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Introduzione.
L'attività bancaria moderna nasce di fatto nella prima metà del
XIX secolo, per effetto di due fattori fondamentali. Il primo È lo svi-
luppo economico e la domanda di capitali che esso comporta. La
costruzione delle ferrovie È esemplare da questo punto di vista. Per
potere raccogliere i capitali richiesti, i banchieri organizzano la rac-
colta di risparmi, che remunerano con l'interesse passivo, e presta-
no denaro agli imprenditori ferroviari. Nasce così la banca come la
conosciamo noi.
Il sistema finanziario cominciò a svilupparsi in primo luogo in Fran-
cia, con quello che si chiamò il credito mobiliare. Il banchiere non È
più un singolo che rischia denaro proprio, ma un imprenditore, un
organizzatore di attività, che opera col denaro dei risparmiatori. Que-
sta trasformazione È resa possibile dallo sviluppo della società per
azioni, cioÈ di una associazione in cui i soci impegnano solo una par-
te dei propri patrimoni, e la società ha una responsabilità limitata al
proprio patrimonio e non a quello dei soci. In questo modo il rischio
era tenuto sotto controllo, e si potevano costituire i capitali necessa-
ri per attività di grande respiro. L'attività bancaria nella prima metà
del XIX secolo È cosa profondamente diversa dalla vecchia attività
dei banchieri, e per questo si pone subito, a tutela dei risparmiatori,
il problema del suo controllo.
Il secondo fattore di sviluppo È l'attività finanziaria dello Stato. Gli
Stati europei non erano mai riusciti a finanziare la propria attività
soltanto con le imposte, e così facevano sistematicamente ricorso al-
l'indebitamento con i banchieri. Per non essere eccessivamente di-
pendenti da questi, gli Stati si rivolsero direttamente ai risparmiato-
ri attraverso l'invenzione della rendita, cioÈ di un titolo per cui lo
Stato si obbliga a restituire a scadenza fissa la somma versata dal ri-
sparmiatore, pagando un certo interesse. Il titolo di rendita era com-
merciabile, e quindi era un patrimonio facilmente realizzabile in caso
di bisogno; inoltre dava un rendimento sensibilmente superiore a
quel che, ad esempio, poteva dare lo stesso patrimonio sotto forma
di terreni, per cui c'era un interesse a investire in titoli di rendita e
quindi a rinnovare i titoli alla scadenza. Lo Stato così si indebitava,
ma a carico del suo bilancio c'erano in pratica soltanto gli interessi,
10 INTRODUZIONE
INTRODUZIONE lI
Istituti di emissione
Cassa depositi e prestiti
Società ord. di credito
Casse di risparrnio
Banche popolari coop.
Istituti di credito agrario
Istituti di credito fondiario
Assicurazioni
Passività
1870
1466,8
237,6
398,3
51,2
0,6
36,9
11,0
2202,4
(mil) Ripartizione
1890 1870
2154,1 66,6
1372,0
1376,7 10,8
1428,1 18,1
625,4 2,3
54,5 0,0
883,2 1,7
80,0 0,5
7974,0 100
(~)
1890
27,0
17,2
17,3
17,9
7,8
0,7
11,1
1,0
100
ILR1~111~0 DOPO L~JNITA (1861-93) 17
Nel corso delle varie crisi gli istituti di emissione erano stati chia-
mati più volte ad intervenire per salvare le banche. In cambio otte-
nevano dal potere politico una acquiescenza di fatto alla violazione
dei limiti fissati per l'emissione di biglietti, violazioni a cui il Parla-
mento concedeva sistematicamente una sanatoria. La situazione
era però assai confusa. Nel 1889 era stata ordinata una inchiesta su
questi istituti ed erano state accertate gravi irregolarità, soprattutto
nella Banca Romana. In sostanza gli istituti combattevano gli uni
contro gli altri per assicurarsi quanta più parte potevano della torta.
La lotta più dura era da parte degli istituti minori per evadere la co-
siddetta riscontrata, cioÈ l'obbligo di cambiare i biglietti propri in
mano di altri istituti di emissione, con biglietti di questi ultimi. La ri-
scontrata favoriva evidentemente la banca più forte, cioÈ la Nazio-
nale, ma È chiaro che non si poteva fare a meno di una norma di que-
sto tipo. Era una delle contraddizioni della molteplicità degli istituti
di emissione.
Nel frattempo stavano scadendo le concessioni per l'emissione di
biglietti. La Banca Nazionale e la Banca Toscana avevano finalmen-
te stipulato una convenzione per una futura fusione e il governo an-
dava preparando un progetto complessivo, che si basava su un com-
promesso, e cioÈ la ricostituzione di un consorzio tra gli istituti di
emissione e la istituzione di nuove norme che limitassero la circola-
zione cartacea. In attesa di discuterlo il governo propose di proroga-
re per sei anni la concessione della facoltà di emissione. Ma a questo
punto si scatenò la tempesta.
L'inchiesta del 1889, condotta da una commissione presieduta dal
senatore Alvisi, aveva accertato nella Banca Romana un vuoto di
cassa coperto con emissione abusiva di biglietti; la relazione però
era stata tenuta segreta dal governo. Lo scandalo scoppiò il 23 di-
20 STORIA DELLA 13ANCA IN ITALIA
cembre 1892 quando il deputato Napoleone Colajanni portò a co-
noscenza del Parlamento il contenuto della relazione e chiese un'in-
chiesta parlamentare.
Giovanni Giolitti, allora presidente del Consiglio, cercò di resiste-
re, ma dovette accondiscendere ad una inchiesta ministeriale su tut-
ti gli istituti di emissione. Per prima cosa gli ispettori trovarono che
il direttore della sede di Roma del Banco di Napoli aveva prelevato
oltre due milioni mettendo in cassaforte un pezzo di carta. La circo-
lazione eccedeva dovunque il limite legale e buona parte del porta-
foglio era costituito da cambiali di comodo.
La situazione peggiore era alla Banca Romana. C'era una circola-
zione clandestina di quaranta milioni in parte con biglietti duplicati,
quindi falsi; venti milioni di mancanza nella cassa; contabilità e bi-
lanci falsi. Il governatore della Banca, Bernardo Tanlongo, fu arre-
stato.
