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Giuseppe La Porta
28 Agosto 2018
Termoli
San Francesco d'Assisi, affresco della Dormitio Virginis,
(XIV-XV sec.) Chiesa di San Pietro, Terni.
I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise
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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise
indice
Prefazione……………………………………………………………………………..pg.3
Tavole
Abbazie ed eremi spirituali dell’alto Molise, collegati alla vita dei Fraticelli……………pg.33
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I Poveri Fraticelli di Celestino V e la Santa Inquisizione nel Molise
Prefazione
Il passato della nostra Italia sembra essere di anno in anno una realtà che oramai può dirsi
‘’archiviata’’ per le menti dei più ignari, dove, come per una vicenda giudiziaria che ha richiesto
tempo per la raccolta d’ogni indizio e analisi del movente, si può giocare la solita carta della
narrazione dei vincitori, rimembrati nella storia come coloro che ebbero la meglio sul male, a mò di
principi machiavellici che riuscivano nelle loro trame a soggiogare i deboli, i veri giusti e soprattutto
i pericolosi, che volevano sovvertire un ordine delle cose obsoleto e retrogrado, e che al pari d’un
lucifero sarebbero dovuti sprofondare nelle viscere del dimenticatoio storiografico, nella Damnatio
Memoriae che purtroppo per molti si è protratta fino ai giorni nostri, e per la cui dilacerazione è arduo
il lavoro di ricerca da parte di noi storici, amatoriali o professionali, che ci siamo susseguiti nei secoli,
accampandoci in quegli archivi polverosi e vasti cataloghi che celano al loro interno un mondo di
storie collegate alle origini stesse della penisola e dei suoi luoghi.
Qui discuteremo di un argomento che abbiamo preso davvero a cuore, un tempo rimembrato nelle
terre altomolisane solo come leggenda degli avi, ma che al seguito della succitata ricerca passata e
presente, si è rivelato essere un accadimento vero e molto variegato, ricco di intrighi e di soprusi,
crudeltà che mai sarebbero riscontrabili in opere letterarie moderne, e che soprattutto per esse riporta
noi lettori a quell’aura macabra e di paura di romanzi come il Nome della Rosa, con cui il suo creatore
Umberto Eco ci trascina nel tempo delle eresie, dove i frutti del Santo Francesco condussero alla
nascita e predicazione di un credo che fece tremare le fondamenta stesse della Casta Ecclesiastica, in
cui la Chiesa avrebbe dovuto seguire il messaggio della povertà del Cristo, e rinunciare alle ricchezze
terrene che tanto allontanarono la Chiesa stessa dal popolo, elevandosi ad una divinità in terra, al di
sopra d’ogni imperatore, usufruendo di ogni vantaggio possibile pur di ovviare ad una seria intesa
con i molti Ordini Monastici, che per protesta alla moderatezza verso la regola stessa si erano separati
dai loro fulcri, sfociando in correnti ben più rigide o addirittura violente, per cui non si fece attendere
l’azione repressiva con chiunque simpatizzasse per chi propinava il pensiero di una Chiesa povera ed
umile, ad esempio il moto estremizzante dei Dolciniani.
Sembrerebbe strano per molti lettori, eppure quei tragici eventi accorsi nelle terre di più elevato
interesse politico, sono avvenuti anche nella nostra terra molisana, un tempo suddivisa in altre
giurisdizioni, intorno all’ordine dei Poveri Fraticelli, che tanto furno cari alla figura del Papa buono
Celestino V, e che com’egli subì, anche loro verranno tradotti in un calvario di sofferenze per mano
del crudele domenicano Tommaso D’Aversa, che per tanto male pagherà con la sua vita, come colto
dalla condanna di qualcuno che a quanto pare, era più in alto di ogni suo pontefice fidato o Re
usurpatore che si voglia.
Per ogni approfondimento storico ci tengo qui a ringraziare la collaborazione con molti esponenti ed
esperti dell’ambito storico italiano, dalla direzione dell’archivio storico di Trivento ed ovviamente
Don Doemico Fazioli, ed alla vaticanista Barbara Frale per le tante delucidazioni su alcuni aspetti
della vita celestiniana e del pontificato di Clemente V, ma soprattutto voglio porre il riconoscimento
a mio padre, lo storico Domenico La Porta, che diversi anni fa iniziò questa investigazione sul conto
della inquisizione nel territorio molisano, e degli illeciti nella storia ecclesiastica locale a partire dalla
trafugazione dei reliquiari e dell’ombra simoniaca che macchiò la Chiesa nei primi secoli dell’alto
medioevo, quando si vedeva la continua nascita di poteri singoli e territoriali in tutta l’Italia,
imponendo una rigida azione da parte dei pontefici che si estese nei secoli alla questione dei Poveri
Fraticelli di Celestino, qui riproposti in una accurata rianalisi delle opere bibliografiche che ne hanno
trattato nel tempo, dal Ciarlanti al Wadding ed il Gonzaga, riportati nella sintetica e preziosa cronica
del professore Michele Colozza, diventato, al seguito dei frutti della Seconda Guerra Mondiale, una
delle fonti più preziose dell’Italia Centromeridionale, riportando molti dei documenti e stralci di
regesta perdute nel fuoco bellico.
