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Napoleone Colajanni.

Storia della banca in Italia Da Cavour a Ciampi

Introduzione.
L'attività bancaria moderna nasce di fatto nella prima metà del
XIX secolo, per effetto di due fattori fondamentali. Il primo È lo svi-
luppo economico e la domanda di capitali che esso comporta. La
costruzione delle ferrovie È esemplare da questo punto di vista. Per
potere raccogliere i capitali richiesti, i banchieri organizzano la rac-
colta di risparmi, che remunerano con l'interesse passivo, e presta-
no denaro agli imprenditori ferroviari. Nasce così la banca come la
conosciamo noi.
Il sistema finanziario cominciò a svilupparsi in primo luogo in Fran-
cia, con quello che si chiamò il credito mobiliare. Il banchiere non È
più un singolo che rischia denaro proprio, ma un imprenditore, un
organizzatore di attività, che opera col denaro dei risparmiatori. Que-
sta trasformazione È resa possibile dallo sviluppo della società per
azioni, cioÈ di una associazione in cui i soci impegnano solo una par-
te dei propri patrimoni, e la società ha una responsabilità limitata al
proprio patrimonio e non a quello dei soci. In questo modo il rischio
era tenuto sotto controllo, e si potevano costituire i capitali necessa-
ri per attività di grande respiro. L'attività bancaria nella prima metà
del XIX secolo È cosa profondamente diversa dalla vecchia attività
dei banchieri, e per questo si pone subito, a tutela dei risparmiatori,
il problema del suo controllo.
Il secondo fattore di sviluppo È l'attività finanziaria dello Stato. Gli
Stati europei non erano mai riusciti a finanziare la propria attività
soltanto con le imposte, e così facevano sistematicamente ricorso al-
l'indebitamento con i banchieri. Per non essere eccessivamente di-
pendenti da questi, gli Stati si rivolsero direttamente ai risparmiato-
ri attraverso l'invenzione della rendita, cioÈ di un titolo per cui lo
Stato si obbliga a restituire a scadenza fissa la somma versata dal ri-
sparmiatore, pagando un certo interesse. Il titolo di rendita era com-
merciabile, e quindi era un patrimonio facilmente realizzabile in caso
di bisogno; inoltre dava un rendimento sensibilmente superiore a
quel che, ad esempio, poteva dare lo stesso patrimonio sotto forma
di terreni, per cui c'era un interesse a investire in titoli di rendita e
quindi a rinnovare i titoli alla scadenza. Lo Stato così si indebitava,
ma a carico del suo bilancio c'erano in pratica soltanto gli interessi,
10 INTRODUZIONE

perché i risparmiatori, per poter godere di un elevato frutto del pro-


prio risparmio, rinnovavano l'investimento, e beneficiavano del fat-
to che lo Stato continuava ad indebitarsi. Le banche trovarono nella
compravendita dei titoli di Stato una nuova fonte di utile.
In questo modo si costituisce l'attività bancaria moderna. A questo
processo l'Italia rimase sostanzialmente estranea. Nel tardo Me-
dioevo l'Italia aveva una posizione predominante nell'attività finan-
ziaria: il mercato del denaro era dominato dalle grandi famiglie di
banchieri fiorentini e senesi, poi anche dai genovesi. In Italia erano
nati gli strumenti essenziali dell'attività bancaria: la cambiale, la let-
tera di cambio, la contabilità a partita doppia. Ma a partire dal Cin-
quecento le correnti commerciali si erano allontanate dall'Italia,
dopo che per alcuni secoli avevano costituito una delle basi della
sua prosperità. L'arretramento dell'Italia È in primo luogo arretra-
mento della sua competitività industriale, dovuto al permanere di
strutture sociali che non si aggiornano, come le corporazioni, che
tengono alto il prezzo del prodotto. La produzione italiana resta
concentrata nei beni di lusso, mentre la concorrenza inglese, france-
se e olandese, si awia verso i consumi di massa.
Il declino nell'industria trascina con sé l'arretramento nelle attività
finanziarie, che si erano sviluppate in legame con la produzione e
l'esportazione di beni. Così l'attività dei mercanti che esportano sui
mercati italiani le merci straniere È sostenuta dai banchieri delle na-
zioni di provenienza; i trasporti, che avevano costituito un punto di
forza italiano, sono ormai appannaggio degli Stati esteri. L'econo-
mia italiana ripiega su se stessa, diventa sempre più agricola, mentre
dal Mezzogiorno per effetto della concorrenza internazionale scom-
paiono industrie, come quella della seta, che pure erano state per
lungo tempo competitive. I gruppi dirigenti dei vari Stati italiani han-
no una formazione che li rende estranei ai problemi dell'economia,
privilegiando l'amministrazione, il diritto, la cultura umanistica. Si
viene a costituire un circolo vizioso, per cui una bassa domanda di
capitali non spinge alla costituzione di nuovi strumenti finanziari.
Inoltre la costituzione delle banche di emissione awiene in Italia
con ritardo, e seguendo l'esempio di altri, della Francia e dell'In-
ghilterra.
Solo nella seconda metà del Settecento qualcosa ricomincia a
muoversi nell'economia reale. Al nord, ma in modo molto concen-
trato in Lombardia, si vanno diffondendo nelle campagne le indu-
strie di trasformazione dei prodotti agricoli e nuovi ordinamenti col-
turali, mentre si estende l'affitto. Dai fittavoli e dai proprietari ter-
rieri più progrediti, prenderà le mosse l'imprenditorialità del nord,
che per allora resta assai limitata. Le campagne del Centro restano
invece saldamente centrate sulla mezzadria, e bisognerà aspettare
l'epoca contemporaneadopo il (r)miracolo economico¯ del 1955-62

INTRODUZIONE lI

per vedere nascere una nuova imprenditorialità dai mezzadri. Il sud


continua a restare ingabbiato nella struttura feudale, e le scarse ini-
ziative industriali sono promosse dallo Stato borbonico.
L'industria comincerà a dare qualche segno di sviluppo solo nella
prima metà dell'Ottocento. E per la debolezza dello sviluppo indu-
striale che le attività bancarie ritardano, nonché per la frammenta-
zione statale che impediva la costituzione di mercati di ampiezza
paragonabile a quella degli Stati dell'Europa occidentale. La co-
struzione delle ferrovie, che era stato il grande fattore di innovazio-
ne nell'offerta di capitali, comincia in Italia con grande ritardo ri-
spetto agli altri paesi, sempre per la frammentazione in Stati diversi.
Una delle esperienze decisive dello sviluppo È che il fattore che
conta È quello produttivo, la finanza segue. Pensare che rendendo
disponibili dei fondi si possa dare origine allo sviluppo economico, o
addirittura che possa esser compito della finanza promuoverlo, È
una illusione. Lo dimostra non solo l'esperienza storica dell'Italia
del secolo scorso, ma anche quella contemporanea nel Mezzogior-
no. L'argomento per cui l'industria non si sviluppa per mancanza di
capitali dovrebbe essere definitivamente accantonato. Lo sviluppo
dell'industria dipende in primo luogo dalla formazione di una im-
prenditorialità che crea le occasioni per la costituzione della fi-
nanza.
Non c'È da stupirsi quindi, se nel campo del credito nella prima
metà dell'Ottocento, mentre altrove si verifica uno sviluppo impe-
tuoso della banca di depositi e prestiti, l'Italia appaia in grave ritar-
do. Ci sono iniziative, nel campo delle banche di emissione e di scon-
to, ma di portata locale, in un mercato asfittico. La cosa più signifi-
cativa, anche se di peso limitato, fu la costituzione delle Casse di ri-
sparmio. Esse in parte procedevano dai vecchi Monti di Pietà che
esercitavano il prestito su pegno, in altra parte promanavano da isti-
tuzioni di beneficenza, ecclesiastiche o comunali. Anche per questa
origine, le Casse di risparmio finiranno per privilegiare gli investi-
menti immobilian con forti garanzie, e avranno una funzione nel red-
dito fondiario mentre i loro rapporti con il resto dell'attività econo-
mica saranno assai deboli. A questo contribuirà la legislazione che
ì` dà loro origine, stabilendo precetti rigorosissimi per il mantenimen-
to del carattere filantropico e assistenziale, anche quando sono di ori-
gine comunale, quindi laica.
A Milano la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, costi-
tuita nel 1823 ha un rapido sviluppo, raccoglie un volume di rispar-
mi certamente significativo, ma i suoi impieghi restano circoscritti al
credito edilizio. L'unica iniziativa che andasse in direzione dell'atti-
vità bancaria moderna prese vita a Genova, città di grandi anche se
sopite tradizioni finanziarie.
Nel Mezzogiorno non si diffondono nemmeno le Casse di rispar-
mio, se non sotto la forma assai gracile dei Monti f~rumentari per le
anticipazioni di sementi. La monarchia meridionale intendeva di-
sporre di un proprio strumento finanziario e il Regno di Napoh di-
spose la concentrazione dei maggiori banchi privati di credito su pe-
gno in quello che successivamente si chiamò Banco delle Due Sia-
lie, ed a questo vennero affidati, tramite una sezione speciale, com-
piti di tesoreria di Stato. Questo diventerà il Banco di Napoli. Anche
in Sicilia una banca promossa dallo Stato, cos~tuita nel 185001 nome
di Banco dei Reali Domini di là dal Faro, e che nel 1860 sarà nbat-
tezzata Banco di Sicilia, va sostituendo gli antichi banchi comunall.

Il trentennio dopo l'unità (1861-93)

Al momento dell'unità il sistema creditizio italiano era ben povera


cosa. Non c'era un'organizzazione che in qualche modo rispondesse
alle esigenze di un paese di 25 milioni di abitanti. C'erano gli istituti
di emissione dei vari Stati, alcune Casse di risparmio, qualche banca
popolare che si andava costituendo in quel periodo, soprattutto in
Lombardia ed in Piemonte. Le istituzioni più attive erano i Monti di
Pietà, organizzati come Opere Pie. Piccole banche e banchieri pri-
vati, in parte d'origine straniera, assicuravano il cambio delle mone-
te ai mercati locali.
L'iniziativa era più viva a Genova, città di antiche tradizioni finan-
ziarie, che per tutto il secolo XIX fu la città più avanzata del Regno.
Lì per iniziativa di alcuni commercianti si era costituita nel 1844 la
Banca di Genova per sconti depositi e conti correnti. A Torino nel
1847 si costituì la Banca di Torino che non riuscì ad avere una fun-
zione significativa e due anni dopo si fuse con la Banca di Genova
dando luogo alla Banca Nazionale degli Stati Sardi. Questa divenne
l'istituto di emissione del Regno di Sardegna e diventerà poi la Ban-
ca d'Italia. Nel 1853 Cavour impose al Parlamento che alla Banca
Nazionale fosse affidata la tesoreria dello Stato, permettendole così
di aumentare notevolmente la propria consistenza.
Alla formazione dell'unità la Banca Nazionale assorbì rapidamen-
te gli istituti dei ducati emiliani e dello Stato pontificio, mentre in
Lombardia non c'era banca di emissione perché operava la banca
austriaca. Nel Napoletano ed in Sicilia operavano rispettivamente il
Banco delle Due Sicilie ed il Banco dei Reali Domini di là dal Faro,
che nel 1860 furono ribattezzati Banco di Napoli e Banco di Sicilia.
In Toscana di istituti di emissione ce n'erano addirittura due: la
Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito, nata in
fretta e furia nel 1860 su iniziativa di Pietro Bastogi, un banchiere li-
vornese che aveva capito subito quali fossero le possibilità di un isti-
tuto del genere. L'annessione del Veneto non pose problemi, perché
la sua banca fu immediatamente assorbita dalla Banca Nazionale.
Invece, quando nel 1870 Roma fu annessa all'Italia, vi si trovò una
situazione caotica. La Banca Romana, costituita nel 1833, era fallita
due volte, nel 1848 e nel 1850, per la combinata influenza di una am-
14 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA
ministrazione truffaldina e il continuo ricorso all'emissione di bi-
glietti da parte dello Stato pontificio. Era stata ridenominata Banca
dello Stato pontificio, ed al momento dell'annessione fu ribattezza-
ta di nuovo in Banca Romana. Accettò di rinunciare al monopolio
sulla circolazione dei biglietti a Roma solo dietro un forte pagamen-
to da parte della Banca Nazionale. In sostanza l'approssimazione e
frequentemente l'illecito erano una caratteristica di questa banca
che fu mantenuta in vita unicamente per motivi politici.
Al 1870 vi erano dunque sei istituti di emissione: la Banca Nazio-
nale, le due banche toscane, la Banca Romana, e i due banchi meri-
dionali, ai quali fu riconosciuto formalmente questo carattere.

La ùquestione bancaria¯ e il corso forzoso

Il nuovo Stato si trovò costretto ad affrontare subito gravi difficol-


tà. Nel 1863 la crisi del mercato monetario europeo generò una on-
data di panico verso i biglietti di banca, che vennero presentati in
quantità agli istituti emittenti per il cambio in moneta metallica.
Nello stesso tempo crollarono in Borsa i corsi dei titoli di Stato.
Il governo reagì chiedendo ed ottenendo pieni poteri e facendosi
anticipare una grossa somma dalla Banca Nazionale, sospendendo
l'obbligo di convertire i biglietti in moneta metallica. Si instaurava
così il cosiddetto corso forzoso, per cui il pubblico era obbligato ad
accettare biglietti di banca anche senza l'obbligo di conversione in
olo o argento. La Banca Nazionale era però obbligata a mantenere
in ogni caso una riserva metallica pari ad un terzo della circolazione.
Anche il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia ottennero il corso le-
gale per le fedi di credito da essi rilasciate.
Il governo fu immediatamente accusato di aver favorito gli istituti
di emissione e particolarmente la Banca Nazionale, che in due anni
triplicò la propria circolazione. Nel 1868 fu nominata una commis-
sione parlamentare, che condannò la politica seguita, asserendo che
il corso forzoso non aveva alcuna giustificazione di ordine economi-
co o politico, i1 che non era vero, anche se gli istituti di emissione e
particolarmente la Banca Nazionale ci avevano notevolmente gua-
dagnato. Gli istituti di emissione erano banche private, a cui il go-
verno concedeva l'autorizzazione ad emettere biglietti che avevano
corso legale. I biglietti costituivano un mezzo di pagamento a dispo-
sizione della banca e questa aveva perciò interesse ad aumentare la
circolazione più che fosse possibile. Il governo impose una tassa,
I'imposta di circolazione, che le banche dovevano pagare in rappor-
to con la moneta emessa.
Gli istituti di emissione furono il tema centrale di un lungo dibatti-
to nell'opinione pubblica e tra uomini politici ed economisti, chia-
mato (r)questione bancaria¯, ma che si svolgeva attorno ad un unico

IL TRENTENNIO DOPO L'UNITA (1861-93) 15


tema, quello dell'unicità o della molteplicità degli istituti di emissio-
ne.
La logica stava dalla parte di chi voleva l'unicità, ed in questo senso
si muovevano alcuni economisti, principale tra i quali Francesco
Ferrara. Altri invece tenevano la posizione del liberismo più com-
pleto, contro la regolamentazione e contro il monopolio dell'emis-
sione. Per la molteplicità erano le forze politiche a livello regionale,
che vedevano in una banca di emissione locale uno strumento per
rafforzare la propria influenza elettorale. Queste forze condiziona-
vano notevolmente tutti i governi, e fecero fallire tutti i ripetuti ten-
tativi di realizzare almeno una fusione tra la Banca Nazionale e la
Banca Toscana.
Con la legge Minghetti-Finali del 1874 si riunirono i sei istituti in
un consorzio, dando ad essi, sotto speciali garanzie, l'esclusività nel-
l'emissione. La legge, e poi altre successive, consentivano però una
quantità di eccezioni, per cui il limite diventò presto più nominale
che altro. Il nuovo ordinamento non diede buoni risultati, e non sol-
tanto perché i sei istituti consorziati cercavano di danneggiarsi l'un
con l'altro, ma perché non era possibile la coesistenza del corso for-
zoso e del corso normale dei biglietti. Tutti cercavano di cambiare i
biglietti legali in metallo e per evitare la fuga delle riserve, le banche
furono presto costrette a sospendere il rimborso in valuta metallica.
Solo il miglioramento della situazione economico-finanziaria del
paese e il pareggio del bilancio dello Stato, nonostante l'aumento
delle spese, consentirono di pervenire nel 1881 all'abolizione del
corso forzoso. La convertibilità pur limitata dei biglietti causò però
un tale esodo d'oro da rendere praticamente necessario, alcuni anni
dopo, il ritorno al biglietto inconvertibile.

La Banca Nazionale, il Credito Mobiliare e le altre

Un sistema bancario primitivo era lo specchio di un'economia an-


cora arretrata. L'Italia era un paese agricolo, in cui l'attività indu-
striale riguardava la trasformazione dei prodotti agricoli, ma su
base assai limitata, tranne che per l'industria della seta; dalla rivolu-
zione industriale era stata toccata solo di striscio. L'unificazione
aveva portato un effetto espansivo con la costituzione di un mercato
che superava i vecchi confini degli Stati e il governo vi aveva contri-
buito efficacemente con la costruzione della rete ferroviaria. Come
era accaduto negli altri paesi, le ferrovie avevano costituito un in-
centivo importante per l'attività finanziaria. Nel 1862 era stata co-
stituita a Firenze, per iniziativa di Bastogi, la Società italiana per le
strade ferrate meridionali, con lo scopo di ottenere la concessione
della costruzione e dell'esercizio di strade ferrate. La società sareb-
be diventata uno dei punti fermi del sistema finanziario italiano,
16 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

quando fosse venuta a disporre degli indennizzi per la nazionalizza-


zione delle ferrovie.
Nel sistema del credito la parte degli istituti di emissione era asso-
lutamente determinante.

Istituti di emissione
Cassa depositi e prestiti
Società ord. di credito
Casse di risparrnio
Banche popolari coop.
Istituti di credito agrario
Istituti di credito fondiario
Assicurazioni

STRUl'rURA DEL SISTEMA CREDITIZIO 1870-1890

Passività

1870

1466,8

237,6
398,3
51,2
0,6
36,9
11,0

2202,4

Le Casse di risparmio erano organismi che raccoglievano depositi


ed effettuavano prestiti senza scopo di lucro, che presero piede dal-
I inizio del XIX secolo in vari paesi d~EuroPa e d'America. In Italia le
pnme Casse furono quelle di Venezia,adova e Rovigo, nate nel
1822. La Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, la Cariplo,
sorse per iniziativa della commissione centrale di beneficenza della
citta di Milano. Entro il 1850 quasi tutte le grandi città del Centro e
del nord ebbero la propria Cassa. Nell~Italia meridionale le Casse
furono costituite assai più tardi, e non su base cittadina, ma su scala
interprovinciale. Nel 1861 fu fondata la Cassa di Rispanmio Vittorio
Emanuele per le Province Siciliane, e nel 1862 la Cassa di Napoli
assorbita però poco dopo dal Banco di Napoli.
Le iniziative per la costituzjone di Casse di risparmio erano di tipo
assai diverso; c'erano associazioni di persone, società anonime, enti
morali, e quindi c'era una grande diversità di ordinamenti. Nel 1888
le Casse vennero disciplinate da una legge che confermava il carat-
tere non commerciale delPistituzione e le definiva come persone di
dintto pubblico con personalità giuridica autonoma, ma sottoposte
alla vigilanza dello Stato.
Dopo l'unificazione, le Casse di rispannio non ebbero uno svilup-
po molto rapido, diversamente dalle banche popolari che si molti-
plicarono in modo addirittura impetuoso, soprattutto nel Mezzo-
giorno, dove iI Banco di Napoli ne promuoveva ¡a costituzione per
servirsene come se fossero suoi uffici decentrati sottraendosi così ad
una parte del rischio. Molte di queste piccole banChe furono però
spazzate via dalla crisi agraria. Ben più forti erano quelle del nord
be Si consolidarono grazie ad una politica di grande prudenza.

(mil) Ripartizione

1890 1870

2154,1 66,6
1372,0
1376,7 10,8
1428,1 18,1
625,4 2,3
54,5 0,0
883,2 1,7
80,0 0,5

7974,0 100

(~)

1890

27,0
17,2
17,3
17,9
7,8
0,7
11,1

1,0

100
ILR1~111~0 DOPO L~JNITA (1861-93) 17

Infine, le Casse di risparmio postali hanno origine nel 1875 perini-


ziatn~a di Quintino Sella, e la loro amministrazione venne assorbita
nella Cassa Depositi e Prestiti che era stata creata nel 1863.11 ri-
sparmio postale raggiunse immediatamente livelli elevati, e alla fine
del secolo la Cassa Depositi e Prestiti, la cui funzione era il finanzia-
mento degli enti locali, ma a cui attingeva anche lo Stato, aveva un
volume pari a quello degli istituti privati di credito.
Il g~ro d'af¡ilri delle casse, delle banche popolari e dei minori istitu-
ti di credito ordinario era comunque di portata locale. Il grosso dei
loro impieghi era in titoli di Stato, e` di carattere immobiliare, per cui
non si può dire che contribuissero notevolmente allo sviluppo eco
nom~co 11 finanziamento dell'industria gravava interamente sulla
Banca Nazionale, sugli altri istituti di emissione, anche se in m~sura
minore, e su due altri istituti: il Credito Mobiliare e la Banca Gene-
rale.
Il fondatore e boss della Banca Nazionale era Carlo Bombrini, un
genovese che era riuscito a farsi strada nel mondo dei banchieri pri-
vati e delle casse di sconto, di cui fu promotore con la costituzione
del Banco di Genova Grazie all'appoggio di Cavour, ricambiato con
il soslegno da parte della banca delle sue attività politiche e di aflilri,
quando si realizzò la fusione con la Banca di Torino per costituire la
Banca Nazionale degli Stati Sardi, ne divenne direttore generale.
Bombrini profittò largamente della concessione di emettere bi-
glietti per espandere tutte le funzioni della banca, non esitando a
v~ohre i limiti imposti dalla convenzione che la banca aveva con lo
Stato sulla quantità di moneta da emettere, facendo notare che un
ribro di questi biglietti avrebbe danneggiato l'economia Fu Bom-
brini a subordinare all'introduzione del corso forzoso la concessio-
ne di un prestito della Banca Nazionale allo Stato.
Oltre che banchiere, Bombrini era industriale e fu uno dei prom~
tori dell'Ansaldo. Questa impresa, per poter fare concorrenza alle
piu forti imprese estere, aveva bisogno di prestiti, che Bombrini ac-
cordo con larghezza come direttore della Banca Nazionale, con de-
c~s~ooi del tutto personali. In questo modo finanziava se stesso. Quan-
do nel 1882, Bombrini morì, il suo successore, Giacomo Grillo, in-
tentò causa agli eredi per chiedere la restituzione di anticipazioni
della banca considerandole elargizioni personali del suo predec~
sore.
I meriti di Bombrini non furono comunque pochi. Fu il primo a in-
trodurre la banca moderna in Italia, ed a cominciare ad assumere
una delle funzioni di quella che sarà poi una banca centrale: la poli-
tica monetaria. Inizia con lui però una sequenza di personaggi fre-
quenti nella vita della banca italiana, al punto da diventare una tra-
d~z~one: personaggi dotati di grandi capacità, fortemente spregiudi-
cati ed accentratori, disinvolti nei confronti dello Stato, convinti che
18 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA
toccasse alle loro intuizioni e non alle istituzioni la salvaguardia de-
gli interessi del Paese.
Un altro fattore di innovazione nel sonnacchioso sistema bancario
italiano fu la creazione degli istituti di credito mobiliare. Nel 1863
erano state costituite, sull'esempio del Crédit Mobilier francese, la
Società Generale di Credito Mobiliare, col carattere di banca di de-
positi e prestiti, e subito dopo la Banca Generale Italiana, anch'essa
di tipo mobiliare, che assumono presto un notevole sviluppo. Suc-
cessivamente, a seguito dell'abolizione del corso forzoso, dell'infla-
zione che ne seguì e della conseguente immigrazione di capitale stra-
niero in Italia, sorgono e si sviluppano a Torino il Banco Sconto e
Sete, il Credito Torinese ed il Credito Immobiliare; a Roma la Ban-
ca Tiberina.
Tutte queste banche dedicano larga parte dei mezzi al finanzia-
mento della speculazione commerciale e soprattutto dell'espansio-
ne edilizia nelle città, che aveva anch'essa un carattere speculativo.
Si venne a creare una vera e propria bolla di impieghi nell'edilizia,
con una forte immobilizzazione. I crediti concessi all'attività edili-
zia, anche se sulla carta erano garantiti dagli immobili, non poteva-
no essere incassati facilmente, per consentire il rimborso dei rispar-
miatori, nel caso che questi avessero deciso di ritirarli.
La bolla fnanziaria cominciò a sgonfiarsi appena dopo qualche anno.
Le industrie che nascevano sul credito e non sul capitale proprio fi-
nirono per essere paralizzate; l'eccesso di costruzioni speculative
nelle città portò al crollo dell'attività, soprattutto a Roma e a Napo-
li, e si generò una crisi che travolse le banche. La Banca Tiberina fal-
lì dopo aver inghiottito un intervento della Banca Nazionale, in Pie-
monte andarono in dissesto il Banco Sconto e Sete, che si era distin-
to per una amministrazione particolarmente allegra, e il Credito
Torinese. Il governo cercò di porvi rimedio fondando l'Istituto Ita-
liano di Credito Fondiario, che avrebbe dovuto rilevare i crediti de-
gli istituti di emissione e delle altre banche verso l'industria edilizia,
finanziandosi con l'emissione di cartelle fondiarie ammortizzabili a
lungo termine, ma la cosa non funzionò perché non fu possibile col-
locare una adeguata quantità di cartelle.
Si accumulavano quindi i segni di crisi. Si trattava però di una crisi
prevalentemente finanziaria. L'economia reale aveva avuto una
espansione nel periodo immediatamente successivo all'unità. Nel
decennio successivo, gli anni Settanta, aveva invece subito un ral-
lentamento in concomitanza con una crisi economica internaziona-
le. L'abolizione del corso forzoso con l'ondata inflazionistica che ne
seguì non incise molto sull'economia: favorì l'espansione edilizia
ma l'economia ne fu influenzata solo marginalmente. In conseguen-
za del fatto che la crisi finanziaria aveva origini non radicate nel-
l'economia reale, nell'ultimo decennio del secolo, malgrado le diffi-

IL TRENTENNIO DOPO L'UNITA (1861-93) 19


coltà del credito, non si determinò un aggravamento della crisi eco-
nomica, ma persino una moderata ripresa. La funzione del credito
nel quadro complessivo di una economia ancora prevalentemente
agricola, era, tutto sommato, ancora abbastanza marginale.
Una conseguenza significativa della crisi finanziaria fu un cambia-
mento nei rapporti internazionali della finanza italiana. Fino agli
anni 1880 l'influenza francese era stata dominante. Il banchiere Pe-
reire, inventore del credito mobiliare, aveva partecipato alla costi-
tuzione del Credito Mobiliare italiano, ed i Rothschild di Parigi era-
no stati i grandi consulenti fìnanziari del governo italiano. In questi
anni, anche per ragioni politiche, l'influenza francese viene sostitui-
ta da quella tedesca, e il capitale tedesco comincia a prendere in
considerazione l'idea di partecipare a imprese finanziarie italiane.

Lo scandalo della Banca Rornana

Nel corso delle varie crisi gli istituti di emissione erano stati chia-
mati più volte ad intervenire per salvare le banche. In cambio otte-
nevano dal potere politico una acquiescenza di fatto alla violazione
dei limiti fissati per l'emissione di biglietti, violazioni a cui il Parla-
mento concedeva sistematicamente una sanatoria. La situazione
era però assai confusa. Nel 1889 era stata ordinata una inchiesta su
questi istituti ed erano state accertate gravi irregolarità, soprattutto
nella Banca Romana. In sostanza gli istituti combattevano gli uni
contro gli altri per assicurarsi quanta più parte potevano della torta.
La lotta più dura era da parte degli istituti minori per evadere la co-
siddetta riscontrata, cioÈ l'obbligo di cambiare i biglietti propri in
mano di altri istituti di emissione, con biglietti di questi ultimi. La ri-
scontrata favoriva evidentemente la banca più forte, cioÈ la Nazio-
nale, ma È chiaro che non si poteva fare a meno di una norma di que-
sto tipo. Era una delle contraddizioni della molteplicità degli istituti
di emissione.
Nel frattempo stavano scadendo le concessioni per l'emissione di
biglietti. La Banca Nazionale e la Banca Toscana avevano finalmen-
te stipulato una convenzione per una futura fusione e il governo an-
dava preparando un progetto complessivo, che si basava su un com-
promesso, e cioÈ la ricostituzione di un consorzio tra gli istituti di
emissione e la istituzione di nuove norme che limitassero la circola-
zione cartacea. In attesa di discuterlo il governo propose di proroga-
re per sei anni la concessione della facoltà di emissione. Ma a questo
punto si scatenò la tempesta.
L'inchiesta del 1889, condotta da una commissione presieduta dal
senatore Alvisi, aveva accertato nella Banca Romana un vuoto di
cassa coperto con emissione abusiva di biglietti; la relazione però
era stata tenuta segreta dal governo. Lo scandalo scoppiò il 23 di-
20 STORIA DELLA 13ANCA IN ITALIA
cembre 1892 quando il deputato Napoleone Colajanni portò a co-
noscenza del Parlamento il contenuto della relazione e chiese un'in-
chiesta parlamentare.
Giovanni Giolitti, allora presidente del Consiglio, cercò di resiste-
re, ma dovette accondiscendere ad una inchiesta ministeriale su tut-
ti gli istituti di emissione. Per prima cosa gli ispettori trovarono che
il direttore della sede di Roma del Banco di Napoli aveva prelevato
oltre due milioni mettendo in cassaforte un pezzo di carta. La circo-
lazione eccedeva dovunque il limite legale e buona parte del porta-
foglio era costituito da cambiali di comodo.
La situazione peggiore era alla Banca Romana. C'era una circola-
zione clandestina di quaranta milioni in parte con biglietti duplicati,
quindi falsi; venti milioni di mancanza nella cassa; contabilità e bi-
lanci falsi. Il governatore della Banca, Bernardo Tanlongo, fu arre-
stato.
Cominciò allora un gioco oscuro di ricatti e di coperture di respon-
sabilità. Giolitti cercò di evitare fino all'ultimo l'inchiesta parlamen-
tare, ma poi dovette arrendersi. Divenne allora chiaro che Tanlongo
aveva finanziato molti parlamentari del governo, e fatto anticipazio-
ni a Francesco Crispi ed allo stesso Giolitti. Questi dovette dimetter-
si. Ma gli successe Crispi il quale era stato uno dei profittatori, a ri-
prova del fatto che gli scandali fanno vittime dovunque ma chi ne
profitta politicamente è la destra. Tanlongo al processo fu assolto, e
non si riuscì mai a capire perché, mentre il direttore della sede di
Roma del Banco di Napoli fu duramente condannato. Difficile allo-
ra come oggi pretendere dalla magistratura che non discrimini tra le
situazioni secondo la persona dell'imputato.