Cominciò allora un gioco oscuro di ricatti e di coperture di respon-
sabilità. Giolitti cercò di evitare fino all'ultimo l'inchiesta parlamen-
tare, ma poi dovette arrendersi. Divenne allora chiaro che Tanlongo
aveva finanziato molti parlamentari del governo, e fatto anticipazio-
ni a Francesco Crispi ed allo stesso Giolitti. Questi dovette dimetter-
si. Ma gli successe Crispi il quale era stato uno dei profittatori, a ri-
prova del fatto che gli scandali fanno vittime dovunque ma chi ne
profitta politicamente è la destra. Tanlongo al processo fu assolto, e
non si riuscì mai a capire perché, mentre il direttore della sede di
Roma del Banco di Napoli fu duramente condannato. Difficile allo-
ra come oggi pretendere dalla magistratura che non discrimini tra le
situazioni secondo la persona dell'imputato.
Ma lo scandalo non fu la sola iattura della fine del secolo per il si-
stema bancario italiano. A pochi mesi di distanza l'uno dall'altro fu-
rono posti in liquidazione il Credito Mobiliare e la Società Genera-
le, in sostanza, quando si fosse fatta eccezione per gli istituti di emis-
sione, l'intera banca degna di questo nome in Italia. La caduta fu
certo accelerata dallo scandalo della Banca Romana, ma aveva ori-
gini assai profonde.
La Società Generale di Credito Mobiliare e la Banca Generale Ita-
liana fin dall'origine, più che fare come gli istituti di credito ordina-
rio, che raccoglievano depositi e scontavano cambiali, lavoravano
nella compravendita di titoli, azioni, obbligazioni ed altro, e assiste-
vano le società industrjalj nell~emissione di azioni. Se si fossero mes-
se a ricorrere ai depositj dei risparmiatori avrebbero messo a rischio
il loro denaro e non il proprio, rappresentato dal capitale. Ma non
era facile in Italia raccogljere capitale, a differenza di quantO awe-
Istituti di en~issione
Sobetà ordinarie di credito
(~e di risparmio
Ca~;a depositi e prestiti
Monli di pegno
Banche popolari cooperative
(~e nLrali e artigiane
Is~ti di credito agrario
kfi~i di credito fondiario
Compagnie di assicurazione
COMIT e CREDIT
Accanto alle due grandi banche una terza stava iniziando una espan-
sione che in breve sarebbe diventata vertiginosa: il Banco di Roma.
Questa era una piccola banca, costituita nel 1880 ad opera dell'ari-
stocrazia clericale romana (presidente era Ernesto Pacelli), ed ave-
va vivacchiato nell'attività locale finanziando l'agricoltura e le pic-
cole attività commerciali. L'espansione in Italia era in pratica bloc-
cata dalla soverchiante presenza delle due grandi banche milanesi,
ed allora il Banco di Roma scelse deliberatamente l'espansione al-
l'estero, soprattutto nel bacino del Mediterraneo. Si aprirono sedi
in Libia, allora sotto la sovranità della Turchia, dove ci si espanse
promuovendo la costituzione di imprese per il mercato locale e di
compagnie di navigazione, e cercando di controllare il finanziamen-
to del commercio tra l'ltalia e quella parte dell'Africa. Una parte as-
sai significativa avevano gli investimenti immobiliari in tutta l'area
mediterranea.
All'interno, il Banco di Roma perseguì una politica di espansione
accelerata, attraverso la fusione con altre banche che andava man
mano rilevando. I rapporti con la politica erano assai più intensi che
non quelli delle altre grandi banche, ed era in diretto legame con la
monarchia e con il Vaticano. A motivare la politica di espansione
c'era anche l'obiettivo di costituire un sostegno finanziario per un
partito conservatore cattolico. Il Banco fu accusato dalla stampa di
essere uno dei sollecitatori della guerra di Libia, per potere espan-
dere ancora di più i propri interessi. La politica dei finanziamenti
era assai spregiudicata e le partecipazioni alle imprese, con relativa
immobilizzazione del credito, erano la norma.
L'espansione era sostenuta attraverso un aumento del capitale
piuttosto che della raccolta in depositi e portafoglio. Nel 1911 il Ban-
co superò la Banca Commerciale negli impieghi, diventando la più
grossa banca italiana, ma le restò nettamente inferiore come raccol-
ta. Le giacenze di liquido, che dovevano costituire per le banche una
misura di sicurezza in caso di richieste di rimborso da parte dei ri-
sparmiatori, erano assai scarse. Il meccanismo degli aumenti di ca-
pitale era al limite del lecito, e forse oltrepassava questo limite. Per
assicurarsi una base più larga, il Banco cambiò la base del proprio
azionariato, passando dalle famiglie legate al Vaticano alle banche
cattoliche cooperative, e la responsabilità della gestione dell'istituto
passò da Pacelli a Vicentini. Sotto la pressione del papa Benedet-
to xv si era costituita nel 1914 la Federazione Bancaria Italiana, che
comprendeva molte banche cattoliche. La federazione aveva fonda-
to una banca propria, il Credito Nazionale, che aveva assunto una
partecipazione notevole nel capitale del Banco di Roma, ma era lo
stesso Banco di Roma che lo finanziava. Non era una partecipazio-
ne incrociata, in quanto il Banco non controllava il Credito Nazio-
nale, ma era ancora peggio, perché il credito verso il proprio azioni-
sta era praticamente inesigibile. Piuttosto che partecipare a tale im-
broglio, buon numero di banche cattoliche si trasformarono da coo-
perative in società per azioni, per godere della protezione di
normative più severe. La sistematica incorporazione di altre banche
portava ad altre contraddizioni, perché i crediti delle banche che si
assorbivano erano spesso assai incerti.
Il dissesto non era evitabile e nel 1914 non si poté fare a meno di
render note le perdite e svalutare il capitale. Il Banco diventava il
punto più debole del sistema. Le cause riguardavano anche la natu-
ra e la capacità del suo gruppo dirigente, che non aveva il respiro, la
qualificazione professionale e l'apertura internazionale di quelli
delle altre due grandi banche. Ma la verità È che nell'economia ita-
liana di allora non c'era lo spazio per un'altra grande banca.
Alla fine del decennio giolittiano, l'Italia si trovò di fronte all'esau-
rimento dello slancio che le aveva consentito un progresso significa-
tivo, di cui avevano beneficiato in primo luogo le classi abbienti, ma
che aveva portato a gettare le basi dello sviluppo industriale. A que-
sto punto era necessario un salto di qualità nella capacità imprendi-
toriale, una estensione del processo ancora concentrato in una par-
te del paese. Le banche avevano supplito nella fase iniziale, ma non
potevano far tutto, era la classe imprenditoriale che doveva fare il
salto, e per questo erano necessarie condizioni politiche diverse.
