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BUONARROTI, Michelangelo

di Luitpold Dussler, Enzo Noè Girardi - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 15 (1972)

Nacque il 6 marzo 1475 a Caprese (od. Caprese Michelangelo) da Ludovico di Leonardo


Buonarroti Simoni e da Francesca di Neri di Miniato del Sera.

Il padre era di modeste condizioni, ma di carattere fiero; della madre, morta precocemente
nel 1481, non si hanno altre notizie. Il principale biografo di Michelangelo, il Condivi,
faceva risalire le origini della famiglia ai conti di Canossa: discendenza fittizia, questa, che
del resto dovette suscitare scetticismo già ai tempi del B., se il Vasari ne parla con un
prudenziale "si dice", mentre le altre fonti addirittura ne tacciono.

Dopo un breve apprendistato presso Francesco di Urbino, il B. entrò, nonostante


l'opposizione del padre, nella bottega del pittore allora più in vista a Firenze, Domenico
Ghirlandaio, dove venne introdotto alla pratica della pittura murale e di quella a olio
(Vasari, a cura di P. Barocchi, I, p. 6; II, pp. 68-70). Dopo un anno, assieme all'amico e
condiscepolo F. Granacci, passò alla scuola del giardino di S. Marco, fondata da Lorenzo de'
Medici e guidata dal vecchio Bertoldo di Giovanni. Questa sorta di accademia fu assai
stimolante per il B., poiché vi erano raccolti in gran numero antichità, modelli e gessi, e
nello stesso tempo gli offrì un ambiente di giovani che condividevano le sue aspirazioni. È
perciò assai probabile che proprio nel giardino mediceo il B. abbia compiuto la sua
formazione di scultore. Grave di conseguenze fu l'incidente occorsogli nella scuola stessa,
quando, durante una lite, P. Torrigiani gli ruppe l'osso del naso procurandogli una
deformazione per la quale Michelangelo ebbe a patire tutta la sua vita (Vasari, I, p. 12; II,
pp. 114 s.).

Sempre al tempo in cui frequentava il "giardino", il B. venne attratto nella prestigiosa


cerchia di Lorenzo il Magnifico, nella quale ebbe modo di conoscere il mondo degli
umanisti fiorentini e in particolare il Poliziano, che gli rese familiari i temi figurativi
dell'antichità. I rapporti con i Medici si mantennero anche dopo la morte di Lorenzo (1492):
non solo, infatti, il figlio di questo, Piero, proteggeva il giovane B., ma questi, nel 1496,
poté anche avvalersi a Roma delle raccomandazioni di Lorenzo di Piero (lettera del B. da
Roma del 2 luglio 1496, in Carteggio, I, pp. 1 s.).

Della produzione del B. in questo periodo giovanile restano tre opere conservate nella casa
Buonarroti a Firenze: il piccolo rilievo a "stiacciato" della Madonna della scala; il rilievo
della Lotta dei centauri con i Lapiti, geniale sia per tecnica sia per movimento ed
espressione; il nobile Crocefisso in legno di S. Spirito, nel cui ospedale fu consentito al B. di
intraprendere i suoi primi studi di anatomia (Condivi, p. 30; Vasari, I, p. 13; II, pp. 118-120;
M. Lisner, Il Crocifisso di S. Spirito, in Atti..., 1966, pp. 295-316). Nello stesso periodo
(1493) suscitò profonda impressione su di lui la predicazione del Savonarola; impressione
così duratura che sarà ancora percepibile, nel pensiero e nelle forme, negli anni maturi (M.
Cali, La Madonna della Scala di Michelangelo, il Savonarola e la crisi
dell'Umanesimo, in Boll. d'arte, LII [1967], pp. 152-166).

Nell'autunno del 1494, poco prima della cacciata dei Medici, il B. fuggì da Firenze
recandosi prima a Venezia, per trascorrere infine un intero anno a Bologna, dove trovò
ospitalità in casa di G. F. Aldrovandi, uomo di grande cultura (Barocchi, in Vasari, II, pp.
135 s.). Questo soggiorno ebbe un duplice risultato: il B. creò per l'Arca di s. Domenico le
statuette, ancora mancanti, di S. Petronio e di un Angelo portacandelabro (per il S.
Procolo, vedi Barocchi, in Vasari, II, pp. 137-139); inoltre rimase così profondamente
colpito dalle grandiose figurazioni scolpite sulla facciata di S. Petronio da Iacopo della
Quercia - gotico, ma a lui idealmente affine - da richiamarsi ad esse ancora nella Sistina.
Forte di questa preparazione, nel 1495 fece ritorno a Firenze, dove eseguì, per incarico di
Pierfrancesco de' Medici, una statuetta di S. Giovannino che è da considerare perduta. Non
è, infatti, possibile identificare con l'originale né la scultura del Museo di Berlino-Dahlem,
né quella della Pierpont Morgan Library di New York (per altri tentativi di attribuzione,
vedi Barocchi, in Vasari, II, pp. 142 ss.). A Firenze peraltro trascorse solo un anno, poiché
dal giugno 1495 trasferì il campo della sua attività a Roma, dove si trattenne fino al 1500.

Seppure in quel momento la "città eterna" non era ancora il centro e il punto cruciale di
quella fase culturale che si suole definire come Rinascimento maturo, per il B. ventenne il
mutamento di ambiente ebbe importanza determinante sotto più di un profilo. Si
presentarono nuovi aspetti, nuovi rapporti si intrecciarono; davanti agli occhi aveva il
mondo dell'antichità con i suoi monumenti, nuovi autorevoli mecenati presero a proteggerlo
e gli impegni che gli si prospettavano erano per lui incitamento a rivelarsi nel campo della
scultura.

All'inizio il B. trovò ospitale accoglienza presso il cardinale Raffaello Riario, che aveva
raccolto nel suo nuovo palazzo (della Cancelleria) una collezione eccellente di statue
antiche; non sappiamo con certezza se dal Riario egli abbia avuto un particolare incarico. Al
cardinale il B. era certamente già noto per un Cupido dormiente che gli era stato venduto,
come scultura antica, da un mercante.

Questa statua era stata scolpita a Firenze, come informano sia Condivi (pp. 33 s.) sia Vasari
(I, pp. 13, 115). Non sono apparsi convincenti i tentativi di identificarla con il Cupido del
Museo di Torino (K. Lange, Der Cupido des Michelangelo in Turin, in Zeitschrift für
bildende Kunst, XVIII [1883], pp. 233 ss., 274 ss.). Su una versione venuta recentemente in
luce in una collezione privata di Bologna riferisce esaurientemente A. Parronchi, Il Cupido
dormiente di Michelangelo, Firenze 1971.

Rapporti positivi si stabilirono fra il B. e un altro romano assai illustre, Iacopo Galli, ricco e
appassionato mercante d'arte che nel giardino del suo palazzo, nei pressi della Cancelleria,
custodiva un considerevole numero di opere d'arte antica: fu proprio lui il committente
del Bacco (Firenze, Museo nazionale) eseguito dal B. nel 1497 (Condivi, pp. 34 s.; Vasari, I,
p. 16; II, pp. 161 s.). Il B., senza seguire l'antica tipologia che dava del dio una
rappresentazione gioiosa, volle piuttosto, nella posizione, renderne lo stato di ebbrezza;
quest'opera ha comunque importanza in quanto è la prima statua a tutto tondo
completamente condotta a termine, che esige quindi di esser guardata da ogni parte. Un'altra
scultura celebre, la Pietà di S. Pietro, fu commissionata al giovane artista dal cardinale
francese Jean Bilheres de Lagraulas (ora nella prima cappella della navata laterale destra,
ma in origine collocata nella chiesa di S. Petronilla adiacente all'antica basilica). In
quest'occasione il B., con lettera commendatizia del 18 nov. 1497 indirizzata dal cardinale
agli Anziani di Lucca, si recò alle cave di marmo di Carrara; vi si trattenne sino ai primi di
marzo 1498 (v. G. Poggi, in M. B., IV centenario del Giudizio Univ., Firenze 1942, p. 120);
e di nuovo, poco dopo, si trovava alle cave, come risulta da una lettera del cardinale al
marchese A. Malaspina (perduta; ma v. Barocchi, in Vasari, II, p. 171 n. 145; K.
Frey, Michelagniolo B. ..., 1907, p. 140). Concluso il contratto il 27 agosto del 1498, si pose
immediatamente al lavoro: questo fu condotto a termine nella seconda metà del 1499, poco
tempo dopo la morte del cardinale (Condivi, pp. 35 s.; Vasari, I, p. 17; II, pp. 170-190).

