Dinamiche inclusive nella società post complessa: ricerche, riflessioni, esperienze e narrazioni (8
novembre 2021)
Tema dell’adultità
Primo intervento: Ilaria D’Angelo
Tema molto complesso che vede diversi livelli di analisi e interpretazioni proprio nella presa in
carico educativa dell’adulto con disabilità. Orientare infatti la persona con disabilità al
raggiungimento della propria condizione adulta implica indirizzare nel tempo e per tempo la
progettualità educativa verso traiettorie di senso e significato che possano corrispondere in
prospettiva al raggiungimento di quelli che possono essere i più elevati livelli di indipendenza, di
partecipazione sociale e di benessere. Tale processo di crescita diviene un percorso che deve
essere condiviso con la persona con disabilità per tempo, con la sua rete familiare e con la rete dei
servizi. Quindi è un processo ed un percorso esistenziale etero ed auto orientamento che viene
concretizzarsi in riferimento alle aspettative, ai bisogni, i desideri e i sogni della persona con
disabilità e al tempo stesso di quelle che sono le varie possibilità e le necessità e i diversi
meccanismi e vincoli che possono concretizzarsi e che sono legati non esclusivamente alla
persona con disabilità, ma piuttosto ai contesti in cui la persona viene a trovarsi. Già da questi
primi tempi capiamo che sono plurimi e molteplici i livelli di analisi che devono essere presi in
considerazione nella strutturazione di progetti di vita che possono corrispondere a livelli di qualità
di vita. A supporto delle diverse criticità che possono intercorrere con l’avanzamento dell’età della
persona con disabilità si viene incontro ad una serie di criticità, come poi affronteremo nella
progettazione educativa, ci viene incontro nella pedagogia speciale proprio il costrutto della Qualità
della Vita. Il costrutto della QdV ci permette di indirizzare proprio questa progettualità che spesso
si perde nel corso degli anni, che spesso è frammentata e che non vede una vera e propria azione
di sistema da parte dei servizi che prendono in carico la persona con disabilità e lo fa ponendo la
persona al centro del suo percorso e permettendo di osservarla in una prospettiva che non è solo
sincronica, non solo ci descrive la condizione della persona nel qui ed ora, ma anche in una
prospettiva diacronica, cioè ci permette di pensare la persona, il bambino con disabilità come una
persona adulta, che è una delle maggiori criticità. Che cos’è il costrutto della QdV? Il costrutto della
qualità della vita sintetizza una pluralità di dimensioni che vanno dal benessere fisico, dal
benessere materiale, dal benessere emotivo e dallo sviluppo personale e dell’autodeterminazione.
È un costrutto che ha avuto sempre più consenso a livello nazionale ed internazionale rispetto a
delle concettualizzazioni che appunto lo vedono come un paradigma e modello multidimensionale
che è in grado di restituire, composto da aree significanti, che ci consente di avere una visione
globale dei bisogni della persona situandola in quella necessaria dimensione di prospettiva futura
che è in grado di valutare ed orientare le progettazioni ad esiti di qualità. È un costrutto che vale
per chiunque, quindi è un costrutto universale che vede della aree principali condivise da tutti
quanti noi e che ci permette di restituire le nostre percezioni in base alle nostre esperienze di vita,
cioè a quale livello stiamo facendo esperienza di boni livelli di qualità di vita. Nel corso del tempo
sono stata numerosissime, anche grazie ai diversi studi che si sono interessati del benessere della
QdV, numerosissime sono state le concettualizzazioni e come si diceva prima il consenso
generale si è andato poi a convalidare rispetto ad un modello multidimensionale e rispetto ad
alcuni principi teorici che vengono condivisi e che fanno riferimento alla costituzione dei fattori che
compongono questo modello. Quali sono questi fattori? Fattori rilevanti per tutte le persone e sono
sia relativi a contesti oggettivi, come ad esempio il benessere materiale e aspetti più soggettivi che
vedono al centro i bisogni, i desideri e le aspettative della persona. Si basa sulla possibilità di
esprimere le proprie esigenze, di avere delle opzioni di scelta e di controllare le proprie azioni di
scelta e sicuramente è influenzato non solo da fattori personali ma anche da fattori contestuali,
come ad esempio il contesto familiare, ma più in generale quello scolastico e dei servizi. In
generale ci sono due macro aree che interessano il costrutto della qualità della vita, una è la
dimensione oggettiva e l’altra è la dimensione soggettiva, in cui si rintraccia una determinante
maggiore perché sono proprio le nostre percezioni rispetto a delle condizioni oggettive, che ci
restituiscono la nostra soddisfazione per le esperienza di vita che stiamo vivendo o affrontando. Il
modello che viene riconosciuto soprattutto dalla pedagogia speciale propone una articolazione di
questo costrutto in domini, indicatori e descrittori. I domini sono le aree rilevanti e sono otto, che
vengono articolati secondo degli indicatori e successivamente dei descrittori. Gli indicatori sono dei
fattori che ci permettono concretizzare questi concetti più astratti che sono i domini e in seguito
restituirne anche un descrittore, cioè effettivamente che cosa nel contesto, nei diversi ambienti di
vita o nelle diverse situazioni di vita posso osservare e quindi il descrittore va a descrivere appunto
cosa specifica il dominio, cioè l’area generale. Il modello che ha trovato più consenso è quello
proposto da Schalock e Verdugo Alonso che presenta gli otto domini: il benessere emozionale, il
benessere materiale, il benessere fisico, l’autodeterminazione, lo sviluppo personale, le relazioni
interpersonali, l’inclusione sociale e diritti. I domini sono gli stessi per tutte le persone, ma il loro
contenuto può variare, in riferimento agli indicatori e ai descrittori, in termini di importanza,
centralità e valore. Ci sono alcuni aspetti strettamente legati alla qualità della vita di persone con
disabilità che vanno attenzionati maggiormente e che possono cambiare nelle diverse fasi della
vita della persona con disabilità. Le maggiori criticità che la letteratura mette in evidenza rispetto al
tema dell’adultità delle persone con disabilità. Quello che si rischia spesso è di vedere la persona
con disabilità come un eterno bambino, cioè di non venire mai pensato come adulto. Spesso la
situazione si aggrava ulteriormente quando siamo in presenza di quadri di complessità,
caratterizzati da maggiori complessità, dove la persona viene percepita come mai modificabile nel
tempo, come se non ci sia mai un’evoluzione o che ci sia un’incapacità legata all’intendere e al
volere che comporta la negazione fin dal principio alla persona con disabilità di pensarsi come
adulta, ma anche di essere pensata come adulta. Questo lo si nota sia dall’atteggiamento
infantilizzante del professionista, ma anche dalle attività che spesso vengono proposte all’interno
dei servizi, che sono spesso attività non opportune e non legate all’età cronologica della persona e
sono più legate ad attività laboratoriali infantilizzanti. Un’altra criticità è l’assenza, all’uscita dalla
scuola dell’obbligo, di competenze abilitanti. L’uscita dalla scuola dall’obbligo rappresenta un
periodo di transizione molto critico in cui la buona riuscita di questo passaggio, agendo anche sul
sistema familiare. Pertanto le progettazioni educative se non inserite in una direzione prospettica e
se non realizzate rispetto al profilo di funzionamento della persona con disabilità e alla sua età
rischiano di non lasciare delle competenze centrali come quelle relative alle abilità di vita che sono
centrali per il passaggio dalla scuola all’ingresso nel mondo del lavoro e all’uscita successiva del
nucleo familiare a contesti di vita indipendente. A questo si collega tutta la mancata progettazione
e al vuoto che la famiglia e la persona con disabilità assiste una volta uscita dal percorso
scolastico e dove la persona rischia di ritrovarsi da un contesto incentivante, in cui la riabilitazione
continua e dove i servizi del dopo scuola sono presenti, a contesti familiari in assenza di
progettazione pensata per tempo e nel tempo. Questa situazione viene aggravata dalle condizioni
di deterioramento sia fisico che cognitivo che incentiva l’invecchiamento che si presenta nelle
persone con disabilità all’età di 35/45 anni. Tutte queste criticità premettono una mancata visione
sistemica ed ecologica della progettazione educativa, che è necessaria nella costruzione di
progetti di vita che siano realmente indirizzati all’adultità e che siano orientati a traiettorie di senso
e di significato che possano essere realmente condivise con la persona con disabilità. In questa
situazione assistiamo al mancato orientamento per il nucleo familiare e quindi a fasi di transizione
molto critiche, proprio nei momenti topici, cioè all’uscita dalla scuola dell’obbligo all’ingresso nel
mondo del lavoro, l’uscita dal nucleo familiare e l’ingresso a nuove soluzioni abitative. Che cosa
può guidarci nel superamento di queste criticità? Come superare questa frammentazione nella
progettazione e la mancata continuità? E anche l’assenza di prospettive? Sicuramente una
progettazione che possa iniziare nel Durante di Noi, nella condivisione con la persona con
disabilità, con la rete familiare e dei servizi e di orientarci in base a due domande principali: come è
possibile orientare la traiettoria degli adulti in un percorso progettato e costruito nel tempo e come
possibile lavorare per gli stessi servizi, in cui la grande criticità è la formazione degli educatori e dei
pedagogisti per i servizi che si occupano delle persone con disabilità nell’età adulta e che siano
effettivamente rispondenti ai bisogni e alle necessità degli adulti con disabilità. Il costrutto della
QdV è una reale soluzione che ci può supportare durante tutto l’arco di vita della persona
permettendo di pensare e calibrare di volta in volta il progetto educativo e di vita in base al
cambiamento, quindi ci permette di adeguare, tenendo sempre in considerazione il filo rosso della
progettazione, il progetto di vita, quindi di renderlo dinamico e di contestualizzarlo di volta in volta
affinché sia un progetto di senso e di significato e rivolto a prospettive di adultità. La QdV non ha
come finalità il qui ed ora, quindi l’oggi, ma permette di avere una visione che si estende in una
prospettiva futura, cioè draconica, della persona adulta. Il costrutto è anche fondamentale nella
formazione degli educatori, ma anche nell’organizzazione degli stessi servizi, perché non solo ci
permette di orientare la progettazione educativa allineando i diversi interventi ai domini della QdV,
ma permette anche agli stessi servizi di strutturare percorsie attività stesse ai domini della qualità
della vita e quindi di centrarli ai temi dell’adultità. Quindi il costrutto della qualità della vita può
essere declinato a più livelli, dal livello della progettazione al livello dell’organizzazione dei servizi,
ma più in generale come è possibile rintracciare all’interno della Convenzione Onu per i diritti delle
persone con disabilità, diventa proprio uno strumento di tutela e garanzia dei diritti delle persone
con disabilità. Inoltre, il costrutto della QdV permette di restituire al professionista e al pedagogista
degli strumenti di valutazione che sono fondamentali per la progettazione. In conclusione il
costrutto della QdV è un costrutto in grado di favorire i processi di empowerment della persona e
promuovere la costruzione di percorsi di vita che possono essere orientati nel tempo e per tempo
all’adultità.
Secondo intervento: Noemi del Bianco
L’adultità delle persone con disabilità rappresenta uno dei nodi di riferimento da prendere in
considerazione proprio nelle trame pedagogiche e soprattutto se il focus di attenzione riguarda la
maturazione delle persone con disabilitò intellettive allora le sfide che vengono a delinearsi sono
sempre più complesse, sia per i familiari che per i servizi, ma anche per i professionisti che sono
chiamati a ripensare la progettazione delle traiettorie di vita proprio nel segno della QdV.
Riconoscere e dare spazio alla crescita delle persone con disabilità intellettive ci conduce verso
l’attenzione di alcune criticità che possono emergere nell’evoluzione del percorso di maturazione.
Perché spesso agli interventi curativi che sono rivolti alle persone adulte con disabilità il rischio è
quello di ridurre la complessità. Come già anticipato oggi è molto forte l’immagine della persona
con disabilità come eterno bambino, quindi come colui che necessita di protezione e di cura, una
persona malata da assistere, in chiave pedagogica bisogna attingere all’esistenza e all’entità di
quelle che sono la serie di dinamiche legate alla progettazione delle differenti fasi di vita che
l’adulto con disabilità e la persona con disabilità vive per raggiungere la sua adultità. Per i giovani
con disabilità una delle criticità più potenti che incontra nel percorso verso l’età adulta è legata un
po’ alla conseguenza sociale di essere inscritti all’identità categorica delle disabilità intellettive.
Questa categorizzazione è come se inscrivesse la persona con disabilità all’interno della sua
mancanza, del deficit e implica una sorta di identità stigmatizzante che tende a prevalere invece su
altro tipo di identità e quindi di conseguenza è difficile sfuggirvi. Per poter soddisfare quello che
potrebbe essere il bisogno di uscire da questa identità stigmatizzante, quindi uscire da questa
unica identità sofferente che richiede compassione, ma dipende anche dalla storia, dai vissuti,
dalle relazioni interpersonali che la persona potrebbe vivere, è necessario un lungo ed esigente
lavoro di auto-riflessione, di auto-osservazione, di rigorosa vigilanza sul nostro agire non solo
personale, ma anche professionale. Quindi per queste ragioni sul piano operativo tra le prime
modalità attuative possiamo citare quelle volte all’implementazione del dominio
dell’autodeterminazione. Come ci mostra la letteratura è iscrivibile all’interno del più ampio
fenomeno della Qualità della Vita. Gli studi ci mostrano che tra le persone con disabilità coloro che
hanno una disabilità intellettiva raggiungano delle percentuali più basse di autodeterminazione,
poiché vi è questa riscontrata tendenza di un ‘eccessivo e onnicomprensivo esercizio del processo
decisionale da parte degli altri, anche nei confronti delle persone con disabilità intellettive che
potrebbero avere le potenzialità per poter esercitare forme di autodeterminazione. Gli studi ci
dicono che sono i caregivers, i proxy ovvero le persone di riferimento del soggetto con disabilità
intellettiva, coloro che lo conoscono bene, che potrebbero essere i familiari, ma anche i
professionisti come gli educatori, insegnati ad incorrere in questa sostituzione, ovvero prendono al
posto della persona con disabilità decisioni. E non solo decisioni che sono di semplice ordinarietà,
ma anche di importanza esistenziale. Questo significa che familiari e professionisti non sempre
esprimono per loro intenzionalità o meno le preferenze del soggetto con disabilità. Quindi ponendo
lo sguardo sul panorama internazionale si sta iniziando ad intravedere un notevole avanzamento
soprattutto sulla ricerca dell’identità oltre lo stigma delle persone con disabilità intellettiva che
mostra opposizione a questa etichetta. Infatti la crescita di gruppi di auto-rappresentanza, l’alta
funzione delle reti e delle associazioni anche che sono nate in tutela proprio dei diritti delle persone
con disabilità ci testimoniano l’attenzione vera e propria, e quindi lo sviluppo di movimenti nati in
favore di processi di identificazione e di promozione dell’autodeterminazione e della vita
indipendente delle persone con disabilità intellettive. Nel contesto italiano stanno iniziando a
prendere forma delle circostanze che rispondono alla sfida che è stata lanciata dalle recenti
disposizioni normative. Come la legge 112 del 2016 che è nata per favorire misure e garantire un
progetto di vita anche nelle persone con disabilità severe, quindi anche una progettazione che
sappia essere continuativa e qualitativa nel dopo di noi. Come è facile intuire queste due
traiettorie, cioè l’autodeterminazione e la vita indipendente, sono tra loro interconnesse e tra loro si
auto-alimentano vicendevolmente proprio per il raggiungimento di garanzia a tutela anche delle
persone con disabilità intellettive e delle loro famiglie proprio per poter raggiungere migliori
aspettative di vita. In riferimento all’autodeterminazione, essendo uno dei domini della QdV le
ricerche ci mostrano come maggiori siano i livelli di autodeterminazione, maggiori risultano essere
le percezioni della propria vita. Il costrutto va ad incidere sia sul piano generale della QdV, ma
anche su altri domini. Quindi l’autodeterminazione si mostra come uno dei domini che necessita in
qualche modo di realizzazione di pratiche specifiche. Per capire cosa si intende nello specifico per
autodeterminazione, partiamo dalla motivazione, cioè dal perché è importante questo costrutto.
Innanzitutto perché rappresenta un diritto, quindi rappresenta un ideale, un principio che consente
anche alla persona con disabilità di raggiungere ciò che maggiormente desidera nella propria vita.