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Atti che purtroppo diedero ulteriore modo alla Santa Inquisizione di poter
agire contro tutti coloro che predicassero tale dottrina, pur essendo estranei
al movimento dolciniano, che subì in seguito una aspra persecuzione,
culminata con la condanna dei principali esponenti e fondatori, prima Frate
Gherardo Segarelli nel 1300 nella città di Parma, ed in seguito il più noto
Dolcino da Varese, bruciato sul rogo a Vercelli nel 1307, e di cui parlerà
molto il domenicano Bernardo Gui.
Al contempo nell’Ordine dei Frati Minori Francescani si era sviluppata una
pesante divisione ideologica tra i cosiddetti ‘’Rilasciati’’ ed i ‘’Zelosi
dell’osservanza’’, come riporta esiguamente il Marino, più
appropriatamente ne vediamo la nascita in questa scissione del movimento
religioso dei Padri Spirituali, che si erano insediati tra i territori della
Francia Meridionale, con la guida di Fra Pietro de Giovanni Olivi, e
dell’Italia Centrale, che assieme ai Beghini ed ai laici sostenitori come
Arnaldo da Villanova, erano tutti accomunati da una visione apocalittica
dell’ascesa dell’anticristo e della voglia di rinnovamento della Chiesa
romana, con una visione molto critica nei confronti del pontificato di
Bonifacio VIII ad esempio, e persino verso le alte cariche dell’Ordine
Francescano stesso, come il Ministro della congregazione Frate Giovanni
da Morrovalle.
Nella prima fase della loro nascita, fecero richiesta all’eletto pontefice
Celestino V, per l’autorizzazione a poter svolgere una vita cenobitica in dei
monasteri, oppure eremi abbandonati e isolati, dalle umili vestigia atte alla
vita ascetica da loro tanto professata con enorme rigore, il tutto dovuto a
causa del Divieto del Concilio di Lione del 1274, secondo cui era vietato
formare nuovi ordini monastici al di fuori di quelli confermati dal Concilio
Lateranense IV, per contrastare in tal modo tutti gli ordini nascenti, legati
alla dottrina della vita povera ed evangelica, come i Saccati ed i già
nominati Apostolici.
Il Papa acconsentì naturalmente, e tutto ciò è strettamente legato alla
vocazione dello stesso Celestino, quand’ancora era conosciuto dai suoi
contemporanei come Pietro di Angelerio, nato tra il 1209 e il 1210 nel
castro di Sant’Angelo Limosano, e deceduto nella prigionia di Fumone
all’incirca il 19 maggio del 1296, stando agli Anaelecta Bollandiana ed alle
ricerche di Stefano Tiraboschi da Bergamo (XIV-XV sec.), per non citare
gli ulteriori cronisti a lui vicini da cui la più parte degli storiografi della vita
celestiniana, trassero le loro informazioni maggiormente dettagliate.
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Dopo ulteriori viaggi in Tuscia, ritornerà sulla Majella come Priore del
Santo Spirito, estendendo i suoi interessi verso una maggiore cura ed
espansione della sua congregazione, nonostante il dissidio interiore tra la
scelta di una vita ascetica e la gestione del nascente Ordine Celestiniano.
Fu proprio in questo periodo che la sua fama si espanse al di fuori dei monti
di Sulmona, soprattutto per le guarigioni che Fra Pietro operava nel suo
eremo, grazie alla sua preparazione medica ed alla somministrazione ampia
delle limpide acque minerali della Majella.
Nella decade successiva al 1280, l’Ordine acquisirà nuove basiliche,
cappelle e monasteri, edificandone di nuovi o ristrutturando ed ampliando
i preesistenti, di cui si citano le chiese di San Pietro di Vallebona (presso
Manoppello), acquisita il 6 Novembre del 1285, e la nuova basilica di Santa
Maria di Collemaggio, fuori le mura dell’Aquila e citata il 6 Maggio 1287
nell’esenzione dal territorio diocesano.
Questo tipo di esenzioni nei confronti delle proprietà celestiniane, fu
ampiamente esteso da Papa Onorio IV a tutti i possedimenti, e in una Bolla
di Niccolò IV si fa riferimento ai beni siti nelle diocesi di Chieti, Aquila,
Isernia e Trivento.
