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Note sul problema del controllo politico degli Ordini

religiosi nell’Italia della prima metà del Seicento1

Massimo Carlo Giannini


Università di Teramo

Nella seconda metà del XVI secolo, la riorganizzazione delle tradizionali famiglie religiose e
l’espansione dei nuovi Ordini contribuirono a formare un vasto reticolo di case, collegi, conventi
e monasteri che abbracciava non solo l’Europa cattolica, ma aveva significative propaggini ex-
traeuropee. Nel caso italiano, il diretto rapporto che questi soggetti intrattenevano con la Curia
papale e la natura sovrastatale delle articolazioni territoriali in cui era inquadrata gran parte del
clero regolare contribuivano a formare l’ossatura di un circuito di uomini, istituzioni e risorse
economico-finanziarie2, sostanzialmente autonomo tanto dalle gerarchie vescovili, quanto dai
governanti dei diversi Stati della Penisola3. Qui agli inizi del Seicento, le province degli Ordini
religiosi presentavano, al pari delle diocesi, un assetto territoriale che, per lo più, non corrispon-
deva ai confini statali.
Oggetto del presente contributo sono alcuni aspetti delle pratiche di intervento della corona
asburgica e dei sovrani italiani, per garantirsi un certo grado di controllo sugli Ordini religiosi
maschili in area italiana. Gli elementi che esporrò in questa sede hanno un evidente carattere
frammentario, data la vastità del tema, e di provvisorietà, trattandosi di una ricerca assai com-

1
Abbreviazioni utilizzate: AGS: Archivo General de Simancas (E = Estado; SP = Secretarías Provinciales); AHNM:
Archivo Histórico Nacional, Madrid (E = Estado); ASFi: Archivio di Stato di Firenze (ABE-SRD = Auditorato dei benefici
ecclesiastici - Segreteria del regio diritto); ASMi: Archivio di Stato di Milano (C = Culto p.a.; RCS = Registri delle Cancel-
lerie dello Stato); ASTo: Archivio di Stato di Torino; ASV: Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano; BAV: Biblioteca
Apostolica Vaticana, Città del Vaticano; DBI - Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italia-
na, 1961 sgg.
2
L. Landi, Il paradiso dei monaci. Accumulazione e dissoluzione dei patrimoni del clero regolare in età moderna, Firen-
ze, La Nuova Italia, 1996. Cfr. anche M. C. Giannini, L’oro e la tiara. La costruzione dello spazio fiscale italiano della Santa
Sede (1560-1620), Bologna, Il Mulino, 2003.
3
M. Rosa, «Per la storia della vita religiosa e della Chiesa in Italia tra il Cinquecento e il Seicento. Studi recenti e
questioni di metodo», in Id., Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, Bari, De Donato, 1976, pp. 140-
142; A. Erba, La Chiesa sabauda tra Cinque e Seicento. Ortodossia tridentina gallicanesimo savoiardo e assolutismo ducale
(1580-1630), Roma, Herder, 1979, pp. 77-80; G. Fragnito, «Gli Ordini religiosi tra Riforma e Controriforma», in Clero
e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 115-205; R. Rusconi, «Gli Ordini religiosi
maschili dalla Controriforma alle soppressioni settecentesche. Cultura, predicazione, missioni», in Clero e società, cit., pp.
207-242; C. Fantappiè, Il monachesimo moderno tra ragion di chiesa e ragion di stato. Il caso toscano (XVI-XIX sec.), Firenze,
Olschki, 1993, pp. 26, 69-71 e 82-83.

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plessa ancora in corso. Tuttavia, a partire da alcune vicende esemplari è possibile cominciare a
delineare alcuni elementi significativi del tormentato rapporto fra la Monarchia cattolica per
antonomasia e il mondo degli Ordini religiosi nel corso del Seicento.

1. Alle origini della “grande paura”

Il conflitto dell’Interdetto fra Santa Sede e Repubblica di Venezia (1606-1607) rappresentò


un punto di svolta per il tema che qui interessa. Come è noto, lo scontro –nato proprio dalla ri-
vendicazione del governo veneziano di agire penalmente contro due religiosi e dalla ferma volon-
tà di Paolo V di tutelare l’esenzione personale del clero– ebbe fra le sue conseguenze immediate la
clamorosa espulsione di cappuccini, gesuiti e teatini dal territorio dalla Serenissima, in quanto si
erano rifiutati di ignorare l’interdetto papale, come ordinato dalle autorità veneziane.
Fra le conseguenze meno appariscenti, ma non trascurabili del conflitto veneto-pontificio, vi
fu il deciso acuirsi delle preoccupazioni dei governi circa l’attività delle ‘religioni’. La loro pre-
senza e la loro opera cominciarono a essere sempre più percepite come potenzialmente pericolose
per la stabilità interna dei regimi, visto il grande ascendente che esse erano in grado di esercitare
sulle coscienze dei sudditi e degli uomini di governo. Ciò fu all’origine di un’attenta riflessione:
infatti i poteri laici, sebbene fossero da tempo in grado di influenzare, in certa misura, la provvista
dei vescovadi e dei benefici ecclesiastici nei rispettivi domini, incontravano numerose difficoltà
a esercitare un controllo sugli Ordini religiosi, i cui membri si spostavano con frequenza da un
punto all’altro della Penisola e spesso dell’Europa, a seconda delle necessità dell’Ordine o della
Congregazione di appartenenza.
Proprio al caso veneto e ai mille fili che legavano i religiosi alla Curia pontificia, faceva ri-
ferimento un’annotazione di Paolo Sarpi, frate servita e consultore in iure della Repubblica di
Venezia, durante l’Interdetto:

col mutare e alterare così spesse le polizie [cioè gli ordinamenti] delli ordini regolari, la corte di Roma
s’intrinseca sempre più in essi e per consequente viene a farsi le persone più dependenti et obligate sì
che in ogni cosa conviene che anteponghino li interessi di essa corte alli rispetti della patri loro4.

Allo stesso modo, il Sarpi denunciava nel 1609 come la presenza di numerosi predicatori
forestieri, per lo più provenienti dallo Stato pontificio, in grado di raccogliere ingenti elemosine
dai fedeli, nonché il fatto che nei monasteri della Serenissima vi fossero superiori non sudditi che
inviavano denaro fuori dai confini veneti rappresentassero i sintomi di un pericoloso drenaggio
finanziario a favore della Curia pontificia e a danno delle stesse istituzioni religiose della Repub-
blica5. Due annotazioni risalenti a circa tre anni dopo la fine della contesa dell’Interdetto, di un
altro servita Fulgenzio Micanzio –anch’egli consultore in iure e fedele discepolo, oltre che primo
biografo del Sarpi– consentono di mettere a fuoco alcuni elementi che ritorneranno nelle pagine

4
P. Sarpi, Consulti, vol. I + II, p. 541, (1606-1609), a cura di C. Pin, Pisa-Roma, Istituti Poligrafici Internazio-
nali, 2002
5
Ibid., pp. 663-664.

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che seguono. Micanzio sottolineava come il voto di obbedienza che caratterizzava gli Ordini
religiosi fosse «una disciplina per il governo e per la condizione degli stati loro», ma che «volerne
far legge per tutti» era «un gran trapasso». Accusando i gesuiti di pescare «ad acqua torbida», il
religioso sosteneva che «l’obedienza de’ fideli s’ha da cavare dalle Scritture, e non dalle discipline
monastiche»; in questo modo egli rimarcava il rischio che, mutuando le forme di obbedienza pro-
prie del mondo degli Ordini –e segnatamente della Compagnia di Gesù– la Santa Sede e i suoi
‘agenti’ gesuiti puntassero a scardinare il rapporto fra sudditi e sovrano6. In un altro passaggio,
Micanzio criticava la tendenza dei papi a dotare di privilegi monasteri e abbazie, sottraendole al
controllo degli ordinari diocesani:

credevan questi [scil. i monasteri] esser beati senza patrone vicino, così sono fatti sogetti immediate
a Roma; quando credono esser liberi, si sono trovati spogliati d’ogni cosa, e se non trovavano quel
tardo rimedio di mettersi in congregazione, non ci saria più abbazia se non comendata, che tanto è
come fatta del papa e de’ suoi. Mirabil artificio, rovinar col difender! Protezione, ah?7

Gli stretti legami non solo religiosi, ma anche e soprattutto politici, istituzionali ed econo-
mici fra Ordini e Congregazioni, da una parte, e Curia pontificia, dall’altro, non potevano che
suscitare le acute critiche di un ecclesiastico regolare al servizio della Serenissima, nel pieno di una
congiuntura, quale quella seicentesca, nel corso della quale tutti i principi guardavano sempre più
ai religiosi come a un pericolo per la stabilità interna. D’altra parte, i religiosi potevano suscitare
un’analoga diffidenza nei vertici della Santa Sede, nel timore che costoro preferissero la lealtà ai
sovrani temporali all’ubbidienza a Roma: ecco quindi che il nunzio a Venezia Giovanni Agucchia
veniva esortato dal predecessore a non fidarsi dei regolari veneti «perché non erano fedeli e pen-
devano più dalla banda della Repubblica che da Roma»; cosa che finì per sperimentare in prima
persona, quando alcuni religiosi ottennero il divieto delle autorità alla pubblicazione dell’editto
del nunzio per la riforma dei costumi ecclesiastici, nel 16248.
Questi problemi non rimasero confinati al territorio veneto. I conflitti politici e militari
dell’Europa seicentesca coinvolsero il variegato mondo dei religiosi in misura forse superiore alle
epoche precedenti e posero ai sovrani cattolici l’esigenza di un più efficace controllo su di esso, in
quanto considerato come facilmente inquinabile da elementi politicamente non affidabili.
Nel 1617, ad esempio, alcuni sacerdoti e frati domenicani e francescani, originari dello Sta-
to di Milano, indirizzarono un’accorata protesta, anche a nome di altri ecclesiastici, al Senato
–massimo tribunale lombardo– per essere stati espulsi dalla Repubblica di Venezia e dal Ducato
di Savoia in quanto sudditi del re cattolico. Essi chiesero che venisse attuata un’identica misura
ai danni dei loro confratelli forestieri che risiedevano nel Milanese. L’allontanamento dei religiosi
potenzialmente fautori della Monarchia cattolica era stato deciso dalle autorità veneziane e sabau-
de, unite da un patto di alleanza antispagnola, in un momento particolarmente grave: era infatti

6
F. Micanzio, «Annotazioni e pensieri», in Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di B. Benzoni
e T. Zanato, Milano-Napoli, Riccardi, 1982, pp. 782-783.
7
Ibid., pp. 833-834.
8
A. Zanelli, «Le relazioni tra Venezia e Urbano VIII durante la nunziatura di Mons. Gio. Agucchia (1624-1631)»,
Archivio Veneto, LXIV (1934), pp. 155-157, la citazione proviene da p. 156.

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in pieno svolgimento la guerra ispano-sabauda e, al medesimo tempo, era altissima la tensione


fra la Serenissima e i due rami della casa d’Asburgo9. Il Senato milanese suggerì al governatore,
Pedro de Toledo, marchese di Villafranca, di adottare ritorsioni più prudenti di quelle invocate
dagli interessati: nessun ecclesiastico regolare e secolare sabaudo e veneto avrebbe dovuto essere
ammesso a mansioni direttive negli enti religiosi lombardi. Il Toledo approvò questa linea, mi-
rante probabilmente a evitare una catena di espulsioni di ecclesiastici che avrebbero solamente
complicato la situazione: dopotutto in questo modo si lasciava aperta la possibilità di una succes-
siva «demostración más rigurosa»10. Le cose però non erano così semplici. Le pressioni esercitate
con la massima discrezione dal governo di Milano affinché i religiosi veneti e sabaudi lasciassero
gli uffici «di superiorità et comando nelli conventi, et monasteri» dello Stato potevano rivelarsi
insufficienti allo scopo. Se infatti non si intendeva ricorrere all’allontanamento forzato dei reli-
giosi, per non creare perniciosi conflitti con le autorità ecclesiastiche né turbamento o scandalo
tra i fedeli, vi era tuttavia il pericolo che qualcuno, come il priore del convento di San Domenico
di Lodi –di origine bergamasca e quindi suddito veneziano– reagisse vantandosi pubblicamente
del fatto che l’amicizia del vescovo lo avrebbe protetto dalle misure preannunciate. Ben più grave
quanto denunciò il governatore nel febbraio 1618, dopo il ristabilimento della pace: il priore dei
carmelitani di San Giovanni in Conca di Milano, nonostante l’invito pressante, ancorché comu-
nicatogli «con mucha modestia y quietud», a lasciare il proprio incarico e a partire dal territorio
lombardo a causa delle sue simpatie per la Francia, non solo era rimasto con vari pretesti al suo
posto, ma aveva addirittura permesso che il conte Philippe de Béthune, uomo-chiave della diplo-
mazia francese in Italia, di passaggio a Milano, tenesse una riunione nella sua cella con il residente
veneziano e un inviato del duca di Savoia11.
Lo stesso Pedro de Toledo informò l’ambasciatore spagnolo a Roma, il cardinale Gaspar de
Borja, alcuni giorni prima che venisse ufficialmente ratificato il trattato di pace a Madrid (26
settembre 1617), di un episodio assai preoccupante. Nel territorio di Castelleone cremonese, al
confine con la Repubblica di Venezia, sorgeva il convento dei frati minori osservanti di Santa
Maria di Bressanoro, il quale apparteneva alla provincia di Brescia dell’Ordine. Per questa ragione
il guardiano, il vicario, il custode e altri frati erano bresciani e bergamaschi. Qui si era verificato
un fatto gravissimo: alcuni religiosi avevano dipinto

San Marco sopra un stendardo, et al piede di esso per dispregio vi poseno una tela con una
Aquila dipinta e gridava [sic] viva San Marco, prendendo delle persone di questo stato, et con mi-
nacce volevano, che rinegasse il Re12.
9
Su tali questioni, si vedano F. Seneca, La politica veneziana dopo l’Interdetto, Padova, Liviana, 1957, pp. 139-174;
E. Stumpo, «Gli aiuti finanziari di Venezia al duca Carlo Emanuele I di Savoia nella guerra contro la Spagna (1616-
1617)», Rassegna degli Archivi di Stato, XXXIV (1974), pp. 428-461; A. Bombín Pérez, La cuestión de Monferrato (1613-
1618), Valladolid, Colegio Universitario de Alava, 1975, 186-224.
10
ASMi, C, cart. 1542, fasc. 4, consulta del Senato a Pedro de Toledo, Milano, 30 giugno 1617; RCS, s. XVI, lib.
16, f. 160r, il de Toledo al Senato, dal campo presso Vercelli, 5 luglio 1617.
11
Ibid., RCS, s. XVI, lib. 16, ff. 191v e 237v, il Toledo al podestà di Lodi e al cardinale Gaspar de Borja, Pavia, 3
ottobre 1617 e Milano, 7 febbraio 1618.
12
Ibid, f. 182, il Toledo al cardinale Borja, Milano, 6 settembre 1617. Il governatore chiese al Borja di ottenere
dal papa l’aggregazione del convento di Castelleone alla Provincia di Milano e l’espresso divieto a che nessun forestiero
potesse avere mansioni direttive negli enti regolari dello Stato.