Nella stupenda composizione sono certamente da riconoscere suggestioni leonardesche, sia


per l'espressione pacata e gli atteggiamenti composti, sia per la bellezza della testa del
Cristo: essa suscitò immediatamente grandissima ammirazione, e il B. dovette avere piena
coscienza, in quest'occasione, della propria grandezza, dal momento che, per la prima e
ultima volta, appose all'opera la sua firma, sul nastro che attraversa il busto della Madonna:
"Michael Agelus Bonarotus Florent. Faciebat".

L'eco di questo successo raggiunse ben presto la sua città, come dimostra l'imponente serie
di commissioni che egli ricevette al suo ritorno a Firenze nella primavera del 1501; a
venticinque anni era ormai consacrato come il primo scultore del suo tempo. Non si trattava
più, ora, di committenti privati, ma di istituzioni religiose e laiche, come le corporazioni,
che facevano di tutto per averlo al loro servizio. Venne infatti, tra l'altro, incaricato di
condurre a termine l'altare Piccolomini nel duomo di Siena (ma non tutte le statuette sono
autografe: v. E. Carli, Michelangelo a Siena, Roma 1964, Mancusi-Ungaro, 1971). Il 16 ag.
1501 l'Opera del duomo lo incaricò di eseguire una colossale statua di David: lavoro questo
estremamente complesso perché il B., dovendo creare la statua da un blocco di marmo già
affrontato, e poi abbandonato, da Agostino di Duccio nel 1464, era in ogni senso vincolato a
dimensioni obbligate.

Quando l'opera venne consegnata nel 1504, restava solo il problema della collocazione del
"gigante" (alto tre metri e mezzo). Fu nominata una apposita commissione, della quale fece
parte, tra gi artisti fiorentini, anche Leonardo da Vinci (G. Gaye, Carteggio ined.
d'artisti, II, Firenze 1840, p. 355, e, in particolare, C. Neumann, Die Wahl des Platzes für
Michelangelos David in Florenz im Jahr 1504, in Repertorium für
Kunstwissenschaft, XXXVIII [1916], pp. 1-27). La commissione e il Gran consiglio
deliberarono di collocare la statua dinanzi a Palazzo Vecchio, e già in questa decisione era
evidente il significato di simbolo politico annesso al giovane eroe del Vecchio Testamento
(Vasari, I, p. 20: "sì come egli aveva difeso il suo popolo e governatolo con giustizia, così
chi governava quella città dovesse animosamente difenderla e giustamente governarla"). E
in effetti la statua, così come si presentava, si adattava perfettamente a questa
interpretazione: il suo aspetto reso imponente dall'assoluta nudità e dalle dimensioni
colossali, la vigile compostezza della posa e della testa non lasciavano dubbi sul suo
significato di personificazione della Fortitudo che doveva ricordare gli ideali di libertà della
Repubblica. Rispetto alle interpretazioni dello stesso tema, date da un Donatello o da un
Verrocchio, questa del B. rappresenta una totale novità di concezione nei confronti del
Quattrocento: con la monumentale figura, caratterizzata da un vigoroso tratto romano e
animata da un accentuato spirito dell'antico, si opponeva un definitivo rifiuto al primo
Rinascimento fiorentino. Non v'è dubbio che il ricordo dei Dioscuri di Monte Cavallo a
Roma è stato determinante per il B.; già in Vasari, del resto, lo si avverte, quando paragona
il "gigante" con varie sculture romane, tra le quali appunto "i giganti di Montecavallo" (I, p.
22).

Oltre al grande David in marmo, il B. aveva fatto anche una figura più piccola, in bronzo,
dell'eroe biblico; era stata richiesta dal maresciallo francese Pierre de Rohan alla Signoria
che lo aveva proposto come esecutore. L'opera, scomparsa, fu collocata nel castello di Bury
e, dopo il 1650, nel castello di Villeroy (Mennecy).

Dopo il David, motivi di novità in senso cinquecentesco si riconoscono anche in una


scultura di soggetto religioso, la cosiddetta Madonna di Bruges (Bruges, St.-Sauveur), che,
commissionatagli dal mercante fiammingo Alexander Mosaren immediatamente dopo il suo
ritorno, fu tuttavia terminata solo nel 1506 L'opera si differenzia dai tipi aggraziati del
Quattrocento (per es. la Madonna del duomo di Prato di Benedetto da Maiano) non solo per
la nobiltà e dignità della Vergine, ma anche per la figura del Bambino, in piedi, con lo
sguardo abbassato in una espressione di gravità. Anche in questa scultura, come
nella Pietà di S. Pietro, l'artista ha rielaborato suggerimenti di Leonardo (specie nel volto
della Madonna), ma per il resto l'ha concepita secondo il suo proprio ideale figurativo.
Un eguale mutamento si avverte nei due bei tondi con Madonna, il Bambino e s.
Giovannino, eseguiti attorno al 1503-04 rispettivamente per Bartolomeo Pitti (Firenze,
Museo naz.) e per Taddeo Taddei (Londra, Royal Academy). Ambedue sono già menzionati
nell'edizione del 1550 del Vasari (I, p. 23), ma non in Condivi. Benché non manchino, in
questi due rilievi, motivi di genere, l'impressione determinante è data dall'atteggiamento
maestoso della Madonna, che nel tondo Pitti prelude sensibilmente ai tratti sibillini delle
figure femminili del soffitto della Sistina.

Di grandissimo onore fu per il B. l'incarico di eseguire, nella sala del Consiglio di Palazzo
Vecchio, un affresco monumentale con la Battaglia di Cascina, a fianco del più anziano
conterraneo e rivale Leonardo, che doveva dipingere la Battaglia d'Anghiari. I preparativi
dell'impresa si protrassero dalla fine del 1504 sino al 1506, ma né Leonardo né il B.
passarono all'esecuzione dell'opera (Condivi, p. 44; Vasari, I, pp. 24 s.; II, pp. 248-271;
Gaye, Carteggio, II, pp. 88 s.: molto importante per la questione della collocazione, H.
Grohn, Die Schule der Welt. Zu Michelangelos Karton der Schlacht bei Cascina, in Il
Vasari, XXIV [1963], pp. 63 ss.; e, più recente: R. Salvini, La battaglia di Cascina, in Studi
di storia dell'arte in onore di Valerio Mariani, Napoli 1971, pp. 131 ss.). Solamente una
copia ridotta del cartone (proprietà Earl of Leicester, Holkham Hall) e incisioni
frammentarie possono darci una idea della grandiosa composizione concepita dal B. come
pura accademia di nudi nelle posizioni e nei movimenti più disparati. Il cartone ebbe
un'eccezionale funzione didattica per i giovani artisti fiorentini: ne troviamo un'eloquente
testimonianza nel Vasari (I, pp. 26 s.).

