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Fabrizio Amerini e Riccardo Saccenti
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ISBN 978-884675029-7
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Lo scisma del 1054 tra le due Chiese, greca e latina, è una realtà o un mito?
La risposta è molto più complessa di quanto lascia presupporre l’eccessiva sicu-
rezza degli storici nell’affermare o nel negare che il funesto scambio di scomuni-
che tra i legati papali a Costantinopoli e il patriarca Michele I Cerulario costitui-
sca il momento epocale della separazione definitiva tra le due Chiese. Da un lato
infatti l’espressione “scisma del 1054” continua ad imperversare nel sentire più
divulgato e persino nella letteratura storica meno specialistica, anche se la storio-
grafia più qualificata ha già da tempo sgombrato il campo da questo equivoco.
Aveva già scritto, nel 1941, Martin Jugie: «Anziché parlare di scisma definitivo,
sarebbe senza dubbio più esatto dire che siamo in presenza del primo tentativo
di riunificazione abortita. È sicuro infatti che la separazione esisteva già da molti
anni. Nel 1053-1054 si volle approfittare dell’occasione di trattative di natura
politica per provare a ristabilire le relazioni già interrotte»1. Tutto ciò è stato ef-
ficacemente ribadito da Evangelos Chrysos, che nel 2003, alla LI settimana di
studio del CISAM di Spoleto, ha espressamente intitolato la sua lezione 1054:
Schism?2 Già nel 1967 un altro greco, Aristide Papadakis, aveva intrapreso, in un
breve contributo, una revisione storiografica dell’evento3 e nel 2007 Jean-Claude
Cheynet arriverà a qualificare lo “scisma del 1054” come un non-événement 4.
Che questa fatidica data non possa essere considerata quella dello scisma canoni-
co lo attestano del resto le fonti stesse: proprio uno dei protagonisti della vicen-
da, il patriarca Pietro III di Antiochia, nella sua lettera a papa Leone IX della
primavera-estate 1052, così confessa:
Vedendo la Chiesa di Cristo non angustiata per un malessere passeggero, ma come
colpita da una mortale paralisi, giorno e notte mi tormento l’animo, chiedendomi quali
siano le ragioni della divisione tra le Chiese, e perché il grande successore del divino Pie-
tro, il pastore dell’Antica Roma, si sia distaccato e separato dal divino corpo delle Chiese
e non partecipi con gli altri presuli ai sacri consigli di esse e non si curi per la sua parte
degli affari ecclesiastici, condotto da quelli per mano5.
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Nella lettera a Michele Cerulario, scritta pertanto dopo lo scontro ad uno dei
protagonisti, il medesimo Pietro si riferisce apertamente ad una rottura tra le
Chiese già da tempo consumata:
Devi temere che, mentre vuoi ricucire lo strappo, tu non finisca per provocare una
rottura peggiore, e mentre cerchi di raddrizzare ciò che è caduto, tu non determini una
caduta più grave. Considera se non provengano manifestamente da qui, cioè da questa
lunga divisione, da questo dissenso e dalla separazione della nostra santa Chiesa da que-
sta grande e apostolica sede, l’abbondare di ogni male nel mondo6.
Nel 1054 lo scisma era pertanto già in atto e così il mito è sfatato.
Si è anche scritto giustamente che le reciproche sentenze di scomunica colpi-
vano solo un ristretto numero di personaggi – sei per parte, ad essere esatti – e
non un’intera componente del corpo ecclesiale. Tuttavia – a parte il fatto che l’a-
natema, per sua stessa definizione, può riferirsi solo a delle persone e non a delle
comunità – si constata come per la prima volta le motivazioni per queste scomu-
niche riguardano aspetti dottrinali e soprattutto pastorali, veri o presunti, ascritti
all’altra Chiesa nella sua globalità. Astraendo pertanto dal dato strettamente ca-
nonico, è innegabile che le due Chiese, in quest’occasione, si siano reciproca-
mente condannate, qualificandosi vicendevolmente come scismatiche. Inoltre se
sono vere le notizie, secondo le quali il patriarca Michele avrebbe ordinato la
chiusura delle Chiese latine di Costantinopoli, il sakellarios Costantino avrebbe
calpestato l’Eucaristia latina – ritenendola invalida in quanto azzima –, ed i legati
papali avrebbero proibito ai latini di frequentare le Chiese greche di Costantino-
poli, alla rottura canonica si sarebbe aggiunta anche, a questo punto, l’interru-
zione della comunione sacramentale.
6 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 21, in WILL (1861: 202; trad.
it. 1999: 27).
7 Cfr. BRÉHIER (1899: 114).
8 Cfr. EUTIMIO ZIGABENO (1856), Panoplia dogmatica, XIII, in MIGNE (1856-1866: t. 130, 876) = PS.-
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FOZIO DI COSTANTINOPOLI (1856), Contra Veteris Romae asseclas libellus, ostendens Spiritum Sanctum ex
solo Patre procedere, non vero etiam ex Filio, 12, in MIGNE (1856-1866: t. 102, 391-400, in part. 396A-B).
9 MICHEL (1933: 136, n. 43).
10 DVORNIK (1948: 393-394; trad. it. 1953: 441); si veda anche DVORNIK (1964: 114-115).
11 NICOL (1962: 1-2, 5-6).
12 NICETA CHARTOPHYLAX (1856), Quibus temporibus et quarum criminationum causa a Constantino-
politana Ecclesia sejunxerit se Romanorum Ecclesia, 15, in MIGNE (1856-1866: t. 120, 713-720, in part.
717-718); MAI (1853: 446-448).
13 HERGENRÖTHER (1867: 728-729).
14 LEIB (1924: 17-18, 53).
15 MICHEL (1924-1930: vol. I, 20-23).
16 BECK (1959: 619).
17 MULLET (1997: 185, 326, 356).
18 D ARROUZÈS (1966: 26, n. 5) e D ARROUZÈS (1970: 66, n. 2 e 184, n. 4); si veda anche N ICÉTAS
STÉTHATOS (1961: 15-21). Che autore di questo trattato sullo scisma possa essere un ulteriore Niceta, vis-
suto anch’egli all’inizio del XII secolo, cioè Niceta di Maroneia, divenuto nel 1132/33 metropolita di Tes-
salonica, viene escluso giustamente (in quanto quest’ultimo Niceta era tutt’altro che ostile ai latini) da
STEPHENSON (2003: 75).
19 JUGIE (1936: 240-243).
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una contesa “sui troni”, cioè ad una questione ecclesiologica. Ha fatto pertanto
assai bene Antonio Sennis – nella voce dedicata a papa Sergio IV nella recente
Enciclopedia dei Papi – a metterne prudentemente in dubbio l’attendibilità20.
Tale rottura, che sarebbe avvenuta al tempo del patriarca Sergio II – registrata
per la prima volta, alla metà del XVII secolo, da Leone Allacci, che presuppone
tuttavia un suo rapido riassorbimento21 – sembra tuttavia trovare conferma nella
testimonianza diretta fornita dal medesimo Pietro di Antiochia. Questi infatti
scrisse al Cerulario che, quarantacinque anni prima, cioè nel 1009, sotto il pa-
triarca Sergio II – quando, arrivato a Costantinopoli dalla Siria, egli era diventa-
to, come diacono, μέγας σχευοφύλαξ a Santa Sofia – il papa di Roma, di nome
Giovanni, era ancora commemorato nella capitale22. In base a questa autorevole
testimonianza risulta allora che l’ultimo papa ad essere presente nei dittici co-
stantinopolitani sarebbe stato Giovanni XVIII (1003-1009) e pertanto il primo
papa a non essere più commemorato a Costantinopoli fu precisamente Sergio IV.
