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7 febbraio 2023 - 08:44 > Versione online

Transumanesimo e bioetica personalista

a confronto

06 Febbraio 2023Interviste filosofiche

La tecnica a servizio dell’uomo o l’uomo a servizio della tecnica? Questo è il grande

dilemma che vede spesso confrontarsi e scontrarsi la posizione transumanista e quella

personalista della bioetica. Il Transumanesimo è nato negli anni ‘80 nelle università

americane e incentiva l’uso della tecnica al fine di superare i grandi limiti della natura

umana come la vecchiaia e la morte. Oggi grandi progetti transumanisti sono capitanati

da personalità del calibro di Elon Musk, Mark Zuckerberg (...).

La bioetica personalista vede nel cardinale Elio Sgreccia il suo più grande esponente e

pone la persona umana al centro della riflessione etica subordinando anche la tecnica a

essa.

Un organo assai importante fondato sui principi della bioetica personalista è sicuramente

la Pontificia Accademia per la Vita che si interroga sulle grandi questioni di inizio e fine

vita ma anche sull’uso della tecnica nei diversi settori che permeano il nostro vissuto. È

per questo che abbiamo intervistato Andrea Ciucci coordinatore della sede centrale della

Pontificia Accademia per la Vita.

A dar voce invece alla posizione transumanista Alessandra Calanchi, professoressa di

letteratura anglo-americana all’università di Urbino e influenzata nei suoi scritti dalla

prospettiva transumanista.

Di seguito vi proponiamo quindi una doppia intervista che mette in evidenza le differenti

posizioni.

1) I grandi limiti dell’uomo da sempre sono la vecchiaia, la malattia e la morte. Gli

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studi sull’immortalità, sulla cura delle malattie e contro l’invecchiamento

potrebbero rivoluzionare il concetto di limite, quale dovrebbe essere quindi,

secondo Lei, il rapporto tra natura e tecnologia?

Alessandra Calanchi: È un tema lungamente dibattuto, quello del rapporto fra natura e

cultura, o fra natura e tecnologia. Ma a mio parere si basa su un falso problema, o

meglio su un’illusione a sua volta generata da una dicotomia discutibile. La natura può

essere buona ma anche no (come ci ha insegnato Leopardi) e lo stesso vale per la

tecnologia.

Thoreau, filosofo americano dell’800, quando include il fischio del treno fra i canti degli

uccelli nel capitolo di Walden intitolato “Sounds”(Suoni) lo aveva capito benissimo, che

non si poteva tornare indietro ed era meglio cercare una convivenza pacifica tra natura e

tecnologia. Per non parlare di The Man that Was Used Up(L’uomo che fu consumato) di

Edgar Allan Poe, un personaggio composto interamente di protesi artificiali, voce

compresa.

Oggi viviamo in un’era geologica che è stata chiamata Antropocene, ma dobbiamo

ricordarci che questa parola non significa Antropocentrismo, ma si riferisce invece ai

danni irreversibili che l’uomo ha fatto alla natura. L’uomo, si badi bene – non una

qualche tecnologia sfuggita al suo controllo.

Andrea Ciucci: Il rapporto tra natura e tecnologia è un tema classico della riflessione

contemporanea. Al contempo, io credo, mal posto. Quasi che da un lato esistesse una

natura pura, incontaminata, e dall’altro un apparato tecnologico che si distanzia,

trasforma, defigura la realtà. Non è così. Per un verso l’esperienza della natura che

l’uomo fa è sempre culturalmente mediata: si dà in un linguaggio e in un contesto, anche

tecnologico. Dall’altro la tecnologia fa parte della vita umana, sin da quando gli uomini

hanno acceso un fuoco per scaldarsi e usato un sasso per cacciare; è in qualche modo

connaturale con l’esperienza umana.

L’uomo “per natura” usa artefatti tecnologici e abita il mondo in modo tecnologico. In

questo senso i limiti sono sempre stati sfide con cui l’umanità si è confrontata ed è

cresciuta. Quindi si tratta non tanto di tracciare un limite in astratto e rigido, ma di

valutare in modo dinamico l’insieme dei fattori che consente di superare i limiti (come

l’uomo ha sempre fatto) senza disumanizzare le persone e la convivenza delle comunità.