Nel frattempo l’Angelerio si era ritirato nell’eremo di San Giovanni
Evangelista sull’Orfento, per poi ritornare nuovamente nella sua sede
principale, che deciderà di spostare in un luogo più accessibile per i fedeli,
trovando le sue fondazioni ai piedi del Monte Morrone, dov’era già presente
la cappella di Santa Maria, ampliata e munita di un nuovo cenobio
benedettino, rifondato sotto il nome di Santo Spirito a Sulmona (o al
Morrone).
Nel 1293 Pietro si trasferì definitivamente nella zona, ma non risedette
nell’enorme e ricco complesso monastico, poiché egli preferì ‘’arroccarsi’’
nel nuovo ma pur sempre modesto Eremo di Sant’Onofrio al Morrone,
edificato sulle coste rocciose dell’omonima montagna, proprio nel luogo in
cui sorgeva la piccola grotta di Santa Maria in Gruttis, in un’area ben
visibile dalla nuova sede dei suoi confratelli, dove ad un anno di distanza
egli apprese la tanto inattesa nomina della sua elezione al soglio pontificio.
Nella vita che ha caratterizzato Papa Celestino V, come si è voluto
evidenziare in largo modo, il dettaglio più ricorrente è quello
dell’eremitismo e della cura e fondazione di moltissimi luoghi addetti, che
fossero abbazie dai perfetti connotati o modeste grotte vicine in ogni caso
a sorgenti idriche, rimodellate come fonti ed abbeveratoi.
L’elemento dell’acqua era fondamentale per la prosperità della comunità
monastica e di un qualsiasi tipo di insediamento, che fosse una borgata, una
fortezza o una badìa qualsiasi, indistintamente dalla regola che si
tramandava e seguiva.
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A tutto ciò faceva sfondo anche il territorio in cui dette sedi venivano
fondate, per facilitare il ritiro spirituale dei monaci che professavano una
dottrina prettamente basata sulla Passio degli anacoreti della Tebaide come
Onofrio ed Antonio Abate, dalla cui influenza nel monachesimo
occidentale, troviamo la giunta del tanto ripetuto simbolismo del deserto,
modo con il quale gli stessi monaci descrivono le loro chiese ed i loro
cenobi, lontani dalle ricchezze terrene e riunite alla natura, e tale elemento,
fuso alla venerazione dell’eremita Onofrio, ricorre frequentemente proprio
nei monti che scandiscono le terre dell’attuale alto Molise, ad esempio tra i
più ricchi insediamenti sorti nelle pertinenze dei grandi monasteri
benedettini, come San Vincenzo al Volturno, a cui apparteneva la piccola
cappella rupestre di Santa Maria delle Grotte, presso Rocchetta al Volturno,
dove troviamo il santo raffigurato in un ampio affresco a parete risalente ad
un periodo che va dal XIII al XIV secolo, quando la piccola struttura doveva
svolgere la funzione di ritiro spirituale dei monaci del grande complesso
monastico, ed anche quella di controllo del territorio di appartenenza.
Questa particolarità si riscontra anche nella cappella benedettina di
Sant’Onofrio a Serramonacesca, rientrante nelle proprietà della
congregazione di Celestino, come si è già spiegato, ed è elevata la
possibilità che direttamente o indirettamente, il pontefice molisano avesse
curato tali strutture, vista la sua presenza stazionaria nella vicina città di
Venafro ed anche nel secondo monastero di San Vincenzo, e come in altre
occasioni, egli avrebbe usufruito di alcuni di questi eremi elencati in
precedenza, anche durante la sua fuga organizzata al seguito della rinunzia
al pontificato, allarmato dalla custodia forzata a cui voleva sottoporlo il suo
successore.
Tornando invece alla questione che poneva la nascita dei Fraticelli della
vita povera, fu nel 1294 che il Ministro Generale francescano Raimundo
Gaufridi ed il suo seguito, diedero mansione ai frati Pietro da Fossombrone
e Pietro da Macerata di recarsi al cospetto di Celestino V per chiedere la
loro ufficializzazione come Ordine Monastico, ricevendo l’autorizzazione,
ma a patto che avessero rispettato in pieno e rigidamente la dottrina di San
Francesco, e da come riporta il Tocco, egli richiese con precisione che tutti
i frati seguissero ed ubbidissero ai due monaci al pari della sua persona, ma
dando istruzione al cardinale Napoleone Orsini, di garantire che non
venissero riconosciuti sotto il nome dei Minoriti, ma con l’appellativo di
Poveri Fraticelli, oppure come in seguito accadrà, ‘’Poveri Eremiti di
Celestino’’.