La caduta del Credito Mobiliare

Ma lo scandalo non fu la sola iattura della fine del secolo per il si-
stema bancario italiano. A pochi mesi di distanza l'uno dall'altro fu-
rono posti in liquidazione il Credito Mobiliare e la Società Genera-
le, in sostanza, quando si fosse fatta eccezione per gli istituti di emis-
sione, l'intera banca degna di questo nome in Italia. La caduta fu
certo accelerata dallo scandalo della Banca Romana, ma aveva ori-
gini assai profonde.
La Società Generale di Credito Mobiliare e la Banca Generale Ita-
liana fin dall'origine, più che fare come gli istituti di credito ordina-
rio, che raccoglievano depositi e scontavano cambiali, lavoravano
nella compravendita di titoli, azioni, obbligazioni ed altro, e assiste-
vano le società industrjalj nell~emissione di azioni. Se si fossero mes-
se a ricorrere ai depositj dei risparmiatori avrebbero messo a rischio
il loro denaro e non il proprio, rappresentato dal capitale. Ma non
era facile in Italia raccogljere capitale, a differenza di quantO awe-

IL TRENTENNIO DOPO L'UNITA (1861-93) 21


niva in Francia e in Germania, e perciò il volume dell'investimento
non era molto elevato.
Il Credito Mobiliare aveva preso questa strada dopo che nel 1866,
appena tre anni dopo la sua creazione, a causa di un'ondata di pani-
co aveva dovuto restituire il 70 per cento dei suoi depositi, e si era
salvato soltanto grazie all'aiuto del Crédit Mobilier francese e della
Banca Nazionale. Per tutta la prima parte della loro esistenza i due
istituti si mantennero su livelli di prudenza compatibili con le di-
mensioni del loro capitale. Al Credito Mobiliare facevano capo la
Terni, che grazie alle commesse statali era la maggiore impresa si-
derurgica italiana, quasi tutta l'industria dello zucchero, diverse
compagnie di navigazione, e la Società per il Risanamento di Napo-
li, una società immobiliare. La Banca Generale finanziava diverse
società ferroviarie, e le Ferriere Italiane, impresa siderurgica che al-
lora era diretta da Vilfredo Pareto, che prima di diventare un gran-
de economista era stato un pessimo dirigente industriale, appog-
giandosi sempre sul finanziamento della banca.
Direttore del Credito Mobiliare era Domenico Balduino, nomina-
to da Cavour su suggerimento di Bombrini. Era uomo di scarsa cul-
tura, ma di grande ingegno, di pessimo carattere ma buon conosci-
tore degli uomini. Il suo modo di gestire era autocratico quanto
quello di Bombrini alla Banca Nazionale, e spesso disinvolto. Le
banche estere con cui era in rapporti gli assicuravano come persona
delle partecipazioni in affari di grande importanza, modo inconfu-
tabile seppur indiretto per elargire tangenti.
Alla sua morte nel 1885 Balduino risultò essere uno degli uomini
più ricchi d'Italia. Dopo di lui la banca cominciò a cambiare indiriz-
zo. Già tutte e due le banche avevano investito largamente nelle
operazioni immobiliari, seguendo l'ondata che si era determinata
all'epoca, e quando questa rifluì avevano cominciato a subire forti
perdite, soprattutto a Napoli, nella Società del Risanamento e a
Roma, con l'Immobiliare. Per uscire da questi immobilizzi il succes-
sore di Balduino, Giacinto Frascara, cominciò gradatamente a spo-
stare l'attività verso la raccolta di depositi.
Gli immobilizzi in essere erano però troppo elevati e il peso della
crisi delle società immobiliari cominciava a farsi sentire. Per cercare
di difendersi, le banche ricorsero al sistema di sostenere le società
loro debitrici comprando le loro azioni. Naturalmente di questo si
accorgevano tutti gli operatori economici, la sfiducia cresceva, la
quotazione dei titoli delle banche in Borsa scendeva, dalla Borsa il
panico si estendeva ai depositanti che cominciavano a chiedere di
essere rimborsati.
Per sfuggire alla sorte che sembrava inevitabile, Frascara pensò di
far cambiare pelle al Credito Mobiliare, trasformandolo fino in fon-
do in banca di depositi e comprando banche e attività finanziarie in
tutta Italia, pur di far cassa attraverso l'assunzione di risparmio.
Così assunse esattorie, imprese di credito agrario, persino di antici-
pazione sui frutti pendenti dei raccolti di frutta e ortaggi. Tentò di
organizzare la Cirio, per farla diventare una moderna impresa di la-
vorazione e trasformazione dei prodotti agricoli. Ma l'espansione
costava molto, l'aggravio dei costi cadde su una situazione patrimo-
niale pesante, e la liquidazione divenne inevitabile. In modi meno
convulsi, ma per il resto simili, awenne la caduta della Banca Gene-
rale.
La Banca Nazionale dovette farsi carico delle perdite, per trasfe-
rirle successivamente alla Banca d'Italia.

La costituzione della Banca d'ltalia

Giolitti era convinto che al riordino degli istituti di emissione si do-


vesse arrivare e la crisi della Banca Romana fece precipitare la solu-
zione. Nell'estate del 1893, mentre lo scandalo era in pieno corso, fu
presentato un disegno di legge che riduceva a tre gli istituti di emis-
sione. La Banca Nazionale e le due banche toscane si erano accor-
date per fondersi, e la nuova Banca d'Italia si sarebbe accollata
l'onere delle perdite della Banca Romana. Formalmente la liquida-
zione era a carico dello Stato, che delegava la Banca d'Italia alla sua
gestione, versandole un deposito in buoni del Tesoro. Inoltre alla
Banca era fatto obbligo di liquidare entro dieci anni le immobiliz-
zazioni che erano notevoli per i tre istituti che si fondevano, e per
l'eredità degli istituti di credito mobiliare. Si ponevano dei limiti
alle operazioni di credito: lo sconto non poteva avere durata supe-
riore ai tre mesi e le cambiali dovevano aver tre firme, le anticipa-
zioni potevano essere solo su titoli di Stato o cartelle fondiarie,
mentre si potevano tenere conti correnti. Sulla banca vigilava il mini-
stero del Tesoro.
In questo modo si rimaneva ancora lontani dalla costituzione di
una vera e propria banca centrale. La Banca d'Italia non aveva al-
cun potere verso gli istituti di credito ordinario. Nella politica mo-
netaria la sua autonomia era limitata dalle norme sulla emissione di
biglietti e la sua arma principale era il tasso di sconto. Si era però
compiuto un passo verso la razionalizzazione del sistema, anche se
gli interessi locali, mantenendo i due banchi meridionali come ban-
che di emissione, avevano segnato un punto.

L'età giolittiana (1894-1913)

Quasi a segnare uno spartiacque, nel giro di un anno tra l'autunno


del 1893 e quello del 1894 si verificano tre eventi di capitale impor-
tanza per la storia della banca italiana: la caduta del Credito Mobi-
liare e della Banca Generale; la costituzione della Banca d'Italia; la
costituzione della Banca Commerciale e del Credito Italiano. La ca-
duta dei due istituti mobiliari aveva fatto dire a Maffeo Pantaleoni
che con essi finisse la banca italiana, ed invece si era alle soglie di un
periodo di intenso sviluppo del credito, di pari passo con l'espansio-
ne dell'economia reale.
La Banca Commerciale Italiana nasce per iniziativa di un gruppo
di banche tedesche e svizzere che awertono come in Italia ci sia un
vuoto da riempire. Le banche tedesche erano già molto potenti e
ricche di esperienza nel credito all'industria. Il loro modello era
quello della banca universale, che raccoglieva depositi, faceva scon-
ti ed anticipazioni, concedeva crediti a scadenza media e lunga, ed
anche assumeva partecipazioni nel capitale di società industriali.
Potevano farlo senza correre eccessivi pericoli perché, diversamen-
te dall'Italia dove esistevano solo le due banche cadute, il sistema
era vasto, con molte banche, e con un forte tessuto di rapporti tra di
loro, per cui una banca che si fosse trovata eccessivamente esposta
con situazioni di crisi di un'impresa, poteva contare su una rete di Sl-
curezza. La direzione della Commerciale fu praticamente assunta
subito da Otto Joel, un tedesco di Danzica che si era stabilito in Ita-
lia per ragioni di salute, ed aveva fatto carriera alla Banca Generale
di cui era divenuto un alto funzionario.
Il Credito Italiano nacque in contemporanea alla Comit, dalla con-
vergenza di banchieri genovesi che controllavano una banca di me-
die dimensioni, la Banca di Genova, e di un gruppo di banche mila-
nesi di dimensioni medio-piccole, che temevano di esser tagliate
fuori dal mercato per la presenza dei tedeschi.
La costituzione delle due banche segna un'epoca nuova. Nel primo
decennio del Novecento l'economia italiana superò la stagnazione
che aveva caratterizzato il primo quarantennio dopo l'unità, e rea-
lizzò un significativo passo in avanti sulla via della modernizzazione.
Aumentarono fortemente gli investimenti, e questo poté realizzarsi
solo in&zando i risparmi verso gli impieghi industriali. E fu que-
sta appunto la funzione delle due grandi banche.
Stabilire se furono le banche a suscitare l'espansione economica o
se mvece furono esse stesse un portato dell'espansione È questione
di lana caprina. I due fatti furono concomitanti: senza le banche lo
s~viluppo non sarebbe stato possibile, ma le banche da sole non sa-
reb'aero state capaci di suscitarlo. Il dato di fondo È che dopo una
lunga incubazione l'imprenditorialità italiana comincia a s~uppar-
si Gruppi di proprietari terrieri dotati di spirito d'awenturacome
quelli guidati da Giovanni Agnelli che daranno vita alla:IA.TO per-
sonalità intellettuali, ingegneri, con capacità di comprendere l'e~
nomia, come i fondatori della Edison di Milano, si misurano con il
mercato. Accanto a queste iniziative si rafforzano quelle degli arti-
g~ani che diventano veri e propri piccoli industriali. A Genava, che
per tutto il quarantennio postunitario era stata il centro più v~vo del
l'indu;stria e della finanza, l'Ansaldo raggiunge dimensioni che pos
sono farla considerare come la prima grande impresa italiana. Con
il nuovo secolo il centro di gravità del capitalismo italiano si s~osta
a Milano.
n peso della banca nel funzionamento dell'economia, la finanzia-
r~zzazione del sistema, va crescendo. La domanda di moneta cresce
s~stematicamente più del reddito nominale. A ciò cornsponde an-
che un sensibile cambiamento nella struttura del sistema bancario.
La parte delle società ordinarie di credito È ormai preponderante, e
quella degli istituti di emissione va diminuendo, mentre le Casse di
r~sparmio rimangono più o meno allo stesso livello

STRIJl'rURA DEL SISTEMA DEL CREDITO 1897-1913

Istituti di en~issione
Sobetà ordinarie di credito
(~e di risparmio
Ca~;a depositi e prestiti
Monli di pegno
Banche popolari cooperative
(~e nLrali e artigiane
Is~ti di credito agrario
kfi~i di credito fondiario
Compagnie di assicurazione

Passività (mil) Riparbzione (~)

1897 1913 1897 1913

2162,4 3313,3 25,8 18~


935,4 3473,6 11,2 19,4
1693,9 3403,9 20,2 19,0
1905,5 3990 2~7 Z~2
- 312,3 0,0 1,7
562,1 1574,3 677 8,8
- 100,6 0,0 0,6
28 44 0,3 0,2
941 997,1 11,2 5,6
160 738,7 1,9 ,1

8388,3 17.947,8 100 100

Allo sviluppo industriale e finanziario contribuisce anche il balzo


tecnologico rappresentato dall'introduzione dell'energia elettnca
La produzione elettrica ha bisogno di grandi capitali, ma in quel-
l'epoca aveva un mercato in rapidissima espansione, e le banche vi
potevano trovare impieghi sicuri. In sostanza l'industria elettrica
ebbe un ruolo assai simile a quello delle ferrovie nei paesi dell'Eu-
ropa occidentale, mentre in Italia le costruzioni ferroviarie dovette-
ro dipendere sostanzialmente dagli aiuti statali.
Infine, Giolitti, ma la sua politica era sostanzialmente condivisa
dall'opposizione conservatrice, sceglie deliberatamente di pareg-
giare il bilancio dello Stato attraverso le imposte, piuttosto che fare
ricorso all'indebitamento. La crescita del reddito consentiva di farlo
senza aumentare la pressione tributaria, perché non aumentando le
spese, il gettito delle imposte aumentava per effetto dell'aumento
della base imponibile, ed il bilancio andava in pareggio. Nell'Italia
di oggi i periodi di crescita non sono stati sfruttati per pareggiare
nello stesso modo il bilancio, perché le spese sono continuate ad au-
mentare più che in proporzione, e il disavanzo invece di diminuire si
È sistematicamente accresciuto. Allora tutto il risparmio che si an-
dava formando poteva essere indirizzato verso gli investimenti e lo
sviluppo. Lo Stato giolittiano contribuì anche direttamente a questo
processo. Con la nazionalizzazione delle ferrovie, la Società per le
Strade Ferrate Meridionali, società finanziaria controllata da Pietro
Bastogi, si trovò a disporre di una notevole massa di denaro liquido,
proveniente dagli indennizzi. Lo investì tutto nell'industria elettri-
ca, diventando un punto di riferimento per l'intero settore. Ses-
sant'anni dopo, la nazionalizzazione dell'energia elettrica avrebbe
lasciato nelle mani dei successori della Bastogi una enorme quantità
di denaro, che essi dissiperanno nell'awentura chimica.
Il periodo di espansione e di mutamenti strutturali È però ben cir-
coscritto nel tempo. Le sue caratteristiche sono quelle di una accu-
mulazione iniziale7 più avanzata di quella che si conviene di chiama-
re accumulazione primitiva in cui la formazione del capitale awiene
praticamente a carico esclusivo dell'agricoltura. Non si tratta però
di un vero e proprio decollo, che avrebbe dovuto portare ad un con-
solidamento dei tassi di sviluppo. Il capitalismo italiano mostrava
fin da allora alcuni limiti oggettivi che ne avrebbero marcato il ca-
rattere.

Bonaldo Stringher e la Banca d 'Italia

Al centro del sistema si trovava ormai la Banca d'Italia. Gli altri


due istituti di emissione, il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia, di
fronte alla presenza della Banca d'Italia andarono sempre più assu-
mendo il carattere di istituti di credito ordinario, pur restando pub-
blici. Sotto la direzione di Nicola Miraglia, il Banco di Napoli proce-
dette ad una politica di consolidamento e di espansione, fondandosi
soprattutto sul credito agrario e sul servizio del risparmio degli emi-
grati meridionali.
Al contrario, la Banca d'Italia andò sempre più assumendo il ca-
rattere di banca delle banche, su cui ricadeva l'onere della politica
monetaria e della gestione del sistema creditizio. Fu questa l'opera
di Bonaldo Stringher, che ne fu direttore dal 1900 al 1928, e per due
anni ancora governatore. Stringher proveniva dall'amministrazione
pubblica, come del resto Miraglia, che era stato direttore generale
dell'Agricoltura. Come direttore generale del Tesoro, Stringher
aveva avuto un ruolo di primo piano nella gestione della crisi banca-
ria del 1893. Con lui la Banca d'Italia diventerà una vera e propria
banca centrale, come quelle degli altri paesi più avanzati. Così, l'im-
portanza dei depositi presso la Banca scende, gradatamente ma si-
stematicamente, e per effettuare i risconti con le banche ordinarie
l'istituto di emissione dovrà contare sempre di più sulla moneta.
Le idee di Stringher erano alquanto diverse da quelle dei suoi pre-
decessori alla direzione della Banca Nazionale, per i quali l'esigen-
za di profitto rimaneva in primo piano. Non era un liberista puro,
come del resto non lo era Giolitti, che, ad esempio non esitò a soste-
nere il monopolio di Stato per le assicurazioni sulla vita. Stringher
pensa dagrand comm~s dello Stato, custodendo gelosamente la pro-
pria autonomia nei confronti del governo, ma rimanendo perfetta-
mente consapevole dell'importanza nazionale della propria funzio-
ne e deliberato ad esercitarla tenendo conto degli interessi naziona-
li. Di ingegno fortemente pragmatico, era alieno dal volare alto del-
le grandi costruzioni teoriche e dagli slanci letterari. Così riusciva a
mantenere legati nei fatti una notevole fermezza di princìpi ed una
grande spregiudicatezza. Nei confronti del governo, cercò sempre
di alleggerire i vincoli troppo rigidi, per esempio in materia di circo-
lazione monetaria, per essere lasciato libero di assumere in proprio
le decisioni. Ma queste tenevano conto fortemente delle esigenze
del paese, e così si realizzò un rapporto in cui il Tesoro era pronto
ad allentare le briglie dei controlli. Tutto ciò veniva portato avanti
con grande riservatezza; Stringher era uomo che preferiva essere
più che apparire, detestava il protagonismo, cosa in cui non tutti i
suoi successori lo imiteranno, e teneva a far riassorbire il proprio
operato in quello anonimo dei grandi complessi amministrativi e
statali. Nella sua azione dovette scontrarsi con i dottrinari del liberi-
smo i quali contestavano alla Banca la sua ingerenza, e spesso tale
pressione limitò sensibilmente i suoi movimenti.
Tra i punti fermi della Banca d'Italia furono il perseguimento della
stabilità monetaria e la vigilanza sul sistema bancario. Una banca di
emissione aveva l'interesse ad emettere il maggior numero possibile
di biglietti e quindi tendeva a rendere meno vincolanti gli obblighi
di copertura. Con Stringher invece la Banca d'Italia comincia a se-
guire da vicino la quantità di moneta per evitare l'inflazione e diven-
ta più rispettosa della necessità di adeguate riserve; il cambio della
lira diventa così un elemento di cui la Banca d'Italia deve farsi cari-
co. Diversamente dai teorici più estremi del liberismo, Stringher ri-
teneva che nelle crisi sui cambi le cause reali, come l'esportazione di
capitali e le minori esportazioni, fossero predominanti, mentre Lui-
gi Einaudi insisteva ostinatamente sull'eccesso di moneta in circola-
zione, causato, a suo dire, dai salvataggi di imprese inefficienti.
Per quanto riguarda le banche, la questione più grossa era sempre
quella delle immobilizzazioni, sia come partecipazione al capitale di
società industriali, sia come crediti continuamente rinnovati, che di-
ventavano via via sempre meno esigibili. Senza esplicite prese di po-
sizione, ma di fatto, come era nel suo stile, Stringher, che era perfet-
tamente consapevole dell'importanza del credito per l'economia
reale, favorì il processo di costituzione della banca mista, simile cioÈ
alla banca universale tedesca. Di fronte a situazioni di particolare
difficoltà la Banca d'Italia si awalse della propria autorità di fatto,
non supportata da normative, per trovare soluzione alle crisi, sia che
si trattasse di crisi più propriamente bancarie, come quella della So-
cietà Bancaria Italiana, che di società industriali come l'ILVA. Il si-
stema preferito per intervenire senza coinvolgere la Banca era quel-
lo della costituzione di consorzi, chiamando altre forze a raccolta.
Se necessario, il Tesoro consentiva ad emissioni di biglietti che di
fatto non erano coperti da riserve, per cui c'era sempre disponibilità
di denaro per esigenze straordinarie. In cambio Stringher, quando
ne era sollecitato per ragioni esclusivamente politiche, non esitava a
mettere a disposizione del governo i rapporti e le capacità di media-
zione della Banca d'Italia, che, va sempre tenuto presente, restava
una società privata. Così, ad esempio, sollecitò dalla Banca Com-
merciale e dal Credito Italiano la partecipazione in operazioni che
non davano alcuna prospettiva di profitto, come la costituzione di
banche in Marocco ed in Etiopia. Non esitava a servirsi della sua au-
torità morale anche in modo disinvolto: c'È una sua lettera a Joel in
cui sollecita il suo intervento presso la stampa tedesca per indurla
ad un atteggiamento più comprensivo verso l'impresa di Libia. La
crescita del periodo giolittiano ebbe in Bonaldo Stringher un regista
occulto, ma efficiente e perfettamente consapevole, ritenendo egli
che la Banca d'Italia fosse la (r)naturale tutrice degli interessi econo-
mici del Paese¯.
Lo strumento di cui la Banca si serviva nei confronti delle banche
ordinarie era la politica del risconto. Non esistevano allora stru-
menti che verranno adoperati in seguito per influire sull'economia,
come le riserve obbligatorie o il controllo sull'espansione del credi-
to. Nel primo decennio del secolo, per avere liquido, le banche ri-
scontavano presso la Banca d'Italia le cambiali rilasciate dai clienti.
2STORIA DELLA BANCA IN ITALIA I L'ETA GIOLmlANA (189~1913)
29

L'istituto di emissione era obbligato a valutare la solvibilità di gran


numero di clienti, e così la Banca era in grado di avere sempre il pol-
so dell'andamento delle imprese, e della politica delle Banche com-
merciali e delle Casse di risparmio.
La struttura economica dell'Italia contemporanea È stata contras-
segnata sempre, in forme diverse, da una forte presenza dello Stato.
La cosa che deve esser sottolineata È il tipo di intervento. Nel modo
di operare della Banca d'Italia c'era il germe di un modello di inter-
vento pubblico che sarà specificatamente italiano, quello delle par-
tecipazioni statali, e che adesso È divenuto di moda vituperare,
mentre ha grande originalità e flessibilità. Lo Stato non interveniva
direttamente nell'economia, se non con misure come quelle della
nazionalizzazione delle ferrovie. Il compito di intervenire sull'eco-
nomia lo aveva un organismo autonomo come la Banca d'Italia, le-
gata allo Stato da un rapporto di fatto, piuttosto che da rapporti giu-
ridicamente stabiliti, con la propria autonomia, e sotto la propria re-
sponsabilità, ed anche, quando era necessario, con una dialettica
con l'amministrazione ed il governo.

COMIT e CREDIT

La Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano erano di gran


lunga le più importanti tra le banche che operavano nel credito al-
l'industria. Le Casse di risparmio continuavano ad essere ristrette
nel tradizionale giro degli investimenti immobiliari e costituivano lo
sbocco più importante per la sottoscrizione di titoli pubblici. I ban-
chi meridionali finanziavano il commercio e l'agricoltura, con una
dimensione ancora molto locale; gli altri settori del sistema crediti-
zio, banche popolari e cooperative, avevano dimensioni troppo pic-
cole per operare sul mercato delle imprese. Anche le altre banche
commerciali erano poca cosa.
Nel giro di nove anni le due banche maggiori passano insieme dal
20% al 42% del totale dell'attivo di tutte le banche di credito ordi-
nario; la concentrazione È quindi elevatissima. Per disponibilità di
mezzi e per esperienza operativa, le due grandi banche erano in gra-
do di scegliere la clientela migliore. Lo sviluppo dell'economia c'era,
ma la dimensione complessiva del sistema economico restava sem-
pre piccola, e l'Italia continuava ad essere un paese prevalentemen-
te agricolo. La clientela quindi non era numerosa e le iniziative più
rilevanti finivano sempre nei due istituti maggiori. Per poter entrare
nel mercato bancario e attirare clientela una nuova banca doveva
essere spregiudicata in materia di finanziamenti ed essere pronta ad
accollarsi oneri più pesanti in caso di difficoltà.
A costituire i fondi per il finanziamento alle imprese il capitale del-
le banche contribuiva in misura abbastanza scarsa; di fatto questi
fondi venivano dai depositi, e dalla consistenza dene cambiiali che
venivano commerciate. Non si faceva ricorso alle obbligazioni per
coprire investimenti a lungo ternune perché questo s~ento
nanziario era poco conosciuto, e c'era una diffidenzao di esso
dopo che il Crédit Mobilier era fallito per non essere ri~to a col-
locare tutte le proprie obbligazioni. In confronto ai due i~ituti mo-
biliari che erano caduti nel '93, le due banche mis~te dell'~tà g~olittia-
na avevano maggiori disponibilità ma correvano rischi assai più gra-
vi. A proprio favore potevano disporre di una tecmca ban~a assai
più raffinata, importata dall'estero, e di una rete di collegamenti
con l'estero più efficiente. Le partecipazioni estere. prevalcntemen-
te tedesche fino allo scoppio della prima guerra mondialer ma an-
che con una certa presenza francese e belga, non furono però mai
tali da incidere sostanzialmente sulla gestione delle due banche, che
conservarono la propria autonomia di deasione. Joel si comporlò in
sostanza da finanziere puro, e non si lasciò in~luenzare da pregiudizi
nazionalistici, mentre il Credito fu diretto sempre da un italiano,
Enrico Rava.
COMIT e cREDIT sostenevano attraverso il risa~o di efl~Ui i finan-
ziamenti industriali delle Casse di rispium~o,l~nte della
Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, che asuavoltafinan-
ziava a breve la piccola e media industria Cera quindi una cerla di-
visione di compiti: le due banche finanziavano le imprese maggiori,
attraverso partecipazioni e crediti a medio e lungo termme e le Cas
se di risparmio rifornivano di circolante le impresele
attraverso lo sconto della carta commeIIiale.Leduebanchesiripar-
tivano le sfere di influenza. La co~r aveva interessi prevalenti nel-
l'industria cotoniera e nei lavori pubblici, il c~Drrnel-
la siderurgia, negli zuccherieri e nella chimica, indusllia nascente.
L'intreccio con l'industria era pure assai stretlo, e nei co~gli di
amministrazione delle banche e delle societàindus~ialisiritrovava-
no spesso le stesse persone. Giovanbattista Pirelli, fondaltore della
Società che produceva la gomma, era un consi~liere di _Ira-
zione assai influente del Credito Italiano, e non esitava a servirsi del
la banca per cercare di garantire i propri crediti verso soaetà indu-
striali in difficoltà. In un modo o in un altIo le banche erano trasa-
nate ad intervenire direttamente nella gestione delle i prese. Rava
finì ad esempio per diventare presidente delleerriere, l~impresa si-
derurgica toscana che era stata finanziata dalla Società Genera-
le. L'esperienza fu disastrosa, e la banca dovetle cedere l~impresa
alla Terni. Stessa sorte ebbe un'altra unpresa sidenu~ica sempre fi-
nanziata dal Credito, l'Elba, anch'essa assorbita dalla TernL
Nel complesso l'esperienza di gestione diretta non fu positiva An-
che se non gestivano direttamente le imprese, le banche erano però
sempre coinvolte nel loro destino. I dingenti della c r p~clamava-
30 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA | L'ETA GIOLITTIANA (189~1913)
31

no a gran voce di non essere fautori della banca universale, e di fare


soltanto affari, senza aver di mira la costituzione o il sostegno delle
imprese, ma in realtà quando un'impresa si trovava in difficoltà, la
banca, per non perdere tutto, continuava a finanziare oppure pren-
deva in garanzia le azioni dell'impresa. In questo modo si trovava ad
essere padrona di fatto. Altra via per cui le banche finivano per di-
ventare azioniste delle imprese era quella dei sindacati di colloca-
mentodelle azioni. Quandouna società emetteva azioni, le banche le
sottoscrivevano riservandosi di collocarle esse presso il pubblico. Se
il collocamento era lento o incompleto, le azioni restavano proprie-
tà delle banche. Una terza via per cui le banche si trovavano a dete-
nere azioni di società industria1i era quella dei riporti. Quando si ve-
rificava una sovrabbondanza di liquido, le banche lo impiegavano
comprando azioni a riporto, cioÈ inmpegnandosi a rivenderle ad una
certa data. Questo era un impiego più speculativo, perché se il corso
delle azioni saliva le banche guadagnavano la differenza, ma fino
alla data del riporto le azioni erano di loro proprietà, ed i riporti po-
tevano essere prolungati, quando non conveniva vendere. Spesso il
riporto sostituiva, per ragioni fiscali, le anticipazioni date alle im-
prese prendendo in garanzia le loro azioni. Inoltre era consuetudine
di tutte e due le banche, e particolarmente della Commerciale, di ri-
chiedere ad una impresa finanziata di avere l'esclusiva per tutte le
sue operazioni finanziarie, di essere cioÈ non la banca di fiducia, ma
addirittura esclusiva, e questo allo scopo di battere la concorrenza.
Ciò non poteva che rendere ancora più stretti i rapporti tra banca e
impresa.
Il coinvolgimento delle banche nelle imprese e il rischio che gli im-
mobilizzi comportano È il pericolo immanente su tutta l'attività ban-
caria, particolarmente per le banche di deposito. Questo tema È stato
in Italia il filo conduttore di tutto il dibattito e di tutta la legislazione
sulle banche per senant'anni, mentre in altri paesi È stato risolto o
consentendo apertamente la partecipazione, come in Germania, o
vietandola. Negli Stati Uniti, che hanno una legislazione assurda-
mente complicata, ci sono disposizioni ambigue che le banche siste-
maticamente aggirano.
E ovvio che le banche sono necessarie allo sviluppo delle imprese e
che in un modo o in un altro non possono non essere coinvolte, ed È
molto difficile per non dire impossibile fissare delle norme di com-
portamento. Una banca che rinnova sistematicamente i crediti ad
una impresa È come se fosse azionista, anzi si trova in una condizio-
ne peggiore, perché, almeno sulla carta, non ha alcun potere sul
Consiglio di amministrazione dell'impresa. Di fatto la banca credi-
trice di potere ne ha, ma un rapporto poco chiaro impedisce che le
responsabilità nella conduzione siano chiare e tutto ciò quando le
cose sono pasticciate contribuisce a pasticciarle ancora di più. Se di-
vieti e regolamentazioni possono sempre essere aggirati di fatto, il
punto decisivo sta nella capacità di giudicare i clienti e nel merito
delle decisioni, insieme con la separazione più netta possibile delle
forme di raccolta di fondi da parte della banca, che non può essere
mai totale, ma per cui il buon senso e la pratica consentono di trova-
re un certo equilibrio. Così la questione dei rapporti tra banca e im-
presa che È stato un tema dominante del dibattito economico italia-
no trova le sue radici nel periodo in cui il paese comincia a svilup-
parsi in forme moderne.