Il che significa vigilare sulla velocità della trasformazione, sulla interazione tra i diversi

cambiamenti, sull’equilibrio complessivo che siamo in grado di custodire.

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2) Che ruolo ha oggi l’etica? Di che tipo di etica ha bisogno l’uomo oggi?

Alessandra Calanchi: Gli uomini e le donne di oggi hanno bisogno più che mai di

riconoscere il vero nemico, che non è la tecnologia ma il pregiudizio (le cosiddette bias),

l’avidità, la sete di profitto umana. C’è un disperato bisogno di etica, un’etica della

responsabilità. Non serve, anzi è dannoso incolpare le macchine. Il genere umano deve

assumersi le sue responsabilità e ammettere le sue colpe davanti alle generazioni

future, se lascerà loro lo spazio di svilupparsi.

Ci scandalizziamo che l’Europa sia riprecipitata nella guerra, ma quante guerre sono

combattute sul pianeta lontano dai riflettori mediatici? Abbiamo bisogno di pace, ma la

pace si costruisce abolendo le diseguaglianze che sono state create in un’epoca molto

antecedente l’intelligenza artificiale e il machine learning. Una motivazione che ha

recentemente portato lo scienziato svedese Svante Paabo a ricevere il Nobel per i suoi

studi sull’evoluzione umana è che le sue scoperte hanno fornito le basi per “esplorare

ciò che rende noi esseri umani così unici”. Sono molto curiosa di leggere i suoi scritti...

Andrea Ciucci: Le incredibili possibilità che l’uomo contemporaneo sperimenta quot

idianamente impongono una domanda di senso e di bontà. Per questo lo sviluppo

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tecnologico chiede continuamente una riflessione etica, perché non è detto che una

cosa sia buona solo perché siamo capaci di realizzarla. Dentro questa urgenza, credo

che oggi l’etica debba essere globale (il mondo è diventato un piccolo villaggio in cui le

vite di tutti sono incredibilmente interconnesse), olistica (capace cioè di integrare saperi

e questioni diverse), dialogica (cioè frutto di quel confronto di posizioni caratteristico di

una società plurale).

3)Nella storia del pensiero “persona” è stata definita come un’unità di anima e

corpo ma anche come un essere in grado di autodeterminarsi e in relazione.

Secondo Lei tramite la tecnologia oggi è possibile dare una nuova definizione di

persona?

Alessandra Calanchi: Non tramite la tecnologia... ma certamente la persona,

incorporando parti tecnologiche (protesi, pace maker, bypass, occhiali, apparecchi

acustici, ecc.), è già una persona diversa dai nostri antenati. Così come è diversa da loro

perché mangia cibi transgenici, si vaccina, assume farmaci, respira aria viziata, beve da

bottigliette di plastica (con cui, peraltro, sta distruggendo il suo stesso habitat).

Ribadisco: siamo noi i nemici peggiori della natura, noi umani. Purtroppo. E ammetto di

essere molto affascinata dagli organismi cyborg di Donna Haraway e dagli androidi di

Philip K. Dick, perché mi sembrano molto più umani di noi.

Andrea Ciucci: Il pensiero aristotelico, assunto dalla tradizione cristiana occidentale, ha

fatto del binomio anima-corpo il modello antropologico esplicativo della realtà umana. La

tradizione semitica, reperibile anche nella Bibbia, parla di spirito-anima-corpo, cioè non

di sostanze diverse, ma di prospettive diverse su un unico soggetto. Altre tradizioni

culturali hanno ancora ulteriori modelli interpretativi. Più recentemente si è affermato,

soprattutto nel contesto europeo, in concetto di persona. Il mistero della vita continua a

interrogare l’uomo e a generare una riflessione che cresce e si sviluppa nei diversi

contesti culturali. La tecnologia che potentemente attraversa tutti gli aspetti della vita

umana certamente impone nuove domande alla perenne riflessione antropologica.

4) La relazione tra anima e corpo oggi è messa alla prova dal mondo del digitale

come il metaverso ma anche da future tecnologie come la mind up-loading. Può

esistere un'anima senza un corpo o un corpo senza anima dunque?