Nel periodo finale della sua egemonia Giolitti abbandonò la formu-
la politica dell'apertura a sinistra che aveva costituito la cornice del-
lo sviluppo, e ripiegò verso l'alleanza con i moderati e i clericali, spa-
ventato dall'avanzata del movimento operaio, che la sua stessa poli-
tica aveva permesso. Si era alle soglie della prima guerra mondiale e
questa non poteva che aggravare le contraddizioni.
esposta, le due glandi ban~e, e poi direttamente, e per cifre non in-
differenti la Band'Ita~a, mentre compariva la Società per le stra-
de ferrate me~idionali di Bastogi, che era diventata una grande so-
cietà fin~ia
n sahra~afu realizato nel 1911, sempre per iniziativa della
Band'Italia e con l'intervento del govemo che, come al solito,
consentì alla banca (r)ntrale di finanziarsi attraverso l'emissione di
moneta n p~oed~nento segu~to era complicato, e coinvolgeva l'in-
tero sslema ban0rioincluse le Casse di risparmio. Si costituì un
consorz~o di finanz~amento, secondo lo schema già collaudato e l'in-
dustria poté respu~re. La Banca Commerciale però finanziava di-
rettamente la Terni, che era la società capogruppo dell'intera indu-
stria e h cosa dovrà rn~elarsi decisiva nel momento in cui una crisi
ancora piiù forte acl ullerà aUa banca il peso di tutto il passivo deUa
siderur~a
Altro fatto importante, la costituzione della Banca Italiana di
Sconto che assorbe la Società Bancaria Italiana. L'iniziativa parte
da una piula banca di provincia, la Banca di Busto Arsizio, il cui
diretlore, Ang~lo Pogliani, mette in atto un ambizioso piano di svi-
luppo, puntando in modo esplicito suUa politica e cercando di ap-
profi~are della nomea di filogermanesimo della Banca Commer-
~ialeperilreperimentodicapitali. Legandosi ai nazionalisti, Poglia-
ni punta sull'apporto di capitali francesi, e così riesce ad espandere
ristituto che dir~va, trasformandolo in Società di Credito Provin-
ciale n suo interesse ad espandersi s'incontrò con quello della fami-
glia Perrone, che dal 1902 controUava l'Ansaldo, facendone la più
glande indus~ia italiana di armamenti. Insieme acquistarono il con-
trollo deUa Società Bancaria Italiana e la fusero con la Società di
Credito Pr~ale, dando luogo aUa Banca Italiana di Sconto.
Questa perseglù una politica di rapidissima espansione, e durante
laguem arriwpersino a superare la Banca Commerciale come vo-
lume di at~ora però un istituto legato intimamente a certi am-
bienti poliche i Perrone finanziavano, e nei suoi finanziamenti il
peso dell'industria belL;ca era determinante. Inoltre, aveva eredita-
to tutte le si~uazioni pericolose della Bancaria e la sua gestione ri-
mase sempre awent~sa, sulle orme della società incorporata.
n te¯ evento rilevante fu la costituzione del Consorzio per Sov-
venzioni su Valori Industriali, concepito da Stringher per avere una
rete di protezione all'approssimarsi del conflitto. Suo compito era
quello di finaoAare le imprese prendendo in garanzia i titoli delle
stesse Alla luce deUe passate esperienze, Stringher voleva dotarsi
di uno strumento permanente di intervento per superare le crisi del-
le imprese, bancarie ed industriali, senza dover procedere di volta in
volta ricominciando daccapo, soprattutto nel momento in cui la si-
tuaz~one internazionale si andava facendo minacciosa e le prospet-
GUERRA, DOPOGUERRA, CRISI (1913-26) 37
Le banche e la guerra
oeta. Finché nel 1923, dopo l'awento del fascismo, e dopo aver otte-
nuto dal Vaticano tramite interventi assai discreti, il cambiamento
nella direzione deila Banca con l'allontanamento del suo direttore
Vicentini, si pervenne ad una sistemazione di durata più lunga. Le
partecipazioni e le immobilizzazioni del Banco di Roma venivano
cedute alla Società Finanziaria per l'Industria e il Commercio, che
dava questi titoli in garanzia per lo sconto di cambiali alla Sezione
Autonoma del Consorzio Sowenzioni. La Sezione Autonoma era
finaoziata dalla Banca d'Italia, e così questa finanziava indiretta-
mente il Banco di Roma. Ma non si trattava di solo finanziamento,
in quanto la Società Finanziaria entrava in possesso delle azioni del
Banco di Roma di proprietà del Credito Nazionale, che era stato
obbligato a cederle a basso prezzo, e quindi la Banca d'Italia, attra-
verso l'interposizione del Consorzio Sowenzioni e della Società Fi-
nanziaria, controllava non solo le attività industriali che dal Banco
provenivano, ma il capitale dello stesso Banco.
Tutta la prima metà degli anni Venti È un periodo turbolento per il
sistema bancario italiano. L'inflazione alimentava le speculazioni
più assurde, al limite della truffa. Un tal Marinelli, impiegato cac-
ciato dalle ferrovie per assenteismo, riuscì a costituire per breve tem-
po un piccolo impero col sistema di comprare a basso prezzo piccole
banche in difficoltà per mancanza di mezzi propri, ma con buoni de-
positi. Quando doveva pagare i debiti, comprava altre banche, fin-
ché la catena di S. Antonio non fu interrotta. Anche le grandi ban-
che, come la COMIT, furono toccate da difficoltà nella propria liqui-
dità, ma superarono la situazione. A questa situazione pose fine la
politica di deflazione attuata dal governo nel 1926, ma le banche si
portavano dietro tutta la loro intrinseca fragilità.
Di fatto questi anni segnano, anche a causa delle ripetute crisi, una
più forte presenza dello Stato nel sistema. Questo aweniva anche su
un terreno diverso dal finanziamento dell'industria, grazie a due ini-
ziative che in quel periodo prendono corpo.
La prima È il finanziamento delle opere pubbliche. Con la crescita
economica il bisogno di infrastrutture era aumentato, e la debole fi-
nanza locale non era in grado di approvvigionarsi dei mezzi neces-
sari. Il problema fu affrontato con la costituzione del Crediop, Con-
sorzio di Credito per le Opere Pubbliche, costituito nel 1920 col go-
verno di Francesco Saverio Nitti, che era un sostenitore dell'inter-
vento dello Stato nell'economia. Il progetto fu affidato ad Alberto
Beneduce, che diventerà una delle figure chiave della storia econo-
mica dell'Italia contemporanea. Questi era un professore di statisti-
ca, socialista riformista, legato a Nitti, ed era consigliere delegato
La politica delfascismo
L'awento del fascismo aveva portato fin dai primi tempi ad una
nuova concezione, assai più esplicita, dell'intervento dello Stato.