- L’autodeterminazione è un processo di scelta o processo decisionale complesso ed
articolato che è basato su una serie di opzioni desiderabili, una pluralità di scelte e può essere
raggiunto attraverso la vicendevole relazione che si instaura tra l’azione, che potrebbe essere
anche una non azione, del soggetto con disabilità e le dinamiche ambientali con cui lo stesso
interagisce, quindi il contesto di riferimento entro cui è inserito.
L’ulteriore nodo concettuale che è fagocitato nello stesso costrutto dell’autodeterminazione, è il
raggiungimento della vita indipendente. Quindi per progetto di vita indipendente si intende la
realizzazione diretta della persona con disabilità della propria auto-gestione personale. Quindi
interrogarsi sulle possibili forme di indipendenza significa attuare una preparazione condivisa della
persona con disabilità, della famiglia, dei servizi proprio per garantire un allineamento alle
aspettative, ai bisogni, ai desideri e poter raggiungere un’autonomia residenziale che non può non
essere pensata in modo semplicistico. Porre attenzione alla scelta di quelle che sono le diverse
soluzioni abitative permette di attenzionare l’efficacia della persona. Per la persona stessa può
essere un tirocinio, un’occasione per sperimentarsi in quanto portatrice di competenze e di risorse.
In questa direzione il progetto di vita della persona con disabilità deve concretizzarsi nella ricerca
di quelle che sono le forme adeguate e sostenibili per poter consentire agli adulti nelle diverse fasi
sicurezza e supporto nelle attività di vita quotidiana. Quindi dobbiamo sempre ricordarci che le
possibilità offerte dalla vita indipendente non sono riservate solamente a pochi, ma in realtà non
significa far sì che la persona faccia qualcosa completamente da solo, ma piuttosto significa
accompagnare l’altro. Quindi sono queste azioni di accompagnamento nei contesti di vita che
possono essere attuate durante il momento transizionale dell’adolescenza per far sì che il soggetto
possa essere avviato verso occasioni future di vita indipendente nell’adultità. Quindi supportare le
frasi di transizione significa agire in favore dell’individuazione di alcune soluzioni che possono
essere idonee per il soggetto e che possano preparare la persona verso un avviamento poi per la
fase di vita futura. La traiettoria attuativa, scendendo nel concreto, si delinea come una
progettazione di progetti di vita sicuramente personalizzati, attraverso la possibilità di garanzia di
un ventaglio di scelte a favore della persona, da prendere in considerazione poi nel corso degli
anni, in cui il soggetto con disabilità diviene protagonista della propria storia, del proprio tragitto.
Necessaria risulta essere una progettazione permanente e che possa essere attuata in relazione
alla singolarità della persona con disabilità intellettiva, ma anche in riferimento alle specificità del
contesto di appartenenza, quindi alla comunità che lo accoglie attraverso un progetto che possa
strutturarsi e realizzarsi nello spazio del ciclo di vita della persona. Passando alla legislazione in
riferimento alla vita indipendente. Tra i principali nodi troviamo il Programma di Azione Biennale
per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità e il secondo che ha la
stessa dicitura ed attuato a partire dal 2017 che hanno aperto un nuovo scenario di riferimento
politico, ma soprattutto programmatico sul tema della vita indipendente e dell’inclusione sociale
delle persone con disabilità. La legge del Dopo di Noi, la 112 del 2016, contenenti disposizioni in
materia di assistenza in favore delle persone con disabilità privi di sostegni familiari, rappresenta il
provvedimento legislativo che ha proprio introdotto finanziamenti ed agevolazioni per favorire
anche la garanzia del progetto di vita anche per persone con disabilità gravi nel caso in cui vi sia
un’assenza del sostegno familiare. Quindi all’interno di questo nuovo paradigma si comprende
proprio la necessità di un supporto alla realizzazione di una traiettoria continuativa nel tempo e
soprattutto progettata in anticipo, cioè strutturata in modo coerente nella fase del Durante di noi,
proprio nella prospettiva e una valorizzazione della persona proprio nel momento in cui il nucleo
familiare viene meno. Poi abbiamo il Decreto direttoriale 808 del 29 dicembre 2017 proveniente
dalla direzione generale per la lotta alla povertà e la programmazione sociale in cui sono state
adottate delle linee guida per la presentazione delle regioni di progetti in materia di vita
indipendente e di inclusione nella società delle persone con disabilità. In particolare nella Regione
Marche la Giunta Regionale nel 2017 ha approvato per l’anno successivo, quindi per il 2018, i
criteri volti proprio all’attuazione di questi progetti di vita indipendente in favore delle persone con
disabilità gravi. Nella delibera approvata dalla giunta regionale marchigiana è possibile avere delle
delucidazioni in merito alle finalità e agli obiettivi. Sicuramente tra i piani personalizzati troviamo
che questi sono rivolti a persone con disabilità di età compresa fra i 18 e i 65 anni residenti nella
Regione Marche che manifestano una capacità di autodeterminazione, quindi una chiara volontà a
gestire in modo autonomo la propria esistenza e le proprie scelte. Attraverso il sostegno della vita
indipendente, vuole in qualche modo essere garantita anche alle persone con disabilità severe il
diritto all’autodeterminazione, nonché il miglioramento della globale QdV. Tra le molteplici
esemplificazioni che possiamo citare in connessione con il quadro epistemologico e quello
legislativo che abbiamo presentato, possiamo menzionare l’esperienza di Civico 34, che
rappresenta proprio la testimonianza di come il Dopo di Noi e soprattutto le sfere
dell’autodeterminazione e della vita indipendente prendono forma. Civico 34 si concretizza entro
l’associazione ANFASS ONLUS di Macerata che è un’associazione nazionale di famiglie e
persone con disabilità intellettive o relazionali che si occupa di tutelare sul territorio nazionale, in
questo caso nel territorio maceratese, i diritti delle persone con disabilità e dei loro familiari.
Insieme alla Regione marche è nato il nucleo territoriale numero 15, hanno reso operativo nel 2018
questo progetto e l’associazione maceratese è proprio riuscita a mettere a disposizione di persone
con disabilità un appartamento progettato anche seguendo dei criteri di accessibilità. I protagonisti
di questa esperienza sono quattro uomini con disabilità intellettive che già frequentavano il centro
diurno ANFASS di Macerata. Quindi dopo uno specifico training hanno maturato competenze di
autogesione e di autodeterminazione per poter prendere parte a questo progetto. A sostegno di
questo percorso l’associazione ha messo in campo anche un’équipe specializzata sui programmi
dell’autodeterminazione e della vita indipendente e formata da figure professionali altamente
qualificate. Questa realtà è solamente uno degli esempi tra le possibili prospettive che possono
essere attuate e realizzate per il raggiungimento delle linee strategiche nazionali ed internazionali
nate in difesa di una maggiore qualità della vita. In conclusione focalizziamo soprattutto
l’attenzione alla promozione dei percorsi di autodeterminazione in ambienti di vita quotidiana
anche per le persone con disabilità intellettive a discapito di una tendenza a prestare o a proporre
delle proposte operative troppo strutturate, per far sì che la traiettoria di vita divenga una traiettoria
che possa essere effettivamente e concretamente indirizzata alla qualità della vita, in cui il progetto
di vita della persona con disabilità risenta di coerenza, di personalizzazione durante tutte le fasi
della maturazione. In secondo luogo la ricerca ci consente anche di mettere in luce la formazione
dei formatori, dei professionisti che operano proprio nei centri e nei servizi alla persona, per far sì
che le pratiche, che la direzione da intraprendere possa essere concretamente realizzata nella
direzione della qualità della vita.
Terzo intervento
Questione legata alla genitorialità delle persone con disabilità, tema scarsamente affrontato dalla
letteratura. Quando si parla di famiglia in senso ontologico, ma anche biologico c’è un rimando
diretto al tema della generatività. Il tema della generatività rimanda sempre a questioni legate al
potere, alla possibilità di creare e produrre qualcosa che sia altro da noi. La pedagogia speciale si
è occupata a lungo della questione della disabilità all’interno delle famiglie ma lo ha analizzato
soprattutto dal punto di vista del figlio con disabilità, la percezione dei genitori, della famiglia
allargata, i fratelli, i nonni. Ma c’è ancora poco rispetto alla possibilità delle persona con disabilità di
diventare genitori. All’interno del testo presentato dalla professoressa Salis, è stata presentata una
ricerca sulle cosiddette madri invisibili, cioè le donne madri con disabilità intellettiva. Il costrutto
della QdV è il punto di partenza principale soprattutto perché alcuni dei domini e degli indicatori
che vediamo all’interno del grafico rimandano alla questione della genitorialità. Pensiamo
all’inclusione sociale, intesa come partecipazione piena alla vita della comunità e all’accettazione,
le relazioni interpersonali, all’interno delle quali ci sono anche i rapporti familiari, oltre a quelli
d’amicizia, lavorativi e sociali, ma dentro le relazioni interpersonali c’è anche la vita intima, la vita
affettiva. Il benessere emotivo, quindi la soddisfazione, il concetto di sé, la sicurezza, la felicità e
poi l’autodeterminazione che è un diritto perché riguarda il desiderio. Lo sviluppo personale, inteso
come la realizzazione di sé, l’arricchimento personale, quindi l’acquisizione di competenze per la
vita. La questione della genitorialità delle persone con disabilità è un nuovo scenario che si
interseca molto bene all’interno dei diversi domini della QdV, ma soprattutto deve essere intesa
come una dimensione umana, dimensione universale. È chiaro che soprattutto nella sua
declinazione al femminile, nella prospettiva della maternità, si evidenziano alcuni aspetti che
intercettano ancora di più dei retaggi culturali, degli stereotipi sociali, delle sovrastrutture
ideologiche che sottolineano in maniera più forte, rispetto anche a quello che succede nella
prospettiva maschile, l’idea della disabilità come scarsamente correlata alla femminilità che
conduce ad una percezione delle donne con disabilità come non idonee a prendersi cura dei propri
figli. Questo è stato ulteriormente validato da parte di una ricerca canadese che ha indagato le
percezioni rispetto alla presunta non idoneità di otto madri con disabilità intellettiva all’interno di
una comunità canadese che di fatto non ha alcun fondamento empirico, si tratta di un retaggio che
è piuttosto radicato rispetto agli stereotipi della disabilità e anche a quelli di genere. C’è anche una
correlazione molto forte con il senso che noi diamo a livello culturale, spirituale, materiale alla
maternità. La madre è intesa come origine, dell’inizio della vita; se pensiamo al momento del parto
siamo consapevoli del grande sforzo e anche della fatica, al dolore che viene sperimentato dalle
madri, ma che porta poi al desiderio, alla realizzazione del desiderio più grande, quello appunto di
diventare madri. Questa forza che si sperimenta durante il parto sembra a livello di pregiudizio e di
cultura popolare, scontrarsi con l’idea di disabilità che è associata sempre alla debolezza, alla
precarietà, alla fragilità. In realtà le madri che abbiamo incontrato all’interno della letteratura sono
madri che hanno una forza incredibile, e che spesso sono state vittime di violenza e che però si
sono rilevate incredibilmente forti e instancabili protettrici dei loro figli, soprattutto per offrire una
vita migliore ai propri figli. Il percorso alla genitorialità sia stato sottolineato e ribadito dalla
convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, ma al di là di questo dal punto di vista di
tutela normativa e anche di applicabilità di questo desiderio c’è ancora molto da fare. Sappiamo
che ovviamente il desiderio di maternità non è un desiderio universalmente avvertito come bisogno
nel genere femminile, è importante però rispetto al principio dell’autodeterminazione che sia
avvertito come possibilità per chi nutre questa aspettativa e questo desiderio di generatività deve
esistere anche per le persone con disabilità. C’è poi un altro tema che è importante riprendere,
cioè quello della vita sessuale che di fatto è l’albero della maternità, questo perché sappiamo
quanto la componente dell’affettività sia ancora tabù soprattutto con il collegamento alla disabilità.
La dimensione più intima delle relazioni di coppia ha un collegamento molto forte con il dominio
dell’autonomia, sotto due profili, un profilo che è connesso al tema della scelta e uno connesso alla
dimensione dell’autonomia d’intesa. La scelta presuppone la piena volontà da parte di una persona
di condividere con un altro il proprio sentire, attraverso appunto l’atto sessuale e questo è bene
sottolinearlo a maggior tutela delle persone con disabilità che sono spesso vittime di episodi di
violenza, soprattutto le donne. Da questo punto di vista anche la normativa si è mossa tutelando la
cosiddetta autodeterminazione sessuale con la legge 66 del 1999. Poi c’è quella che è stata
definita come autonomia d’intesa che ha a che fare con la scelta consapevole di vivere la propria
sessualità in una relazione completa con l’altro da sé, che però a sua volta si fa carico di
accompagnare la persona con disabilità in un momento così delicato e così intimo. In questo
percorso di ricerca è stati molto utili alcuni esempi che arrivano dai media, al di là di esempi molto
più noti come ad esempio il film “MI chiamo Sam” dove appunto abbiamo un padre con disabilità
intellettiva la cui paternità viene messa alla priva dal punto di vita legale, ci sono poi alcuni
documentari che sono particolarmente interessanti, in cui troviamo la storia di due mamme con
disabilità una che ha una forma di nanismo e l’altra che non può utilizzare nessuno dei suoi arti
che svolge tutte le sue attività di vita quotidiana utilizzando la bocca. C’è un altro documentario che
ha come protagonista una mamma con atrofia muscolare spinale di tipo 2, una malattia
degenerativa che colpisce i neuroni e che per la gestione quotidiana di sua figlia si fa aiutare da
una tata. All’interno di questa ricerca si è pensato di ribaltare un po’ la prospettiva, cioè analizzare
la dimensione della maternità delle donne con disabilità dal punto di vista dei figli. Viene presentata
una ricerca australiana che ha coinvolto figli di genitori con disabilità intellettiva e che ha analizzato
la possibile relazione tra la disabilità del genitore e i risultati dei figli in termini di crescita. Alcuni
risultati suggeriscono che questa bassa capacità intellettiva del genitore possa avere un impatto
negativo sulla crescita del bambino, altri suggeriscono che questo sviluppo è vicino alla norma
della popolazione. Poi c’è un secondo piccolo gruppo di studi che ha invece esplorato i racconti
narrativi dell’infanzia di bambini figli di persona con disabilità intellettiva, i quali hanno raccontato
spesso di aver vissuto esclusione sociale, bullismo e stigma. C’è poi uno studio di caso,
un’intervista semi-strutturata fatta ai figli di una madre con una psicosi cronica, schizofrenia,
sclerosi multipla e un’importante scogliosi. Un figlio che all’epoca aveva 39 anni e una figlia che ne
aveva 32 e si è cercato di comprendere quali fossero i vissuti rispetto alla percezione della madre
rispetto all’infanzia e poi all’età adulta e la relazione tra fratelli. Come si vedrà il vissuto del figlio
rispetto a quello della figlia è completamente diverso, il primo ricordo del figlio è molto più centrato
su elementi negativi rispetto a quello della figlia. Utilizzano cinque aggettivi per definite la mamma:
il figlio la descrive come malata, egoista, inutile, sfortunata, ipocrita e la figlia come buona,
paziente, ironica, solare, estroversa. L’interpretazione che è stata data è legata principalmente a
due aspetti. Il primo è anche un aspetto di genere, sappiamo che il rapporto tra figlio maschio e
madre è spesso molto più intenso e proiettivo rispetto a quello della figlia, e quindi c’è una
frustrazione nel figlio maschio, ma c’è soprattutto una differenza rispetto al vissuto. Il figlio più
grande ha vissuto il peggioramento delle condizioni della mamma, mentre la figlia ha più o meno
vissuto una fase di stabilizzazione. C’è poi l’altro elemento che riguarda la vita dei figli, i rapporti
con la mamma sono diametralmente opposti, il figlio l’ha vissuta solo nei momenti di vita familiare,
come il pranzo e la cena, la figlia racconta di un rapporto paritario, a volte invertito, lei era la
mamma e la mamma era la figlia. Lei già a 5 anni l’aiutava a lavarsi, a vestirsi, a truccarsi. Rispetto
all’età adulta, la figlia racconta di aver intrapreso un lungo percorso terapeutico per separarsi dalla
madre, per capire che lei non era e non sarà la madre. Il figlio dice che sicuramente l’ha fatto
crescere prima dei suoi amici, ma che lo ha reso insofferente alla malattia fisica e mentale, cioè
che non ha pazienza con chi si ammala. L’aspetto comune si riscontra nella relazione fraterna e
nei legami familiari, entrambi i figli dichiarano di aver un rapporto molto stretto e molto forte anche
a seguito della situazione della mamma e che hanno vissuto sempre all’interno di una famiglia
allargata con pro e contro, quindi anche il fatto che ci fosse una definizione meno netta dei ruoli,
una confusione che spesso produceva anche una serie di conflitti. In conclusione, da un lato quello
che ci interessa è lavorare per far in modo che l’accesso alla genitorialità delle persone con
disabilità non venga inteso solamente come diritto, ma che ci chiami in causa come comunità
attraverso il nostro impegno, come comunità scientifica continuando ad investire e a lavorare su
questo tema, ma anche come comunità nazionale, cioè investendo in termini di welfare sotto
questo punto di vista. Poi è necessaria la formazione dei formatori, è necessario formare gli
specialisti che siano in grado di accompagnare le donne con disabilità nel percorso della
gravidanza e nel periodo natale e neo-natale grazie al ginecologo e all’educatore perinatale che ha
un ruolo decisivo da questo punto di vista ed è bene che ci sia ancora di più uniformità sul territorio
nazionale da questo punto di vista. E poi il sostegno ai figli che si prendono cura dei loro genitori,
anche in termini di ricerca scientifica, perché il problema di fondo rimane sul chi si prende cura di
questi giovani figli che a loro volta si prendono cura dei loro genitori.