Come l'affresco per Palazzo Vecchio, anche una serie di Apostoli, commissionata al B. nel
1503 dall'arte della lana e dall'Opera del duomo per S. Maria del Fiore, era destinata a non
essere compiuta; infatti egli iniziò solo la statua di S. Matteo (Firenze, Accademia), rimasta
appena abbozzata nel blocco marmoreo. A giudicare da essa è lecito supporre che, se la
serie fosse stata condotta a termine, avrebbe costituito per Firenze un ciclo di figure eroiche
nel quale, in ricca varietà di aspetti, avrebbero trovato espressione, forse più che lo spirito
religioso, la virtus, l'energia, il forte volere degli apostoli cristiani. L'unico dipinto su tavola
del B., il grande tondo con la Sacra Famiglia (Uffizi), fu commissionato nel 1503-04, in
occasione delle nozze di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi; ma è probabile che il
compimento dell'opera si sia protratto sino al 1505 (Vasari, I, pp. 13-15, 23 s.: per la
datazione del quadro vedi Barocchi, ibid., II, p. 240).

Nel 1505 si verificò nella vita del B. una svolta decisiva, quando, nel marzo, Giulio II gli
propose di eseguire la propria tomba monumentale. Egli fece il progetto e gli venne fissato
un compenso di 10.000 ducati pagabili in cinque anni. Già in aprile si recava alle cave di
Carrara, dove rimase per scegliere i marmi sino alla fine dell'anno; nel gennaio 1506 ne
attendeva l'arrivo nella sua bottega a Roma presso S. Caterina, non lontano da piazza S.
Pietro. Indubbiamente il papa intendeva porre il monumento nel nuovo S. Pietro, in fase di
progettazione, ma non sappiamo esattamente dove. All'inizio del 1506 si accordava con il
Bramante, per dare inizio alla costruzione. Poco dopo avveniva il primo scontro tra il B. e il
pontefice, che dichiarò di rinunciare al progetto; l'artista attribuì a un intrigo del Bramante la
causa di questo malevolo atteggiamento, e il 17 aprile fuggì a Firenze dove si trattenne sette
o otto mesi (Condivi, pp. 38 ss., e Vasari, I, pp. 31-33; II, pp. 370-380).

In questo periodo molti tentativi furono fatti, da parte della corte pontificia, per indurlo a
tornare a Roma, ma tutti gli interventi fallirono, compreso quello del podestà Soderini. In
novembre, infine, Giulio II lo convocò a Bologna e gli ordinò la propria statua in bronzo
alta quattro metri, che fu posta nel febbraio del 1508 sulla facciata di S. Petronio (Condivi,
p. 46, e Vasari, I, pp. 33-35; II, pp. 389-395, 398-401). L'importante opera, preludio
ai Profeti della Sistina, venne distrutta nel dicembre 1511 dai partigiani dei Bentivoglio. La
commissione bolognese era prova, da parte del papa, di un desiderio di riconciliazione con
l'artista, sicché questi, nel marzo 1508, fece ritorno a Roma, con animo placato, per mettere
in atto la proposta di Giulio II di dipingere il soffitto della cappella Sistina. L'idea del
pontefice di rappresentarvi i dodici apostoli parve al B. "chosa povera" (Maurenbrecher,
1938, p. 69) e quando egli fece presente al papa questa obiezione, gli venne lasciata carta
bianca per la stesura tematica.

Non è ora il caso di addentrarsi nell'esposizione, sia pure solo approssimativa, dell'ordine
strutturale tanto perspicuo quanto, per altro verso, raffinato che presiede alla intelaiatura
architettonica del soffitto: dei riquadri rettangolari al centro e della loro differente misura,
della loro prosecuzione su ambedue i fianchi, del sistema di pennacchi, lunette e archi di
scarico sui quattro lati. Di tutto questo complesso organismo quel che più conta è il
raggiunto carattere unitario della superficie pittorica, e l'affermazione, ovunque dominante,
dell'elemento figura: due aspetti, questi, che non erano propri della pittura del Quattrocento.
Entro questo sistema il B. ha inserito il suo grandioso programma iconografico: nei nove
riquadri rettangolari (procedendo dall'entrata fino alla parete del coro ad ovest), sono
le Scene della creazione e la Storia dei primi uomini fino al Diluvio universale; negli
adiacenti scomparti verticali, sette Profeti e cinque Sibille, e, nei quattro grandi pennacchi
d'angolo, altrettanti drammatici episodi biblici (David e Golia, Giuditta e
Oloferne, il Serpente di bronzo, Punizione di Aman). Ma non si limitò a questo programma
che si presentava già di per sé tanto complesso: il B., infatti, estese la superficie del soffitto,
fino a invadere parte delle pareti, come si vede nelle otto vele e nelle sottostanti quattordici
lunette. Nelle pitture di questi ultimi riquadri, la tensione degli avvenimenti narrati nel
soffitto si allenta in un mondo di quiete ove l'esistenza nomade degli antichi israeliti
(i Predecessori e gli Antenati di Cristo) viene descritta in scene domestiche e idilliache
anche con qualche concessione di tono gradevolmente descrittivo.
Denso di significati appare, in tutta la sua audacia, il motivo dei cosiddetti Ignudi: venti
figure di giovani seduti, che coronano, a due a due, i pilastri dei troni dei Veggenti e
reggono festoni di foglie di quercia (allusione a Giulio II e alla famiglia Della Rovere). Le
tante e svariate interpretazioni proposte per questi Ignudi, specialmente come riferimenti a
Eros, non sembrano plausibili; assai più illuminante appare la supposizione secondo la quale
il B. doveva ritenere indispensabile questa presenza della figura umana, perché la trama
decorativa non accusasse discordanze. Certo fu un ardimento inaudito il fatto, assolutamente
senza precedenti, di servirsi, a questo scopo, esclusivamente del tema del nudo in
movimento, tanto più in un luogo sacro. In ciò l'artista deve dunque aver dato libero corso
alla propria fantasia, e tuttavia è improbabile che, seppure dobbiamo riconoscere in lui un
attento e illuminato lettore della Bibbia, l'intero programma iconografico sia stato concepito
senza un consulente ecclesiastico (proveniente quasi certamente dall'ambiente che
circondava il papa). Alcune fra le più recenti indagini si sono addentrate in un ordine di
interpretazioni estremamente complesso e troppo sottile, fondato sul pensiero neoplatonico.
A una verifica spassionata, non v'è uno solo, di questi tentativi di lettura, che convinca e,
giustamente, gli studiosi italiani li hanno evitati (V. Mariani, 1964, pp. 45 ss.; E.
Camesasca, in La cappella Sistina in Vaticano, Milano 1965, pp. 174 ss.: anche K. Clark,
1964, ha rifiutato questo orientamento interpretativo).

Il B. venne a capo della gigantesca impresa, senza aiuti, in appena quattro anni, con qualche
rara e breve interruzione: nel gennaio 1509 egli iniziò a dipingere il soffitto, a mezzo agosto
del 1511 venne scoperta la prima parte e nel settembre 1512 l'intera opera era compiuta.
Alla vigilia della festa di Ognissanti, la cappella Sistina fu aperta al pubblico (P. de
Grassis, Diario, in E. Steinmann, Die Sixtinische Kapelle, II, München 1905, Regesta, n.
108, pp. 735 s.: "Vesperae in vigilia omnium sanctorum... Hodie primum capella nostra,
pingi finita, aperta est. ...". Per la cronologia vedi R. Salvini, in La Capp. Sistina, cit., pp.
95-97).