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La valenza simbolica del gesto di inneggiare al patrono della Serenissima, di cui i religiosi
erano originari, è una piccola, ma eloquente testimonianza di un ambiente conventuale per nulla
lontano dagli affanni mondani, dove i conflitti politici dell’epoca erano motivo di divisione e
di contrasto. Simili fatti contribuivano a dare corpo ai peggiori timori dei ministri regi circa la
fedeltà del clero che non era nato suddito del re cattolico. Per ovviare alla situazione di tensione
all’interno del convento di Castelleone, nel 1624, le autorità spagnole ottennero da papa Urbano
VIII che esso, insieme agli altri due conventi dei frati minori situati nello Stato di Milano, a Ro-
becco e a Calvatone, fosse staccato dalla provincia bresciana ed aggregato a quella milanese13.
Nella difficile situazione creata dalla guerra dei Trent’anni la libera circolazione di uomini
all’interno di Ordini e Congregazioni divenne sempre più motivo di preoccupazione per i poteri
laici della Penisola italiana. Vi era, infatti, il timore che ecclesiastici nati sudditi di altri principi,
rispetto a quelli nei cui domini vivevano e operavano, potessero costituire i terminali per attività
di spionaggio o rappresentare elementi di destabilizzazione interna grazie all’esercizio della predi-
cazione, della confessione e, più in generale, delle attività pastorali ed educative che ai rispettivi
Ordini e Congregazioni facevano capo14.
Nel 1635, l’ingresso in guerra della Francia a fianco delle forze protestanti contro lo schie-
ramento ispano-imperiale, sommato alla scarsa sintonia tra la corte di Madrid e il papato bar-
beriniano, fecero inevitabilmente aumentare l’attenzione dei rappresentanti del re cattolico nei
territori italiani nei riguardi del tessuto degli Ordini religiosi. Nel settembre 1635, nello Stato di
Milano sottoposto all’invasione delle forze francesi, il governatore, cardinale Gíl de Albornoz, di-
spose l’espulsione di due frati piacentini, tre romani e un piemontese del convento di Santa Maria
del Carmine di Pavia, in quanto rei di avere sparlato del sovrano. Questa decisione fu seguita,
pochi giorni dopo, da un’ordinanza dell’Albornoz ai podestà delle città dello Stato, nella quale
rendeva noto come i religiosi forestieri che risiedevano nei conventi lombardi attendessero a «cose
molto contrarie al servitio di Sua M.tà et alla quiete di questi suoi fedelissimi vassalli» e stabiliva
l’espulsione, in quanto «diffidenti della Real Corona di Sua M.tà», dei religiosi francesi, sabaudi e
parmensi, vale a dire sudditi dei tre principi le cui armate avevano invaso lo Stato. Ai podestà era
affidato il compito di esercitare pressioni sui superiori di conventi e monasteri affinché monaci e
frati in questione fossero immediatamente allontanati15.
Che le esigenze politiche avessero un rilievo fondamentale nell’atteggiamento verso i religiosi
è dimostrato da un altro esempio, di tipo speculare a quelli sin qui esposti: nel dicembre 1634,

13
Ibid., lib. 18, f. 69r, il duca di Feria al podestà di Castiglione, Milano, 2 marzo 1624.
14
In questo senso vanno anche alcuni elementi frammentari, emersi dalle denunce anonime alle autorità della Re-
pubblica di Genova, riferiti da E. Grendi, Lettere orbe. Anonimato e poteri nel Seicento genovese, Palermo, Gelka ed., 1989,
pp. 69-71.
15
ASMi, RCS, lib. 22, ff. 16v-17 e 29r, il cardinale Albornoz al podestà di Pavia e ai podestà dello Stato, Milano, 17
e 25 settembre 1635. Altri provvedimenti relativi all’allontanamento dallo Stato di un religioso del convento di Casteggio
originario di Biella, nel Ducato di Savoia, e del cellario del monastero di S. Salvatore di Pavia nei dispacci del grancancel-
liere Antonio Briceño Ronquillo ai podestà di Tortona e Pavia, Milano, 31 ottobre 1635 e 13 marzo 1636, ibid., ff. 29r
e 47r. Sull’invasione del 1635-1636, si vedano F. Catalano, «La fine del dominio spagnolo», in Storia di Milano, vol. XI,
Il declino spagnolo (1630-1706), Milano, Fondazione Treccani degli Alfieri, 1958, pp. 61 e 63 e O. Poncet, «La Francia
di Luigi XIII e la questione della Valtellina (1619-1639)», in La Valtellina crocevia dell’Europa. Politica e religione nell’età
della guerra dei Trent’anni, a cura di A. Borromeo, Milano, Editoriale Giorgio Mondadori, 1998, pp. 73 e 75.

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l’ambasciatore di Filippo IV a Genova, Francisco de Melo, segnalò al suo omologo a Roma, il


marchese di Castel Rodrigo, che il vicario dell’appena defunto inquisitore di Genova, il dome-
nicano Vincenzo da Serravalle, era suddito di Sua Maestà. Considerando che la città era luogo
di continuo passaggio di truppe e persone spagnole, conveniva «en los combentos y dignidades
eclesiasticas [...] tener vasallos del rey». Pertanto il de Melo suggerì d’informarsi presso il com-
missario generale del Sant’Ufficio se non fosse possibile favorire la nomina a inquisitore del frate
in questione16.
Il ricorso a decreti di espulsione nei riguardi degli ecclesiastici non sudditi della corona e
che erano per giunta sospetti di simpatie per la Francia divenne una prassi comune nell’Italia
spagnola. A Napoli, nel novembre 1635, le autorità di governo ordinarono di espellere dal Re-
gno il domenicano Michele Mazzarino, fratello di Giulio –allora nunzio papale straordinario a
Parigi– vietandogli espressamente di prendere possesso dell’incarico di provinciale pugliese del
suo Ordine in quanto «come fratello di Mazzarini, riputato tutto d’affetto e del partito francese,
potrebbe sovvertir tutta la provincia»17. Peraltro il frate si consolò con la nomina a vicario della
provincia romana, dei domenicani, ottenuta grazie al cardinale Antonio Barberini, trampolino di
lancio per una carriera curiale che lo vide maestro del Sacro Palazzo (1643-1645), arcivescovo di
Aix e, infine, cardinale (1647)18.
Sempre a Napoli, nel febbraio 1636, le disposizioni del vicerè circa l’espulsione dal Regno di
tutti i sudditi dei duchi di Savoia e di Parma che, alleatisi alla Francia, avevano invaso lo Stato di
Milano, provocarono l’intervento del nunzio affinché nel bando non fossero compresi gli eccle-
siastici. Il vicerè, conte di Monterrey, rispose affermando di applicare quanto avevano già fatto i
nemici del suo re e dolendosi «che dalle trattazioni de’ frati sia provenute e procedano le maggiori
turbolenze». Tuttavia acconsentì alla proposta del nunzio che i frati «sotto altro pretesto» venisse-
ro richiamati dai «capi delle lor religioni»19.

16
AHNM, E, leg. 1264, Francisco de Melo al marchese di Castel Rodrigo, Genova, 13 dicembre 1634.
17
Il residente veneziano Zuanne Ambrogio Sarotti al Senato, Napoli, 6 novembre 1635, in Corrispondenze diploma-
tiche veneziane da Napoli. Dispacci, vol. VII, 16 novembre 1632 - 18 maggio 1638, a cura di M. Gottardi, Roma, Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato, 1991, doc. 374, pp. 315-316. Cfr. R.P. Mortier, Histoire des maitres généraux de l’Ordre des
frères prêcheurs, t. VI, Paris, Alphonse Picard et Fils, 1913, p. 408, il quale non si sapeva spiegare le ragioni della mancata
presa di possesso dell’ufficio di vicario provinciale della Puglia al quale il Mazzarino fu nominato nel maggio 1635 (all’in-
carico, seppure riferito al 1636, accenna anche P. Masetti, Monumenta et antiquitates veteris disciplinae Ordinis Praedicato-
rum, vol. II, Romae, Ex Typographia Rev. Cam. Apostolica, 1864, p. 142). Da parte sua, il dispaccio del residente Sarotti
parlava della carica di provinciale della Sicilia. La qual cosa non era possibile, poiché, stando alla serie dei vicari provinciali
della Sicilia redatta da M. A. Coniglione, La Provincia domenicana di Sicilia. Notizie storiche documentate, Catania, Tip.
Strano Francesco, 1937, pp. 433-434, tale incarico fu ricoperto, negli anni 1632-36, dal palermitano Placido Piola. Per
quanto riguarda Giulio Mazzarino, a quell’epoca semplice prelato e nunzio straordinario a Parigi, ma di cui erano già noti
gli stretti legami con la corte francese, si veda P. Goubert, Mazzarino, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 34-39.
18
Michele Mazzarino ottenne la porpora cardinalizia da papa Innocenzo X, presso il quale svolse anche incarichi
diplomatici per conto del re di Francia. I dati sulla sua carriera sono tratti da: Masetti, Monumenta et antiquitates, cit.,
vol. II, pp. 141-143; I. Taurisano, Hierarchia Ordinis Praedicatorum, Roma, Unio Typographica Manuzio, 1916, p. 57
e Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, vol. IV, Monasterii, Sumptibus et Typis Librariae Regensbergianae, 1935,
pp. 29 e 89. Cfr. anche Mortier, Histoire des maitres généraux, cit., vol. VI, pp. 407-408 (con dati ulteriori nelle pagine
seguenti).
19
Il residente veneziano Sarotti al Senato, Napoli, 25 febbraio 1636, in Corrispondenze diplomatiche veneziane da
Napoli. Dispacci cit., vol. VII, doc. 402, pp. 331-332.

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Viceversa poteva accadere che ragioni politiche consigliassero di considerare come sudditi del
re cattolico religiosi in realtà originari di terre di principi alleati. Nel 1638, infatti, i frati minori
osservanti dei conventi di Bardi e Compiano fecero ricorso al governatore di Milano, dichiarando
che, sebbene facessero parte della provincia di Genova del loro Ordine, erano esclusi dalle cariche
di governo conventuali, in quanto non sudditi di quella Repubblica; ora anche all’interno dei
conventi dello Stato di Milano –anch’essi parte della medesima provincia– si cercava di escludere
i frati originari di Bardi e Compiano, con la scusa che fossero sudditi di un feudatario imperiale.
Anche grazie all’appoggio del loro signore, il principe Giovanni Andrea II Doria, i frati ottennero
l’emanazione di un’ordinanza del governatore in cui venivano dichiarati «nativi» dello Stato di
Milano, così da potere accedere a mansioni di governo nei conventi lombardi20.
Nel novembre 1638 il Senato suggerì l’espulsione dallo Stato di Milano di tutti i religiosi
forestieri21. Non volendosi però dare corso a una misura di tale rigore, si proseguì nell’azione di
sorveglianza sulle attività dei religiosi. Nell’agosto 1640, dopo che erano stati espulsi dallo Stato
alcuni frati «difidenti» del sovrano con l’accusa di spionaggio, le autorità appuntarono la propria
attenzione sulle azioni sospette di due francescani genovesi giunti nel convento di Bernardino
di Alessandria per preparare il prossimo capitolo provinciale. Costoro si resero sospetti per i
frequenti viaggi nel Monferrato, per aver fatto entrare frati forestieri nel convento alessandrino
e per un atteggiamento ostile nei confronti dei confratelli lombardi. Per giunta i due religiosi
erano stati inviati nello Stato dal provinciale Evangelista da Genova, la cui nomina effettuata dal
generale dell’Ordine non era stata riconosciuta dal re cattolico e quindi i suoi atti erano giudicati
nulli per quanto riguardava i conventi dello Stato di Milano22.

