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I Poveri Fraticelli di Celestino V

e la Santa Inquisizione nel Molise

Giuseppe La Porta
28 Agosto 2018
Termoli
San Francesco d'Assisi, affresco della Dormitio Virginis,
(XIV-XV sec.) Chiesa di San Pietro, Terni.
I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

‘’Facciamo frutti degni di penitenza, ed amiamo i


prossimi come noi stessi. E se qualcuno non vuole
amarli come se stesso, almeno non arrechi loro
del male, ma faccia del bene’’

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

indice

 Prefazione……………………………………………………………………………..pg.3

 Pietro del Morrone e i Frati di Sant’Onofrio in Castro Freselonis……..……………..pg.4

 Le persecuzioni anti-francescane e il supplizio degli Spirituali……………………..pg.12

 Tavole

 Stralci delle Memorie Historiche del Sannio, di Giovanni Vincenzo Ciarlanti………………….pg.29

 Localizzazione degli insediamenti eremitici in Frosolone………………………………...pg32

 Abbazie ed eremi spirituali dell’alto Molise, collegati alla vita dei Fraticelli……………pg.33

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Prefazione

Il passato della nostra Italia sembra essere di anno in anno una realtà che oramai può dirsi
‘’archiviata’’ per le menti dei più ignari, dove, come per una vicenda giudiziaria che ha richiesto
tempo per la raccolta d’ogni indizio e analisi del movente, si può giocare la solita carta della
narrazione dei vincitori, rimembrati nella storia come coloro che ebbero la meglio sul male, a mò di
principi machiavellici che riuscivano nelle loro trame a soggiogare i deboli, i veri giusti e soprattutto
i pericolosi, che volevano sovvertire un ordine delle cose obsoleto e retrogrado, e che al pari d’un
lucifero sarebbero dovuti sprofondare nelle viscere del dimenticatoio storiografico, nella Damnatio
Memoriae che purtroppo per molti si è protratta fino ai giorni nostri, e per la cui dilacerazione è arduo
il lavoro di ricerca da parte di noi storici, amatoriali o professionali, che ci siamo susseguiti nei secoli,
accampandoci in quegli archivi polverosi e vasti cataloghi che celano al loro interno un mondo di
storie collegate alle origini stesse della penisola e dei suoi luoghi.
Qui discuteremo di un argomento che abbiamo preso davvero a cuore, un tempo rimembrato nelle
terre altomolisane solo come leggenda degli avi, ma che al seguito della succitata ricerca passata e
presente, si è rivelato essere un accadimento vero e molto variegato, ricco di intrighi e di soprusi,
crudeltà che mai sarebbero riscontrabili in opere letterarie moderne, e che soprattutto per esse riporta
noi lettori a quell’aura macabra e di paura di romanzi come il Nome della Rosa, con cui il suo creatore
Umberto Eco ci trascina nel tempo delle eresie, dove i frutti del Santo Francesco condussero alla
nascita e predicazione di un credo che fece tremare le fondamenta stesse della Casta Ecclesiastica, in
cui la Chiesa avrebbe dovuto seguire il messaggio della povertà del Cristo, e rinunciare alle ricchezze
terrene che tanto allontanarono la Chiesa stessa dal popolo, elevandosi ad una divinità in terra, al di
sopra d’ogni imperatore, usufruendo di ogni vantaggio possibile pur di ovviare ad una seria intesa
con i molti Ordini Monastici, che per protesta alla moderatezza verso la regola stessa si erano separati
dai loro fulcri, sfociando in correnti ben più rigide o addirittura violente, per cui non si fece attendere
l’azione repressiva con chiunque simpatizzasse per chi propinava il pensiero di una Chiesa povera ed
umile, ad esempio il moto estremizzante dei Dolciniani.
Sembrerebbe strano per molti lettori, eppure quei tragici eventi accorsi nelle terre di più elevato
interesse politico, sono avvenuti anche nella nostra terra molisana, un tempo suddivisa in altre
giurisdizioni, intorno all’ordine dei Poveri Fraticelli, che tanto furno cari alla figura del Papa buono
Celestino V, e che com’egli subì, anche loro verranno tradotti in un calvario di sofferenze per mano
del crudele domenicano Tommaso D’Aversa, che per tanto male pagherà con la sua vita, come colto
dalla condanna di qualcuno che a quanto pare, era più in alto di ogni suo pontefice fidato o Re
usurpatore che si voglia.
Per ogni approfondimento storico ci tengo qui a ringraziare la collaborazione con molti esponenti ed
esperti dell’ambito storico italiano, dalla direzione dell’archivio storico di Trivento ed ovviamente
Don Doemico Fazioli, ed alla vaticanista Barbara Frale per le tante delucidazioni su alcuni aspetti
della vita celestiniana e del pontificato di Clemente V, ma soprattutto voglio porre il riconoscimento
a mio padre, lo storico Domenico La Porta, che diversi anni fa iniziò questa investigazione sul conto
della inquisizione nel territorio molisano, e degli illeciti nella storia ecclesiastica locale a partire dalla
trafugazione dei reliquiari e dell’ombra simoniaca che macchiò la Chiesa nei primi secoli dell’alto
medioevo, quando si vedeva la continua nascita di poteri singoli e territoriali in tutta l’Italia,
imponendo una rigida azione da parte dei pontefici che si estese nei secoli alla questione dei Poveri
Fraticelli di Celestino, qui riproposti in una accurata rianalisi delle opere bibliografiche che ne hanno
trattato nel tempo, dal Ciarlanti al Wadding ed il Gonzaga, riportati nella sintetica e preziosa cronica
del professore Michele Colozza, diventato, al seguito dei frutti della Seconda Guerra Mondiale, una
delle fonti più preziose dell’Italia Centromeridionale, riportando molti dei documenti e stralci di
regesta perdute nel fuoco bellico.

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Pietro del Morrone e i Frati di Sant’Onofrio in Castro Freselonis

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Il fulcro di questa storia, trova la sua origine nelle terre montuose


dell’appennino centro-meridionale, sulle alte conche rocciose e
‘’desertiche’’ che sovrastano la fortezza di Frosolone, ove tra il XIII e il
XIV secolo si verificarono eventi collegati ad una questione tra le più
complesse dell’Europa medievale dal punto di vista sociale, politico e
religioso, colma di scissioni e lotte interne tra gli ordini monastici del
tempo, principalmente tra l’Ordine Francescano, contrapposti alle politiche
già occupate in quegli epiloghi che porteranno alla annosa cattività
avignonese, dopo i repentini scontri clericali tra le fazioni filo-romane, con
la nobile famiglia dei Caetani, e quella dei filo-francesi, con i Colonna,
protagoniste ambedue dell’oltraggio al papato del 7 Settembre 1303.
Furono molte le cause dell’alterazione di questo già precario equilibrio, tra
cui la riscoperta degli studi classici e filosofici nelle scuole di pensiero a
stampo federiciano, e anche il progredire della tematica del Diritto
Pubblico, per non dimenticare la tanto infiammata guerra della sfera
politica guelfa, tanto cara a figure come San Tommaso d’Aquino, in cui si
prediligeva la sovranità del pontefice, contro la dottrina dell’indipendenza
e inalienabilità dell’Impero, unico a dover svolgere una mansione di
carattere politico e militare e in cui il papato non avrebbe dovuto porre alcun
veto.
Con tali principi ebbe una enorme espansione la predicazione di una Chiesa
povera ed umile, pendente dalle regole dello stesso Francesco di Assisi, di
Frate Gioacchino Da Fiore e di tanti altri monaci e sottordini della penisola
italiana, tra i quali i maggiori esponenti furono proprio i Frati Minori, spinti
dal loro fondatore e dalla sua passio, che miravano all’adozione della
povertà come nuovo volto della Chiesa romana, contro cui i pontefici
risposero con la forza più dura e meschina di tutte, l’eresia.
Di fatti la dottrina dei Minoriti fu usata come arma a doppio taglio contro
tutti gli ordini a loro contemporanei e trasversali, dichiarandoli eretici ed
affidando in primo luogo la persecuzione di essi alle principali cariche
ecclesiastiche dell’Europa occidentale ed orientale, in cui figuravano molti
inquisitori, e dove si distinse nell’opera di tali uffizi l’ordine dei Frati
Domenicani, che ricorse in determinati casi ad ogni mezzo possibile.
Tra i movimenti religiosi più indiziati nelle eresie del primo trecento vi fu
quello degli Apostoli, o Apostolici, dal quale si sviluppò il gruppo
‘’sovversivo’’ dei Dolciniani, celebre per atti violenti nel punire le più alte
cariche del clero, con il motto ‘’Penitenziàgite’’, ovvero ‘’fate Penitenza’’,
una parola evangelica coniata come monito rivolto alla Chiesa corrotta e
tutti i suoi sottoposti territoriali, di spogliarsi d’ogni ricchezza materiale e
potere temporale.