Lezione del 09/11/2021
I Social Robot e il Disturbo dello Spettro Autistico: emergenze e potenzialità educative
Vedremo come i Social Robot possono in qualche modo supportare il Disturbo dello Spettro
Autistico, quindi persone con Disturbo dello Spettro Autistico.
Le premesse concettuali, cioè le motivazioni fondanti che sono insite dietro questa tematica. È
necessario allineare i bisogni del soggetto proprio con le aree della Qualità della Vita, questo
significa andare ad individuare nella progettazione educativa una serie di sostegni, cioè un a serie
di possibilità in grado di implementare la qualità della vita delle persone con disabilità.
Implementare i livelli della Qualità della Vita delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico,
dove il quadro della comunicazione sociale risulta essere particolarmente compromesso, significa
trovare quei sostegni in grado di potenziare la capacità di comunicazione e di mettersi in relazione
con l’altro. Quindi in questa direzione numerosi sono gli studi che ci dimostrano come la Robotica
sociale possa essere un’importante proposta operativa da inserire all’interno dei progetti di vita
delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Questo richiede un’adeguata attenzione sia al
profilo di funzionamento della persona con Disturbo dello Spettro Autistico, sia un’attenta scelta tra
le diverse proposte della Robotica Sociale che oggi sono presenti, sul panorama nazionale ed
internazionale, per l’intervento educativo e abilitativo con i soggetti con autismo. Quindi insita in
questa scelta vi sono delle possibilità educative che non dobbiamo tralasciare.
Focus: Disturbo dello Spettro Autistico
Per inquadrare il Disturbo dello Spettro Autistico è necessario sottolineare la pluralità della
fenomenologia del disturbo, quindi la cosiddetta triade autistica che è composta da tre macro aree
sintomatologiche che caratterizzano il disturbo:
Deficit dell’interazione sociale, nella comunicazione verbale e non verbale. Interazione e
comunicazione sono riunite proprio nell’area della comunicazione sociale;
La terza area è riferita al gruppo dei comportamenti ripetitivi, quindi di comportamenti
stereotipati, il repertorio limitato, gli interessi e le attività ripetitivi.
I sintomi e i disturbi dello stato autistico:
1. Disturbi della motricità: Sicuramente abbiamo dei movimenti stereotipati (il sfarfallio è
tipico). Le mani, l’intero corpo o la postura attano dei movimenti stereotipati;
2. Disfunzioni percettive: abbiamo un ipersensibilità, un’attrazione particolare ai suoni, alle
luci, un’alta soglia del dolore (iposensibilità) e risposte bizzarre a stimoli sensoriali;
3. Disturbi psicologici: tra cui disturbi dell’emotività (che si manifestano solitamente con un
riso inappropriato con un’assenza o scarsa emotività, l’assenza, la paura ai pericoli reali o
magari l’ansia o la collera immotivata), disturbi dell’affettività (ristrettezza degli interessi,
quindi una ripetitività), alterazioni psichiche (una fissità, una rigidità, polarizzazione del
pensiero, stati di assenza veri e propri), disturbi intellettivi (scarsa comprensione della
parola, una generalizzazione, un deficit intellettivo, mancata comprensione delle regole),
disturbi della socialità (centratura su di sé, scarsità nelle relazioni e la non risposta alle
chiamate);
4. Disturbo/disordine della comunicazione: tra i sintomi più comuni del disturbo/disordine della
comunicazione abbiamo l’inespressività del viso e del corpo, lo scarso contatto oculare,
quindi l’evitamento, la scarsa partecipazione alle situazioni e l’interazione discontinua,
assente o inappropriata;
5. Patologie del linguaggio verbale: abbiamo il ritardo linguistico, quindi una scorretta
pronuncia o la scorretta delineazione o costruzione dell’enunciato, l’AFASIA totale, la
compromessa capacità di iniziare o sostenere una conversazione, l’ecolalia (ripetizione),
l’uso del pronome o del nome al posto della frase, la monotonia nel ritmo e nel tono, l’uso
della forma interrogativa, una forte metaforicità, cioè la difficoltà di astrazione e una forte
rigidità alla concretezza e l’eccentricità;
6. Disturbo del gioco: tra i sintomi delle patologie da gioco abbiamo mancanza o
compromissione dei giochi spontanei, della simulazione, dell’imitazione, dell’immaginazione
e del gioco decontestualizzato;
7. Stereotipie e Condotte inadeguate: dobbiamo ricordare l’iperattività, la scarsa tenuta
dell’attenzione, l’impulsività, l’aggressività, eccessi di collera e l’autolesionismo, le
stereotipie, ovvero questi movimenti ripetitivi, l’attaccamento a oggetti inanimati, l’interesse
per parti di oggetti che ruotano, ecolalia, comportamento uguale e ripetitivo e resistenza e
malessere ai cambiamenti.
Ci chiediamo quali possono essere le tecnologie più adeguate per persone con Disturbo dello
spettro Autistico.
Prima considerazione
DESIGN del ROBOT:
Dimensioni;
Forme e colori;
Livelli di antropomorfismo.
Nella prima fase di progettazione di attività educative per soggetti con Distrubo dello Spettro
Autistico, mediante la Robotica sociale, la prima considerazione che facciamo è proprio quella del
design del Robot, cioè quali devono essere le dimensioni, le forme, i colori e i livelli di
antropomorfismo che il robot deve avere. Questa scelta deve essere fatta in base al profilo di
funzionamento, agli stili di pensiero alla sensibilità sensoriale che caratterizza il quadro. Quindi
nella prima fase di progettazione proprio delle attività educative da rivolgere a persone con
Disturbo dello Spettro Autistico, sicuramente la prima questione da affrontare è quella che riguarda
questo tipo di design proprio per evitare una eccessiva stimolazione sensoriale nei confronti del
bambino, del nostro interlocutore. Quindi è necessario scegliere accuratamente il Robot in
riferimento proprio all’aspetto, in riferimento alla forma. Sicuramente le dimensioni, il visual appeal
del Robot, ovvero se risulta essere proporzionato, se risulta avere una corporatura anche
specifica, possono in qualche modo facilitare il contatto visivo e quindi rendere l’interazione tra
Robot e bambino più naturale possibile. Sicuramente dobbiamo evitare l’utilizzo di forme e di colori
che possano in qualche modo creare un’eccessiva stimolazione sensoriale e quindi in un certo
senso anche indurre alla fissità di alcune parti. Vi sono poi tipologie di Robot che hanno differenti
livelli di antropomorfismo, cioè ci sono dei robot che hanno delle sembianze umanoidi vere e
proprie. Quindi anche la scelta del livello di antropomorfismo, quindi le sembianze che il robot deve
avere, deve in qualche modo rispondere al profilo di funzionamento del soggetto. La scelta del
Robot deve essere confacente al funzionamento del bambino stesso.
Seconda considerazione:
RUOLO del ROBOT:
Mediatore;
Supporto.
Un operatore che voglia poi attivare degli interventi specifici, quindi mirati, attraverso l’utilizzo della
robotica sociale, deve anche conoscere quelli che sono i diversi ruoli che il robot potrebbe avere.
Quali ruoli i robot sociali possono assumere anche in riferimento ai sostegni da attivare che in
qualche modo vanno ad implementare i livelli di QdV e le aree specifiche della QdV del nostro
soggetto. È necessario pertanto allineare i bisogni dei bambini con disturbo dello spettro autistico e
le aree significative della QdV. Quindi i social robot possono essere utilizzati sia per mostrare dei
comportamenti sociali, quindi guidare nell’interazione, quindi in questo caso diviene un mediatore
sia con gli altri bambini, ma anche come supporto proprio per far quelle che possono essere le
esperienze all’interno del contesto classe di riferimento o anche in contesti extrascolastici. Nel
caso invece del supporto è quando il robot fa da schema per il bambino stesso, quindi diventa una
sorta di specchio per il bambino. Quindi nel caso della mediazione il robot sociale si pone da ponte
tra l’educatore, il terapista e il bambino, per poi divenire un ponte tra i bambini stessi (in riferimento
ai contesti dove viene utilizzato. Lo scopo è quelo di generalizzare l’abilità sociale dell’interazione a
un gruppo più ampio. Nel caso invece del supporto lo scopo è proprio quello di far sì che possa in
qualche modo essere una fonte di imitazione. Partire con il Robot (il robot fa un movimento e poi il
bambino fa lo stesso movimento) mi permette poi di far sì che il robot venga sostituito dalla
persona. È il passaggio oltre. Quindi simulo il robot, posso capire che posso simulare il robot e
riesco poi nella sostituzione con un altro bambino, un adulto a capire che posso simulare anche il
bambino e l’adulto. L’aspetto da sottolineare è l’uso della robotica sociale per l’acquisizione delle
abilità sociali necessarie per inserirsi nei contesti dei pari e per la mediazione sociale, affinché il
bambino con Disturbo dello spettro autistico possa integrarsi e partecipare attivamente ai contesti
di riferimento.
Terza considerazione:
ABILITA’ del ROBOT:
Eye contact;
Joint attention;
Turn-taking;
Emotion recognition;
Self-initiated interactions;
Triadic interaction.
La terza considerazione da fare è quella di tenere in considerazione l’osservazione delle abilità che
possono essere sollecitate attraverso il robot. L’uso dei Social Robot permette di favorire il
potenziamento delle abilità che sono deficitarie nei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico,
come quelle dell’imitazione, del rispetto della turnazione, del riconoscimento delle emozioni e del
potenziamento delle abilità sociali. Tra le abilità che possono essere implementate grazie
all’interazione con i Robot sociali, abbiamo quelle dell’eye contact o eye gaze, cioè tra le abilità
che possono essere considerate in un robot sicuramente l’interazione oculare può essere
implementata, quindi il contatto visivo vero e proprio, lo sguardo. Tra le sperimentazioni che più
sono confacenti all’imitazione oculare, quindi all’interazione oculare vi sono Keepon, NAO, Kaspar
e HOAP-2.
Nello specifico Keepon è emerso come uno dei primi robot fondamentali per questo
contatto visivo. Inizialmente dagli studi si evince proprio come il bambino fosse privo di
contatto oculare e man a mano che faceva amicizia con questo robot, quindi man mano
che l’interazione con il robot si alimentava allora anche lo sguardo riusciva in qualche modo
ad essere riprodotto, arrivando ad instaurare un contatto oculare con il robot.
L’interazione creata tra NAO e i bambini con Disturbo dello spettro autistico è stata favorita
dalla specificità del robot di cambiare colore degli occhi. Tale variazione avviene mentre il
bambino parla o effettua dei movimenti in classe. Questa caratteristica di NAO cattura
molto l’attenzione, quindi il cambio di colore riesce in qualche modo a catturare l’attenzione
del bambino e di conseguenza implementa il contatto visivo e va a ridurre quelli che sono i
tratti, i comportamenti un pochino tipici del disturbo dello spettro autistico.
Dalle sperimentazioni effettuate con il Robot HOAP-2 è risultato come i bambini con
Disturbo dello spettro autistico, dopo aver precedentemente assistito all’interazione con il
Robot, abbiamo favorito il contatto visivo con i compagni del proprio gruppo.
Anche con Kaspar ci sono state delle vere e proprie ricerche che ci mostrano come
addirittura bambini con disturbo dello spettro autistico anche molto profondo, riescono ad
essere interessati dagli occhi di questo Kaspar e quindi anche loro in qualche modo
riescono ad essere catturati da questo Robot.
L’ulteriore abilità che può essere sollecitata grazie all’utilizzo dei Robot sociali è questa Joint
attention, che sarebbe il mantenimento dell’attenzione su un singolo oggetto o su una persona
soffermando lo sguardo. In questo caso il robot guida l’attenzione del bambino verso uno specifico
oggetto, per giunge successivamente al compito di far guidare al bambino il Robot verso l’oggetto
di riferimento, estendendo questo comportamento all’operatore. Quindi dall’oggetto all’operatore.
Sia Keepon che Kaspar riescono con questa modalità, cioè sono in grado di sollecitare al meglio
tale abilità. Abbiamo poi il turn-taking, che sarebbe lo scambio di turno. In questo caso durante la
conversazione risulta molto difficile per il bambino con disturbo dello spettro autistico ascoltare gli
altri e rispettare il proprio turno e sapere quando tocca a lui, infatti concentra maggiormente la
conversazione sulle sue idee ignorando gli altri. Grazie al robot in realtà vengono effettuati dei
giochi propedeutici, finalizzati proprio all’attesa delle risposte dell’interlocutore e che permettono di
far sì che vi sia un’attesa specifica da parte del robot, un’attesa che non può essere superata nella
relazione interpersonale. Dalle sperimentazioni con i Robot Keepon e Labo-1/Mel è emerso che il
comportamento del Robot viene imitato da bambini con Disturbo dello spettro autistico, avviando
negli stessi la ripetizione delle azioni per imitazione. Il Social Robot Kaspar, invece, oltre a
promuovere l’abilità di turn-taiking, tenta una generalizzazione di tale abilità, grazie all’inserimento
dell’interazione con un secondo bambino. Abbiamo poi l’emotion recognition o il riconoscimento
delle emozioni risulta essere un’altra abilità che i dispositivi robotici riescono in qualche modo ad
incrementare, questo perché di solito la persona con disturbo dello spettro autistico ha una
difficoltà legata proprio alla lettura e all’interpretazione dell’espressione facciale e del linguaggio
del corpo. Queste difficoltà possono essere potenziate da Robot che vengono progettati usando un
design molto semplice e soprattutto una limitata espressione facciale riesce a far emergere le
emozioni minimali, le principali, e quindi il bambino non viene in qualche modo in contatto con un
numero molto elevato di sfumature emotive, perciò riesce a capire quali possono essere le singole
emozioni e le singole peculiarità di ogni emozione. Tra i robot più adeguati vi sono Keepon e
FACE: il primo esprime le emozioni fissando anche lo sguardo sul soggetto, quindi questo
restituisce al bambino un’emozione ben chiara, il secondo simula le emozioni stesse. Abbiamo poi
la Self-initiated interactions, che è l’interazione cosciente o l’interazione autonoma che è proprio
finalizzata alla richiesta di oggetti o magari a domande che, spesso nei casi di disturbo dello
spettro autistico suscitano dei comportamenti violenti o capricciosi. Per l’incremento di questa
abilità il Robot viene programmato per sollecitare il bambino a chiedere degli oggetti finalizzati allo
svolgimento di un gioco o un’attività, in alcuni casi con tasti o indicazioni che il bambino deve
premere o eseguire dopo aver svolto una determinata richiesta. Quindi chiedere al robot oggetti
proprio finalizzati allo svolgimento di un’attività o comunque nei casi in cui il robot dà delle
indicazioni precise, il bambino ha meno frustrazione perché non ha l’aspettativa tradita. Keepon e
Labo-1/Mel sono stati testati per sollecitare tale abilità tramite l’osservazione di un’attività di
cooperazione tra bambini, con e senza Disturbo dello spettro autistico. Infine abbiamo la triadic
interaction, ovvero l’interazione proprio tra il bambino, il robot e una terza persona, per poi
giungere all’uscita da parte del robot e l’interazione duale tra le persone. Lo scopo di ogni
interazione Robot-bambino, quindi lo scopo di tutti i robot sociali è proprio quello di giungere alla
generalizzazione dei comportamenti acquisiti, quindi come poter poi generalizzare le competenze
che si hanno. In tale direzione iCub, Robot dalle sembianze umanoidi, progettato dall’IIT Central
Research Lab Genova, è l’esempio concreto di una vera e propria piattaforma robotica, pensata
anche per avvicinare progressivamente il bambino con Disturbo dello Spettro Autistico a un partner
umano. Con il presupposto di contrastare il rischio di un’interazione esclusiva con il robot, iCub è
dotato di un controllo molto sofisticato, ovvero può essere programmato con caratteristiche diverse
da modulare in funzione del comportamento del bambino, al fine di introdurre una complessità
crescente, che avvia, progressivamente all’interazione con un essere umano.