Non si potrebbe pertanto escludere che la tradizione relativa allo “scisma dei
due Sergi” sia stata originata proprio da questa informazione dovuta al patriarca
antiocheno. Comunque è risaputo che proprio con il successore di Sergio IV, Be-
nedetto VIII (1012-1024) – e pertanto ancora sotto il lungo patriarcato di Sergio
II –, su impulso dell’imperatore germanico Enrico II, la recita del simbolo di fe-
de, verosimilmente già interpolato, venne inserita nella liturgia eucaristica roma-
na, nonostante l’opposizione del clero locale, che vi vedeva sminuita l’indefetti-
bilità nella fede della Chiesa di Roma. Ce ne informa, nel suo De officio Missae,
l’abate Berno di Reichenau, testimone oculare dell’incoronazione romana del-
l’imperatore germanico, il 14 febbraio 101423.
Fu dunque l’inserzione del Filioque a determinare, dal punto di vista pretta-
mente canonico, lo scisma tra le due Chiese24. Non solo infatti la componente
della Chiesa costantinopolitana meno condiscendente verso i latini e più intran-
sigente nella difesa della propria ortodossia, esprimerà sempre la convinzione
che, nel mare di empietà rimproverate agli occidentali, la dottrina della proces-
sione dello Spirito ab utroque sia il “peccato originale” dei latini. Anche l’altra
nali e liturgici, la letteratura è comprensibilmente amplissima: quanto ai più recenti contributi si rimanda
a GEMEINHARDT (2002) e SIECIENSKI (2010). Si segnala inoltre il volume GAGLIARDI (2015), all’interno del
quale si pongono in evidenza i due contributi storici GROHE (2015) e MORINI (2015). Infine una profonda
analisi della problematica teologica è stata compiuta da Carlo Lorenzo Rossetti, docente di Teologia dog-
matica all’Istituto di Studi filosofici e teologici di Scutari (Albania), che, nel rilevare il carattere comple-
mentare delle due prospettive teologiche, arriva a proporre una formulazione conciliativa di questa dottri-
na, fondata sul comune riconoscimento dell’assoluta causalità del Padre e della pericoresi comunionale
tra le divine persone: cfr. ROSSETTI (2014).
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componente del clero greco, quella capace di discernere, nel contenzioso teolo-
gico-disciplinare, le differenze sostanziali dalle lecite discrepanze in ambito con-
suetudinario (i cosiddetti ἀδιάφορα) e disposta a scusare gli occidentali per
l’improntitudine teologica della loro lingua, riconosce nella dottrina del Filioque
– ed a fortiori nell’unilaterale inserzione di questa formula nel simbolo di fede –
il peccato imperdonabile dei latini. È al riguardo estremamente significativo che
persino la lettera sdrammatizzante ed irenica di Pietro di Antiochia al collega co-
stantinopolitano denuncia l’addizione al simbolo come «il peggiore dei mali»,
l’unica posizione latina suscettibile di essere anatemizzata. Il patriarca di Antio-
chia infatti scrive:
È male, il peggiore dei mali, l’aggiunta nel santo Simbolo delle parole ‘e nello Spirito
santo, Signore e datore di vita, che procede dal Padre e dal Figlio’. Se gli evangeli nostri e
dei latini sono gli stessi, da dove quelli, sapendo qualcosa più di noi, fecero questa ag-
giunta di provenienza estranea? L’evangelo secondo Giovanni ci istruisce con la massima
chiarezza sullo Spirito santo. […] E dal momento che l’evangelista fa queste affermazioni
con tale sicurezza, quale uomo dalla fede ortodossa oserà o potrà aggiungere o togliere
qualcosa? Quello che la divina Scrittura ha annunciato non deve essere messo ai voti, ma
seguito. […] A noi per la piena conoscenza e la conferma della fede cristiana è sufficiente
il Simbolo sapiente e salvifico della grazia divina. […] Dichiariamo anatema quelli che ag-
giungono o tolgono qualcosa. Dice infatti l’apostolo: ‘se qualcuno vi predica un evangelo
diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema’ (Galati, I, 9)25.
Tra l’ultimo decennio dell’XI secolo ed il primo del XII, la medesima opinio-
ne verrà espressa da un altro esponente tipico del “partito della condiscenden-
za” nell’ambito del clero greco, l’arcivescovo Teofilatto di Ochrida. Egli scrive
un breve trattato in forma epistolare indirizzato – non sappiamo se realmente o
per finzione letteraria – a Nicola, diacono della Grande Chiesa e futuro vescovo
di Malesova in Bulgaria (sede suffraganea di Ochrida), conosciuto, nella tradi-
zione letteraria latina, con il titolo di Allocutio de iis quorum Latini incusantur.
In esso si legge:
In molte cose sembrano errare i latini: offrono azzimi, digiunano di sabato, non calco-
lano al modo nostro il digiuno prima della Passione e, se da un lato proibiscono le nozze
ai consacrati, dall’altro permettono quelle dei laici senza restrizioni né impedimenti e –
non ridere – si rasano le guance tutti, anche i preti e i preti poi hanno mani risplendenti a
motivo degli anelli d’oro, che portano sulle dita, e […] i loro monaci mangiano carne.
[…] Tutti, senza eccezione, sbagliano comportandosi in questo modo. […] Da parte mia
penso che alcune di queste cose non necessitano di correzione alcuna, altre di una lieve
correzione, tale che, se essa ha luogo, la Chiesa ne guadagna un piccolo profitto e, se in-
vece non ha luogo, il fallimento non produce danno alcuno. […] Ma noi per questa ra-
gione stiamo bene attenti a non avanzare critiche e a non inasprire l’orgoglio e il deside-
rio di contese. […] Il più grande errore dei latini, quello che, per usare un’espressione di
25 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 11-12, in WILL (1861: 196-
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Salomone, conduce nel profondo degli inferi (Proverbi 9, 18), è quell’innovazione che
hanno introdotto nel Simbolo di fede proclamando che lo Spirito procede dal Padre e dal
Figlio. […] È necessario il Simbolo del credente sia privo di qualsiasi contraffazione26.
Più avanti Teofilatto, entrando nella discussione teologica, precisa che l’errore
dei latini consiste nel confondere la relazione d’origine dello Spirito, dalla quale
il Figlio è totalmente assente, dalla sua effusione nel mondo, che avviene pro-
prio, sulla base delle testimonianze evangeliche, per mezzo del Figlio: in sostanza
essi non distinguono il piano della “teologia” (discorso su Dio in sé) da quello
dell’“economia” (discorso su Dio in relazione al mondo).
Nonostante tutto questo, non è stata la controversia sul Filioque ad innescare
lo scontro del 1054: essa viene introdotta soltanto in un secondo momento, nella
disputa pubblica tra il cardinale Umberto ed il monaco studita Niceta Stithatos –
cioè “il Coraggioso” – del giugno/luglio 1054, quando il lievitare della polemica
tra le due parti aveva comportato la puntuale ripresa, nonché l’enfatizzazione, di
tutti i motivi di contrasto tra le due tradizioni. Sorprendentemente, nella bolla di
scomunica presentata dal medesimo cardinale – forse più per ignoranza che per
spregiudicatezza – la verità viene letteralmente stravolta, in quanto, nella fanta-
siosa attribuzione ai socii et consortes del patriarca Michele di tutte le eresie anti-
che, essi – e in questo caso tutta la Chiesa greca – vengono assimilati ai Pneuma-
tomachi, per avere soppresso nel Simbolo la processione dello Spirito Santo ex
Filio27. E puntualmente, nel tomo patriarcale e sinodale di scomunica dei legati
romani, emesso il 24 luglio dalla Sinodo residente costantinopolitana – su solleci-
tazione dell’imperatore stesso –, nel turbinio delle molteplici accuse di eterodos-
sia e di eteroprassi rivolte alla Chiesa latina, la denuncia della dottrina della pro-
cessione dello Spirito Santo ab utroque ricopre una posizione di evidente premi-
nenza28. Essa è pure presente, ma con minore rilievo, anche in questo caso tra
inesattezze storiche ed accuse talvolta infondate, nella lettera che il patriarca Mi-
chele inviò, in seguito a questi eventi, a Pietro di Antiochia29.