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Nel frattempo non si erano fatti attendere gli aiuti ricevuti dagli alleati dei
Fraticelli e della ormai memoria di Pietro Angelerio, che come ci ricorda il
Wadding nei suoi Annales, dopo essere giunti dall’Acaia in Italia Centrale,
vennero accolti nel territorio molisano dal giurista regio Andrea da Isernia,
amico del Papa del gran rifiuto, che nella civitas isernina eresse la badìa di
Santo Spirito a Isernia, pur non essendo mai nato in questa città come a
differenza si era creduto popolarmente, come appunto smentiscono le fonti
storiche della sua vita; ‘’quodam heroe Andrea de Segna obtinuerunt
pauperculum locum, in quodam deserto, in quo haesit cum suis Frater
Liberatus’’.
Ciò nonostante, in segno di riconoscenza verso il povero Ordine bistrattato
da tutti, offrendo loro un modesto terreno nella montagna sovrastante il
Castrum Frisuloni, tra la borgata di Frosolone e la giurisdizione di
Civitanova del Sannio, di cui il giurista era Jureconsulto, con il fine di
potervisi stabilire, ed erigere una modesta badìa, la già nominata abbazia di
Sant’Onofrio in Frosolone, che di lì a poco sarebbe stata riunificata sotto i
possedimenti dei Celestini, del cui ordine facevano parte le principali
cariche che ne curavano la liturgia e lo stato della fabbrica, incorporando
nelle sue proprietà, la preesistente e modesta cappellina benedettina di
Sant’Egidio abate.
Questo però non fu l’unico luogo della nostra regione a conservare la
memoria dell’Ordine dei poveri fraticelli, visto che in realtà l’alto Molise è
ricco di insediamenti che paiono essere unificati tra loro da un nesso storico,
nel corso dei loro spostamenti lungo il territorio ancor prima di definirsi
come congregazione, sotto i primi moti che precedettero l’elezione
dell’Angelerio, anche se per la fondazione di questi luoghi, tra la presenza
del monachesimo spirituale e quello della congregazione di Liberato e
Clareno, vanno dati per buoni gli ultimi anni del XIII secolo e i primi del
XIV, antecedenti al 1305 e sorti grosso modo rispettando un medesimo
schema costruttivo sia delle cappelle, che dei romitori, modesti e dal grezzo
aspetto.
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‘’Post aliquos dies inquisitor indem cum sua familia et socio recedens
transibat per illum desertum, in quo Frater Liberatus cum sociis
morabatur.
Et ecce repente turbatus aer et corruscaciones et tonitura magna fiunt, et
fulgur de celo cecidit iuxta inquisitoris equum’’.
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Liberato inizierà così il suo cammino dai monti frosolonesi, che però si
interromperà prima ancora di valicare i confini italiani, a causa di
complicazioni della sua salute mentre si trovava a Viterbo, presso le
comunità ecclesiastiche armene, in cui rimarra per diversi mesi, per poi
morire a due anni di distanza nel 1307 nell’eremo di Sant’Angelo della
Vena, a causa di febbri incessanti, allo scuro della congregazione che in
quel frangente era parzialmente dislocata negli eremi del Centro Italia, tra
gli Abruzzi, la Contea di Molise ed alcune proprietà del nord della
Capitanata, oltre che in terre ben più distanti, specialmente nei casi di coloro
che erano a serio rischio di eresia per posizioni severamente in contrasto
con il Papa e i presuli locali.
‘’ Inquisitor vero Neapolim reversus, sed statim post sex dies vel circa per
suum cursorem litteras, pie fraudis misit, attencius rogans eos, qui de sociis
fratris Liberati remanserant, non recedere, de suas mittere litteras ad
fratrem Liberatum et ad illos, quibus ipse mandaverat de Regno exire, quod
redire quam citius festinarent, quia sua intencio erat ipsos tanquam fideles
et catholicos virsos tam clero, quam populo recomendare et talem de ipsis
genere curam, ut a nullis deinceps possent in dei servicio molestiis.’’
E prosegue; ‘’ Et ecce inquisitor rediit cum cohorte hominum impiorum et
convocatis primo sociis, quos emiserat, fratris Liberati in castro Freselonis
laudavit eos in prima sua predicacione in populo, et moltos alios, qui in
diversis locis domino serviebant, per eosdem fratres congregavit usque ad
numerum XL duorum fratrum…’’.
Fra Tommaso una volta giunto a Napoli, dopo circa una settimana, inviò
una serie di lettere falsificate ai confratelli di Liberato e del Clareno,
facendogli credere che il loro maestro le avesse scritte di suo pugno,
chiedendo loro di non ritirarsi fuori dalla penisola, ma di restare uniti ed
avvisare tutti i loro compagni esuli di riunirsi in gran numero nel loro
principale cenobio, dove egli sarebbe di lì a poco tornato per celebrare
l’ufficializzazione pontificia del loro ordine monastico e di tutti i membri,
a garanzia di poter professare la fede e tramandarla senza alcun turbamento
da parte di chiunque fosse al servizio del Signore.
