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Allegra Calligaris

ORFEO ED EURIDICE
VIRGILIO OVIDIO
42 versi – inizia in medias res 77 versi – inizia da principio (matrimonio)
 Orfeo ed Euridice stanno per uscire  Matrimonio e la sua conclusione tragica
dall’Averno  Viaggio e arrivo di Orfeo negli inferi
 Un’improvvisa follia coglie Orfeo: si volta a  Preghiera agli dèi
guardare Euridice  Commozione generale degl’inferi
 Lamento di Euridice  Restituzione di Euridice e stipula del patto
 Orfeo tenta in tutti i modi di recuperarla  Inizio viaggio di ritorno
 Pianti e lamenti di Orfeo per sette mesi  Assalito dall’ansia di aver perso la moglie
 Il cuore di Orfeo ormai appartiene solo a  Fatale sguardo amoroso
Euridice  Seconda morte di Euridice
 Donne dei Ciconi e morte straziante di  Orfeo si dà la colpa
Orfeo  Sette giorni a cercare di pregare gli dèi e
Caronte
 Ritorno sul monte Rodope a lamentare
quanto fossero crudeli gli dèi
Ovidio inserisce il discorso con cui Orfeo convince i
reggenti dell’averno a cedergli Euridice, Virgilio al
contrario sceglie di far partire la narrazione una
volta ottenuta la donna. Il discorso di Ovidio è
patetico: fa leva sul cercare di coinvolgere nel suo
dolore tutte le anime lì presenti, tanto che cita
proprio l’amore di Proserpina e di Ade per rendere
il suo amore ancora più concreto ai loro occhi.

Virgilio presenta l’esito della vicenda come un Ovidio presenta l’esito come una risposta all’ansia e
errore folle di Orfeo tanto che usa la parola all’entusiasmo di Orfeo: lui marito amorevole teme
“dementia”. Orfeo perde per un secondo la mente, un possibile inganno divino o la possibile perdita
la ragione e si volta a guardare la sua amata. Nulla della moglie nelle grandi paludi dell’Averno. Per
giustifica il suo comportamento: la stessa Euridice, questa ansia si volta, e lo fa in modo patetico: con
che Virgilio, al contrario di Ovidio, fa parlare; ha un uno sguardo pieno di amore (amans oculos),
tono disperato e quasi di rimprovero verso Orfeo l’ultimo suo sguardo è uno sguardo innamorato.
tanto che gli chiede “quis tantus furor?”. Per questo Ovidio ci dice che Euridice non gliene fa
una colpa, l’unica colpa che potrebbe riconoscergli
è quella di amarla troppo. Nonostante questo
Orfeo si incolpa per quello che è successo. Ma
Ovidio non glielo concede; dice infatti che Orfeo si
prendeva colpe di altri. Nella conclusione infatti
Orfeo smette di piangere e di lamentarsi della
seconda morte di Euridice e si lamenta della
crudeltà degli dei.

L’ordine delle argomentazione e le modalità di racconto dei due autori sono abbastanza simili, entrambi
seguono la storia in ordine cronologico, la vera differenza sta negli inizi e nei finali dei due. Virgilio inizia
in medias res quando ormai Orfeo e Euridice si stanno avvicinando all’uscita, Ovidio, invece, inizia molto
prima: dal loro matrimonio, raccontando tutta l’impresa dell’eroe e non solo il suo fallimento. Inoltre c’è
una differenza anche nei finali: Virgilio conclude il racconto con un’immagine quasi truce dell’eroe
dilaniato dalle donne perché innamorato solo di Euridice, e della sua testa che lanciata nel fiume ancora
canta la triste morte dell’amata. Ovidio invece nel finale i descrive un uomo chiuso nella sua solitudine
che piange non più la seconda morte di Euridice bensì la crudeltà degli dei.
Allegra Calligaris