Alessandra Calanchi: Ammesso che l’anima esista (comunque la si voglia chiamare)

non so cosa darei per saper rispondere a questa domanda! Provocatoriamente, mi sento

di dire che la relazione tra anima e corpo è stata oggetto di discussione fin dai tempi più

antichi, e che le diverse culture la declinano in modo molto diverso tra loro. Noi

occidentali amiamo le dicotomie, ma in altre civiltà i confini sono meno marcati. Inoltre,

parliamo di corpo intero o delle sue parti? Se uno perde le gambe, perde un pezzetto di

anima? Certamente la letteratura e il cinema si interrogano da molto tempo su questo

tema: anni fa ho dedicato un libro che si intitola Dismissing the Body (Fare a meno del

corpo) proprio a questo mosaico di parti (anche astratte) che costituiscono la nostra

identità– fisica e psichica, visibile e invisibile, reale e virtuale. Il corpo in sé, così com’è

tradizionalmente inteso, mi sembra francamente poco interessante.

Andrea Ciucci: Non sono un esperto delle tecnologie cui fa riferimento, ma

onestamente non mi pare che la relazione anima-corpo, tipica di una certa antropologia,

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sia messa alla prova dal mondo digitale.Però va detto che ci sollecita a pensare in modo

nuovo e a trovare nuovi equilibri.

5) Quale posto trova la giustizia sociale in un mondo in cui l’avanzamento

tecnologico e scientifico rischia di creare ulteriori divari sociali?

Alessandra Calanchi: Questo è un punto cruciale. Nel momento in cui

l’avanzamento tecnologico e scientifico è orientato al profitto e non al

miglioramento delle condizioni umane di tutti gli abitanti del pianeta, può solo

creare disagio e ingiustizia sociale. Solo lavorando in modo responsabile,

trasversale, sostenibile e interdisciplinare potremo (potremmo?) far fronte al

crescente divario sociale, alle ingiustizie sempre più drammatiche e alla crisi che

chiamiamo ambientale ma che in realtà è soprattutto politica.

Andrea Ciucci: È decisiva. L’avanzamento tecnologico porta in sé la promessa e le

possibilità per uno sviluppo più equo e giusto dell’umanità; di fatto, però, vediamo

che la tecnologia genera distanze e ingiustizie. Invece di appianarle le amplifica.

Oggi lo sviluppo tecnologico è campo primario della riflessione etico sociale.

6) Perché il transumanesimo può essere la giusta risposta antropologica per il

futuro?

Alessandra Calanchi: Io studio letteratura, non sono né un’antropologa né una

sociologa, e non amo particolarmente le etichette. Ma mi sento di dire che la vita è

cambiamento e accettazione del cambiamento. Il transumanesimo ha conosciuto

varie fasi e accoglie diverse posizioni al suo interno, e quello che mi interessa è

l’umano come processo e non come qualcosa di fisso e inamovibile. L’evoluzione

è un fatto e che ci piaccia o no dobbiamo farcene una ragione. C’è stato un

periodo in cui la teologia e la scienza dichiaravano eretici (e bruciavano) chi

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sosteneva che non fosse il Sole a girare intorno alla Terra. C’è stato un periodo in cui

interi popoli sono stati rapiti, fatti schiavi e venduti come merce e non erano riconosciuti

come esseri umani. Attenzione a idealizzare il passato. Chi siamo noi per decidere chi,

in futuro, sarà o non sarà da considerarsi umano?

6) perché la bioetica personalista può essere la giusta risposta antropologica per

il futuro?

Andrea Ciucci: Non amo le etichette. Preferisco occuparmi delle questioni. Da

appassionato della vita non posso non custodire ogni persona umana. E proprio perché

ho a cuore le persone reali più che un modello antropologico, mi sembra decisivo

custodirle nella loro storicità dinamica e nelle loro relazioni costitutive con gli altri e nella

biosfera che abitano.

*Tutte le immagini sono fotografie delle opere di Emilio Tadini. Scattate durante una

visita alla sua casa museo di Milano che suggerisco a tutti di visitare.

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