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Grazie a questo infimo tranello, egli riuscì a radunare nel breve tempo circa
42 monaci che erano giunti in attesa della prima celebrazione del povero
Liberato che nel frattempo era ricoverato presso i monaci armeni a Viterbo,
cogliendo così di sorpresa la congregazione che si era accampata proprio
nelle pertinenze del monastero di Sant’Onofrio in Frosolone, loro sede
principale, ove l’inquisitore e i suoi militi ed uffiziali, piombarono sugli
inermi eremiti vestiti di stracci, e non soltanto su di loro;
‘’ Quibus congregatis, cum iam plene certificatus esset ab eis, quid frater
Liberatus inveniri non posset, iterum fecit in populo eorum, que gerebat in
animo, expressivum sermonem cum furore mimio et minarum tonitruis
omnes hereticos esse denuncians, quos ipse congregaverat, et illus castri
homines nutritores et fauctores ac defensores hereticorum in periculum
suarum personarum et rerum existisse’’.
Dopo essere giunto nella fortezza, annunciò l’arresto dei fraticelli in quanto
eretici, avvisando gli abitanti di Frosolone d’essere a rischio di ogni azione
punitiva anch’essi, per aver dato loro aiuto, ricettazione oppure ospitalità
nei loro possessi.
Su ciò chiarifica il Chioccarello nelle sue Scritture Giurisdizionali, tomo
terzo, pg. 623, in cui spiega che per il Sant’Uffizio si poteva cadere in eresia
nei casi in cui un civile commetteva il fatto, oppure ne coadiuvasse la
persona, ad esempio per omissione e negligenza verso le autorità
ecclesiastiche, e per la più comune cooperazione o consultazione con chi
era macchiato e ricercato per eresia.
‘’Deinde mandavit eos omnes capi et sub certis penis, ne quisquam eorum
fugere posset, cum summa diligencia custodiri’’.
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Nel decorso della cronaca, egli comandò che essi fossero tutti arrestati e
sorvegliati con la massima diligenza affinché non potessero fuggire nel
tempo in cui si preparava lo spostamento del contingente di frati e di
cittadini, soprattutto nel corso dell’accertamento che il domenicano
intraprese verso la popolazione per capire chi ebbe ogni contatto con loro,
e per cui nella roccaforte della città si adoperarono alcune aree adibite in
tale occasione alla prigionia dei malcapitati, in attesa d’essere condotti
altrove per venir processati, che si trattasse di stanze del castello o di locali
privati come cisterne e granai, e di questo momento è presente una cronaca,
purtroppo al momento solo popolare, secondo la quale alcuni civili
riuscirono a scamparsela fuggendo attraverso le posterule e i passaggi
segreti che stazionavano nelle circostanze del palazzo comitale, uno di essi
fotografato nei primi del ‘900, con sbocco attraverso l’area delle fonticelle,
ed uno che dal castello attraverso delle vie ipogee sbucava nei pressi della
postierla di porta San Pietro, scendendo presso lo scorrere dei fiumi che
attraversano la borgata e disperdendosi nei feudi vicini.
Ma tornando alla tribolazione, si descrive come l’inquisitore procedette con
furia e zelo per estorcere ogni avere e denaro dal clero colpevole d’averli
aiutati assieme ai civili e predicatori di ogni ordine e qualsivoglia dottrina.
Qui si attuarono le più ingiuste e forti estorsioni al clero del piccolo
monastero di Sant’Onofrio, dove loro ebbero sede, il cui priore venne
privato dei denari e violentemente tradotto alla torre di Castel Capuano in
cui sarà incarcerato con l’accusa d’aver ospitato la congregazione di Fra
Liberato, mentre lo stesso trattamento fu riservato all’arciprete del
medesimo cenobio, accusato d’aver sussurrato delle frasi ingiuriose contro
Bonifacio VIII nel corso dell’esaminazione.
Anche il Wadding (tomo VI, pg. 90), parla del coinvolgimento dei monaci
della piccola Badìa nel processo contro i fraticelli e i civili frosolonesi,
venendo accostati a coloro che assecondavano o seguivano il pensiero del
movimento apostolico dei Dolciniani, una delle molteplici falsità che
Tommaso d’Aversa imputò ad una comunità che nulla aveva fatto di
sbagliato, se non dimostrare pietà per dei poverelli innocenti ed indifesi.
Nella descrizione dell’Ehrle si riporta chiaramente quanto ebbe riferito il
domenicano a Re Carlo II nei confronti delle sue azioni richieste nel cuore
del Regno; ‘’XL hereticos de secta Dulcini nacione Lombardos’’, facendo
mobilitare, però, lo stesso Andrea da Isernia, a difesa di tutti i monaci
ingiustamente accusati, e verso i quali fu anche lui collaborativo affinché
potessero professare la loro dottrina senza alcuna ripercussione ideologica.