Il tono della narrazione è diverso per i due autori: Virgilio non si perde nel descrivere i dettagli della
storia, si limita a descrivere il dramma della perdita dell’amore e poi la morte altrettanto drammatica
morte di Orfeo. Si concentra sul mostrare ai lettori gli errori commessi dall’uomo: l’essersi lasciato
conquistare dal Furor e poi, una volta morta una seconda volta, non essere riuscito ad andare avanti con
la propria vita. La narrazione è per questo breve concisa e drammatica è anche parecchio interessante
come il protagonista, l’eroe perdente, non parli mai in tutto l’episodio: è anch’esso una pedina che
subisce il dolore dovuto al annebbiamento da parte del furor. Parla invece Euridice, il premio perso
dell’eroe, che è distrutta dalla sua seconda morte, anche lei ha perso, anche a lei ora non resta niente.
Possiamo quindi dire che il linguaggio di Virgilio sia parecchio drammatico. Possiamo quindi inserire la
sua narrazione all’interno del filone tragico, in cui la scelta del protagonista porta solo al dolore che non
può essere guarito da nulla, nemmeno la morte stessa riesce ad interrompere il canto di dolore di Orfeo.
Ovidio invece racconta la vicenda per intero, ci fa sentire lo strazio e la sofferenza di Orfeo rimasto senza
sposa, fin da subito proviamo pietà per quell’uomo, e durante il suo discorso anche noi, come gli abitanti
degli inferi siamo costretti a commuoverci o per lo meno a fermarci in silenzio ad ascoltare il lamento di
un innamorato. Quando poi Orfeo si gira perché ha paura di aver perso Euridice e il suo sguardo, come ci
dice Ovidio è pieno di amore non possiamo fare nient’altro che sentirci distrutti come lui. Non lo
incolpiamo, incolpiamo al massimo Amore. Lui è solo un innamorato per paura di perdere la sua amata
una seconda volta l’ha persa per davvero. Per l’Orfeo di Ovidio non si può che provare pietà, per questo
ritengo che la sua narrazione sia per lo più patetica. Anche questa rientra nel filone tragico, ma i due
racconti sono due tipi di tragedie completamente diversi, perché l’eroe centrale è diverso e il focus
dell’autore cambia. L’Orfeo di Virgilio è un uomo che una volta riacquistata la sposa perde la mente
(dementia) e questo non gli permette di portare a termine la missione, Virgilio vuole quindi quasi
rappresentare la precarietà dell’animo umano, che può avere tutto ma allo stesso tempo non può avere
nulla, come Icaro che quasi tocca il cielo prima di cadere, anche Orfeo ha quasi raggiunto la piena felicità,
sta per cominciare la vita che ha sempre sognato con la sua amata, e per tutto per un’improvvisa e
inspiegabile follia. Dall’altra parte invece abbiamo un eroe caratterizzato dall’incontinenza: Orfeo
potrebbe essere senza dubbio un abitante del quinto cerchio di Dante; è un semplice innamorato che
davanti all’amore non può altro che piegarsi, davanti alla paura della perdita non po' far altro che voltarsi,
non può controllare ciò che amore comanda, è Amore quindi il vero colpevole della storia, con Euridice
affianco l’eroe grandioso che era stato in grado di far fermare gli inferi interi dalla commozione, si riduce
ad un ragazzetto ingenuo perché innamorato che è vinto dalla paura e si dimentica che calmando questa
paura la paura stessa si avvererà. Qui sta la differenza di tragedia: nella prima vediamo un uomo preso dal
furor, noi lettori incolpiamo lui e l’uomo stesso in quanto fragile e con una mente precaria che può essere
annebbiata da qualsiasi cosa e far perdere il senno all’uomo. Nella seconda invece siamo portati a
incolpare Amore, Orfeo è lui stesso una vittima che si ritrova schiacciato da Amore.