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Atti che purtroppo diedero ulteriore modo alla Santa Inquisizione di poter
agire contro tutti coloro che predicassero tale dottrina, pur essendo estranei
al movimento dolciniano, che subì in seguito una aspra persecuzione,
culminata con la condanna dei principali esponenti e fondatori, prima Frate
Gherardo Segarelli nel 1300 nella città di Parma, ed in seguito il più noto
Dolcino da Varese, bruciato sul rogo a Vercelli nel 1307, e di cui parlerà
molto il domenicano Bernardo Gui.
Al contempo nell’Ordine dei Frati Minori Francescani si era sviluppata una
pesante divisione ideologica tra i cosiddetti ‘’Rilasciati’’ ed i ‘’Zelosi
dell’osservanza’’, come riporta esiguamente il Marino, più
appropriatamente ne vediamo la nascita in questa scissione del movimento
religioso dei Padri Spirituali, che si erano insediati tra i territori della
Francia Meridionale, con la guida di Fra Pietro de Giovanni Olivi, e
dell’Italia Centrale, che assieme ai Beghini ed ai laici sostenitori come
Arnaldo da Villanova, erano tutti accomunati da una visione apocalittica
dell’ascesa dell’anticristo e della voglia di rinnovamento della Chiesa
romana, con una visione molto critica nei confronti del pontificato di
Bonifacio VIII ad esempio, e persino verso le alte cariche dell’Ordine
Francescano stesso, come il Ministro della congregazione Frate Giovanni
da Morrovalle.
Nella prima fase della loro nascita, fecero richiesta all’eletto pontefice
Celestino V, per l’autorizzazione a poter svolgere una vita cenobitica in dei
monasteri, oppure eremi abbandonati e isolati, dalle umili vestigia atte alla
vita ascetica da loro tanto professata con enorme rigore, il tutto dovuto a
causa del Divieto del Concilio di Lione del 1274, secondo cui era vietato
formare nuovi ordini monastici al di fuori di quelli confermati dal Concilio
Lateranense IV, per contrastare in tal modo tutti gli ordini nascenti, legati
alla dottrina della vita povera ed evangelica, come i Saccati ed i già
nominati Apostolici.
Il Papa acconsentì naturalmente, e tutto ciò è strettamente legato alla
vocazione dello stesso Celestino, quand’ancora era conosciuto dai suoi
contemporanei come Pietro di Angelerio, nato tra il 1209 e il 1210 nel
castro di Sant’Angelo Limosano, e deceduto nella prigionia di Fumone
all’incirca il 19 maggio del 1296, stando agli Anaelecta Bollandiana ed alle
ricerche di Stefano Tiraboschi da Bergamo (XIV-XV sec.), per non citare
gli ulteriori cronisti a lui vicini da cui la più parte degli storiografi della vita
celestiniana, trassero le loro informazioni maggiormente dettagliate.

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Sin da subito Pietro, figlio di umili contadini ed undicesimo di dodici


fratelli, dopo il fallimento di uno di essi nella vocazione ecclesiastica, ebbe
il suo noviziato nella non molto distante abbazia benedettina di Santa Maria
di Faifoli, ed in seguito nel 1231 intraprese un percorso votivo di carattere
ascetico, in attesa di una sua consacrazione a Roma, stabilendosi per due
anni sulle vette più a sud della catena montuosa della Majella, venendo
consacrato come sacerdote dell’Ordine di San Benedetto, da Papa Gregorio
IX tra il 1233 e il 1234, continuando poi la sua vita cenobitica nel monastero
benedettino di San Giovanni in Venere, presso Fossacesia, ed in seguito, tra
il 1238 e il 1240, ritirandosi nuovamente in osservanza nel territorio di
Sulmona, con precisione nelle grotte del Monte Morrone ove lui e dei suoi
seguaci allestirono una primitiva cappella rupestre dedicata a Santa Maria
‘’in Gruttis’’, e dalla cui località il monaco prese il nome di Pietro del
Morrone, eremo che purtroppo abbandonerà a sua volta, circa cinque anni
dopo, a causa del seguito di pellegrini e monaci attratti dalla sua vita
monastica e dalla nascente fama.
Essi lo costringeranno alla ricerca di un riparo più isolato e ‘’desertico’’,
ritrovandosi così dopo un lungo cammino, sulle più profonde vette
majellesi, ove fondò l’Eremo di Santo Spirito a Majella, dedicato al culto
eremitico dei padri Spirituali, uno dei tanti indicatori della frequentazione
avutasi tra L’Angelerio e detti monaci, nelle cui cariche maggiori vi erano
proprio i Frati Pietro da Macerata e Pietro da Fossombrone, con cui il
movimento monastico diede seguito alla parola di Frate Gioacchino da
Fiore che ne profetizzò la fondazione e ne influenzò il nome stesso, non
mancando d’essere il mentore del futuro Angelo Clareno, tramandando una
regola basata sulla spoliazione da tutti i beni e le ricchezze terrene e
riconoscendo così proprio nel monaco molisano una figura da seguire e da
cui trarre insegnamento, pur non volendo quest’ultimo separarsi
dall’Ordine Benedettino, e tantomeno di fondare una propria regola a se
stante.
Poco dopo, Pietro si ristabilì nella località sulmonese, e con la benedizione
del Vescovo di Valva e Sulmona, poté erigere nel 1259 un cenobio alle
falde del Monte Morrone, con una cappella dedicata al culto della vergine
Maria, conosciuta come Santa Maria del Morrone.
Il primo Giugno del 1263, Papa Urbano IV incaricò il Vescovo di Chieti,
di incorporare il monastero di Santo Spirito nell’Ordine Benedettino,
ponendolo sotto protezione pontificia, ma in seguito, tale atto del presule
teatino avrebbe cagionato degli attriti con la Santa Sede a causa delle sue
posizioni filo-sveve, per cui Pietro si recò personalmente nel 1274 alla volta
della Curia di Lione per ottenere da Gregorio X il privilegio che
regolamentava l’incorporazione definitiva della sua congregazione sotto i
benedettini, stipulata il 22 Marzo del 1275, in cui si stabilivano con
precisione anche le proprietà, che già risultavano molto consistenti.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Il vasto elenco di beni e terreni della congrega di Celestino si possono


riassumere grossomodo come di seguito;
Santo Spirito a Majella con le rispettive chiese di San Giorgio di
Roccamorice, San Giovanni a Majella, San Bartolomeo di Legio, San Cleto
di Mosilullo, Santa Maria e Sant’Angelo di Tremonti a Popoli, Santa Maria
del Morrone, Sant’Antonio in Campo Di Giove, San Giovanni di
Acquasanta a nord di Castel di Sangro, San Comizio ad Acciano sempre
presso Popoli, Santo Spirito ad Isernia, Santa Maria de Agello presso
Celano, Sant’Antonio a Ferentino, Sant’Antonio ad Anagni, San Leonardo
a Sgurgola, San Francesco a Civita D’Antino, Sant’Onofrio a
Serramonacesca ed altre proprietà che si estendevano per la Valle Peligna,
nel decorso dei fiumi Sagittario, Aterno e Sangro, nel territorio di Sulmona,
Roccamorice, Tocco a Casauria e nelle rispettive diocesi di Sulmona e
Valva, Isernia, Trivento, Chieti, Anagni, Ferentino e Sora, giungendo anche
alle porte di Roma, con il cenobio di San Pietro in Montorio sul Gianicolo
e Sant’Eusebio in pertinenza di Santa Maria Maggiore, con dotazione di
Papa Niccolò IV datata 11 Giugno 1289.
Pietro si occupò personalmente della cura di queste sedi, e nel mentre,
rimaneva il più distaccato possibile dalle questioni politiche del contrasto
tra papato e svevi, sottostando sia alla dominanza di Re Manfredi ed anche
dei successivi monarchi angioini, Carlo I e soprattutto Carlo II d’Angiò,
detto ‘’lo Zoppo’’, prima e durante il suo breve pontificato.
Dopo il suo ritorno da Lione nell’anno 1275, venne celebrato nel monastero
di Santo Spirito, il primo Capitolo generale della sua congregazione, sotto
la regola di San Benedetto Da Norcia, promulgando in tale caso una
costituzione sulla liturgia e lo stile di vita che avrebbero dovuto rispettare.
Dopo aver retto l’eremo abruzzese come Priore, nell’Anno 1276 riceve
dall’Arcivescovo Capoferro di Benevento, la nomina di Abate del
Monastero di Santa Maria di Faifoli nell’agro di Montagano, dove in
gioventù intraprese il suo noviziato, e si prodigò alla cura del cenobio
molisano, che ancora oggi porta i segni delle ristrutturazioni volute
dall’Angelerio sul portale gotico della basilica, altamente danneggiata dai
terremoti successivi.
Nel frattempo fu proprio qui che egli ebbe a che fare per la prima volta con
Re Carlo I, che non solo lo qualificò come ‘’Devotus Noster’’, ma il 27
Settembre del 1278, accolse il monastero sotto la protezione regia, in un
momento in cui Pietro si vedeva minacciato dalle persecuzioni del
feudatario Simone Da Sant’Angelo Limosano, il quale rivendicava alcune
delle pertinenze del monastero montaganese, come i casali di Corneti (o
Cerreti) e ‘’De Sancti Benedicti in Comitatu Molisii’’.
Nel Marzo dello stesso anno si ritirava in Puglia alla direzione del diruto
monastero di San Giovanni in Piano (diocesi di Lucera), che riunificherà
nelle proprietà celestiniane di Santo Spirito a Majella nel 1294.

