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Estratto da: Le parole dei giorni.

Studi per Nino Buttitta, a cura di


M. C. Ruta, 2 voll., Sellerio, Palermo 2005, vol. II, pp. 1484-1513.

SERGIO BONANZINGA
L’universo sonoro dei pastori
Saperi tecnici e pratiche simboliche in Sicilia

Tra i mestieri tradizionali l’allevamento di pecore, capre e vacche presenta


tuttora in Sicilia una buona vitalità. Oltre alle grandi aziende che operano su
larga scala con attrezzature moderne, ancora numerosi sono infatti i pastori
che lavorano “all’antica” , sia nella gestione del bestiame (mungitura, pascolo,
tosatura) sia nella preparazione di ricotte e formaggi. Attrezzi di legno, cani da
guardia, campanacci, forbici in ferro battuto, caldaie, fischi e voci onomato-
peiche sono i principali strumenti necessari ai pastori siciliani per svolgere le
loro attività. Talvolta confinati in casupole isolate sui monti, conducono una
vita non molto diversa da quella che facevano in passato. Una vita ancora scan-
dita dai ritmi stagionali, nonostante l’incalzare di modelli comportamentali
assai diversi e da normative sempre più rigide in materia di alimenti (le asetti-
che condizioni igieniche richieste dalla CEE non possono ovviamente essere
rispettate nei rustici locali dove i pastori usano da sempre lavorare il latte per
produrre latticini o macellare animali per vendite occasionali)1 .
Le particolari condizioni che connotano le attività pastorali si riflettono in
articolati sistemi di comunicazione sonora. L’immagine del pastore suonatore
di certi aerofoni (flauti di canna, zampogne ecc.) attraversa l’immaginario
occidentale dalla mitologia classica alle fiabe pop olari, dalle rappr esentazioni
sacre alle scene arcadiche. In epoca barocca con il termine pastorale si è per-
fino designato un genere musicale culto che a quelle “primitive” tradizioni si
ispirava. Alle competenze che rientrano in una norma del fare musica storica-
mente acquisita si associano altre significative espressioni altrettanto forma-
lizzate che i pastori impiegano a fini pratici: richiami vocali, fischiati e stru-
mentali funzionali a gestire le greggi e a consentire la comunicazione interin-
dividuale a distanza. Valore rilevante assume inoltre il suono dei campanacci
appesi al collo degli animali, che oltre a svolgere una fondamentale funzione
segnaletica diviene il vero simbolo sonoro dell’identità pastorale, con nume-
rose varianti sia riguardo agli aspetti costruttivi (foggia e materiali dei campa-
nacci) sia in ordine alle modalità con cui si selezionano e associano le sonorità
di questi particolari idiofoni. La frequente presenza dei campanacci nell’am-
bito di svariate azioni cerimoniali (ricorrenti soprattutto nel periodo che va
dall’Immacolata al Carnevale) costituisce una ulteriore attestazione della forte
valenza simbolica attribuita a questi oggetti nel mondo popolare. I pastori
impiegano d’altra parte una terminologia intenzionalmente “ musicale” nel-
l’indicare il criterio con cui vengono selezionati i campanacci per gli animali.
Così il pastore Paolo Carp interi di Sortino (SR) riferiva ad Antonino Uccello:
«Io sento il suono del campanaccio che va bene o va male. Oppure se fra tutti
insieme ce n’è uno ch’è fuori tono, lo sento. Tutti insieme dovrebbero forma-
re una musica: come c’è il clarino, come c’è il violino, c’è la chitarra, c’è i piat-
tini, c’è il contrab basso, c’è la cornetta. Quella è una musica completa. […]
Devono arrimarsi (far rima): il fatto che uno canta una canzone, e che oltre
che devono rimare le parole deve rimare anche la melodia, lo stesso è quello
che noi d iciamo u tròcculu rê campani» (1973: 175). Non è d’altronde casua-
le che l’enfatizzazione del valore musicale passi attraverso il parallelo con il
complesso bandistico (indicato come la Musica, per antonomasia) e con l’or-
chestrina di cordofoni (propria, di norma, della fascia artigiana) invece che
con i tipici strumenti di uso pastorale come il flauto di canna (friscalettu) o la
zampogna (ciaramedda).
Lo scampanio degli armenti si pone quale meccanismo di comunicazione
“autonomo”, la cui specificità funzionale è però determinata dal progetto di
gestione della mandria attuato dal pastore2. La ripartizione dei campanacci
tra gli animali è il riflesso sonoro di tale progetto; la selezione dei timbri e
delle misure dei dispositivi sonori rispecchia la formazione della mandria
(diversi sono i campanacci rispettivamente destinati a vacche, capre e peco-
re), la costituzione fisica degli animali (la misura del campanaccio deve esse-
re proporzionalmente adeguata) e il loro status (agli animali dominanti viene
assegnato il campanaccio più grande, il bbiaturi). L’operazione è finalizzata
a svolgere funzioni diverse e a risultare efficace per differenti destinatari
(considerando le cautele precedentemente espresse riguardo all’efficacia
etologica dello scampanio): a) «Il costante contatto auditivo in cui stanno gli
animali di una mandria per mezzo dello scampanio, produce effetti positivi
sulla loro coesione e sul grado di organizzazione delle azioni collettive»; b)
«L’indicazione della posizione della mandria o del singolo animale per
mezzo dello scampanio è un presupposto inscindibile per il pastore. […] Gli
animali smarriti spesso possono essere localizzati solo per mezzo del suono
del loro sonaglio. Lo scampanio informa anche il pastore se la mandria è
distribuita regolarmente sul terreno di pascolo, come gli animali si tengono
uniti e se alcuni di essi pascolano da soli. […] Esso dà un’indicazione atten-
dibile sullo stato di movimento in cui si trova la mandria, se essa si riposa, se
pascola tranquillamente, se rispetta i tempi di percorrenza sulla via del
pascolo» (Kaden 1977: 28-29). Abbiamo direttamente potuto constatare
come i pastori siano precisamente in grado di distinguere in base a come rin-
tocca il campanaccio se l’animale stia bevendo, pascolando, ruminando

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oppure spostandosi più o meno rapidamente. Di solito, un pastore dota di
campanacci nel periodo primaverile circa la metà dei capi della mandria, ma
specialmente in occasione di lunghi trasferimenti si tende ad amplificare il
più possibile lo scampanio, non tanto per ragioni funzionali, quanto piutto-
sto per ostentare la propria presenza. In certa misura lo scampanio può quin-
di considerarsi come “emblema” del pastore e la “bella intonazione” dei
campanacci – ottenuta mediante il sapiente accuppiamentu dei suoni (cam-
panacci della stessa misura devono presentare diverse sfumature timbriche)
– viene perseguita tra pastori anche in termini competitivi.
I campanacci possono essere di lamiera bronzata (campani) oppure in una
lega di rame, zinco e stagno (muligna, mulignedda). Nel primo caso la lamiera
viene anzitutto sagomata con mazzola di legno e martello, poi forata in più
punti per consentire l’inserimento del manico e dell’anello che sosterrà il bat-
taglio (bbattàgghiu), e infine fusa in un bagno di bronzo (artigiani di Agira
affermano di impiegare espedienti “segreti” durante la fusione ). Per realizza-
re i campanacci in lega esistono invece appositi stampi di varie dimensioni a
foggia di campanello. Procedure di lavorazione e terminologia possono tutta-
via presentare differenze a seconda della località di provenienza. I campanac-
ci si distinguono in base all’uso, alla misura e al suono. La distinzione iniziale
riguarda la varietà d i animali a cui sono rispettivamente d estinati: campani
caprini (per le capre), campani picurini o campanotti (per le pecore) e campani
i vacchi o vacchini (per le vacche). Più complessa e ricca di caratterizzazioni
locali si presenta la questione delle misure. A Santa Lucia d el Mela (ME) si
usano cinque misure per i campanacci in lamiera bronzata (bbiaturi, menzali -
na, menzanotta, schigghiotta, scaràgghiu) e una sola per quelli in lega (muligna,
lett. sonagli per mulo). Il bbiaturi è il più grande e viene assegnato al capo-
mandria che apre la via (da cui, appunto, bbiaturi); lo scaràgghiu è il più pic-
colo e serve per agnelli e capretti; per le capre si usano tutte le misure, per le
vacche le tre più grandi (bbiaturi, menzalina, menzanotta) e per le pecore solo
la menzanotta; i muligna si usano indifferentemente ma con moderazione in
rapporto al numero dei capi di ogni mandria. A Castellammare del Golfo, le
campane in lamiera bronzata sono di otto misure (dubbiuni , abbiatura, men -
zanotta, viarisca, craparisca, calavisuni, picurinu, gnignali) e sette sono quelle
dei muligna (quattru ròtuli, du ròtuli, un ròtulu, menzu ròtulu, triunzinu, cala -
brisi ranni, calabrisi nicu). Anche in questo caso le quattro misure più grandi
sono destinate alle vacche, le medie alle capre e le tre più piccole alle pecore.
Il maggiore interesse risiede tuttavia nell’attribuzione di qualità sonore ai cam-
panacci. Naturalmente, il riconoscimento dei suoni (tuoni) è esito di una tra-
dizione formalizzata che presenta diverse caratterizzazioni locali. In generale
è tuttavia riconosciuta l’opposizione grave/acuto e i suoni dei campanacci si
dicono rispettivamente “ maschio” (màsculu, masculina) e “ femmina” (fìmmi -