LUCA CANALI GIAN BIAGIO CONTE CARLO CARENA


E già ritraendo i passi era Ormai tornando sui suoi passi Ormai tornando sulle sue orme
sfuggito a tutti i pericoli, e la resa aveva superato tutti i rischi, e era uscito da ogni pericolo;
Euridice giungeva alle aure ridata a lui Euridice andava verso restituita a lui, Euridice saliva
superne, seguendolo alle spalle l’aria che spira in alto, verso gli alti soffi dell’aria,
(Proserpina aveva posto una tale seguendolo alle spalle (questa la seguendolo alle spalle (era la
condizione), quando condizione voluta da Proserpina) norma imposta da Proserpina),
un’improvvisa follia colse —quando un’improvvisa follia quando una subitanea pazzia
l’incauto amante, perdonabile colse l’innamorato imprudente colse l’incauto amante, follia ben
invero, se i Mani sapessero (cosa da perdonarsi, se i Mani perdonabile, se sapessero
perdonare: si fermò, e proprio sapessero perdonare): si perdonare i mani. Si fermò e
sulla soglia della luce, ahi arrestò e ormai presso la luce, alla sua Euridice, ormai sulla
immemore, vinto nell’animo, si dimentico —ahimé —e vinto soglia della luce,
volse a guardare la sua diletta nell’animo dalla passione, gettò sventatamente, ahimè, e
Allegra Calligaris

Euridice. Tutta la fatica dispersa, uno sguardo indietro alla sua sopraffatto dai sensi volse
e infranti i patti del crudele Euridice. Lì tutta la sua fatica indietro lo sguardo. Là ogni suo
tiranno tre volte si udì un fragore andò distrutta e furono infranti travaglio si disperse, fu rotta
dagli stagni dell’Averno. Ed ella: i patti fissati dal signore spietato, l’intesa del crudele tiranno, e per
“Chi ha perduto me, sventurata, e per tre volte si udì un tre volte si udì il fragore dello
e te, Orfeo? Quale grande follia? fragore sopra gli stagni stagno d’Averno. Essa: “Chi ha
Ecco i crudeli fati mi richiamano d’Averno. E lei: “Cosa ha perduto perduto me stessa -disse-
indietro e il sonno mi chiude gli me stessa, infelice, e te, Orfeo, infelice, e te, Orfeo? Che follia
occhi vacillanti. Ora addio. Vado quale pazzia così grande? ecco, così grande? Ecco, di nuovo lo
circondata da un’immensa notte, una seconda volta il destino spietato destino indietro mi
tendendo a te, ahi non più tua, le crudele mi richiama indietro e il chiama e copre i tremolanti occhi
deboli mani”. Disse e subito sonno chiude i miei occhi il sonno. E ora addio; mi trascina
sparve, via dagli occhi, come smarriti. E ora addio: sono l’immensità della notte
tenue fumo misto ai venti, né più trascinata avvolta da una notte circostante, mentre le svigorite
lo vide che invano cercava di immensa e tendo verso di te - mani a te, ahi non più tua, io
afferrare l’ombra e molto voleva ahi, non più tua -le mani senza tendo”. Parlava e dai suoi occhi
dire, né il nocchiero dell’Orco forza”. Disse e in un attimo, come improvvisa, come fumo disperso
permise che egli attraversasse di fumo si dissolve in soffi lievi di nei soffi dell’aria, tenue, fuggì
nuovo l’ostacolo della palude. vento, fuggì dall’altra parte e non all’indietro. Non lo vide che
Che fare? e dove andare, perduta lo vide più mentre lui tentava d’afferrarne invano
due volte la sposa? Con quale inutilmente cercava di afferrare l’ombra e molte cose ancora
pianto commuovere i Mani, quali l’ombra e molte cose ancora voleva dire; né il traghettatore
numi invocare? Ella certo voleva dirle; ma il trasportatore dell’Orco gli permise di superare
navigava ormai fredda sulla barca dell’Orco non lasciò più che nuovamente l’ostacolo della
stigia. Raccontano che per sette superasse l’ostacolo della palude. palude. Che fare? dove andare,
mesi continui egli pianse, solo Che cosa fare? dove andare, dopo rapita due volte la sposa?
con se stesso, sotto un’aerea privato due volte della sposa? con quale pianto i mani, quali
rupe presso l’onda dello Con quale pianto commuovere i numi con la sua voce
Strimone deserto, e narrava la Mani, quali numi toccare con la commuovere? Essa davvero lo
sua storia nei gelidi antri, sua voce? Lei, certo, navigava Stige navigava ormai fredda sulla
addolcendo le tigri e facendo ormai fredda sulla barca di Stige. barca. Sette mesi interi uno
muovere le querce con il canto: E lui per sette mesi interi uno dopo l’altro, dicono, sotto una
come all’ombra di un pioppo un dopo l’altro, raccontano, sotto rupe al vento innanzi all’onda
afflitto usignolo lamenta i piccoli una rupe altissima davanti dello Strimone deserto pianse
perduti, che un crudele aratore all’onda dello Strimone deserto solingo e sotto le fredde stelle
spiandoli sottrasse implumi dal pianse solo con sé stesso, e sotto rievocò questi fatti
nido: piange nella notte e gelidi antri ripeté questa storia, commovendo le tigri e traendo
immobile su un ramo rinnova il incantando le tigri e facendo col suo canto le querce, come
canto, e per ampio spazio muovere col suo canto le querce: su un pioppo il gemito
riempie i luoghi di mesti lamenti. come all’ombra di un pioppo dell’usignolo fra l’ombra lamenta
Nessun amore o nessun l’usignolo sofferente lamenta i la perdita dei piccoli, che
connubio piegò l’animo di Orfeo. suoi piccoli perduti, che il l’insensibile aratore spiò e dal
Percorreva solitario i ghiacci crudele aratore ha spiato e nido implumi li colse; ma lui
iperborei e il nevoso Tanai, e le tolto ancora implumi dai nido: piange nella notte e fermo sul
lande non mai prive delle brine ma lui piange nella notte e ramo lo straziante canto rinnova
rifee, gemendo la rapita Euridice posato sul ramo ripete il suo e di mesti lamenti per largo tratto
e l’inutile dono di Dite. Spregiate canto miserevole e per ampio la regione pervade. Mai più
dalla sua fedeltà le donne dei tratto riempie quei luoghi di Venere, mai più nozze piegarono
Ciconi, fra riti divini e notturne lamenti afflitti. Nessun nuovo il suo animo. Solitario i ghiacci
orge di Bacco, fatto a brani il amore, nessuna unione piegò più iperborei e il Tanai innevato e le
giovane lo sparsero per i vasti il suo animo. Solo percorreva i pianure rifee mai spoglie di
campi. E ancora mentre l’eagrio ghiacci iperbórei, il Tanai freddo brina percorreva, lamentando il
Ebro volgeva tra i gorghi il capo come neve, le lande rifee dove ratto di Euridice e i vanificati
Allegra Calligaris

