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Con il De rerum natura Lucrezio si prefigge l’intento di rendere nota e conosciuta la filosofia epicurea.
Secondo un concetto da lui stesso spiegato sempre in quest’opera, ossia la metafora del miele e
dell’assenzio, Lucrezio realizza un’armonia tra le caratteristiche intrinseche al genere didascalico, rigidità e
logica (necessarie per argomentare tesi e spiegarle), e uno stile chiaro e seducente: nell’Inno a Venere
infatti si ritrovano, accanto a non pochi nessi formulari (nam, v. 10 e 31; inde, v. 14; ita, v. 15; denique, v.
17), immagini meravigliose come la descrizione della natura che fiorendo rigogliosa accoglie la dea Venere
e la scena nella quale Marte si abbandona, disarmato dalla forza d’amore, nel grembo della dea.
Ispiratosi al modello di Empedocle (colui che aveva individuato la forma più adeguata per comunicare i
principi su cui si regge la vita dell’universo, quelli di Epicuro), Lucrezio sceglie di scrivere il proprio poema in
esametri e si scontra dunque con la difficoltà di conciliare i concetti da esporre con le severe norme
metriche, difficoltà che scioglie con l’uso di apocopi (v. 4, 5, 16, 26, 29, 34), di parole sincopate (saecla per
saecula, v. 20; reposta pe reposita, v. 35) e di anastrofi (per te quoniam, v.4; quae quoniam, v.21; gremium
qui, v. 33). I versi dell’Inno a Venere terminano con piedi trochei, alternati a spondei. Il III verso è parallelo
Lo stile lucreziano trae alcuni aspetti dal riferimento poetico enniano, come arcaismi lessicali e morfologici
(divum, v.1; animantum, v. 4; suavis, v. 7 e 39; amnis, v. 15; dias, v. 22; militiai, v. 29; omnis, v. 30;
moenera, v.31; mortalis, v. 32; Mavors, v. 32), utilizzo di aggettivi composti (frugiferentis, v. 3; frondiferas,
assonanze (“persultant pabula laeta”, v. 14, “da dictis diva”, v.28) e di omoteleuti (hominum divum, v. 1), ai
quali si affianca l’uso di calchi dal greco (il titolo stesso dell’opera traduce il titolo perì physeos, v. 25),
grecismi (daedala, v. 7;), costrutti greci (come l’accusativo di relazione con cui è costruito perculsae corda,
v. 13) e perifrasi (frondiferasque domòs, perifrasi per alberi, v. 17) per sopperire all’egestas linguae dei
Il primo elogio di Epicuro (vv. 62-79), a cui ne seguono altri quattro nel corso del De
rerum natura, celebra lo stesso come eroe salvatore del genere umano. I suoi
attributi sembrano quasi quelli di un dio, che spezza e distrugge le catene che
paralizzano i suoi simili. Egli riesce con la razionalità a vincere la “religio”, la
superstizione che vincola gli uomini impedendo loro di perseguire il vero scopo della
vita: l’ἡδονή, il piacere. Con la sua filosofia infatti Epicuro, e con lui Lucrezio,
ammette l’esistenza degli dei ma li considera fatti di atomi e disinteressati alla vita
umana, quindi non un impedimento per la ricerca della felicità da parte dell’uomo.
Ricerca che non può essere rimandata dopo la morte, visto che, essendo il mondo
secondo l’epicureismo concepito come unione e disunione di atomi, essa non è altro
Nel corso dell’elogio Lucrezio insiste sul primato di Epicuro (vd vs. 66, 67, 71)
nell’aver sconfitto la “religio”, atto che permetterà agli uomini di superare quei limiti
inizia dunque descrivendo una situazione in cui gli uomini sono oppressi sulla terra e
la “religio” incombe su di essi dal cielo, termina questo testo con un’inversione delle
posizioni: l’uomo viaggia lontano con la mente e con l’animo mentre la superstizione