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na, fimminina). A Santa Lucia del Mela (e più estesamente nella Sicilia orien-
tale), dove sono meno numerose le misure di campanacci disponibili, si pre-
senta in compenso la più ricca tipologia: tuppignu (“bussante” = suono grave),
sciammatu (scalmanato = suono grave però più “ allegro”), lagnusu (lamento-
so = suono di altezza media), cianciulinu (piagnucoloso = suono acuto), ggin -
tili (gentile = suono squillante). Il termine ruversu (contrario, rovescio) si usa
per indicare i campanacci che presentano due tocchi diversi tra loro (il suono
prodotto dal battaglio nell’oscillazione percussiva può differire lievemente
secondo il lato d’urto). Altri timbri risultano poi dalle possibili combinazioni
tra i suoni (tuppignu-sciammatu, ggintili-ruversu ecc.). Viceversa, a Castellam-
mare del Golfo (e più estesamente nella Sicilia occidentale) si distingue sol-
tanto l’opposizione grave/ acuto (màsculu/fìmmina).
Lo scampanio degli armenti va naturalmente rapportato alle radicate e dif-
fuse credenze connesse al valore apotropaico attribuito al suono dei metalli.
Indicativo è a tale riguardo l’uso di ncampanari (mettere i campanacci) le greg-
gi, dopo la pausa invernale, alla mattina del Sabato Santo, quando le campane
attaccavano il Gloria per annunziare la Resurrezione3. In questo caso, il suono
sacro del Gloria è atteso a conferire sacralità allo scampanio delle greggi. Tal-
volta lo scampanio assume valore entro determinati contesti cerimoniali, e in
special modo nelle processioni che un tempo caratterizzavano il rito della
benedizione degli animali (specialmente nelle ricorrenze dell’Ascensione e di
sant’Antonio) o, come ancora accade, in occasione della pantomima del Nardu
che si svolge il 6 gennaio a Sant’Elisabetta (AG), dove il passaggio di un greg-
ge riveste funzione drammatica nell’ambito della rappresentazione (cfr. infra).
Il fischio e la voce giovano al pastore per comunicare con gli animali.
Sono difatti questi gli strumenti di cui egli dispone – insieme a meno conci-
lianti pietrate e bastonate – per imporre il proprio ordine e organizzare ade-
guatamente le quotidiane attività della mandria (spingere gli animali fuori
dal recinto, condurli al pascolo, richiamarli se si allontanano, ecc.)4. Ogni
pastore possiede un proprio repertorio di fischi e voci diversamente struttu-
rati a seconda che siano destinati a pecore (piècuri, pècuri), capre (crapi), vac-
che (vacchi) oppure ai cani da guardia (cani i mànnara). Un pastore che tiene
bestiame misto in località Campo Italia, alle pendici dei Peloritani presso
Messina, impiega a esempio un segnale composto da voce e fischio come
richiamo per le vacche. Si tratta di una medesima formula basata su tre suoni
che viene prima fischiata e poi iterata sulle sillabe e o ui5 :

Es. 1

4
Un pastore di Saponara (ME, versante tirr enico dei Peloritani), la cui
mandria è composta da pecore e capre, usa un solo tipo di fischio per “cac-
ciare” gli animali (pi sbrugghiari), mentre diverse sono le voci che fungono da
richiamo (mi si ricampanu l’armali)6 :

a) fischio per cacciare pecore e capre

Es. 2

b) voce per chiamare le pecore

c) voce per chiamare le capre

Il fischio viene quindi impiegato con valore centrifugo (di allontanamento),


mentre le voci, prr ria prr per le pecore e zozza veni ccà zò per le capre, hanno
funzione centripeta (di richiamo). Individualizzati possono essere inoltre i
richiami per le capre, notoriamente più irrequiete delle pecore, poiché a ognu-
na viene dato un nome che di solito ne rispecchia il colore (in basi â pelatura
àvi u so nomi, il suo nome è in base al pelo): Cùlia (ruggine), Canusa (grigia),
Arancina (giallognola), Russa (rossa), ecc. I relativi richiami allora divengono,
zozza Cùlia zozza, zozza Russa zò ecc., con la facoltà di aggiungere un brevissi-
mo fischio d i rinforzo. Sempre per nome viene infine chiamato il cane da guar-
dia, in questo caso Calantomu (Galantuomo): ccà Calantomu ccà, seguito da un
fischio breve e sommesso (“perché il cane non si allontana mai troppo dal
padrone”). Fischi convenzionali possono inoltre servire alla comunicazione tra
pastori. Talvolta si “fischiano” brevi messaggi imitando con abile tecnica il lin-
guaggio parlato. Il già menzionato pastore di Saponara modula con il fischio il
nome di alcuni compagni – Cammelu! (Carmelo), Ninu! (Nino), Sabbaturi!
(Salvatore) – e poi frasi come Veni ccà, veni ccà! (Vieni qua), oppure, più com-
piutamente, Veni ccà c’â parrari cu ttia! (Vieni qua che devo parlarti), e poi
commenta: Tuttu chiddu chi iò cci friscài sunnu tutti cosi chiari chi si capisciunu,
comu fussi di unu chi parra câ bbucca (Tutto quello che ho fischiato sono cose
chiare che si capiscono, come fosse uno che parla con la bocca).

5
Es. 3

Una importante considerazione riguardo alle sonorità connesse alla vita


pastor ale emerge da quanto rilevato da Alberto Favara nei dintorni di Par -
tanna (TP ) verso la fine dell’Ottocento (cfr. 1923, ora in 1959: 89-90). La
testimonianza attesta la progressiva trasformazione di semplici richiami
fischiati in for me sonore più complesse, dove è la necessità esp ressiva a
manifestarsi compiutamente. Seguiamo la breve nota anteposta alle tr ascri-
zioni musicali (1957/ II: 454):
Contrada Frattàsa, estesa pianura, in gran parte bosco di querce. Vi vanno a
pascolare i maiali. All’ora del vespro, i guardiani riuniscono sotto l’ombra degli albe-
ri gli animali; poi suonando alcune melodie sui friscaletti, riescono a farli adagiare
sulle foglie secche ed a farli riposare in silenzio. I suonatori, seduti sui massi, ripeto-
no più volte le melodie, poi riposano anche loro in silenzio.

Si tr atta più precisamente di due “melodie” «per raccogliere sotto le


querce e far rip osar e le mandrie»; la seconda, «d all’éthos eccitante viene a
svegliarli e a r icondurli al pascolo» (1959: 89-90). Viene quindi mantenuta,
pur nella ridondanza d ella forma melodica, la duplice ar ticolazione (centri-
peta/ centrifuga) riscontr ata nel codice sonoro comunemente impiegato per
comunicare con gli animali7.