La crisi del 1907

La prima crisi grave che il nascente capitalismo italiano dovette af-


frontare si verificò nel 1907. Fu una crisi finanziaria internazionale,
provocata da un eccesso di speculazione di Borsa, ed ebbe origine
negli Stati Uniti. La crisi si estese attraverso i rapporti finanziari in-
ternazionali, mettendo in atto un meccanismo che nel 1929 avrà con-
seguenze disastrose. Una banca che perdeva speculando in Borsa
non pagava i propri debiti alle altre banche con cui era in rapporti, e
così la crisi si propagava. Tutte le banche, per cercar di racimolare
denaro, vendevano le azioni di loro proprietà e restringevano il cre-
dito alle imprese. Tutte e due le cose deprimevano ancora di più la
Borsa in una spirale negativa che spesso non aveva origine nell'eco-
nomia reale.
Quando la crisi investì l'Italia, le banche italiane si trovavano tutte
più o meno fortemente impegnate nella speculazione di Borsa. Par-
ticolarmente impegnata era la Società Bancaria Italiana. Questa
era nata nel 1898 dalla trasformazione di una casa di banchieri pri-
vati ed aveva fin dall'inizio impostato la propria attività sulla pro-
mozione della costituzione di imprese e su quelli che chiamava (r)af-
fari speciali¯ in contrapposizione ai (r)normali affari bancari¯. Strin-
gher ne sostenne l'espansione verso operazioni che più marcata-
mente avevano il carattere di banca universale, fino ad investire le
operazioni su merci. Così essa si era espansa rapidamente, nutren-
do l'ambizione di diventare la terza grande banca italiana, insieme a
COMIT e CREDIT. L'espansione era stata però troppo rapida, e per
fare concorrenza alle due grandi la SBI aveva allargato troppo la
propria attività, e così essa costituiva l'anello più debole della cate-
na. Tra le imprese colpite dalla crisi del 1907 la più rilevante fu la
FL~T, al cui finanziamento la Società Bancaria era interessata forte-
mente; ne derivò una difficoltà generale che stava per sfociare nel
panico e investire l'intero sistema bancario.
L'intervento della Banca d'Italia fu tempestivo. Stringher fece pre-
sente col peso della sua autorità alle altre banche, ma soprattutto
alle due grandi, che una caduta della Bancaria avrebbe provocato
32

un panico generalizzato e le convinse a costituire un consorzio che


aprì un forte credito alla banca pericolante, prendendo in garanzia i
titoli delle società cui la SBI partecipava; dal canto suo la Banca
d'Italia, insieme con gli altri due istituti di emissione, si impegnava a
riscontare il portafoglio della Bancaria se l'apertura di credito del
consorzio si fosse rivelata insufficiente, come peraltro awenne subi-
to.
Si dovette allora compiere un ulteriore passo con credito diretto
della Banca d'Italia e delle due grandi banche. Obiettivo di Strin-
gher, oltre che di arginare il panico, era di mantenere in vita una ter-
za banca. Il primo obiettivo fu raggiunto, il secondo no, per l'oppo-
sizione delle due grandi. La Società Bancaria continuò a partecipa-
re alle grandi operazioni di finanziamento dell'industria, particolar-
mente quella siderurgica, ma rimaneva fragile. La sistemazione si
trascinò finché una nuova banca, la Banca Italiana di Sconto, assor-
bì la SBI. Anche questa sistemazione si doveva poi rivelare fittizia.
L'intervento della Banca d'Italia fu decisivo per il salvataggio, ma
fu possibile soltanto in quanto lo Stato consentì di adoperare la cir-
colazione monetaria in modo più flessibile: aumentò il limite al-
l'emissione dei biglietti e alleggerì fortemente la tassa sulla circola-
zione monetaria, rendendo disponibili somme non indifferenti. Ciò
consentì di evitare il ripetersi della crisi del 1893, quando non esiste-
va un istituto della forza della Banca d'Italia, ma non poteva essere
una soluzione permanente. La pratica continuò per qualche tempo,
finché intervenne la grande crisi del '29 a porvi fine.
Dopo il 1907 la crescita dell'economia italiana subì un brusco ral-
lentamento. Il tasso di incremento della produzione industriale si
dimezzò, mentre gli investimenti ristagnarono completamente. La
cosa che val la pena di rilevare È che la presenza dello Stato si era ri-
velata indispensabile per la promozione dello sviluppo economico e
per la costituzione di una struttura efficiente del credito. La presen-
za dello Stato nell'economia non È quindi un portato recente, È una
realtà caratteristica della struttura italiana così come si È storica-
mente costituita, e non può essere eliminata con facilità senza cam-
biare in modo profondo tutta la società. Di questo tema, fin da allo-
ra, si alimentarono le polemiche dei liberisti, con alla testa Luigi Ei-
naudi. Per lui la causa vera del ristagno e quindi delle debolezze del-
l'economia italiana era l'eccessivo intervento della Banca d'Italia
nei salvataggi, che manteneva in vita imprese poco efficienti. La de-
bolezza del sistema dipendeva invece da fattori ben più profondi,
che solo un esame storico concreto e non una analisi teorica poteva
identificare. In realtà tutte le imprese italiane, e la crisi della FIAT 10
aveva dimostrato, erano più o meno legate allo stesso sistema, e una
estensione della crisi bancaria avrebbe provocato un crollo genera-
lizzato del sistema industriale.

Un nuovo venuto: il Banco di Roma

Accanto alle due grandi banche una terza stava iniziando una espan-
sione che in breve sarebbe diventata vertiginosa: il Banco di Roma.
Questa era una piccola banca, costituita nel 1880 ad opera dell'ari-
stocrazia clericale romana (presidente era Ernesto Pacelli), ed ave-
va vivacchiato nell'attività locale finanziando l'agricoltura e le pic-
cole attività commerciali. L'espansione in Italia era in pratica bloc-
cata dalla soverchiante presenza delle due grandi banche milanesi,
ed allora il Banco di Roma scelse deliberatamente l'espansione al-
l'estero, soprattutto nel bacino del Mediterraneo. Si aprirono sedi
in Libia, allora sotto la sovranità della Turchia, dove ci si espanse
promuovendo la costituzione di imprese per il mercato locale e di
compagnie di navigazione, e cercando di controllare il finanziamen-
to del commercio tra l'ltalia e quella parte dell'Africa. Una parte as-
sai significativa avevano gli investimenti immobiliari in tutta l'area
mediterranea.
All'interno, il Banco di Roma perseguì una politica di espansione
accelerata, attraverso la fusione con altre banche che andava man
mano rilevando. I rapporti con la politica erano assai più intensi che
non quelli delle altre grandi banche, ed era in diretto legame con la
monarchia e con il Vaticano. A motivare la politica di espansione
c'era anche l'obiettivo di costituire un sostegno finanziario per un
partito conservatore cattolico. Il Banco fu accusato dalla stampa di
essere uno dei sollecitatori della guerra di Libia, per potere espan-
dere ancora di più i propri interessi. La politica dei finanziamenti
era assai spregiudicata e le partecipazioni alle imprese, con relativa
immobilizzazione del credito, erano la norma.
L'espansione era sostenuta attraverso un aumento del capitale
piuttosto che della raccolta in depositi e portafoglio. Nel 1911 il Ban-
co superò la Banca Commerciale negli impieghi, diventando la più
grossa banca italiana, ma le restò nettamente inferiore come raccol-
ta. Le giacenze di liquido, che dovevano costituire per le banche una
misura di sicurezza in caso di richieste di rimborso da parte dei ri-
sparmiatori, erano assai scarse. Il meccanismo degli aumenti di ca-
pitale era al limite del lecito, e forse oltrepassava questo limite. Per
assicurarsi una base più larga, il Banco cambiò la base del proprio
azionariato, passando dalle famiglie legate al Vaticano alle banche
cattoliche cooperative, e la responsabilità della gestione dell'istituto
passò da Pacelli a Vicentini. Sotto la pressione del papa Benedet-
to xv si era costituita nel 1914 la Federazione Bancaria Italiana, che
comprendeva molte banche cattoliche. La federazione aveva fonda-
to una banca propria, il Credito Nazionale, che aveva assunto una
partecipazione notevole nel capitale del Banco di Roma, ma era lo
stesso Banco di Roma che lo finanziava. Non era una partecipazio-
ne incrociata, in quanto il Banco non controllava il Credito Nazio-
nale, ma era ancora peggio, perché il credito verso il proprio azioni-
sta era praticamente inesigibile. Piuttosto che partecipare a tale im-
broglio, buon numero di banche cattoliche si trasformarono da coo-
perative in società per azioni, per godere della protezione di
normative più severe. La sistematica incorporazione di altre banche
portava ad altre contraddizioni, perché i crediti delle banche che si
assorbivano erano spesso assai incerti.
Il dissesto non era evitabile e nel 1914 non si poté fare a meno di
render note le perdite e svalutare il capitale. Il Banco diventava il
punto più debole del sistema. Le cause riguardavano anche la natu-
ra e la capacità del suo gruppo dirigente, che non aveva il respiro, la
qualificazione professionale e l'apertura internazionale di quelli
delle altre due grandi banche. Ma la verità È che nell'economia ita-
liana di allora non c'era lo spazio per un'altra grande banca.
Alla fine del decennio giolittiano, l'Italia si trovò di fronte all'esau-
rimento dello slancio che le aveva consentito un progresso significa-
tivo, di cui avevano beneficiato in primo luogo le classi abbienti, ma
che aveva portato a gettare le basi dello sviluppo industriale. A que-
sto punto era necessario un salto di qualità nella capacità imprendi-
toriale, una estensione del processo ancora concentrato in una par-
te del paese. Le banche avevano supplito nella fase iniziale, ma non
potevano far tutto, era la classe imprenditoriale che doveva fare il
salto, e per questo erano necessarie condizioni politiche diverse.
Nel periodo finale della sua egemonia Giolitti abbandonò la formu-
la politica dell'apertura a sinistra che aveva costituito la cornice del-
lo sviluppo, e ripiegò verso l'alleanza con i moderati e i clericali, spa-
ventato dall'avanzata del movimento operaio, che la sua stessa poli-
tica aveva permesso. Si era alle soglie della prima guerra mondiale e
questa non poteva che aggravare le contraddizioni.

Guerra, dopoguerra, crisi (1913-26)

Nel breve periodo di tempo che precede lo scoppio della guerra si


verificano tre fatti rilevanti per il sistema bancario italiano. Il primo
È il salvataggio delle tre società ILVA, Elba e Piombino, cioÈ in pra-
tica dell'intera industria siderurgica italiana, con la sola eccezione
della Terni, che peraltro viveva con le commesse dello Stato. Viene
così in primo piano il nodo della partecipazione delle banche nelle
imprese, che era emerso durante la crisi del 1907.
Come abbiamo visto, la partecipazione delle banche nelle imprese
era assai importante e quando si verificava una recessione che met-
teva in difficoltà le imprese le banche ne risentivano immediata-
mente. Nel 1907 banche e imprese erano state salvate insieme, al-
meno nel punto più debole, quello della Società Bancaria Italiana;
ma si trattava appunto di un salvataggio e non di una soluzione del
problema. Sempre nel contesto della stessa crisi, la FIAT si era trova-
ta sull'orlo del fallimento, quando vennero a coincidere con la crisi
generale una crisi aziendale provocata dall'indebitamento e da vi-
cende giudiziarie che avevano portato alla denunzia di Agnelli e de-
gli altri amministratori per falso in bilancio, aggiotaggio e truffa. Fu-
rono i creditori, banchieri torinesi, società finanziarie, e banche, a
salvare la società insieme con gli amministratori. I finanzieri infatti
erano convinti che industrialmente l'impresa fosse sana, ed avevano
ragione. Il procedimento seguìto per il salvataggio fu la concessione
di nuove aperture di credito, insieme con la svalutazione e la rivalu-
tazione successiva del capitale, assunta dai creditori in un sindacato
di collocamento.
Assai più grave si doveva rivelare la crisi della siderurgia. Qui le
maggiori società, il gruppo Terni, che controllava l'Elba e l'ILVA, da
poco costituita per costruire l'impianto di Bagnoli, e la società di
Piombino, si facevano una forte concorrenza, che aveva portato ad
ù eccessi di capacità produttiva, realizzati con la costruzione di im
pianti finanziati attraverso l'indebitamento. Esattamente quello che
negli anni Settanta si verificherà non solo nuovamente per la side
rurgia, ma anche per la chimica, a dimostrazione del fatto che sem-
bra non sia possibile imparare nulla dall'esperienza. I maggiori cre-
ditori erano la Società Bancaria Italiana, che era di gran lunga la più
36 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

esposta, le due glandi ban~e, e poi direttamente, e per cifre non in-
differenti la Band'Ita~a, mentre compariva la Società per le stra-
de ferrate me~idionali di Bastogi, che era diventata una grande so-
cietà fin~ia
n sahra~afu realizato nel 1911, sempre per iniziativa della
Band'Italia e con l'intervento del govemo che, come al solito,
consentì alla banca (r)ntrale di finanziarsi attraverso l'emissione di
moneta n p~oed~nento segu~to era complicato, e coinvolgeva l'in-
tero sslema ban0rioincluse le Casse di risparmio. Si costituì un
consorz~o di finanz~amento, secondo lo schema già collaudato e l'in-
dustria poté respu~re. La Banca Commerciale però finanziava di-
rettamente la Terni, che era la società capogruppo dell'intera indu-
stria e h cosa dovrà rn~elarsi decisiva nel momento in cui una crisi
ancora piiù forte acl ullerà aUa banca il peso di tutto il passivo deUa
siderur~a
Altro fatto importante, la costituzione della Banca Italiana di
Sconto che assorbe la Società Bancaria Italiana. L'iniziativa parte
da una piula banca di provincia, la Banca di Busto Arsizio, il cui
diretlore, Ang~lo Pogliani, mette in atto un ambizioso piano di svi-
luppo, puntando in modo esplicito suUa politica e cercando di ap-
profi~are della nomea di filogermanesimo della Banca Commer-
~ialeperilreperimentodicapitali. Legandosi ai nazionalisti, Poglia-
ni punta sull'apporto di capitali francesi, e così riesce ad espandere
ristituto che dir~va, trasformandolo in Società di Credito Provin-
ciale n suo interesse ad espandersi s'incontrò con quello della fami-
glia Perrone, che dal 1902 controUava l'Ansaldo, facendone la più
glande indus~ia italiana di armamenti. Insieme acquistarono il con-
trollo deUa Società Bancaria Italiana e la fusero con la Società di
Credito Pr~ale, dando luogo aUa Banca Italiana di Sconto.
Questa perseglù una politica di rapidissima espansione, e durante
laguem arriwpersino a superare la Banca Commerciale come vo-
lume di at~ora però un istituto legato intimamente a certi am-
bienti poliche i Perrone finanziavano, e nei suoi finanziamenti il
peso dell'industria belL;ca era determinante. Inoltre, aveva eredita-
to tutte le si~uazioni pericolose della Bancaria e la sua gestione ri-
mase sempre awent~sa, sulle orme della società incorporata.
n te¯ evento rilevante fu la costituzione del Consorzio per Sov-
venzioni su Valori Industriali, concepito da Stringher per avere una
rete di protezione all'approssimarsi del conflitto. Suo compito era
quello di finaoAare le imprese prendendo in garanzia i titoli delle
stesse Alla luce deUe passate esperienze, Stringher voleva dotarsi
di uno strumento permanente di intervento per superare le crisi del-
le imprese, bancarie ed industriali, senza dover procedere di volta in
volta ricominciando daccapo, soprattutto nel momento in cui la si-
tuaz~one internazionale si andava facendo minacciosa e le prospet-
GUERRA, DOPOGUERRA, CRISI (1913-26) 37

tive di crisi erano più preoccupanti. La novità di maggior rilievo era


che il Consorzio era formato non più dalle banche di credito ordina-
rio, come era awenuto nei precedenti salvataggi, ma direttamente
dalla Banca d'Italia e dagli altri due istituti di emissione, dalle mag-
giori Casse di risparmio, e da due istituti di diritto pubblico, l'Istitu-
to San Paolo di Torino e il Monte dei Paschi di Siena. Il Consorzio
era presieduto dal direttore della Banca d'Italia, cioÈ da Stringher.
La forma di finanziamento avrebbe dovuto essere lo sconto di effet-
ti alle imprese, senza richiedere garanzie eccessivamente gravose,
ma la Banca d'Italia ne garantiva il risconto. A quest'ultima i mezzi
erano assicurati da emissione di biglietti oltre i limiti consentiti, e
quindi l'intera operazione era finanziata attraverso l'emissione di
carta moneta.
Ufficialmente il Consorzio Sowenzioni avrebbe dovuto essere un
organismo prowisorio. Di fatto la sua costituzione rappresentò una
svòlta per l'economia italiana, in quanto si cominciava a realizzare
quell'intervento diretto dello Stato nell'economia che fino ad allora
era stato indiretto. Anche il Consorzio era uno strumento indiretto,
perché formalmente la Banca d'Italia era ancora una società priva-
ta, ma la finzione si stava rapidamente logorando. Del resto, come
già detto, uomini come Giolitti non erano affatto contrari in linea di
principio all'intervento statale, mentre dall'estero numerosi ban-
chieri, partecipanti al capitale delle banche maggiori, premevano
non perché cessasse l'intervento dello Stato, ma perché esso fosse
reso esplicito.
Il Consorzio Sowenzioni inizierà la sua attività nel 1915 e nei primi
anni farà ben poco. Ma di proroga in proroga verrà il momento in
cui la sua esistenza tornerà utile, e dalla sua trasformazione attra-
verso tortuosevicende nascerà addirittura l'IRI, caposaldo di un'epo-
ca della storia dell'economia italiana.

Le banche e la guerra

La prima guerra mondiale ebbe un effetto di crescita drogata per il


capitalismo italiano. Le commesse di Stato forniscono alle grandi
imprese l'occasione per consolidarsi, ma nascono anche progetti e
ambizioni di monopoli industriali. L'Ansaldo, che era la più grande
impresa italiana, pensa di costruire un impero economico che com-
prenda meccanica, siderurgia, elettricità, cantieri, linee di naviga-
zione, e naturalmente giornali. Il cartello dell'acciaio, dominato
dall'ILvA e dalla Terni, fa i suoi affari, mentre l'industria elettrica
continua ad espandersi. E con la guerra e con le commesse militari
che la FIAT diventa una grande impresa moderna e si diversifica
oltre l'auto.
Per far fronte alla domanda le imprese debbono effettuare nuovi
38 STORIA DELLA BANCA IN ITALI GUERRA, DOPOGUERRA.RISI
(1913-26) 39

investimenti per cui non hanno i mezzi, ed allora si rivolgono alle


banche. Quello della guerra È un periodo in cui l'intreccio tra ban-
che e imprese si fa sempre più aggrovigliato. La guerra viene finan-
ziata prevalentemente attraverso il debito pubblico, piuttosto che
con le imposte, e per questo lo Stato deve pagare forti interessi alle
banche che controllano il collocamento dei prestiti: il risultato È una
crescente inflazione di cui queste approfittano largamente.
In termini nominali, gli attivi delle banche crescono vertiginosa-
mente durante la guerra, soprattutto quelli della Banca Italiana di
Sconto. Le vicende di questa banca sono certamente un caso limite
ma comunque costituiscono un documento di quel che era il sistema
bancario in quel frangente. Per aumentare il proprio capitale la
Banca Italiana di Sconto, come aveva già fatto il Banco di Roma, fi-
nanziava imprese private che sottoscrivevano le sue azioni. Attra-
verso questa partecipazione incrociata i fratelli Perrone control-
lavano insieme l'Ansaldo e la Banca, ma anche nelle operazioni cor-
renti questa non brillava per correttezza. Ad esempio commerciava
in titoli tedeschi facendo falsificare i certificati di possesso da conso-
1i tedeschi in paesi neutrali.
Di queste cose la Banca d'Italia era perfettamente al corrente. La
condizione di effettiva salute di banche che si andavano immobi-
lizzando sempre di più, a causa del finanziamento alle imprese, di-
pendeva però dall'andamento dell'economia reale, cioÈ da quello
delle imprese, e questo a loro volta era legato esclusivamente alla
congiuntura bellica. Il sistema era minato internamente, e nell'im-
mediato dopoguerra doveva portare a crisi gravissime. L'economia
italiana versava in condizioni fortemente contraddittorie. Era anco-
ra una economia arretrata, prevalentemente agricola, con un siste-
ma industriale in cui il grosso dell'occupazione era rappresentato da
piccolissime industrie, ma al cui vertice c'erano alcune grandi im-
prese che si ponevano apertamente il problema del controllo del-
l'intero sistema economico. In mezzo non c'era niente. Le concen-
trazioni finanziarie non erano a livello delle grandi banche di altri
paesi, ma avevano in Italia un peso assai rilevante.
La guerra aveva messo queste grandi imprese industriali in una po-
sizione di forza nei confronti dello Stato a cui cercavano di imporre
le proprie condizioni. Nasce allora l'idea dell'organizzazione degli
industriali e hanno origine i tentativi di costituire sistemi integrati
finanziari e industriali, di cui i rapporti tra Ansaldo e Banca Italiana
di Sconto erano il caso più evidente. Prima ancora che la guerra fi-
nisse, i Perrone, fondandosi naturalmente sulla Banca di Sconto
tentarono di impadronirsi addirittura della Banca Commerciale.
Per reazione, temendo di essere ricacciati in un angolo, Agnelli e
Gualino, il quale aveva iniziato la produzione delle fibre artificiali
con la SNIA-Viscosa, tentarono di impadronirsi del Credito Italiano.
La Banca d'Italia si guardò bene dall'intervenire, scaricando la re-
sponsabilità sul governo. Le ostilità ebbero una tregua nell'estate
del 1918, per iniziativa del ministro del Tesoro, Francesco Saverio
Nitti, che promosse un accordo tra le maggiori banche. Dovevano
riprendere nel 1920, quando si conclusero con la sconfitta dei grup-
pi industriali. Ma anche questa awentura contribuì a creare le con-
dizioni per il crollo dell'Ansaldo e della Banca Italiana di Sconto.

La crisi del dopoguerra

Era inevitabile che dopo un periodo talmente frenetico il passag-


gio all'economia di pace fosse assai tumultuoso. L'inflazione che
durante la guerra aveva fornito i mezzi finanziari per alimentare
non solo la produzione, ma i tentativi di scalata, serviva adesso al
governo per ridurre l'onere del debito pubblico. Quanto alle impre-
se, la caduta delle commesse belliche le riponeva di fronte all'arre-
tratezza del mercato interno italiano. Le grandi imprese cercarono
di opporsi al pericolo estendendo il proprio potere per controllare
quanto più possibile il mercato, ma questo le poneva le une contro
le altre. Così, oltre ai tentativi di scalata alle banche, ci furono scon-
tri violentissimi tra la Sconto e la Commerciale per il controllo del-
l'industria elettrica, mentre l~ILVA cercava di impadronirsi della
Edison per controllare una produzione necessaria alla siderurgia da
forno elettrico. Ma i tentativi di espansione erano sempre costosi, e
le condizioni di imprese già in difficoltà per la riconversione post-
bellica si aggravavano sistematicamente. La crisi andava quindi ma-
turando, in parallelo con la crisi sociale e politica del paese, che
avrebbe portato all'awento del fascismo.
Sul terreno economico, la crisi sarebbe scoppiata nel 1921. Ancora
una volta la scintilla che la adescò veniva dalla situazione interna-
zionale, da una forte ripresa delle esportazioni americane che aveva
compresso fortemente i prezzi in una Europa stremata dalla guerra.
I primi a subirne l'impatto furono i siderurgici, che già da prima del-
la guerra si trovavano ad avere un eccesso di capacità produttiva,
costruita con soldi presi a prestito. In Borsa la quotazione dell'ILvA
crollò e le perdite assunsero un ritmo insostenibile. A questo punto
la Commerciale ed il Credito, che erano i maggiori creditori, caccia-
rono il vecchio gruppo dirigente, misero i propri uomini alla direzio-
ne della società, e fecero ricorso ad uno dei trucchi di ingegneria fi-
nanziaria cui le banche ricorrono spesso, e spesso anche al solo sco-
po di far credere agli altri o illudersi esse stesse di aver sistemato
qualcosa. L'espediente trovato da Giuseppe Toeplitz, tedesco del
Baltico italianizzato, nuovo massimo dirigente della Commerciale
dopo la morte di Joel, fu la costituzione di una società per la gestio-
ne industriale, chiamata Società Esercizi Siderurgici che prese in af-
40 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

fitto dall'ILvA gli impianti per gestirli. In questo modo si separavano


gestione industriale e situazione finanziaria che rimaneva a carico
dcll'ILVA. La cosa non risolveva niente, perché nessuno era in grado
di stabilire chi avrebbe pagato le perdite, che di fatto continuavano
a rimanere sulle spalle delle due banche.
La seconda vittima fu la Banca Italiana di Sconto e qui si innescò
una reazione a catena dati i legami tra questa e l'Ansaldo. Entram-
be le imprese avevano largamente profittato della guerra, o meglio
ne avevano profittato i loro dirigenti; i legami con la politica arriva-
vano al punto che la BIS aprì una filiale in Georgia quando Vittorio
Emanuele Orlando presidente del Consiglio pensava ad una awen-
tura militare nel Caucaso. Venuta meno ogni possibilità per questo
ridicolo progetto, la banca dovette registrare le perdite relative. Ma
questo era solo un esempio limite; le difficoltà vere della Banca di
Sconto stavano nel fatto che essa finanziava essenzialmente il giro
di affari dell'Ansaldo e solo quello. Le difficoltà della riconversione
dall'industria bellica avevano aumentato enormemente la richiesta
di denaro e nemmeno l'incremento dei depositi bastava a coprire le
nuove richieste.
Un tentativo disperato per uscire da questa situazione fu il tentati-
vo di scalare la Banca Commerciale per procacciarsi liquidità. La
COMIT reagì costituendo la società Comofin, Consorzio Mobiliare
Finanziario, in cui si concentrarono tutte le azioni disponibili della
COMIT, per evitare che fossero acquistate dai Perrone. La Comofin
comprava azioni COMIT, e di fatto era finanziata dalla stessa COMIT
secondo il sistema messo in atto a suo tempo dal Banco di Roma.
Ciò consentì alla COMIT di resistere all'assalto, ma portò alla cadu-
ta della Banca di Sconto. Vista persa la partita, i fratelli Perrone de-
cisero di spremere al massimo la banca, e le fecero costituire una so-
cietà di navigazione, che commissionò, pagando gli anticipi, dieci
navi ai cantieri Ansaldo, oltre che acquistare, in contanti o a riporto,
una gran quantità di azioni Ansaldo. La catastrofe ebbe inizio quan-
do gli operatori finanziari stranieri che erano al corrente della situa-
zione cominciarono a ritirare i propri depositi suscitando il panico
dei risparmiatori italiani. Stringher cercò di salvare la banca, alla cui
costituzione aveva dato un aperto appoggio, attraverso il sistema
già usato per la Società Bancaria, facendo prendere al governo l'ini-
ziativa della costituzione di un consorzio di altre banche che antici-
passero i fondi necessari, ma questa volta il danno era irreparabile,
e nel dicembre 1921 la Banca Italiana di Sconto dovette chiudere gli
sportelli. Un decreto legge che le consentiva la moratoria sui debiti
verso i depositanti venne promulgato apposta per evitare un falli-
mento che avrebbe distrutto le imprese debitrici della banca, e così
i soli danneggiati irreparabilmente rimasero i piccoli risparmiatori.
L'Ansaldo restava così priva della sua fonte principale di finanzia

GUERRA, DOPOGUERRA, CRISI (191~6) 41

menti ed entrava in una crisi gravissima Stringher pretese, con ar-


gomenti fondati sulla documentazione relativa ai fratelli Perrone
reperita nella banca, il loro allontanamento dall'Aosaldo. Angelo
Pogliani ed i due fratelli furono poi processati per la bancarotta, ma
vennero assolti, e nella sentenza fu dato leggere allusioni alle loro
benemerenze patriottiche. L'Aosaldo fu tenuta in piedi dal Consor-
zio Sowenzioni, a cui erano passate le azioni in mano alla Banca di
Sconto: nel suo ambito venne costituita nel 1922 una sezione auto-
noma, che anticipava somme senza molte speranze di restituzione.
Il Consorzio era sostenuto a sua volta dalla Banca d'Italia attraverso
la stampa di biglietti, come sempre era accaduto. Alla liquidazione
della Banca Italiana di Sconto provvide un istituto c061ituito appos
tamente, la Banca Nazionale di Credito, che sistemò molte partite,
ma mantenne in vita l'organizzazione per la raccolta del rispar~uo e
rimase in vita finché nel 1930 non si fuse col Credito Italiano.
In questo modo, appena tre anoi dopo la fine della guerra, si era
prodotta una profonda trasformazione nella struttura f~nao~aria e
industriale del Paese. La parte più rilevante della siderurg~a, dove
l'eccezione era costituita dalla Falck, proprietàdiuna~migliadi in-
dustriali, si trovava nelle maoi delle banche, mentre la Banca d'Ita-
lia, che era ancora, non dimentichiamolo, una società pr~vata, disci-
plinata dal diritto pubblico solo come banca di emiss~one, si trovava
a controllare, sia pur indirettamente attraverso il Coosorzio Sov-
venzioni, la più grande azienda meccaoica e cantieristica ed altre
minori, ed a gestire la liquidazione di una grande banca Stringher
aveva fatto tutto ciò con l'obiettivo consapevole di salvare rindu-
stria. Aveva cercato a lungo, prima con la Società Bancaria e poi con
la Sconto, di mantenere in vita un terzo polo tra le banche miste, ma
quando vide che la situazione era iosor.tembile, non er.itò a impe-
gnare la Banca d'Italia a sostegno del Consorzio So~lvenziooi pur di
salvare l'industria. L'Ansaldo poté essere salvata ed avviata alla ri-
strutturazione, i crediti delle banche fu~no in parte almeno rioo
perti, gli unici veri sacrificati furono i depor.itanti, i piccoli r~spar-
miatori, che in qualche modo si erano lasciati abbindolare dalla
(r)banca italianissima¯, come veniva chiamata la BL~.. Non per nulla il
suo presidente, che noo cootava nulla, era Guglielmo Marconi.
Il processo non si fermava qui, perché la crisi era ancora più pro-
fonda, ed investiva rapidamente anche il Banco di Roma Questo
era da sempre la più fragile tra le grandi banche nazionali, e doveva
far ricorso sistematicamente al finaoziamento della Banca d'Italia,
e risultava fortemente indebitato coo essa Quella che di fatto era
una vertenza tra il Banco e la Banca d'ltalia si trascioò per mer.i, coo
il governo che aveva paura a lasciar andare in crisi un'altra grande
banca dopo la Sconto, e Stringher che rifioaoziava il Banco ma otte-
neva dal governo nuove coocessioni io materia di emir.sione di mo-
42 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

oeta. Finché nel 1923, dopo l'awento del fascismo, e dopo aver otte-
nuto dal Vaticano tramite interventi assai discreti, il cambiamento
nella direzione deila Banca con l'allontanamento del suo direttore
Vicentini, si pervenne ad una sistemazione di durata più lunga. Le
partecipazioni e le immobilizzazioni del Banco di Roma venivano
cedute alla Società Finanziaria per l'Industria e il Commercio, che
dava questi titoli in garanzia per lo sconto di cambiali alla Sezione
Autonoma del Consorzio Sowenzioni. La Sezione Autonoma era
finaoziata dalla Banca d'Italia, e così questa finanziava indiretta-
mente il Banco di Roma. Ma non si trattava di solo finanziamento,
in quanto la Società Finanziaria entrava in possesso delle azioni del
Banco di Roma di proprietà del Credito Nazionale, che era stato
obbligato a cederle a basso prezzo, e quindi la Banca d'Italia, attra-
verso l'interposizione del Consorzio Sowenzioni e della Società Fi-
nanziaria, controllava non solo le attività industriali che dal Banco
provenivano, ma il capitale dello stesso Banco.
Tutta la prima metà degli anni Venti È un periodo turbolento per il
sistema bancario italiano. L'inflazione alimentava le speculazioni
più assurde, al limite della truffa. Un tal Marinelli, impiegato cac-
ciato dalle ferrovie per assenteismo, riuscì a costituire per breve tem-
po un piccolo impero col sistema di comprare a basso prezzo piccole
banche in difficoltà per mancanza di mezzi propri, ma con buoni de-
positi. Quando doveva pagare i debiti, comprava altre banche, fin-
ché la catena di S. Antonio non fu interrotta. Anche le grandi ban-
che, come la COMIT, furono toccate da difficoltà nella propria liqui-
dità, ma superarono la situazione. A questa situazione pose fine la
politica di deflazione attuata dal governo nel 1926, ma le banche si
portavano dietro tutta la loro intrinseca fragilità.