staccato dal collo marmoreo, la non cessa mai la brina, doni di Dite. Offese da tanta
voce da sola con la gelida lingua, lamentando Euridice rapita e i fedeltà, le donne dei Ciconi
“Euridice, ahi sventurata vani doni di Dite; per questa durante una sacra cerimonia
Euridice”, invocava mentre la vita fedeltà le donne dei Ciconi, da agli dèi-un ’orgia notturna di
fuggiva: Euridice echeggiavano le lui respinte, durante i riti divini Bacco-lacerarono il giovane e i
rive da tutta la corrente del e le feste notturne di Bacco brani ne dispersero per la vasta
fiume» sbranarono il giovane e ne campagna. Ma anche allora la
sparsero i resti per l’ampia testa strappata dal collo di
campagna. Anche allora, mentre marmo, mentre in mezzo ai suoi
l’Ebroe agrio rotolava fra suoi gorghi sulle acque l’Ebro eagriola
gorghi la testa strappata dal rotolava, Euridice con la sua voce
collo marmoreo, la sua voce da ancora e con la fredda lingua, ah
sola con la lingua gelida la misera Euridice col respiro
Euridice, ah! misera Euridice fuggente invocava, Euridice
invocava, mentre la vita ripetevano per tutta la corrente
sfuggiva, Euridice ripetevano le del fiume le rive.
rive lungo tutta la corrente.»
Due dei traduttori proposti rendono il testo di Virgilio una prosa, distaccandosi quindi completamente dal
suo esametro mentre Luca Canali mantiene per tutto il passo la struttura in versi. Il contenuto però non
cambia i fatti non diminuiscono né si accrescono. Sono interessanti le differenze di scelte lessicali, per
esempio Gian Biagio Conte utilizza termini relativamente facili e a volte aggiunge piccole specifiche che
rendono più chiaro il testo di Virgilio, non solo ma, scrivendo per Oscar Mondadori, di cui fanno parte
testi più per ragazzi, va a censurare per esempio la parola orge che diventa “feste notturne di Bacco), ha
quindi uno stile scolastico e puntuale. Carlo Carena invece, nonostante la cambi in prosa mantiene uno
stile alto e coerente col testo, mantenendo certi classicismi e lasciando ciò che è implicito, implicito a
volte rendendolo ancora più enigmatico come quando scrive “mai più Venere”. Infine Luca Canali
che ,mantiene il più possibile lo stile di Virgilio mantiene un carattere aulico, poetico.