Quali sono le considerazioni pedagogiche che emergono proprio dall’utilizzo di questi social robot
nei casi di disturbo dello spettro autistico, sicuramente come primo presupposto operativo i
professionisti che sono chiamati a lavorare nel campo dell’inclusione attraverso i social robot
possono utilizzare questi dispositivi come degli strumenti funzionali per l’apprendimento di
determinate abilità, quindi come possibilità di avere come mediatore o come attivo interlocutore un
robot che consente di delineare delle strategie per l’attivazione di dinamiche inclusive. Quindi i
professionisti possono mettere in campo una pluralità di traiettorie di lavoro che vedono il robot o
come appunto come un attivo interlocutore, cioè che possa in qualche modo sollecitare attraverso
un canale privilegiato, che potrebbe essere quello della corporeità, alcune specifiche abilità oppure
come mediatore proprio perché riesce in qualche modo a mediare l’individuo con il contesto di
riferimento, con i pari, con l’educatore. Quindi il robot in realtà svolge questo ruolo di mediazione
proprio per canalizzare l’attività che si vuole realizzare, quindi l’esperienza dell’interazione non è
un’esperienza solamente sul piano fisico, quindi sul piano funzionale, ma riesce a raggiungere
anche delle possibilità percettive, emotive soprattutto che possano essere poi realizzate sul piano
della relazione con l’altro. Quindi il professionista durante la progettazione, durante la realizzazione
di percorsi che possono essere presentati a soggetti con disturbo dello spettro autistico possono
avvalersi dei social robot, ovviamente rispettando alcune sfere specifiche per incrementare
determinate abilità o attuare delle dinamiche che possano essere inclusive.
Esercitazione
- Pensare e progettare una attività da proporre ad un bambino di 10 anni con Disturbo dello
Spettro Autistico (ipotizzando il quadro sindromico) in cui venga favorito l’utilizzo di un
robot sociale.
Lezione del 15/11/2021
Passiamo alla presentazione di alcuni percorsi tecnologici che possono essere messi in atto
nell’età adulta. Quelli che abbiamo visto fino ad ora, sia il percorso del Lab Robot sia le modalità
specifiche della robotica sociale sono più affini, più attinenti in bambini o al massimo all’età
adolescenziale. Ora invece ci addentriamo nelle specificità che possono essere concretizzate per
rispondere alle esigenze delle persone con disabilità in età adulta.
La Sfida inclusiva delle tecnologie assistive
L’avanzamento delle nuove tecnologie ha fornito un importante impulso allo sviluppo di soluzioni
tecnologiche sempre più flessibili e personalizzabili alle diverse necessità degli utenti. Questo
sviluppo è stato particolarmente impattante nel progresso delle soluzioni tecnologiche assistive
che mirano al miglioramento del benessere psico-fisico e della Qualità della Vita degli utenti fragili,
ovvero degli utenti con diverse necessità o disabilità. La tecnologia assistiva o tecnologia di ausilio
è una terminologia generale che fa riferimento a più risorse tecnologiche che vengono impiegate a
favore delle persone con disabilità, nel tentativo di aiutarle ad ottenere benefici comportamentali e
sociali e a ridurre l’impatto negativo delle loro condizioni. Con tecnologia assistiva ci si riferisce alla
tecnologia che aiuta un individuo a svolgere una o più attività funzionali della sua vita quotidiana, al
fine di accrescere la sua inclusione all’interno della società.
Terminologia:
Il termine Assistive Technology fa riferimento a:
Dispositivo di tecnologia assistiva;
Servizio di tecnologia assistiva.
Partiamo da dei chiarimenti terminologici; tra tutti il termine assistive technology ovvero la
tecnologia assistiva o assistita, si riferisce proprio ad una tecnologia progettata per essere
utilizzata in un dispositivo di tecnologia assistiva o in un servizio di tecnologia assistiva. Per
tecnologia si intende a livello macro quelle che sono le applicazioni della conoscenza,
specialmente in una particolare area e non una macchina o un dispositivo che possa essere creato
ad hoc o una parte di equipaggiamento creato dalla tecnologia. Quindi il termine tecnologia
assistiva ci rimanda ad un dispositivo tecnologico o ad un servizio tecnologico. Con il termine
dispositivo di tecnologia assistiva o semplicemente dispositivo assistivo si indicano quegli oggetti
che sono parte di un equipaggiamento o di un sistema che può essere utilizzato per aumentare,
mantenere o migliorare quelle che sono le capacità funzionali dell’individuo con disabilità. Con il
termine servizio di tecnologia assisitiva si vanno ad indicare proprio tutti quei servizi che possono
direttamente andare ad assistere un individuo con fragilità, con diverse necessità o con disabilità
nella selezione, acquisizione o utilizzo di qualsiasi dispositivo di tecnologia assistiva (quindi si va a
colmare con l’utilizzo di una serie di dispositivi o magari un solo dispositivo di tecnologia assistiva).
Quindi per dispositivo si intende proprio l’oggetto, il sistema, mentre con il termine servizio si indica
una possibilità che può essere messa a disposizione dell’individuo.
I dispositivi di tecnologia assistiva possono essere distinti in tre categorie:
A bassa tecnologia
A media tecnologia
Ad alta tecnologia
A seconda dell’apporto tecnologico che è necessario per il loro sviluppo, i dispositivi di tecnologia
assistiva possono essere classificati in tre tipologie: i dispositivi assistivi a bassa tecnologia, a
media tecnologia e ad alta tecnologia. I dispositivi assistivi a bassa tecnologia sono quelli che
generalmente non sono elettronici, quindi ad esempio le carte, i cartellini, le fotografie, bastoni ecc.
I dispositivi assistivi a media tecnologia sono invece quelli elettronici ma che non includono
componenti di calcolo, ad esempio il proiettore, il registratore. I dispositivi assistivi ad alta
tecnologia sono quelli che comprendono sia hardware con capacità di calcolo che software, ad
esempio i personal computer, le lavagne interattive multimediali, gli smart devices ecc. I dispositivi
assistivi a bassa e media tecnologia di solito consentono alcuni vantaggi, tra questi sicuramente
possono essere adattati, c’è la possibilità di adattarli alla maggior parte degli individui con fragilità,
sono fruibili da un numero maggiore di persone. Inoltre sono più facilmente reperibili sul mercato,
di solito sono anche a basso costo e proprio per il loro contenuto tecnologico ridotto sono
maggiormente usati, quindi il numero di utenti è sicuramente più basso. I dispositivi ad alta
tecnologia, invece, hanno il vantaggio di essere altamente personalizzabili, quindi per ogni singola
persona possono raggiungere un numero di funzioni maggiore. Inoltre sono flessibili e adattabili
nel tempo. I dispositivi ad alta tecnologia presentano un costo abbastanza elevato. Quindi i
dispostivi a bassa e media tecnologia solitamente sono quelli più utilizzati.
REQUISITI delle TA (tecnologie assistita o assistiva):
1. Rispondenti alle esigenze personali;
2. Parte di un programma di intervento efficace;
3. Funzionali ai contesti di vita.
Requisiti che le tecnologie assistive dovrebbero avere proprio per essere indirizzate e canalizzate
alla persona con disabilità. Il primo requisito è collegato alle esigenze della persona, ovvero la
tecnologia assistiva si deve adattare a quelle che sono le caratteristiche o a quelle che sono le
abilità della persona, unitamente ai loro ambienti di vita. Quindi deve corrispondere alle esigenze
personali, quindi ai bisogni e alle necessità proprie della persona. Un secondo requisito è che la
tecnologia utilizzata deve essere utilizzata come parte di un programma di intervento esplicito, che
significa che deve essere attentamente progettato per garantire che la persona impari ad usarlo
efficacemente, quindi deve essere inserito all’interno di una progettazione specifica. La tecnologia
assistiva, per essere efficace, deve essere sviluppata su misura ed inserita all’interno di un
contesto quotidiano, quindi un ambiente di vita che sia per la persona importante per la sua
quotidianità, proprio per facilitare e per rendere possibile tutte le attività quotidiane. Il terzo
requisito riguarda l’obiettivo generale della tecnologia assistiva che è quello di contribuire a
svolgere una determinata attività in un dato ambiente. Le attività possono essere classificate in
attività della vita quotidiana (vestirsi, curare l’igiene personale, mangiare, comunicare), attività
lavorative e produttive (comprese le attività di gestione domestica, educativa, professionale e di
cura degli altri) le attività ricreative, quindi attività di tutti i giorni (mangiare, vestirsi, giocare). La
selezione di una tecnologia assistiva dipende da una profonda comprensione dell’attività della
persona e del contesto di riferimento della stessa.
Come possiamo classificare le TA? Sicuramente in riferimento all’ambito in cui vengono impiegate
possiamo classificarle in:
- Tecnologie per l’ascolto, tra queste ad esempio a bassa e media tecnologia ci sono gli
auto-parlanti, ad alta tecnologia possono essere i software di riproduzione automatica di suoni.
Quindi tutte quelle tecnologie che sono necessarie proprio per incentivare l’ascolto sonoro;
- Tecnologie per l’apprendimento, tra queste si possono menzionare i correttori ortografici,
quelli a bassa e media tecnologia o le penne per la lettura istantanea che risultano ad essere ad
alta tecnologia. Sono penne per la lettura istantanea, una specie di evidenziatore, che trasformano
tutto ciò che è scritto ed è molto utile e pratica per lo studio, soprattutto per le persone anche non
vedenti, avendo la possibilità di riprodurre in maniera anche fonica quello che è scritto, riesce in
una possibilità di interazione;
- Tecnologie per la comunicazione, possono essere ad alta tecnologia i software per il
riconoscimento vocale, a bassa e media tecnologia, simboli e figure;
- Tecnologie per l’informatica, a bassa e media tecnologia abbiamo ad esempio le tastiere e i
mouse, la roll ball e tra quelle ad alta tecnologia abbiamo software per il riconoscimento ottico dei
caratteri, i software più specifici;
- Tecnologie per la manipolazione, tra quelle a media e bassa tecnologia abbiamo le
impugnature per le matite e tra quelle ad alta tecnologia le mani robotiche;
- Tecnologie per la mobilità e la riabilitazione, tra quelle a media e bassa tecnologia abbiamo
quelle basate sulle garanzie non automatizzate come ad esempio le sedie a rotelle non
motorizzate, ad alta tecnologia ad esempio sedie a rotelle motorizzate, più tecnologiche;
- Tecnologie per il supporto comportamentale e cognitivo, ad esempio le schede fotografiche
che sono a bassa e media tecnologia, ad alta tecnologia gli smart watch che possono contribuire
ad un livello cognitivo più specifico;
- Tecnologie per la visione, lenti di ingrandimento a bassa e media tecnologia, e i software
per la lettura automatica ad alta tecnologia.
Le tecnologie assistive e la Robotica assistiva
Abbiamo ben capito che nell’ambito delle tecnologie assistive, la robotica assistiva riesce a coprire
un ruolo sempre più significativo, questo perché? Sicuramente un robot assistivo è in grado di
rilevare, di elaborare le informazioni sensoriali e di eseguire anche quelle che sono le attività e a
supporto e a vantaggio delle persone fragili e delle persone con disabilità. È un Robot capace di
eseguire compiti rilevando il suo ambiente e/o interagendo con fonti e adattandone il
comportamento. I robot assisitvi costituiscono proprio una nuova categoria di robot, scollegata dal
concetto di robot industriale. I robot assistivi riescono ad interagire direttamente con la persona e
quindi hanno la capacità di attivare una serie di comunicatori che permettono poi di navigare,
prendere decisioni in modo indipendente, comunicare, quindi fanno da simulazione proprio per
giungere poi ad una forma interattiva con i pari o con gli adulti. Quindi è proprio dal robot che si
riesce a innescare la relazione con l’altro.
In base all’area di impiego e di intervento la robotica assisitiva può essere classificata in:
- Robotica di servizio, riesce in un’interazione sia fisica, quindi i robot fisicamente assistivi,
ma anche nell’interazione sociale, i robot socialmente assistivi. Si tratta di una serie di robot che
sono programmati per assistere la persona con fragilità o con disabilità nella sua quotidianità;
- Robotica riabilitativa, fa sì che il robot possa essere utilizzato proprio per fornire dei
benefici, dei miglioramenti funzionali alla persona, quindi arriva a supportarla e ad aiutarla a
riprendersi da gravi traumi fisici;
- Robotica medica, in questo caso i robot medici sono proprio apparecchiature o sistemi
elettromedicali che vengono utilizzati sia per diagnosticare, sia per curare e riabilitare il paziente
dalle proprie condizioni mediche;
- Robotica non medica, i robot non medici sono quella serie di macchine per l’esecuzione di
azioni che contribuiscono direttamente al miglioramento della qualità della vita delle persone, ma
non fanno parte della sfera delle applicazioni mediche. Nell’esempio del video abbiamo visto come
la qualità della vita degli anziani è supportata da uno strumento tecnologico.
Sfide ancora aperte:
- Centrare la necessità degli utenti;
- Semplicità e immediatezza;
- Sostenibili economicamente.
Sicuramente dal concetto di tecnologia assistiva che abbiamo introdotto molto brevemente è
evidente un impulso a raggiungere sempre nuovi livelli, più raffinati, personalizzabili, livelli di
implementazione proprio delle strumentazioni tecnologiche, ma ovviamente sono ancora molte le
sfide che dobbiamo apportare per far sì che proprio coloro che ne hanno bisogno ne possano
beneficiare. Sicuramente tra le sfide più significative vi è appunto questo approccio sempre più
centrato sull’utente, quindi è importante prendere le necessità dell’utente, quindi le percezioni, i
propri bisogni, come punto di partenza nell’erogazione di questi ausili, di questi servizi assistivi e
così facendo la tecnologia proprio per essere centrata sulla necessità degli utenti, la tecnologia
deve essere semplice e immediata, deve essere accessibile al nostro utente e la deve anche
accettare in maniera diretta. Sicuramente poi devono essere sostenibili economicamente, cioè
significa che devono essere accessibili, devono essere a basso costo, altrimenti facciamo fatica ad
inserirli in qualsiasi tipo di progettazione. È necessario anche capire che inserire una tecnologia in
un progetto di vita di una persona con disabilità sicuramente riesce ad avere un impatto positivo
nella persona. Quindi nonostante a volte il costo potrebbe essere abbastanza elevato, inserirlo non
solo permette un’implementazione di alcune competenze, di alcuni fattori funzionali che vengono
mantenuti, ma permette proprio un miglioramento della qualità della vita della persona. Quindi in
alcune volte risulta essere necessario.
Esercitazione (scegliere tra 1 o 2)
1. Se aveste a disposizione una tecnologia assistiva, quali attività proporreste ad adolescenti
con disabilità intellettive? Perché? Specificarne l’utilizzo
2. Quali sono le tecnologie assistive di cui realmente necessitano adolescenti con disabilità
intellettive? Perché?
Quindi nella progettazione di un percorso di vita, veniamo chiamati, in qualità di pedagogisti e
abbiamo la possibilità di inserire delle tecnologie assistive. Soprattutto quali attività potremmo
inserire nel caso in cui ci trovassimo a lavorare con adolescenti con disabilità intellettive e perché.
Possono essere anche a non alto livello tecnologico, possono essere anche a basso o a medio
livello tecnologico. Quindi quali sono le tecnologie assistive da utilizzare nelle attività oppure quali
sono le tecnologie che sono importanti negli adolescenti con disabilità intellettive e le motivazioni.