Nuove iniziative dello Stato

Di fatto questi anni segnano, anche a causa delle ripetute crisi, una
più forte presenza dello Stato nel sistema. Questo aweniva anche su
un terreno diverso dal finanziamento dell'industria, grazie a due ini-
ziative che in quel periodo prendono corpo.
La prima È il finanziamento delle opere pubbliche. Con la crescita
economica il bisogno di infrastrutture era aumentato, e la debole fi-
nanza locale non era in grado di approvvigionarsi dei mezzi neces-
sari. Il problema fu affrontato con la costituzione del Crediop, Con-
sorzio di Credito per le Opere Pubbliche, costituito nel 1920 col go-
verno di Francesco Saverio Nitti, che era un sostenitore dell'inter-
vento dello Stato nell'economia. Il progetto fu affidato ad Alberto
Beneduce, che diventerà una delle figure chiave della storia econo-
mica dell'Italia contemporanea. Questi era un professore di statisti-
ca, socialista riformista, legato a Nitti, ed era consigliere delegato

GUERRA, DOPOGUERRA, CRISI (1913-26)

dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni. L'idea di Beneduce era


semplice: il Crediop era un consorzio di enti e istituti di credito pub-
blici, che concedeva ai Comuni e ad altri enti, tra cui l'Opera Nazio-
nale Combattenti, di cui lo stesso Beneduce era presidente, dei mu-
tui garantiti dai contributi statali. L'Opera dei Combattenti aveva il
compito di realizzare la bonifica nei terreni che le venivano concessi
in gestione. Il Consorzio si sarebbe finanziato attraverso l'emissione
di obbligazioni, anch'esse garantite dallo Stato. In questo modo si
superavano le lungaggini dell'erogazione dei contributi ed i Comuni
potevano investire più facilmente senza bisogno di indebitarsi con
le banche a costi più alti. La cosa più interessante era però che ai ri-
sparmiatori, sempre diffidenti, allora come oggi, verso l'investimen-
to in capitale di rischio, si offriva una alternativa ai titoli di Stato con
le obbligazioni garantite, che erano un titolo sicuro, mentre la rac-
colta veniva canalizzata direttamente verso impieghi produttivi.
Il Crediop si espanse rapidamente perché rispondeva ad esigenze
reali, cui l'iniziativa privata non era in grado di dare risposta. Il suo
capitale fu formato dalla Cassa Depositi e Prestiti, che raccoglieva il
risparmio postale, dall'INA e dalla Cassa di Previdenza. Un successo
ancora più grande ebbe l'lclPu, Istituto di Credito per le Imprese di
Pubblica Utilità, la cui struttura era analoga a quella del Crediop ed
aveva il compito di finanziare le imprese che realizzavano investi-
menti in settori in cui vigeva il regime di concessione da parte dello
Stato, in pratica nell'elettricità e nei telefoni. Le imprese elettriche,
dopo la grande espansione degli inizi del secolo, si trovavano in dif-
ficoltà per la crisi finanziaria seguita alla riconversione dalla produ-
zione bellica. L'industria elettrica era una grande divoratrice di ca-
pitale e salutò l'istituzione dell'ente con grande favore. Sulla stessa
falsariga venne costituito l'Istituto per il Credito Navale. Di tutti e
tre gli enti il presidente era Beneduce, che era anche presidente del-
la Bastogi, cioÈ della maggiore istituzione finanziaria privata.
Beneduce già a quei tempi, alla fine degli anni Venti, concentrava
nelle sue mani un potere immenso, tanto che si parlò di lui come del
dittatore economico italiano. Era un uomo molto riservato, assai vi-
cino in questo a Bonaldo Stringher, che praticamente lo lanciò, in-
sieme a Francesco Saverio Nitti. Ha lasciato pochissime carte e le
sue concezioni non furono mai esposte organicamente, anche se
sono ricostruibili. Apparteneva, insieme con Nitti e Stringher, a quel-
la corrente di pensiero che riteneva che l'interesse generale richie-
desse un intervento dello Stato, non solo disciplinatore, ma anche
diretto. In questo senso ad esempio si era mosso per sostenere l'isti-
tuzione della sezione speciale del Consorzio Sowenzioni, in modo
da identificare una struttura con caratteristiche proprie per interve-
nire nell'industria. Negli anni successivi la cosa avrebbe avuto svi-
luppi allora non prevedibili.
44 STORIA DELLA BANCA IN ITAUA

L'altro intervento dello Stato ebbe in partenza un carattere aper-


tamente sociale. Si trattava dell'Istituto di Credito per la Coopera-
zione, che era stato istituito in piena epoca giolittiana nel 1912, se-
condo la formula concepita da Stringher e già sperimentata di un
istituto formato dalla Banca d'Italia, e da enti pubblici, le Casse di
risparmio, il Monte dei Paschi di Siena e la Cassa di Previdenza,
nonché dalla più grossa banca cooperativa che era l'Istituto di Cre-
dito per le Cooperative di Milano. La formula aveva il vantaggio di
realizzare un intervento pubblico senza far apparire direttamente lo
Stato, cosa che avrebbe incontrato una larga opposizione.
L'istituto non ebbe vita facile: vivacchiò senza realizzare gli obiet-
tivi istituzionali, soprattutto a causa della rottura del rapporto poli-
tico che Giolitti aveva costituito con le cooperative. Nel 1925 si tro-
vava sull'orlo del fallimento, ma dovette il suo rilancio alla nomina a
direttore generale di Arturo Osio, che proveniva dalla sinistra sin-
dacalista cattolica. Questi, sotto l'egida del fascismo, realizzò una
profonda trasformazione della banca attraverso legami organici con
i sindacati fascisti, e acquistando benemerenze verso il regime,
come la sottoscrizione di massa del prestito del Littorio. Nel 1929
diventò Banca Nazionale del Lavoro, emanazione diretta dello Sta-
to, e privilegiata nelle operazioni di cassa su fondi statali. La BNL
ebbe uno sviluppo rapidissimo, per le agevolazioni particolari che
aveva nella raccolta dei depositi attraverso i legami con i sindacati
fascisti e riuscì a diventare la prima banca italiana per volume di de-
positi. Essa serviva inoltre per realizzare interventi speciali del regi-
me, attraverso la costituzione di sezioni speciali, per il credito cine-
matografico, quando si volle sostenere la cinematografia italiana, o
per interventi in settori industriali come quello del marmo di Car-
rara.

La politica delfascismo

L'awento del fascismo aveva portato fin dai primi tempi ad una
nuova concezione, assai più esplicita, dell'intervento dello Stato.
Le crisi e i salvataggi tra il 1920 e il 1923 non avevano certo risolto
tutti i problemi e tanto le banche quanto l'industria continuavano a
navigare in un alternarsi di brevi periodi di espansione e ricadute
spesso inaspettate. Così dopo un periodo di credito facile negli anni
di crisi, quando il governo fascista adottò una politica di deflazione,
le banche si trovarono in serie difficoltà. Particolarmente significa-
tiva fu la crisi del gruppo di banche cattoliche che facevano capo al
Credito Nazionale. Lo Stato, ormai controllato dai fascisti, lasciò
aggravare la crisi perché intendeva colpire uno dei punti di forza del
Partito Popolare. Si procedette ad una serie di incorporazioni e fu-
sioni; così la Banca Vicentina diventò, incorporando sei piccole

GUERRA, DOPOGUERRA, CRISI (1913-26) 45

banche locali, la Banca Cattolica del Veneto, che in anni recenti do-
veva fondersi col Banco Ambrosiano, dando luogo all'Ambroveneto.
La fragilità del sistema era ormai abbastanza evidente. Da tempo
Stringher pressava perché alla Banca d'Italia fossero dati i poteri di
ispezionare le banche private per controllare che le operazioni non
andassero oltre certi limiti. Nel 1913 Francesco Saverio Nitti aveva
preparato un progetto di legge per istituire la vigilanza sul sistema
bancario, affidandola alla Banca d'Italia, ma non riuscì a farlo ap-
provare dal Parlamento, perché l'opposizione delle banche private
era fortissima. Nel clima del nuovo regime l'obiettivo era certamen-
te più facile da perseguire. Beneduce preparò per incarico di Strin-
gher un progetto che nel 1926 divenne legge.
La base ideologica della legge era che il risparmio È materia di in-
teresse nazionale e deve essere tutelato dallo Stato. La Banca d'Ita-
lia diventava anche formalmente un organo pubblico e l'unico isti-
tuto di emissione. Ad essa veniva affidata la vigilanza sul sistema
creditizio: nei confronti di questo venivano stabiliti un insieme di
obblighi e fissati certi requisiti, come capitale minimo, rapporto mi-
nimo tra impieghi e depositi, limiti di fido, accantonamenti a riserva
obbligatori.
La storia delle banche italiane fino al 1926 È storia dei rapporti tra
banca e industria. Protagoniste furono le grandi banche miste e le
grandi imprese che si costituivano e si affacciavano alla vita econo-
mica del paese per assumervi rapidamente una funzione dominan-
te. Il peso delle banche commerciali aumenta fortemente nel perio-
do, ma ciò non vuol dire che l'Italia fosse diventata un paese moder-
no. La struttura dell'economia italiana era ancora agricola in modo
predominante, mentre la struttura dell'industria era ancora fondata
sulla presenza di un gruppo di grandi imprese ed una miriade di pic-
colissime altre imprese, dedicate al mercato locale o subfornitrici
J delle grandi. Anche i servizi, con la sola eccezione delle compagnie
di navigazione, erano legati o a una dimensione esclusivamente
locale, molto limitata, o alle grandi imprese.
Il riflesso di questa struttura economica su quella del credito È evi-
dente. La fonte principale di risparmio delle famiglie era costituita
dai produttori dell'agricoltura, ed È comprensibile che questi fosse-
ro restii ad impegnarsi nella sottoscrizione di capitale di rischio del-
le imprese. Il risparmio era raccolto dalle Casse di risparmio e dalle
numerose piccole banche, comprese quelle cooperative, i cui impieghi
erano di natura locale e che finanziavano l'artigianato, il piccolo com-
mercio e soprattutto le costruzioni di abitazioni. Il risconto collegava
questo sistema di banche minori alle grandi, in quanto le prime ricorre-
vano alle seconde per le loro necessità di finanziamento. In pratica
quindi il sistema riusciva a trasferire alla parte dinamica dell'economia,
le grandi imprese, il risparmio che si formava nell'agricoltura. Nel siste-
STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

ma interveniva anche lo Stato con il risparmio postale, il quale, at-


traverso la Cassa Depositi e Prestiti, finanziava gli enti locali e le in-
frastrutture; alla Cassa si erano andati aggiungendo i vari istituti pub-
blici.
STR[ITTURA DEL SISTEMA

Passivo

Istituti di emissione
Società ordinarie di credito
Ditte bancarie
Istituti di diritto pubblico
Casse di risparmio
Cassa Depositi e Prestiti
Monti di pegno
Banche popolari cooperative
Casse rurali e artigiane
Istituti di credito agrario
Istituti di credito fondiario
Istituti di credito mobiliare
Assicurazioni

1913

3313
3473

3403
3990
312
157
100
44
997

738

,,REDrrlZ10 (1913-27)

(milioni)

1927

23.730
42.066
2172
4705
18.252
17.234
1475
9395
1397
721
2142
2889
7307

Ripartizione %

1913 1927

18,5 17,8
19,4 31,5

- 3,5
19,0 13,7
22,2 12,9
1,7 1,1
8,8 7,0
0,6 1,0
0,2 0,5
5,6 1,6
- 2,2
4,1 5,5

Anche se la condizione necessaria per il decollo era la formazione


di adeguata capacità imprenditoriale, senza le banche difficilmente
si sarebbe potuto realizzare quel livello di accumulazione di capitale
indispensabile per la crescita dell'economia. Ma l'insufficienza del
risparmio di rischio impose un intervento dello Stato, non voluto, ma
portato dai fatti, per cui la fase nascente del capitalismo contempora-
neo italiano doveva portare dentro di sé una contraddizione che si tra-
scinerà a lungo. Gli attuali ideologi delle privatizzazioni, che attribui-
scono a storture politiche recenti o a chissà quale psicologia la presenza
dello Stato nell'economia, non comprendono che si tratta di una ca-
ratteristica storica che non può essere liquidata facilmente.

La grande crisi e la riforma (1926-40)

Dire che la legge bancaria del 1926 segni un punto di arrivo sareb-
be fare una scelta di comodo. La realtà È che l'economia e il sistema
bancario italiano non si ripresero daUa crisi del dopoguerra, finché
l'economia e le istituzioni non cozzarono con la grande crisi del
1929 che doveva portare ad una trasformazione profonda del siste-
ma. Il periodo compreso tra le due guerre È tumultuoso per un siste-
ma bancario, attraversato da crisi ripetute che non investono soltan-
to le grandi banche finanziatrici dell'industria, ma anche le piccole e
medie istituzioni creditizie che avevano un giro di affari locale e che
erano riuscite a difendere, senza infamia e senza lode, una funzione
loro propria.
Le incoerenze e le scelte di puro prestigio della politica economica
del fascismo contribuirono non poco a creare ta1e situazione di in-
certezza e di confusione. L'inflazione postbellica si era protratta nel
tempo, in corrispondenza con un livello elevato della produzione in-
dustriale, e questo creava le condizioni per una espansione del cre-
dito in cui sembrava che tutto fosse possibile. Le istituzioni di credi-
to locali quindi si moltiplicarono, mentre le grandi banche comin-
ciarono a considerare la crisi della Banca di Sconto come un inci-
dente di percorso.
La spinta inflazionistica non poteva però non portare ad un peg-
gioramento del cambio della lira, che puntualmente si verificò. Il
governo cercò di sostenere la moneta italiana, intervenendo diretta-
mente sul mercato dei cambi attraverso il Tesoro, ma non c'era gran-
de spazio di manovra e dopo aver dissipato somme ingentissime, si
dovette gettare la spugna. La risposta fu una brusca inversione di
politica, con il discorso di Mussolini a Pesaro nell'agosto 1926, in cui
si comunicava la decisione di tenere la lira ancorata alla sterlina in-
glese, su una parità di novanta lire. Da cui la definizione di (r)Quota
Novanta¯ passata alla storia per questa politica.
Il riordinamento degli istituti di emissione ed il monopolio della
Banca d'Italia, nonché le decisioni in materia di vigilanza sulle ban-
che, sono coerenti con una politica deflazionistica sostenuta in pri-
mo luogo da misure amministrative. La legge bancaria fu accompa-
gnata da norme severissime sui limiti di credito che ogni istituto po-
48 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

teva erogare in rapporto al patrimonio, non più di venti volte, con


l'obbligo di investire in titoli di Stato la parte eccedente dei depositi,
e con l'assoggettamento delle Casse di risparmio alla vigilanza da
parte della Banca d'Italia Altrettanto importante fu la conversione
forzata dei buoni del Tesoro in titoli consolidati, cioÈ a lungo termi-
ne, che migliora~ono di gran lunga la posizione debitrice dello Stato.
Le conseguenze della deflazione si fecero sentire in tutta l'econo-
mia ed in particolare nel sistema bancario. Le piccole banche non
poterono reggere la deflazione: molte fallirono, altre furono assor-
bite. Le Casse di risparmio erano 203 alla fine del 1927, nel 1930
erano ridotte a 99. Le banche di credito ordinario che nel 1926 era-
no 223, si erano ridotte a 189 nel 1929. n Banco di Napoli dovette
creare la Banca Agricola Commerciale del Mezzogiorno, per gesti-
re la liquidazione di una serie di istituti meridionali. Il Monte dei
Paschi di Siena acquistò il controllo della Banca Toscana, che già ri-
sultava dalla fusione di due banche in crisi. Tutto ciò, si badi bene,
per effetto della deflazione interna prima della grande crisi che
scosse il mondo nel 1929.
Le grandi baoche ne uscivano meglio. La COMIT ad esempio, si ser-
vì della situazione, oltre che dei legami tra Giuseppe Toeplitz e Ber-
nardino Nogarailbanchiere del Vaticano, per rafforzare la propria
consistenza di depositi assumendo la gestione delle somme che lo
Stato italiano aveva concesso alla Santa Sede con il Concordato del
1929. Erogare tutto assieme avrebbe provocato un'ondata inflazio-
nistica e perciò la cOMlT si assunse il compito di depositaria e di
erogatrice di anticipazioni.
L'unica banca che approfittò della situazione per espandersi fu la
Banca Nazionale del Lavoro. La banca di Arturo Osio si mise a ra-
strellare tutte le banche che poteva per accrescere la propria pre-
senza te~ritoriale. Così inGunerO nel 1929 undici banche cattoliche
che versavano in continue ambasce, e nel 1932 assorbì la Banca Agri-
cola Italiana che era selvita a finan~are la SNIA-Viscosa di Gualino.
I salvataggi erano sempre a spese della Banca d'Italia che oscillava
tra soluzioni autoritarie e oedimenti allo stato di necessità. Nel 1926
la sezione spcciale del Consorzio Sowenzioni, braccio armato del-
I'intervento della Banca d'Italia nell'economia, si trasforma in una
struttura permanente, rIstituto di Liquidazioni. La cosa È rilevante,
perché era la prima volta che si costituiva un ente pubblico dotato di
personalità giuridica autonoma per assumere iniziative di parteci-
pazione, e ine~itabilmente di gestione, nell'economia. Dei pericoli
della situazione per l'economia reale, con le grandi banche prese
nella stretta tra ingenti partecipazioni al capitale delle imprese in-
dustriali e la deflazione del credito, Stringher era ben consapevole,
ed oltre a tener pronto l'Istituto di Liquidazioni, cercò di spingere le
banche a disfarsi delle azioni in loro possesso, vendendole in Borsa,

LA GRANDE ('RlCI F l.A RIFoRMA (1926 40 49

con la indispensabile gradualità. I tempi non erano però tali da con-


sentire la riuscita della manovra.
La deflazione ebbe anche un'altra conseguenza di notevole porta-
ta. Il deprezzamento del proprio titolo era il terrore delle due gran-
di banche, COMIT e CREDIT, perché temevano che ciò avrebbe potu-
to provocare una corsa a ritirare i depositi. Tutte e due sostennero
dunque la quotazione delle proprie azioni, con denaro che non po-
teva provenire che dai depositi, e quindi immobilizzandosi ancora
più pesantemente, e per giunta nel proprio capitale. La COMIT Si
servi di Comofin, il Consorzio Mobiliare Finanziario, che finanziava
perché acquistasse le proprie azioni; il Credito Italiano si servì della
Società Finanziaria Italiana e della Elettrofinanziaria, in cui parte-
cipavano anche alcune imprese elettriche. Il Banco di Roma era
controllato dalla Società Nazionale Mobiliare, che però era sotto il
controllo dell'Istituto di Liquidazioni.
Un caso particolare di salvataggio fu quello del Banco di Santo
Spirito. Questo era di fatto concorrente del Banco di Roma e versa-
va in acque altrettanto cattive. Per sostenerlo fu fatto intervenire
l'Istituto Italiano dei Cambi, cioÈ al solito la Banca d'Italia, e gli si
portò in dote una banca regionale, la Banca Regionale del Lazio,
che stava male, ma aveva una buona rete di sportelli. La Banca Re-
gionale era controllata dal Banco di Roma, il quale ne fu bellamen-
te espropriato. L'Istituto Italiano dei Cambi cedette le azioni del
Santo Spirito all'Istituto Italiano di Credito Marittimo, che a sua
volta era finanziato dall'Istituto di Liquidazioni.
E in questo contesto che si verificò la scomparsa di Bonaldo Strin-
gher, che ora portava il titolo di governatore della Banca d'Italia,
istituito nel 1928. Il suo posto, di fatto se non di diritto, fu preso da
Alberto Beneduce. Formalmente, nella Banca d'Italia non aveva al-
cun potere, ma era influentissimo consigliere. Aveva sperimentato
la natura dell'intervento pubblico come direttore dell'Istituto Na-
zionale delle Assicurazioni, e con i tre istituti da lui ideati. Riservato
in modo persino maniacale circondava di segreto la propria attività;
non rilasciò mai interviste, non lasciò diari, né memorie. Cautela e
pragmatismo si accompagnavano ad una forte consapevolezza dei
propri mezzi intellettuali. Stringher e Beneduce erano di quella spe-
cie in via di estinzione di servitori dello Stato che non si arricchirono
mai.
Il pensiero di ambedue era in sostanza fondato sul riconoscimento
della necessità di un intervento statale a sostegno delle imprese e
dell'economia reale. Nessuno dei due poteva essere definito ban-
chiere puro, perché tutti e due consideravano il credito come stru-
mento di una politica di sviluppo, e che proprio per questo non po-
teva essere lasciato senza guida. Beneduce era più portato alle solu-
zioni istitu7il~n nctnl7ione di str~m~nticnli~it~mente dedi-
50 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

cati a questo intervento, mentre Stringher preferiva l'intervento in-


diretto, la manovra dello sconto e le partecipazioni camuffate, come
nel caso del Consorzio Sowenzioni. Tra i due c'era una sostanziale
continuità, per cui È lecito dire che la prima metà del secolo ha visto
questo pensiero dominare nei fatti la politica economica italiana.
Beneduce per altro accentuava una certa concezione del risparmio,
come fonte principale dello sviluppo, e che perciò doveva essere tu-
telato e protetto legislativamente, nell'interesse generale dell'eco-
nomia del paese.

La crisi del '29

Per gli americani la crisi del '29 È stata a lungo il fatto più rilevante
della loro storia contemporanea. La crisi ebbe origine nel venerdì
nero della Borsa di New York il 24 ottobre 1929. Le sue cause sono
oggi più comprensibili. L'espansione senza precedenti dell'econo-
mia americana era stata alimentata da un indebitamento progressi-
vo delle imprese e da un boom di Borsa che alimentava la specula-
zione. Ingenti capitali monetari venivano rastrellati dall'Europa, at-
traverso le banche, e così il vecchio continente ristagnava. La bolla
infine scoppiò e le quotazioni delle azioni crollarono. Le banche che
avevano anticipato fondi assumendo in garanzia i titoli furono col-
pite e cercarono di incassare i propri crediti verso altre banche. Così
si mise in moto una reazione a catena che attraverso i rapporti fi-
nanziari internazionali provocò l'estensione della crisi in tutto il
mondo.
L'Italia fu investita in modo diretto nel 1931, dopo il fallimento
della Credit Anstalt di Vienna, che segnò il trasferimento della crisi
in Europa, ma le ragioni di una crisi, come si È visto, covavano da
tempo. La grande crisi fu solo lo scossone finale che impose le tra-
sformazioni. Le ragioni specifiche delle debolezze italiane erano
evidenti, in primo luogo l'eccessiva immobilizzazione derivante dal
rapporto banca-industria. L'intervento pubblico era riuscito solo ad
evitare che la situazione precipitasse e travolgesse il sistema indu-
striale, ma non a cambiare il funzionamento del sistema del credito.
Già nel 1930 il Credito Italiano era sull'orlo del fallimento. Il go-
verno dovette intervenire attraverso una pura e semplice erogazio-
ne da parte dell'Istituto di Liquidazioni. Per cercar di salvare la fac-
cia venne costituita dal Credito, d'accordo con il governo, la Società
Finanziaria Italiana che controllava la banca ed era finanziata dalla
stessa, secondo la ricetta che abbiamo visto essere diventata abitua-
le. Il decreto che decideva i finanziamenti al Credito insieme ad al-
tri, assai meno rilevanti ad alcune altre banche, fu tenuto segreto e
non pubblicato sulla Gazetta Ufficiale. C'era però un'importante
novità. Nella convenzione tra governo e Credito Italiano, redatta da

LA GRANDE CRISI E LA RIFORMA (192640) 51

Beneduce, si stabiliva che il Credito rinunziava ai finanziamenti a


lungo termine all'industria. Si cominciava quindi ad agire nel senso
della separazione.
Intanto la crisi cominciò a provocare una diminuzione dei depositi.
Le grandi banche cercarono di fronteggiarla indebitandosi in misu-
ra senza precedenti con la Banca d'Italia attraverso il risconto. Nel
'31 la situazione precipita. Le condizioni della COMIT erano partico-
larmente preoccupanti. Il 40% dell'attivo era rappresentato da cre-
diti verso le industrie e da titoli di proprietà che valevano ormai as-
sai poco, mentre il principale creditore era la Banca d'Italia. Due
terzi dei crediti erano concentrati in pochissimi clienti, tutti appar-
tenenti alla grande industria, mentre 11.000 piccoli clienti si divide-
vano il restante terzo.
Per trovare una soluzione nell'ottobre 1931 si mise in piedi un com-
plesso meccanismo che avrebbe dovuto consentire di separare defi-
nitivamente le partecipazioni e i crediti a lungo termine dall'azien-
da di credito. Il governo, cioÈ Beneduce, decise di costituire l'Istitu-
to Mobiliare Italiano (IMI), che avrebbe dovuto esercitare il finan-
ziamento a lungo termine delle imprese. La COMIT avrebbe ceduto
ad una società di sua proprietà, la Sofindit, che era una scatola vuo-
ta, tutte le proprie partecipazioni azionarie; sulla società veniva sta-
bilito un rigoroso controllo della Banca d'Italia. Le azioni sarebbero
state pagate dalla Sofindit alla COMIT attraverso una sowenzione
dell'Istituto di Liquidazioni alla stessa Sofindit, nonché attraverso
crediti successivi che avrebbero dovuto essere concessi dall'IMI. La
Sofindit avrebbe assunto una partecipazione di controllo in Como-
fin, dove sarebbero state concentrate tutte le azioni COMIT. Un ulte-
riore finanziamento pubblico era stabilito per Comofin, che lo
avrebbe girato alla COMIT. Questa a sua volta si obbligava a dimi-
nuire la propria esposizione verso la Banca d'Italia.
L'accordo servi a ben poco; in particolare l'IMI non decollò, e que-
sto costituiva un punto debole di tutto il tentativo di sistemazione.
L'idea di avere un istituto pubblico che si accollasse il credito a lun-
go termine, finanziandosi con le obbligazioni, era una estensione al
credito all'industria del progetto che Beneduce aveva realizzato per
le opere pubbliche e per l'energia elettrica. Quel che non si capisce
È perché a capo dell'ente fu posta una persona, il senatore Teodoro
Mayer, di stampo assai diverso, legato alla mentalità delle Casse di
risparmio, e non adatto a navigare in una situazione talmente diffi-
cile. L'unica spiegazione coerente, anche se non dimostrabile, È che
Beneduce, ormai deciso a portare a fondo il suo disegno, non consi-
derasse l'IMI come pedina fondamentale della sistemazione. L'IMI
non fece altro che concedere due mutui a due delle grandi imprese
controllate dalla COMIT, la Terni e l'Italgas, il che era ben lontano
dal costituire un passo decisivo. In confronto, nello stesso periodo, i
52 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

due istituti di credito creati da Beneduce, I'ICIPU e il Crediop, svol-


gevano una intensa attività e, nei settori di competenza, sostituiva-
no le aziende di credito ormai inceppate. La stessa Banca d'Italia
cominciava ormai a temere fortemente per se stessa, in presenza di
nuove gravosissime immobilizzazioni. Le immobilizzazioni della
Banca verso l'Istituto di Liquidazioni e cinque banche erano pari a
più del cinquanta per cento della circolazione monetaria. La stessa
Banca di emissione era quindi in pericolo, mentre la posizione finan-
ziaria della COMIT continuava a deteriorarsi. Alla data del 26 marzo
1932, la COMIT era tecnicamente fallita, aveva 173 milioni di scaden-
ze assolutamente imprescindibili e solo 88 milioni di disponibilità
immediata.
Toeplitz decise di ricorrere al governo, e lo fece cercando di man-
tenere a tutti i costi la presenza nella Sofindit, dove c'erano i titoli
che consentivano il controllo delle imprese industriali. Il tentativo
faceva perno sul mantenimento della maggioranza nel capitale del-
la Sofindit, mentre si accettava che il Comofin passasse sotto il con-
trollo pubblico. Evidentemente riteneva di poter continuare a diri-
gere la banca secondo le proprie concezioni, anche quando il pro-
prietario, sia pure indiretto, sarebbe diventato lo Stato. Solo che
nella gestione della Sofindit, affidata a un personaggio di grande va-
lore come Giorgio Di Veroli, la Banca d'Italia non accettò il ruolo di
figurante e l'autonomia della COMIT fu ridotta a ben poca cosa. D'al-
tronde, malgrado la Sofindit, finanziata come si È visto dalla Banca
d'Italia, valutasse assai generosamente le azioni di proprietà della
COMIT ad essa trasferite, ciò non bastò affatto a sistemare la banca.