Ciò che aveva innescato lo scontro era stata invece la disputa sugli azzimi, una
controversia autenticamente emblematica dell’infausta dinamica che ha determi-
nato lo scisma tra le due Chiese: esse si stavano duramente confrontando sulle
26 Cfr. TEOFILATTO DI OCHRIDA, Allocutio de iis in quibus Latini incusantur, 2-3, in GAUTIER (1980:
t. XIX, 816B-D).
29 Cfr. M ICHELE C ERULARIO (1861), Epistola I ad Petrum patriarcham Antiochenum, 12, in W ILL
(1861: 181).
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loro diverse tradizioni in merito al pane eucaristico, che doveva essere azzimo
per i latini ed invece lievitato per i greci, sulla base non solo di una diversa lettu-
ra delle testimonianze evangeliche, ma anche di divergenti codici simbolici. Lo
scisma fu infatti un fenomeno verificatosi progressivamente, in un lento ma ine-
sorabile processo, del quale le gerarchie, e soprattutto i fedeli, delle due Chiese
non si resero pienamente conto che a fatto compiuto: piuttosto che dire che le
due Chiese si separarono, è più esatto dire che si sono trovate separate. È impos-
sibile pertanto riconoscere in uno dei diversi motivi di dissenso dottrinale o di
divergenza disciplinare, che di volta in volta vennero affiorando nei rapporti in-
terecclesiali, la causa della separazione: essa è stata determinata piuttosto da
quella crescente reciproca estraneità, a causa della quale le due Chiese non si
parlavano più, non si capivano più e, per colpa di questo isolamento, ognuna
delle due riteneva la propria diversa tradizione, teologica e disciplinare, l’unica
lecita – e pertanto assolutamente normativa – per vivere rettamente la fede cri-
stiana. Infatti, nella pressoché totale assenza di prospettiva storica, la validità
della propria tradizione liturgico-disciplinare non aveva solo una dimensione
spaziale – nel presupposto di una sua necessaria diffusione universale –, ma si
estendeva anche alla dimensione temporale, nella presunzione che essa rappre-
sentasse la pratica originaria dell’antichità cristiana. In altri termini, entrambe
avevano dimenticato l’autorevole raccomandazione, formulata al concilio d’u-
nione di S. Sofia dell’879-880, che aveva additato il rispetto delle reciproche tra-
dizioni come condizione essenziale per preservare l’unità della Chiesa:
Ciascuna sede ha avuto delle antiche consuetudini a lei conferite e non bisogna in me-
rito ad esse intraprendere contese e discussioni30.
Il tema degli azzimi era diventato di stringente attualità verso la metà dell’XI
secolo, per motivi inizialmente estranei al rapporto tra greci e latini. I greci ini-
ziarono infatti la loro campagna pubblicistica contro gli azzimi in funzione anti-
armena, come misero in luce, per la prima volta George Every, nel 194731, e Ste-
ven Runciman, nel 195332. La conquista, da parte dell’impero, del Vaspurakan
nel 1022 e soprattutto l’annessione, nel 1045, del regno armeno di Ani aveva in-
dotto la Chiesa greca a reprimere l’uso eucaristico degli azzimi – che la Chiesa
armena condivideva con quella latina – presso comunità cristiane che, una volta
divenute suddite dell’impero, avrebbero dovuto uniformarsi alla pratica liturgica
della Chiesa imperiale cristiano-ortodossa. Oltre ad essere considerata un’inam-
missibile pratica giudaica, superata nell’economia neo-testamentaria, l’assenza
del lievito nel pane eucaristico – come ha sottolineato il teologo ortodosso
americano John Erickson – veniva simbolicamente interpretata dai greci come
30 Cfr. Concilium Constantinopolitanum in templo Dei Verbi Sapientiae celebratum (879-880), Actio
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l’espressione di una negazione della presenza nel Cristo di un’anima umana crea-
ta, con l’accusa di un rinnovato “apollinarismo”, facilmente imputabile del resto
a dei cristiani, come gli armeni, i quali, rifiutando il concilio di Calcedonia, era-
no indiziati di monofisismo. La deferente accoglienza del katholikos armeno di
Ani, Pietro I Getadarj, a Costantinopoli nel 1049 era chiaramente finalizzata a
convincere il primate di quella Chiesa ad omologarsi all’uso greco, ma sembra
proprio non avere avuto successo. Ecco allora il ricorso alla polemica, che coin-
volse inevitabilmente anche i latini, il cui contestuale uso degli azzimi offriva di
fatto agli armeni un argomento di peso nella difesa delle proprie consuetudini. È
significativo che il già citato monaco Niceta abbia composto ben cinque trattati
contro gli armeni (dei quali uno solo edito, nel 1869, dal cardinale Joseph Her-
genröther, come se fosse stato scritto contro i latini)33. Dall’altra parte i latini
avevano, in questo momento, il nervo scoperto per le tematiche eucaristiche, da-
to che, come ha rilevato nel 2007 Brett Whalen34, proprio sotto il pontificato di
Leone IX – l’alsaziano Bruno, già vescovo di Toul in Lorena, quarto papa tede-
sco in successione – ha avuto inizio, in Occidente, la controversia eucaristica con
Berengario di Tours, che negava la presenza reale del Cristo Dio nel pane eucari-
stico e fu oggetto di ben sei censure ecclesiastiche tra il 1050 ed il 1059 (a Roma
e a Vercelli nel 1050, a Parigi nel 1051, a Tours nel 1054, a Firenze nel 1055 e di
nuovo a Roma nel 1059). Come fa giustamente notare Mahlon Smith, le etero-
dossie eucaristiche occidentali riguardavano le diverse interpretazioni dottrinali
di uno stesso rito, mentre la controversia sugli azzimi implicava una difformità
materiale nella celebrazione di un rito al quale veniva, da entrambe le parti, attri-
buita la medesima valenza dottrinale35.
La contestazione, da parte greca, dell’uso del pane azzimo nell’eucaristia, si
mosse – e si muove tuttora – su molteplici piani paralleli, che compaiono già nel-
la polemica anti-azimita di Pietro di Antiochia con il patriarca Domenico di Gra-
do - Nuova Aquileia (residente a Venezia)36. Si tratta infatti di una contesa che,
come ha efficacemente ricordato Mahlon Smith, sarebbe grottesco ridurre ad
una lite di cucina sulla corretta ricetta per il pane eucaristico e che coinvolge in-
vece quasi tutti gli ambiti della riflessione teologica37. Il primo è quello scritturi-
stico, dove la polemica si sviluppa a partire da due argomentazioni, una sul pia-
no filologico e l’altra sul piano storico. Sul piano filologico si afferma che i tre
racconti evangelici della mistica cena (Matteo, XXVI, 26; Marco, XIV, 22; Luca,
XXII, 19) e la parallela testimonianza paolina (1 Corinti, XI, 23) usano sempre
33 Cfr. NICETA STETHATOS (1869). Κατὰ Ἀρμενίων [καὶ Λατίνων] περὶ Ἔνζυμων καὶ Ἄζυμων, in
(1966), dove, alle pp. 99-102, è edito il testo greco della lettera di Domenico a Pietro, che comportò poi la
risposta di Pietro (cfr. infra, n. 38).