Es. 4

6
Se il documento raccolto da Favara spicca per la sua unicità entro il con-
testo siciliano, va tuttavia osservato che esso rientra in una prassi diffusa in
area euromediterranea. Rileva difatti Erich Stockmann – con riferimento a
un ampio territorio comprendente la Turchia, l’Albania e la Romania – che i
pastori eseguivano con flauti o trombette di legno una sorprendente varietà
di motivi melodici, le cui denominazioni rinviavano alle rispettive destina-
zioni d’uso: “Durante l’uscita delle pecore dal recinto”, “Durante il pascolo
delle pecore”, “Per invitare le pecore a bere”, “Richiamo alle pecore per dor-
mire” e via di questo tono (1965: 253-255).

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Ancora parzialmente rilevabili sono infine le pratiche ludico-espressive
attuate dai pastori in occasione della tosatura delle pecore (u tùnniri). Nel
periodo fra maggio e giugno questa operazione viene tuttora spesso eseguita
manualmente, ricorrendo ai tradizionali forbicioni in ferro battuto (fòrfici i
tùnniri). Per i pastori la tosatura costituisce il più importante momento del-
l’anno: è una grande festa propiziatoria dell’abbondanza alimentare (tradizio-
nalmente vi si concentrava il più alto consumo di carne rispetto a tutte le altre
cadenze calendariali), destinata a rinsaldare le alleanze già stabilite e a fissarne
di nuove. In questa occasione i pastori, normalmente impegnati in attività soli-
tarie, collaborano in un lavoro di gruppo, fino a pochi decenni addietro fina-
lizzato tra l’altro alla produzione della lana, che costituiva una voce rilevante
del loro magro bilancio. Nonostante la lana abbia pressoché perduto ogni
valore economico, la tosatura continua in molti casi a mantenere le tradiziona-
li coordinate cerimoniali, in primo luogo rappresentate dai grandi banchetti
organizzati presso gli ovili e poi da svariate manifestazioni che accompagnano
sia il lavoro sia il lungo svolgimento del pranzo. Al contesto propriamente
ergologico sono associate le gare di abilità nel tosare gli animali. Queste sfide
possono addirittura essere oggetto di scommesse nel corso di tornei organiz-
zati estemporaneamente (così abbiamo rilevato a Novara di Sicilia). La rapi-
dità con cui si compie l’azione non deve tuttavia comportare ferite all’animale
(s’av’a tùnniri bbellu pulitu), anche se tale regola non sempre viene osservata.
Nell’ambito della convivialità rientrano invece i giochi, i canti e i balli pratica-
ti dai pastori e dalle loro famiglie (in molte località del Messinese vengono
ancora appositamente invitati cantori e suonatori).
Una testimonianza particolarmente significativa riguardo alla dimensio-
ne r ituale e alle espressioni ludiche che caratterizzavano la tosatura nel ter -
ritor io di Petralia Sottana – paese delle Mad onie in provincia di Palermo –
viene for nita da Michele e Vincenzo Carap ezza (1991: 38-40):

In occasione della tosatura delle pecore, che avviene in maggio o giugno, il capo -
tosatore o capurali, dopo avere assolto a tutti i preparativi, prima di iniziare la tosa-
tura vera e propria, esegue la Salvi Rigina dei pastori.
[…] Tutti, come in un sospiro, ripetono la promessa di non peccare più: – chiut -
tuostu muortu! – con una nota allungata e malinconica. Il canto è ritmato dallo stri-
dore delle grosse forbici in ferro battuto che si aprono e chiudono ripetutamente per
saggiarne la maneggevolezza e la perfetta affilatura.

Capopastore
Damu la menti a Dia.

Pastori
Ogn’ura, ogni mumentu,
ludamu lu Santissimu Sacramientu.

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Diu vi salvi Rigina
e Matri Addulurata,
vi sia raccumannata
st’arma mia.
Na grazia ia vurrìa
di stu ma cori ngratu,
firutu e trapassatu
dâ vostra spata.
La mia vita è passata
na tanti gran piccati,
di grazia vù prigati
a vostru fìgghiu.
E a nui dati cunsìgghiu
lu stissu cuntimplari
di chiànciri e lacrimari
o li me erruri.
Stu cori mia è pi duluri
strizzatimilu vui,
piccari un vògghiu cchiù,
chiuttuostu muortu!

Tutti in coro con malinconica riverenza


Piccari un vògghiu cchiù,
chiuttuostu muortu!

Sul prolungarsi per alcuni secondi dell’ultima nota si sovrappone la voce del cura -
tolo che ordina alle donne di portare da bere, cosa ben accetta ai lavoratori, che così
incominciano, di buona lena e con allegria, la tosatura […]. Il suono prodot to dall’a-
pert ura e chiusura delle forbici non ritma solo il canto iniziale ma il lavoro stesso,
infatti l’andament o dei vari tosatori a poco a poco si uniforma all’interno di un suono
costante, armonico; quando t ale suono diventa eccessivamente monotono è segno
che un senso di stanchezza si sta impossessando dei tosatori: allora una breve pausa
con biscotto e vino serve a riaccendere il ritmo. […] A volte, dopo l’ultima pausa, che
avviene prima del grande pranzo (a schiticchiata dû tùnniri), fra i tosatori, o fra alcu-
ni di essi (i cumpagni) si dà luogo a una singolare sfida di abilità: mentre tutti per la
stanchezza procedono con un ritmo moderato, si sente improvvisamente l’assolo di
una forbice che procede con un ritmo più veloce e rumoroso: è il segno della sfida!
Ognuno guarda furtivamente, con un sorriso, il vicino cercando di vedere subi-
to chi è che ha cambiato ritmo […]; pochi attimi e le forbici impazzite sono due o
più, il ritmo si fa sempre più incalzante. Con voci e battute si cerca di scoraggiare gli
avversari; qualcuno infatti non riesce a tenere quel ritmo e si ritira […].
La sfida ha un prezzo crudele: le lunghe forbici dalle punte irte, simili alle anti-
che armi greche, a volte tagliano le orecchie, feriscono l’animale legato: ma il sangue,
si sa, è la forza del rito primordiale. L’atto di crudeltà è subito notato dai ragazzi che
dicono: ma ora un mori? (ma adesso morirà?). Ma subito il tosatore risponde: màr -
catu e mulinu, cori ranni! (negli allevamenti e nei mulini bisogna essere magnanimi!).
Il padrone capisce subito che la battuta è indirizzata a lui e facendo buon viso a cat -
tiva sorte annuncia: – Non è niente, ora la sgozziamo e ce la mangiamo! – Proposi -

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to ben accolto dal gruppo perché la tosatura è considerata la sagra della carne.
Un’abbondanza che non ha riscontro in nessuna altra festa: uccisione dell’agnello
per la colazione; della pecora o del montone per il pranzo, in parte bolliti entro enor -
mi quadare, in parte arrostiti sulla brace fino al tramonto […].

Se sul piano dei saperi materiali la cultura pastorale si presenta ancora


oggi particolarmente conservativa, riguardo alla sfera espressiva va invece
registrata una forte regressione. Sono a esempio rimasti relativamente pochi
i pastori in grado di costruire e suonare strumenti musicali (essenzialmente
flauti di canna e zampogne), oppure di intagliare il legno e il corno per rea-
lizzare collari da animali, bicchieri e suppellettili varie. Non è invece raro
imbattersi in giovani pastori che hanno ereditato la capacità di selezionare
con precisione i campanacci – secondo le dimensioni e il timbro – al fine di
ottenere quell’armonioso scampanio orgogliosamente esibito come “inse-
gna” dal proprietario di ogni gregge.Va infine rilevata la significativa persi-
stenza del Pastore come personaggio di rappresentazioni drammatiche con-
nesse al Natale e al Carnevale.
Uno dei temi caratterizzanti la rappresentazione della Natività è prop rio
l’Adorazione dei pastori. Non è un caso che, insieme agli Angeli che annun-
ciano il sacro evento, siano p roprio i Pastori ad accorrere per primi alla “grot-
ta” dove, secondo una tradizione tr amandata esclusivamente dai Vangeli apo -
crifi, si ambienta la nascita del Messia. Sia il luogo sia i visitatori rinviano
infatti a motivi mitico-narrativi che – come puntualmente osserva Antonino
Buttitta – si p ongono sulla medesima isotopia: «[…] la nascita d i un dio fra
pastori, perché respinto dal perimetro urbano, non può non avvenire in una
grotta, nel luogo cioè che è sempre servito, soprattutto nell’area interessata,
come loro tradizionale riparo. […] I pastori e la grotta assumono il valore di
metafore di una situazione liminare sia in termini spaziali che sociali, prop rio
una di quelle situazioni altre in cui deve nascere e deve iniziare la sua avven-
tura terrena un diverso come è dio. La mangiatoia in cui nasce, simbolo del
mondo animale, gli animali stessi che assistono alla sua nascita, il bue e l’asi-
no [anch’essi menzionati solo dalla tradizione apocrifa], segnalano il suo
potere d i farsi natura. Come in tutte le grandi figure divine in lui si assomma
e si risolve la dualità tra cultura e natura. Per questo egli è il logos, il simbolo
stesso della cultura, deve nascere in una dimensione altra e opposta» (1985:
66-67). Questi “pastori”, che fin dalle origini segnalano l’estrema alterità del
contesto in cui viene al mondo il Bambino divino, continuano a svolgere tale
funzione entro gli schemi figurativi della Natività già a partire dalle scene
riprodotte in bassorilievo su sarcofaghi paleocristiani intorno alla metà d el IV
secolo (cfr. Buttitta 1985 e Staiti 1997). Dal V secolo si stab ilizza inoltre lo
stereotipo figurativo del pastore che regge, oltre al b astone, uno strumento