La prima cosa da fare è porre attenzione al target di riferimento, quindi agli adolescenti con
disabilità intellettive. In qualità di futuri pedagogisti ci troveremo a lavorare con adolescenti con
disabilità intellettive quindi avremo in qualche modo necessità di utilizzare degli strumenti, dei
supporti, delle modalità proprio per far sì che vengano implementate alcune carenze. Di solito negli
adolescenti con disabilità intellettive quali possono essere alcune difficoltà? Quali possono essere
le criticità di un adolescente con disabilità intellettiva? Il piano degli apprendimenti lo facciamo
rientrare nel sistema scolastico, quindi una difficoltà a raggiungere gli obiettivi, gli obiettivi standard
e per questo sarà dedicata alla persona con disabilità intellettiva una programmazione ad hoc, una
programmazione specifica, semplificata in ambito scolastico per ottenere comunque degli
apprendimenti, nel caso in cui la persona abbia una disabilità intellettiva media o comunque grave.
Con gli adolescenti con disabilità intellettive, se sul piano degli apprendimenti possiamo riuscire a
canalizzare ed indirizzare la nostra pratica, sul piano delle relazioni interpersonali ad esempio quali
possono essere le principali criticità che vivono? La relazione con i pari che non sempre è
funzionale. L’autonomia negli spostamenti, nella vita quotidiana, le difficoltà a rintracciare le
informazioni che provengono dai contesti di vita. Quindi tutto quello che riguarda le autonomie,
l’indipendenza vera e propria. L’autodeterminazione, difficoltà a prendere delle scelte, nell’arco
decisionale; quindi i processi decisionali a volte potrebbero essere compromessi. Quindi
l’autodeterminazione deve essere orientata, può essere implementata attraverso dei processi
specifici. L’organizzazione, che potrebbe rientrare sia nell’autonomia che nell’autodeterminazione.
Il benessere emozionale, difficoltà a gestire emozioni, sentimenti; la difficoltà proprio nella gestione
emotiva, nel riconoscimento delle emozioni, quindi nel controllo delle emozioni. Molto spesso gli
adolescenti con disabilità intellettive attuano dei comportamenti o dei meccanismi emotivi che sono
fuori controllo, semplicemente perché non riescono a filtrarli. Quindi abbiamo capito quali possono
essere le criticità vissute dalle persone con disabilità intellettive. Il termine adolescente ci deve in
un certo senso richiamare l’attenzione alla fascia adolescenziale, le persone che abbiano una
disabilità intellettiva sono adolescenti, quindi hanno tutta una serie di criticità legate alla struttura e
alla caratterizzazione identitaria proprio degli adolescenti. Quindi come qualsiasi altro adolescente
avrà delle palpitazioni amorose, come qualsiasi altro adolescente avrà criticità nella gestione delle
relazioni amicali, come qualsiasi altro adolescente avrà un rapporto conflittuale con i propri
genitori, quindi avrà una serie di specificità che caratterizzano quella fascia di età.
Andiamo poi alle tecnologie assistive. Facciamo il processo inverso, siamo partiti dagli
apprendimenti; sul piano degli apprendimenti quali possono essere i dispositivi, gli strumenti
tecnologici che possono supportare la persona con disabilità nell’avvicinarsi a determinati
apprendimenti? Il computer potrebbe essere uno strumento, ad esempio a scuola i tablet che sono
più agevoli, ovviamente la persona con disabilità se lo porta dietro e quindi potrebbe essere un
valido strumento di supporto. Ovviamente all’interno del tablet o del PC dobbiamo inserire una
serie di attrezzi, una serie di specificità che supportano l’apprendimento. Non utilizziamo il tablet
solo per giocare o prendere appunti, utilizziamo il tablet per strutturare delle attività, ci sono proprio
delle app che supportano gli apprendimenti attraverso la visualizzazione specifica dei contenuti
che io posso andare a implementare e su cui posso lavorare. Le relazioni interpersonali: quali
possono essere alcuni dispositivi che posso mettere in atto, che posso utilizzare come mediatori?
Una lavagna interattiva, usata proprio per far interagire il ragazzo con disabilità con tutti i suoi
compagni, facendo delle attività comuni. Quindi attraverso la LIM che ho in classe posso
strutturare un’attività che coinvolga più studenti. Ovviamente se il mio obiettivo è l’interazione
personale nella relazione con l’altro devo trovare un’attività che sia confacente. Come posso
implementare invece l’autonomia attraverso dispositivi tecnologici? Per incrementare l’autonomia
ad esempio nel leggere testi, articoli da soli si può, attraverso queste tecnologie, comprendere
meglio le informazioni, ma anche entrare in contatto con l’altro. Questo oltre che all’autonomia è
sulla consapevolezza delle informazioni. Io riesco a reperire le informazioni e quindi riesco a
rappresentare anche una possibilità di interazione con l’altro. Infine come posso implementare
l’autodeterminazione? È stato anticipato parlando dell’auto-rappresentanza, cioè io riesco a
ricevere delle informazioni, riesco a implementare le mie conoscenze, quindi riesco ad avere una
maggiore consapevolezza anche di ciò che mi circonda, quindi anche questo potrebbe essere un
primo processo di autodeterminazione. Oppure l’autodeterminazione come posso implementarla
attraverso dei dispostivi? Sicuramente il processo di scelta, quindi io posso mettere il mio soggetto
di fronte a più opzioni di scelta, come posso farlo anche mediando con dei dispostivi, lo posso fare
ad esempio con dei dispositivi a bassa tecnologia, ad esempio un cartellone in cui inserisco le mie
opzioni di scelta, un’agenda adesiva, un calendario, i targ, i cartellini. Quindi sono dispositivi
assistivi a bassa tecnologia, che però mi consentono una scelta, una scelta che io la posso
effettuare anche semplicemente dando al mio studente un target con visivamente due opzioni
(esempio: oggi andiamo a fare una passeggiata oppure andiamo a cavallo) e lo studente, ovvero la
persona con disabilità nel suo tempo libero ad esempio sceglie tra le due opzioni. Oppure lo
possiamo mettere davanti ad una risoluzione problematica. Questo è il problema, come lo
risolviamo? Mostrandogli visivamente e concretamente le opzioni, le risoluzioni e lo posso fare
attraverso la scrittura, la programmazione di una serie di immagini, un’applicazione (c’è lui che si
muove per raggiungere un determinato obiettivo facendo un determinato percorso). Quindi anche
in questo caso posso mettere in atto una serie di modalità, dispositivi a bassa, media ed alta
tecnologia per raggiungere una maggiore autodeterminazione. La gestione emotiva, come posso
contribuire alla gestione emotiva del mio ragazzo con disabilità intellettiva? Poniamoci di fronte ad
una situazione concreta: ogni volta che Niccolò deve rispondere ad una regola il suo
comportamento è un comportamento oppositivo e provocatorio. Che cosa facciamo? Quali sono le
strategie che posso mettere in atto? Se Niccolò ha un comportamento oppositivo provocatorio ad
una regola, ad un’imposizione, io come posso agire? Attraverso anche il supporto di dispositivi?
Parto sicuramente dal capire il perché a questa regola Niccolò risponde con questo
comportamento, quindi cerco di capire se anche ad altre regole Niccolò risponde con lo stesso
comportamento. Una volta che ho capito la motivazione vado a scardinare il processo che
determina questa reazione emotiva, quindi che cosa faccio? Faccio soprattutto leva
sull’importanza della regola, faccio interiorizzare a Niccolò la regola, con altre forme, con altre
parole, con altre modalità, in questo caso posso avvalermi di dispositivi a bassa, media e ad alta
tecnologia, vado a sviscerare la regola, vado a capire l’importanza della regola, a capire che se
non rispetta la regola questa sarà una conseguenza. A capire che l’importanza di quella regola non
è solo per me, ma per tutti all’interno di uno specifico contesto. Capire che quella regola ha un suo
valore e deve essere rispettata per un determinato motivo e qui mi avvalgo di supporti visivi, di
supporti strategici a bassa tecnologia, come ad esempio cartelloni, cartellini, oppure li ricostruisco
attraverso dispositivi ad alta tecnologia, ad esempio attraverso il tablet vado a creare delle forme e
dei giochi che in qualche modo vanno a scardinare questa regola. Dopo di che vado a vedere se
Niccolò cambia atteggiamento, ma Niccolò non cambierà atteggiamento solo perché io gli ho
scardinato la regola, quindi in qualche modo ci devo lavorare nel momento in cui l’atteggiamento si
manifesta, quindi nel momento in cui si manifesta allora devo ricordare in quel momento
dell’importanza di quella regola, di fargli vedere la conseguenza concreta, perché una delle criticità
delle persone con disabilità intellettive è proprio la difficoltà dell’astrazione, percepire che la regola
è una regola, la regola deve essere concreta, deve essere tangibile, deve avere un linguaggio
comprensibile, quindi devo in qualche modo cercare di avvicinarmi a quella regola, con tutte le
modalità che siano concrete e accessibili alla persona e nel contesto, perché se io gliela metto
fuori dal contesto ha un valore, invece all’interno del contesto avrà un altro valore. Quindi devo
cercare di effettuare questo lavoro e per farlo posso avvalermi di dispostivi tecnologici a bassa
tecnologia che mi permettono di interagire con Niccolò all’interno del contesto. Altri esempi: i
cartellini. Ad esempio la regola del lavarsi le mani, prima di mangiare devo lavarmi le mani. Niccolò
ha un rifiuto per questa regola, non lo vuole fare e quindi che faccio? Faccio una serie di foto ai
passaggi specifici che mi servono per lavarmi le mani, glielo faccio vedere e questo diventa
prevedibile. Questa strategia ad esempio è stata messa in atto con Niccolò che non voleva lavarsi
le mani prima della merenda e una volta che ha visto tutti i passaggi che dovevano essere
effettuati, ha visto che all’interno di quel contesto tutti gli altri si lavavano le mani, ovviamente gli è
stato mostrato, visivamente. Questa modalità a creato in Niccolò un maggior benessere nel farlo.
La regola è stata messa in una forma concreta e tangibile che ha aiutato Niccolò a farla sua, ad
interiorizzarla.
PARTE II – Disabilità e cicli di vita. Famiglie tra seduttivi immaginari e plausibili realtà
Procediamo con un focus molto diverso rispetto a quello delle tecnologie, che però essendo anche
così attuato nel contesto sia scolastico che nel contesto di vita di tutti i giorni risultava essere
necessario un approfondimento. Ora partiamo invece con un altro focus differente che è quello
sulle famiglie. Il testo Disabilità e cicli di vita è un’opera collettanea, il frutto di diversi autori, quindi
all’interno del testo ci saranno dei topic inerenti la famiglia, ma comunque di differenti autori perciò
riportano plurali punti di vista e pongono un po’ in relazione quelle che sono le attualità e le
temporalità proprio del ciclo di vita soprattutto dei professionisti, quindi si vedrà come il
professionista può interagire con la famiglia e si troveranno all’interno del testo proprio delle
strategie, delle scelte pedagogiche che possono essere attuate per la presa in carico di famiglie
con bambini che hanno disabilità.
Partiamo con la percezione che ha la famiglia nell’infanzia; vedremo la famiglia nell’infanzia e la
famiglia in età adulta, ma noi partiamo dalla percezione che ha la famiglia quando il bambino
nasce. Sicuramente una prospettiva di reciprocità, di co-evoluzione del nostro essere professionisti
in relazione con la famiglia siamo sempre ad imparare, ad apprendere qualcosa proprio dalla
famiglia, che solo la famiglia stessa ci restituisce in riferimento a figlio con disabilità. Quindi ad
esempio come loro fronteggiano quelle che sono le situazioni più complesse, oppure come
affrontano dimensioni di sofferenza o dimensioni di lacerazione, cioè tutte quelle sfumature, quelle
sfaccettature che solo dopo aver ascoltato la famiglia e quindi aver percepito la voce dei genitori e
dei familiari possiamo riuscire a capire. Quindi è proprio grazie al lavoro con la famiglia che il
professionista e il pedagogista potrà riuscire in qualche modo ad impostare una forma di
cambiamento della famiglia stessa. Se la famiglia si rivolge al professionista/pedagogista è perché
ha delle criticità, ha delle fragilità, ha una progettualità da dover portare avanti.
Famiglie con figli con disabilità: il contributo della pedagogia speciale per la promozione di percorsi
inclusivi
L’incontro con la disabilità del figlio
Quindi in quest’ottica una delle scelte attuative che riguardano l’offerta di aiuto, quindi la possibilità
di concretizzare un supporto per le famiglie con disabilità, può avvenire attraverso l’incontro e
attraverso la solidarietà di altre famiglie. Quindi questo permette di ricostruire delle reti amicali e di
vicinato che in qualche modo sostengono la famiglia nella sua interezza. Altre risorse per
sostenere la famiglia proprio nella crescita del figlio con disabilità, sempre nella prospettiva di una
realizzazione progettuale è proprio la partecipazione a gruppi di auto-mutuo aiuto. Dettori ci dice
che ha un ruolo e funzione dell’Helper, cioè significa che facilitano la funzione di sostegno e la
possibilità di un supporto reciproco e quindi una condivisione degli stessi vissuti che di solito sono
simili. Quindi Pieretti la chiama proprio una rete di contenimento perché consentono di porre dei
confini anche alla propria esperienza, rielaborarla e giungere, in seguito, ad una riprogettazione del
proprio assetto familiare. Quindi i servizi educativi, insieme alle risorse del territorio, coinvolgendo
in primis la famiglia, possono in realtà costruire questi percorsi di parent training che consentano
questa condivisione di esperienze di persone che vivono lo stesso problema o comunque la stessa
situazione. Quindi di base vi è l’idea di una polarità dialogica che si fonda proprio sull’immagine
collettiva e di gruppo che favorisce aiuto reciproco tra i propri membri. Quindi questa affinità
dovrebbe ridurre, in un certo senso, il più possibile la sensazione di isolamento, quella sensazione
di solitudine che in alcune fasi di vita le persone con figli con disabilità si trovano a vivere. Quindi
questi sarebbero degli strumenti di occasione, di conforto, di condivisione proprio per apportare un
miglioramento alle condizioni di vita personali, permettendo quindi di condividere gli obiettivi e una
progettualità familiare, in virtù del costrutto della qualità della vita. Quindi una prospettiva che
possa essere qualitativa anche per i membri di persone con disabilità.
NARRAZIONE
Nessuno può fare a meno di raccontarsi e cogliere le narrazioni che provengono dall’esterno
Consente di:
- Riferirsi a stati intenzionali;
- Porre significati contestuali alla trama, alle vicende e;
- Cura dei dettagli e della concretezza;
PAROLA VEICOLO DI AIUTO RECIPROCO
Tra le modalità e le strategie che la famiglia può mettere in atto vi è il processo pedagogico della
narrazione, che diviene proprio uno strumento, un sostegno per le famiglie che hanno figli con
disabilità. Quindi proprio perché la quotidianità dei genitori è caratterizzata da un impegno
costante, da una continua attenzione verso il figlio con disabilità, i genitori necessitano di un luogo,
di uno spazio dove poter condivide il proprio dolore, quindi far emergere quelle che sono le loro
fatiche. Per questo tra le varie tipologie/strategie di aiuto per attuare una vera e propria
integrazione tra il passato che si è vissuto e il futuro che attende la nuova genitorialità, troviamo
proprio la narrazione. Quindi nella linearità del racconto che effettua la famiglia, vengono inseriti
degli stati intenzionali, quindi i soggetti in realtà agiscono per nome e per conto di alcuni principi,
ma soprattutto pongono dei significati contestuali a quello che si sta dicendo e quindi la famiglia in
qualche modo cerca di far emergere proprio il vissuto che si sta attuando nel momento in cui
dialoga. Quindi la narrazione in realtà rappresenta una modalità per osservarsi, per valutarsi, per
riflettere su se stessi e quindi riorientarsi e riprogettarsi. Quindi in qualche modo lo strumento
proprio della narrazione sul piano educativo consente sia di conoscere noi stessi, quindi di attuare
una sorta di riflessione su di noi proprio perché ci riveliamo agli altri attraverso le storie che
raccontiamo, ma anche di esplorare le esperienze, le criticità che l’altro vive quindi riorientarle in
ottica pedagogia ed educativa. Quindi la narrazione consente in qualche modo di organizzare
quelli che sono i vissuti e quindi di fornire una struttura all’esperienza che abbiamo vissuto e quindi
rappresenta il dispositivo pedagogico in cui la parola diviene il veicolo dell’aiuto reciproco, cioè
grazie a ciò che l’altro ci dice che noi in qualche modo possiamo intervenire.
Bruner divide il pensiero in:
1. Paradigmatico/logico-scientifico;
2. Narrativo: aiuta a situare l’esperienza in un tempo e in uno spazio = Narrazione
autobiografica.