37 SMITH III (1978: 170).
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per definire il pane eucaristico solo il termine ἄρτος, che significa semplicemen-
te pane, mentre nella Scrittura – sia nella versione veterotestamentaria dei Set-
tanta, sia nel Nuovo Testamento – il pane azzimo viene sempre indicato sempli-
cemente come τὰ ἄζυμα o con la specificazione ὁ ἄζυμος ἄρτος. Inoltre, nel
pieno della polemica, si volle anche fornire al termine ἄρτος un’etimologia erra-
ta, ma funzionale ad affermare la sua vincolante connotazione di pane lievitato,
facendolo derivare dal verbo αἴρω, cioè “sollevo”, per indicare l’azione di solle-
vamento della pasta prodotta dal lievito. Il Cristo dunque avrebbe usato, nella
mistica cena, secondo la testimonianza evangelica confermata dall’apostolo Pao-
lo, del pane lievitato38. Sul piano storico, poi, di fronte alla doppia cronologia
offerta dai vangeli, in virtù della quale secondo i sinottici la mistica cena sarebbe
stata la celebrazione della cena pasquale da parte del Cristo e dei suoi discepoli,
mentre secondo Giovanni la Pasqua in quell’anno si doveva mangiare la sera del
Venerdì santo, cioè dopo la morte del Signore, i polemisti greci si schierano per
la cronologia giovannea. In tal modo, non essendo la mistica cena il pasto pa-
squale, essi spiegano come mai si sia usato, in quell’occasione – normativa per
l’eucaristia cristiana – l’ἄρτος, cioè il pane lievitato, come scrivono i vangeli, e
non gli ἄζυμα, come prevede il rituale ebraico39.
Un’ulteriore argomentazione – alla quale ha dedicato un pregevole studio
l’ortodosso americano John Erickson40 – è di matrice propriamente teologica, di
una teologia però che si esprime mediante codici simbolici. In base a questi ulti-
mi, il lievito nel pane eucaristico viene ad indicare la presenza nel Dio incarnato
– del quale il pane eucaristico è la presenza reale – di un’anima umana creata, in-
sieme ad un corpo, in tutto consustanziale al nostro, ed alla persona divina del
Logos. Solo l’integrità della natura umana, anima e corpo, assunta dalla natura
divina, garantisce la realtà dell’incarnazione, senza la quale non possono esserci
né salvezza né divinizzazione dell’uomo. L’assenza del lievito nel pane eucaristi-
co dei latini e degli armeni sarebbe pertanto il riflesso di una loro grave etero-
dossia cristologica – con gravissime ricadute sul piano soteriologico –, in virtù
del principio che le consuetudini liturgiche riflettono sempre i contenuti della
fede: la lex orandi non può non esprimere la lex credendi. L’uso degli azzimi nel-
l’eucaristia rivela pertanto, in chi lo pratica, una cristologia quanto meno mutila,
imperfetta, facilmente imputabile del resto a dei cristiani, come gli armeni, i qua-
li, rifiutando il concilio di Calcedonia, erano indiziati di monofisismo. È stato
fondatamente ipotizzato che questa lettura teologica attribuita alla presenza del
lievito nel pane eucaristico fosse già stata elaborata dai greci, in funzione anti-
monofisita, al tempo delle controversie cristologiche e che i medesimi ambienti
ortodossi presupponessero che a quel tempo, in virtù della comune osservanza
38 Cfr. P IETRO DI A NTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 13-14, in W ILL (1861:
218-219).
39 Ibid., 13-22, in WILL (1861: 218-225).
40 ERICKSON (1979).
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82 Enrico Morini
(1861: 128).
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Sul piano culturale infine l’uso del pane azzimo nell’eucaristia è per i greci il
preoccupante sintomo di una mentalità ancora giudaizzante, incapace di staccarsi
dalle prescrizioni vincolanti dell’antica legge e di immergersi invece nell’atmosfe-
ra liberante della nuova economia della grazia46. Pertanto, è facilmente individua-
bile, a monte della controversia, un diverso approccio al problema dei rapporti
tra i due Testamenti e, più in generale, della Chiesa cristiana con la tradizione giu-
daica. Per i greci, stante il fatto che la Nuova Alleanza è una creazione totalmente
nuova, non c’è più spazio in essa per le prescrizioni rituali dell’Alleanza Antica.
Anzi la presenza del lievito nel pane eucaristico è sentita come esemplarmente
espressiva della dinamica di sostituzione del nuovo e perfetto sacrificio agli ineffi-
caci sacrifici dell’antica legge. Inoltre l’uso degli azzimi nell’eucaristia contravve-
niva, per questi polemisti greci, a specifiche prescrizioni della normativa canonica
greca. Infatti il settantesimo degli ottantacinque Canoni degli Apostoli – databili
intorno al 400 – proibisce ai chierici, pena la deposizione, di digiunare nelle feste
dei giudei e di cibarsi dei loro “indegni” alimenti, menzionando esplicitamente gli
azzimi47. Tale interdizione viene ribadita dall’undicesimo dei centodue canoni del
concilio Trullano II del 691/69248 – in parallelo al divieto di farsi curare da un
medico ebreo e di frequentare insieme ai giudei il bagno pubblico – estendendo
la proibizione anche ai laici, pena la scomunica49. È significativo che i cosiddetti
Canoni degli Apostoli siano ignorati dalle collezioni canoniche latine e che i cano-
ni promulgati dal secondo concilio in Trullo non ottennero mai la ratifica della se-
de romana, come non mancherà di rilevare il cardinale Umberto di Silva Candida
proprio nel contesto della controversia sugli azzimi50. La Chiesa latina si qualifica
pertanto, agli occhi dei greci, come affetta da ingiustificabili legami con il giudai-
smo: non solo come una Chiesa cristologicamente apollinarista, ma anche più ge-
nericamente ebionita, cioè, in altri termini giudeo-cristiana.
Per tutte queste ragioni, anche l’irenico Pietro di Antiochia rifiutava la propo-
sta, formulata dal patriarca Domenico di Grado, che si considerassero valide e
lecite, in quanto entrambe fondate sulle rispettive tradizioni, le consacrazioni eu-
caristiche sia del pane azzimo sia di quello lievitato51. Su questa linea intransi-
46 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 8 e 11, in WILL (1861: 214
e 217).
47 Cfr. Canones Apostolorum, LXX: De iis qui cum Iudaeis ipsorum dies festos agit, in JOANNOU (1962:
t. I/2, 43-44).
48 Questo concilio viene così chiamato perché riunito nella sala a cupola (in greco τρούλλος) del pa-
lazzo imperiale ed è detto anche “pentecto”, cioè “quinisesto”, in quanto era stato convocato dall’impera-
tore Giustiniano II per colmare il vuoto legislativo lasciato dai due precedenti concili costantinopolitani,
il quinto, del 553, ed il sesto, del 680-681.
49 Cfr. Concilium Trullanum II (691/692), Canones, XI: Cum Iudaeis conversandum vel colloquendum
non est vel ab iis medicinae accipiendae non sunt, in NEDUNGATT-FEATHERSTONE (1995: 81-82), e in NE-
DUNGATT-AGRESTINI (2006: 237), e JOANNOU (1962: t. I/1, 137-138).
50 Cfr. UMBERTO DI SILVA CANDIDA (1861), Responsio sive contradictio (Adversus Nicetae libellum), 7,
207); solo testo greco in BIANCHI (1966: 101). Fu una proposta alla quale il patriarca di Antiochia obiet-
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84 Enrico Morini
gente, rilevando che il patriarca Fozio non enumera l’uso degli azzimi tra le con-
suetudini erronee che egli imputa ai latini, san Nicodemo l’Aghiorita – tra la fine
del XVIII e l’inizio del XIX secolo – afferma, senza un chiaro fondamento stori-
co, che si trattò di una innovazione (καινοτομία) posteriore persino al IX secolo
e la ritiene introdotta a Roma nell’XI, attribuendola proprio a Leone IX, non a
caso il papa del 1054. Del resto, già nel corso di una polemica sviluppatasi tra i
liturgisti cattolici nella seconda metà del XVIII secolo, il dotto gesuita Jacques
Sirmond, nel 1651, e poi il cardinale cistercense Giovanni Bona, nel 1670 (attac-
cato per questo dal francescano portoghese Francesco Macedo), sostennero che
anche la Chiesa latina, in origine, usava il pane lievitato nell’Eucaristia52.