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Nel 1305 la fortezza era feudo di Bertrando d’Artois, Gran Giustiziere della
Terra di Lavoro e della Contea di Molise, al quale venne mandata una
richiesta da parte dell’inquisitore domenicano inviata da Roccamandolfi,
riportata da Riccardo Bevere nel suo studio dei documenti delle Arche
(Archivio Storico di Napoli, anno XXV, fascicolo terzo, pg. 258), grazie
alla quale possiamo datare l’inizio del processo ai fraticelli, poco dopo il 12
Luglio del 1305, data del suo invio, e nella quale è riportato quanto segue;
‘’Pueros duos inter eos reperit, quorum unum ad prandium secum tenens, prius inediam
cruciatum, vino puro potatum inebriavit et ab ebrio nec sciente, quid assereret vel
negaret, extorsit testimonium, quia fratres illi erant heretici, quos tenebat.
Alium puerum in eculeo nudum elevari fecit, et manu propria lanceam vibrabat ad
pectus ejus dicens: Hac confestim lancea te perforabo, nisi confitearis, quod omnes hii,
quos hic teneo, sunt heretici.
Et tamdiu eum fecit cruciari, donec puer consensit, quod scriberetur, quod illi erant
heretici.
Quosdam vero alios, qui de Regno erant et omnibus noti et a quibus non poterat recte
vel indirecte cuiusdam confessionis extorquere sermonem, flagellis publice cesos,
detruncatis vestibus redire iubet ad propria.
Et ad majorem pompam et obproprium servorum dei, quos vinctos quandoque ante se,
quandoque post se trahi faciebat, virgines quasdam et penitentie feminas tanquam
hereticas usque Serniam duci iussit.
Quas cum nullis minis vel afflictionibus potuisset inducere, quod de se vel de aliis
confiterentur, quod essent heretice, publice flagellatas remisit ad propria’’.
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Iniziò con due giovani ragazzi, uno dei quali fu condotto ad un desco
imbandito, tanto che era lacerato dalla fame, e lì venne fatto ubriacare con
vino puro, annullando la sua capacità di intendere o volere, estorcendogli
la confessione di colpevolezza d’essere caduto in eresia e di aver dato adito
alle congiure degli spirituali.
Seguì un altro giovane ragazzo che fu denudato e legato ad una ruota, ed
imbracciando una lancia, Frate Tommaso lo minacciò di averlo trafitto
qualora non avesse confessato che lui e tutti i prigionieri erano eretici
dolciniani, e vista la sua resistenza, lo sottopose a numerose e cruente
torture finché non cedette ed accettò che venisse messo a verbale, mentre
verso altri civili, a cui non poteva estorcere alcuna confessione, adoperò la
fustigazione in pubblica piazza, per poi lacerarne le vesti e rispedirli nelle
proprie case.
Ma con maggiore ferocia si accanì contro i fraticelli, trascinati in catene al
suo cospetto mentre il sanguinario inquisitore ordinava che delle vergini
donne, al fine delle torture, fossero condotte in penitenza come eretiche,
nella civitas di Isernia, continuando imperterrito i supplizi nei confronti di
altri civili e chierici.
Le torture che i poveracci furno obbligati a ricevere si suddivisero in varie
pratiche abbastanza comuni e ripetute in molti degli atti inquisitori del
Santo Uffizio nel resto del paese, scritti che a loro volta ispirarono molto
Umberto Eco nella stesura del romanzo Il Nome della Rosa, libro che
cingeva a guisa dell’altro domenicano Bernardo Gui, e dei cui eventi si
discuterà successivamente.
Tra le pratiche descritte nel processo di Roccamandolfi troviamo i più
terribili, come la sospensione ad una trave con le mani legate dietro la
schiena e dei pesi fissati ai piedi, una tortura che era storicamente definita
con il nome ‘’la Corda’’, largamente scelta anche dagli inquisitori spagnoli
sino al XVIII secolo, vista l’inaudita sofferenza che si causava alle vittime,
terminando spesso con la rottura degli arti superiori o con la morte per
asfissia a causa della postura.
Si prosegue con la tanto temuta immersione rapida e ripetuta in acqua
gelida, con traumi pari al passaggio di lame sulla pelle, come nel caso
successivo per esempio, con il raschiamento di gambe e caviglie attraverso
l’uso di aculei o lame non affilate, oppure ustioni locali e tentate tali,
minacciando gli inquisiti con un ferro arroventato alla fiamma, arrivando
anche a sferrargli violente percosse dirette alla testa, al collo ed al busto, le
aree più vulnerabili e prescelte nelle cause inquisitorie, il tutto protratto
senza fine per ben cinque mesi, dalla pentecoste al natale, giungendo al loro
termine solo grazie all’intervento del Re ed all’improvvisa infermità che
colpì il malefico inquisitore.