NINO SCIVOLETTO FERRUCCIO BERNINI


Di lì, avvolto nel velo color di croco, Imeneo si Imene cinto del croceo mantello pel ciel infinito
allontana attraverso l’immenso cielo e si dirige scorre da Creta volando alle spiagge dei Ciconi,
verso le terre dei Ciconi dove è invocato dove inutilmente la voce soave chiamavalo d’Òrfeo,
inutilmente dalla voce di Orfeo. Quello venne Fu, sì, presente quel nume, ma non vi recò né i
sì, ma non portò canti rituali né volti lieti né solenni canti di nozze né il volto sereno né i lieti
felice auspicio. Anche la fiaccola, che teneva in presagi. Anche la face che in mano teneva mandò
mano, emetteva, continuamente cigolando, fumo lagrimoso fumo sfriggendo né diede scintille per
che faceva piangere e, benché scossa, non quanto agitata. Fu dell’auspicio peggiore l’evento,
sprigionava la fiamma. Il seguito fu più triste del perché la novella sposa peri morsicata al tallone dal
presagio; infatti mentre la novella sposa vaga in dente d’un serpe, mentre vagava per l’erba con
mezzo alle erbe accompagnata da una turba di tutte le Naiadi dietro. Come il poeta di Rodope
Naiadi, morì avendo ricevuto nel tallone il morso di assai l’ebbe pianta nel mondo, per non lasciare
un serpente. Dopo che il vate di Rodope l’ebbe intentata perfino la sede dei morti, giù per la porta
assai pianta nel mondo di sopra, per provare tenaria discender osò nello Stige; e tra gli spirti
anche con le ombre, osò scendere fino allo leggeri passando e i fantasmi dei morti, giunto a
Stige attraverso la porta tenaria; e attraverso la Persefone e a Pluto, che regge quel regno inameno,
turba evanescente e le ombre di quelli che avevano disse cosj, della cetra toccando le corde col canto: «
ricevuto l’onore della sepoltura si presenta a Numi del mondo sotterra, nel qual ricadiamo noi
Persefone e al signore delle ombre che regge i tutti, noi che nascemmo mortali, s’è lecito e voi
lugubri regni; e, accordate le corde al canto, così consentite che senza giri di false parole vi parli
si esprime: «O divinità del mondo posto sotto verace, non son venuto a vedere l’Averno né sceso
terra, nel quale cadiamo tutti quanti siamo creati a legare le mostruose tre gole di Cerbero irsute di
Allegra Calligaris