Le crisi e i salvataggi tra il 1920 e il 1923 non avevano certo risolto
tutti i problemi e tanto le banche quanto l'industria continuavano a
navigare in un alternarsi di brevi periodi di espansione e ricadute
spesso inaspettate. Così dopo un periodo di credito facile negli anni
di crisi, quando il governo fascista adottò una politica di deflazione,
le banche si trovarono in serie difficoltà. Particolarmente significa-
tiva fu la crisi del gruppo di banche cattoliche che facevano capo al
Credito Nazionale. Lo Stato, ormai controllato dai fascisti, lasciò
aggravare la crisi perché intendeva colpire uno dei punti di forza del
Partito Popolare. Si procedette ad una serie di incorporazioni e fu-
sioni; così la Banca Vicentina diventò, incorporando sei piccole
banche locali, la Banca Cattolica del Veneto, che in anni recenti do-
veva fondersi col Banco Ambrosiano, dando luogo all'Ambroveneto.
La fragilità del sistema era ormai abbastanza evidente. Da tempo
Stringher pressava perché alla Banca d'Italia fossero dati i poteri di
ispezionare le banche private per controllare che le operazioni non
andassero oltre certi limiti. Nel 1913 Francesco Saverio Nitti aveva
preparato un progetto di legge per istituire la vigilanza sul sistema
bancario, affidandola alla Banca d'Italia, ma non riuscì a farlo ap-
provare dal Parlamento, perché l'opposizione delle banche private
era fortissima. Nel clima del nuovo regime l'obiettivo era certamen-
te più facile da perseguire. Beneduce preparò per incarico di Strin-
gher un progetto che nel 1926 divenne legge.
La base ideologica della legge era che il risparmio È materia di in-
teresse nazionale e deve essere tutelato dallo Stato. La Banca d'Ita-
lia diventava anche formalmente un organo pubblico e l'unico isti-
tuto di emissione. Ad essa veniva affidata la vigilanza sul sistema
creditizio: nei confronti di questo venivano stabiliti un insieme di
obblighi e fissati certi requisiti, come capitale minimo, rapporto mi-
nimo tra impieghi e depositi, limiti di fido, accantonamenti a riserva
obbligatori.
La storia delle banche italiane fino al 1926 È storia dei rapporti tra
banca e industria. Protagoniste furono le grandi banche miste e le
grandi imprese che si costituivano e si affacciavano alla vita econo-
mica del paese per assumervi rapidamente una funzione dominan-
te. Il peso delle banche commerciali aumenta fortemente nel perio-
do, ma ciò non vuol dire che l'Italia fosse diventata un paese moder-
no. La struttura dell'economia italiana era ancora agricola in modo
predominante, mentre la struttura dell'industria era ancora fondata
sulla presenza di un gruppo di grandi imprese ed una miriade di pic-
colissime altre imprese, dedicate al mercato locale o subfornitrici
J delle grandi. Anche i servizi, con la sola eccezione delle compagnie
di navigazione, erano legati o a una dimensione esclusivamente
locale, molto limitata, o alle grandi imprese.
Il riflesso di questa struttura economica su quella del credito È evi-
dente. La fonte principale di risparmio delle famiglie era costituita
dai produttori dell'agricoltura, ed È comprensibile che questi fosse-
ro restii ad impegnarsi nella sottoscrizione di capitale di rischio del-
le imprese. Il risparmio era raccolto dalle Casse di risparmio e dalle
numerose piccole banche, comprese quelle cooperative, i cui impieghi
erano di natura locale e che finanziavano l'artigianato, il piccolo com-
mercio e soprattutto le costruzioni di abitazioni. Il risconto collegava
questo sistema di banche minori alle grandi, in quanto le prime ricorre-
vano alle seconde per le loro necessità di finanziamento. In pratica
quindi il sistema riusciva a trasferire alla parte dinamica dell'economia,
le grandi imprese, il risparmio che si formava nell'agricoltura. Nel siste-
STORIA DELLA BANCA IN ITALIA
Passivo
Istituti di emissione
Società ordinarie di credito
Ditte bancarie
Istituti di diritto pubblico
Casse di risparmio
Cassa Depositi e Prestiti
Monti di pegno
Banche popolari cooperative
Casse rurali e artigiane
Istituti di credito agrario
Istituti di credito fondiario
Istituti di credito mobiliare
Assicurazioni
1913
3313
3473
3403
3990
312
157
100
44
997
738
,,REDrrlZ10 (1913-27)
(milioni)
1927
23.730
42.066
2172
4705
18.252
17.234
1475
9395
1397
721
2142
2889
7307
Ripartizione %
1913 1927
18,5 17,8
19,4 31,5
- 3,5
19,0 13,7
22,2 12,9
1,7 1,1
8,8 7,0
0,6 1,0
0,2 0,5
5,6 1,6
- 2,2
4,1 5,5
Dire che la legge bancaria del 1926 segni un punto di arrivo sareb-
be fare una scelta di comodo. La realtà È che l'economia e il sistema
bancario italiano non si ripresero daUa crisi del dopoguerra, finché
l'economia e le istituzioni non cozzarono con la grande crisi del
1929 che doveva portare ad una trasformazione profonda del siste-
ma. Il periodo compreso tra le due guerre È tumultuoso per un siste-
ma bancario, attraversato da crisi ripetute che non investono soltan-
to le grandi banche finanziatrici dell'industria, ma anche le piccole e
medie istituzioni creditizie che avevano un giro di affari locale e che
erano riuscite a difendere, senza infamia e senza lode, una funzione
loro propria.
Le incoerenze e le scelte di puro prestigio della politica economica
del fascismo contribuirono non poco a creare ta1e situazione di in-
certezza e di confusione. L'inflazione postbellica si era protratta nel
tempo, in corrispondenza con un livello elevato della produzione in-
dustriale, e questo creava le condizioni per una espansione del cre-
dito in cui sembrava che tutto fosse possibile. Le istituzioni di credi-
to locali quindi si moltiplicarono, mentre le grandi banche comin-
ciarono a considerare la crisi della Banca di Sconto come un inci-
dente di percorso.
