoro e i vicini di
casa possono causare le malattie qualche volta, ma questi ultimi possono
essere cambiati, i parenti no. Il sentimento più frequentemente causa di
malattia è il sentimento di abbandono. Questo può essere distinto in paura
di abbandono ed effettivo sentimento di abbandono per una separazione o
lutto. Un altro tema frequente è il sentimento di repressione per paura di
contravvenire alle aspettative delle persone vicine e della società in genere.
In questo sentimento rientrano varie paure che poi scatenano le malattie. Le
più frequenti sono: paura di far “una brutta figura” e, quindi, di essere
svalutato agli occhi degli altri, sensi di colpa per aver agito in maniera
lasciva con fatti o con pensieri e, quindi, aver disubbidito alla religione
cristiana, parente stretto di questa paura è il timore di non fare bene il
proprio dovere che può portare a forme ossessive. Da questo deriva la
pignoleria e la mania di controllare e criticare che sono sentimenti patogeni
per chi li porta e per quelli che ne fanno le spese. Il sentimento più
patogeno e padre di tanti altri sentimenti e guai, in genere, è quello
dell’Orgoglio. L’orgoglio porta con sé, l’invidia, il risentimento,
l’attitudine al comando che sono altrettanti sentimenti forieri di malattie.
L’orgoglio, inoltre, è l’ostacolo maggiore alla mia terapia. Il paziente
orgoglioso, quando mi rivolgo a lui nella mia maniera semplice e diretta, mi
guarda dall’alto in basso e non si lascia penetrare dal mio messaggio, anche
a costo di continuare a stare male. Questi sentimenti soffocano il bambino
che è in noi che, poi, ci fa i dispetti con le malattie. Perché lui desidera solo
stare tranquillo, godere dei piaceri e giocare. Nelle mie terapie, spesso, gli
parlo direttamente e lo apostrofo. Mentre al paziente do del “lei”,

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rivolgendomi a lui do del “tu”. Quando il paziente ride significa che ci
siamo intesi e mi sta rispondendo.

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Le malattie da suggestione

Ho avuto parecchie pazienti che pensavano, sin da bambine, che


avrebbero avuto un tumore e il tumore è venuto loro davvero. Ho sentito di
altri colpiti da malattia grave anche se stavano trascorrendo un periodo di
relativo benessere. Quando sono venuti a sapere di una diagnosi istologica
o di laboratorio negativa, la loro situazione è precipitata. Lo stesso è
avvenuto quando hanno appreso dal medico che “non c’era niente da fare”.
Mi ricordo di una paziente che camminava bene. Un giorno, un’amica le
disse: «Mi sembra che cammini storta» e lei, da allora, incominciò a
camminare storta. Io queste le chiamo “Malattie da suggestione”.
Assomigliano molto alle allergie agli alimenti e ai farmaci di cui ho
parlato.
Mi ricordo di un’altra paziente che lamentava dei sintomi dopo che le
diedi una terapia con fiori di Bach. La seconda volta che venne le diedi un
placebo. Mi telefonò, stizzita, perché lamentava ancora dei sintomi secondo
lei scatenati dalla seconda terapia-placebo.
Le dissi: «E' molto strano che lei si sia sentitamale perché l’ultima volta
che è venuta le ho dato un placebo cioè, proprio niente». Si infuriò e non la
sentii più.
Come testimonianza di malattia da suggestione vi racconterò un altro
caso.
Venne da me un ragazzo di diciotto anni con un’allergia ai cani. Questa
allergia non si era presentata sino all’età di dieci anni. I sintomi erano:
cefalea con senso di pesantezza alle tempie e occhi gonfi quando era in
presenza di un cane. Quando aveva dieci anni, era stato sottoposto ad una
visita allergologica. Da questa visita era risultato che era allergico al pelo
di cane. Da allora, quando era in presenza di un cane si manifestava la
cefalea. Io lo sottoposi ad una leggera ipnosi. Sotto ipnosi lo feci ragionare:
l’allergia ai cani gli passò subito.