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Nel frattempo molti dei poveri frati erano morti nel corso delle torture,
dimezzandosi nel numero, e nonostante ciò, la sofferenza degli altri venne
beffata anche dall’azione regia di porre fine alla tribolazione, poiché fu
varata la sentenza del diabolico monaco di sottoporli al pubblico scherno
con una marcia della vergogna nella città di Napoli, legati e denudati, per
poi essere flagellati, marchiati freddo con una croce sulla loro pelle, come
dei vili traditori, ed infine esiliati dal Regno.
In tutto ciò però la sentenza finale non venne mai letta dallo stesso che nel
mentre era segregato al suo letto, ch’egli sapeva sarebbe di lì a poco
diventato la sua tomba, per alcune fonti a causa della mala gestione di un
supplizio dove egli restò menomato, mentre altri riferiscono di un malessere
dovuto probabilmente al cuore o ad una emorragia cerebrale, mentre egli
era tormentato dalle sue mostruose azioni;
‘’Deus autem ossa illus, qui suos fideles pauperes tam crudeliter et tam dire tractaverat,
discipare non distulit, sed et dentes contrivit in ore eius et molas eius confregit… …quid
diciam deo, quod meliores servos suos ex sola pravitate mee voluntatis tam nequiter
oppresserim mendaciter, diffamaverim, crudeliter tractaverim et iniuste iudicaverim’’.
Sul suo giaciglio egli era flagellato da tutto il male che riservò a delle
persone prive di colpa.
Perciò in quegli istanti, decise di indire che il priore di Sant’Onofrio in
Frosolone, venisse scarcerato assieme all’arcipresbitero, e che
rispettivamente vi fossero restituiti i denari sottratti, mentre per i fraticelli
superstiti preferì che cessasse l’ingiustizia che li fece nascere e morire da
esuli senza una patria, rimpiangendo nei suoi ultimi istanti, di cosa avesse
potuto dire a Dio dopo cotanta perversità ed oppressione perpetrata
attraverso le calunnie e crudeltà d’ogni tipo contro i suoi migliori servitori.
Come nelle menti più criminose era solito il rimpianto accorso per la mera
paura del giudizio divino, pur di scampare alla propria responsabilità che
sarebbe stato d’uopo farne buon uso a priori, vivendo questa vicenda come
una mezza giustizia, in cui nessuno poteva agire se non il fato, che nessuno
perdona, letto dai cronisti come volontà del Signore verso coloro che
pontificavano d’essere suoi araldi, ma di certo non udivano le parole di lui
nelle loro orecchie.
Ne andò meglio per gli ulteriori carnefici che si prodigarono nell’essere
aguzzini di questi poveri fratelli, come lo stesso papa Bonifacio VIII che
come riporta bene il Gregorovius, passò terribili sofferenze nei suoi ultimi
istanti di vita, nelle settimane che seguirono all’oltraggio di Sciarra-
Colonna, lo schiaffo di Anagni, quasi mostrandosi come compimento della
profezia che Celestino V gli recitò nell’istante in cui lo interdiceva nelle
sue castella; ‘’Intrabis ut vulpes, regnabis ut leo, morieris ut canis’’, ovvero;
‘’Entrerai come una Volpe, regnerai come un leone, perirai come un cane’’.
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Né Tantomeno andò meglio per Carlo lo Zoppo che morì il 4 maggio del
1309, avendo riferendo nei suoi ultimi istanti, il rimorso per il male che
aveva causato con i suoi ordini di carattere politico, a quei poveri confratelli
ch’erano nati grazie all’opera del suo stesso fidato e tanto manipolato San
Pietro Celestino, un papa buono, gettato per sua inconsapevolezza in un
mare di mostri.
In tutto ciò non discretamente la situazione fu trattata dal successore di
Bonifacio, il Papa della cattività avignonese Clemente V, che nel 1305
organizzò una commissione di porporati, riunita a Notre Dame de Grosseau
a Malaucène, per poter esaminare la situazione che s’era creata all’interno
delle molteplici scissioni dell’Ordine Francescano, da cui appunto
derivavano gli spirituali e dunque il sottordine dei Fraticelli confermati da
Celestino V, con lo scopo di risolvere gli attriti dall’aria scismatica e
minatoria del potere stesso della Chiesa, mentre dopo diverso tempo, nel
1309, il Ministro Gonsalvo de Balboa ordina l’esproprio dei beni
appartenenti all’ordo francescano, comprese le rendite, quando per tutelare
il sottordine degli spirituali, Papa Clemente promulga la Bolla Papale
Dudum ad Apostolatus.