La costituzione dell'lRl

La via di uscita fu la costituzione dell'IRI. L'Istituto per la Rico-


struzione Industriale tagliò il nodo delle partecipazioni ed assunse
tutte le partecipazioni del Credito Italiano e della COMIT verso le
imprese industriali nonché tutti i crediti delle banche verso di esse.
L'Istituto di Liquidazioni fu assorbito. L'IRI nasceva come organo
prowisorio, ma la sua politica era chiara: ridurre le banche entro il
cosiddetto credito ordinario sistemando la partita con le imprese.
L'ente fu articolato in una sezione Finanziamenti, in pratica un dop-
pione dell'IMI, ed una Smobilizzi che avrebbe dovuto rilevare il ca-
pitale delle imprese e cederlo al mercato. L'obiettivo era il risana-
mento, e quindi la durata dell'ente avrebbe dovuto essere limitata
nel tempo.
L'IRI dovette per prima cosa sistemare i rapporti con le banche. Al
Credito Italiano ed alla COMIT Si decise di aggiungere il Banco di
Roma, che era ancora nelle condizioni stabilite nel 1923, cioÈ con-
trollato dalla Società Mobiliare Nazionale, e questa era controllata

LA GRANDE CRISI E LA RlFORMA (192640) 53

per il 26% dall'Istituto di Liquidazioni, e per un altro 26% dal Cre-


dit e dalla COMIT. L'IRI si sarebbe trovato a controllare il Banco sen-
za pagare nulla. Questo si trovava in condizioni assai migliori della
COMIT, perché era stato già alleggerito dalle immobilizzazioni e
non c'erano necessità di impellente salvataggio. Il suo rilievo da
parte dell'IRI può essere considerato un favore fatto agli altri azioni-
sti. La sistemazione delle tre banche fu attuata in tre convenzioni
nel marzo 1934. Con esse le tre banche si impegnavano a non anda-
re oltre l'attività di credito ordinario, cedevano all'tuffi i titoli di
proprietà nonché i crediti immobilizzati nelle imprese, Ie somme
che ricevevano in cambio dei titoli e dei crediti sarebbero servite a
ricostituire la liquidità. Le holding, Sofindit, Società Finanziaria
Italiana, Elettrofinanziaria, vennero assorbite e successivamente
liquidate. L'IRI erogava somme liquide di cui le banche si servirono
per ridurre la loro esposizione verso la Banca d'Italia. I tentativi di
Toeplitz di resistere in tutti i modi furono respinti, in confronti du-
rissimi, finché l'amministratore delegato della COMIT non fu sosti-
tuito da Raffaele Mattioli.
L'IRl si veniva così a trovare debitore delle banche per i crediti ver-
so le imprese che queste avevano ceduto nonché per le azioni rileva-
te; era creditore delle banche per i finanziamenti erogati, nonché
creditore delle imprese. Per quanto riguarda queste, una parte furo-
no cedute ai privati, principalmente le tessili e le elettriche; un'altra
parte rimasero sotto la sua gestione, per cui l'ente si comportò come
una holding di controllo, che finanziava imprese di sua proprietà, e
il problema diventava di gestione. Ma l'si trovò anche ad essere
padrone delle banche, per via della partecipazione incrociata per
cui le holding, cedute dalle banche all'lRI, controllavano a loro volta
le banche stesse.
Così si salvarono le banche, almeno quelle giudicate meritevoli di
salvataggio, e si salvò anche la Banca d'Italia L'innovazione era pro-
fonda. Le tre maggiori banche, cui si aggiunse subito il Banco di Santo
Spirito, perché l'Istituto di Credito Marittimo era passato anch'esso
all'lRl, si trovavano sotto controllo pubblico. Alla base di tutto ciò
era la separazione netta delle funzioni, per cui le banche facevano
soltanto credito ordinario. La parte industriale che non si sarebbe
riusciti a smobilizzare sarebbe rimasta proprietà dell'e avrebbe
portato alla costituzione dell'Ente come ente permanente di gestio-
ne.
Per uno scherzo della storia, il regolamento della situazione finan-
ziaria fu reso assai più facile dalla guerra imminente, e dall'inflazio-
ne che seguì. Le banche avevano un credito netto verso l'~. Il debi-
to complessivo dell'IRI ammontava a nove miliardi e mezzo (s'inten-
de dell'epoca). Di esso i due terzi furono pagati entro lo scoppio
della guerra. Il restante terzo fu pagato entro il 1953, cioÈ pratica-
54 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

mente liquidato dall'inflazione. Le banche avevano però già comin-


ciato a riprendersi nella nuova linea di attività. Nel 1934 i crediti
verso l'IRI rappresentavano 1'80% dei depositi e gli impieghi in esse-
re erano appena il 30% degli stessi depositi, ma già nel 1938 i crediti
verso l'IRI erano il 53%, e nel 1943, grazie all'inflazione che aumen-
tava il valore nominale dei depositi, ma lasciava immutato il credito
verso l'IRI, questo era sceso all'11% dei depositi.
Qualcosa di simile awenne per la sistemazione dei rapporti con la
Banca d'Italia. L'IRI era debitore verso l'istituto di emissione per
l'eredità dell'Istituto di Liquidazioni e perché aveva rilevato l'espo-
sizione delle banche; in totale la Banca d'Italia aveva crediti per set-
te miliardi e mezzo. Una parte di queste somme era rientrata grazie
agli smobilizzi compiuti. La parte rimanente, quasi cinque miliardi,
fu pagata attraverso titoli di rendita per un miliardo e mezzo forniti
all'IRl dallo Stato, che, capitalizzando gli interessi, avrebbero paga-
to il debito dell'lRI al 1971. Così l'IRI pagò aUa Banca d'Italia meno
di un terzo dei debiti assunti dal sistema bancario; per quanto ri-
guarda la banca di emissione È evidente che la partita fu annullata
dall'inflazione.

La legge bancana

La legge bancaria del 1936 doveva coronare l'opera e dare una si-
stemazione di lungo periodo. Essa fu dominata dall'idea della sepa-
razione tra banca e industria, e cambiò la natura dell'istituto di
emissione, che divenne anche formalmente pubblico. Alla base vi
era la concezione del risparmio come bene di interesse nazionale.
Come si È visto, questa era la concezione di Beneduce, e solo in pri-
ma approssimazione può essere considerata di origine corporativa,
quindi tipicamente fascista.
La separazione tra banca e industria derivava da questa concezio-
ne, ma rlon era affermata esplicitamente. Si seguì piuttosto la via di
dare dei poteri assoluti di ordinamento ad un comitato di ministri,
assistito da un organismo governativo, l'Ispettorato del Credito. Di
fatto, le prime disposizioni furono nel senso della separazione, e fu-
rono mantenute a lungo, anche quando, nel dopoguerra, l'Ispetto-
rato fu soppresso.
In questo modo si creava un sistema per cui il risparmio poteva af-
fluire al sistema bancario (Casse di risparmio, banche e Posta), o ai
titoli di Stato, o al capitale deUe imprese, ma la compartimentazio-
ne rendeva assai difficile il passaggio dall'uno all'altro impiego. Ne
derivava una debolezza organica per la formazione del capitale di
rischio, che era stata, come si È visto, la principale spinta alla costitu-
zione ed al funzionamento deUe banche miste. Si trattava di decide-
re se il fallimento deUe banche miste era del sistema o derivava dalla

LA GRANDE CRISI E LA RIFORMA (192640) 55

gestione concreta che si era avuta. Beneduce decise di liquidare il si-


stema, ma così in pratica si buttava l'acqua sporca con il bambino
dentro. Le conseguenze di questa decisione durano ancora, anche
se dopo cinquant'anni si È cercato di cominciare a porvi rimedio.
La Banca d'Italia veniva profondamente riformata. Non ebbe più
la facoltà del risconto a privati, rimanendole solo quello verso altre
banche. Cessava di essere una banca come le altre, per diventare la
banca delle banche. La costituzione di nuovi istituti di credito era
sottoposta ad autorizzazione preventiva, e così era regolamentata
l'apertura di sportelli, sottoposta a decisione della Banca d'Italia.
Tutto il potere di vigilanza di questa veniva rafforzato.
Veniva inoltre conferito alla Banca il potere di vincolare in conti
correnti presso di essa una parte delle disponibilità di denaro degli
istituti di credito. La Banca d'Italia acquistava così la possibilità di
intervenire sull'intero campo della politica monetaria, in quanto
poteva influire sull'espansione del credito, praticamente sulla mo-
neta bancaria, e non più soltanto sulla circolazione e sul tasso di in-
teresse. Venivano fissati dei massimi di impieghi in relazione al pa-
trimonio delle singole aziende di credito.
Il significato di tutta l'operazione avrebbe potuto essere colto solo
in seguito. Di fatto la guerra incombeva, e con essa l'inflazione. Li-
berate dalle immobilizzazioni, le grandi banche si ripresero abba-
stanza rapidamente; della guerra approfittarono come tutte le altre,
per lucrare sul collocamento dei titoli di Stato e per ridurre drastica-
mente le proprie passività grazie all'inflazione. Così, a guerra finita,
poterono ripartire in termini nuovi con successo.
Le disposizioni della legge bancaria furono estese alle Casse di ri-
sparmio. Queste già nel 1927 erano state investite da una riforma di
notevole portata che aveva disposto la fusione degli istituti più piccoli
con quelli dei capoluoghi di provincia, e reso obbligatoria la costituzio-
ne di federazioni provinciali delle casse. Le casse potevano essere co-
stituite da enti morali o da persone, la destinazione dei loro utili era,
fatto salvo l'obbligo di costituire delle riserve, la beneficenza.
Gli statuti furono modificati in relazione alle nuove disposizioni di
legge, ma nel 1938 veniva introdotta una norma che avrebbe porta-
to ad una estensione abnorme dell'ingerenza della politica nel siste-
ma bancario: la nomina dei presidenti e vice presidenti dei consigli
di amministrazione era devoluta al capo del governo.
La legge bancaria aveva avuto un effetto risanatore in una situa-
zione grave. La separazione tra banca e industria sarà un caposaldo
dell'attività del credito per un lungo periodo della ricostruzione e
della ripresa e durante il miracolo italiano. La scelta portava però
dentro di sé il congelamento di una situazione di debolezza dei mer-
cati finanziari italiani, che dura tuttora.
Tutta la trasformazione si fondava in buona parte sul pensiero di
56 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

Alberto Beneduce. Se si prendono in considerazione le situazioni di


oggi, bisognerebbe dire che queste hanno retto per un cinquanten-
nio il che, tutto sommato, non È poco. Ma accanto alla concezione
delia separazione tra banca e industria, che Beneduce condivideva
ma che era di origine liberale ed era stata sostenuta incessantemen-
te da uomini come Luigi Einaudi, si era affermata una certa conce-
zione dell'intervento dello Stato, non attraverso la gestione ammi-
nistrativa ma attraverso enti dotati di autonomia giuridica e finan-
ziaria, quindi pienamente decisionale. Il sistema che ne derivò sarà
chiamato in seguito sistema delle partecipazioni statali, e su di esso
si appuntano le critiche derivanti dalla degenerazione che questo Sl-
stema ha avuto neU'ultimo ventennio del secolo. Si tratta di vedere
però, anche in questo caso, se sia legittimo liquidare con un giudizio
sommario un sistema che aveva indubbie qualità di flessibilità e di
originalità, e che ha funzionato egregiamente per anni, o se l'atten-
zione non debba essere portata, come pare opportuno, sull'anda-
mento delle situazioni concrete che hanno portato alla sua crisi.
In questo contesto un giudizio sull'opera di Beneduce può variare
in due direzioni diverse.
Ripresa e ricostruzione (1945-55)

Il meccanismo che a partire dal 1938 e poi durante la guerra consentì


alle banche di rafforzarsi fu denominato (r)circuito di capitali¯. Lo Stato
pagava le spese di guerra con emissioni di moneta, di cui le imprese si
servivano per pagare fornitori e lavoratori. La stampa di biglietti spin-
geva i prezzi in alto, ma la scarsa disponibilità di beni di consumo crea-
va una sovrabbondanza di moneta, che si rifugiava nelle banche. Le
banche a loro volta sottoscrivevano titoli di Stato che andavano a copri-
re le spese di guerra. In questo modo la guerra fu finanziata con un ag-
gravio fiscale in proporzione modesto, mentre, almeno per un certo
periodo, l'inflazione fu contenuta entro limiti tollerabili. Alle banche il
meccanismo permetteva di investire denaro al tasso pagato dallo Stato,
che era superiore a quello corrisposto ai risparmiatori. Inoltre, mentre
nella prima guerra mondiale c'era stato uno sviluppo reale delle forze
produttive attraverso investimenti che assorbivano risparmio, durante
la seconda le imprese sfruttarono le capacità produttive esistenti. Così
poté accadere che nel 1945 i depositi fossero aumentati di settevolte ri-
spetto al 1938 e gli impieghi solo di tre volte. La differenza veniva de-
positata dalle banche presso il Tesoro o la Banca d'Italia.
Con la sconfitta, l'occupazione e la divisione in due del paese il circul-
to di capitali si interruppe. Ci fu una esplosione improvvisa di infla~iv-
ne, alimentata dalle emissioni di carta moneta degli Alleati al sud, che
non poteva essere assorbita da un territorio economicamente arretra-
to, in cui la produzione industriale era inesistente e l'agricoltura domi-
nante aveva buon gioco nello spingere i prezzi in alto. Nel territorio oc-
cupato dai tedeschi al nord la spinta inflazionistica fu minore, perché
maggiore l'assorbimento della moneta per i consumi e la produzione.
Per tutto questo periodo l'indebitamento fu la fonte principale di fi-
nanziamento dello Stato, dato lo sconquasso del sistema tributario.

L'in~7azione del dopoguerra

Tra il 1945 e il 1946 la causa predominante di inflazione fu la quan-


tità di moneta emessa. Si ebbe una sosta nella prima metà del '46
con la ripresa della produzione, ma nella seconda metà l'inflazione
riprese slancio, quando la domanda cominciò ad esercitare una pres-
58 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

sione sui mezzi di pagamento disponibili. Si trattava di inflazione da


domanda, in cui la posizione delle banche era fondamentalmente
diversa: mentre nel primo caso una restrizione del credito non servi-
va a nulla perché la domanda era insufficiente, o meglio era solo
quella dello Stato, nel secondo le banche erano una controparte at-
tiva. Naturalmente, insieme con la ripresa si manifestarono subito
le attività speculative, per la costituzione di scorte o l'esportazione
di capitali all'estero.
Questa domanda poteva essere fronteggiata o attraverso il riscon-
to presso la Banca d'Italia, con conseguente nuova emissione di mo-
neta, ciò che avrebbe provocato una continua alimentazione del fe-
nomeno, o con la restrizione del credito. Il governo, dietro suggeri-
mento della Banca d'Italia e di Luigi Einaudi, seguì la seconda li-
nea. Allo scopo fu approntato un nuovo strumento di intervento nel
sistema del credito, la riserva obbligatoria di una parte dei depositi.
Non si fissavano più limiti di credito collegati al patrimonio, consi-
derando oltretutto che i dati patrimoniali erano stati completamen-
te deformati dall'inflazione, ma si bloccava direttamente una parte
dei depositi trasferendoli all'istituto di emissione.
La manovra si tradusse in una stretta drastica sugli impieghi. Le
necessità della ripresa cominciarono ad essere fronteggiate dagli
operatori economici con la messa sul mercato delle scorte e il rien-
tro di capitali, e in questo modo l'aumento dei prezzi fu bloccato.
Con il 1948 il risparmio depositato nelle banche ricominciò ad au-
mentare più degli impieghi e l'equilibrio si andò ricostituendo.
L'operazione fu resa possibile dalla situazione politica determina-
tasi con l'espulsione delle sinistre dal governo. L'inflazione fu do-
mata e si crearono in questo modo le premesse per una ripresa. Nel-
l'immediato però l'impatto sull'economia fu assai pesante e la di-
soccupazione ricevette una ulteriore spinta; dalle difficoltà l'econo-
mia italiana poté cominciare ad uscire soltanto con il Piano Marshall
e il notevole afflusso di capitali dall'estero che esso portò, nonché
con la ripresa del commercio internazionale. Ma bisognava in ogni
caso andare ad una deflazione che avesse effetti immediati, e la ri-
duzione brusca della liquidità era l'unica cosa possibile da fare.
Per compensare in qualche modo la restrizione che in alcuni setto-
ri industriali poteva avere conseguenze particolarmente pesanti, si
diede però vita ad interventi pubblici che dovevano in seguito costi-
tuire alcuni dei punti più controversi dell'economia italiana. Nel
settembre 1947 era stato costituito presso l'IMI un Fondo per le In-
dustrie Meccaniche (FIM), con una dotazione iniziale fornita dal Te-
soro e versamenti annuali successivi. I finanziamenti a carico del
Fondo sarebbero dovuti servire ad assistere la riconversione dell'in-
dustria meccanica, ma i mezzi si rivelarono immediatamente inade-

RIPRESA E RICOSTRUZIONE (1945-55) 59

guati, e le imprese non furono in grado di restituire i finanziamenti.


Messo di fronte alla scelta di far fallire le imprese, il governo tra-
sformò i crediti del Fondo in partecipazioni azionarie, e successiva-
mente creò l'EFIM per gestirle. L'EFIM non riuscì mai a diventare una
realtà industriale decente e doveva hnire in bancarotta negli anni
Novanta.
Ma lo Stato interveniva direttamente nella gestione del credito
con la istituzione nel dicembre 1947 di una sezione speciale della
Banca Nazionale del Lavoro per il credito alle piccole e medie indu-
strie, finanziata, oltre che dalla stessa banca, dallo Stato e dagli isti-
tuti centrali delle Banche Popolari e delle Casse di risparmio, ed
amministrata con la partecipazione diretta della burocrazia mini-
steriale.
Una misura analoga veniva posta in atto per il Mezzogiorno, con la
variante, foriera di disastri, della invenzione del credito agevolato.
Le sezioni di credito industriale del Banco di Napoli e del Banco di
Sicilia venivano autorizzate a concedere finanziamenti alle piccole
e medie industrie meridionali con la garanzia dello Stato, e con un
contributo sugli interessi.

n sistema bancario

Cessata la fase più drammatica della ricostruzione il paese comin-


ciò ad awiarsi verso la normalità. Nel 1946 la struttura del sistema
creditizio era ormai fissata in modo che non varierà di molto fino
agli anni Novanta.
Le grandi banche che erano state protagoniste dello sviluppo era-
no diventate le Banche di Interesse Nazionale ed erano proprietà
dell'IRI. Avevano superato la crisi, grazie anche alla guerra, con il
meccanismo che si È visto, e si erano alleggerite di una parte non in-
differente del loro debito con la Banca d'Italia. La loro attività era
nettamente separata dal finanziamento a medio e lungo termine
alle grandi imprese continuavano a fornire il capitale circolante, ma
la parte delle piccole imprese era crescente.
Gli altri istituti di credito ordinario nel 1946 ammontavano a 1067.
Di questi 844 avevano in tutto 882 sportelli, cioÈ avevano un merca-
to assai ristretto, 79 erano ditte bancarie, 144 con 1621 sportelli era-
no banche vere e proprie sotto forma di società per azioni. In genere
i loro statuti consentivano di fare tutte le operazioni bancarie, com-
presa la partecipazione in società, ma naturalmente vigeva il regime
di autorizzazione da parte del Comitato Interministeriale del Cre-
dito.
Questi istituti erano quelli che avevano profittato maggiormente
della guerra e dell'inflazione, e la loro quota dei depositi era cre-
sciuta sensibilmente.
Istituti di diritto pubblico
Banche di interesse nazionale
Casse di risparmio
Istituti di credito ordinario
Banche popolari

Totale
Gli istituti principali erano la Banca di America e d'Italia, la più
grande banca di proprietà estera in Italia, costituita dalla Bank of
America di Amedeo Giannini; la Banca Nazionale dell'Agricoltura;
il Credito Romagnolo; la Banca Cattolica del Veneto, risultante dal-
la concentrazione delle banche cattoliche soprawissute alla crisi.
Le Casse di risparmio, organismi in cui la tradizione aveva un peso
notevole, si trovavano invece ancora in una fase di riorganizzazione
dopo i profondi mutamenti normativi intervenuti negli anni Trenta.
Subito dopo la guerra furono autorizzate ad esercitare praticamen-
te tutte le forme di attività bancaria, per cui diventarono banche come
tutte le altre, differendo soltanto per la natura giuridica che le assi-
milava ad una dipendenza dello Stato.
Le Casse erano particolarmente forti in Lombardia, Piemonte,
Veneto, l~io ed Emilia. La Cassa più importante, ed uno dei mag-
giori istituti di credito italiani, era la Cassa di Risparmio delle Pro-
vince Lombarde, che da sola aveva depositi per poco meno del 5%
del totale dei depositi di tutto il sistema creditizio.
Gli istituti di diritto pubblico avevano in più degli istituti di credito
e delle banche di interesse nazionale la facoltà di fare anticipazioni
agli enti pubblici. Gli istituti di diritto pubblico erano: il Banco di
Napoli; il Banco di Sicilia; il Banco di Sardegna, costituito nel 1946,
unicamente per dare alla regione uno strumento di prestigio; la Ban-
ca Nazionale del Lavoro, che abbiamo già visto svilupparsi rapida-
mente; il Monte dei Paschi di Siena e l'Istituto San Paolo di Torino.
Gli ultimi due erano istituti di origine locale, legati alle attività di
beneficenza, che si erano allargati al punto da richiedere una nor-
mativa più stringente, per cui erano stati portati sotto il controllo
dello Stato. L'Istituto San Paolo aveva preso le mosse nel 1579 da un
Monte di Pietà. Assunse l'attuale denominazione nel 1928 quando
si fusero insieme le diverse sezioni delle Opere della Compagnia di
San Paolo. Partecipò al salvataggio della Banca Agricola Italiana,
quella di Gualino, rilevandone gli sportelli in Piemonte e Liguria.
Nel 1932 era stato dichiarato istituto di diritto pubblico.
Il Monte dei Paschi era sorto nel 1624 per iniziativa della città di
Siena per finanziare le attività agricole dei proprietari terrieri, e per

STORLA DELLA BANCA IN ITALIA

Depo~,iti (mld) Ripartizione %

1939 1946 1939 1946

10,4 143,9 17,1 19,9


16 211 26,3 29,2
18,9 130,2 31,0 18,0
9,7 156,5 15,9 21,7
s,g 80,2 9,7 11,1
60,9 721,5 100 100

;
,
l

RIPRESA E RICOSTRUZIONE (1945-55) 61

lungo tempo la sua attività di gran lunga prevalente era stata il cre-
dito agrario e fondiario. Era diretto da un consiglio di otto membri,
quattro nominati dal Comune di Siena, uno dalla Provincia di Siena
e tre dal governo.
Le Banche Popolari erano cooperative che esercitavano il credito.
A poco a poco molte di esse erano andate perdendo il carattere coo-
perativo, per diventare delle vere e proprie società per azioni, go-
dendo però di agevolazioni particolari in funzione del loro carattere
originario. Nella prima metà del secolo se ne erano costituite in gran
quantità, seguendo l'espansione della cooperazione che si era avuta
nel periodo giolittiano, ma anche per esse si era resa obbligatoria una
concentrazione.
Infine, le Casse rurali ed artigiane esercitavano il credito agrario e
il credito all'artigianato. La loro incidenza nel sistema era scarsa,
ma localmente avevano un peso notevole.
Caratteristiche del sistema erano la frammentazione e l'impatto
dello Stato. I due terzi dei depositi erano presso le banche di inte-
resse nazionale, gli istituti di diritto pubblico e le Casse di risparmio.
Nell'orbita privata si muovevano soltanto le banche di minori di-
mensioni e le popolari. La grande banca era soltanto pubblica. La
crisi era stata superata, ma con una estensione imprevedibile del
potere statale.

La Banca di Menichella e il credito<ordinario¯

Il decennio tra il 1945 e il 1955 È il periodo in cui l'Italia prende la


rincorsa per realizzare quello che fu il (r)miracolo economico italia-
no¯, quel miracolo che trasformò l'Italia in un paese moderno.
La caratteristica fu la stabilità della moneta e l'apertura verso l'este-
ro. A succedere ad Einaudi come governatore della Banca d'Italia
era stato chiamato Donato Menichella. Questi era stato il collabo-
ratore più intimo di Alberto Beneduce. Aveva cominciato la sua car-
riera nella Banca d'Italia, ed aveva gestito la liquidazione della Ban-
ca di Sconto. Con Beneduce aveva ideato e costruito l'IRI e condot-
to tutta l'operazione con le banche. Era convinto assertore della se-
parazione tra banca e impresa, e pensava che il credito a lungo termine
avrebbe dovuto essere esercitato da enti pubblici. In questo il suo
pensiero divergeva abbastanza da quello di Einaudi, che però aveva
insistito perché fosse lui a succedergli, dopo che nel 1946 diventò di-
rettore generale della Banca d'Italia. La Democrazia Cristiana ave-
va un altro candidato.
La politica monetaria della Banca d'Italia di Menichella fu fondata
su una scelta ben precisa e perfettamente consapevole: la stabilità
per lo sviluppo. Non tentò nessuna manovra monetaria espansiva
per accelerare lo sviluppo, ma nello stesso tempo manovrò accorta-
62 STORLA DE~LIA BANCA IN ITALIA

mente la liquidità in funzione dell'economia reale in modo da non


creare mai delle strette. Così il tasso d'inflazione in Italia poté esse-
re in quel periodo tra i più bassi del mondo e l'aumento della circo-
lazione monetaria assai contenuto. In queste condizioni il credito
poteva espandersi senza creare tensioni inflazionistiche e finanziare
l'economia reale perché il fabbisogno pubblico diminuiva. La for-
mazione di moneta fu abbastanza sostenuta. Menichella non cede-
va all'astratto rigorismo e riconosceva la funzione di volano del ri-
sparmio non solo per gli investimenti, ma anche verso il fabbisogno
statale. Per lui il sistema doveva fornire alle imprese economiche
tutti i mezzi finanziari che poteva dare. E una parte delle disponibi-
lità bancarie poteva benissimo essere convogliata verso il Tesoro,
perché l'eventuale disavanzo non poteva essere coperto che dal ri-
sparmio, a meno di ricorrere alla stampa dei biglietti.
Tutto ciò era reso possibile dal fatto che l'indebitamento dello Sta-
to, per tutto il periodo di tempo in cui Menichella fu governatore,
non superò 1'1% del prodotto interno lordo, e quindi non c'erabiso-
gno di rastrellare risparmio privato. Quando questa situazione co-
mincerà a cambiare, nel 1964, l'intero sistema finanziario sarà mes-
so a dura prova.
Quello fu quindi il periodo di più tranquilla gestione del credito, in
cui le banche ordinarie esercitarono in modo assolutamente preva-
lente il credito ordinario, diversamente dall'età giolittiana, quando
il processo di accumulazione delle imprese era stato realizzato con
una loro forte presenza. Nel secondo dopoguerra le imprese hanno
meno bisogno di ricorrere alle banche, perché fanno più profitti.
Mentre la prima guerra mondiale aveva lasciato le imprese in rovi-
na, nel periodo tra le due guerre le grandi imprese, grazie all'appog-
gio del governo fascista, alla politica di bassi salari da questo prati-
cata, ed alla protezione ricevuta durante la grande crisi, avevano po-
tuto consolidarsi. Il prezzo pagato dal padronato era che una parte
del sistema era diventata pubblica, sotto l'IRI.
La struttura industriale era dominata da poche grandi imprese,
che con la riforma del 1936 erano state liberate dal controllo delle
banche, e in questo senso si può dire che la linea di Beneduce aveva
portato a capovolgere il rapporto. Le grandi imprese cercavano mez-
zi di finanziamento al di fuori del circuito bancario, almeno di quel-
lo diretto, e li trovarono in un primo momento ricorrendo all'uso
delle obbligazioni, per cui si indebitavano direttamente con i rispar-
miatori. Le banche intervenivano solo come intermediarie, per col-
locare le obbligazioni presso i propri clienti.
C'era però un elemento di continuità con il primo decennio del se-
colo. L'Italia continuava ad essere un paese contadino, e il rispar-
mio continuava ad essere restio ad investirsi nel capitale di rischio
delle imprese. Nel 1955 la parte del capitale nel passivo delle impre-

RIPRESA E RICOSTRUZIONE (1945-55) 63

se era fortemente diminuita, ed i debiti ne rappresentavano più del-


la metà, ed erano in parte significativa a breve termine. La riforma
bancaria aveva quindi qualcosa di illusorio, in quanto modificava il
regime del controllo, ma non quello del finanziamento. Anche nel
periodo giolittiano le imprese erano indebitate con le banche ed a
breve termine, spesso sotto forma di sconto oltre che di apertura di
conto corrente, perché il mutuo a medio e lungo termine non era
praticato. Il cambiamento stava nel fatto che le banche non control-
lavano più le imprese, ed in cambio non avevano più immobilizzi
che diventavano pericolosi per i risparmiatori, quando il loro desti-
no era troppo legato a quello delle imprese, come l'esperienza ave-
va dimostrato. La debolezza del mercato dei capitali non era molto
cambiata.
Quel che c'era di diverso era appunto l'economia reale, e questo
permise di superare le contraddizioni della riforma bancaria. La strut-
tura finanziaria delle imprese aveva subito una notevole trasforma-
zione per gli eventi bellici. Il capitale versato si era ridotto notevol-
mente, mentre aumentavano i debiti, ed il problema del capitale di
rischio era perciò aperto. Tutte le imprese vi avevano fatto fronte
aumentando l'autofinanziamento e non distribuendo i profitti, aiu-
tate anche dal fatto che l'inflazione aveva permesso di ammortizza-
re rapidamente immobilizzazioni il cui valore di libro era ormai no-
minale. Si era potuta superare in questo modo la crisi di liquidità
provocata dalla deflazione einaudiana. Ma ciò comportava implica-
zioni diverse secondo le dimensioni delle imprese: per le piccole e
medie, dove il capitale coincide spesso con il patrimonio dell'im-
prenditore, alla necessità di capitale si faceva fronte con una ridu-
zione delle somme disponibili per l'uso personale, caso classico di
astinenza capitalistica, mentre nel caso delle grandi imprese per man-
tenere i profitti all'interno dell'impresa si riducevano i dividendi.
Torna così una caratteristica del sistema italiano di finanziamento
delle imprese: la bassa remunerazione del capitale azionario. Non si
creavano però tensioni fra l'impresa e gli azionisti e ciò perché il
basso livello dei dividendi veniva compensato da distribuzioni gra-
tuite di azioni: i profitti trattenuti sotto forma di fondi conguaglio
venivano redistnbuiti utilizzando questi ultimi per gli aumenti di capi-
tale. Nella grande impresa, attraverso le partecipazioni incrociate e
gli accordi di gruppi familiari, imperava un sistema di potere che to-
glieva alle assemblee degli azionisti ogni facoltà di decidere. I grandi
azionisti venivano compensati col capitale, i piccoli, che considera-
vano il proprio risparmio come fonte di reddito e quindi erano inte-
ressati ai dividendi, rimanevano a bocca asciutta. Il mito del capita-
lismo popolare, del piccolo risparmiatore che investe nella grande
impresa i propri risparmi, non si diffondeva nell'economia italiana
che continuava ad essere dominata da gruppi ristretti.
Così la Borsa che in quei tempi aumentava le quotazioni dava una
copertura fittizia e creava una illusione. La Borsa non aveva mai
rappresentato il luogo a cui ci si poteva rivolgere per raccogliere ca-
pitale, ci si andava solo per motivi di prestigio. Più che punto di rife-
rimento per i risparmiatori, luogo dove si valuta il rendimento di
un'impresa, la Borsa italiana continuava ad essere, e non cambierà
carattere fino ad oggi, soltanto un luogo in cui si scambiavano titoli
e si effettuavano compensazioni. Per quanto riguarda i risparmiato-
ri, la Borsa consentiva investimenti il cui reddito era apprezzabile
solo se si poteva fruire di capital gains. In conseguenza finivano col
prevalere le attività speculative rispetto a quelle di investimento, che
dovrebbero essere attente all'andamento dell'impresa; così si per-
deva ogni collegamento tra le prospettive produttive delle imprese
e la quotazione dei loro titoli, distacco che toglieva alla Borsa italia-
na la funzione di indicazione sull'andamento delle imprese stesse.
Solo che la speculazione deve per forza poggiare su elementi reali, e
quando tutta l'economia tendeva verso l'alto anche la Borsa saliva
in continuazione.
Pur essendo sensibilmente esposte verso le imprese, le banche si
trovavano in una situazione nuova. Gli immobilizzi non sono in sÈ e
per se un elemento di crisi; diventano un onere per le banche quan-
do le imprese non possono pagare gli interessi o richiedono continui
crediti per il funzionamento. In quel momento le imprese facevano
larghi profitti, potevano finanziare gli investimenti con l'autofinan-
ziamento e ricorrevano al credito prevalentemente per il circolante,
così come voleva l'economia pura. La situazione debitoria non era
pericolosa. La scarsezza di capitale di rischio costituiva però per la
grande impresa italiana un fattore di debolezza permanente.
Il salto era stato reso possibile dalla situazione internazionale, dal
fatto che l'Italia si trovava in contatto con un mercato mondiale in
espansione per la ricostruzione del dopoguerra, e con salari più bas-
si che portavano a maggiori profitti. Si creava una grande occasione
per tutti. L'imprenditorialità cominciava a svilupparsi, non solo nel-
le grandi imprese, ma anche nelle piccole e medie che iniziavano un
processo di espansione.
Così negli impieghi delle grandi banche la quota delle piccole e me-
die imprese va crescendo, e dato che queste sono fondate sugli ap-
porti personali di capitale, mentre ricorrono alle banche per il capi-
tale di esercizio, tutto ciò porta a rafforzare la funzione di credito
(r)ordinario¯ delle banche in quel periodo. Raffaele Mattioli, che
aveva preso il posto di Toeplitz alla COMIT, 10 sottolineava forte-
mente. Ma questa non era certo una rivoluzione nel funzionamento
della banca in Italia.