mortali; se è lecito e se, messe da parte le serpi; ma per Euridice vengo, che avendo pestato
circonlocuzioni di un falso linguaggio, permettete di un serpente avvelenato perdette la vita nel fiore
dire il vero, qui io non sono sceso per vedere degli anni. Avrei voluto saper tollerare il dolore e
l’oscuro Tartaro, né per incatenare le tre gole non nego che l’ho tentato, ma vinse l’amore, nel
aggrovigliate di serpenti del mostro della stirpe di mondo dei vivi nume ben noto; non so se qui pure,
Medusa; causa del viaggio è la moglie, alla quale ma almeno lo spero: che se non mente la fama
una vipera calpestata iniettò il veleno e le portò d’un ratto commesso da tempo, anche voi vinse
via i giovani anni. Io ho voluto poter sopportare e l’amore. Per queste tremende regioni, per questo
non negherò di aver tentato; ma Amore ha vinto. abisso, pei vasti silenzi d’Averno, vi prego che della
Questo è un Dio ben conosciuto nelle regioni vita di lei ritessiate lo stame troncato. Tutto a voi,
superiori; se lo sia anche qui non so; ma penso che numi, si deve: noi dopo una breve dimora, su nella
lo sia anche qui; infatti, se la fama dell’antico terra, noi tutti quaggiù presto o tardi torniamo,
rapimento non è falsa, anche voi congiunse Amore. tutti veniamo in quest’ultima casa: voi, numi,
Io per questi luoghi pieni di paura, per questo tenete i sempiterni domini, nell’Ade, del genere
immenso abisso e per i silenzi di questo vasto umano. Come compiuto abbia il giusto decorso
regno, vi prego ritessete i destini di Euridice degli anni, pur ella vostra sarà, ma in regalo vi
spezzati prematuramente. Tutto è a voi destinato e chiedo ch’io possa goderla. Che se mi negano i fati
dopo aver un poco indugiato, più tardi o più presto la grazia per, lei, ho risolto di non tornarmene e voi
ci affrettiamo ad una sola sede. Tutti qui ci della morte godete d’entrambi ».Mentre parlava
indirizziamo, questa è la nostra ultima casa e voi accordando la voce coi nervi, l’esangui ombre
tenete i regni più duraturi del genere umano. piangevan: non cerca più Tantalo l’acqua che fugge
Anche Euridice, quando, matura, avrà vissuto un e da stupore sorpresa si ferma la ruota d’Issione,
numero giusto di anni, sarà in vostro potere; vi né l’avvoltoio dilania di Tizio il fegato: l’urna.
chiedo, in luogo della proprietà completa, lasciano vuota le Belidi e Sisifo siede sul sasso.
l’usufrutto. Che se i destini negano la grazia per la Vinte dal canto l’Eumenidi dicesi che per la prima
moglie, sono deciso a non ritornare: godete volta bagnassero allora le guance di lagrime calde; .
allora della morte di due persone». Mentre egli né la consorte di Dite né Dite, che regge l’abisso,
diceva tali cose facendo vibrare le corde in alla preghiera del vate negarono il dono richiesto, e
armonia con le parole, le anime senza vita gli chiamarono Euridice, ch’era tra l’ombre recenti.
piangevano; e Tantalo non cercava di afferrare Ella si mosse con passo che lento rendeva la piaga.
l’acqua fuggente, e la ruota di Issione si incantò, e La ricevette il marito, ma insieme con lei anche il
gli uccelli cessarono di lacerare il fegato e le Belidi patto di non rivolgersi indietro fin tanto che non
smisero di vuotare le urne e tu, o Sisifo, ti sedesti fosse uscito fuor della valle infernale; altrimenti la
sul tuo sasso. Allora è fama che per la prima volta si grazia era vana. Prendono quelli un sentiero
bagnarono di lacrime le guance delle Eumenidi difficile, ripido, scuro, folto di nera caligine tra
vinte dal canto; né la regale consorte né colui che silenziosa quiete. Erano ornai dalla crosta terrestre
regge il profondo inferno hanno il coraggio di dir di non molto lontani quando, temendo il marito
no a Orfeo che pregava e chiamano Euridice; essa ch’Euridice non si perdesse, desiderando vederla,
se ne stava tra le ombre giunte di recente e rivolse lo sguardo amoroso: ella giù cadde
avanzò con passo attardato per la ferita. Il improvvisa; e, per quaito e’ tendesse le braccia, e si
rodopeo Orfeo la riottiene con la condizione sforzasse di prenderla o d’essere preso da lei, oh
che non volga indietro i suoi occhi, finché non l’infelice non strinse nei pugni che l’aura fugace!
sia uscito dalle valli dell’Averno; altrimenti la Ella tornando a morìre non si lamentò del consorte
grazia si sarebbe vanificata. Si prende in profondo —e di che mai si sarebbe lagnata, se non del suo
silenzio un sentiero in pendio difficoltoso, oscuro, amore? l’ultimo vale gli disse, che a stento oramai
avvolto di nera caligine. Erano giunti non lontano s’intendeva, e giù ricadde per sempre là dove
dalla superficie della terra; qui, temendo che gli trovavasi prima. Orfeo stupì della duplice morte
sfuggisse e avido di vederla, lo sposo innamorato d’Euridice come quegli che pavido vide il tricipite
rivolse indietro gli occhi e subito quella ripiombò cane col collo incatenato di mezzo e non prima
giù; tendendo le braccia e tentando di farsi lasciò lo sgomento che la primiera natura, poiché
prendere e di afferrare, l’infelice nulla strinse se diventò di macigno. Òleno fece lo stesso:
non l’aria impalpabile. E ormai, morendo di nuovo, prendendosi d’altri la colpa volle parere colpevole;
non si lamentò del suo sposo (di che cosa infatti si e tu, sciagurata Letèa, di tua bellezza superba: voi,
Allegra Calligaris