Nel dettaglio Bruner divide il pensiero in due grandi macro aree. Quindi secondo Bruner
innanzitutto la narrazione è proprio un dispositivo interpretativo, un dispositivo conoscitivo
dell’uomo che riesce in qualche modo ad innescare dei processi di comprensione, ma anche e
soprattutto di interpretazione quindi riesce a rievocare le esperienze. Quindi il pensiero viene diviso
in un pensiero paradigmatico, quindi logico –scientifico o un pensiero narrativo. Quindi il racconto
in qualche modo di se stessi aiuta proprio a situare l’esperienza in un tempo e in uno spazio,
quindi riesce a tracciare la nostra comprensione di cosa stiamo vivendo e di come lo stiamo
vivendo. Quindi diviene un po’ il mezzo proprio per esteriorizzare, ma soprattutto per far sì che il
professionista delle pratiche educative possa in qualche modo rilanciare e attuare delle
connotazioni che possano donare all’altro poi dei significati. E Bruner ci dice proprio che la
narrazione autobiografica in qualche modo ci aiuta in questo processo di cambiamento, quindi è
una fonte di sostegno, una possibilità di comprensione effettiva di noi stessi e quindi sicuramente
l’altro riesce in una conoscenza più approfondita. Per pensiero paradigmatico/logico – scientifico si
intende tutto ciò che non riguarda la nostra narrazione. Quindi quando noi siamo all’interno di un
contesto, Bruner ci dice che ragioniamo per storie e quindi ragioniamo attraverso un pensiero
narrativo. Nel momento in cui invece ci distacchiamo da questa narrazione entriamo all’interno di
una semantica più specifica, quindi la risoluzione di un problema, il raggiungimento di un obiettivo.
Mentre la parte più narrativa riesce a proiettare nella nostra mente chi noi siamo e cosa noi stiamo
vivendo.
Quindi la narrazione autobiografica diviene proprio uno strumento per far emergere in qualche
modo il processo di costruzione identitaria. Questo perché scrivere su se stessi, soprattutto a se
stessi n qualche modo è una modalità funzionale per conoscere il proprio mondo interiore, quindi è
una condizione proprio esistenziale che ci permette di introiettare, di capire la parte più nascosta di
noi. Quindi il poter riflettere e meditare, successivamente, su questa organizzazione che stiamo
facendo attraverso l’atto della narrazione autobiografica. Quindi ha un forte carattere riflessivo e ha
una connotazione specifica proprio nella mediazione tra noi stessi e il mondo esterno. Nella
prospettiva pedagogica, a sostegno delle famiglie che hanno figli con disabilità, questa potenzialità
nella narrazione autobiografica si sprigiona proprio perché permette in qualche modo al genitore
che ha un figlio con disabilità di riuscire a dare forma a ciò che sta vivendo e quindi questa forma
viene poi proiettata all’esterno, dove ci sono altri genitori che stanno vivendo la stessa situazione e
quindi in qualche modo rimandano delle risposte emotive, dei feedback che aiutano la stessa
famiglia a ripensarsi e a ricalibrarsi. Non che l’altro dia una risposta in riferimento alla
problematica, ma l’altro semplicemente avendo vissuto la stessa esperienza riesce in qualche
modo a restituire qualcosa al genitore con un figlio con disabilità. Quindi il racconto possiamo dire
che genera proprio un cambiamento proprio perché porta alla luce delle parti più nascoste e quindi
ha una possibilità trasformativa proprio per una riflessione interiore. Quindi la necessità in qualche
modo di mettere in comune, di uscire dall’isolamento quindi di dare un senso comunitario e
allargato a questa quotidianità spesso soffocante per la famiglia con un figlio con disabilità,
sicuramente si determina nell’aggregazione di un’associazione. Quindi la mission delle
associazioni solitamente è creare auto e mutuo aiuto per famiglie che hanno le stesse necessità,
quindi far sì che vi possano essere dei professionisti che in qualche modo sostengano e
supportino la famiglia in questa possibilità trasformativa. (Noi potremmo essere questi futuri
professionisti e saremmo chiamati in un gruppo di auto e muto aiuto a gestire le dinamiche
relazionali con famiglie che hanno figli con disabilità). Quindi conoscere la valenza pedagogica ed
educativa che racchiude la narrazione autobiografica, ma la narrazione di sé in genere
sicuramente potrebbe aiutarci nella pratica attuativa.
Sintesi
È necessario riorientare il proprio sistema valoriale e cognitivo, quindi andare al di là della disabilità
del figlio, quindi trovare una modalità di interazione con il figlio che vada oltre la disabilità e in
qualche modo le risorse per una nuova progettualità familiare possono essere dettate da una rete,
cioè da un numero consistente di figure che gravitano intorno alla famiglia e quindi una vera e
propria rete che potrebbe essere amicale, che potrebbe essere associativa, che potrebbe essere
sociale, in cui la famiglia in qualche modo trova delle nuove risorse per affrontare le sue criticità. In
riferimento a quest’ultimo aspetto abbiamo visto che la famiglia richiede, ha bisogno, necessita in
alcuni momenti di forme di aggregazione o comunque di una rete di sostegno esterna alla famiglia
stessa e questa potrebbe essere, questa rete, dettata da una pluralità di servizi che il territorio
mette a disposizione per supportare proprio le famiglie con persone con disabilità. Quindi una
possibilità di un sistema formativo integrato, questo è proprio il termine tecnico, che dovrebbe
essere auspicabile in qualsiasi realtà territoriale, per prendersi cura della famiglia con disabilità,
rispondendo però in modo professionale, in modo progettuale, in modo attivo a quelle che sono le
esigenze della famiglia proprio per far sì che possa raggiungere una condizione di vita migliore.
Quindi ci deve essere una stretta alleanza famiglia e servizi per far sì che vi sia una sorta di
accordo, cioè per far sì che vi sia una connessione stretta tra la famiglia e la realtà in cui la famiglia
è inserita, attraverso quindi un impegno reciproco, collaborazione, soprattutto il raggiungimento di
un obbiettivo comune. Questa alleanza tra più soggetti individuali o collettivi, nel senso che
potrebbe essere un’altra famiglia, ma potrebbe anche essere una rete effettiva di associazioni, di
servizi alla persona, di situazioni che in qualche modo collaborano servizi sociali, psicologo,
pedagogisti, educatori ecc., verso l’obiettivo comune che è la crescita del figlio, quindi far sì che
attraverso questa crescita, il raggiungimento di un’adultità possibile il figlio raggiunga una buona
qualità della vita, perché se il figlio raggiunge una buona qualità di vita di riflesso i caregivers
avranno una buona qualità della vita. Questo processo di raggiungimento di un obiettivo comune
può essere supportato, quindi quella rete di servizi potrebbe essere caratterizzata dalle realtà
associative, quindi viene menzionato un anello della rete, potrebbe essere anche una realtà di
servizi alla persona che non sono realtà associative, potrebbero essere anche realtà sociali.
Vengono menzionate le realtà associative perché di solito sono necessarie come modello di
resilienza, infatti molte persone con figli con disabilità si affidano alle realtà associative come rete
di contenimento. In realtà sono delle possibilità di offerte di aiuto proprio per ovviare quel senso di
inadeguatezza, solitudine, criticità che la famiglia con un figlio con disabilità si potrebbe trovare a
vivere. Tra le risorse di queste realtà associative abbiamo un forte carattere di auto-mutuo aiuto,
quindi sono dei gruppi di famiglie che condividono lo stesso vissuto, quindi condividono le
medesime difficoltà e trovano nell’attivazione dell’helper (ruolo e funzione dell’helper), cioè ci sono
delle altre famiglie che hanno questa funzione di sostegno e di supporto proprio nel momento in
cui condividono gli stessi vissuti o comunque dei vissuti simili in cui la famiglia si rispecchia e
questa famiglia con delle perplessità in qualche modo rivede nell’altro se stessa e attua altri
meccanismi, magari una riprogettazione del proprio assetto familiare. Il gruppo di auto – mutuo
aiuto permette in realtà di tirare fuori, di far emergere, di poter esprimere, di dar voce a quelle che
sono le criticità che la famiglia vive e già esponendole, cioè già dando forma verbale a queste
criticità, quindi solamente dando voce al problema, farlo uscire, verbalizzare il problema già è un
primo processo di consapevolezza del problema. Una volta che abbiamo raggiunto questa
consapevolezza del problema se l’altro mi rimanda un feedback, magari educativo e di taglio
pedagogico, sicuramente riesco a capire meglio il mio problema. Attraverso percorsi di auto-mutuo
aiuto o di parent training le famiglie riescono a rielaborare le proprie criticità, quindi a condividere
con l’altro e quindi ad avere un quadro sicuramente più consapevole delle proprie criticità. Di
conseguenza chi ha il medesimo vissuto rimanda alla persona che ha un figlio con disabilità una
storia, un’immagine che l’altro fa sua e quindi in qualche modo riesce a rielaborare quello che
l’altro dice. Quindi attraverso questa rielaborazione potrebbe scatenarsi la riprogettazione del
proprio assetto famigliare. Ovviamente questo è l’ultimo gradino perché le realtà associative hanno
un po’ lo scopo di ridurre quella sensazione di isolamento, di solitudine che alcune famiglie
possono vivere nel caso in cui abbiamo figlio con disabilità. Come fanno queste associazioni a
mettere in atto questo processo pedagogico, lo fanno attivando la modalità, la strategia della
narrazione. La narrazione diviene uno spazio generativo, trasformativo in cui la famiglia, attraverso
la parola come veicolo di aiuto reciproco, riesce a riflettere su di sé, quindi riesce ad osservarsi, a
valutarsi, a orientarsi e quindi di conseguenza riesce a riprogettarsi. Questo avviene perché la
narrazione consente di riferirsi a degli stati intenzionali, ciò significa che i soggetti rielaborano i loro
vissuti interiori, riescono a produrre un significato che possa essere delineato e quindi attraverso
una cura dei dettagli e soprattutto alla concretezza riesce in qualche modo a fornire una struttura
dei propri significati dell’esperienza. L’atto narrativo è un dispositivo privilegiato per far sì che
questi stati intenzionali emergano, abbiamo un significato e quindi giungano ad una rielaborazione.
Poi abbiamo visto nel dettaglio come vi sia una narrazione autobiografica. Bruner ci dice che la
narrazione diviene un dispositivo interpretativo, cioè ci dice che la capacità di innescare un
processo di comprensione di se stessi, di interpretazione delle proprie azioni, contribuisce situare
al nostra esperienza in un tempo e in uno spazio, cioè attraverso la narrazione riusciamo a
riconoscere quelle che sono le nostre difficoltà, riusciamo ad esteriorizzarle e quindi in qualche
modo riusciamo a prenderci cura della nostra situazione. Come l’altra famiglia riesce in qualche
modo a restituirmi l’immagine che io ho di me? Appunto attraverso questa condivisione, le famiglie
con figli con disabilità sono in qualche modo alleggerite dalla loro solitudine, da questo senso di
abbandono e hanno anche delle spinte emotive all’altro per poter far sì che in questo rapporto
l’altra famiglia che ha un figlio con disabilità che in qualche modo condivide le medesime criticità
entri in risonanza con l’esperienza di chi ha ascoltato, quindi uscirà la sensazione che l’altro stia
parlando anche di sé. Questo elemento di diviene fondamentale nei gruppo di sostegno alle
famiglie, nei gruppi di auto-mutuo aiuto in cui vi sono dei mediatori che facilitano questo processo.
La narrazione autobiografica è una tecnica pedagogica sui generis perché fa emergere proprio
questa dinamica di un processo costruttivo e ricostruttivo di sé, quindi in qualche modo ci permette
di conoscere quello che è il nostro mondo interiore e genera un successivo cambiamento, perché
ha un carattere riflessivo, un carattere meditativo e permette un’organizzazione, una strutturazione
del pensiero che quindi possa giungere alla possibilità di un cambiamento. Quindi giungiamo alla
necessità da parte della famiglia con un figlio con disabilità di un bisogno profondo di essere
ascoltata e per questi motivi la narrazione autobiografica ha un forte potere, riesce cioè in qualche
modo ad aggregare, ad unire queste famiglie che condividono la stessa fragilità. Quindi la
narrazione rappresenta un po’ il collante di queste realtà, quindi molto spesso le associazioni
nascono con l’obiettivo di istaurare delle relazioni di mutuo – aiuto, di sostegno reciproco tra coloro
che condividono le stesse difficoltà o comunque sia gli stessi vissuti.
ALLEAZNA FAMIGLIA – SCUOLA
Dialogo educativo
Azioni dirette alla collaborazione e all’accompagnamento
Un ulteriore grande servizio a cui la famiglia con figli con disabilità fa riferimento e con cui entra in
contatto, successivamente a quello sanitario è quello scolastico. Quindi il contesto scolastico non
può essere scollato dal contesto familiare, anzi questi due contesti, queste due macro categorie
devono essere in qualche modo chiamate a dialogare costantemente proprio per procedere nella
stessa direzione. Quindi non inviare alla persona dei messaggi contraddittori o che possono
essere in qualche modo forvianti. Quindi questo rapporto di alleanza che la scuola dovrebbe
implementare con la famiglia non può essere rivolto alle singole azioni della scuola, ma dovrebbe
essere un’alleanza che abbia come fine proprio quello di guardare ad orizzonti progettuali a lungo
termine, quindi orizzonti progettuali collegati al futuro della persona. Perché spesso quello che si fa
è una realizzazione contingentata al momento presente; ovviamente tutto questo richiede alla
scuola un’attivazione consapevole anche di azioni dirette alla collaborazione, quindi azioni dirette
all’accompagnamento. Questo significa che genitori e scuola debbono essere insieme proiettati
verso un progetto di vita. Quindi quando i genitori comprendono come l’esperienza scolastica
possa essere un’opportunità, allora riescono a superare quelle che sono le rigidità legate alla
disabilità, quindi riescono in qualche modo a proiettare, ad ipotizzare delle future occasioni proprio
di adultità. Quindi lo sviluppare un rapporto positivo tra la scuola e la famiglia, significa agire
coerentemente ognuno nel proprio ambito. Quindi questo significa che la scuola deve rafforzare
ciò che a casa si propone e la casa deve in qualche modo rispettare e valorizzare le competenze
della scuola. Quindi il dialogo che deve essere, appunto educativo, deve essere necessariamente
fondato su una base di fiducia reciproca. Ovviamente questo dialogo non è sempre così facile,
anzi spesso troviamo delle forti rigidità, ma proprio nel momento in cui la famiglia riesce a
percepire che la scuola è un contenuto aggiuntivo, cioè che la scuola riesce in qualche modo a far
superare le criticità che il figlio vive, allora anche la famiglia in qualche modo ha la consapevolezza
che queste rigidità legate alla disabilità del figlio possano essere mosse.
Figure educative che abitano la scuola
Ovviamente questo richiede anche un forte lavoro di équipe, un lavoro di rete che si fonda proprio
su un complesso e delicato lavoro realizzato da un numero molto consistente di professionalità;
possono essere insegnati curriculari, insegnanti di sostegno, educatori, personale ATA, ma anche
specialisti della sanità, ad esempio il neuropsichiatra infantile, i servizi sociali se sono coinvolti ecc.
A ciascun professionista è chiesto proprio di integrare, di armonizzare la propria attività, con quella
delle altre figure, quindi questo significa che non vi possono essere sovrapposizioni o una
confusione tra i compiti e tra le funzioni, ma piuttosto una valorizzazione delle diversità e quindi
delle competenze e dei territori vicino al comune. Ad esempio la letteratura è molto vasta
soprattutto sul ruolo del docente di sostegno, ma spesso viene trascurata la figura dell’educatore
che è una figura in realtà indispensabile proprio per la realizzazione del dialogo che si istaura tra la
scuola e la famiglia ad esempio. Spesso gli educatori definiscono il loro lavoro utilizzando la
metafora del bricolage, quindi ci dicono che hanno una professionalità quasi ineffabile, quasi
eterogenea e questo perché questa figura ha dei confini incerti e non sempre definiti. Ma è proprio
attraverso queste figure, queste professionalità in realtà che possiamo creare un effettivo collante,
un dialogo proprio tra scola, famiglia e territorio che possa essere proficuo e quindi raggiungere alti
livelli anche di progettazione.