Questo confronto su una materia in quel momento così delicata per entrambi
gli interlocutori – in oriente per l’incontro con gli armeni e in occidente per l’in-
sorgere delle eresie eucaristiche medioevali – fa da sfondo allo scontro del 1054.
Sarebbe tuttavia estremamente riduttivo, ed anzi decisamente fuorviante, legger-
lo unicamente in questa prospettiva, anche perché a suo riguardo si sono sedi-
mentati equivoci ed approcci tendenziosi, alcuni dei quali abbiamo già cercato di
sfatare, mentre per altri ci accingiamo a farlo, con questa premessa. Com’è risul-
tato esemplarmente evidente nel caso parallelo del cosiddetto “scisma di Fozio”,
una tenace animosità tra le due Chiese ha purtroppo inquinato non solo il giudi-
zio degli studiosi sulle responsabilità degli episodi scismatici, ma anche la stessa
ricostruzione storica degli eventi. Si potrebbe persino dire che quella gamma di
sentimenti, che vanno dall’indisponibilità a capirsi all’antagonismo ingiustificato
ed autoreferenziale, che a suo tempo ha acceso ed alimentato lo scontro, persista
nel tempo nel lavoro degli storici e dei teologi delle due parti, continuando a di-
videre, anche su questo punto, le due Chiese. Provvidenzialmente, come gli studi
di Frantisek Dvorník hanno ristabilito la verità storica in merito alle responsabi-
lità ed all’esito finale della controversia foziana53, così dobbiamo all’analisi dell’e-
pisodio del 1054 compiuta da Enzo Petrucci nel 197354 una fondamentale de-
ideologizzazione dell’evento rispetto a tutta la storiografia precedente, in riferi-
mento soprattutto agli studi, peraltro assai ben documentati, di Anton Michel55,
sostituiti poi, come punto di riferimento storiografico, dalla monografia di Axel
terà, facendo eco al testo paolino (Galati, 5, 2): «Se mangerete gli azzimi, Cristo non vi gioverà nulla». Cfr.
PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 11, in WILL (1861: 217,24-25).
52 Cfr. NEALE (1850: vol. I/2, 1056).
53 DVORNIK (1942); DVORNIK (1948; trad. it. 1953); DVORNIK (1960).
54 PETRUCCI (1973). Non è mai comparsa una seconda parte di questo studio, ma questo lungo e fon-
damentale saggio è stato ripubblicato, con il semplice titolo Rapporti di Leone IX con Costantinopoli, in
PETRUCCI (2001), alle pp. 141-259.
55 MICHEL (1924-1930).
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Bayer del 200456. Lo storico romano ha infatti parlato, a proposito della ricostru-
zione e dell’interpretazione dei fatti del 1054, di un «fotomontaggio storico»57,
effettuato sulla base di deduzioni aprioristiche. Ad analoghe conclusioni è perve-
nuto indipendentemente – dato che non prende il considerazione lo studio di Pe-
trucci, uscito cinque anni prima – Mahlon Smith, nella sua monografia del
197858, espressamente dedicata alla controversia sugli azzimi. Pertanto, com’è
stata necessaria una smitizzazione del reciproco scambio di scomuniche del 1054
inteso come inizio ufficiale dello scisma tra le due Chiese, così era necessario sfa-
tare altri miti storiografici, creati purtroppo dal pregiudizio confessionale.
Il primo di questi miti riguarda la personalità del patriarca Michele, insistente-
mente indicato come il principale responsabile dello scontro, a causa di una sua
furibonda animosità antilatina, che lo avrebbe indotto a programmare e porre in
atto un attacco frontale contro il papato, accendendo la controversia sugli azzimi,
per il tramite di un meno impegnativo prestanome, l’arcivescovo greco-bulgaro
Leone di Ochrida. Non solo uno storico benemerito – ma inevitabilmente datato
– come lo Jugie afferma che il patriarca intendeva caparbiamente impedire una
ripresa delle relazioni tra le due Chiese, ma persino uno storico ed ecclesiologo
del livello di Yves-Marie Congar attribuisce a Cerulario «una volontà di rottura
ben radicata»59. Martin Jugie, nell’accusare il patriarca di avere freddamente cal-
colato il modo di sabotare la politica di riconciliazione con Roma avviata dall’im-
peratore Costantino IX, si esprime addirittura in questi termini:
Davanti all’imparzialità della storia […] egli appare non come uno scismatico di fre-
sca data che scuote bruscamente l’autorità del pontefice romano, ma come il capo di una
chiesa dissidente, da lungo tempo autonoma, al quale ripugna la riunificazione e che tut-
to mette in opera per impedirla60.
Non abbiamo invece motivi plausibili per ritenere – come ancora una volta fa
Congar – che i toni concilianti della perduta lettera del patriarca al papa fossero
una mossa tattica per coprire il suo effettivo disegno di rompere definitivamente
con Roma e non si vede perché negare credito all’affermazione dello stesso Cerula-
rio – nella sua lettera a Pietro di Antiochia – che egli aveva scritto a Leone IX «in
tutta umiltà»61. Tanto più che lo stesso Pietro, presa visione della lettera del pa-
triarca al papa, testimonia che essa era stata scritta «con molta umiltà e mitezza»62.
Abbiamo al contrario tutte le ragioni per credere che questa lettera – purtroppo
non pervenutaci – fosse una vera e propria iniziativa “unionistica” del patriarca
56 BAYER (2004).
57 PETRUCCI (1973: 748); PETRUCCI (2001: 159).
58 Si veda supra, n. 35.
59 CONGAR (1954: vol. II, 76-79).
60 Cfr. JUGIE (1941: 230-231).
61 Cfr. MICHELE CERULARIO (1861), Epistola I ad Petrum patriarcham Antiochenum, 3, in WILL (1861:
174,18).
62 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 23, in WILL (1861: 203-204).
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86 Enrico Morini
63 I dittici erano originariamente le tavolette a due valve, poste sull’altare, sulle quali erano scritti i
nomi dei titolari, vivi e defunti, della propria e delle altre sedi patriarcali, per la loro commemorazione li-
turgica. Per estensione, con il termine dittici (δύπτικα) si definisce, nella Chiesa ortodossa, la procedura
mediante la quale ogni patriarca o primate di Chiesa autocefala commemora, al Grande Ingresso nella di-
vina Liturgia, tutti i primati delle altre Chiese patriarcali e autocefale, secondo un ordine di precedenza
canonicamente stabilito.
64 Cfr. L EONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum archiepiscopum, in W ILL
(1861: 91): «Scripsisti siquidem nobis, quoniam si una ecclesia Romana per nos haberet nomen tuum, om-
nes ecclesiae in toto orbe terrarum haberent per te nomen nostrum».
65 Erano dette “sinodiche” le lettere inviate contestualmente dall’organismo collegiale, che aveva
eletto il nuovo patriarca, per comunicarne l’elezione ai titolari delle altre sedi primaziali e dal neoeletto –
che vi univa la propria professione di fede – al momento della sua intronizzazione (e perciò erano dette
anche lettere intronistiche o sistatiche).
66 Così erano denominate le risposte dei destinatari, i quali, verificata nella professione di fede l’orto-
178-179). Il patriarca costantinopolitano colloca erroneamente la condanna di papa Vigilio per il suo ri-
fiuto di anatematizzare I Tre Capitoli al sesto concilio ecumenico (il costantinopolitano III del 680-681),
mentre essa avvenuta al quinto concilio ecumenico Il costantinopolitano II del 553). Pietro di Antiochia
attribuisce benevolmente questa svista al χαρτοφύλαξ della Grande Chiesa. Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA
(1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 3, in WILL (1861: 191).