2. Il problema finanziario

Un altro motivo di preoccupazione delle autorità statuali che si fece strada –come dimostrano
le annotazioni di Sarpi sin dai primi del Seicento– fu di ordine economico-finanziario, dal mo-
mento che all’interno degli Ordini e delle Congregazioni religiose circolavano liberamente non
solo persone ma anche beni e denaro. Infatti a causa delle esigenze finanziarie connesse alle guerre
in atto, i principi della Penisola cominciarono ad attuare misure restrittive volte a impedire che le
risorse ecclesiastiche dei rispettivi territori fluissero verso Roma o verso enti posti in altri territori.
I divieti delle autorità laiche all’invio di denaro al di fuori dei confini territoriali si saldarono
peraltro ai frequenti contrasti interni alle Congregazioni circa la ripartizione delle tasse da versare
alla Santa Sede e dei prestiti contratti per soccorrere i monasteri in difficoltà. Ad esempio, negli
anni 1636-1639, i monasteri toscani della Congregazione camaldolese di San Michele di Mu-

20
ASMi, C, cart. 1706, memoriale dei frati minori osservanti al governatore e lettera di Giovanni Andrea II Doria al
marchese di Leganés, Genova, 25 agosto 1638; ibid., cart. 1693, ordine del governatore (a stampa), s.l., 26 settembre 1638.
21
Ibid., cart. 1542, fasc. 6, consulta del Senato al marchese di Leganés, Milano, 27 novembre 1638. Vi erano peral-
tro misure intermedie rispetto all’espulsione, come il divieto di visita dei conventi da parte dei superiori: nella primavera
del 1637, ad esempio, il provinciale genovese dei cappuccini, Vincenzo da Genova, si recò a Milano per ottenere dal
governatore la revoca del divieto a visitare i conventi lombardi dipendenti dalla provincia genovese: Codice diplomatico
dei cappuccini liguri 1530-1900, a cura di Z. Molfino, Genova, Tipografia della Gioventù, 1904, p. 60.
22
ASMi., RCS, s. XVI, lib. 24, ff. 59v-60r, il Consiglio segreto al podestà di Alessandria, Milano, 28 agosto 1641.

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rano protestarono presso il granduca contro l’obbligo di partecipare alla ripartizione degli oneri
relativi ai censi stipulati dai monasteri della provincia veneta: da tale controversia scaturirono i
ricorsi alla Santa Sede avanzati tanto dal Granducato, quanto dalla Serenissima23. Da parte sua, il
governo della Repubblica di Venezia ricorse, in almeno due casi, ai controlli sulla contabilità delle
di Ordini e Congregazioni: una prima volta, nel 162624 e quindi nel 1642. In questa occasione,
con una «parte» del giugno 1642, il Senato veneziano affermò di agire in considerazione dell’im-
poverimento degli enti religiosi, specialmente di quelli che erano stati maggiormente dotati dalla
pietà dei sudditi, dovuto, secondo le denunce di zelanti religiosi

alla perniciosa libertà che si prendono i loro superiori, nel mandar fuori dallo Stato il danaro delle
loro rendite, che doveria essere impiegato a beneficio, ed ornamento delle chiese, e degli altari, a
sollievo de’ poveri, e decente commodo delle Religioni stesse.

Pertanto, al fine di eliminare i disordini e di ricondurre le istituzioni religiose «all’antica


dignità e decoro delle loro fondationi», il Senato stabilì che s’intimasse ai superiori di Ordini e
Congregazioni l’ordine di presentare entro quindici giorni una nota di tutto ciò che, a qualun-
que titolo, essi inviavano fuori dal territorio della Serenissima, con l’indicazione delle date, delle
cause e dei titoli relativi a ogni uscita di tale genere. Punto importante, la «parte» disponeva che i
superiori avrebbero dovuto astenersi dall’inviare denaro al di fuori della Repubblica, senza previo
consenso del Senato, sotto pena dell’esilio perpetuo. Infine tutti i religiosi con mansioni di gover-
no, al termine dei rispettivi incarichi, avrebbero dovuto presentare alle autorità copia autentica
dei conti relativi all’amministrazione finanziaria delle loro istituzioni, perché fossero rivisti25.
Tale misura di protezionismo finanziario che troncava alla radice il diretto legame fra le istitu-
zioni religiose venete, da un lato, e la Camera apostolica, gli Ordini e le Congregazioni, dall’altro,
mise in allarme la Curia papale. La notizia della proibizione filtrò a Roma che ne chiese conto
al nunzio papale, Francesco Vitelli, arcivescovo di Tessalonica. Questi era stato tenuto all’oscuro
di tutto: nel suo rapporto al cardinale Francesco Barberini, egli riferì di aver subito rimproverato
l’abate del monastero di San Giorgio in Alga il quale si era difeso affermando che l’ordine delle
autorità era stato impartito a tutti gli Ordini e che, da parte sua, aveva ritenuto che il nunzio ne
sarebbe stato comunque informato. D’altra parte, l’abate affermò che una simile disposizione era
stata emanata in altre tre occasioni, senza però trovare esecuzione26. Il Vitelli ridimensionò la por-
tata della vicenda, anche a propria parziale discolpa, sottolineando come non fosse stato espressa-
mente vietato di corrispondere denaro a Roma. Il provvedimento delle autorità era legato, a suo
parere, al timore di sottrazioni indebite da parte dei superiori, timore del quale i governanti erano
«imbevuti da gl’istessi frati, che si rubbi sotto tale pretesto di mandarli a Roma». Inoltre il nunzio
sostenne che l’intervento del Senato fosse stato causato dai contrasti relativi all’affitto dei beni
23
Fantappiè, Il monachesimo moderno, cit., pp. 125-127.
24
F. Trolese, «L’Abbazia di S. Giustina di Padova durante il secolo XVIII», in Settecento monastico italiano. Atti del
I Convegno di studi storici dell’Italia Benedettina, Cesena 9-12 settembre 1986, a cura di G. Farnedi e G. Spinelli, Cesena,
Badia di S. Maria del Monte, 1990, p. 175.
25
BAV, Barb. lat. 7725, doc. 28, «parte» del Senato veneziano (copia allegata alla lettera del nunzio del 9 agosto
1642), Venezia, 14 giugno 1642.
26
Ibid., doc. 70-71-72, il nunzio Francesco Vitelli al cardinale Francesco Barberini (decifrata), Venezia, 19 luglio 1642.

558
NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

del monastero cassinese di Sante Giustina di Padova e dalla «persecutione» condotta da Giovanni
Basadonna contro l’abate del monastero camaldolese di San Michele, «per mala volontà che ha
contro Religiosi» oppure perché, in quanto membro della magistratura veneziana sulle decime,
gli sarebbe spettato il compito di esaminare i rendiconti della contabilità degli Ordini «e così
cavarne regali de frati». Il rappresentante pontificio concludeva con una riflessione sulla risposta
della Santa Sede: tacendo, si sarebbe avallata l’intrusione del potere laico negli affari finanziari
degli Ordini religiosi, ma al contempo, come altre volte, la questione avrebbe potuto cadere
nell’oblio. Qualora la Curia avesse reagito ufficialmente, avrebbe mostrato interesse, finendo per
«tanto più comovere il cattivo humore con poca speranza di evacuarlo». Il cuore del problema,
sottolineava il nunzio, era che «il male è inter nos, et intrinseco ne Religiosi fatti cattivi, che dif-
ficilmente si può sradicare»27.
Nell’agosto 1642 il Vitelli riferì a Roma che il governo veneziano pensava di stabilire che
Ordini e Congregazioni pagassero solo le imposizioni fiscali decise dai pontefici a istanza della
Repubblica, ma non altre. Ancora una volta era all’interno del clero regolare che il nunzio vedeva
l’origine dei problemi: a motivare o addirittura a sollecitare i provvedimenti governativi erano
gli stessi ecclesiastici –fra i quali spiccavano quelli San Giorgio in Alga e i canonici lateranensi
della Carità– in modo da sottrarsi «con questa coperta» all’obbligo di versare le tasse dovute alla
Camera apostolica. Pertanto egli giudicava indispensabile che la Curia papale compiesse un passo
sui superiori degli Ordini28. Il tentativo di spezzare il legame finanziario, elemento fondante del
tradizionale rapporto fra Santa Sede e tessuto ecclesiastico, specialmente per quanto riguardava
le Dodici Congregazioni monastiche, rischiava di originare una serie di conseguenze assai gravi:
attese le disposizioni delle autorità veneziane, le altre province della Congregazione di San Gior-
gio in Alga, che era impegnata nel suo insieme a corrispondere le imposizioni dovute alla Camera
apostolica, erano costrette a far fronte anche alla quota dei monasteri veneti29. Alla fine prevalse
nei vertici della Serenissima l’esigenza di mantenere buoni rapporti con la Santa Sede in una
fase nella quale il quadro politico italiano appariva particolarmente serio: il nunzio poté quindi
tranquillizzare la Curia che le Congregazioni monastiche erano intenzionate a versare il dovuto
alla Camera apostolica30.
Tuttavia ciò non impedì che la Congregazione camaldolese fosse costretta a inviare presso i
monasteri veneti due abati al fine di costringerli a pagare le quote arretrate delle tasse dovute alle
casse comuni, a loro volte in debito con la Camera apostolica. La missione però fallì e la Congre-
gazione ottenne dal papa la temporanea chiusura di tre monasteri, delle tre province più indebita-
te (Toscana, Romagna e Marca), e la messa in vendita dei loro beni31. Inoltre, poiché i monasteri

27
Ibid.
28
Ibid., doc. 3-4, il Vitelli al Barberini, Venezia, 2 agosto 1642. Pochi giorni dopo, nell’inviare al cardinal nipote
copia della «parte» del giugno precedente, il nunzio tornava a segnalare l’esistenza di dissensi all’interno dei regolari: ibid.,
doc. 27, Venezia, 9 agosto 1642. Cfr. anche l’accenno alla vicenda in A. Barzazi, «Introduzione», in I consulti di Fulgenzio
Micanzio. Inventario e regesti, a cura di A. Barzazi, Pisa, Giardini, 1986, p. XXXVII. Sui meccanismi della fiscalità papale
nei riguardi delle Dodici Congregazioni, si veda Giannini, L’oro e la tiara, cit.
29
Fantappiè, Il monachesimo moderno, cit., pp. 100-101.
30
BAV, Barb. lat. 7728, doc. 17, il Vitelli al Barberini (decifrata), Venezia, 10 gennaio 1643.
31
G. B. Mittarelli - A. Costadoni, Annales camaldulenses, t. VIII, Venetiis, Aere Monasterii Sancti Michaelis de
Muriano, 1764, pp. 332-333.

559
Massimo Carlo Giannini

veneti non pagavano da cinque anni quanto dovevano alla «publica Cassa» della Congregazione,
una dieta tenutasi a Ravenna nel 1643 alla presenza del cardinale protettore Luigi Capponi stabilì
che finché essi non avessero versato il dovuto si dovessero allontanare dalle province toscana, ro-
magnola e marchigiana i professi «di Natione Venetiana». Tale decisione, confermata da un breve
papale, provocò la dura reazione della Serenissima che espulse i monaci originari del Granducato
di Toscana e dello Stato della Chiesa32.

3. Questioni di confini

Accanto alle misure di espulsione dei religiosi non ‘naturali’, ai tentativi di ottenere la nomina
di superiori ‘naturali’ e ‘confidenti’, cioè di provata lealtà al proprio sovrano, e ai divieti in mate-
ria finanziaria, i principi seguirono un’altra strada per assicurarsi un certo grado di controllo sul
mondo dei religiosi: promossero la costruzione di province dei diversi Ordini e Congregazioni
che ricalcassero il più possibile i confini politici esistenti. L’idea era ampiamente condivisa nelle
diverse realtà statuali italiane. A Venezia Fulgenzio Micanzio scrisse, in un parere del 1646 per il
governo della Serenissima, che l’unica soluzione ai tanti problemi e conflitti, originati dal fatto
che «li regolari suono misti con li esteri» sarebbe stato «il separar questi conventi dello Statto, si
ché tra loro constituissero una provincia e si creassero il loro superiori»33. Le stesse rivalità che
agitavano il mondo dei religiosi potevano fungere da stimolo all’intervento dei sovrani: emblema-
tica è la lettera che diversi monaci toscani della Congregazione agostiniana di Lecceto inviarono
al granduca di Toscana nella primavera 1644, lamentando la «novità» costituita dalla decisione
superiori della Congregazione di nominare vicari generali forestieri che non sarebbero stati scelti
dai vocali34.
Tale processo di ‘territorializzazione’ della presenza degli Ordini religiosi negli Stati della Pe-
nisola seguì un percorso assai lento e per nulla lineare che assunse forme e caratteristiche diverse a
seconda delle situazioni, degli Ordini coinvolti e delle politiche seguite dai sovrani. Ad esempio,
nel caso dei vallombrosani, il cui principale monastero si trovava nel Granducato di Toscana, la
dinastia medicea si limitò ad accrescere il tradizionale controllo politico ed economico da essa
esercitato sull’intera Congregazione, grazie anche al succedersi di propri esponenti nel ruolo di
cardinale protettore35.
Infatti a rendere assai complessa questa strategia vi era non solo il problema di eventuali oppo-
sizioni interne agli Ordini, ma anche l’esigenza di ottenere l’autorizzazione papale a creare nuove
province. Ad esempio, nel maggio 1641, in vista del capitolo generale dell’Ordine agostiniano,
il residente sabaudo a Roma, Giovanni Battista Gino, chiese al cardinale protettore Giovanni
Battista Pallotta, il ripristino del noviziato nel convento torinese di San Carlo degli agostiniani
scalzi, e gli sottopose la richiesta della reggente, affinché i conventi piemontesi fossero costituiti
32
ASFi, ABE-SRD, vol. 33, f. 364r, l’abate generale della Congregazione camaldolese all’auditore dei benefici eccle-
siastici del Granducato di Toscana, Faenza, 4 aprile 1644.
33
Barzazi, «Introduzione», cit., p. XVIII.
34
ASFi, ABE-SRD, vol. 33, f. 323, memoriale s.d., ma anteriore al 1 aprile 1644.
35
Fantappiè, Il monachesimo moderno, cit., pp. 131-136 e U. Zuccarello, I Vallombrosani in età postridentina (1575-
1669). Tra mito del passato e mancate riforme, Brescia, Morcelliana, 2005.