Il B. non aveva mai abbandonato con il pensiero, nemmeno mentre lavorava al soffitto,
quella prima commissione del papa, relativa alla sua tomba, alla quale Giulio II aveva
soprasseduto in favore della decorazione della Sistina; in realtà Michelangelo, che sempre si
sentì scultore e non pittore, avrebbe tenuto assai di più a intraprendere questo lavoro. Esso
assunse un carattere di urgenza subito dopo la morte del papa (avvenuta nella notte tra il 20
e il 21 febbr. 1513), quando gli esecutori testamentari di Giulio II, il cardinale Aginense,
Leonardo Grosso Della Rovere e il cardinale Lorenzo Pucci, presero contatto con l'artista
per concludere, il 6 maggio 1511 il nuovo contratto per il monumento (per il tenore del
contratto, vedi S. Prete, The original written contract with Michelangelo for the tomb of
Pope Julius II..., New York 1963, pp. 19-22).
La struttura di monumento isolato, prevista nel primitivo progetto, dovette essere ridotta a
quella di tomba murale, sicché la facciata posteriore veniva a essere annullata; ciò
nonostante, l'opera era ancora piuttosto costosa, perché veniva mantenuta, anche nella nuova
versione per la fronte e per i due fianchi, la zona inferiore decorata, su ciascun lato, con
due Vittorie entro nicchie, fiancheggiate rispettivamente da due Schiavi incatenati, più
grandi del naturale; e lo stesso si dica per il registro superiore con sei figure sedute in luogo
delle otto previste in precedenza. Dei sei rilievi in bronzo "dove si poteva vedere i fatti di
tanto pontefice" di cui parla il Condivi (p. 41) non appaiono sul progetto che i relativi campi
vuoti rettangolari sopra le nicchie delle Vittorie.

Solo il sarcofago con il papa defunto subiva un cambiamento rispetto al progetto originario,
dal momento che veniva a cadere l'idea del mausoleo in posizione centrale. La
trasformazione del monumento in sepolcro murale rendeva necessaria una adeguata
articolazione della parete: il B. ideò una nicchia gigantesca (la "capelletta") contenente, al
centro, sospesa, la figura della Madonna col Bambino, mentre su ciascun lato dovevano
apparire rispettivamente due figure in piedi (vedi il secondo contratto in Milanesi, 1875, p.
637). Perciò sul piano quantitativo - se si considera la parte superiore della facciata di cui si
è detto - in nessun modo il nuovo progetto si rivelava riduttivo. Fatto, questo, che peraltro
risulta chiaro dal testo del contratto: il compenso veniva infatti elevato, dai 10.000 ducati di
un tempo, a 16.500 e il compimento fissato alla scadenza di sette anni (De Tolnay, IV,
1954, passim, e Pope Hennessy, 1966, pp. 316 ss.; sono inoltre utili le osservazioni e le
ricostruzioni di E. Panofski, 1964, pp. 88-90, ill. 417-422).

Concluso il contratto, il B. si pose immediatamente al lavoro. Trasferì allora la casa e la


bottega presso il Macello dei Corvi, nelle vicinanze di S. Maria di Loreto (vedi F. M.
Apollonj Ghetti, Le case di Michelangelo, in L'Urbe, XXXI [1968], pp. 17 ss.) e là fece
trasportare, da piazza S. Pietro, i blocchi di marmo fino allora lasciati in deposito. In primo
luogo si dedicò con lena alla statua di Mosé, che doveva essere collocata, come nel primo
progetto, nel registro superiore all'angolo destro; contemporaneamente vennero eseguiti i
celebri Schiavi: il cosiddetto "dormiente" e il "ribelle" (Parigi, Louvre). Se si considera che
queste tre figure colossali impegnarono l'artista per tre anni - salvo brevi interruzioni - è da
ritenere che fin da allora il B. dovette rendersi conto che non gli sarebbe stato possibile
mantenere il contratto. E infatti un accordo stabilito con gli eredi Della Rovere l'8 luglio
1516 (Milanesi, 1875, pp. 644-648) riduce il monumento al puro e semplice sepolcro
murale, eliminando tutto il complesso di statue delle fiancate e restringendo a due il numero
delle figure sedute nella zona superiore.

A questo cambiamento si aggiunse anche una circostanza esterna: il successore di Giulio II,
Leone X (Medici), venuto in conflitto con il principale esponente della famiglia Della
Rovere, il duca Francesco Maria di Urbino, cercò, dal 1516, di assicurarsi i servigi del B.
(contatti in questo senso iniziarono sin dai primi di ottobre di quell'anno: v. lettera di Baccio
d'Agnolo al B. alla quale è allegato uno scritto di D. Boninsegni del 7 ottobre, riguardante i
progetti di facciata per S. Lorenzo del cardinale Giulio de' Medici, in Carteggio, I, pp. 204
s.). Era desiderio del papa far erigere una facciata monumentale per S. Lorenzo - la chiesa
della famiglia Medici a Firenze - e il B., fiorentino autentico qual era, non poteva
certamente sottrarsi a un incarico così prestigioso. Di nuovo - come già ai tempi del
sepolcro di Giulio II - fu invaso da fervore creativo e, in una vera e propria esaltazione della
fantasia, progettò un'opera che presentava caratteri di assoluta, sovvertitrice novità dal punto
di vista della struttura architettonica e nello stesso tempo risultava senza precedenti per la
ricchezza della decorazione plastica. Che questa fosse sua precisa intenzione ci è
confermato dalle sue stesse parole: "farò la più bella opera che si sia mai facta in Italia"
(Carteggio, I, p. 83); e in un'altra lettera: "d'architectura e di schultura, lo spechio di tucta
Italia" (ibid., I, p. 277). Non è possibile in questa sede, tranne che per brevi cenni, rendere
conto dell'intensa attività che assorbì il B. in questi anni 1516-1520, nei quali, a un continuo
avvicendarsi di soggiorni a Roma e a Firenze, alternò numerose soste presso le cave di
Carrara, Pietrasanta e Serravezza, anche per assoldare operai. Nel contratto gli erano stati
concessi otto anni, a partire dal 1518, per condurre a termine l'impresa, che gli sarebbe stata
pagata 40.000 ducati (per le uscite, le entrate e per tutta l'attività del B. relativa alla facciata
di S. Lorenzo, vedi Maurenbrecher, 1938, pp. 38-66, e I ricordi; pp. 14 ss.). Erano ancora in
pieno corso tutti i preparativi, quando Leone X annullò il contratto e si dovettero smettere i
lavori (vedi la lettera indirizzata da Roma al B. dal cardinale Giulio de' Medici il 28 nov.
1520, in Frey, 1899, pp. 161 s.). Al B. la revoca del contratto e lo spreco di fatica parvero
"vitupero grandissimo" (Carteggio, II, p. 270). Ma benché l'accantonamento del progetto
architettonico fosse giustificato con difficoltà economiche, fin dal 1519 il cardinale Giulio
de' Medici (dal 1523 papa Clemente VII) aveva intrapreso trattative per erigere un mausoleo
(la Sagrestia Nuova) a gloria della famiglia, da costruire sul lato destro della crociera di S.
Lorenzo, come pendant alla Sagrestia Vecchia.

Come per la tomba di Giulio II, anche per il nuovo monumento vari progetti si
sovrapposero, come risulta evidente dai disegni dello stesso B., e in parte dalla
corrispondenza. Se il committente pensò in un primo momento a un sepolcro strutturalmente
autonomo da collocarsi al centro della cappella, quest'idea dovette essere abbandonata per
mancanza di spazio; in suo luogo vennero progettate due tombe, addossate rispettivamente
alle due pareti laterali, l'una per Lorenzo de' Medici duca di Urbino(mortonel 1519) e l'altra
per Giuliano de' Medici duca di Nemours (morto nel 1516), le cui statue sono in una nicchia
al di sopra di ciascuno dei due sarcofagi; su questi sono collocate le figure allegoriche
del Crepuscolo e dell'Aurora (Lorenzo), della Notte e del Giorno (Giuliano). Non fu mai
realizzato il monumento ai Magnifici (Lorenzo e Giuliano), che era stato previsto, in
connessione con la Madonna in trono e con i patroni dei Medici, S. Cosma e S. Damiano, di
fronte all'altare: furono eseguite soltanto le tre statue, fra le quali la
grandiosa Madonna occupa un posto di primo piano. Allo stato attuale, la cappella medicea
può darci soltanto un'idea frammentaria, poiché del progetto non furono compiuti, fra l'altro,
né i Fiumi ai piedi delle tombe né le pitture delle lunette (il Serpente di
bronzo, la Resurrezione di Cristo). Ciò nonostante, anche in queste condizioni, l'opera è una
testimonianza della visione formale del B. nel decennio 1520-1530: qui per la prima volta
assistiamo a quella indissolubile compenetrazione della scultura con la struttura
architettonica; nello stesso tempo, nella forma e nelle proporzioni di questo insieme si
esprime un abbandono totale dell'osservanza dei principî di euritmia del Rinascimento, con
il sopravvento di un tono aspro di oppressione e di inquietudine.