68 Su questo patriarca di Antiochia si rimanda a GRUMEL (1935); ma si vedano anche GRUMEL (1934:
139-141); MICHEL (1938); VOLK (1963: 334); HETTINGER (2002); MARTIN-HISARD (2007).
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invece, al momento della sua accessione al trono antiocheno, aveva inviato la let-
tera sinodica al papa di Roma, come egli stesso scrive al patriarca Domenico di
Grado69 e come sappiamo dalla tardiva risposta – dopo due anni – di Leone IX,
che accolse in comunione il patriarca di Antiochia70.
Il valore primario, in relazione alla comunione ecclesiale, annesso, anche da
parte romana al procedimento della commemorazione liturgica ci è testimoniato
dall’iniziativa “unionistica”, questa volta di papa Urbano II, il quale, trentacin-
que anni dopo il 1054, tra l’estate ed il settembre 1089, scrisse a Costantinopoli,
forse sia all’imperatore Alessio I Comneno sia al patriarca Nicola III il Gramma-
tico, chiedendo il reinserimento del proprio nome nei dittici costantinopolitani.
Questa iniziativa papale, per noi stupefacente, trova una plausibile spiegazione
alla luce dell’atmosfera che avrebbe portato, nel decennio successivo, all’appello
per la prima crociata (al concilio di Clermont-Ferrand nel 1095) ed al secondo
concilio di Bari (1098), che avrebbe dovuto dirimere le controversie liturgiche e
disciplinari tra latini e greci. La risposta della “sinodo residente” costantinopoli-
tana condizionò questo reinserimento all’invio, da parte del papa, della regolare
lettera sistatica, onde poterne verificare l’ortodossia (forse anche per controllare
che il simbolo di fede non contenesse l’addizione del Filioque). La lettera del pa-
triarca, che comunicava al papa la decisione sinodale – portata in Italia dai due
maggiori esponenti della gerarchia greca di Calabria, il metropolita Basilio di
Reggio e l’arcivescovo Romano di Rossano –, proponeva, una volta ricevuta ed
approvata la sistatica papale, l’immediato reinserimento del nome di Urbano nei
dittici, rimandando a colloqui da tenersi tra le due parti entro diciotto mesi la
soluzione delle questioni disciplinari ancora in sospeso71.
La proposta di Cerulario presupponeva pertanto una concezione ecclesiologi-
ca già ampiamente documentata a Costantinopoli: il reinserimento della menzio-
ne del vescovo costantinopolitano nei dittici della Chiesa romana veniva posto in
correlazione con quello del nome del papa nei dittici delle altre quattro sedi pa-
triarcali dell’oriente cristiano. L’espressione latina «in toto orbe terrarum», atte-
stata dalla risposta papale, è verosimilmente un calco di quella greca «ἐν πάσῃ
τῇ οἰκουμένῃ», sicuramente presente nella lettera del patriarca, e il suo valore
semantico copre, secondo i parametri ideologici romano-orientali, tutto il terri-
torio dell’impero – che rivendicava, almeno formalmente, una sovranità univer-
sale – e le Chiese di fatto al di fuori del suo effettivo controllo, come i tre pa-
triarcati orientali. Ed esattamente trent’anni prima del 1054, cioè nel 1024, il pa-
triarca di Costantinopoli Eustazio, unitamente agli imperatori Basilio II e Co-
stantino VIII, aveva chiesto al papa Giovanni XIX di riconoscere al patriarca
della Nuova Roma la qualifica di «universalem in suo orbe», com’egli avrebbe ri-
conosciuto al papa il medesimo titolo «in universo». Di questa iniziativa – che
69 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 26, in WILL (1861: 226-228).
70 Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Petrum episcopum Antiochenum, in WILL (1861: 168-171).
71 HOLTZMANN (1928).
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72Cfr. RODOLFO IL GLABRO (1989), Historiarum Libri, IV, 2-3, pp. 66-67; trad. it. 1989: 196-202.
73Cfr. UGO DI FLAVIGNY, Chronicon, II, p. 392.
74 SMITH III (1978: 90).
75 Cfr. RODOLFO IL GABRO (1846; trad. it. 1989: 197-203). Un’altra traduzione italiana è del 1982, e
76 Su questa controversia, si rimanda a GELZER (1887); VAILHÉ (1908a); VAILHÉ (1908b); TUILIER
(1964); MAGI (1972: 161-194); TUILIER (1986); MORINI (2014). Sull’uso di questo titolo da parte dell’arci-
vescovo di Costantinopoli, si veda LAURENT (1948).
77 Cfr. Concilium Constantinopolitanum primum, Canones, III: Ut secundus post Romanum episcopum
Constantinopolis episcopum, ed. A.M. Ritter, in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 66; trad. it. 1991: 32);
JOANNOU (1962: t. I/1, 47-48).
78 Cfr. Concilium Chalcedonense, Canones, XXVIII vulgo: Votum de primatu sedis Constantinopolita-
nae, ed. E. Mühlenberg, in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 150- 151; trad. it. 1991: 99-100); JOANNOU
(1962: t. I/1, 90-93). Si veda anche IX: Quod non oporteat clericos habentes adversus invicem negotia pro-
prium episcopum relinquere et ad saecularia iudicia convolare, ed. E. Mühlenberg, in NEDUNGATT-AGRESTI-
NI (2006: 142; trad. it. 1991: 91); JOANNOU (1962: t. I/1, 76-77); e XVII: De paroeciis, ed. E. Mühlenberg,
in in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 145; trad. it. 1991: 95); JOANNOU (1962: t. I/1, 82-83).
79 Cfr. Concilium Nicaenum primum, Canones, VI: De primatibus episcoporum, ed. G. Alberigo, in
NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 23; trad. it. 1991: 8-9); JOANNOU (1962: t. I/1, 28-29).
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90 Enrico Morini
80
Si veda supra, nota 62.
81
L’inesistenza di questa nomina, accettata dalla storiografia anche molto qualificata (HÜLS, 1977:
130-133; HOUBEN, 1989: 125), è stata dimostrata da CANTARELLA (2013a: 380).
82 Cfr. PETRUCCI (1973: 826-827, n. 271); PETRUCCI (2001: 254-255, n. 277).
83 Cfr. SMITH III (1978: 121).
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tani in Italia, il patriarca era fermamente convinto. Sembra comunque che nella
deflagrazione tra le due Chiese, culminata nello scambio delle reciproche scomu-
niche, il ruolo di Argiro sia stato funesto. Egli avrebbe colto al volo, per così dire,
l’occasionale polemica degli ambienti ecclesiastici costantinopolitani contro l’uso
degli azzimi – sviluppatasi, come si è detto, in funzione anti-armena – per semi-
nare la zizzania tra le due Chiese, greca e latina, con lo scopo preciso di far falli-
re, sfruttando abilmente i contrasti in ambito religioso, la progettata alleanza tra
il papato e Costantinopoli nell’Italia del sud, lesiva delle sue ambizioni personali.
Si potrebbe anzi dire che la disputa in questione diventa, nelle mani di Argi-
ro, una polemica montata ad arte. Egli – che nel 1045, a Costantinopoli, fiero
della propria identità latina, si era scontrato sugli azzimi con il patriarca, che gli
aveva rifiutato la Comunione – deve essersi mosso su due piani. Una prima ma-
nipolazione la operò egli stesso sul trattato contro gli azzimi scritto in quegli an-
ni dal primo ecclesiastico greco divenuto primate della Chiesa autocefala greco-
bulgara di Ochrida, l’arcivescovo Leone, già protosincello a Costantinopoli84. Si
trattava di un opuscolo in forma epistolare, secondo un uso letterario del tempo
– composto da tre lettere fittizie –, la cui generica intestazione ad un non preci-
sato vescovo di Roma ed ai vescovi occidentali era un puro espediente letterario.