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musicale a fiato. Nelle immagini orientali, che costituiranno da modello a
quelle successivamente diffuse in Occidente, «lo strumento impugnato dal
pastore è un lungo flauto cilindrico» , mentre nelle «natività italiane – che
pure ricalcano fedelmente lo schema di origine bizantina – i pastori suonano
generalmente strumenti […] esistenti nelle regioni di provenienza delle scene
illustrate, e appartenenti in maniera quasi esclusiva ad ambito cultur ale
pastorale: per lo più zampogne, ciaramelle, flauti policalami a bocca zeppa-
ta» (Staiti 1997: 26, 27). È assai interessante rilevare come il variare degli stru-
menti musicali pastorali secondo le epoche e i luoghi denoti la piena consa-
pevolezza della funzione simbolica che questi rivestivano nell’ambito della
scena rappresentata: «i pastori […] vengono chiamati dall’angelo ad assiste-
re al sacro evento in quanto rappresentanti dell’umanità riscattata dalla nasci-
ta del Dio-uomo» (ibidem). La dimensione liminare e caotica entro cui si situa
l’inizio d ella vicenda mondana del Cristo trova pertanto uno specifico riscon-
tro acustico nelle intense e pervasive sonorità degli strumenti musicali pasto-
rali, cui si contrappone una musica di Angeli, cantori e suonatori, sop rattut-
to, di strumenti a corda. Non a caso i flauti di canna (o i calami ad ancia) si
trovano frequentemente associati nelle immagini (anche siciliane) ai frutti
spontanei della terra (cfr. Staiti 1997: 91, passim). Mazzi di asparagi selvatici
spuntano infatti d alle stesse bisacce che contengono le canne sonanti, come
a ribadirne la comune appartenenza al piano della natura: segni d i una for-
mid ab ile e incontrollabile espressione di energia vitale a cui solo il Redento-
re può conferire senso, proiettand ola verso un nuovo ordine sociale e cosmi-
co. Nell’ottica di questa transizione la musica dei pastori viene progressiva-
mente assorbita entro il quadro idelogico cristiano-cattolico, acquistando il
valore di offerta votiva (canti e suoni equivalgono agli alimenti recati in dono
dai popolani alla Sacra Famiglia) o svolgendo la rassicurante funzione di cul-
lare il sonno del Bambino. Questa nuova connotazione assunta dalle nenie
pastorali, le rende proficuo modello delle musiche natalizie d i tradizione
scritta (in particolare per organo): così Angeli e Pastori, organi e zampogne
«celebrano assieme la nascita di Cristo col suono della “pastorale”, offerta
umana al Cielo e, al tempo stesso, manifestazione sonora dell’incarnazione
del Dio fatto uomo e pastore d el gregge umano» (Staiti 1997: 162). La figura
del pastore, corredata dei relativi attributi sonori (flauti di canna e zampogne,
ma anche campanacci e bubbole per animali), continua tuttavia a permanere
sulla scena rituale con tutta la sua carica di alterità, perfino nell’ambito delle
azioni dr ammatiche specificamente connesse al Natale (cfr. infra).
Tratto predominante di queste forme drammatiche è il doppio registro
stilistico determinato dal mescolarsi di apporti folklorici con ascendenze
culte, dovute soprattutto a interventi operati dalla Chiesa. Tra il IV e il IX
secolo, parallelamente al progressivo affermarsi di drammi sacri sul tema

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della Passione, sorsero infatti anche le rappresentazioni incentrate sulla
Natività. Queste, fondate sulla sequenza narrativa Annunciazione-Natività-
Fuga in Egitto, vennero a costituire una forma particolare di dramma sacro,
originariamente denominato officium pastorum. I canovacci destinati all’ese-
cuzione pubblica erano prodotti in ambiente chiesastico e presentavano
quindi testi rigidamente controllati (cfr. Buttitta 1985).
I testi drammatici, poetici e musicali di provenienza soprattutto ecclesia-
stica si andarono tuttavia adattando all’ambiente in cui si diffondevano. Gli
interpreti popolari tendevano a trasformare gli officia pastorum (o misteri) in
rappresentazioni che lasciavano ampio spazio all’improvvisazione (anche
con l’inserimento di danze, mimiche e dialoghi comici o addirittura osceni)
e all’abbondante consumo di cibo e bevande (perfino all’interno delle chie-
se, nonostante le reiterate proibizioni sinodali). Le novene domiciliari assu-
mevano l’andamento di una vera festa, con offerte alimentari, accensione di
fuochi e balli estemporanei. Nonostante secoli di attività normalizzatrice
operata dalla Chiesa, ancora oggi in Sicilia sono osservabili questi compor-
tamenti, significativa permanenza di più arcaici rituali destinati a celebrare il
solstizio d’inverno: un passaggio stagionale ritenuto “straordinario” già in
epoca preistorica e di cui il Natale costituisce, com’è noto, la riconfigurazio-
ne simbolica nei termini dell’ideologia cristiano-cattolica8.
A Licata (AG) si registra una significativa permanenza degli antichi officia
pastorum. Si tratta dellaPasturali che si rappresenta dal 26 dicembre al 6 gen-
naio dietro committenza. La rappresentazione richiede la presenza di sei
personaggi: tre pastori chiamati Bbardàssaru, Marsioni e Titu (che nella tra -
dizione locale sono i nomi dei Re Magi), un Curàtulu (soprintendente di mas-
seria) e due suonatori. I Pastori indossano i tradizionali costumi in pelle di
capra, mentre il Curàtulu porta un mantello. Tutti e tre hanno il volto coper-
to da lunga barba e reggono un bastone in mano. Particolarmente interes-
sante è la struttura drammatica che fonde recitazione, mimica e musica senza
soluzione di continuità (la durata totale può variare tra i trenta e i quaranta
minuti). Nelle parti recitate si alternano dialoghi “canonici” in italiano (cer-
tamente basati su un testo scritto di cui si è però persa la memoria) a battu-
te improvvisate in dialetto strettissimo, a sfondo comico e talvolta osceno
(documentazione sonora in Bonanzinga cd.1996a: 3). L’assimilazione dei
Pastori ai Magi se per un verso riflette il processo di identificazione tra
uomuni ed entità sacrali ricorrente nella ciclica drammatizzazione rituale dei
momenti della vita del Cristo (dalla nascita alla morte), per altro verso ripro-
pone il modulo dell’alterità. Questo si esprime nella radicale diversità di que-
sti sacerodoti-maghi (e in seguito anche re), che, provenendo da un altrove
lontano e ignoto (il misterioso Oriente), attraverso l’offerta di doni – come
già i Pastori – giungono ad adorare il nuovo Dio.