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Dopo ulteriori viaggi in Tuscia, ritornerà sulla Majella come Priore del
Santo Spirito, estendendo i suoi interessi verso una maggiore cura ed
espansione della sua congregazione, nonostante il dissidio interiore tra la
scelta di una vita ascetica e la gestione del nascente Ordine Celestiniano.
Fu proprio in questo periodo che la sua fama si espanse al di fuori dei monti
di Sulmona, soprattutto per le guarigioni che Fra Pietro operava nel suo
eremo, grazie alla sua preparazione medica ed alla somministrazione ampia
delle limpide acque minerali della Majella.
Nella decade successiva al 1280, l’Ordine acquisirà nuove basiliche,
cappelle e monasteri, edificandone di nuovi o ristrutturando ed ampliando
i preesistenti, di cui si citano le chiese di San Pietro di Vallebona (presso
Manoppello), acquisita il 6 Novembre del 1285, e la nuova basilica di Santa
Maria di Collemaggio, fuori le mura dell’Aquila e citata il 6 Maggio 1287
nell’esenzione dal territorio diocesano.
Questo tipo di esenzioni nei confronti delle proprietà celestiniane, fu
ampiamente esteso da Papa Onorio IV a tutti i possedimenti, e in una Bolla
di Niccolò IV si fa riferimento ai beni siti nelle diocesi di Chieti, Aquila,
Isernia e Trivento.
Nel frattempo l’Angelerio si era ritirato nell’eremo di San Giovanni
Evangelista sull’Orfento, per poi ritornare nuovamente nella sua sede
principale, che deciderà di spostare in un luogo più accessibile per i fedeli,
trovando le sue fondazioni ai piedi del Monte Morrone, dov’era già presente
la cappella di Santa Maria, ampliata e munita di un nuovo cenobio
benedettino, rifondato sotto il nome di Santo Spirito a Sulmona (o al
Morrone).
Nel 1293 Pietro si trasferì definitivamente nella zona, ma non risedette
nell’enorme e ricco complesso monastico, poiché egli preferì ‘’arroccarsi’’
nel nuovo ma pur sempre modesto Eremo di Sant’Onofrio al Morrone,
edificato sulle coste rocciose dell’omonima montagna, proprio nel luogo in
cui sorgeva la piccola grotta di Santa Maria in Gruttis, in un’area ben
visibile dalla nuova sede dei suoi confratelli, dove ad un anno di distanza
egli apprese la tanto inattesa nomina della sua elezione al soglio pontificio.
Nella vita che ha caratterizzato Papa Celestino V, come si è voluto
evidenziare in largo modo, il dettaglio più ricorrente è quello
dell’eremitismo e della cura e fondazione di moltissimi luoghi addetti, che
fossero abbazie dai perfetti connotati o modeste grotte vicine in ogni caso
a sorgenti idriche, rimodellate come fonti ed abbeveratoi.
L’elemento dell’acqua era fondamentale per la prosperità della comunità
monastica e di un qualsiasi tipo di insediamento, che fosse una borgata, una
fortezza o una badìa qualsiasi, indistintamente dalla regola che si
tramandava e seguiva.

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A tutto ciò faceva sfondo anche il territorio in cui dette sedi venivano
fondate, per facilitare il ritiro spirituale dei monaci che professavano una
dottrina prettamente basata sulla Passio degli anacoreti della Tebaide come
Onofrio ed Antonio Abate, dalla cui influenza nel monachesimo
occidentale, troviamo la giunta del tanto ripetuto simbolismo del deserto,
modo con il quale gli stessi monaci descrivono le loro chiese ed i loro
cenobi, lontani dalle ricchezze terrene e riunite alla natura, e tale elemento,
fuso alla venerazione dell’eremita Onofrio, ricorre frequentemente proprio
nei monti che scandiscono le terre dell’attuale alto Molise, ad esempio tra i
più ricchi insediamenti sorti nelle pertinenze dei grandi monasteri
benedettini, come San Vincenzo al Volturno, a cui apparteneva la piccola
cappella rupestre di Santa Maria delle Grotte, presso Rocchetta al Volturno,
dove troviamo il santo raffigurato in un ampio affresco a parete risalente ad
un periodo che va dal XIII al XIV secolo, quando la piccola struttura doveva
svolgere la funzione di ritiro spirituale dei monaci del grande complesso
monastico, ed anche quella di controllo del territorio di appartenenza.
Questa particolarità si riscontra anche nella cappella benedettina di
Sant’Onofrio a Serramonacesca, rientrante nelle proprietà della
congregazione di Celestino, come si è già spiegato, ed è elevata la
possibilità che direttamente o indirettamente, il pontefice molisano avesse
curato tali strutture, vista la sua presenza stazionaria nella vicina città di
Venafro ed anche nel secondo monastero di San Vincenzo, e come in altre
occasioni, egli avrebbe usufruito di alcuni di questi eremi elencati in
precedenza, anche durante la sua fuga organizzata al seguito della rinunzia
al pontificato, allarmato dalla custodia forzata a cui voleva sottoporlo il suo
successore.
Tornando invece alla questione che poneva la nascita dei Fraticelli della
vita povera, fu nel 1294 che il Ministro Generale francescano Raimundo
Gaufridi ed il suo seguito, diedero mansione ai frati Pietro da Fossombrone
e Pietro da Macerata di recarsi al cospetto di Celestino V per chiedere la
loro ufficializzazione come Ordine Monastico, ricevendo l’autorizzazione,
ma a patto che avessero rispettato in pieno e rigidamente la dottrina di San
Francesco, e da come riporta il Tocco, egli richiese con precisione che tutti
i frati seguissero ed ubbidissero ai due monaci al pari della sua persona, ma
dando istruzione al cardinale Napoleone Orsini, di garantire che non
venissero riconosciuti sotto il nome dei Minoriti, ma con l’appellativo di
Poveri Fraticelli, oppure come in seguito accadrà, ‘’Poveri Eremiti di
Celestino’’.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Al seguito della separazione e conferma della congregazione di cui ora era


a capo, Pietro da Macerata mutò il suo nome in Fra Liberato, dal palpabile
significato, ed al contempo Pietro da Fossombrone si identificò con quello
di Fra Angelo Clareno (o Clarino), trovando il significato nel primo luogo
dal seguace di San Francesco, Angelo Tancredi da Rieti, e nel secondo caso,
traendolo dal territorio in cui è sito l’eremo di Sant’Amico di Avellana, nel
corso del fiume Chiarino, sui Monti della Laga, ove questi, diversi anni
prima, si era recato in osservanza eremitica assieme a Liberato.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Le persecuzioni anti-francescane e il supplizio degli Spirituali

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Con il rifiuto e sequestro di Pietro di Angelerio, salì in carica


meschinamente il pontefice Benedetto Caetani, sotto il nome di Bonifacio
VIII, che sin da subito andò a minare le questioni divisioniste che si stavano
creando nella congregazione dei Minoriti e di altri sottordini che con le loro
dottrine minavano alla resistenza della Chiesa romana, che in questo
periodo temeva i moti scismatici che aleggiavano tra l’Italia e la Francia.
In questo frangente Celestino venne avvisato dai suoi confratelli
dell’incarcerazione che il Caetani stava organizzando per timore che il
monaco potesse essere usato dai francesi contro di lui, e dopo un repentino
raduno al Morrone, si diresse in Capitanata per poter raggiungere il porto
di Vieste e così scappare verso la Grecia, venendo ospitato nella quaresima
del 1295 in uno degli eremi della Valle di Stignano, non molto distante
dall’eremo di San Giovanni in Piano dove egli si stava dirigendo, ed è molto
particolare il lascito che Celestino dà della sua presenza in questi piccoli
eremi rupestri, con l’incisione del suo sigillo nel vicino eremo di
Sant’Agostino e di una iscrizione muraria ancora oggi leggibile e
documentata dal Gruppo della Valle degli Eremi nel 2013.
È inutile che ribadisca in tale occasione il finale della sua impresa purtroppo
fallace, ma è d’uopo rimembrare le persecuzioni e strette che Bonifacio VIII
attuò contro di lui e contro i suoi eremiti seguaci, partendo in principio dalla
revoca dell’autorizzazione concessagli dal predecessore, costringendo i
poveri frati a fuggire con i loro maestri in Acaia, pur non trovando pace
nemmeno fuori dalla penisola italiana.
Si ha conferma di tali azioni anche nella bolla papale del 7 Maggio 1297,
con cui si ordinava all’inquisitore francescano e ministro della Provincia
Serafica, Matteo da Chieti, di agire contro di loro, appellati come ‘’Apostati
Bizochi ed eremiti’’.