La spinta inflazionistica non poteva però non portare ad un peg-
gioramento del cambio della lira, che puntualmente si verificò. Il
governo cercò di sostenere la moneta italiana, intervenendo diretta-
mente sul mercato dei cambi attraverso il Tesoro, ma non c'era gran-
de spazio di manovra e dopo aver dissipato somme ingentissime, si
dovette gettare la spugna. La risposta fu una brusca inversione di
politica, con il discorso di Mussolini a Pesaro nell'agosto 1926, in cui
si comunicava la decisione di tenere la lira ancorata alla sterlina in-
glese, su una parità di novanta lire. Da cui la definizione di (r)Quota
Novanta¯ passata alla storia per questa politica.
Il riordinamento degli istituti di emissione ed il monopolio della
Banca d'Italia, nonché le decisioni in materia di vigilanza sulle ban-
che, sono coerenti con una politica deflazionistica sostenuta in pri-
mo luogo da misure amministrative. La legge bancaria fu accompa-
gnata da norme severissime sui limiti di credito che ogni istituto po-
48 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA
Per gli americani la crisi del '29 È stata a lungo il fatto più rilevante
della loro storia contemporanea. La crisi ebbe origine nel venerdì
nero della Borsa di New York il 24 ottobre 1929. Le sue cause sono
oggi più comprensibili. L'espansione senza precedenti dell'econo-
mia americana era stata alimentata da un indebitamento progressi-
vo delle imprese e da un boom di Borsa che alimentava la specula-
zione. Ingenti capitali monetari venivano rastrellati dall'Europa, at-
traverso le banche, e così il vecchio continente ristagnava. La bolla
infine scoppiò e le quotazioni delle azioni crollarono. Le banche che
avevano anticipato fondi assumendo in garanzia i titoli furono col-
pite e cercarono di incassare i propri crediti verso altre banche. Così
si mise in moto una reazione a catena che attraverso i rapporti fi-
nanziari internazionali provocò l'estensione della crisi in tutto il
mondo.
L'Italia fu investita in modo diretto nel 1931, dopo il fallimento
della Credit Anstalt di Vienna, che segnò il trasferimento della crisi
in Europa, ma le ragioni di una crisi, come si È visto, covavano da
tempo. La grande crisi fu solo lo scossone finale che impose le tra-
sformazioni. Le ragioni specifiche delle debolezze italiane erano
evidenti, in primo luogo l'eccessiva immobilizzazione derivante dal
rapporto banca-industria. L'intervento pubblico era riuscito solo ad
evitare che la situazione precipitasse e travolgesse il sistema indu-
striale, ma non a cambiare il funzionamento del sistema del credito.
Già nel 1930 il Credito Italiano era sull'orlo del fallimento. Il go-
verno dovette intervenire attraverso una pura e semplice erogazio-
ne da parte dell'Istituto di Liquidazioni. Per cercar di salvare la fac-
cia venne costituita dal Credito, d'accordo con il governo, la Società
Finanziaria Italiana che controllava la banca ed era finanziata dalla
stessa, secondo la ricetta che abbiamo visto essere diventata abitua-
le. Il decreto che decideva i finanziamenti al Credito insieme ad al-
tri, assai meno rilevanti ad alcune altre banche, fu tenuto segreto e
non pubblicato sulla Gazetta Ufficiale. C'era però un'importante
novità. Nella convenzione tra governo e Credito Italiano, redatta da
La costituzione dell'lRl
La legge bancana
La legge bancaria del 1936 doveva coronare l'opera e dare una si-
stemazione di lungo periodo. Essa fu dominata dall'idea della sepa-
razione tra banca e industria, e cambiò la natura dell'istituto di
emissione, che divenne anche formalmente pubblico. Alla base vi
era la concezione del risparmio come bene di interesse nazionale.
Come si È visto, questa era la concezione di Beneduce, e solo in pri-
ma approssimazione può essere considerata di origine corporativa,
quindi tipicamente fascista.
La separazione tra banca e industria derivava da questa concezio-
ne, ma rlon era affermata esplicitamente. Si seguì piuttosto la via di
dare dei poteri assoluti di ordinamento ad un comitato di ministri,
assistito da un organismo governativo, l'Ispettorato del Credito. Di
fatto, le prime disposizioni furono nel senso della separazione, e fu-
rono mantenute a lungo, anche quando, nel dopoguerra, l'Ispetto-
rato fu soppresso.
In questo modo si creava un sistema per cui il risparmio poteva af-
fluire al sistema bancario (Casse di risparmio, banche e Posta), o ai
titoli di Stato, o al capitale deUe imprese, ma la compartimentazio-
ne rendeva assai difficile il passaggio dall'uno all'altro impiego. Ne
derivava una debolezza organica per la formazione del capitale di
rischio, che era stata, come si È visto, la principale spinta alla costitu-
zione ed al funzionamento deUe banche miste. Si trattava di decide-
re se il fallimento deUe banche miste era del sistema o derivava dalla
n sistema bancario
Totale
Gli istituti principali erano la Banca di America e d'Italia, la più
grande banca di proprietà estera in Italia, costituita dalla Bank of
America di Amedeo Giannini; la Banca Nazionale dell'Agricoltura;
il Credito Romagnolo; la Banca Cattolica del Veneto, risultante dal-
la concentrazione delle banche cattoliche soprawissute alla crisi.
Le Casse di risparmio, organismi in cui la tradizione aveva un peso
notevole, si trovavano invece ancora in una fase di riorganizzazione
dopo i profondi mutamenti normativi intervenuti negli anni Trenta.
Subito dopo la guerra furono autorizzate ad esercitare praticamen-
te tutte le forme di attività bancaria, per cui diventarono banche come
tutte le altre, differendo soltanto per la natura giuridica che le assi-
milava ad una dipendenza dello Stato.
Le Casse erano particolarmente forti in Lombardia, Piemonte,
Veneto, l~io ed Emilia. La Cassa più importante, ed uno dei mag-
giori istituti di credito italiani, era la Cassa di Risparmio delle Pro-
vince Lombarde, che da sola aveva depositi per poco meno del 5%
del totale dei depositi di tutto il sistema creditizio.
Gli istituti di diritto pubblico avevano in più degli istituti di credito
e delle banche di interesse nazionale la facoltà di fare anticipazioni
agli enti pubblici. Gli istituti di diritto pubblico erano: il Banco di
Napoli; il Banco di Sicilia; il Banco di Sardegna, costituito nel 1946,
unicamente per dare alla regione uno strumento di prestigio; la Ban-
ca Nazionale del Lavoro, che abbiamo già visto svilupparsi rapida-
mente; il Monte dei Paschi di Siena e l'Istituto San Paolo di Torino.