Gli stessi elementi, ma ancor più accentuati e addirittura agganciati al manierismo, sono
presenti nella sala della Biblioteca Laurenziana (per la quale il B. aveva fornito progetti già
dal 1524, su richiesta di Clemente VII) e nel connesso vestibolo. Questo complesso e la
cappella Medicea impegnarono l'artista per tutto il terzo decennio e per qualche anno anche
del quarto, se si eccettua il 1529, anno di crisi politica, che fu anche per il B. un anno
drammatico. Di sentimenti repubblicani, l'artista salutò con favore il rovesciamento della
situazione politica nella sua città e la nomina del gonfaloniere Niccolò Capponi (21 maggio
1527). All'inizio dell'anno venne eletto nel collegio dei Nove di milizia per le opere di
fortificazione e, dopo che il 6 apr. 1529 fu nominato governatore generale e procuratore
delle fortificazioni, si impegnò con dedizione in questa incombenza, eseguendo i geniali
disegni di fortificazioni conservati nella casa Buonarroti. In relazione a questo incarico, egli
si recò, all'inizio di agosto, alla corte di Ferrara, per avere consigli dal duca Alfonso, famoso
esperto nell'arte delle fortificazioni. Il duca lo accolse con la massima cortesia, ma non si
fece sfuggire l'occasione di chiedergli un lavoro; il B. acconsentì, ma il dipinto con
la Leda, terminato nel 1530, non entrò mai nella collezione ducale (l'artista lo regalò ad
Antonio Mini che se lo portò l'anno dopo in Francia: per l'originale scomparso e per le copie
che ne furono fatte, vedi Vasari, I, p. 68; III, pp. 1101-1122). Verso il 9 settembre il B. era
di nuovo a Firenze, ma il 21 settembre, avvertendo il tradimento incombente di Malatesta
Baglioni, fuggì a Venezia, dove arrivò prima del 25 sett. (sua lettera a G. B. della Palla a
Firenze, in Frey, 1907, pp. 134 s.). Benché a quel tempo avesse intenzione di andare in
Francia, convinto dalle autorità di Firenze che gli fecero ponti d'oro, rientrò in patria poco
dopo il 19 novembre per riprendere l'antico ufficio. Il 12 ag. 1530 la città capitolò e il B., di
nuovo preso dalla paura, si nascose in casa di un amico finché non ottenne, il perdono di
Clemente VII. Subito dopo (settembre-ottobre) diede esecuzione all'ordine del papa di
proseguire i lavori per le tombe medicee.

Non gli dava requie intanto, nonostante la dispensa di Clemente VII, l'antico impegno di
portare avanti la tomba di Giulio II, per la quale premevano gli eredi Della Rovere. Il
maestrointendeva ridurre ulteriormente l'opera, e nel contratto del 29 apr. 1532 (Milanesi,
1875, pp. 702-707, e Barocchi, in Vasari, III, pp. 1179-1182) gli eredi e l'artista si
accordarono per erigere il monumento in S. Pietro in Vincoli e per limitare a sei il numero
delle figure nell'ambito del sepolcro. Si vedrà in seguito come anche questo accordo doveva
subire un ulteriore cambiamento nel 1542.

Non appare molto convincente la supposizione secondo la quale doveva far parte di questa
sistemazione il grandioso gruppo del Vincitore, oggi in Palazzo Vecchio a Firenze, poiché
allora stavano ancora nella bottega del maestro le due statue del Morente e del Ribelle;
potrebbe anche non essere errato datare quella scultura ai primi anni dopo il 1520, mentre la
splendida statua del cosiddetto David-Apollo (Firenze, Museo nazionale), destinata a Baccio
Valori, deve essere del 1530-31 circa.

Negli anni 1532-33, in cui fu da una parte occupato nella prosecuzione della cappella
Medicea e della Biblioteca Laurenziana e dall'altra fu impegnato nella ripresa del
monumento di Giulio II, il B. fu costretto a frequenti viaggi fra Firenze e Roma.

Tutto l'inverno 1532-33 lo trascorse a Roma e, in questa occasione, ebbe luogo l'incontro
memorabile con il giovane nobile romano Tommaso de' Cavalieri, incontro che, alla stessa
maniera dell'amicizia - seguita a distanza di pochi anni - con Vittoria Colonna, rappresenta,
per così dire, una pietra miliare nella vita del B. (è di pochi anni prima, invece, l'altra
amicizia con Antonio Mini, l'aiuto che ebbe in regalo fra le altre opere sue il dipinto
della Leda commissionato da Alfonso d'Este).

Per la sua intensità di esperienza, l'incontro con Cavalieri rappresenta un fenomeno unico
nella vita del Buonarroti. Non soltanto per il fatto che il maestro fece dono al giovane di una
serie di incantevoli disegni di argomento mitologico, appositamente eseguiti (Fetonte, Tizio,
Ganimede), che avevano tutti un valore di quadro compiuto e furono molto ammirati dagli
amatori d'arte romani (tutti i fogli, citati dal Vasari come in possesso del Cavalieri [I, p. 118;
IV, pp. 1898-1906], passarono poi nella collezione del cardinale Alessandro Farnese; gli
originali si trovano attualmente nel British Museum di Londra e nella Royal Library di
Windsor: Dussler, 1959, pp. 144 s., 146 s., 199 s. e ad Indicem), né per lo spontaneo riflesso
di questa amicizia presente nella poesia del B., quanto piuttosto per l'entusiasmo quasi
esaltato dell'artista che - come testimoniano le prime lettere al Cavalieri -, al culmine della
sua fama, si annulla letteralmente nella dedizione al giovane. Non sono mancati tentativi di
dare a questa dedizione un significato sensuale e, anche ultimamente, si è voluto interpretare
questo rapporto come omosessuale (Clements, 1963, pp. 92 ss.). Non v'è tuttavia alcun
indizio a favore di tale ipotesi: come in altri casi, queste professioni d'amore erano del tutto
platoniche. Il Cavalieri rimase fedele al maestro fino alla morte.
Senza dubbio il legame con il Cavalieri fu anche uno dei motivi che spinse il B. ad
abbandonare la residenza fiorentina e a trasferirsi definitivamente a Roma (dal settembre
1534: lettera a Febo di Poggio che giustamente Ramsden, 1963, I, p. 187 n. 198, e pp. 302
ss., data alla metà di settembre del 1534), ma è pur vero che questa decisione fu
accompagnata da una serie di circostanze. Già i sentimenti di libertà del B. lo rendevano
insofferente del tirannico regime mediceo, e ancor più lo teneva legato a Roma la
prosecuzione della tomba di Giulio II, ma più di ogni altra cosa fu determinante il progetto
del papa di far affrescare la parete del coro nella cappella Sistina con il Giudizio universale.
È vero che Clemente VII morì poco dopo che il B. si stabilisse a Roma, ma ancor meno
questi poté sottrarsi al servizio del nuovo pontefice Paolo III (Farnese) che, nel suo
sentimento di ardente entusiasmo per il maestro e nel suo spirito autoritario, accampava
diritti esclusivi su tutta la sua attività. E infatti le commissioni farnesiane durante il
pontificato di Paolo III furono decisive per la definizione dello stile tardo dell'artista e per la
celebrità da lui raggiunta in vecchiaia: il Giudizio universale a cui lavorò dal 1536 al 1541,
anno in cui l'affresco fu scoperto, le grandiose pitture murali con la Conversione di s.
Paolo e il Martirio di s. Pietro nella cappella Paolina (1542-1550), quell'imponente
monumento di famiglia che è il palazzo Farnese (già iniziato nel 1517 sotto la direzione di
Antonio da Sangallo il Giovane) e - di particolare importanza - il riassetto urbanistico della
piazza del Campidoglio; e infine l'opera più cara, in assoluto, all'artista, la prosecuzione e il
compimento del nuovo S. Pietro, della cui Fabbrica egli era stato nominato primo architetto
dal gennaio 1547, dopo che Paolo III, già nel 1535, gli aveva assegnato la sovrintendenza
dei palazzi apostolici (breve di Paolo III, in Gotti, 1875, 113 pp. 123 s., 133 s.).