‘’in Montibus Aprutinis se tanquam in cubilibus strutiorum in vestimentis


ovinis receptantes domatizando palam diversos heretice pravitatis errores
tanquam diversas habentes facies, licet caudas habeant invicem
colligatas’’.

I cosiddetti ‘’Beghini della povertà’’, tramandavano l’ideale del


francescanesimo rigoroso, letto al pari della parola di Cristo, e dunque
vedendo la regola al di sopra di ogni carica ecclesiastica, persino del Papa,
che secondo essi non poteva recarle danno o modifica, portando così alle
accuse di rinnegazione di ogni sacramento e dei dogmi della Chiesa stessa,
oltraggiando la figura del Vescovo di Roma, con l’accusa conseguente
d’essere eretici e sovversivi.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Le persecuzioni di Bonifacio VIII si fecero presto sentire anche in Acaia


dopo ch’egli intimò al patriarca di Costantinopoli Pietro Correr, ed ai
rispettivi arcivescovi di Atene e Patrasso, di procedere con forza contro la
congregazione di Fra Liberato.
Dai Regesti Angioini dell’anno 1299 si apprende quanto segue;

‘’Bonifacius pontifex per suas litteras nuper mandat venerabilibus in


Christo patribus patriarche Costantinopolitano et Patracensi et Atheniensi
archiepiscopis, ut contra quosdam accedentes sub religionis seu bizocorum
habitu ad principatum Achaye, qui tamen nullum de religionibus
approbatis observant… inquirere debeant et tam eos quam fautores et
receptatores eorum puniant’’.

Il Tocco nei suoi ‘’Studi Francescani’’, riporta come i fuggiaschi dovettero


trovare rifugio in ogni dove, venendo infine scomunicati in Tessaglia nel
1301, e fu allora che Liberato provò la necessità di fare ritorno al capezzale
del Papa, lasciando momentaneamente il vicariato dell’Ordine al Clareno,
che in Italia lo raggiunse in seguito con tutta la congrega, in concomitanza
dell’elezione di Benedetto XI, dall’esigua durata di pontificato poiché morì
nel Luglio del 1304, nella cui vacanza del seggio papale, Liberato ed i suoi
confratelli di ritorno dalla Grecia, si riunirono nel cuore montuoso del
Regno di Napoli, dovendo qui affrontare il peggior epilogo della loro storia.
Re Carlo lo Zoppo, per appianare le difficoltà interne, legate alla questione
pontificia, richiese al nuovo Papa Clemente V, di poter epurare il regno
dagli ordini che seguivano la scia delle eresie, ovvero proprio i Fraticelli
che in gran numero si erano radunati sui monti che vanno dall’Abruzzo al
Molise, tramite l’operato di un inquisitore, e fu proprio dopo questa
richiesta che ad istanza del generale Gonsalvo (o Consalvo) de Valboa,
deferì i poveri Frati di Celestino al famigerato Frate Domenicano,
Tommaso dell’Aversa, reputato già dalle fonti dell’epoca come un fanatico
predicatore e sanguinario operante del Sant’Uffizio, di gran lunga peggiore
del più celebre Inquisitore Bernardo Gui, a lui contemporaneo.
Egli esercitava ormai da tre anni i suoi uffici, e a questo proposito, fu lo
stesso Carlo II in data 30 Aprile 1302, a comunicare verso tutti gli
‘’Uffiziali’’ e militi del Regno di prestare aiuto nel compimento
dell’epurazione, a Tommaso ed ai suoi collaboratori Frate Rinaldo (o
Raynaldo) da Monopoli e Fra Luca da Gragnano, tutti dell’Ordine dei
Predicatori di San Domenico di Guzmàn.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

In tutto ciò la fama di Tommaso in quanto nemico dei Minoriti, lo aveva


preceduto e di molto anche, visto che tra le sue molteplici operazioni, vi fu
la negazione dell’esistenza delle stimmate di San Francesco, atto che gli
costò l’interdizione per circa sette anni attraverso la bolla papale del 12
Dicembre 1292, emanata dal francescano Papa Niccolò IV, dove si recita;

‘’Nos igitur dicit fratris assertionem improbam, et temerariam attendentes,


qua de Salvatore, et Stigmatibus eius periculose distinguens, Christum in
sanctis suis asseruit nunc mortuum nunc viventem… frati Thomae, ut iuxta
ea, in quibus perniciosa subtilitate deliquerant, praedicationis officium, ac
docendi ministerium usque ad septennium nos interdixisse cognoscas’’.

Nel frattempo non si erano fatti attendere gli aiuti ricevuti dagli alleati dei
Fraticelli e della ormai memoria di Pietro Angelerio, che come ci ricorda il
Wadding nei suoi Annales, dopo essere giunti dall’Acaia in Italia Centrale,
vennero accolti nel territorio molisano dal giurista regio Andrea da Isernia,
amico del Papa del gran rifiuto, che nella civitas isernina eresse la badìa di
Santo Spirito a Isernia, pur non essendo mai nato in questa città come a
differenza si era creduto popolarmente, come appunto smentiscono le fonti
storiche della sua vita; ‘’quodam heroe Andrea de Segna obtinuerunt
pauperculum locum, in quodam deserto, in quo haesit cum suis Frater
Liberatus’’.
Ciò nonostante, in segno di riconoscenza verso il povero Ordine bistrattato
da tutti, offrendo loro un modesto terreno nella montagna sovrastante il
Castrum Frisuloni, tra la borgata di Frosolone e la giurisdizione di
Civitanova del Sannio, di cui il giurista era Jureconsulto, con il fine di
potervisi stabilire, ed erigere una modesta badìa, la già nominata abbazia di
Sant’Onofrio in Frosolone, che di lì a poco sarebbe stata riunificata sotto i
possedimenti dei Celestini, del cui ordine facevano parte le principali
cariche che ne curavano la liturgia e lo stato della fabbrica, incorporando
nelle sue proprietà, la preesistente e modesta cappellina benedettina di
Sant’Egidio abate.
Questo però non fu l’unico luogo della nostra regione a conservare la
memoria dell’Ordine dei poveri fraticelli, visto che in realtà l’alto Molise è
ricco di insediamenti che paiono essere unificati tra loro da un nesso storico,
nel corso dei loro spostamenti lungo il territorio ancor prima di definirsi
come congregazione, sotto i primi moti che precedettero l’elezione
dell’Angelerio, anche se per la fondazione di questi luoghi, tra la presenza
del monachesimo spirituale e quello della congregazione di Liberato e
Clareno, vanno dati per buoni gli ultimi anni del XIII secolo e i primi del
XIV, antecedenti al 1305 e sorti grosso modo rispettando un medesimo
schema costruttivo sia delle cappelle, che dei romitori, modesti e dal grezzo
aspetto.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Tra questi troviamo per esempio il monastero gotico di Monte Sant’Onofrio


ad Agnone, quello di Sant’Onofrio a Ferrazzano, composto da una
cappellina centrale e delle piccole recinzioni, dallo stile molto simile al
romano eremo di Sant’Onofrio a Campodimele e quello di Rossano,
pressoché contemporanei, si prosegue con la badìa di Sant’Onofrio a
Chiauci, di Castelpagano ed anche di Pozzilli, quest’ultimo dalla storia
molto variegata visto che la sua struttura, oggi quasi totalmente diruta, fu
ricostruita a suo tempo sulle rovine dell’Acquedotto Augusteo che riforniva
la civitas di Venafro attraverso le acque del fiume Volturno, mentre nella
particolare occasione dell’eremo frosolonese, sembrerebbero essere state
messe in campo le stesse soluzioni adoperate nell’insediamento di
Serramonacesca, con uno dei lati della cappella e romitorio adagiati ad una
parete rocciosa pendente, particolarità proprie delle coste che caratterizzano
la sua antica ubicazione ancora oggi, e dove per altro non mancano le grandi
quantità di materiale lapideo erratico, ammassato in determinati punti dei
dislivelli rocciosi, chiudendo la probabile ricostruzione con l’ulteriore
presenza della fonte e il suo lungo abbeveratoio, riscontrabile sia nel
romitaggio abruzzese che in quest’ultimo con l’aggiunta di un’altra
fonticella mai presa in considerazione, localizzata più a nord della fonte di
Sant’Onofrio, e che, sia popolarmente che nel catasto, viene chiamata
‘’Fonte dei Frati’’.
Fu questo piccolo rifugio a determinare le prossime vicende dei monaci
eremiti di Celestino, ed il tutto è ben spiegato nella testimonianza della
Chronica VII Tribulationum Ordinis Minorum, dalla mano dello stesso
Clareno, divisa in ben due Codex Fiorentini, il Laurenziano di Sant’Isidoro
da Roma, e il Ricciardino dei Frati Minori di Siena (1487), oggetto di
numerosi studi da parte dell’Ehrle che si concentrò sul primo dei due.
Tutto ebbe inizio con l’esaminazione dei membri della congregazione di
Fra Liberato da parte di Tommaso Dell’Aversa, giunto nella fortezza di
Frosolone, radunandoli nel castello situato ad est del castro, oggi
parzialmente visibile nelle mura del Palazzo Zampini.