RIPRESA E RICOSTRUZIONE (1945-55) 65

Mediobanca, IMI, Mezogiomo

La questione del finanziamento degli investimenti rimaneva co-


munque aperta. Si cercò di risolverla attraverso h oos~tuzione dei
cosiddetti istituti speciali, cioÈ istituti che potevano anche essere di
proprietà di istituti di credito, ma che esercitavano il credito a me-
dio e lungo termine, quello che serve per gli investimenti in modo
autonomo, entro i limiti del proprio capitale.
Il primo di questi, totalmente pubblico, era naturalmente r~.
Dopo la sua falsa partenza, esso dovette attendere il Piano Maniha~
e la gestione dei fondi ERP per poter avere una funz~one e comincia-
re a prendere una dimensione significativa Per la e~gazione dei
fondi del Piano Marshall gli americani non si fidavano del govemo
e non volevano che fossero distribuiti attraverso rammin~zione
dello Stato. Quando Menichella, in una deleg~zione che doveva trat-
tare con l'amministrazione USA le modalità per rimpiego dei fondi,
si trovò di fronte a questa posizione, si sovvenne dell~, in cui lo
Stato non aveva maggioranza del capitale, ma solo il 50%, mentre
l'altra metà apparteneva a banche e compagnie di assKurazione.
L'IMI, pur essendo un ente pubblico, aveva quindi completa autono-
mia di gestione. I fondi dati in prestito dal governo amerKano e dal-
l'E~port Import Bank per consentire l'acquisto di an~e e ma-
terie prime vennero perciò concessi aU'ente, il quale poteva agire
sia direttamente, sia per conto di imprese italiane. E aUtoccava
il compito delicatissimo dell'istruttoria e della fissazione delle ga-
ranzie, oltre alla gestione di fondi. Un comitato, cos~hlito presso il
ministero del Tesoro e composto da rappresentanti di mimsteri
esprimeva un parere sui finanziamenti. In pratica, pero, in questo
modo si comincia a costituire un sistema di intervento statale basato
sulla deresponsabilizzazione. L'intervento at~averso pareri diverrà
una delle iatture che contribuiranno a sditare rintervento pub-
blico. Un parere favorevole rappresentava una pressione politica
senza assumere responsabilità, per cui chi doveva prendere la deci-
sione si rifugiava dietro il parere, mentre gli uomini del potere era-
no esenti da censura, appunto perché avevano dato soltanto un pa-
rere.
In ogni caso l'intervento ERP rappresentò un contributo decisivo
alla ripresa economica del paese, sbloccando le s~ozzature per il ri-
fornimento di materie prime. Esso perm~se di af~ontare le prime
grosse modificazioni strutturali: il salto della FIAT veIso la produ-
zione di massa, la siderurgia a ciclo integrale, rindustria della raffi-
nazione, il passaggio alla produzione termoelet~ica, dato chenmai
non si potevano più costruire impianti idraulici economicamente
convenienti. L'essere al centro di questo rdusso di finanziamenti
66 STORIA DELLA BANCA IN ITAUA

consentì all'lMI di costruire una importante esperienza che venne


messa a frutto dallo Stato: all'lMI fu affidata la gestione di tutti gli in-
terventi settoriali per cui erano stanziati dei fondi a destinazione spe-
ciale. Quando lo Stato intenderà destinare fondi alle imprese, lo
farà attraverso fondi speciali, istituiti presso l'IMI, e l'istituto ne sarà
il gestore. Particolarmente rilevante la funzione dei fondi per la ri-
cerca applicata. Ma ciò rimaneva pur sempre cosa ben diversa dal
carattere che era stato delineato da Menichella e dagli altri ideatori
dell'istituto.
Anche le banche private si mossero. Appena awiata la ricostruzio-
ne, le grandi banche di credito ordinario cercarono, l'una dopo l'al-
tra, di munirsi di strumenti efficienti per l'esercizio del credito indu-
striale in modo da poter realizzare anche operazioni alla luce del
sole senza dover ricorrere alla pratica del finanziamento attraverso
successive operazioni a breve, automaticamente rinnovantisi con
accordo specifico e preventivo delle parti. Così le tre Banche d'Inte-
resse Nazionale s'accordarono e crearono Mediobanca; la Banca
Nazionale del Lavoro creò, in società con gruppi privati, l'Efibanca;
le Banche popolari crearono la Centrobanca.
L'iniziativa di gran lunga più importante fu quella di Mediobanca.
Secondo la prima idea del 1944 all'impresa avrebbero dovuto parte-
cipare le tre Banche di Interesse Nazionale, le cinque banche di di-
ritto pubblico, la Banca d'America e d'Italia, il Banco di Santo Spi-
rito, le Assicurazioni Generali, la RAS, I'INA, la Bastogi; in sostanza
avrebbe dovuto essere la banca d'investimenti di tutte le banche ita-
liane, coinvolgendo anche le assicurazioni. Per evitare, come disse
Mattioli, che le banche di credito ordinario fossero portate fatal-
mente a trasformarsi in banche d'affari, si voleva costituire una al-
temativa all'IMl. Menichella era contrario in quanto ciò non corri-
spondeva allo schema per l'organizzazione del credito che aveva
elaborato, Einaudi era contrario in quanto temeva concentrazioni
di potere dal sapore monopolistico. Pur di non lasciare Mattioli e
Brughera, il consigliere delegato del Credito Italiano, da soli nella
nuova banca, Menichella impose al Consiglio di amministrazione
del Banco di Roma di tornare su una decisione già presa e di votare
la partecipazione.
L'iniziativa dovette aspettare molto per essere realizzata, e lo fu
solo grazie all'insistenza di Mattioli. Mediobanca però doveva costi-
tuire l'innovazione più profonda in un sistema bancario che si awia-
va a diventare sonnacchioso nell'ambito del credito ordinario. Me-
diobanca fu concepita fin dall'inizio con un carattere misto tra pub-
blico e privato.
In materia di credito a medio tennine l'iniziativa legislativa diven-
ta tumultuosa. Si autorizzò in ciascuna regione la costituzione di un
IStitUtOpeci.llizzato per a conce~si()ne di finanziam~nt- d medio

RIPRESA E RICOSTRUZIONE (1945-55) 67

termine alle medie e piccole industrie con competenza locale. Alla


costituzione degli istituti potevano partecipare istituti ed aziende di
credito, ed enti finanziari. Gli istituti traevano i mezzi necessari ol-
tre che dal proprio fondo di dotazione, dalla emissione di obbliga-
zioni o buoni fruttiferi, nonché dalle aperture di credito dei parteci-
panti. Era vietata la raccolta del rispammio ordinario.
La costituzione degli istituti andò molto a rilento. Si doveva, per-
tanto, trovare un canale di adduzione di mezzi finanziari agli istituti,
e si pensò ad un istituto di risconto, l'Istituto centrale per il credito
a medio temmine alle medie e piccole industrie (Mediocredito) co-
stituito, con un fondo di dotazione versato dal Tesoro dello Stato -
sotto forma di Ente di diritto pubblico con propria personalità giuridi-
ca.
L'obiettivo era quello di sostenere la piccola e media industria at-
traverso appositi istituti di credito, per evitare che si ricadesse nella
precedente situazione in cui le banche avevano finanziato prevalen-
temente le grandi imprese. In realtà gli istituti servirono a ben poco:
l'industria cominciò a svilupparsi quando si crearono certe condi-
zioni, ancora una volta in relazione alla formazione di una impren-
ditorialità adeguata.
Il ragionamento che portò il govemo a codificare gli incentivi nel
Mezzogiomo era analogo. Si pensava che l'industria nel Mezzogior-
no non si sviluppasse per mancanza di capitali. Il problema si pose
dopo la costituzione delle sezioni di credito industriale, quando lo
Stato cominciò a mettere in atto l'intervento per la costruzione di
infrastrutture, la cui mancanza, si pensava, era la causa principale
del ritardo nello sviluppo. Si dovette invece constatare che tutto ciò
non bastava, ed allora si concentrò l'impegno sulla disponibilità di
capitali, e così la politica di sviluppo meridionale rimase a lungo
fondata sulle agevolazioni fiscali e tariffarie e le condizioni di favore
per il credito a medio termine, circa la durata ed il tasso d'interesse
dei mutui. Oltre alle sezioni di credito industriale dei Banchi di Na-
poli, di Sicilia e di Sardegna, la Cassa del Mezzogiomo veniva auto-
rizzata a concedere finanziamenti industriali. Per evitare che si ac-
crescesse ancora la confusione in materia di credito all'industria
Menichella suggerì allora di cominciare nel Mezzogiorno a norma-
lizzare il settore del credito a medio termine, sostituendo alle straor-
dinarie Sezioni di credito industriale dei Banchi di Napoli, di Sicilia
e di Sardegna appositi Istituti regionali. Così nel 1953 si trasferisce
praticamente l'esercizio del credito a medio termine per lo sviluppo
industriale del Mezzogiorno e delle Isole dalle Sezioni di credito in-
dustriale dei Banchi di Napoli, di Sicilia e di Sardegna, rispettiva-
mente all'Istituto per lo sviluppo economico dell'Italia meridionale
(ISVEIMER), all'Istituto regionale per il finanziamento delle indu-
strie in Sicilia (IRFIS) ed al Credito industriale sardo (CIS).
Questi istituti erano autorizzati a realizzare operazioni di prowista
ed operazioni di impiego in modo da potersi approwigionare con
continuità del denaro occorrente ed impegnarlo nelle operazioni
con capacità di sopportarne i rischi connessi, nonché a compiere
una vasta gamma di operazioni e, fra queste, la costituzione e la par-
tecipazione a società finanziarie. A parteciparvi erano chiamati, ol-
tre che le banche di credito ordinario con sede nelle rispettive zone
di competenza, anche la Cassa per il Mezzogiorno e le amministra-
zioni delle Regioni autonome. In questo modo l'impatto politico sul
sistema era codificato. Accanto alle agevolazioni sui tassi di interes-
se e sulle garanzie, si metteva in atto uno strumento appositamente
destinato all'erogazione del credito sotto la direzione del potere po-
litico. L'esecutivo aveva il mandato di indirizzare la politica crediti-
zia dei tre Istituti. Questo sarebbe stato ancora comprensibile, ma
in realtà il potere dell'esecutivo incideva anche per ciò che concer-
neva la durata e gli importi delle singole operazioni.
Un altro passo fu compiuto nel 1957 autorizzando la Cassa per il
Mezzogiorno a concedere agli istituti di credito a medio termine, aven-
ti sede fuori del territorio di sua competenza, un contributo tale da
consentire agli istituti medesimi di praticare lo stesso tasso d'inte-
resse dell'lsvElMER, dell'lRFls e del CIS, sulle operazioni che sareb-
bero state realizzate con fondi propri, nel Mezzogiorno. Così si of-
friva a tutto il sistema bancario, attraverso gli istituti di credito a me-
dio termine controllati, la possibilità di operare nel Mezzogiorno e
nelle Isole. La Cassa concedeva il contributo sulle singole operazio-
ni, e quindi si sostituiva in pratica alla banca, perché la negazione
del contributo rendeva l'operazione impossibile. Si dava così alla
burocrazia un potere enorme.
Tutti questi interventi non servirono a mettere in moto un proces-
so di sviluppo nel Mezzogiorno. Provocarono invece gravi distorsio-
ni nell'esercizio del credito su scala nazionale, e ad essi va assegnata
una notevole parte di responsabilità nella catastrofe dell'industria
chimica italiana.

Al termine del periodo, la struttura del sistema bancario presenta


significativi cambiamenti.
Come si vede dalla tabella che segue, il dato significativo È l'espan-
sione degli istituti di credito mobiliare, cioÈ specializzati nel credito
all'industria. Tranne Mediobanca, si trattava di istituti pubblici. Gli
istituti di diritto pubblico riprendono ad aumentare, soprattutto per
effetto dell'espansione della Banca Nazionale del Lavoro che di-
venta la prima banca italiana grazie ai depositi di enti pubblici, del-
I'IRI e dell'ENI, mentre declina ancora la parte delle banche di interes-
se nazionale. Ma il dato forse più interessante È l'espansione della
Cassa Depositi e Prestiti. Questa raccoglieva il risparmio postale, ed
era il rifugio preferito dei piccoli risparmiatori. L'espansione della
raccolta della Cassa denota da una parte l'espansione del benesse-
re, per cui la capacità di risparmio aumentava, dall'altra il fatto che
permaneva la diffidenza non solo verso il capitale di rischio, ma ver-
so le grandi banche.

STRUTTURA DEL

Banca d'Italia
Società ordinarie di credito
Istituti di diritto pubblico
Banche di interesse nazionale
Casse di risparmio
Cassa depositi e prestiti
Banche popolari
Casse rurali e artigiane
Istituti di credito fondiario
Istituti di credito agrario
Istituti di credito mobiliare
Istituti di assicurazione

Totale

SISTEMA CREDITIZIO 1946-1955

Passivo (mld) Ripartizione %

1946 1955 1946 1955

705,4 2437,3 34,6 17,3


217,7 1513,1 10,7 10,7
214,9 1898,9 10,5 13,4
296,5 1747,1 14,5 12,4
181,8 1422,1 8,9 10,1
196,8 2052,4 9,7 14,5
sg,7 721,5 2,9 5,1
4,0 46,3 0,2 0,3
15,4 237,0 0,8 1,7
6,1 300,2 0,3 2,1
69,1 1.183,3 3,4 8,4
71,4 568,2 3,5 4,0

2039 14.127 100 100


L'altro dato rilevante È che le banche pubbliche rappresentavano
circa i tre quarti di tutto il sistema bancario. Le Casse di risparmio,
come si È visto, erano sotto il controllo del Tesoro, le banche di inte-
resse nazionale erano proprietà dell'lRI; gli istituti mobiliari erano
pubblici, e la stessa Mediobanca era in una posizione curiosa, per-
ché avrebbe dovuto rientrare tra gli istituti pubblici in quanto con-
trollata dalle tre Banche di Interesse Nazionale.
Miracolo e dopo miracolo (1955-73)

Tra il 1955 e il 1964 in Italia si compie una trasformazione profon-


da, e non si tratta soltanto dei cambiamenti awenuti nell'economia.
In realtà È questo il periodo in cui il paese diventa moderno nel vero
senso della parola. Sul piano eeonomico vi eontribuì un insieme di
circostanze che cooperavano per spingere nella stessa direzione,
caso abbastanza raro, che aiuta a eomprendere la rapidità della tra-
sformazione. Stabilità monetaria, rapido crescere di una imprendi-
torialità in termini che non si erano mai riseontrati prima nella sto-
ria del paese, integrazione rapida e crescente in una economia inter-
nazionale in espansione, una politica di apertura al libero commercio e
un cauto ma reale spostamento verso politiche di sostegno della do-
manda attraverso la spesa pubblica, erano tutti fattori concomitanti.
Particolarmente significativa, anche se le ricadute maggiori sul si-
stema del credito si avranno assai più tardi, È l'apertura al mercato
internazionale che apre nuovi orizzonti al sistema bancario per l'in-
serimento dell'Italia nel mercato mondiale. Fin dalla loro origine le
grandi banche disponevano di una rete di filiali all'estero. Partico-
larmente ricca era la struttura della COMrr, e si È visto come il Banco
di Roma avesse appunto puntato sull'estero per trovare uno spazio
che in Italia le altre due grandi banche le chiudevano. La funzione
di queste filiali era di sostenere la presenza commerciale italiana al-
l'estero, attraverso la conoscenza del mercato e la costituzione di
rapporti di affari con la finanza delle piazze commerciali dove erano
più presenti gli italiani, particolarmente nel Sud America. In una
certa misura questa funzione comincia a cambiare in quel periodo.

La Finanza del miracolo

Ma È dall'interno, dall'economia reale, che le banche traggono


una forza che le collocherà in modo nuovo, e permetterà di accanto-
nare il ricordo delle crisi. Protagonista del miracolo fu la grande im-
presa, pubblica e privata. Nelle grandi imprese si verificò il massimo
dell'espansione dell'occupazione industriale, mentre i settori che si
sviluppavano più rapidamente erano quelli ad elevata intensità di
capitale e quelli dei beni di consumo durevole: acciaio, automobili,
chimica, energia elettrica.
Il tasso di accumulazione del capitale raggiunge in quel periodo li-
velli che rimarranno insuperati per sempre. La fonte principale era
l'autofinanziamento. L'espansione della produzione nei settori ad
elevata intensità di capitale creava le condizioni per una riduzione
di costi unitari del prodotto, perché aumentando ilvolume della pro-
duzione aumentava la produttività. Gli incrementi di produttività
che si ottenevano con questi elevati investimenti di capitali erano
tali da consentire insieme elevati profitti ed aumenti di salario che
andavano a sostenere la domanda per quel tipo di beni. Profitti ele-
vati si traducevano in elevate possibilità di autofinanziamento, e le
imprese da un lato disponevano di maggiori fondi propri, dall'altro
erano più solvibili nei confronti del sistema creditizio.
Così, l'autofinanziamento copriva una parte assai rilevante degli
investimenti fissi, e il credito poteva finanziare con poco rischio l'at-
tività corrente. La combinazione rese possibile il sostegno dell'ele-
vatissima domanda di capitale di quel periodo, e quindi una espan-
sione senza precedenti dell'occupazione. L'espansione dell'inizio
del secolo era stata effettiva ma assai rischiosa e concentrata in al-
cuni settori. Adesso invece la crescita investiva l'intera economia, e
le banche si muovevano su un terreno assai più sicuro.
Dove l'autofinanziamento non era sufficiente interveniva il credi-
to a lungo termine, attraverso le obbligazioni, o il ricorso agli istituti
specializzati nel finanziamento a lungo, istituti che a loro volta si fi-
nanziavano con obbligazioni. Mediobanca, dopo aver superato la
fase di lancio, diventa la più forte organizzatrice del collocamento
di obbligazioni e di aumenti di capitale. Nel credito a lungo termine
invece la parte predominante era quella dell'lMI e degli altri istituti
che vennero definiti speciali. Questi mettevano assieme quasi il
90% della raccolta a medio e lungo termine, costituita da obbliga-
zioni, mentre Mediobanca si finanziava con risparmio vincolato,
raccolto dai suoi azionisti, cioÈ dalle tre Banche di Interesse Nazio-
nale. Ma l'istituto diretto da Enrico Cuccia aveva ben chiaro che bi-
sognava accoppiare l'esercizio del credito industriale con l'attività
della banca d'investimento, e che questo era possibile soltanto al di-
sopra di una certa dimensione. Comincia così a delinearsi la funzio-
ne di Mediobanca come punto di riferimento delle grandi imprese
italiane. Ma una funzione particolare comincia ad avere Medioban-
ca verso una delle più importanti imprese italiane, la Montecatini,
che si trova in gravi difficoltà per mancanza di una strategia coeren-
te. Mediobanca non solo sostiene gli aumenti di capitale, ma assu-
me partecipazioni in proprio in misura crescente. Si inizia un rap-
porto che porterà alla costituzione di Montedison, episodio centra-
le per la struttura del capitalismc italiano.
72 STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

Per l'e gli altri istituti il compito era più semplice. L'IMI era
ormai l'istituzione prevalente tra gli speciali; lavorava con le sezioni
di credito speciale con l'intervento di fondi pubblici e con quelli
raccolti da obbliga~ioni. La Banca d'Italia favoriva il ricorso alle ob-
bligazioni da parte dell'lMI perché questo corrispondeva all'antico
disegno di Menichella di separazione tra credito ordinario e credito
di investimentoseparazione che doveva awenire attraverso la dif-
ferenziazione netta delle fonti di finanziamento, i depositi per il pri-
mo e l'indebitamento a lungo attraverso le obbligazioni per i secon-
di Così la Banca d'Italia si sforzava di mantenere bassi i tassi, in modo
che non si accrescesse di molto l'onere per le imprese.
Alle banche il risparmio continuava ad affluire, ma lo sviluppo era
talmente accelerato da richiederne un volume crescente. Le banche
cominciarono quindi a farsi concorrenza tra di loro, offrendo tassi
passivi più alti per accaparrare un maggior volume di risparmio, fin-
ché nel 1963, per iniziativa in gran parte di Imbriani Longo, che ave-
va preso il posto di Osio aUa Banca Nazionale del Lavoro, non for-
marono un vero e proprio cartello per regolare i tassi attivi e i tassi
passivi. n cartello non aveva alcun valore legale, e finì per diventare
un argomento di contestazione, come Mattioli puntualmente rile-
vava nelle sue relazioni, ma nel complesso funzionò, e contribuì a
mantenere a buon mercato l'erogazione del credito.
n dato più rilevante di quel periodo fu l'ascesa della Banca Nazio-
nale del Lavoro, che diventò nel 1964 la prima banca italiana e la
nona del mondo per volume di attivo. Ciò era dovuto certamente
aUa sua attività di espansione, ma il fattore determinante era il fatto
che la BNL era privilegiata nel servizio di cassa degli enti pubblici e
degli enti di gestione delle partecipazioni statali.
Nel quadro di veloce ma ordinata espansione del credito non pote-
vano mancare le crisi, ma queste erano più che altro incidenti di
percorso. n numero delle banche continuò a ridursi, tra il 1937 e il
1974 ne sparirono oltre mille, ma nel decennio precedente ne erano
scomparse duemila. Nella maggior parte dei casi si trattava di ban-
che popolari e casse rurali, che vennero assorbite da altre banche si-
milari, o da istituti più rilevanti, che in questo modo potevano rea-
lizzare, a basso costo, una politica di espansione della presenza nel
territorio. Nel 26% dei casi si fece ricorso alla liquidazione. Tra il
1959 e il 1968 cinquantasei banche caddero in crisi, ma per tutte si
evitò il trauma della liquidazione.
Nel complesso questo fu il periodo che dopo fu chiamato da qual-
che giornalista di pax bancaria. Se le banche ebbero una funzione
indubbiamente importante in tutta la fase di espansione dell'econo-
mia, non si può dire che ne avessero colto appieno tutte le implicazio-
ni. Mattioh, e più in generale le tre BIN, la BNL, in pratica una man-
ciata di i~tituti di maggiori dimensioni, avevano chiara abbastanza la

MIRACOLO E DOPO MIRACOLO (1955-73) 73

visione di quella che poteva essere la funzione del credito ordinario


in quel particolare momento. Si sforzavano quindi di seguire l'anda-
mento dell'economia e regolare in conseguenza l'erogazione del
credito, anche preoccupandosi di allargare un po' i cordoni della
borsa nei momenti negativi della congiuntura. Gli istituti minori, le
Casse di risparmio, gli stessi Istituti di diritto pubblico erano legati
ad una concezione arretrata, divenuta un dogma dopo la crisi del
'29, di una richiesta di garanzie talmente sicure, da rendere spesso
impossibile la concessione del credito. La piccola e media industria
soffriva particolarmente di questo stato di cose. Quando l'onda del
miracolo si esaurirà le banche andranno alla ricerca di impieghi e di-
venteranno più generose con le imprese minori.