Nonostante questa enorme mole di lavoro - si consideri che anche in questa età più avanzata
il maestro portò a termine senza aiuti i faticosi affreschi - il B. nel quarto e quinto decennio
del secolo visse, come mai prima di allora, in relazione con una cerchia di amici, e anzi egli
stesso ebbe a dichiarare di ritenere questi anni romani i più felici della sua esistenza
(Steinmann, 1930, pp. 17 ss.).

Poco dopo che egli ebbe iniziato il Giudizio universale - all'incirca nel 1537 - comparve sul
suo orizzonte Vittoria Colonna, la cui amicizia, al pari di quella con il Cavalieri, doveva
rappresentare l'esperienza più significativa della sua vecchiaia. Vittoria Colonna, vedova di
Ferrante d'Avalos marchese di Pescara, animata da quello spirito severamente religioso che
si esprime nelle sue rime, mise il B. in contatto con quell'ambiente romano che aspirava
vivamente a una riforma del cattolicesimo, non però nel senso di un avvicinamento al
luteranesimo del quale più volte si è cercato di accusare la marchesa e la sua cerchia di
amici, bensì piuttosto nel senso di una decisa trasformazione di forme di culto ormai
svuotate di contenuto in un sincero modo di vita interiore. È sufficiente ricordare nomi come
quelli di Juan de Valdés e dei cardinali G. Contarini, Giovanni Morone e Reginald Pole, che
fu il consigliere spirituale di Vittoria, per esser certi delle linearità e schiettezza di questi
intenti; cosa che del resto fu certamente chiara allo stesso B., il quale, nonostante le riserve
mentali su certi aspetti negativi della Chiesa - espresse in molte delle sue composizioni
poetiche -, non ha mai rinnegato la sua adesione alla dottrina ortodossa. La relazione
dell'artista con l'amica si svolse in parte attraverso lettere e poesie, ma anche attraverso gli
incontri domenicali nell'oratorio di S. Silvestro al Quirinale, ai quali, oltre a frate Ambrogio
da Siena (Lancillotto Politi), in qualità di esegeta biblico, probabilmente prendeva parte
anche il senese Claudio Tolomei. Di queste conversazioni spirituali ci ha lasciato un
efficace ricordo il portoghese Francisco de Holanda nei suoi Diálogos de Roma, pubblicati a
Lisbona nel 1548 (Dialoghi romani, a cura di E. Spina Barelli, Milano 1964), anche se
l'attendibilità delle espressioni del B. in essi citate sia da considerare con estremo
scetticismo (C. Aru, I dialoghi romani di Francisco de Hollanda, in L'Arte, XXXI [1928],
pp. 117-128). I disegni offerti in dono all'amica venerata - Crocifissione (Londra, British
Museum), Pietà (Boston, museo Gardner) e Cristo e la Samaritana (conosciuto solo
attraverso copie) - sono la testimonianza evidente di quelli che per Vittoria e il B. erano i
pensieri fondamentali: la speranza nella grazia derivata dal sacrificio della Croce, che in
misura sempre crescente ha ispirato Michelangelo sia nella sue ultime creazioni artistiche
sia nelle sue poesie.

Con il Cavalieri, e con Vittoria Colonna, il B. frequentava romani di nascita, ma il resto del
gruppo, non tanto ristretto, di amici, comprendeva quasi esclusivamente fuorusciti
fiorentini, fra i quali Luigi del Riccio, procuratore della banca di Ruberto Strozzi, e Donato
Giannotti, segretario del cardinale Niccolò Ridolfi, anch'egli antimediceo. I rapporti con
Luigi del Riccio, che erano già stabiliti attorno al 1535 e durarono fino alla morte di questo
(1546), sono una toccante testimonianza del sentimento affettuoso che lo legava all'illustre
conterraneo (cfr. E. Steinmann, Michelangelo e L. del Riccio, in Rivista storica degli archivi
toscani, III [1931], n. 4 [vedi l'estratto], pubblicato a Firenze nel 1932). Quando il B. fu
gravemente ammalato nel 1544 e ancora alla fine del 1545 (lettere al nipote Leonardo, del
luglio 1544 e del 6 febbraio successivo, in Milanesi, 18753 pp. 174, 187), egli ricevette ogni
cura da parte del Riccio che lo aveva fatto alloggiare nel palazzo del suo padrone Ruberto
Strozzi. L'artista fu così commosso da queste attenzioni che per gratitudine fece dono allo
Strozzi, che trascorreva l'esilio in Francia, dei due straordinari Prigioni (Parigi, Louvre), un
tempo destinati alla tomba di Giulio II. Né poté negare al Riccio, quando questi nel 1544
perse il nipote quindicenne Cecchino Bracci, di scriverne epitaffi poetici e di fare un
progetto per la sua tomba in Aracoeli (E. Steinmann, Das Grabmal des Cecchino
Bracci, in Monatshefte für Künstwissenschaft, I [1908], pp. 963-974). Il Riccio, assieme al
Giannotti, preparò un'edizione delle poesie del B. (Firenze, Archivio Buonarroti, cod. XIV 1
e cod. XIV 2; cod. Vat. lat. 3211), che non fu stampata; e il Giannotti, che era un erudito e
storico di spirito universale quanto perspicace, acquista anche un particolare interesse,
all'interno della cerchia del B., per i suoi Dialogi nei quali l'artista è celebrato come "gran
dantista" e viene messa in evidenza, nel suo ruolo di conduttore del dialogo, la sua
considerevole conoscenza del poeta. E fu il Giannotti, ancor prima della redazione
dei Dialogi (vedi D. Redig de Campos, in Dialogi di D. Giannotti..., Firenze 1939, pp. 3-34
per la datazione, le edizioni e l'esame critico), a chiedere al B., probabilmente nel 1539-40,
di scolpire quel busto di Bruto (Firenze, Museo nazionale), che è sempre stato interpretato
come simbolo della libertà, e al quale certamente lo spunto era stato dato dall'uccisione, nel
1537, del tiranno Alessandro de' Medici da parte di Lorenzino. La testa, così incisiva e piena
di espressione, la cui "terribilità" riceve una particolare impronta proprio dal procedimento
tecnico del "non finito", era destinata dal Giannotti al cardinale Niccolò Ridolfi che, come il
suo segretario e come il B., aveva salutato, in Lorenzino, il "Bruto nuovo".