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La fase preparatoria della Pasturali è affidata a coloro che hanno richie-
sto (addumannatu) la Pasturali: famiglie e gruppi di vicinato (quasi sempre
per voto, prumisioni), circoli o associazioni private (per vivacizzare le attività
festive con uno spettacolo sempre gradito). L’allestimento della “scena” con-
siste nella costruzione di una capanna con legni, cartoni e frasche sotto una
fiuredda (edicola) bene illuminata. Non distante viene allestito un falò che
sarà acceso all’inizio della rappresentazione, di norma effettuata nelle ore
serali. L’azione si apre con i Pastori che si avvicinano lentamente, accompa-
gnati dal suono di zampogna (ciaramedda) e cerchietto (cìmmulu, cischettu),
simulando grande stupore per la forte luce che scorgono in lontananza.
Giunti in prossimità della capanna la musica cessa, i pastori improvvisano
qualche battuta scherzosa e poi si mettono a dormire. La musica riprende tra
il russare e lo spulciarsi dei pastori, finché giunge il Curàtulu. Questi, che si
mostra consapevole della miracolosa nascita con ampi gesti di gioia e mera-
viglia, tenta di svegliare il primo pastore per informarlo della “lieta novella”:

Bbardàssaru, come fai a dormire che al centro della notte Dio ha fatto
giorno. Guarda che brillare di luce ch’è nato sulla grotta di Betlemme e
tu dormi buon pastore, svegliati! Buon pastore, guarda gli agnelli che
pascolano, gli uccelli che cantano e tu dormi o buon pastore, svegliati!
Non temere, buon pastor e, sveglia ch’è nato il Re di tutti i re!

Il tentativo fallisce e ricomincia la musica in sottofondo agli andirivieni del


Curàtulu sempre più strabiliato dai sacri eventi. L’invito alla sveglia si ripete
identico anche per gli altri due pastori, ma senza sortire effetti. Il Curàtulu si
rivolge allora di nuovo al primo pastore, ripentendo con lievi varianti la pre-
cedente esortazione per cercare d i convincerlo, con le b uone e con le cattive
(a colpi di bastone), che è nato il Redentore. Questa volta Bbardàssaru si alza
e scambia qualche animata battuta con il Curàtulu, fino a concludere:

Buon pastore, tu dici che al centro della mezzanotte Dio ha fatto gior -
no, ancora gli occhi miei non sono convinti e questa non è ora di pasco -
lare armenti!

La reazione di Bbardàssaru non scoraggia il Curàtulu che, sempre inter-


calando gesti di meraviglia al suono della zampogna, si rivolge prima a Mar -
sioni e poi a Titu, i quali replicano analogamente al loro compagno. La musi-
ca riprende e il Curàtulu prova ancora a persuaderli:

Titu, Bbardàssaru e Marsioni, alzatevi o pastori! Venite anche voi ad


adorare Gesù Bambino. Guardate che brillare sulla grotta di Betlemme,
come fate a dormire o pastori, svegliatevi!

13
A questo punto i pastori finalmente riconoscono l’avvento del Messia,
escono dalla capanna e si inginocchiano verso l’immagine sacra esposta nel-
l’edicola. Il Curàtulu allora declama un componimento in siciliano (cinque
quartine endecasillabe a rima alternata) che rievoca i momenti dell’Annun-
ciazione e della Natività:

Ora ca li pasturi sunnu arrivati


e di luntana via sunu vinuti,
Gesù Bbamminu di nui chi nni vuliti,
l’arma e lu corpu nostru senza piccati.
L’eternu Ddiu criau l’universu,
ogni profeta già lu pridicau,
e non voleva no lu munnu persu,
l’unicu fìgliu sò nni distinau.
L’arcangelu Gabrieli Diu mannau
p’annunziari a la Vergini Maria.
Lu Spiritu Santu ca si cci ncarnau,
assemi fu giniratu lu Missìa.
A Ggiuseppi spusò pi promisìa,
presi nna via bbannuta e truvau na rassegna,
era Bbetlemmi e ognunu si scrivìa,
cussì fu fatta sta coppia santa e ddigna.
Cu fridda notti e grannuni nascìu,
dintra na grutta Gesù Bbammineddu,
lu voi e l’asineddu lu riscardaru
e l’àngili cantaru gloria a Ddiu.
Viva Gesù Bbamminu!

La Pasturali si conclude con l’offerta al Bambino di canti e balli, mentre i


più giovani distruggono la capanna per alimentare il falò e saltarci attraver-
so dando prova di coraggio e vigore (cfr. I. E. Buttitta 1999). In alcuni canti
si mescolano strofe dialettali ad altre in lingua, secondo una prassi che riba-
disce le interferenze stilistiche caratterizzanti le rappresentazioni musicali
della Natività. Ne è un esempio la seguente variante di uno dei componi-
menti più noti dell’Isola, A la notti di Natali, qui integrato da frammenti
ripresi da altri tre testi, due dei quali in italiano e uno in siciliano:

A la notti di Natali,
chi nascì lu Bbammineddu,
ca nascì mmenzu a la pàglia,
fra lu voi e l’asineddu.
Nni sta gruttidda c’è nnatu Gesù
chi di lu chiantu quitari un si vò.

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O Virginedda va quietulu tu,
facci la naca a lu cori Gesù.
La naca è fatta pi ffari a vò vò,
Bbamminu Gesù nun chianciri chiù.

Dormi, dormi o mio Bambino,


dormi, dormi o mio Gesù.
Dormi, dormi o mio Bambino,
amor mio non pianger e più.

A voi pastori che state a venire,


venite a vedere ch’è nato Gesù.
Gesù ch’è nato in una mangiatoia,
di paglia e di fieno il suo letto fu.

Cugliemu rrosi e ppàmpini


e sciuri di gelsuminu
pi ffari a lu Bbamminu
u litticeddu cà.

I moduli musicali possono essere sommariamente distinti in due tipi: uno


di andamento più regolare, rispondente alle consuete stilizzazioni di origine
semiculta; un altro più libero, tendente a inflessioni modali. Temi ricorrenti
sono l’Adorazione dei pastori (documentazione sonora in Bonanzinga
cd.1996b: 5) e la ninnananna al Bambino (ninnaredda):

Ora ca li pasturi sunnu già rrivati,


i longa via sunnu vinuti, ah…ah!

U Bammineddu nta la naca ciancìa


e l’àncilu Gabrieli lu nacava.
Tri palureddi santi ci diciva:
«Dormi fìgliu, s’amatu di Maria».
E li pasturi già l’âmm’adurari, oh… oh!

Vengono inoltre eseguite diverse melodie esclusivamente strumentali spe-


cificamente associate al Natale, come la Pasturali e la Campaniata, oltre a
melodie di accompagnamento al ballo (bballitti). Queste si basano su uno
schema costante: breve preludio a ritmo libero; giustapposizione di formule
melodico-ritmiche in tempo vivace (tendente al 6/8 o al 12/8), sostenute dal
cìmmulu, che possono essere variamente iterate e combinate secondo l’abilità
del suonatore. Pastori e devoti intrecciano allora le ultime danze, mentre i
commitenti avviano la distribuzione tra il pubblico di dolci, cibi e bevande.