560
NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

in provincia autonoma, i cui superiori fossero sudditi sabaudi o pontifici, e dipendessero diret-
tamente dal cardinale protettore o dal priore generale. Il Pallotta rispose che l’erezione di una
provincia piemontese degli agostiniani scalzi era impossibile, non essendovi il numero sufficiente
di conventi richiesto dalle Costituzioni dell’Ordine. A parziale soddisfazione dei desideri della
reggente, il cardinale fece tuttavia nominare un provinciale di propria fiducia36. Nonostante un
nuovo tentativo compiuto l’anno seguente per strappare l’assenso del papa, solo con il capitolo
generale del 1656, il Pallotta riuscì a ottenere che i conventi agostiniani scalzi del Ducato sabaudo
fossero staccati dalla provincia di Genova per divenire una provincia autonoma37.
Tali pratiche ponevano numerosi problemi e, soprattutto, richiedevano tempi di attuazione
per nulla brevi. Esemplare è la vicenda relativa alla trasformazione della provincia lombarda dei
cappuccini in un’entità coincidente con i confini dello Stato di Milano. Nel giugno 1633, il gover-
no municipale della città di Milano inviò a Roma una denuncia circa le manovre della provincia di
Genova dell’Ordine dei frati minori cappuccini. Destinatario della richiesta d’intervento, tramite
l’avvocato concistoriale ambrosiano Girolamo Melzi, era il cardinale Antonio Barberini senior,
fratello del pontefice e protettore dell’Ordine del quale era per giunta membro. I frati genovesi
miravano a ottenere dal capitolo generale l’aggregazione del convento di Pavia alla provincia ligure,
staccandolo da quella milanese, con la motivazione che esso doveva tornare a far parte della pro-
vincia di cui faceva parte fino al 1619 e che esso avrebbe consentito di sostentare gli altri conventi
lombardi della provincia genovese38. Secondo le autorità cittadine milanesi –che si facevano soste-
nitori delle istanze dei cappuccini dello Stato– la provincia ambrosiana era già stata sin troppo pe-
nalizzata («impoverita, e ristretta») dai due precedenti rimaneggiamenti della suddivisione geogra-
fica dell’Ordine. Infatti quarant’anni prima, i conventi di Caravaggio, Soncino, Rivolta e Treviglio,
situati in quella parte di territorio lombardo che era sotto il dominio della Repubblica di Venezia,
erano stati uniti alla provincia di Brescia, mentre nel 1619, dopo laboriosi negoziati, Paolo V aveva
concesso al duca di Savoia di staccare dalla provincia di Milano i conventi di Ivrea, Biella e Vercelli
nel quadro della creazione della nuova provincia piemontese39. Le mire dei cappuccini di Genova
sul convento di Pavia risultavano tanto più inaccettabili in quanto, oltre all’ulteriore riduzione del

36
ASTo, Sez. Ia, Materie politiche, Lettere di ministri, Roma, m. 53, fasc. 1, doc. 24 e 27, Giovanni Battista Gino alla
duchessa Cristina, Roma, 9 maggio e 6 giugno 1641.
37
Ibid., doc. 53, Giovanni Battista Gino alla reggente, Roma, 15 febbraio 1642; ibid., Materie politiche, Lettere di
cardinali, m. 16, il cardinale Pallotta al cardinale Maurizio di Savoia, Roma, 26 giugno 1656.
38
Archivio Storico Civico di Milano, Dicasteri, cart. 40, il vicario di Provvisione e i conservatori del Patrimonio
a Girolamo Melzi e al cardinale Barberini, Milano, 1 giugno 1633. Le motivazioni presentate dai cappuccini genovesi
sono desunte dal memoriale da essi inviato al papa, maggio-giugno 1633, edito in F.S. Melfino, I cappuccini liguri, vol.
V, Codice diplomatico, Genova, Scuola Tipografica Derelitti, 1937, pp. 295-296.
39
Sulla lunga vertenza, iniziata nel 1612, fra Carlo Emanuele I di Savoia, la Santa Sede e l’Ordine cappuccino
che avrebbe portato sette anni dopo alla nascita della provincia piemontese, cfr. Z. Molfino, «Introduzione», in Codice
diplomatico dei cappuccini liguri, cit., pp. XXVIII-XXXII e Erba, La Chiesa sabauda, cit., pp. 389-391. All’origine del-
l’operazione vi era stata l’inquietudine del duca per le attività di cappuccini di dubbia lealtà nelle importanti piazze di
confine di Vercelli ed Ivrea: istruzioni del duca al vescovo di Moriana, inviato in missione straordinaria a Roma, febbraio
1619, in E. Passamonti, «Le “Instruttioni” di Carlo Emanuele I agli Inviati Sabaudi in Roma con lettere e brevi al Duca
di Savoia dai Pontefici e suoi contemporanei», in Carlo Emanuele I. Miscellanea, Torino, Società storica subalpina, 1930,
pp. 288-289. Si vedano anche le osservazioni, relative a un periodo successivo a quello esaminato, formulate da A. Torre,
«Il vescovo di antico regime: un approccio configurazionale», Quaderni storici, XXXI (1996), pp. 209-213.

561
Massimo Carlo Giannini

peso della provincia ambrosiana, si sarebbe posto un ente ecclesiastico dello Stato di Milano sotto
la giurisdizione di una provincia facente capo a un altro sovrano, la Repubblica di Genova40. Nel
maggio dell’anno successivo, fu il cardinale infante Ferdinando d’Asburgo, all’epoca governatore
dello Stato, a farsi portavoce delle istanze dei cappuccini lombardi sudditi del re cattolico, affinché
il capitolo provinciale che si stava per aprire a Genova nominasse negli uffici di governo dei con-
venti lombardi esclusivamente frati nati in quel territorio41.
In generale l’orientamento dei ministri spagnoli in Italia su tale questione emerge chiaramen-
te da un memoriale trasmesso, nel 1637, dal marchese di Leganés all’ambasciatore a Roma, nel
quale si suggeriva di

procurare di unire tutti li Conventi de Religiosi, sotto una provincia sola da formarsi nello stato
di Milano lasciando che tutti li altri conventi de Principi vicini restino nelli loro stati, in Province
separate dalla sodetta acciò non li habbino li forastieri religiosi così facilmente da contrattare nel
stato per occasione delli loro Capitoli, havendo l’esperienza dimostrato che molti di essi servono per
varij effetti molto contrarij alli loro habiti42.

L’esempio stesso dell’istituzione della provincia cappuccina piemontese, avrebbe dovuto for-
nire l’argomentazione utile a ottenere l’indispensabile assenso papale per un analogo progetto
relativo a Milano. Tuttavia proprio su questo punto, il documento non nascondeva le difficoltà.
Nel caso specifico dei cappuccini, il predicatore apostolico di Urbano VIII, padre Francesco Di
Negro da Genova, con l’appoggio di Antonio Barberini senior, avrebbe senza dubbio compiuto
ogni sforzo per impedire la separazione dalla provincia genovese dei conventi lombardi da essa
dipendenti43.

40
Archivio Storico Civico di Milano, Dicasteri, cart. 40, lettera cit. del vicario di Provvisione e dei conservatori del
Patrimonio. Nella sua risposta il cardinale Barberini si limitò ad affermare che i padri della provincia milanese avrebbero
potuto sollevare la questione nel capitolo generale dell’Ordine: ibid., Roma, 22 giugno 1633. Sulla figura di Antonio
Barberini senior, fratello di Urbano VIII, cardinale di Sant’Onofrio, quale protettore dell’Ordine dei frati minori cappuc-
cini, si veda M.C. Giannini, «Politica curiale e mondo dei regolari: per una storia dei cardinali protettori nel Seicento»,
in Religione, conflittualità e cultura. Il clero regolare maschile nell’Europa d’antico regime, a cura di M.C. Giannini, Cheiron,
nn. 43-44 (2005), pp. 241-302.
41
ASMi, RCS, s. XVI, lib. 21, f. 81r, il cardinale infante a Francisco de Melo, ambasciatore a Genova, Milano, 9
maggio 1634.
42
AHNM, E, lib. 92, «Papel de los inconvenientes que resultan de aver dentro del estado de Milan Religiosos que no
son Vassallos de SM.d», allegato alla lettera del marchese di Leganés all’ambasciatore a Roma, Milano, 25 marzo 1637.
43
Ibid. Francesco Di Negro, entrato nei cappuccini nel 1597, dal 1623 al 1638 fu predicatore apostolico di papa
Urbano VIII; ricoprì inoltre la carica di procuratore generale dell’Ordine cappuccino dal 1625 al 1638 che governò
in qualità di vicario generale dal settembre 1632 al maggio 1633; morì nel 1650 a Genova. Legato al confratello
Antonio Barberini senior che ne aveva favorito la nomina a procuratore generale e a predicatore apostolico, il Di
Negro sostenne, a sua volta, la scelta del porporato quale nuovo protettore dell’Ordine consentendogli di avere la
meglio sull’altro candidato, Francesco Barberini: Pellegrino da Forlì, Annali dell’Ordine dei frati minori cappuccini,
vol. II, Milano, Tipografia di S. Giuseppe, 1883, pp. 231-234; Molfino, «Introduzione», cit., p. XXXV; Lexicon ca-
puccinorum. Promptuarium historico-bibliographicum Ordinis fratrum minorum cappucinorum (1525-1950), Romae,
Bibliotheca Collegii Internationalis S. Laurentii Brundusini, 1951, coll. 624-625; Monumenta Historica Ordinis
Minorum Capuccinorum, vol. VIII, Litterae circulares superiorum generalium Ordinis fratrum minorum capuccinorum
(1548-1803), in lucem editae a M. Pobladura, Romae, Institum Historicum Ordinis Fratrum Minorum Capucino-
rum, 1960, pp. 60-61.

562
NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

La questione si arenò durante tutto il pontificato barberiniano, segno inequivocabile della


mancanza di volontà da parte pontificia di consentire a una soluzione che avrebbe favorito il
controllo della corona asburgica sui cappuccini dello Stato di Milano. Solo nell’ottobre 1656,
papa Alessandro VII emetteva un breve con cui, andando incontro alle richieste del generale
dei cappuccini, univa alla provincia milanese dieci conventi situati nel territorio lombardo sotto
l’autorità del re cattolico (Alessandria, Tortona, Valenza, Voghera, Castelnuovo Scrivia, Finale,
Castellazzo, Cassine, Serravalle e Varzi). Il papa stabiliva, però, che gli ultimi quattro e, in caso
la situazione l’avesse richiesto anche il convento di Finale, venissero abbandonati a causa del loro
misero stato e lasciati alla giurisdizione degli ordinari della zona44. La concessione papale non
chiuse tuttavia la vicenda che si trascinò per tutta la seconda metà del secolo, a causa dei contrasti
che essa suscitò sia all’interno dell’Ordine sia tra i sovrani interessati.

4. Gli anni delle rivolte

Per quanto riguardava la Monarchia cattolica, una spinta all’adozione di misure volte a ga-
rantire un maggior controllo sul mondo dei religiosi venne dalle rivolte del 1640 in Catalogna e
in Portogallo. Nel caso lusitano, vi fu una notevole campagna di sensibilizzazione delle coscien-
ze, soprattutto tramite i sermoni nelle chiese, a sostegno della secessione dalla Monarchia e del
nuovo sovrano45. Ancora più importante risultò il ruolo degli ecclesiastici in Catalogna. Quali
formidabili strumenti di mobilitazione popolare fossero nelle mani del clero emerge chiaramente
dal racconto di uno storico coevo, Luca Assarino, il quale narrò come i deputati della Generalitat
e i consiglieri municipali di Barcellona

doppo varie, e secretissime Consulte, tenute sovra la maniera con cui doveano persuadere l’uni-
versità de’ Popoli, accordarono di far che alcuni Predicatori de i più eloquenti esagerassero con
buona occasione su i pulpiti, quant’era iniquo il procedere de’ Soldati Regij, quanto detestabili i
loro costumi, e i lor delitti, e quanto giusto il castigarli, e l’opprimerli. E con questa esclamatione
fecero anche per mezzo di moltissimi confessori spargere un’opinione, che i Castigliani, ed in
particolare i Ministri Regij havessero ordine dal Conte Duca di distruggere ed anientare tutta la
Natione Catalana.