Il B. era quindi d'accordo con gli espatriati fiorentini nell'avversare il tirannico regime
mediceo: tuttavia, preoccupato per i parenti rimasti a Firenze, era abbastanza prudente da
non apparire nemico dichiarato di quel governo; e più volte infatti Cosimo de' Medici tentò,
attraverso intermediari, di riavere il B. a Firenze. Tra questi incaricati furono, nel 1552,
Benvenuto Cellini e, nel 1554 e nel 1557, il Vasari; e infine, alle insistenze dirette del duca
(8 maggio 1557), l'artista rispose chiedendo una dilazione perché i lavori in corso a S. Pietro
lo obbligavano a restare a Roma. Tra gli impegni presi in precedenza con i Medici,
manteneva ancora quello del vestibolo (ricetto), non terminato, della Bibl. Laurenziana, per
il quale si dichiarò disposto a inviare a Bartolomeo Ammannati un modello in terracotta
della scala, che fu spedito a Firenze il 13 genn. 1559 (vedi, per tutta la storia della scala,
Barocchi, in Vasari, III, pp. 883-887; IV, pp. 1598-1604; la sala di lettura, non ancora
cominciata prima che il B. si stabilisse a Roma, nel 1534, fu eseguita fedelmente sui suoi
disegni).

La disponibilità del B. nei confronti, dei suoi compatrioti si rivela tra l'altro nell'impegno a
eseguire dei progetti per S. Giovanni dei Fiorentini a Roma.

Gli inizi di questa fabbrica risalgono a Leone X, ma dopo la morte di questo la costruzione
venne interrotta, e quando nel 1550, su suggerimento di Bindo Altoviti, si pensò di
riprendere i lavori, anche allora l'impresa andò a monte. Solo nel 1559 si poté pensare di
mettere l'opera in esecuzione, e a questo punto i procuratori richiesero il consiglio del
Buonarroti. Questi subordinava la sua collaborazione al consenso del duca Cosimo e, una
volta avutolo, preparò un certo numero di disegni (Firenze, casa Buonarroti): purtroppo non
venne realizzato nessuno di questi progetti che prevedevano, tutti, un edificio a pianta
centrale, e la chiesa ebbe in seguito un impianto basilicale (H. Siebenhüner, S. Giov. dei
Fiorentini..., in Kunstgeschichtliche Studien für Hans Kauffmann, Berlin 1956, pp. 172-191;
D. Gioseffi, S. Giov. dei Fior., in Michel. arch., 1964, pp. 653-680; H.
Gottschalk, Michelangelo's Entwürfe für die Kirche..., Den Haag 1968).
Nel gruppo di amici ben presto - cioè almeno dal 1516 - occupò un posto importante
Sebastiano del Piombo, divenuto ormai completamente romano. Tra il pittore veneziano ed
il B. intercorse una corrispondenza abbastanza frequente e se a questo doveva riuscire
gradito ricevere assidui rapporti (G. Milanesi, Les correspondants de Michel-
Ange, I, Sebastiano del Piombo, Paris 1890) e poter dare disposizioni per lo più
sull'andamento dei suoi affari romani, altrettanto desiderabile dovette d'altra parte apparire a
Sebastiano avere protezione, pareri e - non ultimi - eventuali disegni per i suoi dipinti. Ma le
deboli raccomandazioni del B. al cardinal Bernardo Dovizi (giugno 1520: Carteggio, II, p.
232), quando Sebastiano doveva subentrare a Raffaello in Vaticano, mostrano il punto
limite di questa amicizia, il punto cioè in cui Michelangelo ha sostenuto, sì, l'amico, ma
solo, per così dire, sottovoce. Egli apprezzava veramente gli eccellenti ritratti di Sebastiano
del Piombo, mentre non sembra avere avuto un'opinione troppo alta delle altre sue
composizioni. Dopo che il B. ebbe iniziato l'affresco del Giudizio universale (1536), il
veneziano giunse a proporre di eseguire l'opera ad olio, ma il maestro respinse indignato
questa richiesta, osservando "che colorire a olio era arte da donna e da persone agiate e
infingarde come fra' Bastiano" (Vasari, III, pp. 1384-1386).

Benché da questo momento in poi non si abbia più notizia sui rapporti fra i due, l'ardente e
sincera ammirazione di Sebastiano per il genio del B. restò inalterata fino alla morte.

Oscure esperienze - forse le più sconcertanti della sua vita - derivarono al B. dall'incontro
con Pietro Aretino. Lo scrittore, geniale quanto indiscreto e temuto, tentò più volte di
approfittare di lui, riuscì ad averne dei disegni, ma senza essere soddisfatto dei doni, ed ebbe
persino l'ardire di sottoporre al B. proposte per la composizione del Giudizio
universale. Quando il maestro non aderì ad altre richieste contenute nelle sue lettere,
l'Aretino volle bassamente vendicarsi, come testimonia una lettera oltraggiosa del novembre
1545 nella quale Michelangelo viene denigrato nel modo più infame non solo come pittore,
ma anche come uomo. Naturalmente, sotto la pressione sempre crescente della
Controriforma, non mancarono, in seguito, critiche al programma iconologico del B., e
infatti già dal 1558, per ordine di Paolo IV, tutti i nudi furono rivestiti per opera di un amico
del B., Daniele da Volterra (B. Biagetti, in D. Redig de Campos-B. Biagetti, Il Giudizio
universale di Michelangelo, Milano 1944, pp. 143-147).

La tomba di Giulio II, la "tragedia della sepoltura", secondo l'espressione spesso usata dal
maestro, ebbe termine dopo l'ultimo contratto del 1542. Quella che oggi vediamo, in S.
Pietro in Vincoli, è il risultato di un'ulteriore riduzione dei progetti precedenti (1532). Al
posto dei due Prigioni, ai lati del Mosè vennero collocate nelle nicchie le nobili figure
di Rachele e Lia, allegorie della vita contemplativa e della vita attiva
(Dante, Purgat., XXVII). Solo questa parte inferiore, compresa la struttura architettonica, è
opera del B.: tutto il resto - la Madonna, le due Figure sedute e il Papa giacente nel registro
superiore - fu fatto eseguire da allievi. Dopo questa soluzione di compromesso di un'impresa
che era stata progettata in proporzioni gigantesche, il vecchio artista non accettò più alcun
incarico pubblico nel campo, che gli era più congeniale, della scultura; fece ancora soltanto
opere che sono traduzioni plastiche di un suo personale pensiero e che hanno a soggetto
quasi esclusivamente il tema sepolcrale.

La più antica di queste opere tarde è il gruppo della Pietà, dal 1722 nel duomo fiorentino,
che in origine il B. aveva destinato alla propria tomba da collocarsi in S. Maria Maggiore a
Roma: il Cristo in grembo alla madre, dinanzi alla quale è inginocchiata la Maddalena,
mentre al culmine è la suggestiva figura, pacatamente assorta, di Giuseppe di Arimatea, il
cui volto riflette i tratti del maestro. Siccome nel corso della lavorazione durata parecchi
anni (dal 1548 circa al, 1555), il marmo subì dei danni e la gamba del Cristo si era staccata,
il B. fece a pezzi l'opera e l'abbandonò nelle mani del suo aiuto T. Calcagni, il quale la
ricompose (la Maddalena è in gran parte una sua aggiunta: vedi anche, per le successive
collocazioni, Barocchi, in Vasari, IV, pp. 1670-1676). Le cose andarono diversamente per
la Pietà Rondanini (dal 1952 a Milano, Museo del Castello Sforzesco) alla quale il B.
lavorava contemporaneamente alla Pietà del duomo di Firenze e della quale possiamo
seguire il processo creativo attraverso disegni conservati a Oxford (Ashmolean Museum). A
questo gruppo statuario il B. lavorò sino ai suoi ultimi giorni: se in esso riconosciamo, nelle
tracce di frammentarismo e nell'applicazione del più vigoroso "non finito", motivi di
accentuazione espressionistica come anche di riecheggiamenti medioevali per la struttura
colonnare, nella ricostruzione del concetto disegnativo troviamo i segni dell'originaria
ideazione che non manifestava affatto - né nella composizione né nell'espressione - tendenze
eversive nei confronti degli ideali del Rinascimento. Eppure proprio questo rifiuto di quelle
norme - come proporzione, armonia, concretezza fisica e bellezza ideale - che ancora
vengono osservate nella Pietà del duomo fiorentino divenne visibilmente predominante
nell'arte del B. nell'ultimo decennio di attività. Estremamente chiarificatore, a questo
proposito, è il confronto del disegno con il Crocifisso per Vittoria Colonna (Londra, British
Museum) con quei singolari "concetti" disegnati a gessetto o a penna, che raffigurano
il Cristo morto con Maria e Giovanni, dove niente altro importa al vecchio artista se non
esprimere il fondamentale mistero della redenzione e dove il B., come nella sua tarda
poesia, conduce una preghiera-monologo, distaccato da ogni rapporto con l'esterno (i fogli si
trovano a Londra, British Museum; Oxford, Ashmolean Museum; Parigi, Louvre; Roma,
Bibl. Vaticana; Windsor, Royal Library). Anche dal punto di vista tecnico, questi preziosi
disegni recano la sigla dell'irreale: il contorno perde la sua solidità e il modellato la sua
definitezza e vi subentra una sorta di fluttuazione che conferisce alle immagini un carattere
di trascendenza e di spiritualità (il più bell'esempio è nel disegno di una Madre con
bambino, nel British Museum di Londra, eseguito certamente negli ultimi anni), e ciò in
perfetta coincidenza con tutta la concezione di vita del B. e soprattutto con le sue poesie
tarde.