La crisi del '64

Il miracolo si arrestò bruscamente nel 1964. Il periodo che seguì ne


conservò alcune apparenze ma in realtà fu molto diverso. Il reddito
continuò a crescere, e a un ritmo soddisfacente, ma il dato saliente
fu la caduta del tasso di accumulazione. L'incremento del reddito
andava in misura crescente a consumi e diminuiva la disponibilità
delle risorse destinate a investimento. Consumi ed esportazioni
vennero ad assumere la funzione trainante, che durante il miracolo
era stata rivestita dagli investimenti. Produttività e produzione ral-
lentarono, l'espansione dell'occupazione crollò. Malgrado il rallen-
tamento dello sviluppo l'inflazione restò di poco superiore a quella
di un periodo che pure aveva visto nel '63 la prima impennata dei
prezzi dopo la grande inflazione del dopoguerra.
L'inversione di tendenza non fu graduale, ma operata con un ta-
glio netto. Nel '63 la congiuntura italiana manifestò sintomi di surri-
scaldamento nell'andamento dei prezzi e nel rapporto tra impieghi
e depositi bancari. Si prese spunto da questi dati per lanciare un gri-
do di allarme, richiedendo che la domanda fosse messa sotto con-
trollo. Vi contribuirono fortemente ragioni squisitamente politiche,
perché si era appena costituito il governo di centro-sinistra e la parte
più conservatrice della DC voleva sferrare un colpo di arresto. Gui-
do Carli che nel 1961 era succeduto a Menichella come governatore
della Banca d'Italia, assunse un ruolo di primo piano facendosi por-
tavoce dell'iniziativa.
Prende corpo così uno dei paradossi della situazione italiana. Nel
rapporto tra governo e banca centrale, i banchieri centrali di tutto il
mondo hanno sempre cercato di difendere la propria autonomia
contro le aggressioni dell'esecutivo. In Italia si era consolidata una
tradizione di intesa cordiale tra Stato e banca, instaurata da Strin-
gher, rafforzata da Beneduce, che però volle sempre rimanere for-
malmente estraneo alla Banca d'Italia, pur determinandone la poli-
74 STORIA DELLA BANCA IN ITAUA

tica, politica continuata da Menichella. Con Carli la situazione co-


mincia a capovolgersi. Lo Stato vede ridursi costantemente le pro-
prie disponibilità perché non riesce a controllare l'aumento della
spesa corrente, ciò porta ad una rigidità crescente del bilancio che
diminuisce le possibilità di intervento, e quindi la politica monetaria
diventa l'unica politica possibile. Ma questa si trovava nelle mani
della Banca d'Italia, dandole un grande potere. Per oltre un decen-
nio questa È stata la situazione, con gli uomini politici che discetta-
vano volentieri della necessità per il governo di emanciparsi dalla
tutela della Banca d'Italia, senza trovare una via di uscita.
Il primo manifestarsi della funzione politica della Banca d'Italia fu
il complesso di misure decise dal governo. La natura dei prowedi-
menti ripeteva quella della manovra einaudiana del '47: forte stretta
sul credito e misure suppletive per contenere i consumi. La Banca
d'Italia, che non si era accorta di nulla e poco più di un anno prima
aveva allentato le briglie, consentendo una diminuzione delle riser-
ve obbligatorie ed un aumento dell'indebitamento sull'estero, dette
alle banche la direttiva di ridurre l'esposizione verso l'estero e con-
temporaneamente di ridurre il rapporto tra impieghi e depositi. Il
credito al consumo venne ristretto, e si istituì una imposta sull'ac-
quisto di auto; si aumentò l'imposta sulla benzina, per la primavolta
in quella che sarà una lunga serie di aumenti. La formazione di base
monetaria scese bruscamente.
Quello che era andato bene nel '47 non poteva funzionare allo stes-
so modo in un'Italia cambiata. Allora, alla stretta e all'arresto del-
l'inflazione aveva fatto seguito una ripresa degli investimenti, e un
tasso di accumulazione che era andato ben oltre le esigenze della ri-
costruzione, per iniziare un nuovo sviluppo. Dopo la stretta del '64
accadde esattamente il contrario: il tasso di accumulazione cadde
verticalmente. La stretta sul credito colpiva in primo luogo gli inve-
stimenti, non aveva nemmeno quegli effetti secondari di premere
sulla liquidità dei privati che avevano consentito di riavviare gli in-
vestimenti fin dal '48. Diversamente dal 1947, era possibile allora
una politica diversa. Mattioli aveva ricordato che quelli che appari-
vano come elementi di crisi non erano altro che la conseguenza del-
lo sviluppo. Invece ci furono panico e disordine, senza alcuna vera
solidità, alla prima vera crisi di crescita.
Con il '64 molte cose cominciano a cambiare. Nelle imprese la strut-
tura dei finanziamenti si deteriora rapidamente: diminuisce forte-
mente l'autofinanziamento, malgrado il blocco dei salari, la quota
del capitale diminuisce e aumentano fortemente i debiti a breve ter-
mine. La ragione era che si era formata una sfiducia sulle prospetti-
ve di sviluppo, e quindi non si volevano prendere impegni a lungo
termine. Per questo, quando verrà l'inflazione, le imprese pagheran-
no un conto molto salato. La (r)filosofia¯ del finanziamento a medio

MIRACOLO E DOPO MIRACOLO (1955-73) 75

termine come cerniera tra l'indebitamento per la gestione e il con-


solidamento attraverso il mercato dei capitali e l'indebitamento a
lungo termine, non poteva funzionare più nelle nuove situazioni. La
Banca d'Italia fece in modo che le banche assumessero nel proprio
portafoglio obbligazioni degli istituti speciali, e mettendo in atto
quella che si chiamò doppia intermediazione. Con questo sistema, il
risparmio affluiva nelle banche sotto forma di depositi, ma prima di
andare agli impieghi veniva di nuovo intermediato attraverso le ob-
bligazioni degli istituti speciali, che facevano gli impieghi. Quanto
alle situazioni di crisi delle imprese, in assenza di un ordinamento
adeguato, si poteva sopperire solo con l'ingegneria finanziaria, cioÈ
escogitando fusioni, concentrazioni, manovre con emissioni di tito-
li, che avessero come risultato finale un alleggerimento della situa-
zione finanziaria.
Altro dato strutturale carico di conseguenze, comincia a crescere
l'indebitamento dello Stato, che per tutto il periodo di Menichella
non aveva superato 1'1% del prodotto interno lordo. La restrizione
del credito si applicava quindi all'economia reale, ma non allo Sta-
to. Si sviluppa così una funzione particolare delle banche nei con-
fronti dello Stato, per cui le prime raccoglievano i risparmi per poi
investirli in titoli di Stato, che erano titoli di credito. Questo feno-
meno c'era da sempre perché le banche, soprattutto le piccole, inve-
stivano massicciamente in titoli di Stato, anche al di fuori di obblighi
di riserva. Quello che cambiava era il volume che la doppia interme-
diazione aveva assunto in rapporto al totale del risparmio, e questa
era responsabilità dello Stato, non del sistema bancario, che dal-
l'operazione non faceva altro che trarre utili, per l'interesse media-
mente più elevato dei titoli pubblici.
Il fattore trainante dell'economia italiana fu dato dalle esportazio-
ni. I salari continuavano ad essere più bassi mediamente di quelli
europei, e questo rafforzava la competitività dell'industria italiana;
si sfruttavano al massimo gli impianti esistenti e si cercava di immo-
bilizzarsi il meno che fosse possibile, finanziando tutto col credito a
breve termine. Le banche seguirono la situazione. Gli speciali e Me-
diobanca cominciarono ad investire fortemente nel credito all'espor-
tazione che raggiunse una quota notevole degli impieghi; le banche
di credito ordinario intensificarono l'assistenza finanziaria alle ope-
razioni commerciali sull'estero.
Una maggiore presenza all'estero incentivò cambiamenti qualitati-
vi. Le filiali estere diventavano spesso società autonome, controllate
dalla banca madre, seguendo l'esempio delle concentrazioni indu-
striali-finanziarie internazionali. Queste società controllate si inse-
diavano nei paradisi fiscali, dove i controlli sulle banche sono prati-
camente inesistenti, e cominciavano a fare affari in proprio, operan-
do sul mercato del credito, sui cambi, sulle anticipazioni.
STORIA DELLA BANCA IN ITALIA

Scandali e lottizzazioni

Non È solo la situazione economica a cambiare con la fine del mi-


racolo. Cambiano anche i rapporti politici, e cambia anche la posi-
zione del sistema del credito nei confronti del potere politico. Con i
governi di centro-sinistra, a poco a poco, lentamente ma inesorabil-
mente, si arriva alla grande lottizzazione di buona parte del sistema
bancario.
E evidente che un rapporto tra banche e politica È insopprimibile
perché l'esercizio della raccolta e del credito È troppo intrecciato
con l'organizzazione sociale, e quindi interferisce continuamente
con le funzioni dello Stato. Nella tradizione italiana questo rappor-
to È stato più intenso che altrove. La funzione di Cavour nella for-
mazione della Banca Nazionale era palese; i legami tra il Banco di
Roma e il Vaticano, della Banca di Sconto con Nitti, erano un dato
di fatto; la Banca Romana aveva pagato politici perché chiudessero
gli occhi sulle illegalità. Però le pressioni non andavano oltre un cer-
to limite e i grandi salvataggi bancari della prima metà del secolo xx
erano stati condotti sempre in modo da tutelare interessi che stava-
no a cuore al potere politico, si trattasse di imprese o di imprendito-
ri, ma non in funzione del puro e semplice potere. Con Beneduce
era emersa una linea generale di relativa indipendenza del sistema
bancario, e gli istituti di diritto pubblico non servivano, almeno oltre
un certo limite, da strumenti di potere. Quanto alle banche di inte-
resse nazionale, controllate dall'lRI, poterono sempre godere di am-
pia autonomia, aiutate dal fatto che i loro statuti prescrivevano che
i dirigenti venissero dall'interno delle banche stesse. Mattioli era
del resto un custode geloso della propria indipendenza.
A partire dagli anni Settanta invece le banche cominciarono a di-
ventare strumento diretto di potere. Le prime ad essere investite
dalla lottizzazione furono le Casse di risparmio, data la dipendenza
dal governo. Per lungo tempo erano state controllate da democri-
stiani; ora la presenza dei socialisti al governo richiede che anche a
questi si faccia spazio. La lottizzazione comportava uno spostamen-
to di rapporti di forza all'interno delle amministrazioni di ogni isti-
tuto ed un sistema di preferenze nell'erogazione del credito. Fatal-
mente portava con sé la degradazione della funzione. La pressione
dei politici ebbe conseguenze dirette sulla concessione dei crediti,
dato che si cominciò a discriminare nell'esame delle garanzie. I diri-
genti venivano lasciati in carica oltre la scadenza per poter ammuc-
chiare insieme i pacchetti di nomine e contrattare meglio.
La qualità dell'attività cominciò quindi a scadere. Anche gli istituti
di diritto pubblico mostrano debolezze e crepe. I dirigenti si sento-
no protetti politicamente, perché rendono servizi ai partiti domi-

I~llRACoLO E OOPO MIRACOLO (1955-73) 7'7

nanti, e da questo traggono la convinzione della propria impunità


Mentre l'attività È ancora a livello alto il Banco di Sicilia viene coin-
volto dal suo presidente in una speculazione che inghiotte cifre enor-
mi, e il bilancio va in passivo. Analoga cosa succede per un anno al
Banco di Napoli.
Da un rapporto privilegiato con il potere politico le banche riceve-
vano anche ricadute particolarmente negative. La Banca Nazionale
del Lavoro era praticamente la cassa degli enti di gestione delle par-
tecipazioni statali. Quando gli enti si videro offrire dalla concorren-
za condizioni migliori di quelle che faceva la BNL, questa si trovò in
serie di~icoltà, e dovette intervenire il ministro del Tesoro per ri-
chiamare tutte le banche al rispetto dei tassi stabiliti con l'accordo
di cartello. Ma la situazione non poteva durare e si arrivò alla deci-
sione di concentrare nella Tesoreria dello Stato tutte le giacenze del-
la pubblica ammioistrazione. Questo diminuì seccamente la forza del-
la BNL
In questo clima si andava verso l'inflazione che doveva scuotere a
fondo il sistema bancario.

caso Sindona

Il caso più rilevante, che mise a nudo tutte le contraddizioni del si-
stema, fu l'affare Sindona. Michele Sindona, con fondi provenienti
con ogni probabilità dalla criminalità organizzata, aveva messo in
piedi un sistema di iniziative finanziarie e particolarmente di specu-
lazioni in Borsa, attraverso due piccole banche di cui aveva acqui-
stato il controllo: la Banca Unione e la Banca Privata. Finanziando
i partiti di governo, in particolare la DC, era riuscito ad avere una c~
pertura politica importante, al punto che le banche cooperative cat-
toliche depositavano i propri fondi nelle sue banche. Promettendo
utili elevatissimi raccoglieva depositi di enti e associazioni nelle sue
banche che non avevano sportelli per la raccolta di crediti dai priva-
ti, e riusciva a compensarli attraverso un giro di speculazioni, in
Borsa e sui carnbi. Per le speculazioni aveva un fiuto e un genio na-
turali. Faceva sparire soldi dalla circolazione comprando attraverso
una propria società delle aziende a prezzo esorbitante e nasconden-
do le perdite nei propri bilanci. Rese molti servizi al Vaticano com-
prando le azioni della Società Immobiliare Roma che esso control-
lava, e che versava in gravi difficoltà.
Raccogliere depositi compensandoli con speculazione si può sol-
tanto se ci si espande in continuazione. Per tenere in piedi il suo si-
stema, Sindona doveva comprare continuamente banche e imprese.
Tenta una scalata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, ma la Ban-
ca d'Italia lo blocca. Passa allora ad attaccare le banche di Pesenti e
la stessa Italcementi proprietà dello stesso, acquistando una quanti-
tà di azioni tale da costringere Pesenti a ricomprarle a un prezzo al-
tissimo. Pesenti paga con i soldi dei risparmiatori delle sue banche.
Dopo di che Sindona tenta di scalare la Bastogi, che era ancora un
punto di convergenza di tutte le maggiori imprese italiane; in questo
modo sarebbe entrato in rapporto con il cuore del capitalismo ita-
liano. Fu sostenuto da una grande e rispettata banca inglese, la
Hambro. Prima riuscì ad impadronirsi della Centrale, una holding
ex elettrica che aveva partecipazioni in numerose società, poi lan-
ciò, per la prima volta in Italia, un'offerta pubblica di acquisto. L'o-
perazione fallì, per l'opposizione di Carli e per la resistenza di tutto
l'establishment del capitalismo italiano.
L'awentura non era finita. Sindona fece fondere le sue due banche
nella Banca Privata Italiana, si fece finanziare fortemente dal Ban-
co di Roma, che in questo era stato sollecitato da Carli, cedendogli
in pegno le azioni dell'Immobiliare, e cercò di aumentare il capitale
della sua finanziaria, la Finambro, che progettava di fondere suc-
cessivamente con la Centrale. Nello stesso tempo acquista una ban-
ca americana, la Franklin National Bank, per condurre una serie di
speculazioni sul dollaro. Il disfacimento del sistema monetario in-
ternazionale e l'inizio dell'inflazione avevano fortemente incre-
mentato l'attività speculativa sui cambi. Ma questa volta sbagliò
obiettivo, puntò sul rialzo del dollaro che invece declinò, e subì per-
dite clamorose che riversò sulla banca, portandola però al fallimen-
to. Quanto all'aumento di capitale, Ugo La Malfa, che era ministro
del Tesoro, negò l'autorizzazione, malgrado il parere favorevole di
Carli; questo evento insieme con il fallimento americano portarono,
nel settembre 1974, al crollo della Banca Privata Italiana.
I creditori furono rimborsati, con la solita operazione di un gruppo
di banche che si assume i debiti dell'istituto in liquidazione; gran
parte delle perdite della banca ricadde sul Banco di Roma che la
aveva finanziata. Particolarmente spinoso fu il rimborso di un grup-
po di depositanti in una banca svizzera, praticamente esportatori di
capitali all'estero, la cosiddetta lista dei cinquecento, tra cui con
ogni probabilità vi erano società e prestanome dello stesso Sindona,
oltre che personaggi che egli intendeva favorire, e probabilmente il
Vaticano. Il consorzio fu agevolato a rifarsi delle perdite con un in-
tervento diretto della Banca d'Italia.
Contro questa soluzione Sindona si batté con tutti i mezzi, con i
tentativi di ricatti, le intimidazioni, fino all'assassinio di Ambrosoli,
liquidatore della Banca Privata. Arrestato negli Stati Uniti, estrada-
to, morì in carcere, suicida, almeno così fa comodo a tutti credere.

L'inflazione (1973-84)

Con l'inflazione ricominciarono le crisi bancarie e il rapporto tra


banche e imprese divenne di nuovo critico. Al numero delle crisi

certamente contribuirono lo scadimento del sistema e le decisioni


delle imprese legate a certe scelte di politica economica generale,
ma la ragione principale va cercata obiettivamente nell'ondata in-
flazionistica che colpì tutto il mondo a partire dal 1973.
A determinarla contribuirono cause di ordine diverso. La triplica-
zione del prezzo del greggio non poteva spiegare tutto. Si era con-
clusa una fase dell'espansione dei paesi industriali avanzati, in cui
aumentavano reddito, investimenti, occupazione, volume del com-
mercio mondiale. La produzione riusciva a seguire l'aumento della
domanda e quindi si evitavano strappi inflazionistici grazie alla ri-
duzione dei costi unitari. La caduta del saggio di profitto era com-
pensata da un aumento dei profitti globali.
Il sistema cominciò a mostrare le prime incrinature nella misura in
cui la domanda di certi beni cominciava a rallentare la sua crescita.
La crescente intensità di capitale delle industrie irrigidiva i costi di
produzione e limitava la possibilità di ridurre i prezzi. L'inflazione
comincia così a radicarsi, alimentata anche da trasferimenti statali
finanziati in misura crescente in disavanzo, a mano a mano che ral-
lentava la crescita delle entrate fiscali. Inoltre il rafforzamento eco-
nomico dell'Europa aveva portato ad un disavanzo della bilancia dei
pagamenti americana. Quando la bilancia commerciale dei beni e ser-
vizi diventò anch'essa passiva gli Stati Uniti imposero di fatto il sistema
dei cambi fluttuanti, e i vantaggi della stabilità sparirono rapidamente.
In questo quadro il colpo del prezzo del petrolio fu particolarmen-
te duro e l'inflazione ebbe una immediata esplosione. Essa colpì di
più paesi come l'Italia dove tutto sommato le strutture produttive
erano più deboli. L'onere di combattere le conseguénze dell'infla-
zione sul tenore di vita ricadde interamente sullo Stato che si inde-
bitava pesantemente.

Un sistema in crisi
Le conseguenze maggiori furono sul lato delle grandi imprese.
Queste, dopo l'esaurimento del miracolo e l'indebolimento dell'au-
tofinanziamento, finanziavano i propri scarsi investimenti col debi-
to, mentre gli istituti speciali, per il credito a lungo termine, si finan-
ziavano a loro volta, come si È visto, attraverso le obbligazioni. Era
quindi interesse vitale per l'economia che i tassi di interesse fossero
bassi, ed il governo fece di tutto perché lo restassero. Ma tutti gli al-
tri paesi li aumentavano e così si creò una fuga di capitali dalle ban-
che italiane che provocò una caduta grave nel tasso di cambio. Per
difendere la lira furono bruciate molta parte delle riserve in valuta
della Banca d'Italia, e si dovette fare ricorso a misure drastiche per
diminuire le importazioni.
Misure altrettanto drastiche furono prese per il controllo del cre-
dito. A parte l'autorità morale, rafforzata quando necessario dal po-
tere politico, per intervenire sulle banche Stringher aveva a disposi-
zione solo il risconto; la legge bancaria del '36 dava ora amplissimi
poteri al governo per stabilire tutti gli strumenti di intervento che
credesse opportuni. Einaudi e Menichella si erano serviti della ri-
serva obbligatoria come strumento per il controllo quantitativo del
credito. Nel 1974 si passò al controllo diretto introducendo il vinco-
lo di portafoglio e il massimale sull'espansione del credito. Col pri-
mo strumento si obbligavano le banche a detenere una certa per-
centuale di titoli pubblici, e di obbligazioni di enti pubblici, e di so-
cietà private. La doppia intermediazione era così istituzionalizzata.
Col massimale si stabilivano i limiti di espansione del credito per un
certo periodo rispetto alle consistenze iniziali, differenziandole per
categorie. Ad esempio era concessa una maggiore espansione per i
crediti di minore consistenza, in modo da favorire le piccole e medie
imprese. Si arrivò a differenziare le percentuali di espansione anche
per settore.
In presenza di inflazione il finanziamento delle imprese diventò
prevalentemente a breve termine. Emettere obbligazioni era diffici-
le perché sarebbero state rimborsate con denaro svalutato. Le ban-
che quindi concedevano scoperti a tassi crescenti per mettersi al si-
curo da rischi. Il risultato fu un crescente onere delle imprese per gli
interessi che mise in crisi i profitti. Le banche si trovarono quindi di
fronte a un dilemma molto duro. Sospendere i finanziamenti avreb-
be messo in crisi i propri crediti, e così ancora una volta fecero quel-
lo che avevano sempre fatto con le imprese in crisi: continuarono a
finanziare, a tassi sempre crescenti, che sulla carta consentivano
profitti elevati. Questo però indeboliva tutto. Ci fu un periodo in cui
l'indebitamento di cinque imprese copriva da solo l'intero patrimo-
nio di tutto il sistema bancario.
Questa situazione fu fronteggiata grazie a un fattore nuovo, e a un
espediente che doveva dimostrarsi disastroso. Il primo fu l'affer-
marsi della piccola e media industria che fu un elemento di profon-
da novità nell'economia italiana. Le banche aiutarono questo pro-
cesso perché le imprese di minori dimensioni erano più solvibili e il
loro indebitamento minore. Queste imprese salvarono la bilancia dei
pagamenti italiana e diventarono l'elemento prevalente del sistema
industriale italiano.
L'altra via fu seminata di errori e di illegalità, e fu un intervento del-
lo Stato che, per salvare le banche e insieme le imprese, si fece cari-
co delle situazioni più gravi, direttamente e indirettamente, con i si-
stemi più diversi. Si andò dall'acquisto della siderurgia FIAT da par-
te dell'IRI, che non ne aveva alcun bisogno, al passaggio all'ENI di
parte degli impianti Montedison, cosa che in sostanza equivaleva a
una elargizione. Un aiuto notevole venne alle banche, particolar-
mente agli istituti di diritto pubblico ed a quelle più piccole dalla si-
stemazione della condizione finanziaria dei Comuni, per cui lo Sta-
to si sostituì nei loro debiti, e attraverso una nuova legge per la fi-
nanza locale che aumentava notevolmente le disponibilità degli enti
locali, rallentando la formazione di nuovo debito.
Alcune banche si trovarono in piena crisi, e furono salvate, con la
collaudata ricetta del rilevamento da parte di altre banche. Lo Stato
sosteneva questi oneri continuando ad indebitarsi ma in misura tut-
to sommato ancora controllabile, grazie all'incremento delle entra-
te fiscali prodotto d al fiscal drag. Soprattutto fu aiutato dal fatto che
le famiglie, malgrado l'inflazione, continuavano a risparmiare e in-
vestivano in titoli pubblici.

n crollo della chimica

Il peso più grave della crisi ricadeva sulle imprese ad alta intensità
di capitale che si erano finanziate con l'indebitamento. Gli investi-
menti dell'IRI nella siderurgia erano stati finanziati attraverso il de-
bito. Quando il carico di interessi divenne insostenibile e non si tro-
vavano banche disposte a fare altri finanziamenti, I'IRI diventò dipen-
dente dall'aiuto dello Stato che lo finanziava con i fondi di dotazione.
L'ENI se la cavò meglio perché almeno disponeva di petrolio e so-
prattutto di gas che allora gli costava ben poco. Le società di gestione
delle autostrade, che avevano previsto piani di ammortamento del de-
bito a lunga scadenza, furono salvate facendole assorbire dall'IRI. Ma
il caso più grosso di crisi che condusse sull'orlo della bancarotta due
istituti speciali, I'IMI e l'ICIPU, fu quello dell'industria chimica.
Fin dagli anni Cinquanta il progresso tecnologico aveva lanciato la
domanda di prodotti petrolchimici. Su quest'industria si lanciarono
la Montedison, forte degli indennizzi della nazionalizzazione del-
l'industria elettrica, I'ENI, ed un gruppo di affaristi che più che indu-
striali erano speculatori, Rovelli e Ursini. L'industria richiedeva forti
investimenti e perciò il Mezzogiorno, dove c'erano le agevolazioni
sugli interessi, sembrò la sede più adatta. Le agevolazioni venivano
concesse sulla base di un parere, rilasciato dal governo, sulla con-
formità alle direttive della politica industriale, e questo fu conside-
rato dagli istituti pubblici una sorta di garanzia. In sostanza era un'in-
tesa, tacita, tra banche e potere politico. Furono quindi erogati finan-
ziamenti in misura ingentissima. Gli istituti ci guadagnavano perché
attraverso la fissazione del tasso dei finanziamenti incassavano una
parte delle agevolazioni.
Questo fece espandere oltre misura l'industria e si arrivò ad un vero
e proprio eccesso di capacità produttiva. Quando soprawenne l'au-
mento del prezzo del petrolio, che aumentò il costo della materia pri-
ma, e l'inflazione, che abbassò la domanda e aumentò i costi per l'au-
mento dei tassi, il castello di carta crollò. La Montedison si trascinò
a lungo nella crisi, ma soprawisse fino a che non cadde nelle mani di
Raul Gardini. L'ENI era forte, ma dovette accollarsi l'onere dei sal-
vataggi. Le imprese speculative, la SIR di Rovelli e la Liquichimica
di Ursini crollarono, dopo aver tentato la fuga in avanti di aumenta-
re sempre gli investimenti per avere più soldi e pagare così i debiti
precedenti.
Ciò rischiò di trascinare nella caduta i due fondamentali istituti pub-
blici per il credito a lungo termine, I IMI e I ICIPU, che avevano larga-
mente finanziato le due imprese. Il salvataggio awenne attraverso
un complicato sistema per cui, alla fine del 1978, si costituì un con-
sorzio di creditori delle aziende, che consolidò i debiti e ne convertì
una parte in capitale sottoscritto dagli istituti di credito. Nel consor-
zio fu coinvolta la Cassa Depositi e Prestiti e le aziende furono ce-
dute successivamente all'ENI. Il bilancio dell'operazione lasciava
comunque forti perdite a carico dei creditori, e perciò la trattativa
per la costituzione del consorzio fu lunga e penosa. L IMI poté ri-
prendersi, grazie all'estensione della propria attività in nuovi campi;
per l'ICIPU invece non si trovò alcuna via di uscita e dovette essere
fuso con il Crediop.
Nel disastro era stata coinvolta anche la Cassa Centrale delle Cas-
se di risparmio, l'Italcasse, che era un feudo del potere politico de-
mocristiano. Oltre alla chimica, aveva finanziato i fratelli Caltagiro-
ne, industriali edili romani molto legati al potere politico che aveva-
no fatto crack. L'Italcasse fu commissariato, e le Casse di risparmio
dovettero ripianare le perdite.

Un caso limite: il Banco Ambrosiano

Il crollo del Banco Ambrosiano ebbe origini del tutto diverse.


Mentre per il crollo chimico la causa scatenante era stata l'inflazio-
ne, per la banca di Roberto Calvi le cause vanno ricercate puramen-
te e semplicemente nella speculazione legata all'affarismo politico
ed agli intrighi.

Il Banco Ambrosiano era un'antica banca cattolica condotta in


modo talmente tradizionale che aveva rifiutato di partecipare alla
costituzione del consorzio di banche cattoliche che aveva assunto il
controllo del Banco di Roma. Calvi era un suo impiegato che, dopo
aver percorso tutta la carriera, pensò di impadronirsi della banca. A
questo scopo si legò a Sindona ed allo IOR, istituto finanziario del
Vaticano. Dal fallimento di Sindona ricevette in eredità dei consi-
stenti depositi sottratti alla liquidazione; con lo IOR fece affari in co-
mune. Lo IOR possedeva forti quote del capitale delle banche di
Sindona come dell'Ambrosiano. Alla fine dell'operazione l'Ambro-
siano era controllato da società che esso stesso controllava, come la
Toro Assicurazioni, e da altre società estere, soprattutto panamen-
si, dietro cui si nascondevano probabilmente Calvi e lo IOR, e forse
interessi criminali.
L'Ambrosiano di Calvi proseguì la politica di espansione di Sindo-
na; la Centrale passò sotto il suo controllo, e così la Rizzoli, editrice
del Corriere della Sera, mentre acquistava altre banche locali, solide,
come il Credito Varesino, per procurarsi fondi. La caratteristica del
Banco era di non essere legato a nessuna particolare specializzazio-
ne o modo di operare, in cui far valere proprie conoscenze; era sem-
plicemente una macchina di speculazione che maneggiava denaro.
La tecnica per l'esportazione di capitale per esempio era l'acquisto
di imprese italiane da parte di società estere da esso controllate, im-
prese che poi venivano rivendute allo stesso Banco Ambrosiano ad
un prezzo maggiorato. La differenza era il capitale esportato, che
così rimaneva sempre nel gruppo.
La realtà È che il Banco non era altro che il braccio finanziario del-
la loggia P2 di Gelli, e tutte le sue attività erano subordinate a que-
sta funzione. Calvi cercò di coprirsi in vari modi; fece entrare Carlo
De Benedetti, presidente della Olivetti, nel Consiglio di ammini-
strazione, per poi farlo uscire con una buonuscita di lusso, quando si
accorse che costui aveva cominciato a capire come stavano le cose.
Ma l'esportazione clandestina di capitali lasciava tracce e così Calvi
fu arrestato, processato e condannato.
Dal colpo non si riprese. Cominciò una crisi, soprattutto perché la
Banca d'Italia, dove era diventato governatore Carlo Azeglio Ciam-
pi, cominciò a intervenire sul serio, imponendo la vendita della Cen-
trale; facendo modificare il regolamento intemo; richiedendo il
rientro di certe anticipazioni e cominciando l'esame delle parteci-
pazioni estere. Queste ultime costituivano la chiave di tutti i movi-
menti, talmente intrecciati da non consentire nemmeno una valuta-
zione del capitale netto del Banco. La pressione e l'evoluzione della
situazione politica misero Calvi alle corde e, fuggito dall71talia, forse
in una disperatrieerca di aiuto, venne ritrovato morto sotto unonte
di Londra, ed anehe per lui a i.utti onviene ritenerlo suicida.
La sistemazione del crack awenne con l'ennesima ripetizione del
la ricetta: liquidazione della società, e costituzione di unruppo che
subentra. In un primo tempo questo vide la partecipazione della BNL
e dell'Istituto San Paolo di Torino, successivamente la BNL Si ritirò e
il Nuovo Banco Ambrosiano diventò la più importante banca priva-
ta, grazie alla fusione con la Banca Cattolica del Veneto, e mutando
denominazione in Ambroveneto. Con una novità rispetto ai prece-
denti salvataggi, che fece scalpore in campo internazionale, Ciampi
giustamente, rifiutò di riconoscere il debito delle società estere di
Calvi. In conseguenza molte delle maggiori banche internazionali
dovettero subire perdite non indifferenti.