Questo testo, una volta pervenuto nelle mani di Argiro, diventò una lettera per-
sonale polemicamente indirizzata all’arcivescovo Giovanni di Trani – un prelato
latino “filo-bizantino”, onorato dal patriarca con il titolo di sincello –, al quale il
Dux Italiae l’avrebbe subito presentata, nell’intento di accendere la controversia.
È più probabile tuttavia che Giovanni di Trani fosse effettivamente uno dei de-
stinatari della lettera, che rientrerebbe così in un disegno perseguito dall’arcive-
scovo di Ochrida – a capo di una cristianità ortodossa non greca all’interno del-
l’impero – di uniformare alle consuetudini liturgiche costantinopolitane le mino-
ranze rituali (armeni in Anatolia e latini in Puglia) inquadrate, nell’impero roma-
no d’oriente, precisamente alle sue due estremità. In questo caso il testo di Leo-
ne andrebbe letto non come un libello polemico, ma piuttosto come uno scritto
finalizzato alla correzione fraterna, indirizzato, per giunta, all’ecclesiastico che,
nella prospettiva costantinopolitana, era il responsabile dell’osservanza dell’orto-
prassi canonica e liturgica da parte dei latini inquadrati ecclesiasticamente nel-
l’ambito del patriarcato ecumenico.
La seconda mossa di Argiro, nella medesima prospettiva, ma ad un livello ben
più compromettente, consistette nel farlo pervenire – a meno che non glielo ab-
bia inviato Giovanni di Trani – all’esponente più radicale dei riformatori papali,
il cardinale Umberto. Costui, colpito da fatto che nell’opuscolo venivano critica-
te, sia pure in subordine rispetto all’uso degli azzimi, altre consuetudini della
Chiesa latina (come il digiuno quaresimale esteso al sabato85 – un altro uso degli
armeni –, la macellazione per soffocamento ed il cibarsi della carne insieme al
84 Cfr. LEONE DI OCHRIDA (1861), Epistula ad Ioannem episcopum Tranenesem, in WILL (1861: 56-60).
85 Ibid., in WILL (1861: 58,11 - 59,17).
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92 Enrico Morini
Cfr. LEONE DI OCHRIDA (1861), Epistula ad Ioannem Tranensem, in WILL (1861: 56) e Epistola Leonis
Achridani ad Ioannem Tranensem ab Humberto in latinum sermonem translata, in Will (1861: 61). Si veda
al riguardo anche SMITH III (1978: 53), e del resto già Jules Gay nel 1904 aveva riconosciuto che l’opusco-
lo in questione era da attribuirsi al solo Leone e che il primo approccio di Michele Cerulario con il papato
romano era stato del tutto pacifico. Cfr. GAY (1904: 492).
89 Per una visione sintetica delle successive rotture della comunione gerarchica e sacramentale in-
tervenute tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli dallo scisma di Acacio al 1054, si rimanda a
MORINI (2014).
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to, dal VII secolo, come Decretum de libellis recipiendis et non recipiendis si legge in VON DOBSCHÜTZ
(1912). Il nome deriva dalla sua attribuzione, in taluni manoscritti, al papa Gelasio I (492-496), mentre
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94 Enrico Morini
alcuni studiosi preferiscono attribuirlo al papa Ormisda (514-523). È opinione però che il nucleo essen-
ziale del documento, cioè l’idea stessa – se non addirittura la stesura del testo –, possa risalire proprio al
concilio romano del 382 ed allo stesso papa Damaso (366-384). Si vedano su di esso PIETRI (1976: vol. I,
866-872 e 881-884) e GROSSI (2001).
95 Per questo era stato in precedenza edito insieme ad esse in HINSCHIUS (1863: 635). Sempre nelle
decretali pseudo-isidoriane sono rifluiti altri due documenti romani relativi alla triarchia petrina, lo pseu-
do-Anacleto (ibid., p. 83) e la Praefatio Nicaeni concilii (ibid., p. 255).
96 Cfr. L EONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum archiepiscopum, in W ILL
anche l’ordine sacro, ma è molto probabile, dato il livello di clericalizzazione del clero monastico nell’XI
secolo. Su questo patriarca si rimanda a MICHEL (1954); TINNEFELD (1989); CHEYNET (1995).
99 Cfr. L EONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum archiepiscopum, in W ILL
(1861: 90-91). Sull’indubbia enfasi posta da Cerulario su questo titolo, del resto tradizionale, si veda
LAURENT (1946).
100 Ibid., in WILL (1861: 91,27-39).
101 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 7, in WILL (1861: 214). Il
(1861: 183,15-17).
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96 Enrico Morini
113 Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum patriarcham adversus Leonis
98 Enrico Morini
Umberto per definire la Chiesa di Roma, proprio nel contesto dello scontro del
1054, di metafore, come Foederis arca120, Costa Christi121, Sponsa Christi122, cor-
rettamente riferibili, secondo il lessico patristico, unicamente alla Chiesa universa-
le. Come osserva Petrucci, il primato romano viene ora fondato primariamente su
ragioni dottrinali e non solo su disposizioni canoniche123 e la giurisdizione univer-
sale, immediata e diretta, di Roma viene pertanto considerata parte integrante del
comune patrimonio della Rivelazione. Per quanto riguarda le forme di esercizio di
questo primato maggiorato, esse vengono retrodatate all’età apostolica – ripren-
dendo il procedimento della Decretali Pseudo-Isidoriane – e pertanto risultano an-
ch’esse essenziali e costitutive dell’essere stesso della Chiesa. In conclusione, an-
che se Leone IX riprende letteralmente di continuo le espressioni dei suoi lontani
predecessori Leone I e Gregorio I a favore del primato romano, non c’è dubbio
che, alla luce della sua nuova ecclesiologia, esse assumono sotto la sua penna un
valore decisamente “maggiorato” rispetto alle intenzioni di questi due padri del-
l’occidente latino, venerati come santi anche dalla Chiesa ortodossa. Nonostante
Francesco Paolo Terlizzi abbia recentemente ridimensionato gli spunti di novità
nell’ecclesiologia di Leone IX – ravvisando la vera e propria svolta solo al tempo
di Gregorio VII, che senz’alcuna remora trasferisce al sedente, cioè al papa, tutte
le prerogative della sedes – a noi sembra che con Ildebrando di Soana sia sempli-
cemente venuta meno «ogni cautela perifrastica»124, per usare un’espressione del-
lo stesso Terlizzi. Del resto lo stesso studioso riconosce che già nella concezione di
Leone la Chiesa romana è divenuta il «cardine inamovibile della storia della sal-
vezza»125 e che la sua lettera a Cerulario rappresenta «un perfetto manifesto del-
l’ecclesiologia romana di metà secolo XI»126 ed «una sorta di pallottoliere del pri-
mato romano»127. Con tali presupposti era inevitabile, per un’incompatibilità ec-
clesiologica che faceva da sfondo e da motore ad altri e più occasionali contenzio-
si, il riaprirsi del conflitto con Costantinopoli, che invece si era sempre attenuta ad
una lettura canonica e non dottrinale del primato romano e non lo aveva pertanto
mai considerato parte integrante della verità rivelata.
A questa dogmatizzazione ed istituzionalizzazione del primato papale non do-
vette essere estraneo il modello dell’autocrazia imperiale, recepito dalla Reichkir-
che. Lo mostra il sorprendente richiamo di Leone IX, nella lettera a Cerulario, al
Constitutum Constantini, per affermare che il papa di Roma ha ricevuto dallo stes-
so Costantino, nella persona di papa Silvestro, una dignità imperiale “maggiorata”
120 Cfr. UMBERTO DI SILVA CANDIDA (1861), Dialogus (Adversus Graecorum calumnias), I, in WILL
(1861: 94,11).