Gli ultimi due erano istituti di origine locale, legati alle attività di
beneficenza, che si erano allargati al punto da richiedere una nor-
mativa più stringente, per cui erano stati portati sotto il controllo
dello Stato. L'Istituto San Paolo aveva preso le mosse nel 1579 da un
Monte di Pietà. Assunse l'attuale denominazione nel 1928 quando
si fusero insieme le diverse sezioni delle Opere della Compagnia di
San Paolo. Partecipò al salvataggio della Banca Agricola Italiana,
quella di Gualino, rilevandone gli sportelli in Piemonte e Liguria.
Nel 1932 era stato dichiarato istituto di diritto pubblico.
Il Monte dei Paschi era sorto nel 1624 per iniziativa della città di
Siena per finanziare le attività agricole dei proprietari terrieri, e per
;
,
l
lungo tempo la sua attività di gran lunga prevalente era stata il cre-
dito agrario e fondiario. Era diretto da un consiglio di otto membri,
quattro nominati dal Comune di Siena, uno dalla Provincia di Siena
e tre dal governo.
Le Banche Popolari erano cooperative che esercitavano il credito.
A poco a poco molte di esse erano andate perdendo il carattere coo-
perativo, per diventare delle vere e proprie società per azioni, go-
dendo però di agevolazioni particolari in funzione del loro carattere
originario. Nella prima metà del secolo se ne erano costituite in gran
quantità, seguendo l'espansione della cooperazione che si era avuta
nel periodo giolittiano, ma anche per esse si era resa obbligatoria una
concentrazione.
Infine, le Casse rurali ed artigiane esercitavano il credito agrario e
il credito all'artigianato. La loro incidenza nel sistema era scarsa,
ma localmente avevano un peso notevole.
Caratteristiche del sistema erano la frammentazione e l'impatto
dello Stato. I due terzi dei depositi erano presso le banche di inte-
resse nazionale, gli istituti di diritto pubblico e le Casse di risparmio.
Nell'orbita privata si muovevano soltanto le banche di minori di-
mensioni e le popolari. La grande banca era soltanto pubblica. La
crisi era stata superata, ma con una estensione imprevedibile del
potere statale.
STRUTTURA DEL
Banca d'Italia
Società ordinarie di credito
Istituti di diritto pubblico
Banche di interesse nazionale
Casse di risparmio
Cassa depositi e prestiti
Banche popolari
Casse rurali e artigiane
Istituti di credito fondiario
Istituti di credito agrario
Istituti di credito mobiliare
Istituti di assicurazione
Totale
Per l'e gli altri istituti il compito era più semplice. L'IMI era
ormai l'istituzione prevalente tra gli speciali; lavorava con le sezioni
di credito speciale con l'intervento di fondi pubblici e con quelli
raccolti da obbliga~ioni. La Banca d'Italia favoriva il ricorso alle ob-
bligazioni da parte dell'lMI perché questo corrispondeva all'antico
disegno di Menichella di separazione tra credito ordinario e credito
di investimentoseparazione che doveva awenire attraverso la dif-
ferenziazione netta delle fonti di finanziamento, i depositi per il pri-
mo e l'indebitamento a lungo attraverso le obbligazioni per i secon-
di Così la Banca d'Italia si sforzava di mantenere bassi i tassi, in modo
che non si accrescesse di molto l'onere per le imprese.
Alle banche il risparmio continuava ad affluire, ma lo sviluppo era
talmente accelerato da richiederne un volume crescente. Le banche
cominciarono quindi a farsi concorrenza tra di loro, offrendo tassi
passivi più alti per accaparrare un maggior volume di risparmio, fin-
ché nel 1963, per iniziativa in gran parte di Imbriani Longo, che ave-
va preso il posto di Osio aUa Banca Nazionale del Lavoro, non for-
marono un vero e proprio cartello per regolare i tassi attivi e i tassi
passivi. n cartello non aveva alcun valore legale, e finì per diventare
un argomento di contestazione, come Mattioli puntualmente rile-
vava nelle sue relazioni, ma nel complesso funzionò, e contribuì a
mantenere a buon mercato l'erogazione del credito.
n dato più rilevante di quel periodo fu l'ascesa della Banca Nazio-
nale del Lavoro, che diventò nel 1964 la prima banca italiana e la
nona del mondo per volume di attivo. Ciò era dovuto certamente
aUa sua attività di espansione, ma il fattore determinante era il fatto
che la BNL era privilegiata nel servizio di cassa degli enti pubblici e
degli enti di gestione delle partecipazioni statali.
Nel quadro di veloce ma ordinata espansione del credito non pote-
vano mancare le crisi, ma queste erano più che altro incidenti di
percorso. n numero delle banche continuò a ridursi, tra il 1937 e il
1974 ne sparirono oltre mille, ma nel decennio precedente ne erano
scomparse duemila. Nella maggior parte dei casi si trattava di ban-
che popolari e casse rurali, che vennero assorbite da altre banche si-
milari, o da istituti più rilevanti, che in questo modo potevano rea-
lizzare, a basso costo, una politica di espansione della presenza nel
territorio. Nel 26% dei casi si fece ricorso alla liquidazione. Tra il
1959 e il 1968 cinquantasei banche caddero in crisi, ma per tutte si
evitò il trauma della liquidazione.
Nel complesso questo fu il periodo che dopo fu chiamato da qual-
che giornalista di pax bancaria. Se le banche ebbero una funzione
indubbiamente importante in tutta la fase di espansione dell'econo-
mia, non si può dire che ne avessero colto appieno tutte le implicazio-
ni. Mattioh, e più in generale le tre BIN, la BNL, in pratica una man-
ciata di i~tituti di maggiori dimensioni, avevano chiara abbastanza la
Scandali e lottizzazioni
caso Sindona
Il caso più rilevante, che mise a nudo tutte le contraddizioni del si-
stema, fu l'affare Sindona. Michele Sindona, con fondi provenienti
con ogni probabilità dalla criminalità organizzata, aveva messo in
piedi un sistema di iniziative finanziarie e particolarmente di specu-
lazioni in Borsa, attraverso due piccole banche di cui aveva acqui-
stato il controllo: la Banca Unione e la Banca Privata. Finanziando
i partiti di governo, in particolare la DC, era riuscito ad avere una c~
pertura politica importante, al punto che le banche cooperative cat-
toliche depositavano i propri fondi nelle sue banche. Promettendo
utili elevatissimi raccoglieva depositi di enti e associazioni nelle sue
banche che non avevano sportelli per la raccolta di crediti dai priva-
ti, e riusciva a compensarli attraverso un giro di speculazioni, in
Borsa e sui carnbi. Per le speculazioni aveva un fiuto e un genio na-
turali. Faceva sparire soldi dalla circolazione comprando attraverso
una propria società delle aziende a prezzo esorbitante e nasconden-
do le perdite nei propri bilanci. Rese molti servizi al Vaticano com-
prando le azioni della Società Immobiliare Roma che esso control-
lava, e che versava in gravi difficoltà.