L’apporto del clero di Barcellona alla rivolta non si limitò alla sola dimensione morale e pro-
pagandistica: l’Assarino ricordò infatti che i chierici andavano «con il Breviario non meno che

44
Breve di Alessandro VII al generale dei cappuccini, Roma, 7 ottobre 1656, in Bullarium Ordinis FF. Minorum S.P.
Francisci Capucinorum, variis notis, et scholiis elucubrata a P.F. M. da Tugio, t. II, Romae, Typis Jannis Zempel Austriaci,
1743, p. 333. Cfr. V. Bonari da Bergamo, I conventi e i cappuccini dell’antico Ducato di Milano, Crema, Tipografia S. Pan-
taleone, 1893, p. 25 e A. Chiappini, Annales minorum seu trium Ordinum a S. Francisco institutorum, t. XXX, Florentiae,
Ad Claras Aquas, 1951 pp. 318-319.
45
F. J. Bouza Álvarez, «“Clarins de Iericho”. Oratoria sagrada y publicística en la Restauração portuguesa», Cuader-
nos de historia moderna y contemporánea, VII (1986), pp. 13-31, specialmente pp. 14-16 e A.M. Hespanha, «La “Restau-
ração” portuguesa en los capítulos de las cortes de Lisboa de 1641», in 1640: la Monarquía hispánica en crisis, Barcelona,
Centre d’Estudis d’Història Moderna “Pierre Vilar” - Editorial Crítica, 1992, p. 151.

563
Massimo Carlo Giannini

co’l moschetto a’ corpi di guardia, et a far le sentinelle alle mura» e come «soldati di professione»
presero parte a fatti d’arme46.
Il virus della ribellione, con il suo strascico di contrasti e divisioni, penetrò persino all’interno
delle case e dei collegi catalani della Compagnia di Gesù, al punto che, già nel settembre 1640, il
generale Muzio Vitelleschi dispose che i gesuiti di quella regione

de ninguna manera, ni de palabra ni por escrito, ni en púlpito o conversaciones particulares, se de-


scuyden en cosa que pueda ser de aprobación o fomento del fuego que se a encendido, como sería
decir que al rey se le tiene la debida sugeción, pero que la oposición es con el mal gobierno de los
ministros: estilo y frasi con que han començado todas las rebelliones y tumultos que se saben47.

Il Vitelleschi dovette reiterare tali disposizioni, senza peraltro poter impedire che numerosi
padri appoggiassero il governo ribelle e manifestassero la loro simpatia per la corona di Francia
intervenuta militarmente in Catalogna48. Quale fosse del resto la percezione che il re cattolico e
i suoi ministri avevano del ruolo del clero regolare nelle ribellioni catalana e portoghese risulta
con chiarezza da un dispaccio dell’autunno del 1641, in cui Filippo IV chiedeva al suo inviato
presso la Santa Sede di

tratar con los Generales de las religiones, en orden a hir la mano, y refrenar los procedimentos de los
religiosos de Portugal, y Cathaluña, que con tan grande ofenssa de Dios, y escandalo unibersal de la
Yglesia fomentan la rebelion de mis vasallos y los mantienen en su obstinazion y alevosia.

A tale proposito, il sovrano scrisse ai generali dei domenicani, dei carmelitani e dei gesuiti
affinché inviassero ai rispettivi sudditi disposizioni tassative al riguardo e comminassero severe
censure a quegli ecclesiastici che si fossero immischiati in questioni politiche49. Il Vitelleschi
accolse subito tale richiesta: in un momento in cui si andavano manifestando seri contrasti fra i
gesuiti che sostenevano la politica del conte duca di Olivares, valido di Filippo IV, e coloro che la
criticavano apertamente, il generale ordinò ai padri delle province iberiche di astenersi dall’im-
mischiarsi in «negocios de raçon de estado»50.
Le esperienze catalana e portoghese costituiscono un punto di riferimento indispensabile per
intendere pienamente le mosse delle autorità spagnole in Italia e la crescente diffidenza per le
46
L. Assarino, Delle rivolutioni di Catalogna, Genova, Per Gio. Maria Farroni, 1644, pp. 181, 239 e 251, sul quale
cfr. A. Asor Rosa, Assarino, Luca, in DBI, vol. IV, 1962, pp. 430-433. Sulla predicazione a favore della rivolta in Catalo-
gna, si veda M.R. González Peiró, «Los predicatores y la revuelta catalana de 1640. Estudio de dos sermones», in Primer
Congrés d’Història Moderna de Catalunya. Barcelona, del 17 al 21 de desembre de 1984, vol. II, Barcelona, Universitat de
Barcelona, 1984, pp. 435-443; circa il ruolo più propriamente politico degli ecclesiastici nella rivolta e nella successiva
dedizione alla Francia, E. Zudaire, «En torno a la Revolución catalana de 1640. Notas a una correspondencia inédita»,
Hispania, XI (1951), pp. 71-74. Sulle ragioni dello scontento del clero catalano: J.H. Elliott, The Revolt of the Catalans.
A Study in the Decline of Spain 1598-1640, Cambridge, Cambridge University Press, 19842, pp. 486-487.
47
Il Vitelleschi al provinciale dell’Aragona, Pedro Fons, Roma, 11 settembre 1640, edita in M. Batllori, «Los jesuitas
y la guerra de Cataluña: 1640-1659», Boletín de la Real Academia de la Historia, CXLVI (1960), p. 144.
48
Ibid., pp. 148, 150 e 153-156.
49
Biblioteca Nacional de España, Madrid, ms. 10.984, f. 55v, Filippo IV a Juan de Chumacero, Madrid, 20 set-
tembre 1641.
50
Lettera del Vitelleschi, Roma, 8 agosto 1641, in Batllori, «Los jesuitas y la guerra de Cataluña», cit., p. 145.

564
NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

attività del clero regolare nei decenni successivi. Accanto alla strategia di medio e lungo termine
volta ad adeguare la presenza territoriale degli Ordini religiosi alla realtà geopolitica italiana, i
poteri laici intensificarono il ricorso all’espulsione dei religiosi dai propri domini e l’esercizio di
pressioni sulle varie articolazioni dei singoli Ordini perché eleggessero superiori politicamente
affidabili. Nel gennaio 1641, in vista della celebrazione del capitolo dei frati minori osservanti
della provincia milanese, il grancancelliere Briceño Ronquillo chiese al senatore Cantone di fare
pressioni sul commissario che lo avrebbe presieduto e sui vocali affinché la nomina del nuovo
padre provinciale e degli altri superiori avvenisse per votazione e le persone prescelte fossero «non
solamente nate sudditi, ma confidenti di SM.tà, e ben affette al suo Real Servitio», minacciando
non troppo velatamente di impedire la presa di possesso delle cariche a eventuali elementi sgra-
diti51. Provvedimenti di espulsione furono poi decisi nei riguardi dei religiosi stranieri, fra i quali
alcuni francesi, residenti nel convento dei frati minori osservanti di Sant’Angelo di Cremona.
L’unica soluzione del problema era vista dai ministri regi nel distacco dei due conventi della città
lombarda dalla provincia di Bologna del loro Ordine per aggregarli a quella ambrosiana52.
Misure dello stesso genere furono adottate dal granduca di Toscana il quale, nel 1641 chiuse
la scuola di lingue orientali di Livorno in cui risiedevano francescani stranieri, quindi, nel 1642,
diede disposizioni affinché solo monaci toscani di provata fedeltà potessero venire nominati supe-
riori dei monasteri posti nei suoi domini e infine, l’anno successivo, a causa della guerra, ordinò
l’espulsione dal suo Stato di tutti i religiosi forestieri53. Sulla stessa linea erano anche gli atti dei
vertici del Ducato di Savoia: in occasione del capitolo dei padri trinitari del maggio 1641, il
segretario dell’ambasciata trasmise l’invito della reggente a non nominare nei conventi dei suoi
domini superiori che non fossero «sudditi, e divoti»54.
Nell’autunno del 1642, le autorità di governo dello Stato di Milano sperimentarono un pic-
colo salto di qualità nell’affrontare il problema del controllo dei religiosi. Infatti, il Consiglio
segreto considerando

gli inconvenienti, che risultano al servitio di Sua M.tà dal dissimulare che nelli monasteri, e conventi di
questo Stato vi siano di assento frati, e religiosi forastieri d’ogni natione, molti de quali mal’affetti non
attendono ad altro, che a spiare, scrivere, corrispondersi con nemici, sparlare, e passar mali officij, per
ingelosir il popolo, e che ciò succede alcuna volta ancora sotto la coperta di venir qua a predicare

diede ordine ai podestà delle città di farsi consegnare dai superiori del clero regolare e se-
colare una lista dei predicatori invitati per la Quaresima successiva, e soprattutto un elenco dei

51
ASMi, RCS, s. XVI, lib. 23, f. 14r, il grancancelliere Briceño Ronquillo al senatore Cantone, Milano, 12 gen-
naio 1641
52
Ibid., ff. 14-15r e 28v-29r il grancancelliere al senatore Biumi podestà di Cremona e al cardinale Albornoz, Mila-
no, 18 gennaio e 6 marzo 1641; ibid., lib. 24, f. 86v, il grancancelliere a Juan de Chumacero, Milano, 24 aprile 1641.
53
G. Pizzorusso, «La Congrégation «de Propaganda Fide» et les missions en Italie au milieu du XVIIe siècle», in Les
missions intérieures en France et en Italie du XVIe siècle au XXe siècle. Actes du colloque, Chambéry 18-20 mars 1999, réunis
par C. Sorrel et F. Meyer, Chambéry, Institut d’études savoisiennes - Université de Savoie, 2001, p. 55 e Fantappiè, Il
monachesimo moderno, cit., pp. 128-129.
54
ASTo, Sez. Ia, Materie politiche, Lettere di ministri, Roma, m. 53, fasc. 1, doc. 24, il segretario Giovanni Battista
Gino alla reggente, Roma, 19 maggio 1641.

565
Massimo Carlo Giannini

religiosi stranieri che risiedevano in conventi, monasteri, case e collegi del territorio lombardo,
contenente l’indicazione del nome di ciascuno, del luogo di origine, degli uffici ricoperti e del
periodo di permanenza nello Stato. Infine i podestà avrebbero dovuto assumere informazioni se
alcuno di costoro fosse «mal inclinato al servitio di Sua M.tà»55. Tale operazione di vera e propria
schedatura ante litteram degli elementi potenzialmente pericolosi per la sicurezza interna aveva
lo scopo di fornire gli elementi per procedere, ove necessario, a ulteriori espulsioni e venne
accompagnata dalla disposizione ai superiori dei differenti Ordini di non ammettere da quel
momento in avanti nelle istituzioni sotto la loro direzione, religiosi forestieri senza licenza delle
autorità56. L’assunzione di questo provvedimento non deve meravigliare eccessivamente, ove si
tenga conto che nel corso del Seicento la centralità degli Ordini religiosi e, più in generale, del
clero cattolico nella politica europea si esplicò anche nell’utilizzo da parte dei diversi Stati, forse
in misura maggiore rispetto ad altre epoche, di ecclesiastici in delicate attività diplomatiche, di
spionaggio e di controspionaggio57.
Il campo dell’educazione, soprattutto dei ceti più elevati, nei quali Ordini e Congrega-
zioni erano in vario modo impegnati, ben si prestava a richiamare l’attenzione dei principi.
Particolarmente indicativo è il dibattito che si svolse nel Senato veneziano nel luglio 1642
circa l’affidamento della cura del Seminario dei nobili di Padova ai padri somaschi. A questa
decisione, stando alle informazioni pervenute al nunzio papale, si oppose il procuratore Zeno,
il quale disse

una delle solite sue strambarie, e particolarmente si fondò, che li Somaschi, Giesuiti, e Teatini,
erano stati trovati da gli ecclesiastici per mettere sotto di loro tutti li Principi, e che però facevano il
quarto voto detto cieco di prontamente obedire alla Sede Apostolica; sopra di che si spese al solito
lungamente biasimando, e disapprovando questo voto, chiamandolo insolito, et contro la politica,
et portò l’esempio della Vergine Santissima, che salutata dall’Angelo con l’anuntio della Concettio-
ne non volse prestare il consenso cierco, ma che rispose, quomodo fiet istud, e volse prima sapere il
misterio, che gli si annuntiava.

A sostegno di tale posizione, il procuratore Ponte aggiunse che

due erano le cose che potevano rovinare la Repubblica nelle materie politiche, la confessione, et
l’educatione, et che li sudetti Religiosi in queste ponevano la loro maggiore premura; e perché il
Nani argumentò ad hominem con mostrare molti allievi de somaschi di valore, gl’intaccorono de
vita, d’ignoranza, et di mala volontà, e portorno le cose, che fecero al tempo dell’Interdetto, et in
55
ASMi, C, cart. 1542, fasc. 7, ordine del Consiglio segreto, Milano, 20 ottobre 1642; nello stesso fascicolo si tro-
vano le risposte dei podestà, con gli elenchi nominativi richiesti per le città di Bobbio, Como, Cremona, Lodi, Novara.
56
Ibid., il Consiglio segreto ai podestà (minuta), Milano, 3 novembre 1642.
57
Su questi aspetti, si vedano P. Hildebrand, «Capucins-diplomates au service de l’archiduchesse Isabelle, gouver-
nante des Pays-Bas», Revue d’histoire ecclésiastique, XXXV (1939), pp. 479-508; M.A. Echevarría Bacigalupe, La diplo-
macia secreta en Flandes, 1598-1643, Bilbao, Universidad del País Vasco, 1984, pp. 41-46 e 244-254; P. Preto, I servizi
segreti di Venezia, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 114-116 e 472-476; F. Barcia, Salvatore Cadana. Diplomazia e ragion
di stato alla corte dei Savoia (1597-1654), Milano, Franco Angeli, 1996; F. Rurale, «Il confessore e il governatore: teologi
e moralisti tra casi di coscienza e questioni politiche nella Milano del primo Seicento», in La Lombardia spagnola. Nuovi
indirizzi di ricerca, a cura di E. Brambilla e G. Muto, Milano, Unicopli, 1997, pp. 343-370; Id., «Introduzione», in I
religiosi a corte. Teologia, politica e diplomazia in Antico Regime, a cura di F. Rurale, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 9-50.