‘’Iniciat a Fratre Liberato et sociis sue inquisicionis officium in Castro


Fresolonis Treventine Dyocesis.
Qui frater Liberatus in vigilia pentecostes cum tredecim sociis eidem
inquisitori se spontanee aptulit de ea, que in ipso et sociis fide catholica
erat, paratus redere racionem.
Facta igitur de ipsis inquisicione omni diligencia, dixit ad eos inquisitor:
Ego da ista villa recessurus sum nec cogo vos mecum venire, tamen sciatis,
quod maxima tribulacio erit vobis, si remanetis, et minor si veniatis
mecum’’.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

In questo primo passaggio, Fra Liberato, giunto nel castello di Frosolone


con tredici confratelli, si costituisce spontaneamente all’inquisitore per
poter provare che in loro vige unicamente la fede cattolica, per così ovviare
al sospetto di eresia che vi era stato imputato.
Non riscontrando nella loro congrega alcuna azione o ideologia che potesse
garantire un processo d’accusa, Tommaso, a disamina ultimata, si rivolse
al maestro dei Fraticelli per proporgli una soluzione che appianasse gli
attriti tra il loro ordine e il papato, in un così turbolento periodo per la Santa
Sede, intimandogli di seguirlo sino ad Avignone al cospetto di Papa
Clemente V per poter ratificare la loro innocenza, altrimenti se così non
avesse fatto, ne avrebbe pagato le conseguenze assieme ai suoi compagni
eremiti, in maniera irreversibile.
Il testo continua nella descrizione dei fatti, ove a distanza di alcuni giorni
dalla sua giunta, egli intraprese il suo cammino fuori le mura della fortezza,
probabilmente passando attraverso Porta Santa Maria, per poi ripiegare
all’ombra dei bastimenti, diretto verso le montagne che conducevano ai
territori di Civitanova, al fine di raggiungere la strada per Teano Campano,
e nel bel mezzo, con il suo contingente di milizie ed uffiziali, stazionò sui
colli ai piedi della Morgia Quadra, in groppa al suo destriero, in quel luogo
deserto e spirituale in cui sorgeva la Badìa di Sant’Onofrio.
Nel suo salire verso l’eremo, pare che, come ancora oggi avviene nel caso
di perturbazioni e tempo avverso sui monti matesini, l’inquisitore venne
colto da una tempesta, nella cui torbida e gelida infuriata, egli venne
mancato per pochi metri da un fulmine, quasi simboleggiando una
ammonizione divina agli occhi del cronista.

‘’Post aliquos dies inquisitor indem cum sua familia et socio recedens
transibat per illum desertum, in quo Frater Liberatus cum sociis
morabatur.
Et ecce repente turbatus aer et corruscaciones et tonitura magna fiunt, et
fulgur de celo cecidit iuxta inquisitoris equum’’.

Fu allora che Tommaso pronunziò il consiglio di essere seguito al cospetto


del pontefice per dimostrare la validità e devozione dei poveri monaci;

‘’…qui substitit et conversus ad Fratrem Liberatum et sociis dixit:


Frater Liberate ego de fide tua et sociorum tuorum sum certus nec duco
vos.
Ecce locus vester prope est, si placet vobis, redite ad eum’’.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Liberato inizierà così il suo cammino dai monti frosolonesi, che però si
interromperà prima ancora di valicare i confini italiani, a causa di
complicazioni della sua salute mentre si trovava a Viterbo, presso le
comunità ecclesiastiche armene, in cui rimarra per diversi mesi, per poi
morire a due anni di distanza nel 1307 nell’eremo di Sant’Angelo della
Vena, a causa di febbri incessanti, allo scuro della congregazione che in
quel frangente era parzialmente dislocata negli eremi del Centro Italia, tra
gli Abruzzi, la Contea di Molise ed alcune proprietà del nord della
Capitanata, oltre che in terre ben più distanti, specialmente nei casi di coloro
che erano a serio rischio di eresia per posizioni severamente in contrasto
con il Papa e i presuli locali.

‘’…graviter infirmatus Viterbii in loco Armeniorum multis mensibus


ignotus omnibus iacuit et post annos duos in heremitorio sancti Angeli de
Vena angelicus vir dicessit’’.

La vicenda successiva alla notizia del ricovero di Pietro da Macerata,


cambiò i piani dell’inquisitore domenicano;

‘’ Inquisitor vero Neapolim reversus, sed statim post sex dies vel circa per
suum cursorem litteras, pie fraudis misit, attencius rogans eos, qui de sociis
fratris Liberati remanserant, non recedere, de suas mittere litteras ad
fratrem Liberatum et ad illos, quibus ipse mandaverat de Regno exire, quod
redire quam citius festinarent, quia sua intencio erat ipsos tanquam fideles
et catholicos virsos tam clero, quam populo recomendare et talem de ipsis
genere curam, ut a nullis deinceps possent in dei servicio molestiis.’’
E prosegue; ‘’ Et ecce inquisitor rediit cum cohorte hominum impiorum et
convocatis primo sociis, quos emiserat, fratris Liberati in castro Freselonis
laudavit eos in prima sua predicacione in populo, et moltos alios, qui in
diversis locis domino serviebant, per eosdem fratres congregavit usque ad
numerum XL duorum fratrum…’’.

Fra Tommaso una volta giunto a Napoli, dopo circa una settimana, inviò
una serie di lettere falsificate ai confratelli di Liberato e del Clareno,
facendogli credere che il loro maestro le avesse scritte di suo pugno,
chiedendo loro di non ritirarsi fuori dalla penisola, ma di restare uniti ed
avvisare tutti i loro compagni esuli di riunirsi in gran numero nel loro
principale cenobio, dove egli sarebbe di lì a poco tornato per celebrare
l’ufficializzazione pontificia del loro ordine monastico e di tutti i membri,
a garanzia di poter professare la fede e tramandarla senza alcun turbamento
da parte di chiunque fosse al servizio del Signore.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Grazie a questo infimo tranello, egli riuscì a radunare nel breve tempo circa
42 monaci che erano giunti in attesa della prima celebrazione del povero
Liberato che nel frattempo era ricoverato presso i monaci armeni a Viterbo,
cogliendo così di sorpresa la congregazione che si era accampata proprio
nelle pertinenze del monastero di Sant’Onofrio in Frosolone, loro sede
principale, ove l’inquisitore e i suoi militi ed uffiziali, piombarono sugli
inermi eremiti vestiti di stracci, e non soltanto su di loro;

‘’ Quibus congregatis, cum iam plene certificatus esset ab eis, quid frater
Liberatus inveniri non posset, iterum fecit in populo eorum, que gerebat in
animo, expressivum sermonem cum furore mimio et minarum tonitruis
omnes hereticos esse denuncians, quos ipse congregaverat, et illus castri
homines nutritores et fauctores ac defensores hereticorum in periculum
suarum personarum et rerum existisse’’.

Dopo essere giunto nella fortezza, annunciò l’arresto dei fraticelli in quanto
eretici, avvisando gli abitanti di Frosolone d’essere a rischio di ogni azione
punitiva anch’essi, per aver dato loro aiuto, ricettazione oppure ospitalità
nei loro possessi.
Su ciò chiarifica il Chioccarello nelle sue Scritture Giurisdizionali, tomo
terzo, pg. 623, in cui spiega che per il Sant’Uffizio si poteva cadere in eresia
nei casi in cui un civile commetteva il fatto, oppure ne coadiuvasse la
persona, ad esempio per omissione e negligenza verso le autorità
ecclesiastiche, e per la più comune cooperazione o consultazione con chi
era macchiato e ricercato per eresia.
‘’Deinde mandavit eos omnes capi et sub certis penis, ne quisquam eorum
fugere posset, cum summa diligencia custodiri’’.