Un anno dopo il capitolo di Padova prese decisioni forti verso la questione
dell’ordine, attuando un ulteriore esproprio di tutti i loro beni ed oggetti
superflui che non rispettassero la povertà da loro predicata, e quindi il
pontefice, preoccupato successivamente per l’integrità dell’ordine di San
Francesco, dopo il Concilio di Vienne (1311-12), non accolse le istanze dei
frati spirituali, rifiutando anche le richieste di Angelo Clareno e di Ubertino
da Casale di poter fondare un nuovo ordine monastico, prendendo sempre
più luogo nella penisola, la persecuzione ripetuta contro i monaci della vita
povera.
Queste situazioni insostenibili vennero denunciate in primo luogo dalla
fetta degli spirituali della bassa Francia, che inviarono nel maggio nel 1316,
una lettera di denuncia di tale situazione al Capitolo Generale di Napoli,
con fermo rifiuto da parte del reggente provinciale di Terra di Lavoro, e
successivamente a tale capitolo, con l’elezione di Papa Giovanni XXII, si
avviò una violenta chiusura della tanto annosa vicenda che circondava i
francescani, con l’incarico da lui affidato al domenicano Bernardo Gui di
attuarne la loro repressione e porli sotto giudizio della Santa Inquisizione.
Dopo ciò, essi furono macchiati di eresia e definitivamente perseguiti dopo
le lettere Quorandum Exigit, Sancta Romana et Gloriosam Ecclesiam
(1317-18), condannando numerosi monaci al rogo ed alle più crudeli
sofferenze.
La questione dell’Ordine non terminò affatto con i processi del primo ‘300,
ma si protrasse quasi per la maggior parte della sua esistenza, con eventi
che toccarono proprio il nostro territorio, dove tutto continuava con le
pressioni della santa sede nella risoluzione dura contro questi dissidenti.
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Tra gli spirituali che più erano legati alla sfera occitana invece, come aveva
peraltro dimostrato Papa Clemente, vanno ricordati con enfasi alcuni dei
più importanti del periodo, come fra Guido da Mirepoix, frate Bartolomeo
Sicardi, Giovanni da Rupescissa ed anche il più celebre e zelante Ubertino
da Casale, compagno di spiritualità con Santa Chiara da Montefalco, nato
a Casal Monferrato nell’anno 1259 ed allievo fiorentino sotto la guida di
Fra Piero di Giovanni Olivi, divenuto di grande importanza per i padri
spirituali, tanto che la sua predicazione lo portò a seri contrasti con gli altri
ordini ed il papato, subendo due scomuniche da parte di Giovanni XXII
negli anni 1323 e 1325 per aver sostenuto la povertà di Cristo e la causa
dell’Olivi, costringendolo a rifugiarsi sotto l’ala protettiva dell’imperatore
Ludovico IV il Bavaro, che accompagnerà nella sua spedizione verso la
città eterna nell’anno successivo con il seguito dei frati Michele da Cesena,
Giovanni da Jandun, il cultore Marsilio Minardi da Padova e il noto Fra
Guglielmo da Okham, il Doctor Invincibilis che diede ispirazione per la
stesura del personaggio letterario Guglielmo da Baskerville.
Della morte di Ubertino ci sono tutt’oggi ombre ardue da dissipare, ed è
importante la testimonianza dei fraticelli, i quali ne citano il decesso per
assassinio tra il 1328 e il 29.
Allo stesso modo i fraticelli della vita povera di Clareno e di Fra Liberato,
furono prettamente riconducibili come si è detto, al movimento degli
Spirituali, vivendo con gli occitani gran parte delle loro persecuzioni e
condanne, mentre spesso erroneamente è capitato che questa congrega
venisse confusa con quella dei Fraticelli de’Opinione, nati dalla guida di
Michele da Cesena, i cosiddetti Michelisti, che non ebbero contatto alcuno
se non modesto, soprattutto per divergenze che sembravano essere molto
più marcate nel sottordine degli Osservanti, che si distinsero dal resto per
via della fedeltà al papato e maggiore corruttività, sopportando a loro volta
le ostilità continue dell’altro sottordine francescano, quello dei
Conventuali, almeno fino al 1517, quando ottennero il pieno
riconoscimento da Papa Leone X, venendo definitivamente riunificati nei
Minoriti verso la fine del XIX secolo.
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©Giuseppe La Porta
fig.3 individuazione delle tre località di Sant’Egidio, Sant’Onofrio e Fonte dei Frati, con rispettiva delimitazione dei probabili
resti del cenobio medievale dei fraticelli
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Abbazie ed eremi spirituali dell’alto Molise, collegati alla vita dei Fraticelli
fig.7 individuazione dei principali eremi collegabili alla vita monastica dell’ordine dei Fraticelli tra il 1294 ed il 1305
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