Mediobanca e l'ingegneria finanziaria

In sostanza per il sistema bancario, scandali a parte, tutto era an-


dato bene finché l'economia andava bene. Quello che non era capa-
ce di fare era contribuire a trovare soluzioni per superare le cris
senza aver bisogno dell'intervento dello Stato.
L'eccezione era rappresentata dalla sola banca di affari italiana
Mediobanca. Cuccia costituì il vero punto di riferimento per tutte le
grandi imprese italiane. Più che sui propri mezzi finan~an Medi~
banca puntava sulla sua capacità di costruire soluzioniadhoc. I suoi
strumenti di intervento furono le emissioni azionarie e rorganizza-
zione del controllo attraverso i sindacati, le fusioni, i passaggi di p~
prietà.
Quando la Olivetti si trovò in crisi e la famiglia che deteneva il oon-
trollo non fu in grado di sostenere le perdite, Cuccia organ~zzo il
nuovo azionariato di controllo con la partecipazione &, FIAT,
Centrale, Pirelli, oltre la stessa Mediobanca. Cuccia È il banchiere
& fiducia della FIAT: tratta con i libici, per farli entrare e poi usc~re
dal capitale; fa partecipare Agnelli alla privatizzazione & Monte&-
son che passava attraverso la cessione di una controllata & Monte-
&son, la Gemina; porta la FIAT al controllo dellanA-~Iscosa,
anch'essa sottratta a Montedison. Quando la FLAT si affiderà ad una
banca & grande fama come la Deutsche Bank per un aumento & ca-
pitale non avrà un grande successo; sarà Cuccia, grazie a un g~oco &
emissione di obbligazioni convertibili a risolvere i gravi problemi &
finanziamento dell'impresa torinese.
Ancora di più Mediobanca fa con Pirelli, suggerendo la riorganiz-
zazione del gruppo. La Pirelli era divisa in due linee parallele, che
una complessa operazione trasformò in una cascata & società, che
possono mantenere il controllo con un minore impegno & capitale.
Mediobanca era stata all'origine della scalata dell'ENI a Montedi-
son, poi della privatizzazione della stessa impresa. Quest'ultimaope-
razione fu condotta in modo assai elegante e dà un'idea del modo di
operare di Mediobanca. Montedison era controllata da una società
pubblica la SOGAM, dove erano affluite le partecipazioni dell'ENI e
dell'IRI. La Gemina era controllata da Montedison e fu ceduta ad
un gruppo di imprese che oltre Mediobanca, comprendeva FIAT,
Bonomi, Pirelli e Orlando, dopo di che procedette ad un aumento
di capitale sottoscritto dal pubblico e collocato da Mediobanca, e
con il ricavato rilevò la partecipazione della SOGAM in Montedison.
L'operazione costò pochissimo alle grosse imprese.
Operazioni di questo tipo erano possibili solo se c'era una istitu-
zione che ne garantiva con la sua immagine la riuscita, e questo fu
appunto il ruolo di Mediobanca, che dimostrava di essere l'unica
banca in Italia a possedere la tecnica di questo tipo di interventi.
Il punto di partenza del potere di Mediobanca È stata la cronica ri-
trosia dei risparmiatori ad investire nel capitale di rischio delle im-
prese. L'effetto era accentuato dalla concorrenza dello Stato che si
indebitava in continuazione, dall'atteggiamento degli imprenditori
che calpestavano regolarmente gli azionisti e dal fatto che la Borsa
italiana era inconsistente. In assenza di capitale adeguato le impre-
se dovevano ricorrere ad espedienti, a quella che si chiamò l'inge-
gneria finanziaria, e Mediobanca fomiva loro i mezzi. Più che una
holding, come di fatto erano state le due grandi banche dell'epoca
giolittiana, Mediobanca, almeno alla fine degli anni Ottanta, È una
banca d'affari. Fa largo spazio all'attività di consulenza e assistenza
e di ciò fa parte anche l'intervento sul capitale azionario. Questa at-
tività si innesta però sulla solida base fomita dai finanziamenti: non
si tratta di interventi speculativi, solo di compra e vendita di azioni.
In questo modo Mediobanca consegue un potere reale, e con esso
l'immagine che rimane sua. Si crea la situazione in cui non ci può es-
sere operazione di qualche rilievo nel sistema delle maggiori impre-
se senza l'intervento di Cuccia.
Per Cuccia la separazione netta tra banca e impresa non aveva
molto senso, anche se continuava a renderle omaggio fommale. Pro-
babilmente era una convinzione presente fin dalla costituzione del-
la banca, assai diversa da quella di Mattioli che della separazione
aveva fatto un dogma, ed È il persistere di questo dogma che ha
bloccato ogni iniziativa concorrente, per cui Cuccia È rimasto solo a
tenere il campo. Così Mediobanca si ritrova in una posizione nodale
nel nuovo assetto che l'economia italiana assume negli anni Novan-
ta, e che può essere foriero di imprevedibili sviluppi.
Dove si va? (1984-95)

L'Italia fu l'ultimo tra i paesi maggiori ad uscire dall'inflazione a


due cifre. Ciò si verificò più che per ragioni interne per effetto del-
l'evoluzione della situazione internazionale. L'uscita fu propiziata
da due ordini di fattori: le politiche monetarie restrittive ma non sel-
vagge, messe in atto dovunque, e la caduta del prezzo del petrolio,
provocata dal calo della domanda e dall'entrata in produzione di
nuovi giacimenti. La produzione riprese, la domanda mondiale au-
mentò, e l'Italia riprese le esportazioni, competitive grazie al fatto
che i salari non aumentavano. Si mise in atto una politica monetaria
più rigorosa, e la Banca d'Italia fu liberata dall'obbligo di finanziare
in ogni caso il Tesoro. Inoltre, mentre tutti i paesi industrializzati
procedevano ad una forte restrizione della domanda globale, in Ita-
lia la Banca d'Italia riuscì, manovrando le leve di controllo del credi-
to, ad evitare che gli investimenti fossero particolarmente penaliz-
zati come accadeva altrove.
L'inflazione era stata però in parte la causa scatenante, in parte
l'effetto delle profonde trasformazioni strutturali che hanno inve-
stito il capitalismo occidentale, e le cui premesse si andavano accu-
mulando da tempo.
Il dato essenziale È l'awento della società dei servizi e del capitali-
smo finanziario. Per oltre un decennio, nei paesi industrializzati c'era
stato un freno allo sviluppo delle forze produttive e il modello degli
anni Cinquanta non funzionava più. Le imprese cercarono di rista-
bilire i margini di profitto aumentando la produttività e bloccando i
salari. In queste condizioni il sostegno della domanda poteva awe-
nire soltanto attraverso l'espansione dell'occupazione nei servizi, ed il
risultato fu una profonda trasformazione nella struttura sociale,
con il prevalere dei servizi in tutti gli Stati di capitalismo avanzato.
Lo sviluppo del capitale finanziario era strettamente legato a que-
sta trasfommazione. Le famiglie diventavano la principale fonte di ri-
sparmio e quindi l'intermediazione finanziaria assumeva una fun-
zione sempre più rilevante, fino al punto da creare una situazio-
ne in cui il profitto derivante dalle transazioni finanziarie diven-
tava superiore a quello ricavabile dalla produzione. Si svilupparono
quindi le transazioni puramente finanziarie, all'interno dei mercati
dei vari paesi, ma specialmente nei rapporti intemazionali. Oggi
ogni giorno vengono scambiati 1000 miliardi di dollari e solo il 3~o
di queste transazioni È riconducibile a scambio di beni e servizi.
Ciò sconvolgeva il vecchio modo di fare banca attraverso l'ammini-
strazione dei prestiti e il rapporto con i depositi. Gli utili che le ban-
che fanno sulle operazioni sul denaro, compra e vendita di titoli, in-
temmediazione, operazioni speculative, vanno crescendo sistemati-
camente rispetto a quelli che si fanno con l'esercizio del credito, e
questo vale non solo per le banche di affari, ma anche per le banche
di credito ordinario.

Ritardi e contraddizioni

In Italia questo processo si È andato affemmando, come È inevitabi-


le, data l'integrazione ormai irreversibile col mercato mondiale, ma
con ritardi e contraddizioni. L'ommai sistematico ricorso all'indebi-
tamento delle imprese non poteva essere coperto soltanto dagli isti-
tuti speciali ed in conseguenza tutte le banche si trovavano quale
più quale meno ad avere in misura rilevante crediti che di fatto era-
no a lungo termine. La responsabilità di questa debolezza non può
essere accollata interamente alla legge bancaria, perché la struttura
operativa delle banche italiane non era attrezzata per assolvere a
questo compito e le banche si lasciavano trascinare con facilità in si-
tuazioni rischiose. Inoltre i loro costi operativi erano superiori a
quelli della concorrenza intemazionale. Ordinamento normativo e
prassi operativa erano tutti e due in grave ritardo rispetto alle nuove
esigenze. In ritardo ancora più grande era la cultura del sistema, le-
gata alla vecchia concezione ed incapace di valutare il rischio in ter-
mini nuovi, di mercato e di impresa, piuttosto che di garanzie, salvo
dimenticarsene quando erano in gioco grosse imprese.
Ai pericoli di questa situazione si cercò di porre rimedio istituendo
un fondo di assicurazione per garantire i rispammiatori contro l'in-
solvenza delle banche. La ricetta dell'assorbimento restava sempre
valida, ma il fondo aveva il merito di diminuire un onere che altri-
menti sarebbe indirettamente ricaduto sul bilancio statale.
Gli anni Ottanta e Novanta in campo intemazionale erano stati as-
sai ricchi di eventi. La finanza cercava sempre nuovi sistemi per rea-
lizzare profitti col maneggio di solo denaro. Per un certo periodo
andarono di moda i servizi alle imprese, il leasing, cioÈ un sistema di
finanziamento di investimenti per cui l'imprenditore pagava una
specie di affitto dei mezzi di produzione, ilfactoring, acquisizione di
crediti per poi esigerli, ed altri sistemi. Nel 1995 la grande moda,
che haaumentatofortementel'instabilitàdelsistemaintemaziona-
le È quella deiderivati,delcom mercio dititoliche non hanno un
propriovalorenominale,maderivato dalvalorecheacquistanoaltri
titoli o altre grandezze, come le azioni, i tassi di interesse, i tassi di
cambio, per cui la valutazione del titolo dipende dal naso dell'ope-
ratore.
La finanza italiana seguì sempre in ritardo. Si tentò di espandere il
parabancario, cioÈ i servizi alle imprese, attraverso società control-
late, ma ciò non dette grandi risultati. D'altra parte anche nel campo
delle imprese mancarono gli stimoli al rinnovamento. Per un certo
periodo, dopo la fine dell'inflazione, i margini di profitto aumenta-
rono e l'autofinanziamento con essi, ma la tendenza all'indebita-
mento non È contraddetta e ricompare sistematicamente. Le impre-
se italiane rimangono finanziariamente deboli perché non hanno
un volume di cash flow adeguato a sostenere i propri investimenti
nel lungo periodo. Per fare in qualche modo quattrini le grandi im-
prese ricorrono a tutti i sistemi, costituzione di società a catena,
continui aumenti di capitale che vengono divorati subito dalla ge-
stione passiva, investono in titoli pubblici, speculano sui cambi, o ri-
cercano nuove fonti di profitto, nella formazione di concentrazioni
in attività immateriali, come l'editoria, la pubblicità e la televisione.
E tutto ciò rafforza ancora l'impatto del capitale finanziario sul-
l'economia, ma il tasso di accumulazione, che viene valutato in ter-
mini reali in rapporto al prodotto interno lordo, continua a diminui-
re, incidendo soprattutto sulla formazione di capitale fisso sociale.

La riforrna silenziosa

Il tentativo di adeguare l'ordinamento ai tempi nuovi È stato fatto,


con risolutezza e cautela insieme, da Carlo Azeglio Ciampi. All'ini-
zio degli anni Novanta il sistema ha una normativa del tutto nuova
che ha soppiantato la legge bancaria del '36. E tutto ciò È awenuto
senza clamori e senza una adeguata partecipazione, senza dibattito,
non diciamo del pubblico, ma nemmeno della cultura.
Si partì dall'esigenza di allargare il numero di soggetti abilitati ad
agire sul mercato finanziario in relazione ai nuovi mezzi di sottoscri-
zione del capitale, come i fondi comuni di investimento. L'obiettivo
era quello di sollecitare la partecipazione dei risparmiatori al capi-
tale di rischio delle imprese, per rimediare alla cronica riluttanza dei
risparmiatori italiani a sottoscrivere azioni. Si costituivano quindi le
Società di Intemmediazione Mobiliare con facoltà di fare tutte le ope-
razioni su titoli.
Una forte spinta venne dall'Unione Europea, in relazione alla li-
bertà di circolazione dei capitali ed alla libertà di installazione delle
banche nel territorio degli altri paesi dell'unione. La Commissione
dell'Unione aveva emanato una direttiva che fu ratificata con un
certo ritardo dall'Italia ma che portò ad innovare profondamente la
struttura del sistema. Per prima cosa si stabilisce la libertà per gli isti-
tuti creditizi dei paesi dell'unione di installare sedi e filiali negli altri
paesi con le prerogative assegnate nei paesi di origine. La vigilanza
dovrebbe essere esercitata dalle autorità del paese di origine, ma si
prevedono eccezioni nei casi di interesse generale, peraltro mai de-
finito.
La parte più rilevante della nuova legislazione era l'obbligo per gli
enti creditizi di diventare società per azioni. Unica eccezione, le
Casse rulali e artigiane, che diventarono casse di credito cooperati-
vo. Le Banche Popolari diventarono anch'esse delle società per
azioni cooperative, per cui l'unico tratto distintivo era la denomina-
zione del capitale. Le Banche di Interesse Nazionale erano già delle
società per azioni, oontrollate dall'lRI. Le Casse di risparmio, gli enti
pubblici e gli istituti di diritto pubblico, dovevano cambiare caratte-
re, ma questo non significò che diventarono immediatamente delle
società private. Per le Casse di rispammio si adottò l'espediente di
costituire delle fondazioni di natura pubblica, che detenevano il
controllo, in molti casi la totalità del capitale della Cassa, trasforma-
ta in società per azioni. Per gli enti pubblici e gli istituti di diritto
pubblico la soluzione fu l'assegnazione al Tesoro del capitale. Difatto
quindi la privatizzazione È ancora lontana.
Le banche venivano poste tutte sullo stesso piano per quanto ri-
guarda gli interventi; scomparvero gli istituti speciali e tutte le ban-
che furono autorizzate a fare tutte le operazioni; solo a fini statistici
si a)mmaò a distinguere tra banche con prevalente raccolta a breve o
a lungo, ma tutte possono racoogliere depositi o emettere obbliga~oni
Nei rapporti col capitale delle imprese si verificarono rilevanti mu-
tamenti. Le banche furono autorizzate a mantenere partecipazioni
in società non di credito fino ad una quota del 15% dei fondi propri
di quella società, mentre l'insieme delle partecipazioni non può su-
perare il 60~o dei fondi propri della banca. Si cercava in questo
modo di evitare che le partecipazioni fossero coperte dai depositi.
La legge prevede eccezioni non meglio definite per le ristrutturazio-
ni aziendali o situazioni temporanee, nonché deroghe per (r)circo
stanze eccezionali¯ per cui il limite, come È nella tradizione delle
leggi bancarie italiane, È molto elastico.
Per quanto riguarda il capitale delle banche invece ogni acquisto di
azioni per un importo superiore al 5% del capitale deve essere auto-
rizzato daDa Banca d'Italia e nessun socio può possedere più del
15% del capitale di una banca.

Le r~adel

Un nuovo ordinamento non basta a cambiare la sostanza delle


cose. Se neg1i anni Novanta la situazione nel settore bancario fu più
tranquiDa, si verificarono invece alcune crisi di imprese che ebbero
profonde ripercussioni. La Federconsorzi era un gigantesco conglo-
merato che gestiva casse rurali, assicurazioni, commercio in macchi-
ne agricole, ed era strettamente intrecciato con l'attività dello Stato
e dell'organizzazione dei coltivatori diretti, tipico strumento del po-
tere democristiano. Venne al fallimento, e lasciò molti debiti insolu-
ti, dato che lo Stato se ne fece carico solo in parte. Più complesso fu
il problema della liquidazione deD'EFIM, che era un ente statale, per
cui la via imboccata fu di una lenta e penosa trattativa per discono-
scere più debiti che fosse possibile, il che non contribuì certo ad au-
mentare il prestigio internazionale dell'Italia, considerando che
molti creditori erano banche straniere, già scottate per la liquida-
zione dell'Ambrosiano.
Un caso a parte fu quello della FERFIN, la Ferruzzi Finanziaria, ge-
stita da Raul Gardini, che aveva incorporato la Montedison, e che
per breve tempo, dopo un intreccio equivoco di rapporti col potere
politico, era riuscita a controllare la quasi totalità della chimica di
base italiana. Gardini aveva potuto dare la scalata alla Montedison
e diventarne il padrone solo grazie all'indebitamento, partendo da
imprese attive nel campo del commercio dei grani e dei materiali da
costruzione. Il settore chimico rimase in crisi per lungo tempo e l'in-
debitamento aumentò sistematicamente. Dopo il fallimento del ten-
tativo di impossessarsi delle attività chimiche dell'ENI Gardini uscì
dalla società, ed allora venne alla superficie il disastro. La FERFIN fu
salvata dalle banche, da un consorzio organizzato da Mediobanca, e
i crediti furono trasformati parte in azioni e parte annullati. Le ban-
che estere creditrici dovettero accettare una sistemazione, più favo-
revole peraltro di quella che subirono le banche italiane, che solo il
prestigio di Mediobanca poté fare accettare.
Mediobanca era nel frattempo diventata un istituto privato. Al-
l'origine la proprietà del capitale era delle tre Banche di Interesse
Nazionale, ma non molto tempo dopo la costituzione si era formato
un cartello dove i soci privati con una partecipazione molto minore
del capitale bilanciavano i tre istituti dell'lRI. Ciò consentiva ad En-
rico Cuccia di gestire la banca in piena autonomia. Con la scelta del-
la linea delle privatizzazioni da parte del governo, si arrivò ad una
privatizzazione effettiva in cui il capitale delle tre BIN veniva contro-
bilanciato dal capitale detenuto da un cartello di imprese di grandi
dimensioni, praticamente tutte quelle di rilievo. Ma la privatizzazio-
ne di Mediobanca doveva rivelare una capacità di impatto superiore
al previsto col procedere del processo di privatizzazione. La banca
di Cuccia aveva un complesso rapporto con le Assicurazioni Gene-
rali, la più forte compagnia di assicurazioni italiana, attraverso una
partecipazione incrociata. Con la sistemazione del capitale realizza-
ta in FIAT dopo l'ennesima crisi, il regime di proprietà della società
torinese ha avuto un mutamento sostanziale anche se almeno fino al
1995 non ha avuto ripercussioni di rilievo: il controllo del Consiglio
di amministrazione non È più totalmente nelle mani della famiglia
Agnelli, ma Mediobanca ha una sorta di diritto di veto. Come orga-
nizzatore del salvataggio Ferruzzi, Mediobanca ha poi un potere
notevole sul gruppo FERFIN che controlla Montedison e gran parte
dell'industria zuccheriera italiana.
Di questo potere si È servita per compiere un'operazione di risana-
mento in grande stile, che ha portato alla fusione di FERFIN con Ge-
mina. Questa era una società controllata da Montedison, ceduta
successivamente a un gruppo di industriali, comprendente Fiat, con
una forte partecipazione, Pesenti, ed altri. In un complicato gioco
essa rivestì un ruolo di primo piano nella privatizzazione di Monte-
dison, invertendo la posizione e diventando l'azionista di maggio-
ranza di questa. Con l'awento di Gardini, Gemina usà da Montedi-
son. Successivamente, però, diventò lo strumento per raccogliere
capitale sul mercato, e fondersi, sempre sotto la regia di Cuccia, con
FERFIN, allo scopo di ridurne sostanzialmente i debiti. Il processo di
concentrazione si rafforza in continuazione.
La privatizzazione della Banca Commerciale Italiana e del Credito
Italiano hanno potuto essere portate a termine perché il loro capita-
le era dell'lRI e non del Tesoro. La privatizzazione consisteva quindi
nella vendita del pacchetto di azioni di proprietà IRI. Effettuate le
due operazioni ci si ritrovò a constatare che Mediobanca aveva or-
ganizzato un gruppo di azionisti che conquistarono il controllo delle
due banche. Attorno all'istituto milanese ruotavano quindi le mag-
giori banche italiane, la più grande compagnia di assicurazione e le
maggiori imprese industriali. Mediobanca ha oggi un potere supe-
riore a quello della Banca Commerciale di Otto Joel o di Toeplitz, e
che si era infranto sulla crisi. Con una differenza di rilievo, però:
l'esistenza di un robusto tessuto di piccole e medie imprese che non
rientra nella sua orbita.
Il pericolo insito in quella che viene chiamata la galassia del nord,
oltre il significato generale di una concentrazione eccezionale di po-
tere economico, È una sua possibile fragilità di fronte alla crisi e la
difficoltà a mantenere gli equilibri interni di simili sistemi, come
l'esperienza ha dimostrato. Certo Mediobanca non È al centro di un
conglomerato, ma precedenti simili alla situazione in cui si trova
oggi non mancano, e il loro esito non È stato quasi mai positivo.
Il problema più grave che le banche italiane devono affrontare
oggi È quello della loro dimensione e della relativa consistenza pa-
trimoniale. La sfida si colloca ormai ad un livello superiore, perché
i competitori delle banche italiane sono dentro il mercato italiano, e
per resistere alla concorrenza occorre avere una dimensione ade-
guata. Da qui la spinta ad un processo assai intenso di concentra-
zione.
Il sistema bancario italiano rispetto a quello europeo È più frazio-
nato, con molte banche piccole, e poche altre di dimensione regio-
nale. Le grandi banche sono partite all'assalto di quelle più piccole,
cercando anche di formare concentrazioni simili a quella di Medio-
banca. Così l'IMI trasformato in società per azioni È conteso da ban-
che di credito ordinario per poter completare l'organizzazione con
la sua caratteristica di banca d'affari. Il Crediop, anch'esso privatiz-
zato, È sotto il controllo dell'Istituto San Paolo di Torino, che È la
banca con il maggior patrimonio in Italia.
Altre concentrazioni sono awenute tra banche di credito ordina-
rio, per usare ancora la vecchia denominazione. La più importante È
stata la fusione a tre, di Banco di Roma, Banco di Santo Spirito, e
Cassa di Risparmio di Roma. Essendo la fusione awenuta prima
della privatizzazione del Banco di Roma, I'IRI È rimasto azionista
della Banca di Roma, come È stata denominata la risultante del-
l'operazione. La fusione ha evitato di restare ingabbiati in situazioni
che potenzialmente presentavano pericoli, mettendo assieme una
banca con solido patrimonio come il Santo Spirito con altre in cui i
crediti in sofferenza erano non indifferenti. La Banca di Roma ha
poi continuato l'espansione assorbendo la Banca Nazionale del-
l'Agricoltura, per cui occupa saldamente il secondo posto tra le ban-
che italiane.
Il punto più debole della trasformazione del sistema bancario ita-
liano È quello dei banchi meridionali. Tanto il Banco di Napoli
quanto il Banco di Sicilia hanno dovuto registrare una cifra eccessi-
va di crediti in sofferenza, incagliati o addirittura inesigibili, ed una
notevole debolezza nei mezzi propri, cosa che influisce pesante-
mente sui conti economici e sulla solvibilità. Lo Stato, e per il Banco
di Sicilia, la Regione, non sono stati in grado, anche per le vicende
politiche, di ricapitalizzare gli istituti, che versano in serie difficoltà.
Non vi può essere contestazione sul fatto che la facilità nel concede-
re crediti, tipica dell'ambiente meridionale dominato dalla corru-
zione politica, ha esercitato un peso notevole. Per questi due istituti
si può parlare di vera e propria crisi, e si pongono problemi di radi-
cali trasformazioni.

Quale futuro?

A conclusione di questa rapida rassegna delle vicende del nostro


sistema bancario, qualche conslderazione.
La storia della banca italiana È una storia di improwisazioni, ma
sempre la storia va avanti in questo modo senza disegni preconcetti.
Nella storia economica, la parte dell'improwisazione È ancora più
grande e pochissimi sono stati i protagonisti che avessero un proget-
to da portare avanti e si battessero coerentemente per metterlo in
atto. Certo si rimane colpiti dal fatto che le banche fanno sempre gli
stessi errori. Le crisi si verificano sempre sulla rottura di un equili-
brio tra le scadenze della raccolta e i tempi del credito. Quando ve-
dono che i loro crediti diventano dubbiosi nella maggior parte dei
casi continuano a finanziare nella speranza che la capacità finanzia-
ria dell'impresa debitrice si riprenda. Qualche volta l'impresa rie-
sce, nella maggior parte dei casi no, ed allora se la banca ha suffi-
cienti mezzi propri porta a perdita il risultato, se È debole, entra in
crisi a sua volta. Questo È il copione che si È ripetuto infinite volte, in
Italia e all'estero.
Con una novità, però, che si È delineata in questi ultimi anni, e che
potrebbe cambiare tutta l'impostazione del sistema bancario. I rap-
porti tra banca e impresa sono stati in Italia più difficili che altrove,
per parecchie ragioni, come abbiamo visto. Il fatto che il risparmia-
tore fosse restio a investire nel capitale di rischio aumentava la re-
sponsabilità del sistema bancario, il prevalere della conduzione fa-
miliare, anche nelle grandi imprese, e la relativa mancanza di con-
trolli, ha reso più facili le awenture; la debolezza dello Stato nel
dare normative adeguate ha aumentato la responsabilità dei ban-
chieri centrali e creato incertezze. Il quadro È quello di un capitali-
smo contraddittorio. Tipico il comportamento dei capitalisti italiani
nel momento in cui la Montedison, controllata dalla mano pubblica,
si trovava in gravi difficoltà: non vogliamo che la Montedison sia
pubblica ma non diamo né un uomo né un soldo perché possa torna-
re privata.
Con la riforma Ciampi i termini normativi del rapporto tra impre-
sa e industria sono cambiati, ma È ancora troppo presto per poter
dire che cosa cambierà nei fatti. Certo È che senza questa riforma il
caso FERFIN non si sarebbe potuto risolvere, e l impresa sarebbe an-
data in rovina, oppure, cosa molto più probabile, sarebbe stata ac-
collata allo Stato.
Ma può darsi che, mentre si cercava di riparare alle contraddizioni
di una situazione, i termini del problema stessero cambiando radi-
calmente. Oggi pare legittimo parlare dell'apertura di una nuova
Èra, come È stato lecito parlarne per i primi due decenni dell'Otto-
cento. Questo accade in tutto il mondo. Da un lato il finanziamento
delle imprese È diventato assai più complicato e più rischioso per-
ché le nuove attività, quelle del tempo libero, dei mass media, delle
attività immateriali, occupano uno spazio sempre più grande, e
sono certamente più rischiose. Il dato di fatto È però il cambiamento
nel mercato finanziario a livello mondiale, cambiamento che ha as-
sunto una velocità vertiginosa. Gli utili si fanno oggi in misura sem-
pre più rilevante attraverso il maneggio del denaro, non attraverso il
credito alla produzione, e questo impone una rivoluzione nella men-
talità. Le banche italiane ne sono rimaste coinvolte ancora assai
poco. Se non vi parteciperanno si ridurranno al rango di provinciali
che potranno sempre vivacchiare in una economia mediamente ar-
retrata, ma non per questo di indigenza. Per parteciparvi debbono
fare un grande sforzo, non soltanto nella dimensione, ma nell'orga-
nizzazione e soprattutto nella mentalità. I rischi di questa nuova si-
tuazione sono grandi, e già si vedono. Istituti di grande storia come
il Crédit Lyonnais o la Banca Barings si sono trovati in piena crisi, e
per ragioni connesse appunto a questa grande trasformazione, la
speculazione sui derivati o il finanziamento alle attività immateriali.
C'È solo un modo per affrontare questi rischi, ed È dato da gruppi
dirigenti all'altezza del problema. Sui gruppi dirigenti delle banche
italiane si sono spesso espresse riserve, e non solo di ordine tecnico.
Certo la storia della banca italiana È costellata di scandali, ma sareb-
be sbagliato dire che sono questi a caratterizzarla. Senza la banca
dell'età giolittiana non sarebbe stata possibile la prima industrializ-
zazione, e questo resta forse il suo merito storico più alto.
Il patrimonio umano È il più grande asset di una banca, ed È anche
il suo punto debole. In Italia c'È una eccessiva distanza tra un vertice
assai ristretto molto qualificato e un management mediano che È
ancora troppo permeato dalla cultura della garanzia e conosce trop-
po poco i problemi dell'economia reale. Nel gruppo elitario ci sono
state le cicale e le formiche, i grandi banchieri, che erano insieme
grandi uomini di cultura ed avevano una influenza che non veniva
soltanto dal mestiere di banchiere, e conquistavano uno spazio con
una forte immagine: Toeplitz, Mattioli, Carli. Ed abbiamo avuto le
formiche, molto meno appariscenti, ma che hanno lasciato tracce
più profonde: Stringher, Beneduce, Menichella, e qualcuno come
Brughera del Credito Italiano, che il grande pubblico non ha mai
sentito nominare. Tra i viventi, Ciampi e Cuccia.
Ma oggi più che di grandi banchieri c'è bisogno di gruppi dirigenti
estesi e dotati di nuova cultura. L'affermazione di Pantaleoni che le
banche debbono essere dirette in modo autoritario È vecchia di un
secolo. Il sistema bancario italiano deve trasformarsi e le privatizza-
zioni sono una parte assai piccola del cambiamento necessario. Quel-
li che amano descrivere il sistema bancario italiano come un oceano
di corruzione asservito ai politici non capiscono che privatizzando si
possono fare certamente meno favori ai politici, ma che i problemi
dell'attività dipendono da ben altro. La trasformazione deve quindi
andare avanti. Non È detto che ciò si verifichi dawero, e da qui l'in-
terrogativo con cui concludiamo.

Appendice.

CRONOLOGIA.

1823. Costituzione della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde (Cariplo).


1849. Costituzione della Banca Nazionale degli Stati Sardi, dalla fusione della Ban-
ca di Genova e della Banca di Torino. Diventerà Banca Nazionale del Regno e
poi Banca d'ltalia.
1850. Fondazione del Banco dei Reali Domini di là dal Faro che nel 1860 diventerà
il Banco di Sicilia.
1861. Proclamazione del Regno d'ltalia.
1863. Corso forzoso dei biglietti di banca. Costituzione della Cassa Depositi e Pre-
stiti. Costituzione del Credito Mobiliare.
1874. Legge Minghetti-Finali che costituisce il consorzio degli istituti di emissione.
1875. Fondazione del Risparmio Postale.
1881. Abolizione del corso forzoso.
1888. Legge che disciplina le Casse di risparmio.
1892. Scandalo della Banca Romana.
1893. Caduta del Credito Mobiliare. Costituzione della Banca Commerciale Italiana.
1894. Costituzione della Banca d'ltalia.
190~1930. Bonaldo Stringher direttore, e dal 1928, govematore della Banca d'ltalia.
1907. Crisi della Società Bancaria Italiana.
1911. Salvataggio dell'industria siderurgica. Costituzione della Banca Italiana di
Sconto.
1914. Crisi del Banco di Roma e costituzione del Credito Nazionale. Istituzione del
Consorzio Sowenzioni su Valori Industriali.
1918. Primo tentativo dei Perrone di scalare la Commerciale.
1920. Secondo tentativo di scalata. Costituzione del Crediop, consorzio di credito
per le opere pubbliche.
1921. Crisi della siderurgia. Caduta della Banca Italiana di Sconto.
1922. Costituzione della Sezione autonoma del Consorzio Sowenzioni.
1923. Crisi del Banco di Roma.
1926. Mussolini proclama la (r)Quota Novanta¯. Prima legge bancaria. Trasforma-
zione della sezione Speciale del CSVI in Istituto di Liquidazioni.
1927. Legge che disciplina le Casse di risparmio.
1929. Costituzione della Banca Nazionale del Lavoro.
Crisi delle banche cattoliche.
1931. Crisi generale dell'economia italiana a seguito della grande crisi del 1929 in
USA.
Costituzione dell'IMI.
1933. Costituzione dell'lRI che assume il controlldi Comit, Credito Italiano e
Banco di Roma. Alberto Beneduce presidente.
1936. Legge bancaria.
1938. Le Casse di risparmio diventano enti pubblici.
1946. Luigi Einaudi governatore della Banca d'ltalia.
1947. Introduzione della riserva obbligatoria. Costituzione di Mediobanca.
1948-1960. Donato Memchella governatore.
1953. Costituzione dell'lsveimer, dell'lRFIs e del cls.
1955-1964.11 (r)miracolo economico¯ italiano.
19601975. Guido Carli governatore
1974. Introduzione del vincolo di portafoglio e del massimale. Scandalo Simlo
1975-1979. Paolo Baffi governatore.
1975-1984. L'età dell'inflazione.
1976. Crisi dell'industria chimica.
19791993. Carlo Azeglio Ciampi governatore.
1982. Scandalo del Banco Ambrosiano.
1993 Testo Unico della nuova legge bancaria. Antonio Fazio ga-lero~tore.
1994 Privatizzazione della Banca Commerciale Italiana e del Credito Italiano
1995. Privatizzazione dell8MI. Fusione di Istituto San Paolo con Crediop. Incorp~
razione di BNA in Banca di Roma.

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