‘’...cum furia et animositate ad extorquendam pecuniam a clericis, laycis


et monachis sub specie officii inquisicionis.
Nam cuiusdam militis filium sancti Onufrii Priorem captum in turribus
castri Capuani reclusit et quemdam alium archipresbyterum; priori
imponens, quod de papa Bonifacio murmurasset, archipresbitero, quod
fratrem Liberatum et socios hospicio recepisset; alia innumera hiis similia
faciens crudelia et impia valde, que explicandum magni voluminis
tractatum axquirerent’’.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Nel decorso della cronaca, egli comandò che essi fossero tutti arrestati e
sorvegliati con la massima diligenza affinché non potessero fuggire nel
tempo in cui si preparava lo spostamento del contingente di frati e di
cittadini, soprattutto nel corso dell’accertamento che il domenicano
intraprese verso la popolazione per capire chi ebbe ogni contatto con loro,
e per cui nella roccaforte della città si adoperarono alcune aree adibite in
tale occasione alla prigionia dei malcapitati, in attesa d’essere condotti
altrove per venir processati, che si trattasse di stanze del castello o di locali
privati come cisterne e granai, e di questo momento è presente una cronaca,
purtroppo al momento solo popolare, secondo la quale alcuni civili
riuscirono a scamparsela fuggendo attraverso le posterule e i passaggi
segreti che stazionavano nelle circostanze del palazzo comitale, uno di essi
fotografato nei primi del ‘900, con sbocco attraverso l’area delle fonticelle,
ed uno che dal castello attraverso delle vie ipogee sbucava nei pressi della
postierla di porta San Pietro, scendendo presso lo scorrere dei fiumi che
attraversano la borgata e disperdendosi nei feudi vicini.
Ma tornando alla tribolazione, si descrive come l’inquisitore procedette con
furia e zelo per estorcere ogni avere e denaro dal clero colpevole d’averli
aiutati assieme ai civili e predicatori di ogni ordine e qualsivoglia dottrina.
Qui si attuarono le più ingiuste e forti estorsioni al clero del piccolo
monastero di Sant’Onofrio, dove loro ebbero sede, il cui priore venne
privato dei denari e violentemente tradotto alla torre di Castel Capuano in
cui sarà incarcerato con l’accusa d’aver ospitato la congregazione di Fra
Liberato, mentre lo stesso trattamento fu riservato all’arciprete del
medesimo cenobio, accusato d’aver sussurrato delle frasi ingiuriose contro
Bonifacio VIII nel corso dell’esaminazione.
Anche il Wadding (tomo VI, pg. 90), parla del coinvolgimento dei monaci
della piccola Badìa nel processo contro i fraticelli e i civili frosolonesi,
venendo accostati a coloro che assecondavano o seguivano il pensiero del
movimento apostolico dei Dolciniani, una delle molteplici falsità che
Tommaso d’Aversa imputò ad una comunità che nulla aveva fatto di
sbagliato, se non dimostrare pietà per dei poverelli innocenti ed indifesi.
Nella descrizione dell’Ehrle si riporta chiaramente quanto ebbe riferito il
domenicano a Re Carlo II nei confronti delle sue azioni richieste nel cuore
del Regno; ‘’XL hereticos de secta Dulcini nacione Lombardos’’, facendo
mobilitare, però, lo stesso Andrea da Isernia, a difesa di tutti i monaci
ingiustamente accusati, e verso i quali fu anche lui collaborativo affinché
potessero professare la loro dottrina senza alcuna ripercussione ideologica.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

L’intervento del giurista isernino non migliorò il loro destino però,


soprattutto dopo un tale affronto che vedeva l’inquisitore sempre più
determinato a processarli e punirli, deportandoli così nella sede principe
della diocesi di Trivento, dove essi vennero imprigionati in una cisterna,
pratica che, come si era spiegato in precedenza, era abbastanza comune nel
medioevo, non esistendo dal punto di vista strutturale, le cosiddette segrete,
soprattutto perché si prediligevano le pene capitali in caso di colpevolezza
o di servigi da dover rendere, ed anche nell’attesa che il soggetto imputato
fosse messo a processo, costringendo dunque a dover adibire dei vani
preesistenti come celle di detenzione, e solitamente si prediligevano le
cisterne e i granai vista l’unica via d’uscita e l’assenza di appigli per poter
scappare, ma non manca la presenza di carceri allestite in ghiacciaie,
neviere e guardiole di ronda in disuso, oppure sale dei castelli dove la
nobiltà colpevole veniva rinchiusa, mostrandoci una realtà un po’ più
semplice rispetto alla tanto elaborata e romanzata versione prodotta nell’età
illuministica ottocentesca.
Nell’episcopio, Tommaso ebbe allestito in cinque giorni il tribunale
inquisitorio e dunque il luogo dove avrebbero avuto luogo i tremendi
supplizi, ma il vescovo Giacomo si oppose fortemente a quelle pratiche
immonde, e vedendo contrari anche i nobili di Trivento, egli dovette
ovviare al problema trasportandoli in una nuova sede che permettesse la
pratica della tortura senza alcun indugio;

‘’et per Bojanum transiens ascendit ad rocham Maginandi locum


sequestratum et maleficiis optum dominum habentem, per omnia
conformem malicie et nequicie cordis sui.
Ubi post se tractos fame, vinculis et itinere fatigatos includi fecit sub firma
custodia’’.

Il viaggio iniziò da Trivento e proseguì attraverso Bojano, per poi salire


verso il borgo di Roccamandolfi, già teatro di un evento significativo
riportato nel Codice Diplomatico del regno di Carlo I e II (I Registri, 1269,
pg. 78, 109, 111, 128), in cui si rammenta dell’ordine regio del 4 Dicembre
1269, con cui si voleva il massimo aiuto al milite Berardo de Rayano per la
presa del castello della Rocca Maginulfi e la deportazione dei suoi
occupanti Catari e predicatori della regola di Giocchino da Fiore, presso la
roccaforte di Capua, con l’accusa di essere eretici.
Precedentemente il feudo venne assegnato nel 1268 al conte Ubertino Landi
da Corradino di Svevia, il tutto messo a repentaglio dall’ascesa al trono
degli angioini, che, assegnarono la sua gestione prima a Tommaso d’Evoli
nell’anno successivo, e poi a Berenger da Tarascona nel 1272, il cui stemma
è inciso postumo su una croce stazionaria della borgata.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Nel 1305 la fortezza era feudo di Bertrando d’Artois, Gran Giustiziere della
Terra di Lavoro e della Contea di Molise, al quale venne mandata una
richiesta da parte dell’inquisitore domenicano inviata da Roccamandolfi,
riportata da Riccardo Bevere nel suo studio dei documenti delle Arche
(Archivio Storico di Napoli, anno XXV, fascicolo terzo, pg. 258), grazie
alla quale possiamo datare l’inizio del processo ai fraticelli, poco dopo il 12
Luglio del 1305, data del suo invio, e nella quale è riportato quanto segue;

‘’Et nos in Rocca Maginolfi habemus sexaginta hereticos captivos et intellexerimus


quod ad dictam Roccam venire intendatis volentes precavere periculo quod ex concursu
vestre familie et nostre posset in dictis haereticis suboriri.
Nobilitatem vestram rogamus nichilominus sub pena excomunicationis et privationis
terre vestre precipientes quatenus quamdiu nos in dicta Rocca moramur cum nostris
captivis ad eam nullatenus veniatis.
Ceterum Bardelloctus Comestabilis vester, tantam in facie nostra fecit iniuriam sine
causa quantam passi non fuimus post quam incepimus Inquisitionis officiorum exercere,
quem posuimus sub catena et ad Regiam justitiam curabimus destinare…’’

Il d’Aversa spiega al giustiziere di trovarsi con sessanta eretici imprigionati


nel borgo di Roccamandolfi, resi stanchi e sofferenti dalla fame e dal
viaggio in catene che valse quanto una tortura, intimandolo, in vista del
processo che in loco si sarebbe tenuto, di non opporsi o di svolgere alcuna
interferenza nei confronti del suo ufficio, pena la scomunica e la perdita dei
suoi possedimenti, rinfacciando per di più le ostilità tra le due parti ed azioni
ingiuriose cagionate dal suo connestabile Bardellotto.
Dopo queste ulteriori tecnicità nella vicenda, incominciarono le tremende e
abominevoli torture che il fanatico frate operò su di loro, non risparmiando
nessuno, che fossero chierici, eremiti, donne o bambini, nulla fermò la sua
sete di dolore e sofferenza da empio carnefice quale era;