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NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

somma cadde la parte pienamente, potendosi intendere da questo il pensiero che vi è nella educa-
tione, et le speranze che possono essere nell’avenire58.

Il fallimento dell’operazione –con la conseguente chiusura dell’Accademia dei nobili di Pado-


59
va – mostra che, in piena consonanza con le idee del Micanzio, l’ostilità di una parte consistente
dell’oligarchia veneziana nei riguardi degli Ordini religiosi –nonostante le significative differenze
che li contraddistinguevano– si fondava sullo stretto rapporto esistente tra questi ultimi e la
Curia papale e sul pericolo che, attraverso l’educazione e la direzione delle coscienze, costoro
minassero le basi della Repubblica.
Un altro caso significativo è quello della guerra di Castro che oppose Urbano VIII e il duca di
Parma e Piacenza Odoardo Farnese. In seguito alla scomunica ricevuta dal papa, il duca decretò,
nel febbraio 1642, che tutti i religiosi forestieri, eccetto quelli nati sudditi della Repubblica di Ve-
nezia, dovessero abbandonare i domini farnesiani. Accadde però che, in obbedienza alle disposi-
zioni giunte da Roma e dai rispettivi Ordini, non pochi regolari parmensi e piacentini lasciassero
i rispettivi conventi e monasteri. Nel timore che il papa scagliasse l’interdetto sui suoi territori,
Odoardo volle che gli abati, priori e superiori, così come i canonici delle cattedrali, i prevosti
delle collegiate e i rettori delle parrocchie, che rimasero la sottoscrizione di un documento in cui
s’impegnavano, nel caso di pubblicazione dell’interdetto, a considerarlo nullo e a continuare gli
uffici nelle chiese e l’amministrazione dei sacramenti ai fedeli60. Sembra che l’iniziativa ducale
di allontanare i religiosi forestieri e di vincolare in qualche misura il clero alla fedeltà al principe
avesse un almeno parziale successo: infatti, dopo la promulgazione dell’interdetto papale, nel
giugno 1643, sui Ducati di Parma e Piacenza, si ebbe una vistosa spaccatura fra i cappuccini (che
facevano capo alla provincia di Bologna)61: mentre i religiosi dei conventi dei centri minori del
Ducato eseguirono le disposizioni giunte da Roma, quelli delle due città si segnalarono per la loro
renitenza, al punto che furono formalmente ripresi dal procuratore generale dell’Ordine, Sim-
pliciano da Milano, poiché non avevano lasciato i territori farnesiani. Da parte loro, le autorità
ducali arrivarono a internare nei conventi urbani i frati che avevano ottemperato alle direttive
pontificie, fra cui lo stesso padre provinciale Prospero da Ferrara, il quale venne poi lasciato libero
di tornare nello Stato della Chiesa, grazie all’intervento a suo favore del duca di Modena62.
Anche i francescani riformati dei tre conventi del Ducato farnesiano si segnalarono per la
loro renitenza ad ubbidire alle disposizioni romane, con la scusa che l’interdetto non era stato
58
BAV, Barb. lat. 7724, doc. 66, il nunzio Francesco Vitelli arcivescovo di Tessalonica al cardinale Francesco Barbe-
rini (decifrata), Venezia, 12 luglio 1642.
59
Circa le vicende dell’Accademia, si veda M. Sangalli, Cultura, politica e religione nella Repubblica di Venezia tra
Cinque e Seicento, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1999, pp. 426-439.
60
C. Poggiali, Memorie storiche di Piacenza, t. XI, Piacenza, Per Filippo G. Giacopazzi, 1763, pp. 274-275.
61
Ibid., pp. 307-308. Del resto la bolla papale di scomunica del duca Odoardo e di interdetto sui suoi domini
enumerava specificamente tutte le chiese, i conventi, i monasteri e le case degli Ordini religiosi e di quelli militari: ASV,
A.A., Arm. I-XVIII, n. 4918, doc. 2, «S.D.N.D. Urbani divina providentia papae VIII Declaratio quod Odoardus Farne-
sius olim Dux Parmae, et Placentiae alijsque ei auxilium etc. praestantes incurrerint in Excommunicationem maiorem,
aliasque censuras, et poenas, cum appositione Interdicti», Roma, 22 giugno 1643 (a stampa).
62
Salvatore da Sasso Marconi, La provincia cappuccina di Bologna e la cronaca dei suoi provinciali (1535-1941),
Budrio, Fratelli Montanari editori, 1946, p. 61. Esalta la fedeltà dei cappuccini alla Santa Sede la versione, affatto agio-
grafica, di Pellegrino da Forlì, Annali dell’Ordine dei frati minori cappuccini, cit., vol. I, 1882, pp. 439-440.

567
Massimo Carlo Giannini

pubblicato a Parma e a Piacenza: furono perciò redarguiti e più volte sollecitati dal procuratore
generale dell’Ordine a osservare l’interdetto o a lasciare le terre del duca63.
Una testimonianza eloquente per comprendere il clima di inquietudine che serpeggiava fra
i ministri del re cattolico, alimentata dalla conflittualità sempre viva all’interno del mondo dei
religiosi, è data dalla vicenda originata dalle considerazioni inviate nel 1645 dal frate francescano
Francesco da Vigevano a Filippo IV e da questi trasmesso in forma anonima l’anno seguente al
connestabile di Castiglia, Bernardino Fernández de Velasco, governatore dello Stato di Milano,
affinché esprimesse le proprie valutazioni. Il documento puntava il dito, consigliandone l’espul-
sione, contro i religiosi poco affezionati alla corona, i quali avrebbero potuto causare «grandes
alborotos en la pleve, mayormente si el País está cansado de guerras y tiene poca satisfación de
los ministros». In secondo luogo suggeriva di fare in modo che monasteri e conventi, specialmen-
te cappuccini, in territorio lombardo –soprattutto quelli di aree di frontiera quali Alessandria,
Tortona e Valenza– venissero inseriti in province facenti capo a Milano, vietando l’ammissione
di nuovi elementi non sudditi (i genovesi), o addirittura vassalli dei nemici della corona (i mon-
ferrini). Inoltre il francescano sottolineava l’importanza di ottenere dal nuovo papa –non essendo
stato possibile farlo da Urbano VIII– che i religiosi non sudditi del re cattolico fossero allontanati
dalla città di Vercelli (occupata sin dal 1638 dalla forze spagnole), «pues es cierto que todos son
espias en favor de su Principe natura»64.
Infine il francescano caldeggiava l’espulsione dallo Stato di tutti i religiosi che non davano ga-
ranzie di lealtà e segnatamente del provinciale dei cappuccini Lorenzo da Novara e del procuratore
generale del medesimo Ordine a Roma, Simpliciano da Milano. Quest’ultimo era indicato come
appartenente alla famiglia Visconti –anche se «no de los buenos»– e aveva un fratello, di nome
Giovanni, ufficiale ed esecutore della regia Camera milanese, ugualmente poco affezionato al ser-
vizio della corona, che parlava «muy mal de los ministros alabando siempre a los franceses»65.
Da parte sua, Filippo IV si disse pienamente favorevole alla creazione di province dei diversi
Ordini che riunissero conventi e monasteri collocati all’interno dello Stato di Milano. Tuttavia
egli aveva ben chiare le difficoltà: non solo, infatti, «las religiones han crecido en número de per-
sonas y estas son barias y de diversas naciones», ma già in passato le richieste in tal senso avanzate
al pontefice non avevano dato alcun risultato. Il monarca si limitò quindi a sottolineare l’esigenza
che il governatore vigilasse sul comportamento dei religiosi, specie dei cappuccini e, in caso di
necessità, espellesse coloro che gliene avessero dato motivo. Qualora poi i principi dei territori
confinanti avessero bandito i religiosi nati sudditi del re cattolico, il governatore avrebbe dovuto

63
A. Corna, «I Frati Minori di Piacenza durante l’interdetto di Urbano VIII sul Ducato di Parma e Piacenza», Bol-
lettino storico piacentino, IV (1909), pp. 166-171.
64
AGS, E, leg. 3458, doc. 131, Filippo IV al connestabile di Castiglia (minuta), Zaragoza, 28 agosto 1646.
65
Ibid. Lorenzo Tornielli da Novara era stato confermato provinciale dal capitolo del 1645: La visita generale di In-
nocenzo da Caltagirone (1644-1649) e di Fortunato da Cadore (1650-1651) nel “Registro” di Francesco da Polcenigo, a cura
di G. Ingegneri, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 1997, p. 77. L’elezione a procuratore di Simpliciano da Milano
datava al capitolo generale del maggio 1643, al quale non avevano partecipato i religiosi spagnoli, a causa del conflitto
che infuriava in Lombardia: «Nota di tutti i capitoli generali celebrati nella nostra religione e de P. Generali eletti in essi et
altre cose degne di memoria ordinate in quelli», in Metodio da Nembro, Salvatore Rivolta e la sua cronaca, Milano, Centro
Studi Cappuccini Lombardi, 1973, p. 63. Dopo esser stato eletto definitore nel 1650, divenne infine ministro generale
nel capitolo del 1656 e fino al 1662; morì nel 1663: Lexicon capuccinorum, cit., col. 1600.

568
NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

attuare un’identica misura di rappresaglia, ma «con el menor ruido que fuere posible» per non
aprire un nuovo delicato fronte di conflitto mentre divampava la guerra. Per quanto concerneva
infine i religiosi denunciati, Filippo IV chiese al connestabile di Castiglia di approfondire bene
la fondatezza delle accuse66.
Il richiamo del sovrano a una condotta prudente non si dimostrò una precauzione inutile:
infatti due mesi dopo, il governatore rispose che, già prima dell’arrivo della lettera regia, aveva
voluto prendere gli opportuni provvedimenti nei confronti dei religiosi originari di Parma, del
Monferrato e di Genova che si trovavano nei conventi e monasteri dello Stato. A tale scopo,
prima di uscire per la campagna militare in corso, egli aveva emanato un bando generale, alla cui
attuazione si era però opposto il grancancelliere Jerónimo de Quijada, di modo che non era stato
applicato con la «puntualidad» che avrebbe desiderato67. Quanto al problema della creazione di
province aventi sede nello Stato di Milano, il governatore aveva scritto al generale dei frati minori
osservanti, Giovanni Mazara da Napoli, informandolo delle questioni sollevate dal sovrano. Dalla
risposta del religioso emerge che il connestabile di Castiglia era più volte intervenuto presso di lui
non solo per favorire l’elezione di provinciali che fossero buoni vassalli del re cattolico, ma anche
perché costoro non avessero qualità «tan señaladas en sangre en letras en sanctidad, que pudiesen
con la sobrada autoridad hacerse populares y arrastrar nobleça ni pueblo»68. Si trattava di una
richiesta apparentemente sorprendente da parte di un rappresentante del monarca cattolico per
antonomasia, se non si tiene conto della situazione critica in cui versava la Monarchia in quegli
anni. Il timore che l’ascendente esercitato sui diversi ceti sociali da religiosi particolarmente pre-
parati e zelanti si potesse trasformare nel motore di una ribellione all’autorità regia faceva passare
in secondo piano agli occhi dei ministri di Filippo IV qualunque valutazione di natura spirituale
e culturale circa coloro che detenevano cariche di governo all’interno degli Ordini religiosi.
Venendo incontro alle ripetute richieste delle autorità, il padre Mazara annunciò che i quattro
conventi lombardi appartenenti alla provincia di San Diego insieme ad altri otto del Monferrato,
sarebbero stati aggregati alla provincia milanese. Alquanto problematica invece egli giudicava la
separazione degli otto conventi dello Stato di Milano che appartenevano alla provincia genovese
e la loro erezione in provincia autonoma, cosa per la quale era indispensabile l’assenso del papa.
Questo tentativo avrebbe infatti provocato il ricorso dei frati genovesi alle autorità della Repubbli-
ca, con il conseguente rischio di creare un incidente politico-diplomatico «por la difidencia que se
dará a entender se tiene de los genoveses». A tale scopo, il generale si disse disposto a mantenere i
66
AGS, E, leg. 3458, doc. 131.
67
Ibid., leg. 3363, doc. 3, il connestabile di Castiglia a Filippo IV, dal bosco, 26 ottobre 1646. Sulle tensioni tra
il governatore e il grancancelliere, si veda G. Signorotto, Milano spagnola. Guerra, istituzioni, uomini di governo (1635-
1660), Milano, Sansoni, 20012, pp. 90-92.
68
AGS, E, leg. 3363, doc. 5, Giovanni Mazara al connestabile di Castiglia (copia coeva), Genova, 25 ottobre 1646.
A riprova della stima che Giovanni Mazara da Napoli riscuoteva presso la corte di Madrid e i suoi ministri italiani, vale
la pena di ricordare come egli fu in seguito incaricato dal vicerè di Napoli di una delicata missione diplomatica presso
Innocenzo X allo scopo di stringere un accordo che prevedesse cospicui benefici per i principi di Rossano suoi nipoti:
ibid., leg. 3273, doc. 128, «Instrución para el R.mo s.r fra Juan de Nápoles general de la Orden de San Francisco, de la
forma en que se ha de governar en los negocios del servicio de Su Mag.d, que lleva a su cargo» (copia coeva), Napoli, 16
gennaio 1647; nella credenziale del duca d’Arcos al conte di Oñate, il generale era definito «persona a quien favoreze el
cardenal [Pamphili] y mi señora la princesa de Rosano, y tenerle por bien afecto al servicio de Su Mag.d» (ibid., doc. 129,
Napoli, 17 gennaio 1647).