Scuola inclusiva
Progettazione educativa dentro e fuori la scuola → Contaminazione per visione dinamica
Ovviamente dobbiamo sempre ricordare che il successo formativo e il successo educativo degli
alunni con disabilità non dipende solo da quanto accade all’interno dell’aula, ma soprattutto da
quanto accade fuori dalla scuola e quindi dalla qualità anche delle relazioni familiari, delle relazioni
che vengono ad instaurarsi nella quotidianità della persona con disabilità hanno giocato un ruolo
fondamentale. Quindi la progettazione educativa in realtà dovrebbe passare da dentro a fuori la
scuola, quindi da fuori a dentro la scuola e questo significa sicuramente realizzare delle
progettazioni, quindi dei percorsi che si sviluppano oltre il contesto scolastico, quindi una scuola
che sappia essere inclusiva in realtà è una scuola che dialoga con i contesti in cui la persona è
inserita, quindi ha una visione ampia, una visione globale, una visione sistemica della persona con
disabilità e quindi della gamma di risorse che possono essere attivate all’interno della prospettiva
in cui il soggetto è inserito. Quindi la contaminazione per una visione dinamica significa proprio che
una realtà che possa essere realmente inclusiva necessita di tener presente di una molteplicità di
contesti in cui la persona con disabilità, con cui la persona con disabilità e la famiglia possano in
qualche modo dialogare e quindi raggiunga una prospettiva di dilatazione dei confini, quindi una
contaminazione appunto, una realtà in cui i saperi si possano incontrare, le competenze tra i
contesti possano in qualche modo fondersi. Questo che significa concretamente? Ad esempio
quando realizziamo il PEI a scuola possiamo inserire il contatto con la realtà esterna, con le risorse
territoriali, possiamo dialogare con i servizi noi in quanto scuola e in quanto relazione con la
famiglia possiamo dialogare con la famiglia, possiamo contaminarci. Ovviamente attraverso una
prospettiva Bio -Psico –Sociale, quindi una forte interazione tra le dinamiche contestuali e quelle
specifiche della persona possono far sì che la progettazione educativa sia delineata dentro e fuori
la scuola, quindi che vi sia una contaminazione, una visione dinamica e sistemica della procedura
educativa.
Sintesi:
Abbiamo visto che la famiglia di persone con disabilità sicuramente deve essere sorretta, deve
creare una stretta alleanza con i servizi e tra questi servizi, tra le agenzie educative e formative per
eccellenza c’è la scuola. La famiglia quindi dovrebbe, entrando in contatto con la scuola, istaurare
un dialogo che posa essere un dialogo il più possibile fruttuoso e quindi determinare azioni dirette
alla collaborazione a all’accompagnamento. I genitori e la coloro che abitano la scuola, quindi non
soltanto docenti o educatori, ma tutto il corpo docente, tutto il personale scolastico ed educativo in
qualche modo dovrebbe raggiungere gli stessi obiettivi, quindi lavorare verso una traiettoria che
possa essere condivisa e soprattutto che possa essere percorribile da tutti gli attori coinvolti. Agire
coerentemente ognuno nel proprio ambito sicuramente va a rinforzare, a dare forza a quelle che
sono le azioni educative. Abbiamo visto poi per questi motivi l’importanza del lavoro di rete, di un
lavoro che possa essere il più possibile condiviso e sperimentato da i diversi professionisti per
poter giungere ad una progettazione educativa che sia determinata sia dal dentro che dal fuori
della scuola. Questo significa che in qualche modo dobbiamo far sì che le relazioni educative
familiari e quella che è la vita ordinaria entri in contatto, si contamini con ciò che accade nell’extra
scuola, al di fuori della scuola proprio per avere una visione globale, sistemica ecologica del
progetto che stiamo perseguendo.
Famiglia e adolescenza
Passiamo ora alla famiglia e all’adolescenza. Non era stato inserito il bollino dell’adolescenza,
quindi abbiamo visto famiglia e infanzia e vedremo famiglia in età adulta. Perché il riquadro della
famiglia e dell’adolescenza viene a mancare? Perché molto spesso il momento dell’adolescenza
viene saltato, quindi la persona passa direttamente da uno stato infantile ad uno stato di adulto e
questo ovviamente porta con sé una serie di criticità, di difficoltà legate proprio alla condizione
identitaria della persona con disabilità. Ovviamente il periodo è un periodo difficile, sicuramente,
connotato da una serie di criticità anche sul piano identitario della persona. Ad esempio si parla di
sindrome dell’aragosta, il periodo adolescenziale, è come se l’aragosta avesse perso il guscio
infantile e ne stia cercando uno più grande che però non trova e quindi in quel momento di
transizione non si sente in qualche modo protetto, quindi non ha un proprio ruolo, non ha un guscio
né da bambino e né da adulto e quindi ha sempre anche il timore, il pericolo di un ipotetico
concorrente per la ricerca di questo guscio. Quindi questo guscio protettivo per proiettarsi verso
uno nuovo sicuramente richiama un po’ la fase adolescenziale che anche le persone con disabilità
vivono. Quindi proprio perché avvenga uno sviluppo e una maturazione nel periodo
dell’adolescenza sicuramente ci deve essere una presa in carico relativa al periodo
adolescenziale. Quindi non si può pensare che il bambino resti un bambino e non si può pensare
che l’adulto sia diventato adulto senza una preparazione adeguata. Quindi in qualche modo
necessaria in questa fase è proprio l’elaborazione di una progettualità, di un progetto di vita
personalizzato che poi si espanderà nell’età adulta, ma che comunque inizia nell’adolescenza.
Quindi riconoscendo che nel processo di sviluppo identitario, l’autonomia, l’indipendenza che
l’adolescente vive, sicuramente il ruolo dei genitori è un ruolo cruciale proprio perché il modo di
agire, il modo di comunicare il rimando, anche l’immagine che i genitori restituisco all’adolescente,
sarà poi determinate per infondere nel figlio fiducia e successivamente farlo sentire adulto. Quindi
è proprio attraverso la progettualità di questa fase di vita che sicuramente richiama proprio al
paradigma della complessità, che però la persona può in modo sicuramente standardizzato e non
categorizzante, ma può raggiungere una progettualità più ampia. I familiari possono in qualche
modo supportare la persona verso la direzione da intraprendere. La buona uscita del progetto di
vita della persona con disabilità nasce, cresce e si nutre nell’adolescenza, per poi proiettarsi
nell’età adulta. Questo è il frutto di un processo che può essere attuato attraverso una condivisione
tra più servizi, tra contesti, tra più elementi.
Adolescenti con disabilità
Adeguare l’intervento educativo in relazione alla specifica età del ragazzo;
Promuovere azioni in grado di superare l’immagine di fruitore passivo di cure ed
assistenza;
Proseguire lungo il cammino di costruzione dell’identità adulta;
In ambito scolastico, favorire modelli e approcci didattici che sappiano avvalersi di strategie
formative attive e valorizzare la risorsa rappresentata dai compagni di classe;
Sfruttare le opportunità offerte dall’extra scuola;
Conservare un rapporto privilegiato di ascolto con il ragazzo con disabilità;
Potenziare la collaborazione con professionisti e servizi.
Se anche il ragazzo con disabilità attraversa, come tutti i suoi compagni, quelle che sono le
contraddizioni proprie dell’adolescenza, quindi anche quelle che sono le criticità legate all’identità,
sicuramente dobbiamo essere maggiormente attenti ad effettuare un bilancio proprio tra i bisogni e
quelli che sono gli slanci tipici di questo processo di ricerca identitario. Quindi diviene importante,
soprattutto in questi anni, impostare degli interventi educativi e favorire anche quelle relazioni
interpersonali che vanno a scardinare un po’ quella che è l’immagine infantilizzante della persona
con disabilità, quindi cercare di superare il ruolo dell’eterno bambino che la persona con disabilità
vive. Quindi anche in ambito scolastico tutto ciò si traduce nella necessità proprio di guardare
l’alunno, il ragazzo con cui ci si relaziona, cercando di riconoscerne, cercando di rispettare quelli
che sono i bisogni, quelli che sono i desideri propri di questa età. Quindi si pensi ad esempio alla
realizzazione di una didattica attiva, di una varietà anche di occasioni formative, proposte
laboratoriali o collaborazioni con il territorio che possono essere concretizzate proprio per far sì
che la persona con disabilità, in questa fase di vita, sia messa nella condizione di usufruire di un
ventaglio sempre più ampio di possibilità proprio in termini di proposte, in termini di strumenti, di
modalità e di tempi. Sicuramente la famiglia deve necessariamente dialogare con tutti quelli che
sono i servizi, non solo educativi, ma anche magari del tempo libero, dello sport, proprio dove al
centro viene posta la crescita, quindi la dimensione della condivisione del benessere del figlio.
Quindi diviene anche una forte espressione della personalità del figlio. Quindi sfruttare tutte quelle
che sono le opportunità offerte dall’extra scuola è sicuramente fondamentale per far sì che la
famiglia dialoghi con questa pluralità di spazi e di servizi, quindi si interfacci il più possibile con
mondi che possono supportare l’adolescenza del figlio. Ovviamente è necessario conservare un
rapporto privilegiato e di ascolto con il ragazzo con disabilità, proprio perché è attraverso questa
condivisione che riusciamo a capire quale cammino intraprendere e quindi il potenziamento di una
collaborazione con i professionisti e con i servizi in realtà ci permette di avere un quadro completo
di quelle che sono le dinamiche che sta vivendo la persona con disabilità.
Il passaggio dei 18 anni
Quindi la fase di transizione alla maggiore età che coincide un po’ con la fine, il termine della
scuola secondaria di secondo grado rappresenta un po’ un momento critico, un momento
particolare proprio per le sfide che si iniziano a concretizzare, quindi vengono a delinearsi nel
percorso educativo, nello scenario educativo della persona con disabilità. Sicuramente l’efficacia
del percorso educativo e di maturazione verso le autonomie, impostato già nella fase di vita
precedente, quindi già nella pre- adolescenza e nell’adolescenza in questo momento viene proprio
a manifestarsi, questo perché il compimento del diciottesimo anno di età in realtà è il passaggio
(possiamo così immaginarlo) dall’adolescenza all’adultità, porta con sé una serie di dinamiche
legate all’adultità, come l’inserimento nel mondo del lavoro oppure il distacco dalla famiglia, quindi
una serie di plurali percorsi che possono essere realizzati solo se alla base abbiamo una
strutturazione, una progettazione, un progetto di vita che possa essere ritenuto tale. Quindi che
cosa possiamo fare? Sicuramente possiamo favorire la progettazione di percorsi finalizzati al
conseguimento di dimensioni inerenti la vita adulta (quindi competenze sociali, lavorative, emotive-
relazionali che possiamo) supportare già nella fase dell’adolescenza e quindi consentono di
riuscire a lavorare preventivamente su ciò che verrà realizzato successivamente. Quindi possiamo
perseguire gli obiettivi legati al conseguimento di livelli di autonomia necessari all’inserimento nel
tessuto sociale (proprio per diventare cittadino) e ad una possibile indipendenza economica
(ovvero il diventare un lavoratore). Questo necessita di un lavoro preventivo molto ampio, quindi
ovviamente la meta è ambiziosa e la posta i gioco è elevata, ma il raggiungimento di fasi di
autonomia possibili sicuramente si evince anche da una progettazione che in qualche modo
contribuisca a incentivare la persona, a far emergere quelle che sono le sue abilità, le sue
capacità, le sue risorse. Quindi ad esempio, autonomia non significa fare qualcosa totalmente da
soli, quindi non significa nemmeno fare cose impossibili, ma essere posti nella condizione di
riuscire a comprendere dove si può arrivare e servirsi anche di mediatori, quindi di persone che in
qualche modo mi supportano e soprattutto è la necessità di chiede una collaborazione. Quindi nel
momento in cui non arrivo da me chiedo se vi è la possibilità di un supporto e questo è il processo
delle autonomie. Nel contesto scolastico, nell’affiancare la famiglia nel processo di orientamento
alle successive fasi di vita. Infatti, nel contesto scolastico, sicuramente la famiglia dovrebbe essere
proprio l’affiancata in questo momento soprattutto, proprio per orientare, cioè per far sì che in
qualche modo sia diretta verso una direzione possibile. Questo perché le modalità spesso, quindi
la ricerca della migliore forma possibile di sé e del proprio posto nel mondo in realtà viene meno,
invece attuare un percorso di comprensione di quelli che sono gli elementi utili, le risorse possibili,
le competenze e le capacità visibili della persona in riferimento al suo contesto di vita, sicuramente
ci permette di proiettare lo sguardo verso il futuro.
Tutto quello che è stato detto fin ora è in realtà un’utopia, cioè la realizzazione di qualcosa che
spesso non avviene. Che significa in realtà? Dopo la scuola, quindi il passaggio, l’affiancamento
della famiglia nel processo di orientamento, la ricerca di una migliore forma possibile di sé e del
proprio posto nel mondo, avvengono nel momento in cui la persona con disabilità sta a scuola.
Quindi la scuola in qualche modo permette ai familiari di avere un luogo in cui essere fiduciosi, in
cui riporre la propria speranza, quindi un luogo in cui è possibile costruire questo percorso
orientato al progetto di vita. La famiglia ad un certo punto si scontra con la realtà, ovvero che cosa
accade dopo la scuola? La famiglia rappresenta un po’ il punto di riferimento, quindi rappresenta il
focus, la realizzazione anche di un progetto di vita. Nel momento in cui però lo studente esce dalla
scuola che cosa accade? Potrebbe accadere il nulla perché al termine del percorso scolastico
spesso le famiglie che hanno figli con disabilità e i figli con disabilità si trovano in un vuoto
progettuale. Quindi la conclusione della scuola più che essere un trampolino di lancio verso
l’adultià rischia di rappresentare un salto nel vuoto e quindi l’adolescente viene proprio costretto o
al mondo assistenzialistico familiare, quindi viene in qualche modo introiettato nelle dinamiche
familiari e li rimane oppure viene catapultato in delle strutture, i degli istituti, delle comunità che in
realtà non rappresentano il volere della persona o comunque non vi è stata una preparazione
adeguata per far sì che la persona possa essere inserita in un contesto realmente funzionale per le
sue necessità. Quindi primo posto libero che la famiglia trova è perfetto per l’inserimento della
persona. Quindi questa situazione viene proprio a realizzarsi poiché spesso, alla fine degli anni
scolastici, i giovani con disabilità e le loro famiglie, non riescono a trovare un sistema di servizi che
possa essere integrato, che possa quindi dar forma al progetto di vita magari immaginato e quindi
ovviamente questi elementi di frammentarietà che la persona e la famiglia hanno vissuto nel corso
del tempo, quando viene meno la scuola, viene meno anche nella sua progettazione esistenziale,
quindi a discapito di quella che è una valenza ecologica effettiva del progetto di vita. Quindi qual è
la direzione verso cui agire? Lo capiamo bene, la linea da intraprendere sicuramente è quella della
realizzazione di questo sistema di servizi integrato, cioè far sì che la famiglia possa essere inserita
all’interno di una ricca rete di conoscenze, di realtà, di opportunità contestuali che in qualche modo
salvaguardano il soggetto soprattutto in questo momento in cui appunto viene meno la certezza
della scuola. Solitamente si assiste ad un processo di settorializzazione, cioè viene privilegiato un
singolo segmento dell’esperienza, ad esempio la scuola oppure un contesto, ad esempio la classe
oppure un periodo particolare, l’adolescenza, e quindi questo va proprio a discapito di una visione
ampia, di una visione che possa essere sistemica. Quindi che cosa possiamo fare noi in qualità di
futuri insegnati di sostegno, futuri educatori, futuri pedagogisti, futuri docenti? Sicuramente
possiamo far sì che questa rete necessaria per il progetto di vita futuro, articolato nel tempo, che
possa essere realizzato attraverso i differenti cicli di vita, prenda forma realmente. Possiamo
ampliare quelli che sono gli attori che dialogano con la famiglia, con la scuola, con l’extra scuola,
con i servizi, proprio per far sì che vi sia un coinvolgimento, ma soprattutto una condivisione di
obbiettivi, cioè una meta verso cui tendere.
In sintesi, possiamo dire che la creazione di un sé adulto non si sviluppa in un preciso istante del
ciclo di vita, non si sviluppa quando si conclude il percorso scolastico e quindi diviene necessario
fare i conti con il destino del ragazzo, ma richiede proprio un pensiero, un’azione che possa essere
proporzionata ad ogni singola età e che sia proiettata a lungo termine. Quindi considerare un
orizzonte così articolato sicuramente può iniziare nella fase adolescenziale e giungere verso l’età
adulta.