sarebbe dovuta lamentare, se non di essere cuori una volta indivisi, or siete sassi sorretti
amata?) e gli rivolse il supremo addio che ormai dall’umido monte dell’Ida. Mentre pregava e di
a stento quello poteva cogliere con le orecchie e nuovo voleva passare lo Stige, lungi lo spinse
precipitò di nuovo nello stesso posto. Orfeo Caronte. Ma squallido per sette giorni giacquesi in
rimase attonito per la seconda morte della riva del fiume né volle toccare vivanda: s’alimentò
coniuge come quel tale che timoroso vide i tre solamente di duolo, d’affanno e di pianto. Tornò sul
colli del cane, dei quali il mediano portava Rodope e in cima dell’Emo battuto dai venti e
catene, e che non si liberò della paura, prima lamentò che crudeli gli fossero i numi d’Averno.
che non si liberasse della sua natura
precedente, dopo essere diventato di pietra; e
come quell’Oleno, che prese su di sé il crimine e
volle sembrare colpevole, e tu, o infelice Letea, che
confidasti nella tua bellezza, cuori una o volta
strettamente uniti, ora pietre che l’umido monte
Ida porta sudi sé. Mentre Orfeo pregava e voleva di
nuovo passare al di là, il nocchiero lo tenne
lontano; tuttavia, egli per sette giorni sedette sulla
riva, sporco e senza il dono di Cerere; l’angoscia, il
dolore dell’animo e le lacrime gli furono
d’alimento. Dopo essersi lamentato che gli dèi
dell’Erebo erano crudeli, si ritira sull’alta Rodope e
sull’Emo battuto dagli aquiloni.
Nino Scivoletto scrive in prosa mentre Bernini scrive in versi, il primo scrive in modo molto lineare, non si
sente tutto il patos di Bernini ma è tutto molto chiaro e istantaneo nella lettura. I versi di Bernini sono
invece molto complessi e costruiti. La loro costruzione, se pur complessa, rende però anche nella
struttura stessa la drammaticità dell’opera.