121 Cfr. UMBERTO DI SILVA CANDIDA (1861), Responsio sive contradictio (Adversus Nicetae libellum), 7,
rispetto a quella del sovrano romano cristiano128. Vediamo allora come Roma ol-
trepassi, da questo momento in poi, l’ideologia gelasiana delle “due spade”129 –
che sino ad allora aveva ispirato, nella distinzione dei due poteri, spirituale e
temporale, la politica papale verso Costantinopoli – e si pretenda depositaria di
quel regale sacerdotium che assimila, anziché distinguere, i due poteri. A questo
riguardo, le Chiese delle due Rome, che si trovano in questo momento ad un
punto critico del loro antagonismo, risultano accomunate dalla coincidente ri-
vendicazione di un’autorità superiore del sacerdotium rispetto al regnum. Non
bisogna infatti trascurare i significativi indizi che inducono a riconoscere in Ce-
rulario un patriarca che, in flagrante violazione di un principio basilare della teo-
logia politica costantinopolitana, reinterpretava la necessaria armonia sinfonica
tra regnum e sacerdotium a netto vantaggio del secondo.
Sembra proprio che con lui certe deviazioni dall’ecclesiologia pentarchica e dal-
l’ortodossia ideologico-politica costantinopolitana, che già si intravvedevano tra le
righe dell’Eisagogé del IX secolo130, siano state, sia pure a titolo personale, riprese
e sviluppate. Per quanto riguarda l’ambito ecclesiologico, la notizia fornita da Teo-
doro Metochita131 tra XIII e XIV secolo – che il patriarca Michele, dopo la rottura
con Roma, avrebbe scritto ai patriarchi orientali che, essendosi il papa di Roma se-
parato dalla Chiesa, a lui, vescovo della Nuova Roma, essi dovevano obbedienza in
virtù del proprio primato132, anche se priva di qualsiasi altro riscontro, è pur tutta-
via fortemente indicativa di una fama consolidata. Questa inusitata lettura di un
128 Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum patriarcham adversus Leonis
tatis, è stato pubblicato dapprima in THIEL (1868: 220-224) e poi in SCHWARTZ (1934: 19-24), e si legge in
traduzione italiana in RONZANI (2012) e in traduzione francese in TOUBERT (2000: 519-540). Al momento
dell’aprirsi dello scisma acaciano, il problema considerato da papa Gelasio I non è di ordine ideologico-
politico (quale cioè dei due poteri sia preminente), ma di ordine teologico-politico (quali siano piuttosto
le prerogative del sovrano universale romano-cristiano in ambito ecclesiastico e, in prospettiva, nella sfera
dottrinale). È in questione pertanto la distinzione degli ambiti di competenza e non la definizione del ruo-
lo preminente ed in questo Gelasio si colloca ancora nel contesto “romeico”. L’auctoritas e la potestas, ri-
spettivamente attribuite al papa ed al sovrano, anticipano di circa mezzo secolo la distinzione tra sacerdo-
tium ed imperium sancita da Giustiniano nel celebre proemio della Novella VI. La prospettiva storiografi-
ca classica di una pretesa gelasiana di un’auctoritas sacerdotale superiore alla potestas imperiale – presen-
tata da CARLYLE-CARLYLE (1903: t. I, 184-193) e da CASPAR (1930: 64-73) e ripresa più di recente da ULL-
MANN (1962: 20-22) e ULLMANN (1981: 198-212), è stata superata dalle più raffinate analisi di STEIN
(1935-1936), ZIEGLER (1942) e soprattutto COTTRELL (1993) e DAGRON (1996: 303-315, La théorie des
“deux pouvoirs). Resta comunque il fatto che due componenti della concezione “romeica” del potere,
espressa da Giustiniano, non vengono esplicitate da Gelasio e precisamente la comune origine divina dei
due poteri (anche se Gelasio ne fa cenno nella lettera Ne forte da lui scritta per conto del papa Felice III:
si veda THIEL (1868: 225-228) e la necessità che essi operino sinfonicamente, in perfetta armonia.
130 Si tratta di un testo anonimo, concepito, con ogni probabilità, come premessa normativa generale
all’opera dei Basilikà, la monumentale “purificazione” delle leggi promossa dalla dinastia “macedone”
(cfr. SCHMINCK, 1986: 1-15; SCHARF, 1959). Secondo alcuni studiosi il compilatore dei due titoli citati sa-
rebbe stato lo stesso Fozio (cfr. SCHARF, 1956; TROIANOS, 1989-1991).
131 Su questo grande uomo di stato “unionista”, si veda ŠEVčENKO (1975: vol. 4, 17-91).
132 Cfr. GRUMEL-DARROUZÈS (1989: 368, n. 873) e GRUMEL (1947: 10, n. 873).
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133 Cfr. Titolo III: Il patriarca, 11: «Poiché la sede patriarcale di Costantinopoli è illustrata dalla pre-
senza dell’imperatore, è stata dichiarata prima per decisione dei santi concili. Conformandosi a ciò, le leg-
gi sacre prescrivono che i casi controversi che dipendono dalla altre sedi patriarcali siano portati a cono-
scenza e sottoposti al suo giudizio» (ZEPOS-ZEPOS, 1931: t. II, 241; trad. it. DAGRON, 1999: 222). Un’altra
traduzione italiana del medesimo titolo si trova in PERTUSI (1990: 92).
134 Cfr. Titolo III: Il patriarca, 1: «Il patriarca è un’immagine viva e animata di Cristo, che, attraverso i
suoi atti e le sue parole, esprime la verità» (ZEPOS-ZEPOS, 1931: t. II, 242; trad. it DAGRON, 1991: 221; al-
tra traduzione italiana in PERTUSI, 1990: 91).
135 Cfr. Giovanni Skylitzes Continuato, in TSOLAKES (1968: 105; trad. ingl. 2010).
136 JENKINS-KITZINGER (1967).
137 MANGO (1988).
138 DAGRON (1996: 395-394, n. 65).
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139 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 4, in WILL (1861: 211-212).
140 Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum patriarcham adversus Leonis
Achridani libellum, 37, in WILL (1861: 83).
141 Cfr. ANASTASIO BIBLIOTECARIO (1928), Epistulae sive Praefationes, 5, in PERELS-LAEHR (1928: 409);
MANSI, XVI, Nicolaus Coleti, Venetiis 1771 (rist. anast.: Akademische Druck-U. Verlagsanstalt, Graz
1960), cc. 1-13, c. 7; Adnotatio Anastasii de libellis, ivi, cc. 29-30.
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12indice 303_Layout 1 18/10/17 09:43 Pagina 303
Indice
Giuseppe Fornasari
Gregorio VII e la riforma gregoriana. Un ripensamento 9
Raffaele Savigni
Ruolo storico e teologia del papato nell’Europa carolingia 27
Enrico Morini
1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 73
Nicola Naccari
Il rapporto tra Sede Apostolica e Oriente greco nel pensiero di Gregorio VII 103
Enrico Spagnesi
La rinascita giuridica, il sacerdozio, il regno 129
Roberto Lambertini
Manegoldo di Lautenbach tra primato papale e “contratto sociale” 165
Nicolangelo d’Acunto
Il potere del papa negli scritti dei polemisti di parte imperiale
durante la lotta per le investiture 175
Riccardo Saccenti
Vicarius Christi, vicarius Petri. Sviluppi teologici della terminologia
gregoriana fra XI e XII secolo 189
David d’Avray
The Origins and Aftermath of the Eleventh Century Reform
in the light of Niklas Luhmann’s Systems Theory 211
Bibliografia 229
Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2017