569
Massimo Carlo Giannini

conventi lombardi all’interno della provincia di Genova, a patto però che vi risiedessero unicamen-
te religiosi originari dello Stato e che venisse eventualmente creato un apposito noviziato69.
Le principali preoccupazioni del padre Mazara si appuntavano sul potenziale pericolo costi-
tuito dai cappuccini. In particolare egli denunciava da tempo la presenza di religiosi non sudditi
nel Regno di Napoli e la gravissima situazione dell’importante convento femminile di Santa
Chiara, ente di patronato regio. Urbano VIII, nel febbraio 1633, aveva incaricato Francesco
Barberini, nella sua qualità di cardinale protettore dei frati minori osservanti, di togliere la cura
spirituale delle religiose dei conventi napoletani di Santa Chiara e di Santa Maria Maddalena ai
frati minori osservanti per affidarla a religiosi delle province riformate di Roma, della Sicilia e di
Milano del medesimo Ordine, degni per vita esemplare, fama e dottrina. Il breve papale aveva
prescritto che i prescelti avrebbero dovuto essere mutati almeno ogni tre anni ed essere preventi-
vamente esaminati e approvati dall’ordinario di Napoli70.
Padre Mazara, dopo aver ricordato che al momento si trovavano a Santa Chiara oltre 300 suore
con una cinquantina di confessori, accusò il cardinale Barberini di avere progressivamente usur-
pato la giurisdizione dei minori osservanti sul convento, introducendovi confessori e guardiani
provenienti dallo Stato della Chiesa e persino sudditi di principi nemici della corona asburgica:

quando yo llegué a allí hallé un portugués y otros frayles malevolos yo tube medio para sacarlos aunque
no para limpiar el combento de otras sierpes porque quitó Barberino la jurisdición al general sobre este
combento el qual pesa tanto para el servicio de Su M.d como el resto del Reyno pues haviendo 300 seño-
res del Reyno, si los confesores por su authoridad engendran malos humores en los ánimos destas seño-
ras, quien duda que con sus padres, y hermanos no pueda mucho la ternura y persuasión destas mugeres;
a más de esto el combento tiene tan hueco que se podrian introducir armas para muchos exércitos71.

Anche le religiose del maggior convento femminile della capitale del Regno potevano costi-
tuire un pericolo per il sovrano –seppure meno diretto rispetto a quello rappresentato dai loro
confratelli di sesso maschile– se fossero state spinte dai loro confessori a favorire presso i propri
aristocratici parenti l’assunzione di posizioni politiche avverse alla corona. L’affondo del Mazara
nei confronti del Barberini s’inscriveva peraltro nel tentativo di ripristinare la giurisdizione del
generale dei frati minori osservanti che egli stava conducendo da alcuni anni a quella parte72.
69
AGS, E, leg. 3363, doc. 5. Giova ricordare che la tradizionale alleanza della Monarchia con la Repubblica di
Genova mostrava, in quegli anni, più di una crepa, contribuendo ad alimentare la diffidenza dei ministri spagnoli nella
Penisola nei confronti dei regolari originari della Repubblica: cfr. C. Bitossi, Il governo dei magnifici. Patriziato e politica
a Genova fra Cinque e Seicento, Genova, ICIG, 1990, pp. 207-229 e 233-253.
70
Breve di Urbano VIII a Francesco Barberini, Roma, 13 febbraio 1633, in Bullarium Romanum. Bullarum diplo-
matorum et privilegiorum Sanctorum Romanorum Pontificum Taurinensis editio, t. XIV, Augustae Taurinorum, A. Vecco et
sociis Editoribus, 1868, pp. 311-312. Sull’esercizio del patronato regio e il governo dei francescani del convento di Santa
Chiara di Napoli, si veda Una relazione vicereale sul governo del Regno di Napoli agli inizi del ‘600, a cura di B.J. García
García, Napoli, Bibliopolis, 1993, p. 148. Notizie sul convento di Santa Chiara si trovano in S. D’Aloe, «Catalogo di tutti
gli edifizi sacri della città di Napoli e suoi sobborghi, tratte da un Ms. autografo della chiesa di S. Giorgio ad forum», Ar-
chivio storico per le province napoletane, VIII (1883), pp. 143-145 e G.F. D’Andrea, «Il monastero femminile di S. Chiara
di Napoli alla metà del secolo XVII», Studi e ricerche francescane, IX (1980), pp. 167-184.
71
AGS, E, leg. 3363, doc. 5.
72
C. Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII, Napoli, Università di Napoli - Istituto di
Storia medioevale e moderna, 1970, pp. 76-77.

570
NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

Il Mazara denunciò inoltre come vi fossero molti monferrini –sudditi del filofrancese duca
di Mantova Carlo Gonzaga Nevers– fra i quasi 100 frati domenicani che vivevano nel con-
vento di Santa Caterina, sito presso le mura a fianco di Porta Capuana, mentre sotto il forte
di Sant’Elmo vi fosse un convento dei frati minori conventuali, tutti perugini –quindi sudditi
dello Stato della Chiesa– «mucho más perniciosos que los franceses de París». Egli stesso aveva
discusso la cosa con il generale dei conventuali che si era impegnato a insediarvi unicamente
frati originari del Regno di Napoli, non appena il vicerè avesse proceduto all’espulsione dei
forestieri73.
Infine, per quanto concerneva i cappuccini, l’atto d’accusa del Mazara fu durissimo. Egli
invitò a operare con prudenza perché costoro,

con la aparencia de la authoridad entran en todo y de todos son oidos y entre ellos prevalecen las
razones de estado más que en ninguna Religión y si no vea V.E. lo que han obrado y obran en
Cataluña lo que han maquinado en Francia sirviendo publicamente de embaxadores del Turco y
lo que hizo fray Joseph de Paris para sustentar la Tiranía y turbar la Monarquía de nuestro Rey y
no ay religioso en Italia de estos capuchinos que no se ofrezca a maquinar cosas contra el servicio
de Su Mag.d74.

La tradizionale caratteristica di semplicità dei cappuccini si configurava quindi come una


pericolosa capacità di penetrazione –e quindi di mobilitazione delle coscienze– in tutti i ceti
sociali che andava unita a posizioni politiche antispagnole, sia nelle ribelli terre della Catalogna e
del Portogallo sia nella Penisola italiana. Non a caso il generale richiamava l’esperienza di padre
Joseph de Paris che era stato non solo l’influente consigliere del cardinale di Richelieu, ma anche
il prefetto delle missioni francesi del suo Ordine e agente della Congregazione de Propaganda
Fide presso la corte del re cristianissimo. I cappuccini pertanto rappresentavano, agli occhi del
generale dei frati minori, il losco trait d’union fra le trame antispagnole in Europa e gli interessi
diplomatici e commerciali della Francia in rapporto all’Impero ottomano75.
Al fine di evitare aperti contrasti, il Mazara consigliava di attendere che egli procedesse alla
riorganizzazione delle province dei frati minori, senza che il re cattolico vi apparisse coinvolto,

73
Ibid. Notizie sul convento di S. Caterina a Formello in D’Aloe, «Catalogo di tutti gli edifizi sacri della città di
Napoli», cit., pp. 140-141.
74
AGS, E, leg. 3363, doc. 5.
75
Lo stretto rapporto fra la Congregazione e la Francia risultava ancor più evidente dal fatto che alla guida della
prima furono in quegli anni –rispettivamente come prefetto e viceprefetto– due figure avverse alla Monarchia cattolica,
quali i cardinali e omonimi Antonio Barberini (nipote e fratello di Urbano VIII). Su questi temi, si vedano G. Pizzorusso,
«Reti informative e strategie diplomatiche tra la Francia, Roma e le missioni cattoliche nell’impero ottomano agli inizi
del XVII secolo», in I Turchi, il Mediterraneo e l’Europa, a cura di G. Motta, Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 212-231,
specialmente pp. 217-225. Sull’attività della Congregazione, G. Pizzorusso, «“Per servitio della Sacra Congregatione de
Propaganda Fide”: i nunzi apostolici e le missioni tra centralità romana e Chiesa universale (1622-1660)», in Ambasciatori
e nunzi. Figure della diplomazia in età moderna, a cura di D. Frigo, Cheiron, n. 30 (1998), pp. 201-227; Id., «Agli antipodi
di Babele: Propaganda Fide tra immagine cosmopolita e orizzonti romani (XVII-XIX secolo)», in Storia d’Italia. Annali
16. Roma, la città del papa. Vita civile e vita religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtila, a cura di L.
Fiorani e A. Prosperi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 477-518; Id., «La Congregazione “de Propaganda Fide” e gli ordini
religiosi: conflittualità nel mondo delle missioni del XVII secolo», in Religione, conflittualità e cultura, cit., Cheiron, nn.
43-44 (2005), pp. 197-240.

571
Massimo Carlo Giannini

cosicché il connestabile di Castiglia avrebbe potuto chiedere alla Santa Sede analoghi provvedi-
menti per i cappuccini e per gli altri Ordini, in nome della «paz religiosa»76.
Dopo aver esaminato la questione, il Consejo de Estado, nel gennaio 1647, inviò a Filippo
IV un parere improntato ad estrema prudenza, limitandosi a suggerire di seguire la strada indi-
cata dal Mazara e di dare ordine ai suoi ministri in Italia di esercitare la massima vigilanza sugli
appartenenti agli religiosi e in special modo sui cappuccini, anche alla luce dell’esperienza delle
rivolte catalana e portoghese. Più decisi erano gli interventi da attuare a Napoli: il Consejo infatti
propose che il vicerè, Rodrigo Ponce de León, duca d’Arcos, attuasse l’espulsione dei religiosi non
‘naturali’ e reintroducesse nel convento di Santa Chiara confessori spagnoli. Il sovrano accolse tali
proposte e ordinò al vicerè di Napoli e al governatore di Milano –mettendone al corrente anche
l’ambasciatore a Roma– di provvedere affinché fossero ammessi solo religiosi sudditi nei conventi
e monasteri dei rispettivi territori77. In realtà, sin dal novembre 1646, il vicerè di Napoli aveva
dato disposizioni per allontanare dal Regno tutti i religiosi non sudditi della corona di Spagna,
anche se i superiori si limitarono ad applicarlo ai sudditi di «principi nemici»78.
In forza delle disposizioni regie, nel giugno 1647, le autorità milanesi diramarono a tutti i pode-
stà l’ordine di vietare l’ingresso nello Stato al nuovo provinciale di Genova dei cappuccini, Raffaele
da Casale. Inoltre, a cavallo tra il dicembre 1647 e il gennaio 1648, venne condotta una vera e pro-
pria operazione di polizia volta a individuare e ad espellere dai conventi della città e del contado di
Alessandria tutti i religiosi originari della Francia, del Monferrato, del Piemonte e di Modena79.
Un altro aspetto importante su cui si concentrò l’attenzione della corte di Madrid alla fine
del 1646 fu la consuetudine ormai dilagante di affidare a esponenti del clero regolare funzioni di
mediazione cortigiana. Nel dicembre di quell’anno, rilevando i numerosi inconvenienti derivanti
dal fatto che i religiosi s’impegnavano in «negociaciones y agencias de seglares solicitando pleytos,
tratando de cobranças, procurando y diligenciadoles puestos y officios», Filippo IV diramò in
tutti i suoi domini l’esplicito divieto –trasmesso anche ai superiori degli Ordini– a che essi s’in-
tromettessero in questioni secolari «si no fuere en los casos que la caridad christiana, y prudente
lo permitiere para soccorer a pobres a quienes faltan otras ayudas y esto con aprobación y licencia
de sus superiores». Al governatore dello Stato di Milano, ai vicerè di Napoli e di Sicilia il sovrano
chiese di esortare i superiori locali degli Ordini ad ottemperare a tali disposizioni80. Questa mi-
sura mirava a mettere un freno alla prassi delle comunità e di singoli individui di inviare religiosi
76
AGS, E, leg. 3363, doc. 5.
77
Ibid., doc. 3, consulta del Consejo de Estado a Filippo IV, Madrid, 29 gennaio 1647. Per le disposizioni di Filippo
IV ai suoi ministri in Italia, si veda F. Andreu, «I teatini e la rivoluzione nel Regno di Napoli (1647-1648)», Regnum Dei,
XXX (1974), pp. 247-248.
78
ASV, Segr. Stato, Napoli, vol. 41, f. 544v, il nunzio Emilio Altieri al cardinale Flavio Chigi, Napoli, 10 nov. 1646.
79
ASMi, RCS, s. XVI, lib. 25, f. 16v, il grancancelliere Jerónimo de Quijada ai podestà dello Stato, Milano, 8 giugno
1647; ibid., C, cart. 1542, fasc. 12, il sindacatore di Alessandria, Francesco Sartirana, al grancancelliere Quijada, Alessan-
dria, 23 dicembre 1647, 14 e 21 gennaio 1648 e viceversa, Milano, 6 gennaio 1648.
80
A. Domínguez Ortiz, La sociedad española en el siglo XVII, vol. II, Granada, CSIC - Universidad de Granada,
1992 (rist. anastatica dell’ed. del 1970), p. 213. ASMi, C, cart. 1542, fasc. 11, Filippo IV al connestabile di Castiglia (a
stampa), Madrid, 15 dicembre 1646; solo nel giugno 1647 la lettera regia venne trasmessa ai superiori dei conventi della
città di Milano: ibid., il grancancelliere Quijada ai superiori, Milano, 26 giugno 1647. Per quanto riguarda il Regno di
Napoli: AGS, SP, lib. 442, ff. 261v-262r, Filippo IV al duca d’Arcos, Zaragoza, 22 settembre 1646 (cfr. Andreu, I teatini
e la rivoluzione, cit., p. 252).