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Una forma di Pastorale molto diversa rispetto a quella appena descritta si
mette in scena il giorno dell’Epifania per le strade e nella piazza principale
di Sant’Elisabetta, un piccolo centro rurale dell’Agrigentino. I nuclei essen-
ziali di questa azione drammatica sono costituiti dalla lunga performance iti-
nerante del Nardu, figura esemplare del servo pigro e indolente, un po’
scemo un po’ saggio, e dalla rappresentazione in piazza di alcuni momenti
della vita di una masseria: si prepara la ricotta che servirà a condire le “lasa-
gne” (poi consumate collettivamente), si raccolgono l’erba e la legna, si tra-
sporta l’acqua, si caccia il coniglio (che viene immediatamente scuoiato,
arrostito e mangiato), si cattura il “ladro di arance” e infine si uccide il
“lupo” che minaccia di attaccare un agnello. A queste sequenze si aggiunge
un epilogo del tutto autonomo, costituito dall’arrivo a cavallo dei Magi (i tri
Re) che scortano la Sacra Famiglia in un breve percorso dalla piazza alla
chiesa. Nardu partecipa a questo corteo palesando grande stupore per la
nascita miracolosa e assume quindi un ruolo assimilabile a quello dello “spa-
ventato” (scantatu), o “meravigliato” (meravigghiatu), del presepe.
La fase itinerante dell’azione è connotata da un variegato panorama musi-
cale entro cui si sovrappongono i richiami che il Curàtulu e il Vurdunaru
(mulattiere) rivolgono a Nardu, le sonate delle zampogne e della banda, i ritmi
del tamburo e gli spari a salve dei Campieri a cavallo, oltre al festoso scampa-
nio di un gregge, che pure sfila ostentando sonoramente l’identità della comu-
nità pastorale. Nardu – con il volto imbiancato, la gobb a e un bastone sopra la
nuca su cui poggia i polsi (nella tipica posizione assunta dai pastori nel
momento del riposo) – agisce in silenzio comunicando esclusivamente attra-
verso gesti e mimiche irriverenti e aggressive (spesso anche oscene). Le esor-
tazioni a lui dirette vengono non a caso pronunciate con la tipica inflessione
impiegata per chiamare gli animali (Oh! Nardu! Eoh! oh! oh! oh! / Unn’âm’ar -
rivari di stu passu Nardu! / Unn’âm’arrivari, ah!). Travestimento e azioni del
protagonista, orientati al rovesciamento della norma (disubbidisce, perde
tempo, provoca le donne) e allo spreco (sputa il cibo e le bevand e che i pasto-
ri gli offrono, lancia ricotta e fasci d’erba sul pubblico), rivelano chiaramente
quale sia la funzione simbolica di questa maschera ctonia: instaurare il caos
originario, in modo da rinnovare la fertilità naturale e umana (significativa a
riguardo è anche la presenza nel corteo dei Cardunara, p ersonaggi che recano
a tracolla fasci di cardi selvatici, veri guardiani d ell’ordine naturale che osten-
tano i frutti spontanei della terra). Di grande interesse è quindi la confluenza
in questa rappresentazione di elementi eterogenei che la rendono un esempio
unico in Sicilia (documentazione sonora in Bonanzinga cd.1996a: 6).
Un confronto anche sommario tra le due forme drammatiche appena esa-
minate offre l’opportunità per alcune considerazioni. In entrambe le circo-
stanze va anzitutto osservata l’opposizione tra figure come Bbardàssaru, Mar -

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sioni, Titu e Nardu, che presentano i tratti caratterizzanti del basso-corporeo
(stupidità, aggressività, volgarità, oscenità), e figure connotate in senso positi-
vo: sovrintendenti di masseria, mulattiere, campieri e pastori “laboriosi” . Sia a
Licata che a Santa Elisabetta è inoltre presente la transizione dal basso verso
l’alto d el primo tipo drammatico: i pastori licatesi riconoscono la Natività e la
loro azione assume la forma dell’Offerta musicale al Bambino; il Nardu muta
atteggiamento e si accoda compostamente al corteo della Sacra Famiglia. Nel
caso di Licata si rileva però l’adesione al modello delle Pastorali di origine
ecclesiastica, come dimostra il personaggio del Curàtulu che, illuminato dalla
grazia divina, è il vero artefice del passaggio dei Pastori dalla condizione “sel-
vaggia” all’armonia di un’esistenza riscattata dal peccato originale, mentre i
Pastori, dal canto loro, non palesano eccessi paragonabili a quelli del Nardu. A
Santa Elisabetta permangono invece evidenti i tratti di un arcaico rituale pro-
piziatorio agro-pastorale connesso al solstizio invernale, il cui tentativo di
riplasmazione entro la cornice della festa cattolica appare assai forzato.
Numerosi passi dell’Antico e del Nuovo Testamento ontengono la metafora
del “Dio-pastore” e della “Umanità-gregge”: il Pastore è quindi demiurgo,
ordinatore di una natura che implode, oltre ai valori positivi della fecondità e
della bellezza, anche il caos dell’eccesso, della trasgressione e, quindi, del pec-
cato. L’idea del Buon Pastore ricorre, su un piano diverso, per connotare una
dimensione esistenziale (psicologica e materiale) legata ai valori positivi e
incontaminati della natura: dagli idilli di epoca classica alle favole barocche di
ispirazione arcadica e, almeno in parte (come si è visto), ai drammi pastorali
connessi alla Natività. Nonostante i tentativi di “addomesticamento” operati
attraverso le immagini e le pastorali prodotte in ambito ecclesiastico (o comun-
que gestite dal clero), in pieno Settecento ancora la Chiesa patisce gli eccessi
orgiastici dei veri pastori nella celebrazione della Natività, e ne connota la musi-
ca come “ diabolica” . Assai significativa a tale riguardo è la testimonianza con-
tenuta in un manoscritto del parroco Andrea Gurciullo da Sortino (SR)9 :

Con quella proprietà e gravità che si deve alle funzioni sagre era celebrata la sol-
lenità del Natale del Signore sebbene non così la Notte Sacra. / Conciosiache in vece
di passar quella Notte in tenerezze ed in devozzione, la passava il popolo in crapo -
le, e in altri disordini. / Il numero dei pecoraj che in quel tempo fiorivano era ecce-
dente, or ognun di loro nella chiesa portava il suo stromento da sonare, che tutti
formavano una musica diabbolica. / Detto disordine di così sconcertati suoni à per -
durato fin a dì nostri, benché il Rev. beneficiale Tieso mio antecessore col suo zelo
pastorale avesse occorso colla sua autorità a detto disordine, cacciando dalla Chiesa
Madre detta sorta di suonatori; facendo altresì in detta Santa Notte di Natale un
breve sermone come si costuma, e si prosiegue colla grazia del Signore. Eglino non
pertanto cacciati via dalla Chiesa Madre, se ne andavano all’altre chiese, ove punto
non incontravano oppositione. / Finalmente nell’anno scorso 1752 per ordine del
Reverendissimo Signor Vicario Generale, par si che fosse dell’intutto dato fine a

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detti disordini, avendo sortito quella Santa Notte in pace, senza stromenti sconcer-
tati, ma con propij, e coll’organo; e si spera dalla pietà del Signore così dover avve-
nire, e succedere ne futuri anni, se si compiace Iddio benedetto lasciarci in vita.
[Notizie della Chiesa di Sortino, vol. 1, p. 144]

Va qui rilevato lo «zelo pastorale» con cui si è intesa esorcizzare la «musica


diabbolica», praticata dai «pecoraj» con «stromenti sconcertati», attraverso
un’altra musica, magari anch’essa pastorale, tuttavia da eseguire con strumenti
«proprij, e coll’organo»: una testimonianza che – nel nostro contesto d’analisi
– sintetizza emblematicamente i dislivelli e le interferenze tra le forze in campo
nella rappresentazione della Natività.
Se dal piano della rappresentazione simbolica si passa a quello della realtà
storica, vediamo che i pastori si qualificano per la loro “marginalità” anche in
amb iti culturali centrati su una struttura socioeconomica di tipo agro-pasto-
rale: «come si apprende dalla gr ande raccolta delle tradizioni giudaiche, il Tal-
mud (Sanhedrin, 25 b), i pastori non potevano essere eletti giudici o addotti
come testimoni in un processo perché consid erati impuri a causa della loro
convivenza con gli animali e disonesti a causa delle loro violazioni dei confini
territoriali» (De Spirito 2000: 123-124). Il rapporto di complementarietà-con-
flittualità intrattenuto da agricoltura e pastorizia, determinato da d iverse
modalità di gestione e sfruttamento del territorio (cfr. Grottanelli 1965/ II:
661-755 e Fabietti 1980), insieme al fatto che le attività pastorali debbano
necessariamente svolgersi al di fuori del rassicurante e controllabile mondo
contenuto all’interno del perimetro urbano, sono ulteriori elementi che
hanno favorito il formarsi d i un diverso stereotipo simbolico del pastor e,
declinabile in negativo: una figura inquietante, abitante di luoghi “selvatici”,
non sottomessa alle norme dell’urbanitase che partecipa d i una natura sostan-
zialmente “ animale” (cosi è a esempio il Nardu di Sant’Elisabetta).
Questa natura animalesca, selvatica e “demoniaca” emerge nelle innume-
revoli maschere di impronta pastorale diffuse nel contesto euromediterraneo
in rapporto soprattutto alle cerimonie del periodo invernale-primaverile già
in epoca precristiana. È indicativo che anche molte maschere non diretta-
mente connesse alla figura del pastore – a esempio le maschere animali come
l’orso, il lupo, il capro, il bue/toro, oppure alcune declinazioni dell’uomo sel -
vatico – si fondino su elementi tipicamente connotativi dell’universo pasto-
rale: indossano manti e calzari in pelle di capra (o montone), spesso portano
in capo grandi corna di caprini o bovini, recano alla cintola (e/o a tracolla)
campani e sonagli per animali di varia foggia e misura. L’analogia si estende
anche al piano comportamentale, costantemente caratterizzato dalla produ-
zione di frastuoni (grida, fischi, percussioni), da eccessi del gesto (corse, salti,
balli sfrenati, aggressioni, percosse, mimiche oscene) e della parola (ingiurie,