‘’Pueros duos inter eos reperit, quorum unum ad prandium secum tenens, prius inediam
cruciatum, vino puro potatum inebriavit et ab ebrio nec sciente, quid assereret vel
negaret, extorsit testimonium, quia fratres illi erant heretici, quos tenebat.
Alium puerum in eculeo nudum elevari fecit, et manu propria lanceam vibrabat ad
pectus ejus dicens: Hac confestim lancea te perforabo, nisi confitearis, quod omnes hii,
quos hic teneo, sunt heretici.
Et tamdiu eum fecit cruciari, donec puer consensit, quod scriberetur, quod illi erant
heretici.
Quosdam vero alios, qui de Regno erant et omnibus noti et a quibus non poterat recte
vel indirecte cuiusdam confessionis extorquere sermonem, flagellis publice cesos,
detruncatis vestibus redire iubet ad propria.
Et ad majorem pompam et obproprium servorum dei, quos vinctos quandoque ante se,
quandoque post se trahi faciebat, virgines quasdam et penitentie feminas tanquam
hereticas usque Serniam duci iussit.
Quas cum nullis minis vel afflictionibus potuisset inducere, quod de se vel de aliis
confiterentur, quod essent heretice, publice flagellatas remisit ad propria’’.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Iniziò con due giovani ragazzi, uno dei quali fu condotto ad un desco
imbandito, tanto che era lacerato dalla fame, e lì venne fatto ubriacare con
vino puro, annullando la sua capacità di intendere o volere, estorcendogli
la confessione di colpevolezza d’essere caduto in eresia e di aver dato adito
alle congiure degli spirituali.
Seguì un altro giovane ragazzo che fu denudato e legato ad una ruota, ed
imbracciando una lancia, Frate Tommaso lo minacciò di averlo trafitto
qualora non avesse confessato che lui e tutti i prigionieri erano eretici
dolciniani, e vista la sua resistenza, lo sottopose a numerose e cruente
torture finché non cedette ed accettò che venisse messo a verbale, mentre
verso altri civili, a cui non poteva estorcere alcuna confessione, adoperò la
fustigazione in pubblica piazza, per poi lacerarne le vesti e rispedirli nelle
proprie case.
Ma con maggiore ferocia si accanì contro i fraticelli, trascinati in catene al
suo cospetto mentre il sanguinario inquisitore ordinava che delle vergini
donne, al fine delle torture, fossero condotte in penitenza come eretiche,
nella civitas di Isernia, continuando imperterrito i supplizi nei confronti di
altri civili e chierici.
Le torture che i poveracci furno obbligati a ricevere si suddivisero in varie
pratiche abbastanza comuni e ripetute in molti degli atti inquisitori del
Santo Uffizio nel resto del paese, scritti che a loro volta ispirarono molto
Umberto Eco nella stesura del romanzo Il Nome della Rosa, libro che
cingeva a guisa dell’altro domenicano Bernardo Gui, e dei cui eventi si
discuterà successivamente.
Tra le pratiche descritte nel processo di Roccamandolfi troviamo i più
terribili, come la sospensione ad una trave con le mani legate dietro la
schiena e dei pesi fissati ai piedi, una tortura che era storicamente definita
con il nome ‘’la Corda’’, largamente scelta anche dagli inquisitori spagnoli
sino al XVIII secolo, vista l’inaudita sofferenza che si causava alle vittime,
terminando spesso con la rottura degli arti superiori o con la morte per
asfissia a causa della postura.
Si prosegue con la tanto temuta immersione rapida e ripetuta in acqua
gelida, con traumi pari al passaggio di lame sulla pelle, come nel caso
successivo per esempio, con il raschiamento di gambe e caviglie attraverso
l’uso di aculei o lame non affilate, oppure ustioni locali e tentate tali,
minacciando gli inquisiti con un ferro arroventato alla fiamma, arrivando
anche a sferrargli violente percosse dirette alla testa, al collo ed al busto, le
aree più vulnerabili e prescelte nelle cause inquisitorie, il tutto protratto
senza fine per ben cinque mesi, dalla pentecoste al natale, giungendo al loro
termine solo grazie all’intervento del Re ed all’improvvisa infermità che
colpì il malefico inquisitore.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Nel frattempo molti dei poveri frati erano morti nel corso delle torture,
dimezzandosi nel numero, e nonostante ciò, la sofferenza degli altri venne
beffata anche dall’azione regia di porre fine alla tribolazione, poiché fu
varata la sentenza del diabolico monaco di sottoporli al pubblico scherno
con una marcia della vergogna nella città di Napoli, legati e denudati, per
poi essere flagellati, marchiati freddo con una croce sulla loro pelle, come
dei vili traditori, ed infine esiliati dal Regno.
In tutto ciò però la sentenza finale non venne mai letta dallo stesso che nel
mentre era segregato al suo letto, ch’egli sapeva sarebbe di lì a poco
diventato la sua tomba, per alcune fonti a causa della mala gestione di un
supplizio dove egli restò menomato, mentre altri riferiscono di un malessere
dovuto probabilmente al cuore o ad una emorragia cerebrale, mentre egli
era tormentato dalle sue mostruose azioni;

‘’Deus autem ossa illus, qui suos fideles pauperes tam crudeliter et tam dire tractaverat,
discipare non distulit, sed et dentes contrivit in ore eius et molas eius confregit… …quid
diciam deo, quod meliores servos suos ex sola pravitate mee voluntatis tam nequiter
oppresserim mendaciter, diffamaverim, crudeliter tractaverim et iniuste iudicaverim’’.

Sul suo giaciglio egli era flagellato da tutto il male che riservò a delle
persone prive di colpa.
Perciò in quegli istanti, decise di indire che il priore di Sant’Onofrio in
Frosolone, venisse scarcerato assieme all’arcipresbitero, e che
rispettivamente vi fossero restituiti i denari sottratti, mentre per i fraticelli
superstiti preferì che cessasse l’ingiustizia che li fece nascere e morire da
esuli senza una patria, rimpiangendo nei suoi ultimi istanti, di cosa avesse
potuto dire a Dio dopo cotanta perversità ed oppressione perpetrata
attraverso le calunnie e crudeltà d’ogni tipo contro i suoi migliori servitori.
Come nelle menti più criminose era solito il rimpianto accorso per la mera
paura del giudizio divino, pur di scampare alla propria responsabilità che
sarebbe stato d’uopo farne buon uso a priori, vivendo questa vicenda come
una mezza giustizia, in cui nessuno poteva agire se non il fato, che nessuno
perdona, letto dai cronisti come volontà del Signore verso coloro che
pontificavano d’essere suoi araldi, ma di certo non udivano le parole di lui
nelle loro orecchie.
Ne andò meglio per gli ulteriori carnefici che si prodigarono nell’essere
aguzzini di questi poveri fratelli, come lo stesso papa Bonifacio VIII che
come riporta bene il Gregorovius, passò terribili sofferenze nei suoi ultimi
istanti di vita, nelle settimane che seguirono all’oltraggio di Sciarra-
Colonna, lo schiaffo di Anagni, quasi mostrandosi come compimento della
profezia che Celestino V gli recitò nell’istante in cui lo interdiceva nelle
sue castella; ‘’Intrabis ut vulpes, regnabis ut leo, morieris ut canis’’, ovvero;
‘’Entrerai come una Volpe, regnerai come un leone, perirai come un cane’’.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Né Tantomeno andò meglio per Carlo lo Zoppo che morì il 4 maggio del
1309, avendo riferendo nei suoi ultimi istanti, il rimorso per il male che
aveva causato con i suoi ordini di carattere politico, a quei poveri confratelli
ch’erano nati grazie all’opera del suo stesso fidato e tanto manipolato San
Pietro Celestino, un papa buono, gettato per sua inconsapevolezza in un
mare di mostri.
In tutto ciò non discretamente la situazione fu trattata dal successore di
Bonifacio, il Papa della cattività avignonese Clemente V, che nel 1305
organizzò una commissione di porporati, riunita a Notre Dame de Grosseau
a Malaucène, per poter esaminare la situazione che s’era creata all’interno
delle molteplici scissioni dell’Ordine Francescano, da cui appunto
derivavano gli spirituali e dunque il sottordine dei Fraticelli confermati da
Celestino V, con lo scopo di risolvere gli attriti dall’aria scismatica e
minatoria del potere stesso della Chiesa, mentre dopo diverso tempo, nel
1309, il Ministro Gonsalvo de Balboa ordina l’esproprio dei beni
appartenenti all’ordo francescano, comprese le rendite, quando per tutelare
il sottordine degli spirituali, Papa Clemente promulga la Bolla Papale
Dudum ad Apostolatus.
Un anno dopo il capitolo di Padova prese decisioni forti verso la questione
dell’ordine, attuando un ulteriore esproprio di tutti i loro beni ed oggetti
superflui che non rispettassero la povertà da loro predicata, e quindi il
pontefice, preoccupato successivamente per l’integrità dell’ordine di San
Francesco, dopo il Concilio di Vienne (1311-12), non accolse le istanze dei
frati spirituali, rifiutando anche le richieste di Angelo Clareno e di Ubertino
da Casale di poter fondare un nuovo ordine monastico, prendendo sempre
più luogo nella penisola, la persecuzione ripetuta contro i monaci della vita
povera.
Queste situazioni insostenibili vennero denunciate in primo luogo dalla
fetta degli spirituali della bassa Francia, che inviarono nel maggio nel 1316,
una lettera di denuncia di tale situazione al Capitolo Generale di Napoli,
con fermo rifiuto da parte del reggente provinciale di Terra di Lavoro, e
successivamente a tale capitolo, con l’elezione di Papa Giovanni XXII, si
avviò una violenta chiusura della tanto annosa vicenda che circondava i
francescani, con l’incarico da lui affidato al domenicano Bernardo Gui di
attuarne la loro repressione e porli sotto giudizio della Santa Inquisizione.
Dopo ciò, essi furono macchiati di eresia e definitivamente perseguiti dopo
le lettere Quorandum Exigit, Sancta Romana et Gloriosam Ecclesiam
(1317-18), condannando numerosi monaci al rogo ed alle più crudeli
sofferenze.
La questione dell’Ordine non terminò affatto con i processi del primo ‘300,
ma si protrasse quasi per la maggior parte della sua esistenza, con eventi
che toccarono proprio il nostro territorio, dove tutto continuava con le
pressioni della santa sede nella risoluzione dura contro questi dissidenti.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Sotto il pontificato di Clemente VI, si apprende dal Tocco la richiesta datata