Raccogliere depositi compensandoli con speculazione si può sol-
tanto se ci si espande in continuazione. Per tenere in piedi il suo si-
stema, Sindona doveva comprare continuamente banche e imprese.
Tenta una scalata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, ma la Ban-
ca d'Italia lo blocca. Passa allora ad attaccare le banche di Pesenti e
la stessa Italcementi proprietà dello stesso, acquistando una quanti-
tà di azioni tale da costringere Pesenti a ricomprarle a un prezzo al-
tissimo. Pesenti paga con i soldi dei risparmiatori delle sue banche.
Dopo di che Sindona tenta di scalare la Bastogi, che era ancora un
punto di convergenza di tutte le maggiori imprese italiane; in questo
modo sarebbe entrato in rapporto con il cuore del capitalismo ita-
liano. Fu sostenuto da una grande e rispettata banca inglese, la
Hambro. Prima riuscì ad impadronirsi della Centrale, una holding
ex elettrica che aveva partecipazioni in numerose società, poi lan-
ciò, per la prima volta in Italia, un'offerta pubblica di acquisto. L'o-
perazione fallì, per l'opposizione di Carli e per la resistenza di tutto
l'establishment del capitalismo italiano.
L'awentura non era finita. Sindona fece fondere le sue due banche
nella Banca Privata Italiana, si fece finanziare fortemente dal Ban-
co di Roma, che in questo era stato sollecitato da Carli, cedendogli
in pegno le azioni dell'Immobiliare, e cercò di aumentare il capitale
della sua finanziaria, la Finambro, che progettava di fondere suc-
cessivamente con la Centrale. Nello stesso tempo acquista una ban-
ca americana, la Franklin National Bank, per condurre una serie di
speculazioni sul dollaro. Il disfacimento del sistema monetario in-
ternazionale e l'inizio dell'inflazione avevano fortemente incre-
mentato l'attività speculativa sui cambi. Ma questa volta sbagliò
obiettivo, puntò sul rialzo del dollaro che invece declinò, e subì per-
dite clamorose che riversò sulla banca, portandola però al fallimen-
to. Quanto all'aumento di capitale, Ugo La Malfa, che era ministro
del Tesoro, negò l'autorizzazione, malgrado il parere favorevole di
Carli; questo evento insieme con il fallimento americano portarono,
nel settembre 1974, al crollo della Banca Privata Italiana.
I creditori furono rimborsati, con la solita operazione di un gruppo
di banche che si assume i debiti dell'istituto in liquidazione; gran
parte delle perdite della banca ricadde sul Banco di Roma che la
aveva finanziata. Particolarmente spinoso fu il rimborso di un grup-
po di depositanti in una banca svizzera, praticamente esportatori di
capitali all'estero, la cosiddetta lista dei cinquecento, tra cui con
ogni probabilità vi erano società e prestanome dello stesso Sindona,
oltre che personaggi che egli intendeva favorire, e probabilmente il
Vaticano. Il consorzio fu agevolato a rifarsi delle perdite con un in-
tervento diretto della Banca d'Italia.
Contro questa soluzione Sindona si batté con tutti i mezzi, con i
tentativi di ricatti, le intimidazioni, fino all'assassinio di Ambrosoli,
liquidatore della Banca Privata. Arrestato negli Stati Uniti, estrada-
to, morì in carcere, suicida, almeno così fa comodo a tutti credere.
L'inflazione (1973-84)
Un sistema in crisi
Le conseguenze maggiori furono sul lato delle grandi imprese.
Queste, dopo l'esaurimento del miracolo e l'indebolimento dell'au-
tofinanziamento, finanziavano i propri scarsi investimenti col debi-
to, mentre gli istituti speciali, per il credito a lungo termine, si finan-
ziavano a loro volta, come si È visto, attraverso le obbligazioni. Era
quindi interesse vitale per l'economia che i tassi di interesse fossero
bassi, ed il governo fece di tutto perché lo restassero. Ma tutti gli al-
tri paesi li aumentavano e così si creò una fuga di capitali dalle ban-
che italiane che provocò una caduta grave nel tasso di cambio. Per
difendere la lira furono bruciate molta parte delle riserve in valuta
della Banca d'Italia, e si dovette fare ricorso a misure drastiche per
diminuire le importazioni.
Misure altrettanto drastiche furono prese per il controllo del cre-
dito. A parte l'autorità morale, rafforzata quando necessario dal po-
tere politico, per intervenire sulle banche Stringher aveva a disposi-
zione solo il risconto; la legge bancaria del '36 dava ora amplissimi
poteri al governo per stabilire tutti gli strumenti di intervento che
credesse opportuni. Einaudi e Menichella si erano serviti della ri-
serva obbligatoria come strumento per il controllo quantitativo del
credito. Nel 1974 si passò al controllo diretto introducendo il vinco-
lo di portafoglio e il massimale sull'espansione del credito. Col pri-
mo strumento si obbligavano le banche a detenere una certa per-
centuale di titoli pubblici, e di obbligazioni di enti pubblici, e di so-
cietà private. La doppia intermediazione era così istituzionalizzata.
Col massimale si stabilivano i limiti di espansione del credito per un
certo periodo rispetto alle consistenze iniziali, differenziandole per
categorie. Ad esempio era concessa una maggiore espansione per i
crediti di minore consistenza, in modo da favorire le piccole e medie
imprese. Si arrivò a differenziare le percentuali di espansione anche
per settore.