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scurrilità). Tutte queste maschere rientrano infatti, come ampiamente gli stu-
diosi hanno dimostrato, in una unica tipologia: rappresentano le forze ctonie
(demoni, defunti) che periodicamente tornano sulla terra per instaurare il
caos originario in modo da rinnovare la fertilità naturale e umana. I loro
costumi e i loro atteggiamenti rispondono all’arcaico codice del basso-cor-
poreo (cfr. Bachtin 1979) e le loro azioni sono sempre intese a inscenare una
trasgressione-inversione che è condizione necessaria all’affermarsi del nuovo
ordine umano, naturale e cosmico. Per questo le maschere suddette – spes-
so aggregate in schiere più o meno ampie – hanno bisogno di essere “nutri-
te” dalla comunità e godono del diritto di questua (altro tratto ricorrente),
talvolta esercitato in forme aggressive e violente10 .
Anche in Sicilia questo genere di maschere ha trovato ampia diffusione, in
varianti sia individuali sia di gruppo: d all’Orso (Ussu) che anima il corteo car-
nevalesco di Saponara alle maschere pasquali dei Giudei di San Fratello (prov.
di Messina) e dei Diàvuli di Prizzi (prov. di Palermo), limitandoci agli esempi
più noti e tuttora vitali (cfr. Buttitta 1978 e Bonanzinga - Sarica 2003). Per il
passato valga invece ricordare la maschera collettiva dei Nzunzieddi, figure
esplicitamente d emoniache che fino agli anni Cinquanta inscenavano a Mon-
terosso Almo (prov. d Ragusa) una pantomima itinerante per la vigilia di
sant’Antonio (17 gennaio). I Nzunzieddi erano abbigliati con pelli di monto-
ne pendenti fino alle ginocchia, scarpe di pelo (scarpuneri), grandi corna in
testa e campanacci ap pesi alla cintola. Avevano il volto nzunziatu (insudicia-
to) dal fumo, da cui appunto la lor o denominazione. Potevano essere in
numero variabile (da d ue a cinque) fra loro incatenati e legati a una corda
retta da un altro individ uo che impersonava sant’Antonio; quest’ultimo
impugnava un bastone con cui li tormentava. Il corteo così composto attra-
versava le vie del paese e la gente partecipava alla rappresentazione schia-
mazzando e allestendo falò (vampi). I protagonisti dell’azione cerimoniale –
tutti uomini adulti – usavano il giorno dopo andare in giro senza maschera
allo scopo di questuare alimenti e olio per le lampade della chiesa. Testimo-
nianze relative al secolo scorso non menzionano tuttavia la figura di sant’An-
tonio e riferiscono di comportamenti estremamente trasgressivi attuati perfi-
no in chiesa: «Non appena il celebrante nella messa solenne del Santo, into-
nava l’Ite missa est, prorompea nella chiesa una frotta briaca, con pelli e corna
di becco, con facce tinte di fumo e di terra rossa, saltand o, ur lando e scoten-
do campanacce da bove. Dopo pochi minuti la frotta andava percorrendo
tutte le vie del paese, facendo un diavolìo da non d irsi» (Guastella 1887: 83).
La figura del pastore era esplicitamente evocata dalla maschera collettiva
dei Picurara, fino a qualche decennio addietro ancora vitale ad Antillo (centro
del versante tirrenico dei Peloritani in prov. di Messina). I Pecorai erano uomi-
ni con il volto coperto da una maschera di tela bianca (facciali), che indossava-

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no giubbotti di orbace (rrubbuni), brache di pelle caprina (càusi) e una dozzi-
na di campanacci (campani) alla cintura. Nella penultima domenica di Carne-
vale e nel Martedì Grasso, svolgevano un’azione itinerante per le vie del paese:
«si riunivano a gruppi di otto-dieci elementi, i quali, con altrettante dami,
dame, anch’esse mascherate, al suono delle ballabili note della ciaramella [zam-
pogna], attaccavano a ballare a cuntradanza, la tarantella, dalle diverse figura-
zioni, allietando la piccola folla che s’era apposta radunata in piazza; mentre i
campanacci, continuamente mossi dai passi di danza, col loro frastuono copri-
vano le squillanti note dello strumento» (Lo Schiavo 1995: 51). I Picurarareca-
vano a tracolla una bisaccia (bbèrtula) contenente una pietra focaia (petra fuca -
la) e un pezzo di cacio stagionato. Alle maschere si usava infatti chiedere, por-
gendo un coltello, una porzione di formaggio (mossu i frummàggiu). Queste
offrivano il cibo dopo avere però giocato un tiro al questuante, rovinandogli il
filo del coltello mediante vigoroso sfregamento sulla pietra focaia (cfr. Lo
Schiavo 1995: 51). Si osservi che il rovesciamento funzionale tra donatore
(mascherato) e destinatario (non-mascherato) non fa che rafforzare il valore
cerimoniale della ‘questua’, rivelandone la profonda valenza simbolica sull’as-
se della reciprocità tra chi offre e chi riceve (cfr. Giallombardo 1990: 25-38).
Molto comune nel Carnevale tradizionale siciliano era d’altronde anche
la maschera individuale del Pecoraio (cfr. Pitrè 1889/I: 46), segnalata anche
come immancabile componente dell’affollato corteo della Tubbiana:

Che frastuono, che rimbombo di campanacci! Non vedete? è un Picuraru pur


ora sceso dal monte, da capo a piedi coperto di pelle di capra, con scarponi da die-
ci chilogrammi l’uno, e con tutte le campane di bronzo e di ferro delle sue capre
e delle sue vacche attaccate alla cintura. Se vi urta vi ammacca le costole: con
tant’impeto e così bestialmente si muove o vi tocca col suo nodoso bastone.
La Tubbiana raccoglieva in Palermo una lieta brigata di popolani camuffati chi
da pecoraio, chi da spagnuolo, chi da vecchia, chi da pastore, chi da re, chi da re -
gina, chi da matto e chi perfino da brigante che sparava a crusca o a polvere d’a-
mido col fucile. [Pitrè 1913: 281]

La maschera del Picuraru, in tutto simile a quella descritta da Pitrè, ancora


permane nella pantomima carnevalesca del Mastro di campo (Mastru ri campu)
a Mezzojuso (PA). L’azione, che si svolge l’ultima domenica di Carnevale nella
piazza principale del paese, è incentrata intorno all’azione di una maschera
guerresca: il Mastru ri campu (Mastro di campo, appellativo derivante da una
figura effettivamente prevista nell’organico degli antichi eserciti spagnoli). Que-
sti ha l’obbiettivo di sconfiggere il Re, arroccato insieme alla “corte” in un
“castello” (realizzato su un palco di legno), e conquistare la Regina (cfr. Gattu-
so 1938, Buttitta-Pasqualino 1986, Bonanzinga 2003). Tra Cavalieri e Dame
abbigliati in costumi medievaleggianti, Barone e Baronessa, Ingegneri, Eremiti

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e Maghi, Ggiardinere (maschere primaverili che agitano ghirlande di fiori) e
Fofòrio (una schiera di giovani travestiti da “briganti”), spicca la minacciosa
maschera del protagonista, di colore rosso fuoco, dai tratti marcati da folte
sopracciglia, grossi baffi, zigomi e labbro inferiore sporgenti. Il Mastro di
campo brandisce la spada mimando un combattimento al ritmo del tamburo,
ostacolato dal Picuraru (Pecoraio) che scompostamente si agita al suono dei
numerosi campanacci appesi alla cintola. L’Eroe sconfigge ripetutamente il
Picuraru, scavalcandone il corpo disteso a terra in grottesche convulsioni, e più
volte si arrampica su una scala appoggiata al palco che rappresenta il castello
per duellare con il Re. La prima parte della pantomima si conclude con la scon-
fitta del protagonista, rappresentata dal suo ferimento da parte del Re, cui segue
la “caduta” dalla cima della scala: il Mastro di Campo cade all’indietro, rigida-
mente disteso e a braccia aperte. Raccolto al volo e portato via dai componenti
del Fofòrio (che funge quindi da ‘aiutante’ dell’Eroe), il Mastro di campo tor-
nerà in scena “magicamente” guarito, riuscendo infine a sconfiggere il Re e a
conquistare la Regina. Un eroe “ tellurico” – giovane, nervoso, impaziente,
aggressivo – per mezzo di una lotta danzata colma quindi di energie positive lo
spazio cerimoniale, domina il caos (personificato dal Pecoraio) e spodesta un Re
che è metafora del tempo consumato, del “vecchio” destinato a essere rimpiaz-
zato per consentire l’avvio del nuovo ciclo vitale.