VIRGILIO VV494-506

Illa, ‘Quis et me’, inquit, ‘miseram et te perdidit, Ella: “Chi ha perduto-disse- sia me misera che te, Orfeo,
Orpheu, quale grande follia? Ecco ancora una volta i fati crudeli mi
quis tantus furor? En iterum crudelia retro
fata vocant, conditque natantia lumina somnus. chiamano indietro,
Iamque vale; feror ingenti circumdata nocte e il sonno chiude gli occhi vacillanti.
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas’.
Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras Addio ormai; vado circondata da un’immensa notte
commixtus tenuis, fugit diversa neque illum
prensantem nequiquam umbras et multa volentem
e tendendo a te le mani, ahimè, non sono più tua.
dicere praeterea vidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem. Disse e subito scomparve alla vista come
Quid faceret? Quo se rapta bis coniuge ferret?
debole fumo insieme ai venti. Fugge voltata e non lo vide più
Quo fletu Manis, quae numina voce moveret?
Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba. mentre quello cercava invano di prendere le ombre
e ancora voleva dire molto. E non il nocchiero dell’Orco
gli vieta di attraversare l’ampio passaggio della palude.
Cosa fare? Dove andare rapita la sposa due volte?
Con quale pianto commuovere i Mani, quali numi invocare?
Ella ormai navigava già fredda sulla barca Stigia.
Allegra Calligaris

OVIDIO VV40-52
Talia dicentem nervosque ad verba moventem Mentre diceva siffatte cose e smuoveva i nervi verso le parole
exsangues flebant animae: nec Tantalus undam Le anime esangui piangevano: e Tantalo non cercava più di
captavit refugam, stupuitque Ixionis orbis, afferrare l’acqua fuggevole, e restò stupita la Ruota di Issione,
nec carpsere iecur volucres, urnisque vacarunt e gli avvoltoi non squarciarono il fegato, le Belidi lasciarono
Belides, inque tuo sedisti, Sisyphe, saxo. vuote le urne, e Sisifo, sedetti sul tuo sasso.
Tunc primum lacrimis victarum carmine fama est Si dice che allora per la prima volta un pianto bagnò le guance
Eumenidum maduisse genas, nec regia coniunx delle Eumenidi vinte dal canto, e la coniuge regia e colui che
sustinet oranti nec, qui regit ima, negare regna L’Averno, non riuscirono a negare a colui ciò che
Eurydicenque vocant. Umbras erat illa recentes chiedeva e chiamarono Euridice. Questa era tra le ombre
inter et incessit passu de vulnere tardo. recenti e si mosse con passo lento a causa della piaga.
Hanc simul et legem Rhodopeius accipit Orpheus, Orfeo Rodopei accettò allo stesso tempo quella e un patto, di
ne flectat retro sua lumina, donec Avernas non rivolgere mai i suoi occhi indietro, finché non fossero
exierit valles; aut inrita dona futura. usciti dalla valle dell’Averno; altrimenti il dono sarebbe stato
invalidato.

TRADUZIONE TEATRALE

Illa, ‘Quis et me’, inquit, ‘miseram et te perdidit, Euridice guarda Orfeo con gli occhi spalancati e
Orpheu, dice in un sussurro che va crescendo
quis tantus furor? En iterum crudelia retro Chi ha perduto me, sventurata, e te mio Orfeo?
fata vocant, conditque natantia lumina somnus. Quale grande follia? Ecco i crudeli fati mi
Iamque vale; feror ingenti circumdata nocte trascinano di nuovo indietro, e gli occhi tremolanti
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas’. chiude il sonno (su questa battuta si abbassa la
Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras voce di Euridice) Addio ormai (questo quasi urlato-
commixtus tenuis, fugit diversa neque illum urlo straziante), vado rapita da un’immensa notte e
prensantem nequiquam umbras et multa volentem le mie mani tendo a te, ahimè, non sono più tua.
dicere praeterea vidit; nec portitor Orci Euridice esce dal palco – rimane solo Orfeo – tutto
amplius obiectam passus transire paludem. intorno a lui è buio – solo una luce fredda illumina
Quid faceret? Quo se rapta bis coniuge ferret? il suo volto – si tende verso Euridice, si guarda
Quo fletu Manis, quae numina voce moveret? attorno con gli occhi spalancati e la bocca semi
Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba. aperta come se volesse dire qualcosa ma nessun
suono riuscisse ad uscire – si guarda attorno, pensa
ad una soluzione – dialogo silenzioso con Caronte-
lo spettatore capisce che ormai Orfeo non può più
fare nulla.

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