24 Aprile 1346, dove si lamentava della solidarietà dimostrata dagli
inquisitori francescani nei confronti degli eretici fraticelli, mentre
Innocenzo VI nel 1354 inviò numerose lettere ai suoi legati ed agli
arcivescovi di Napoli e Benevento, avvisando che le eresie non erano
ancora state domate, e richiedevano maggiore attenzione per poter essere
annientate con i loro predicatori.
Sempre con lui si rinnovano le medesime doglianze in data 20 Settembre
1357 nelle missive dirette a frate Ponzio, episcopo di Orvieto e vicario
romano, mentre ad un anno di distanza è datato l’ordine a tutti i prelati ed
arcivescovi di provvedere allo sterminio di ogni eretico della penisola
italiana.
Nel frattempo il cuore del Regno di Napoli si rimpinguò vivamente dei
predicatori della povertà, com’è testimoniato anche negli scritti del gran
processo dell’anno 1362 contro Carlo di Durazzo, in cui vennero coinvolti
il vescovo di Aquino, Antonio di Pontecorvo e quello di Trivento,
Francesco Marchesino, subentrato nel 1361 dopo la morte del predecessore
Guglielmo Farinerio, Generale dei Minoriti Conventuali, con l’accusa
d’aver aderito alla loro dottrina e di averli protetti in egual modo a quanto
fosse imputato al cugino dei reali di Taranto.
Mentre pochi anni prima, altri avvenimenti riguardarono il vescovo
aquinese Tommaso di Bojano, che fu a capo di una frazione di fraticelli
nella prima metà del XIV secolo, che non riconobbe la legittimità e
sovranità del ministro provinciale, scindendo i fraticelli in due fazioni
contrapposte, quella del ministro che mantenne il nome di Fraticelli della
Vita Povera, o il nuovo di Fraticelli di Fra Filippo de Majorca, e quella del
vescovo Tommaso che risultava essere la più sovversiva e pertanto scansata
dalle alte cariche ecclesiastiche.
Fu tra esse che si distinse una terza fazione, quella di Angelo Clareno,
estranea alla loro controversia che non fu placata nemmeno dalle
mediazioni volute da Carlo di Durazzo.
Nel corso del secolo la situazione procederà più o meno migliorando per i
sottordini minoriti, come si può evincere anche dal movimento di Fra Paolo
di Trici, maestro degli spirituali che nel 1368 ottenne il permesso di poter
riunire la sua congregazione nell’eremo di Bugliano per poter vivere nella
rigida osservanza della vita povera francescana, e da cui sorse una comunità
monastica fruttuosa, il cui cenobio fu consacrato dallo stesso Gregorio XI
nell’anno 1373, mentre invece i poverelli seguaci di Angelo Clareno si
erano sparpagliati in tutto il Regno, tra la Provincia Romana e la Marca, e
dopo la loro riconciliazione con la chiesa presero il nome di Ordine dei
Clareni (o Clarini).

26
I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Tra gli spirituali che più erano legati alla sfera occitana invece, come aveva
peraltro dimostrato Papa Clemente, vanno ricordati con enfasi alcuni dei
più importanti del periodo, come fra Guido da Mirepoix, frate Bartolomeo
Sicardi, Giovanni da Rupescissa ed anche il più celebre e zelante Ubertino
da Casale, compagno di spiritualità con Santa Chiara da Montefalco, nato
a Casal Monferrato nell’anno 1259 ed allievo fiorentino sotto la guida di
Fra Piero di Giovanni Olivi, divenuto di grande importanza per i padri
spirituali, tanto che la sua predicazione lo portò a seri contrasti con gli altri
ordini ed il papato, subendo due scomuniche da parte di Giovanni XXII
negli anni 1323 e 1325 per aver sostenuto la povertà di Cristo e la causa
dell’Olivi, costringendolo a rifugiarsi sotto l’ala protettiva dell’imperatore
Ludovico IV il Bavaro, che accompagnerà nella sua spedizione verso la
città eterna nell’anno successivo con il seguito dei frati Michele da Cesena,
Giovanni da Jandun, il cultore Marsilio Minardi da Padova e il noto Fra
Guglielmo da Okham, il Doctor Invincibilis che diede ispirazione per la
stesura del personaggio letterario Guglielmo da Baskerville.
Della morte di Ubertino ci sono tutt’oggi ombre ardue da dissipare, ed è
importante la testimonianza dei fraticelli, i quali ne citano il decesso per
assassinio tra il 1328 e il 29.
Allo stesso modo i fraticelli della vita povera di Clareno e di Fra Liberato,
furono prettamente riconducibili come si è detto, al movimento degli
Spirituali, vivendo con gli occitani gran parte delle loro persecuzioni e
condanne, mentre spesso erroneamente è capitato che questa congrega
venisse confusa con quella dei Fraticelli de’Opinione, nati dalla guida di
Michele da Cesena, i cosiddetti Michelisti, che non ebbero contatto alcuno
se non modesto, soprattutto per divergenze che sembravano essere molto
più marcate nel sottordine degli Osservanti, che si distinsero dal resto per
via della fedeltà al papato e maggiore corruttività, sopportando a loro volta
le ostilità continue dell’altro sottordine francescano, quello dei
Conventuali, almeno fino al 1517, quando ottennero il pieno
riconoscimento da Papa Leone X, venendo definitivamente riunificati nei
Minoriti verso la fine del XIX secolo.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

L’ultimazione di una storia davvero molto complicata, quella della


congregazione che prese piede nelle predicazioni del poverello di Assisi, la
cui dottrina d’esaltazione della povertà e cooperazione risvegliò un
concetto umanistico che nel tempo era stato messo a dura prova da quei
sistemi politici e militari, che per causa di questo vacillarono e trovarono il
dissenso dilagante, purtroppo spesso incappando nei tragici epiloghi delle
violente eresie imperversanti nell’Europa del XIV secolo, e le cui vittime
più significative in questa circostanza, sono proprio i poveri monaci che
s’erano riuniti sui monti dell’Italia centrale e nell’alto Molise, prima ancora
che nascesse con la sua connotazione giuridica attuale, quando era facile
dare in pasto al tempo la memoria delle cronache scomode e deplorevoli,
che nessuna emozione possono far provare nell’essere italiani, se non la
vergogna e la pena per un atto di tale portata, che per nostro volere mai
dovrà essere dimenticato e sempre verrà tramandato e raccontato in ogni
suo dettaglio, per dare occasione a queste anime di trovare finalmente il
loro posto nella ricca biblioteca che, tomo dopo tomo, ha costituito la storia
dell’umanità, ed al contempo ci fornisce gli strumenti di poter esporre i
carnefici di queste atrocità al pubblico scherno, come essi fecero per le loro
vittime.

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Stralci delle Memorie Historiche del Sannio, di Giovanni Vincenzo Ciarlanti


Pagine 371-372-373

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Localizzazione degli insediamenti eremitici in Frosolone

©Giuseppe La Porta ©Giuseppe La Porta

fig.1 Fonte di Sant’Onofrio in Frosolone fig.2 Fonte dei Frati

Resti murari dell’abbazia

©Giuseppe La Porta

fig.3 individuazione delle tre località di Sant’Egidio, Sant’Onofrio e Fonte dei Frati, con rispettiva delimitazione dei probabili
resti del cenobio medievale dei fraticelli

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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

Abbazie ed eremi spirituali dell’alto Molise, collegati alla vita dei Fraticelli

fig.4 Sant’Onofrio ad Agnone fig.5 Sant’Onofrio a Chiauci fig.6 Sant’Onofrio a Ferrazzano

fig.7 individuazione dei principali eremi collegabili alla vita monastica dell’ordine dei Fraticelli tra il 1294 ed il 1305

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37
I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise

‘’ Persone che lo videro mi raccontarono che fuggì con


tanto giubilo, mostrando tali segni di letizia negli occhi
e nella fronte quando si allontanò dal concistoro, libero
di sé, come se avesse liberato il collo non da un peso
lieve, ma da crudeli mannaie, tanto che gli sfolgorava
in viso qualche cosa d’angelico’’
Francesco Petrarca, De Vita Solitaria.

38
Celestino V, affresco del santuario di Santa Maria di Casaluce, XV sec.

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