Da quando, nel 1547, si assunse, per desiderio di Paolo III, l'incarico di altissima
responsabilità, di sovrintendere alla fabbrica di S. Pietro, il B. non fu in grado di sottrarsi al
ritmo fervido di avvenimenti che caratterizzava l'ambiente romano e che gli arrecò non
poche angustie, dispiaceri, noie. L'impresa che, ormai vecchio, ha affrontato e diretto ha del
sovrumano, e solo il suo elevato idealismo, nutrito del più autentico sentimento religioso e
sostenuto da un non meno forte senso di responsabilità, gli permise di far fronte a questo
gravoso impegno.

Già l'opposizione - aperta o nascosta - che gli venne mossa dalle maestranze della "setta
sangallesca" e dell'astioso e mediocre architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio procurò al
maestro gravi crucci; a ciò si aggiunse la necessità di porre rimedio a errori e negligenze
della costruzione e infine quella che era per il B. la massima preoccupazione, cioè di riuscire
a mettere a punto tutti i piani preliminari per la gigantesca opera, in modo da garantire,
anche dopo la sua morte, l'unitarietà del progetto. Basta considerare la posizione del B. nei
confronti del suo geniale predecessore, il Bramante, per rendersi conto della molteplice
complessità di tali compiti. Egli ammirava senza riserve il progetto bramantesco e fin
dall'inizio della costruzione si considerò impegnato a portarlo avanti e a perfezionarlo, ma i
mutamenti di gusto e la sua stessa personale concezione comportavano, di necessità, radicali
innovazioni sia nella pianta e nell'alzato sia nella copertura dell'edificio. Il problema più
bruciante restava sempre quello della cupola, per la quale dalla morte del Bramante (1514)
erano in discussione diversi progetti, oltre a un modello in legno dell'ultimo capomastro
della fabbrica di S. Pietro, Antonio da Sangallo. Quanto il B. sia andato al di là di questi
antichi progetti, pervenendo a originali soluzioni definitive, è attestato da alcuni disegni
(Haarlem, Teylers Museum) e soprattutto, nella maniera più evidente, dal grande modello in
legno (Città del Vaticano, già Museo Petriano, ora Musei Vaticani, sala del dogma
dell'Immacolata), che venne eseguito con la sua supervisione tra il 1558 e il 1561 e che fu
normativo per la costruzione (la calotta esterna fu aggiunta da Giacomo della Porta [1586
c.]).

"Por devotión sola" (lettera di s. Ignazio a Didaco Hurtado de Mendoza del 21 luglio 1554:
vedi P. Pirri, La topografia del Gesù..., in Arch. Soc. Jesu, X [1941], p. 201 nota 88) il B. si
occupò anche del progetto per la chiesa del Gesù (per l'attribuzione o meno del
disegno Arch. 1819 D.518 degli Uffizi, vedi Dussler, 1959, p. 240 n. 518, ma anche
Ackermann, 1968, pp. 281 s.). Nel 1561 forniva progetti per la trasformazione
del tepidarium delle terme di Diocleziano in chiesa (S. Maria degli Angeli: Ackermann,
1968, pp. 105-109, 272-277). Allo stesso anno è datato il progetto per la cappella Sforza
nella basilica di S. Maria Maggiore (realizzata da Tiberio Calcagni). L'età ormai avanzata
non gli impedì di presentare, su richiesta del papa, proposte per porta Pia, mirabilmente
documentate dagli straordinari "concetti" conservati in casa Buonarroti, a Haarlem (Teylers
Museum) e a Windsor (Royal Library). In questo periodo tardo gli venne ancora, di lontano,
una commissione di grandissimo prestigio: Caterina de' Medici, poco dopo la morte di
Enrico II re di Francia (luglio 1559), chiese a Ruberto Strozzi di fare da intermediario
presso il B. perché facesse una statua equestre del marito.

Il maestro dovette proporre per il monumento il suo allievo e amico Daniele da Volterra, ma
s'impegnò a dirigere il lavoro (disegno nel Rijksmuseum di Amsterdam: Dussler, 1959, n.
244, ill. 146). Poiché Daniele morì nel 1566, fu eseguito solo il cavallo (distrutto nel 1793:
Barocchi, in Vasari, IV, pp. 1946-1952, e A. Gotti, I, pp. 349 s.; II, pp. 144-148).

Non bisogna trascurare, tra gli aspetti della personalità del B., il suo atteggiamento verso il
mondo che lo circondava e, in particolare, verso la gente semplice.

Nonostante, infatti, le sue esigenze spirituali e la sua amicizia con persone di grandissima
cultura, egli amava anche circondarsi di artisti modesti come A. Mini, Bugiardini, Condivi,
ecc., ai quali prestava il suo aiuto; e aveva inoltre forti legami affettivi con i domestici e con
i parenti. Quando, alla fine del 1555, morì Francesco Amadori detto l'Urbino, che era stato
per lunghi anni suo servitore, il B. rimase profondamente sconvolto, come prova la lettera al
nipote Leonardo (4 dic. 1555: Milanesi, 1875, pp. 314 s.); anche la corrispondenza con la
vedova Cornelia che era ritornata a Casteldurante, sua patria, con i due figli è testimonianza
di un caldo sentimento di umanità (Milanesi, 1875, pp. 542, 556 s.; Frey, pp. 351-354, 360-
70).

La morte di Michelangelo, lungamente attesa, avvenne, dopo una breve malattia, il 18 febbr.
1564, verso sera; assieme ai due medici erano presenti Tommaso de' Cavalieri e Daniele da
Volterra: proprio due giorni prima aveva espresso il desiderio di essere sepolto a Firenze. Il
10 marzo le sue spoglie giunsero nella sua città e vennero portate alla compagnia
dell'Assunta e quindi a S. Croce (la tomba è del Vasari, ed altri, 1570). Le esequie solenni,
organizzate dagli artisti fiorentini, ebbero luogo in S. Lorenzo il 14 luglio e B. Varchi
pronunciò l'orazione funebre; una minuziosa descrizione fu pubblicata nello stesso anno
presso Iacopo Giunti (Esequie del divino Michelagnolo Buonarroti..., Firenze 1564;
edizione in facsimile, con traduz. ingl. a fronte, in R. e M. Wittkower, The divine
Michelangelo..., London 1964, pp. 49-133-9 cui si rimanda anche per la ricostruzione della
morte del B. nonché delle decorazioni in S. Lorenzo).

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