Quanto osservato in Sicilia rispecchia uno schema simbolico assai radica-


to nella stor ia dell’immaginario occidentale (e non solo). La figura del Pasto-
re si situa difatti entro un singolare bipolarismo che va dall’assoluto positivo
(lo stesso Dio d ei Cr istiani è “pastore d ell’umanità”) all’estremo negativo (le
inquietanti maschere delle feste di fine-inizio d’anno). I pastori possono rap-
presentare un modello d i idillio con la natura, oppure essere collocati addi-
rittura fuori da ogni “ misura” di civiltà: i Ciclopi, giganti-antropofagi, erano
pastori. Le configurazioni storiche e materiali della realtà pastorale segnalano
un’analoga, spesso sofferta, relazione di accoglienza/ esclusione rispetto
all’ambiente urbano e perfino al mondo rurale. I pastori possono infatti esse-
re fonti feconde d i alimenti (latte, caci, carni) e di vesti (grazie alla produzio-
ne della lana) e favorire la fertilità del suolo con lo sterco depositato dagli ani-
mali nelle transumanze, ma allo stesso tempo si qualificano come portatori di
morte, quando versano il sangue dei loro animali (per procurarsi nutrimento
o profitto), oppure nel caso in cui il passaggio delle greggi giunga a compro-
mettere le coltivazioni. Nella concezione circolare d el nesso morte-vita, così
pregnante in tutte le società tradizionali, va pertanto ricercata la duplice
essenza del Pastore, con tutta la sua straordinaria capacità di rappresentare
situazioni antitetiche: agente del caos, emissario degli inferi, ma anche opero-
so demiurgo, infaticabile ord inatore della natura e delle sue forme11.

21
N OTE

1
Per i vari aspetti connessi al mondo dei pastori in Sicilia, si vedano in particolare: Uccel-
lo 1973, 1980; Giacomarra 1983; Martorana 1988; Riccobono 1992; Bernardi 1995; Sottile
2002. Per un quadro generale della cultura materiale in Sicilia, con riferimento alle tecniche
pastorali, cfr. AA.VV. 1980, 1984, 1990.
2
Si avverte che il termine mandria (mànnara o mandra) è in Sicilia indifferentemente
impiegato per indicare sia il bestiame grosso (buoi e vacche) sia quello minuto (pecore, capre
e maiali) sia il luogo dove esso è custodito. Differenziate sono invece le denominazioni delle
diverse professionalità nell’ambito dell’allevamento del bestiame (picurara, caprara, vistiama -
ra, vuiara, vaccara, purcara, ecc.), ma poiché la nostra osservazione è stata condotta esclusiva-
mente presso allevatori che tenevano animali misti (a es. pecore e capre, oppure pecore, capre
e vacche) si userà genericamente il termine ‘pastore’.
3
La medesima consuetudine è stata rilevata in Calabria (cfr. Ricci 1996: 117-119).
4
Per un’ampia tr attazione relativa all’uso dei segnali sonor i nelle società tradizionali, con
specifico riguardo ai sistemi tamburati e fischiati, si veda Sebeok - Umiker-Sebeok 1976. Per un’a-
nalisi dei segnali pastor ali nelle regioni della G er mania orientale, con implicazioni teoriche di
inter esse gener ale, si veda Kaden 1977. Per gli aspetti storici, organologici e simbolico-funziona-
li relativi agli ‘strumenti da segnale’, si vedano: Stockmann 1965, 1974; Schaeffner 1978; Sachs
1980; Bonanzinga 1993a. Riguardo ai sistemi sonori pastorali vigenti in altr e ar ee del M editerra-
neo meridionale, si vedano in particolare: Anoyanakis 1979 (Grecia); Angioni 1989, Spanu 1998,
Botta - P adiglione 2000 (Sar degna); La Vena 1996, Ricci 1996 (Calabria). Per considerazioni rela-
tive alla “unicità e contempor aneità” che caratter izza il pr ocesso del fare e del rappresentare, del-
l’intreccio fra saperi tecnici e pratiche simboliche, cfr. in particolare Buttitta 1995: 50-77.
5
Testimonianza: C ar melo Rasconà (n. 1943). Rilevamento: Messina, Campo I talia,
28/12/1991.
6
Testimonianza: Salvatore Ruggeri (n. 1930). Rilevamento: Saponara (ME ), 30/08/1992.
7
Va osservato che questi richiami pastorali seguono un andamento inequivocabilmente
tonale. Nel primo caso troviamo un incipit accordale (L A min. in posizione fondamen-
tale),passaggi in M I magg. e SI7, oltre all’iterazione a varie altezze di una seconda maggiore
riempita cromaticamente (unico elemento a evocare una certa “alterità” della melodia). Il
secondo esempio addirittura ricorda il tema di una canzonetta (tonalità di SOL magg. e ritmo
in /6/8, righi 1-2 e 4-5), con tanto di ritornello (righi 7-8) e variazione (righi 3-4 e 9-10, dove
una certa inflessione “da richiamo” si rende però più evidente). Il fatto non deve tuttavia sor-
prendere ove si considerino più in generale le forme della musica strumentale siciliana, come
pone in evidenza Ottavio Tiby proprio commentando le altre melodie per flauto di canna rac-
colte da Favara: «Queste musiche di danza sono tutte schiettamente tonali. Nessuna incer-
tezza, nessuna ambiguità modale esiste in esse; onde si distinguono nettamente per carattere
dalle canzoni vocali; anzi, nel loro complesso, dànno quasi l’impressione di altra provenien-
za» (1957: 93). Il medesimo stile popolaresco – e/o semiculto – era già peraltro radicato all’i-
nizio dell’Ottocento, come dimostrano le melodie strumentali trascritte in Sicilia da Giacomo
Meyerbeer (cfr. Bose 1993 e Bonanzinga 1993b: 57-69).
8
Sulle tradizioni del Natale in Sicilia si vedano in par ticolare: Pitr è 1878, 1881: 431-462;
Uccello 1979; Buttitta 1985; I. E. Buttitta 1999: 19-31. Sugli strumenti e le musiche di ambien-
te pastorale si vedano tra gli altri: Staiti 1986, 1989, 1997; Bonanzinga 1993a, 1993b, 1999; Sari-

22
ca 1994. Per una documentazione sonora delle tradizioni musicali connesse alla celebrazione del
Natale, si vedano: Gar ofoalo d.1990; Lo Castro - Sar ica cd.1993; Bonanzinga cd.1996a-b.
9
Ringrazio Franco G iuliano, appassionato cultore di memorie sortinesi, per aver mi procu-
rato la trascrizione del testo di padre Gurciullo (1719-1803), parroco a Sortino dal 1749 al 1803.

10
Riguardo alla morfologia e al valore simbolico di questa tipologia di maschere si veda-
no tra gli altri: Van Gennep 1937-58: vol. III/t. I e vol. IV/t. I; Toschi 1955; Alford 1978; Pre -
moli 1986; Caro Baroja 1989; Vulcanescu 1994; Buttitta 1996: 125-129, 266-276; Castelli -
Grimaldi 1997; Bonanzinga-Sarica 2003. Per una specifica analisi delle maschere di impron-
ta pastorale in Calabria, cfr. Faeta 1997.

11
Su quest’ultimo aspetto cfr. Il cibo giocato in Giallombardo 2003.

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