In presenza di inflazione il finanziamento delle imprese diventò
prevalentemente a breve termine. Emettere obbligazioni era diffici-
le perché sarebbero state rimborsate con denaro svalutato. Le ban-
che quindi concedevano scoperti a tassi crescenti per mettersi al si-
curo da rischi. Il risultato fu un crescente onere delle imprese per gli
interessi che mise in crisi i profitti. Le banche si trovarono quindi di
fronte a un dilemma molto duro. Sospendere i finanziamenti avreb-
be messo in crisi i propri crediti, e così ancora una volta fecero quel-
lo che avevano sempre fatto con le imprese in crisi: continuarono a
finanziare, a tassi sempre crescenti, che sulla carta consentivano
profitti elevati. Questo però indeboliva tutto. Ci fu un periodo in cui
l'indebitamento di cinque imprese copriva da solo l'intero patrimo-
nio di tutto il sistema bancario.
Questa situazione fu fronteggiata grazie a un fattore nuovo, e a un
espediente che doveva dimostrarsi disastroso. Il primo fu l'affer-
marsi della piccola e media industria che fu un elemento di profon-
da novità nell'economia italiana. Le banche aiutarono questo pro-
cesso perché le imprese di minori dimensioni erano più solvibili e il
loro indebitamento minore. Queste imprese salvarono la bilancia dei
pagamenti italiana e diventarono l'elemento prevalente del sistema
industriale italiano.
L'altra via fu seminata di errori e di illegalità, e fu un intervento del-
lo Stato che, per salvare le banche e insieme le imprese, si fece cari-
co delle situazioni più gravi, direttamente e indirettamente, con i si-
stemi più diversi. Si andò dall'acquisto della siderurgia FIAT da par-
te dell'IRI, che non ne aveva alcun bisogno, al passaggio all'ENI di
parte degli impianti Montedison, cosa che in sostanza equivaleva a
una elargizione. Un aiuto notevole venne alle banche, particolar-
mente agli istituti di diritto pubblico ed a quelle più piccole dalla si-
stemazione della condizione finanziaria dei Comuni, per cui lo Sta-
to si sostituì nei loro debiti, e attraverso una nuova legge per la fi-
nanza locale che aumentava notevolmente le disponibilità degli enti
locali, rallentando la formazione di nuovo debito.
Alcune banche si trovarono in piena crisi, e furono salvate, con la
collaudata ricetta del rilevamento da parte di altre banche. Lo Stato
sosteneva questi oneri continuando ad indebitarsi ma in misura tut-
to sommato ancora controllabile, grazie all'incremento delle entra-
te fiscali prodotto d al fiscal drag. Soprattutto fu aiutato dal fatto che
le famiglie, malgrado l'inflazione, continuavano a risparmiare e in-
vestivano in titoli pubblici.
Il peso più grave della crisi ricadeva sulle imprese ad alta intensità
di capitale che si erano finanziate con l'indebitamento. Gli investi-
menti dell'IRI nella siderurgia erano stati finanziati attraverso il de-
bito. Quando il carico di interessi divenne insostenibile e non si tro-
vavano banche disposte a fare altri finanziamenti, I'IRI diventò dipen-
dente dall'aiuto dello Stato che lo finanziava con i fondi di dotazione.
L'ENI se la cavò meglio perché almeno disponeva di petrolio e so-
prattutto di gas che allora gli costava ben poco. Le società di gestione
delle autostrade, che avevano previsto piani di ammortamento del de-
bito a lunga scadenza, furono salvate facendole assorbire dall'IRI. Ma
il caso più grosso di crisi che condusse sull'orlo della bancarotta due
istituti speciali, I'IMI e l'ICIPU, fu quello dell'industria chimica.
Fin dagli anni Cinquanta il progresso tecnologico aveva lanciato la
domanda di prodotti petrolchimici. Su quest'industria si lanciarono
la Montedison, forte degli indennizzi della nazionalizzazione del-
l'industria elettrica, I'ENI, ed un gruppo di affaristi che più che indu-
striali erano speculatori, Rovelli e Ursini. L'industria richiedeva forti
investimenti e perciò il Mezzogiorno, dove c'erano le agevolazioni
sugli interessi, sembrò la sede più adatta. Le agevolazioni venivano
concesse sulla base di un parere, rilasciato dal governo, sulla con-
formità alle direttive della politica industriale, e questo fu conside-
rato dagli istituti pubblici una sorta di garanzia. In sostanza era un'in-
tesa, tacita, tra banche e potere politico. Furono quindi erogati finan-
ziamenti in misura ingentissima. Gli istituti ci guadagnavano perché
attraverso la fissazione del tasso dei finanziamenti incassavano una
parte delle agevolazioni.
Questo fece espandere oltre misura l'industria e si arrivò ad un vero
e proprio eccesso di capacità produttiva. Quando soprawenne l'au-
mento del prezzo del petrolio, che aumentò il costo della materia pri-
ma, e l'inflazione, che abbassò la domanda e aumentò i costi per l'au-
mento dei tassi, il castello di carta crollò. La Montedison si trascinò
a lungo nella crisi, ma soprawisse fino a che non cadde nelle mani di
Raul Gardini. L'ENI era forte, ma dovette accollarsi l'onere dei sal-
vataggi. Le imprese speculative, la SIR di Rovelli e la Liquichimica
di Ursini crollarono, dopo aver tentato la fuga in avanti di aumenta-
re sempre gli investimenti per avere più soldi e pagare così i debiti
precedenti.
Ciò rischiò di trascinare nella caduta i due fondamentali istituti pub-
blici per il credito a lungo termine, I IMI e I ICIPU, che avevano larga-
mente finanziato le due imprese. Il salvataggio awenne attraverso
un complicato sistema per cui, alla fine del 1978, si costituì un con-
sorzio di creditori delle aziende, che consolidò i debiti e ne convertì
una parte in capitale sottoscritto dagli istituti di credito. Nel consor-
zio fu coinvolta la Cassa Depositi e Prestiti e le aziende furono ce-
dute successivamente all'ENI. Il bilancio dell'operazione lasciava
comunque forti perdite a carico dei creditori, e perciò la trattativa
per la costituzione del consorzio fu lunga e penosa. L IMI poté ri-
prendersi, grazie all'estensione della propria attività in nuovi campi;
per l'ICIPU invece non si trovò alcuna via di uscita e dovette essere
fuso con il Crediop.
Nel disastro era stata coinvolta anche la Cassa Centrale delle Cas-
se di risparmio, l'Italcasse, che era un feudo del potere politico de-
mocristiano. Oltre alla chimica, aveva finanziato i fratelli Caltagiro-
ne, industriali edili romani molto legati al potere politico che aveva-
no fatto crack. L'Italcasse fu commissariato, e le Casse di risparmio
dovettero ripianare le perdite.
Ritardi e contraddizioni
La riforrna silenziosa
Le r~adel
Quale futuro?
Appendice.
CRONOLOGIA.