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NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

alla corte di Madrid per ottenere la riduzione del carico fiscale e militare, nel primo caso, benefici
personali, nel secondo, sfruttando i molti canali che i membri di Ordini e Congregazioni presti-
giosi erano in grado di attivare. La reiterazioni di tali disposizioni lascia peraltro presumere che la
questione non fosse di facile soluzione81.
Un significativo banco di prova per il tessuto ecclesiastico fu costituito dai drammatici eventi
della ribellione napoletana del 1647-4882. Alcuni esponenti dell’episcopato del Regno, così come
la Santa Sede, mantennero un atteggiamento oscillante tra una certa benevolenza verso i rivoltosi
e il tentativo di mediare fra le parti in conflitto. Tipico esempio di comportamento ambiguo fu
l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Ascanio Filomarino, che si presentò in veste di paciere, ma
compì diversi atti, tra cui la benedizione della spada del duca di Guisa e il rifiuto di scomunicare
i quartieri in mano ai ribelli, come richiesto dal vicerè, che lo resero oltremodo sospetto agli occhi
dei ministri del re cattolico. Ciò spiega perché costoro, una volta spenta la rivolta, chiesero la
rimozione del Filomarino dalla cattedra arcivescovile83.
Non mancarono i religiosi che si schierarono apertamente contro la corona: furono numerosi
i frati domenicani, carmelitani e cappuccini che si distinsero per il loro appoggio alla rivolta84.
È nota la drammatica vicenda del teatino napoletano Andrea Paolucci –peraltro in rotta con il
suo Ordine– al centro di svariate trame filofrancesi, arrestato mentre cercava di entrare in città e
quindi giustiziato. Proprio in seguito a quest’episodio, nell’agosto 1647, il vicerè, duca d’Arcos,
chiese ai superiori degli Ordini di allontanare dal Regno di tutti i religiosi forestieri e di invitare
i religiosi ‘regnicoli’ a non camminare da soli per le strade della capitale85.
Altri, come il cappuccino Francesco Maria da Napoli, fratello del cardinale Filomarino86, eb-

81
G. Signorotto, «La «verità» e gli «interessi». Religiosi milanesi nelle legazioni alla corte di Spagna», in I Religiosi a
corte, cit., pp. 205-219. Un esempio di reiterazione delle disposizioni del 1646 è in AGS, SP, lib. 444, f. 108r, Filippo IV
al conte di Oñate, vicerè di Napoli, Madrid, 17 giugno 1651.
82
A. Musi, «Chiesa, religione, dimensione del sacro nella rivolta napoletana del 1647-48», in Dimenticare Croce?
Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, a cura di A. Musi, Napoli, ESI, 1991, pp. 43-72 e F. Benigno, Specchi della
rivoluzione. Conflitto e identità politica nell’Europa moderna, Roma, Donzelli, 1999, pp. 241-243.
83
Andreu, I teatini e la rivoluzione, cit., pp. 313-314; P.L. Rovito, «La rivoluzione costituzionale di Napoli (1647-1648)»,
Rivista storica italiana, XCVIII (1986), pp. 395-396, 398-399, 436-437 e 488; R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta
politica nel Seicento, Roma - Bari, Laterza, 1987, pp. 92-93; M. Bray, «L’arcivescovo, il vicerè, il fedelissimo popolo. Rapporti
politici tra autorità civile e autorità ecclesiastica a Napoli dopo la rivolta del 1647-1648», Nuova rivista storica, LXXIV (1990),
pp. 311-332. Cfr. M. Bray, Filomarino, Ascanio, in DBI, vol. XLVII, 1997, pp. 799-802. Per una diversa impostazione che
tenta d’interpretare il ruolo del Filomarino in chiave di autonomia dal governo spagnolo, anche se di sostanziale lealtà verso la
corona, si vedano C. Manfredi, «Il cardinale arcivescovo Ascanio Filomarino nella rivoluzione di Masaniello», Samnium, XXII
(1949), pp. 49-80 e 180-211 e XXIII (1950), pp. 65-78 e A. Musi, La rivolta del Masaniello nella scena politica barocca, Napoli,
Guida, 1989, pp. 130-132. Circa l’atteggiamento della Santa Sede, si veda E. Visco, La politica della S.Sede nella rivoluzione di
Masaniello, Napoli, Stab. Tip. Tocco, 1923, specialmente pp. 45-46, 48-49 e 108-109.
84
Musi, «Chiesa, religione, dimensione del sacro», cit., pp. 64-65. Nel settembre 1647, due frati cappuccini invita-
rono pubblicamente i popolani di contrada Santa Lucia a diffidare degli Spagnoli e a guardarsi dai capi traditori: C. Tutini
- M. Verde, Racconto della sollevatione di Napoli accaduta nell’anno MDCXLVII, a cura di P. Messina, Roma, Istituto
storico italiano per l’Età moderna e contemporanea, 1997, pp. 166-167.
85
Andreu, I teatini e la rivoluzione, cit., pp. 278-288.
86
Francesco Maria (1595-1683) emise la sua professione nel 1615, fu predicatore, teologo e consultore dell’Inqui-
sizione, nonché più volte provinciale dei cappuccini napoletani: Pellegrino da Forlì, Annali dell’Ordine dei frati minori
cappuccini, cit., vol. III, 1884, pp. 342-344; Lexicon capuccinorum cit., col. 629; La visita generale di Innocenzo da Calta-
girone, cit., p. 329.

573
Massimo Carlo Giannini

bero un ruolo non del tutto chiaro, sul difficile crinale fra la mediazione tra le parti e l’appoggio
alla rivolta87.
È significativo che il problema della fedeltà del clero regolare napoletano non fosse avvertito
solo dalle autorità regie. Nelle giornate del 7 e 8 luglio, le processioni effettuate da gesuiti, teatini
e domenicani per le strade della città predicando «quiete e pace» non diedero l’esito sperato: i
religiosi furono anzi respinti, in quanto giudicati al servizio della Spagna, sollecitati a rientrare
nei loro conventi e case, per non ripresentarsi più se non volevano incorrere in «qualche cosa
trista»88. Nelle settimane successive, i gesuiti, sospettati di attività filospagnola, furono minacciati
di espulsione dai ribelli89. A conferma degli orientamenti prevalenti fra i gesuiti napoletani, vale
la pena di ricordare che la casa professa del Gesù venne aperta dai religiosi ai soldati del re che
provvidero a installarvisi90. Inoltre il preposito della casa teatina di San Paolo, nonché ex generale
dell’Ordine, Gregorio Carafa, nel novembre 1647, si rifugiò nei quartieri della città in mano
regia, essendo stato minacciato di morte, in quanto «scoverto aderente della parte Spagnuola»91.
A questo riguardo Marino Verde e Camillo Tutini, nella loro storia della sollevazione, scrissero:

grandi sono li tradimenti che havea il povero popolo, e particolarmente da’ religiosi interessati, che
pretendono con questi mezzi infami conseguire da’ spagnoli vescovati e dignità, fra’ quali dicono sia
D. Gregorio Carafa, teatino, il quale con tanta facilità passa da questi e da quell’altra parte spiando
li andamenti dei popolari. Et il popolo sta tanto stordito non accorgendosi di questi tali e remediare
a queste trasmigrationi, essendo più volte stato detto che si levassero, e bisognando remedi violenti
e mortiferi si adoprassero92.

Altri importanti esponenti di Ordini religiosi si schierarono con la corona, come ad esempio
l’abate di Montecassino –un vero e proprio stato feudale all’interno del Regno– il quale fornì
armati e denaro per reprimere la ribellione o come il priore della certosa di San Martino che aiutò
con grano e denaro le truppe spagnole a Napoli93.
Quale fosse nel campo rivoluzionario la percezione del ruolo potenzialmente sovversivo del
clero regolare emerge con chiarezza da un anonimo pamphlet moderatamente antimonarchico,
successivo all’arrivo a Napoli del duca di Guisa, nel dicembre 1647. Il documento esortava gli
ambienti rivoluzionari a dissimulare eventuali dissidi con i religiosi, consigliandoli
87
La notizia della mediazione fra ribelli e autorità nei primi giorni della rivolta napoletana è riportata, senza ulteriori
specificazioni da Pellegrino da Forlì, Annali dell’Ordine dei frati minori cappuccini, cit., vol. III, p. 343. Circa il ruolo del
cappuccino nelle complesse trame politiche della rivolta, si veda I. Fuidoro, Successi historici raccolti dalla sollevatione di
Napoli dell’anno 1647, a cura di A.M. Giraldi e M. Raffaeli, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 115 e 124.
88
Tutini - Verde, Racconto della sollevatione di Napoli, cit., p. 29. Sull’episodio, cfr. Musi, Chiesa, religione, dimensio-
ne del sacro, cit., pp. 51-54.
89
Tutini - Verde, Racconto della sollevatione di Napoli, cit., p. 85. Cfr. Villari, Elogio della dissimulazione, cit. p. 71 e
Musi, Chiesa, religione, dimensione del sacro, cit., p. 51.
90
Tutini - Verde, Racconto della sollevatione di Napoli, cit., pp. 178 e 204.
91
F. Capecelatro, Diario contenente la storia delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650, vol. II,
parte I, Napoli, Stabilimento Tipografico di Gaetano Nobile, 1852, p. 286.
92
Tutini - Verde, Racconto della sollevatione di Napoli, cit., pp. 339-340. Cfr. Andreu, I teatini e la rivoluzione, cit.,
p. 314 (dati sulla successiva carriera vescovile del Carafa ibid., pp. 370-373).
93
T. Leccisotti, Montecassino, Montecassino, Badia di Montecassino, 1974, p. 93 e Tutini - Verde, Racconto della
sollevatione di Napoli, cit., p. 448.

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NOTE SUL PROBLEMA DEL CONTROLLO POLITICO DEGLI ORDINI RELIGIOSI...

a non prendere nimicitia con alcuna delle religioni, o ordini di preti, o frati, massime per causa, che
si fossero mostrati alcuni di loro affettionati al partito spagnuolo; percioché ciò deve essere a voi
caro, stimando che divenendo voi prencipi, vi saranno dell’istessa maniera fedeli, che furono a i re
di Spagna. Aggiungete che le religioni possono fare del gran male, e del gran bene, particolarmente
nelle repubbliche popolari, mentre che il popolo è facile ad esser tirato dove si vuole per via di
divotione, e tal volta ancora di superstitione. I religiosi in somma san parlare, san machinare, san
prender pretesti, et hanno commodità di eseguire: perciò in niun conto vorrei che ad alcuno de gli
ordini particolarmente se fosse de’ principali, voi tentaste far male94.

Si tratta di argomentazioni che, pur da un punto di vista antispagnolo, rispecchiavano appie-


no preoccupazioni e stereotipi propri del modo di vedere della corte di Madrid, segnale questo
di una più generale consonanza di vedute su questo tema che accomunava i diversi schieramenti
politici dell’Europa cattolica.
Quanto sin qui esposto non pretende ovviamente di esaurire il tema del controllo politico
degli Ordini religiosi. Molto altro resta da dire e da ricercare. Tuttavia è evidente che le diffidenze
dei poteri laici nei confronti del mondo dei religiosi contrassegnarono le diverse stagioni della
politica europea del XVII e XVIII secolo. La stagione dei timori e degli interventi coercitivi e/o
regolativi, parzialmente esaminata in questo contributo, si chiuse solamente in una fase sucesiva,
con le soppressioni e le politiche giurisdizionalistici dei sovrani della seconda metà sel settecento,
mirandi a rescindere una volta per tutte i legami istituzionali e finanziari fra gli Ordini e la Santa
Sede e a porre il mindo dei religiosi sotto l’attenta vigilanza delle autorità laiche.

94
«Lettera scritta da un personaggio napolitano a gli ordini del Regno di Napoli, nella quale da’ loro una breve
instruttione per formare la nuova Repubblica», edita in V. Conti, La rivoluzione repubblicana a Napoli e le strutture rappre-
sentative (1647-1648), Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1984, pp. 60-61; per la datazione, si veda ibid., pp. 14-23.

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