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Indicazioni alla terapia verbale

La terapia verbale è indicata per tutti. Perché se ha avuto successo con


alcuni, può aver successo con tutti. Non vi sono controindicazioni. Se, dopo
la terapia verbale, i sintomi sono diminuiti in parte possono andare via del
tutto. L’afflizione che ha portato alla malattia resta sempre, a quella deve
provvedere il paziente. Con la terapia verbale vengono eliminati i sintomi
fisici non le emozioni e i dispiaceri. Non penso che ci possano essere delle
persone che non siano in grado di attuarla. Bisogna trovare solo la chiave
giusta per ciascuno. A questo fine è indirizzata la mia ricerca futura:
risolvere i casi più ostili. Certe persone, però, non desiderano guarire.
Cambiano continuamente medico ma non vogliono risolvere la loro
patologia. La malattia, per loro, è diventata una comodità ed un modo di
rapportarsi. Per questi non posso fare niente: nessun medico può fare niente
se il paziente non desidera guarire perché il paziente guarisce sempre da
solo, anche se non lo sa. Ai pazienti che continuano a lamentarsi di una
malattia che, in realtà, vogliono mi limito a dire: «Signore, io per lei non
posso fare niente perché lei non desidera curarsi», a costo di inimicarmelo.

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Le malattie genetiche

Per me, le malattie sono la materializzazione di un’immaginazione. E per


le malattie genetiche? E per le malattie da avvelenamento? E per le
patologie da traumi? Semplicemente, non lo so. Le malattie genetiche
potrebbero essere anch’esse la materializzazione di un’immaginazione che è
avvenuta tanti secoli fa ed è diventata a trasmissione genetica.
Non mi sono mai occupata di esse perché, forse, solo per un pregiudizio
le considero alla stessa stregua di lesioni irrevversibili come per esempio
una cicatrice, un’anchilosi o una fibrosi di varia natura. Non mi sogno di
curarle perché sono irreversibili, quindi non si possono curare con nessuna
medicina. La mia ricerca va avanti sinché posso avere un colloquio col
paziente e sinché me lo consente la reversibilità della malattia. Pertanto,
non riesco ad attuarla con pazienti che hanno un deficit psicosomatico o
malattie genetiche. Come, in genere, non posso attuarla con dementi o con
pazienti portatori di lesioni irrevversibili. Come ho già detto, la mia è
un’indagine ed èrivolta ad una cura “di terreno”, e non si possono piantare
fiori nel deserto. Le lesioni da traumi ed avvelenamento, pur rientrando
anch’esse nel concetto di “terreno”, sono sicuramente date da una causa
esterna tuttavia si può aiutare a guarire il “terreno”, con la medicina
omeopatica.

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Le emergenze

In casi di emergenze con pericolo di morte userei senz’altro i farmaci


ufficiali che, tuttavia, qualche volta non funzionano e manderei il paziente in
un ospedale dove, qualche volta, muore; ma morire in ospedale è
“fisiologico”. Inoltre, le emergenze non mi danno il tempo né la
disponibilità del paziente per stabilire un colloquio.

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Il simbolismo situazionale

Ho battezzato come “simbolismo situazionale” certe situazioni che


sembrano scatenare e altre volte, invece, sembrano guarire le malattie.
Il sole, il mare, la terra, la luna, il vento, la nebbia che per certe
persone sono “allergenici”. Io penso che per questi pazienti vi siano delle
situazioni simboliche legate ad essi. Avete già letto il caso dell’eczema che
peggiorava con la terra e della cefalea provocata dal vento.
Vi sono altre situazioni patologiche che io traggo dallo studio della
medicina ufficiale e dall’omeopatia e che presentano questo fatto. Il Lupus
eritematosus sistemico presenta delle eruzioni cutanee che peggiorano col
sole, i vermi nelle feci dei bambini peggiorano con la luna piena; il
Natrium muriaticum, un personaggio omeopatico, si ammala al mare. Ma
interrogando i pazienti col mio criterio ho scoperto che vi sono altre
costanti in cui le persone presentano sintomi. Le situazioni che più spesso si
presentano derivano dal gioco del pallone e, in genere, da tutti i giochi con
la palla: tennis, biliardo, biliardino, pallacanestro ecc. L’automobile: certe
patologie si scatenano e sono comuni nei pazienti solo con la guida o
lavando l’automobile. Io penso che dietro il pallone e l’automobile vi sia
un simbolismo inconscio collettivo su cui sto indagando. Mi ricordo di un
signore col Parkinson che manifestò i primi sintomi dopo aver visto il
“Nuraghe Arrubiu” (traduzione: nuraghe rosso). Mi ricordo di una signora
con un fischio nell’orecchio che le passava solo andando in aereo. Conosco
poi delle manovre terapeutiche che gli otorini usano per la terapia delle
vertigini: le chiamano “manovre di riposizionamento otolitico”, che vuol
dire che ci sono delle pietroline nell’orecchio che, se sono a posto, le
vertigini non ci sono se sono fuori posto vengono. Queste manovre, che
consistono nel far fare dei movimenti bruschi al paziente e farlo sbattere a
destra e a sinistra, sono terapeutiche perché si spera che, sbattendo, le
pietroline si rimettano a posto. Come quando l’orologio non funziona e lo si
sbatte per farlo funzionare. Conosco il paziente vertiginoso, per averlo
studiato grafologicamente e l’ho curato parecchie volte con la metafora: il
vertiginoso è una persona che si controlla e che controlla tutto; a causa di
questo continuo controllo l’inconscio gli dà una lezione e gli fa girare tutto
attorno, così non controlla più niente. Spesso, mi basta dare questa metafora
che il paziente migliora immediatamente. A causa di questo atteggiamento di
controllo, difficilmente andrebbe a sbattere. Secondo me, le manovre
suddette prima che un “riposizionamento otolitico”, determinano una brusca

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presa di coscienza, di un atteggiamento comportamentale e, quindi, emotivo,
che il vertiginoso altrimenti non adotterebbe mai. Infatti, per l’idea fissa che
ha di controllare e di controllarsi, l’ultima cosa che farebbe il vertiginoso
sarebbe quella di sbattere o di fare un movimento brusco; inoltre, il fatto di
cui ha più paura è un avvenimento inaspettato, un cambiamento improvviso
che, appunto, quelle manovre simboleggiano.

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Vantaggi della terapia verbale

Non intossica.
La si può attuare dappertutto.
Nel caso non sortisse effetto non fa neanche male.
La possono attuare tutti verso tutti.
Ha effetti spesso immediati.
L’ammalato attuando la terapia verbale, impara a capire che il male gli
viene da se stesso.
Se questo concetto viene capito e il sintomo se n’è andato, si risparmiano
le analisi che come si sa, sono spesso lunghe, dispendiose, e traumatiche.
Non dà nessun potere a chi la attua perché come ho già detto, è alla portata
di tutti quelli che hanno fantasia e buon senso e inoltre è messo in atto solo
da un autoguarigione.
Non vi è effetto placebo (pertanto si possono risparmiare l’uccisione
delle cavie in laboratorio). E' spesso divertente.
Esprime un principio: tutte le malattie sono di origine psichica. La sua
attuazione quindi, potrebbe essere estesa a tutte le patologie.
Può essere usato come valido strumento di ricerca per omeopati,
psichiatri, psicologi, grafologi etc. Dimostra, per come viene attuata e per i
suoieffetti spesso immediati, che la guarigione può essere sempre ottenuta
con un autoguarigione. Ma il fatto più importante è che si arriva in maniera
semplice alla consapevolezza del significato del sintomo quindi:
libera dalla paura perché esprime il principio che la malattia viene da
noi stessi.

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Svantaggi della terapia verbale

Non trovando svantaggi in questa terapia, aspetto i detrattori di essa


perché mi illuminino per poter riempire questo paragrafo in una futura
ristampa di questo libro.

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Requisiti richiesti nel terapeuta della terapia verbale

Umiltà, intelligenza analogica, umorismo, intuito, prontezza, fantasia,


sfrontatezza, capacità empatiche.

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Requisiti richiesti al paziente di terapia verbale

Umiltà, umorismo apertura mentale, sentimento, capacità di


immedesimarsi in sentimenti che in quel momento pensa di non provare (gli
attori sono i miei migliori pazienti). E come per tutte le altre terapie:
fiducia nel terapeuta.

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La mia ricerca

La mia ricerca è solo all’inizio. Nel mandarla avanti ho recuperato i


valori dei ricercatori di un tempo, quelli che si autofìnanziano, che sono
derisi e snobbati. La ricerca medica oggi è finanziata; è diventata un
mestiere per molti, il che significa che vi è un interesse a trovare
determinati risultati. Ma se uno sa quel che deve andare a trovare, che
ricerca è? Io so da dove sono partita, ma non so dove arriverò. Proseguirò,
come ho sempre fatto: in solitudine e tutelata dai miei soli consiglieri e
amici. Dalla mia passione, dal caso e dalla libertà di pensiero. Sono diretta
non a scoprire fatti nuovi, ma verso verità che ho sempre davanti ma che,
ancora, non riesco ad afferrare.

60
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Milton H. Erickson - Ernest L. Rossi, Ipnoterapia, Astrolabio.
Piero Pavesi - Giampiero Mosconi, Tecniche e applicazioni della ipnosi
medica, Piccin.
Mambretti, La medicina sottosopra, E se Hamer avesse ragione?,
Armenia.
Dietmar Kramer, Ifiori di Bach, Edizioni Mediterranee.
M. Scheffer, Terapia con i fiori di Bach, Ipsa.
Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli.
Dizionario dei sinonimi e dei contrari, Garzanti.

62
Finito di stampare nel mese di Ottobre 2000 presso le Arti Grafiche
Pisano di Cagliari

Gabriella Mereu è nata a Quartu Sant’Elena (Cagliari) il 3 maggio del


1954. Si è laureata in Medicina e chirurgia a Sassari nel 1983.

È diplomata in Medicina olistica ad Urbino, nella scuola diretta da


Corrado Bornoroni.
Sempre ad Urbino, nel 1992, si è diplomata in Grafologia. Ha seguito il
corso di Medicina omeopatica tenuto a Roma da Antonio Negro. È
odontoiatra. Esercita a Cagliari.

Può essere contattata al numero 339.3411514 www.terapiaverbale.it E-


mail: info@terapiaverbale.it

L'idea grafica della copertina è dell’ing. Antonio Agnesa.

63
Indice:

Prefazione
Introduzione
La nascita della terapia
Il linguaggio collettivo
Il pazientese
L'origine della malattia:
l'immaginazione
La mappa anatomica della malattia
Il placebo
Il terreno
L’aiuto della grafologia
I soggetti più a rischio di malattia
Perché acuto, perché cronico
La mimica del paziente
La rigidità
La risata
Una risposta a chi è andato dallo psicanalista
L’andamento della terapia
Le allergie: una suggestione collettiva
Casi clinici
L'allergia ai farmaci
La cura dei bambini: curare i genitori
I parenti
Le malattie da suggestione

64
Indicazioni alla terapia verbale
Le malattie genetiche
Le emergenze
Il simbolismo situazionale
Vantaggi della terapia verbale
Svantaggi della terapia verbale
Requisiti richiesti nel terapeuta della terapia verbale
Requisiti richiesti al paziente di terapia verbale
La mia ricerca
Bibliografia

65
Table of Contents
Prefazione
Introduzione
La nascita della terapia
Il linguaggio collettivo
Il pazientese
L'origine della malattia:
l'immaginazione
La mappa anatomica della malattia
Il placebo
Il terreno
L’aiuto della grafologia
I soggetti più a rischio di malattia
Perché acuto, perché cronico
La mimica del paziente
La rigidità
La risata
Una risposta a chi è andato dallo psicanalista
L’andamento della terapia
Le allergie: una suggestione collettiva
Casi clinici
L'allergia ai farmaci
La cura dei bambini: curare i genitori
I parenti
Le malattie da suggestione
Indicazioni alla terapia verbale
Le malattie genetiche
Le emergenze
Il simbolismo situazionale
Vantaggi della terapia verbale
Svantaggi della terapia verbale
Requisiti richiesti nel terapeuta della terapia verbale
Requisiti richiesti al paziente di terapia verbale
La mia ricerca
Bibliografia

66
Indice
Prefazione 6
Introduzione 8
La nascita della terapia 9
Il linguaggio collettivo 11
Il pazientese 12
L'origine della malattia: 16
l'immaginazione 16
La mappa anatomica della malattia 17
Il placebo 18
Il terreno 20
L’aiuto della grafologia 22
I soggetti più a rischio di malattia 23
Perché acuto, perché cronico 24
La mimica del paziente 25
La rigidità 27
La risata 28
Una risposta a chi è andato dallo psicanalista 29
L’andamento della terapia 30
Le allergie: una suggestione collettiva 31
Casi clinici 33
L'allergia ai farmaci 44
La cura dei bambini: curare i genitori 46
I parenti 48
Le malattie da suggestione 50
Indicazioni alla terapia verbale 51
Le malattie genetiche 52
Le emergenze 53

67
Il simbolismo situazionale 54
Vantaggi della terapia verbale 56
Svantaggi della terapia verbale 57
Requisiti richiesti nel terapeuta della terapia verbale 58
Requisiti richiesti al paziente di terapia verbale 59
La mia ricerca 60
Bibliografia 61

68

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