Fasi di transizione
I processi che conducono verso l’adultità «[non si costruiscono in modo storico ad una certa età
anagrafica, ma sono la risultante di un percorso educativo-affettivo ed esponenziale che prende
l’avvio precocemente proprio da un immaginario e da un progetto che si realizza passo dopo
passo, giorno dopo giorno, a condizione che si sia capito bene in quale direzione andare e quali
passi compiere» (Montobbio, Lepri, 2000, p. 26). Quindi capiamo che questo è un progetto che si
può sviluppare in una prospettiva sincronica e in una prospettiva diacronica, ma questa prospettiva
sicuramente deve tessere le relazioni, quindi a condizione che si sia capito in quale direzione
andare, quali passi compiere, e lo faccio solamente attraverso una trama di interazioni/relazioni
che permettono in qualche modo di capire dove devo andare, quali passi compiere. Il titolo è frasi
di transizione proprio perché in realtà pensare al progetto di vita a lungo termine e quindi
disegnare interventi educativi anche mediante la fase adolescenziale consente proprio alla
persona di sperimentare, è una sorta di fase di collaudo quella che vive nel momento
adolescenziale, quindi consente di affrontare situazioni difficili, criticità che poi però sono
necessarie per la vita adulta e quindi è un’azione fondamentale, inscindibile dal processo di
crescita proprio perché è attraverso questo passo dopo passo, giorno dopo giorno la persona
riesce a raggiungere in qualche modo autonomia, indipendenza, occasioni di vita autonoma ecc.,
cioè una qualità della vita che possa magari andare al di là dell’autonomia e dell’indipendenza,
cioè la persona può restare e vivere la sua vita nella casa dei genitori senza nessun problema, ma
quando i genitori non ci sono più? Quindi ogni volta che troviamo scritto il Dopo di Noi, significa
che il Dopo di noi deve essere realizzato nel durante di noi perché se io in quel momento in cui la
famiglia è ancora in vita non progetto come sarà la vita del figlio senza il supporto familiare, il Dopo
di Noi è un Dopo di Noi senza la persona, senza la centralità della stessa. Quindi o viene
catapultato in qualche istituto, in qualche comunità, in qualche centro o magari affidato a fratelli, zii
ecc., e quindi ci domandiamo com’è la sua qualità della vita? Perché non l’abbiamo progettata in
anticipo?
Sintesi:
Abbiamo quindi visto la famiglia nella fase adolescenziale, ovvero la persona con disabilità vive
anche la fase adolescenziale e questa fase sicuramente non può essere trascurata, non può
essere tralasciata perché la persona con disabilità vive tutte quelle dinamiche (crisi identitarie,
colluttazione con la famiglia, con i genitori) che sono tipiche della fase adolescenziale e anche
questo momento del ciclo di vita deve essere attenzionato per quello che la famiglia sta vivendo.
Abbiamo specificato alcuni degli interventi che possono essere messi in atto per supportare
l’adolescente con disabilità e la sua famiglia, quindi ad esempio impostazione di interventi
educativi che siano aderenti all’età cronologica del ragazzo, quindi andando a scardinare quella
che è l’immagine infantilizzante della persona, dobbiamo realizzare delle modalità e degli interventi
educativi che possono essere affini alla sua età cronologica. Come? Promuovendo delle azioni in
grado di superare l’immagine di fruitore passivo di cure ed assistenza, perseguendo invece la sua
costruzione identitaria verso la vita adulta. Ad esempio nell’ambito scolastico possiamo favorire
modelli, approcci didattici che sappiano avvalersi di strategie formative attive, valorizzare la risorsa
ad esempio rappresentata dai compagni di classe, ma ci sono una serie di modalità, progetti,
laboratori, tirocini che possono essere attuati in questa fase, sfruttare quelle che sono le
opportunità offerte dal tempo libero, ad esempio dallo sport, conservare un rapporto privilegiato di
ascolto con la persona e potenziare sempre la collaborazione con i professionisti e soprattutto con
i servizi. Queste sono solo alcune delle strategie che possiamo tenere in considerazione per far sì
che questa ricchezza che l’adolescente con disabilità ha venga effettivamente valorizzata.
Abbiamo poi il passaggio al diciottesimo anno di età che abbiamo detto essere un po’ questa fase
di transizione che coincide con il termine della scuola secondaria di secondo grado. Rappresenta
un momento particolarmente critico proprio perché vengono a caratterizzarsi nello scenario
educativo alcuni cambiamenti. Sicuramente risulta essere necessario il percorso finalizzato ad
attingere a quelle che sono le dimensioni della vita adulta; quindi, far raggiungere alla persona
competenze sociali, competenze lavorative, emotive e relazionali proprie della vita adulta può
aiutare in questo conseguimento dell’adultità. Possiamo poi perseguire obiettivi legati ai livelli di
autonomia nell’inserimento sociale, quindi nel diventare cittadino, ma non solo anche la possibilità
di iniziare questo lavoro di intraprendere, ora non più iniziare, ma proprio realizzare l’indipendenza
economica; quindi, nel diventare un lavoratore e sicuramente nel contesto scolastico è necessario
affiancare al famiglia nel processo di orientamento in uscita. Cosa farà questo ragazzo o questa
ragazza nelle successive fasi di vita? Quindi l’inserimento anche nell’adultità ricercando la migliore
forma possibile del sé, questo significa che in qualche modo devo, in qualità di professionista,
cercare di recuperare quelle che sono le risorse proprie della persona con disabilità e quindi
aiutare la persona a trovare il proprio posto nel mondo. Quindi questi sono i nodi principali che
dovrebbero essere attenzionati durante questo momento di passaggio. Succede molto spesso che
queste domande che la famiglia si fa, quindi che cosa accadrà dopo la scuola, come posso far
affacciare mio figlio all’adultià, sicuramente tra le problematiche più consistenti che la famiglia vive,
quindi capire quale possa essere la strada che deve essere realizzata nel momento in cui viene
meno il riferimento, i punto certo della scuola, ma nonostante queste preoccupazioni, nonostante
queste criticità spesso la persona con disabilità si trova a fare un salto nel vuoto. La scuola invece
di essere un trampolino di lancio, invece di far sì che vi sia questa ricerca della possibile migliore
forma, dell’attivazione delle risorse, della ricerca del proprio posto nel mondo, a volte questo la
scuola non lo fa, non lo fa la famiglia, non lo fanno i servizi quindi che cosa accade? Non accade
nulla. Accade che la persona con disabilità viene o catapultata nella assistenzialismo, quindi quelle
che sono le comunità o gli istituti che prendono in carico persone con disabilità che spesso non
riescono a rispondere in maniera efficace ed efficiente a questo bisogno di inserimento nella
società, perché di solito si occupano dell’età adulta e non dell’adolescente. Capiamo che il
passaggio invece dai diciotto anni agli anni successivi è un momento di criticità che invece
necessita di altre risorse piuttosto che di quelle adulte. Oppure viene costretto a rimanere nel
mondo familiare e quindi in qualche modo senza lavoro, senza impiego, senza far nulla resta
comodamente seduto sul divano senza far nulla. Quindi capiamo bene che il vuoto dopo la scuola
deve essere in qualche modo progettato e deve essere progettato in anticipo. Quindi le fasi di
transizione che sono proprio questi momenti di vuoto, che non ci debbono essere, devono invece
essere riempite da una serie di opportunità e possibilità che debbono essere concretizzate prima
che questo vuoto prenda il sopravvento. Quindi anche in questo caso capiamo come la creazione
dell’identità adulta non si può sviluppare solo in quel momento preciso, non è che dopo la scuola
allora costruisco l’adulto, cioè contribuisco alla creazione dell’identità adulta, ma questo processo
deve in qualche modo deve essere frutto di un lavoro che invece è stato orientato nel corso degli
anni, soprattutto nel corso della fase adolescenziale. Quindi non posso né pensare per settori,
quindi non posso essere frammentario, ma devo in qualche modo avere uno sguardo che possa
essere longitudinale, che invece vada a proiettarsi verso il futuro. La frase di Montobbio e Lepri
molto significativa perché ci richiama ad un progetto che si realizza passo dopo passo, giorno
dopo giorno e quindi ci fa capire questa proiezione verso il futuro, ma soprattutto ci fa capire che
dobbiamo proiettare questo sguardo nel dove andare a condizione che si sia capito bene in quale
direzione andare e quali passi compiere. Quindi questa fase di transizione che necessita di una
progettazione mi permette proprio di capire dove devo andare e come ci posso andare, quali
strumenti, quali strategie, quali modalità devo mettere in atto per raggiungere una vita adulta.
Famiglia in età adulta
Sicuramente la famiglia in quanto contesto di vita fondamentale in cui la persona ha trascorso la
maggior parte della sua esistenza è uno dei luoghi in cui si possono snodare, articolare, sviluppare
le autonomie, quindi per questo sarebbe necessario proprio un percorso di accompagnamento,
proprio nel durante di noi di un accompagnamento alla famiglia, in quanto da sola rischia di avere
la tendenza alla cura esclusiva del figlio e quindi viene meno la propensione a capire invece che
questa cura fondamentale deve in qualche modo anche essere affidata ad altri. Lungo il periodo
della crescita del figlio ovviamente il genitore si pone anche in una prospettiva di vicinanza con le
risorse territoriali, con quelli che possono essere i servizi alla persona e quindi insieme a questi
servizi può individuare e condividere delle mete, dei percorsi attuativi fattibili che in qualche modo
possano essere realmente realizzabili per la persona. La famiglia in realtà ha il compito di giungere
a due traiettorie: da un lato quella protettiva, quindi quella di soddisfazione effettiva del bisogno, (è
quella più connaturale alla famiglia stessa), ma dall’altro anche il compito di poter delineare una
prospettiva emancipatoria/emancipativa della persona con disabilità e cioè significa che deve in
qualche modo far raggiungere alla persona una forma di autonomia, una forma di indipendenza
che in qualche modo possa essere generativa, cioè possa condurre l’adulto ad essere
protagonista della propria esistenza e quindi possa raggiungere forme di potenzialità attuative –
autonome (va a generare processi di empowerment, di autodeterminazione della persona, di
autorappresentanza, di agency della persona stessa, quindi non può tirarsi indietro da questa
possibilità). Quindi quella di cura, quella di protezione, quella di soddisfazione del benessere è
quasi naturale alla famiglia, mentre la seconda è quella su cui noi possiamo lavorare. Tra queste,
ad esempio, abbiamo le forme di vita indipendente ne è un esempio Civico 34 dell’ANFASS di
Macerata. Pertanto, ci sono delle realtà che in qualche modo attuano delle forme di convivenza, di
buon housing per persone con disabilità, ovviamente i protagonisti di questi percorsi hanno attuato
dei processi che si sono sviluppati nel tempo, che sono partiti come dicevano Montobbio e Lepri,
passo dopo passo, giorno dopo giorno. Ovviamente non vengono inseriti coloro che si trovano in
una situazione di emergenza che pur avendole non possono mettere in campo le proprie risorse
cognitive, intellettive ecc., proprio perché non hanno mai sviluppato delle abilità e delle
competenze per poter fronteggiare situazioni di autonomia, indipendenza ecc. La famiglia in
questo deve assolutamente mettersi in dialogo con l’esterno, quindi deve aprirsi, deve maturare
anche in modo organico, anche in modo consapevole, l’importanza proprio di un lavoro di rete e
quindi la necessità di una definizione proprio di percorsi a sostegno dell’autonomia dei propri
familiari. La rete deve in qualche modo essere messa in circolo; quindi, le maglie di questa rete
devono essere sempre più allargate, proprio per far sì che la famiglia possa interagire con l’esterno
e quindi raggiungere delle possibilità ulteriori per il figlio con disabilità.
Esercitazione – Studio di Caso
Ci posizioniamo nell’adolescenza e nel periodo della scuola, quindi non al passaggio dei diciotto
anni, quindi non il giovane adulto, ma l’adolescente con disabilità che va a scuola.
Noi abbiamo un ragazzo, individuato con una diagnosi. La sua diagnosi è quella di un disturbo
comportamentale, spesso mostra degli atteggiamenti oppostivi e provocatori all’interno del
contesto scolastico che mirano l’intera relazione con il gruppo classe. Quindi avendo anche una
diagnosi certificata ha diritto ad avere un docente di sostegno. Pertanto, noi ci posizioniamo come
docente di sostegno o come educatore, comunque siamo una figura educativa che in qualche
modo deve supportare questa persona con disabilità, questo adolescente con disabilità.
Gli altri elementi:
- La mamma ha contattato i servizi sociali del luogo per far sì che questo ragazzo sia
maggiormente seguito perché ha trovato a casa delle armi (coltelli o piccole armi) che comunque
hanno allertato in maniera esponenziale la mamma che ha convocato i servizi sociali per far sì che
comunque in questo caso possa essere seguito;
- Situazione familiare: questa mamma è una mamma sola, quindi non ha una figura paterna
che possa in qualche modo aiutarla, si trova in difficoltà economica quindi è costretta a lavorare
anche di notte, la famiglia di questa mamma non l’aiuta perché il ragazzo manifesta delle condotte
aggressive anche nei confronti dei familiari della mamma e quindi questa mamma esasperata,
sola, non sapendo a chi rivolgersi, ovviamente si è rivolta ai servizi sociali, su suggerimento magari
di una docente o di un riferimento che ha trovato nella scuola.
Considerando questo caso, che tipo di relazioni intesseremmo con il territorio, cioè quali sono le
modalità che metteremmo in atto all’interno del sistema scolastico, ma non solo, nello specifico
qualche idea da mettere in campo proprio per far sì che questa persona possa seguire un lavoro
effettivamente di rete, cioè possa essere seguita da una pluralità di professionisti, di figure di
riferimento, per far rientrare un po’ questa sua problematica e quindi questa sua forte aggressività.
Quali risorse possiamo reperire?
La dinamica con la scuola è quella di parlare in primis con le insegnati per capire come il ragazzo
realmente si trova all’interno dell’ambiente classe, capire se il comportamento è innato o è dovuto
da un fattore contestuale. Quindi iniziamo analizzando il contesto scolastico. Successivamente
anche il contesto familiare potrebbe anche come motivazione un ragazzo di 15 anni potrebbe
avere anche esigenze della figura materna e dato che ha problemi economici non c’è mai a casa e
quindi non sente quel contatto di cui necessita, quindi potrebbe essere un modo per attirare la sua
attenzione. Inizialmente si analizzerebbe il contesto scolastico, quindi si cercherebbe di indagare e
di capire se questi comportamenti che il nostro soggetto mette in atto possano essere innescati in
qualche modo da delle dinamiche che si determinano nella classe; quindi, si prende in esame il
contesto classe. Si analizzerebbe poi il contesto familiare, quindi questa mamma poco presente
che in qualche modo deve necessariamente lavorare anche di notte e quindi non ha la possibilità
di dare delle regole al figlio. Come potrebbe in qualche modo attuare delle funzioni genitoriali
efficaci? Come magari questo ragazzo mette in atto questi meccanismi proprio per avere
attenzione da parte della mamma e quindi cercare analizzare questo comportamento per capirne
le ragioni anche nel contesto familiare. Poi si potrebbe chiedere anche ai servizi sociali del comune
di riferimento se ci sono delle risorse economiche e finanziare per poter supportare la mamma.
Quindi questo sarebbe l’inizio di un lavoro di rete. Cioè come posso incanalare questa
aggressività? Questa rabbia? Attraverso lo sport, le attività sportive, magari potrebbe essere il
karate o il pugilato; quindi, uno sport che richiede comunque una certa fisicità perché manifesta
aggressione, manifesta comportamenti che comunque sono caratterizzati di solito da una forte
spinta proprio fisica e quindi si cercherebbe in qualche modo di trovare uno sport, un momento
nell’extra scuola in cui poter sviluppare anche questa componente fisica che è predominante in
molti suoi contesti. Avendo un comportamento oppositivo –provocatorio, ha difficoltà a recepire e
rispettare le regole, quindi quello che si potrebbe fare è quello id stabilire il guardiano, cioè chi
deve far rispettare delle regole è fondamentale: quindi a turno poter far sì che un compagno che in
qualche modo sanzioni il comportamento sbagliato, sicuramente lo posiziona in maniera differente
rispetto a che se questo ruolo ce l’ha un adulto, quindi sicuramente il lavoro tra pari potrebbe
sollecitare maggiormente al rispetto delle regole e quindi alla gestione più controllata del
comportamento. Quindi all’interno della scuola attivare anche la strategia dei pari. Inoltre, si
potrebbero attribuire al ragazzo dei compiti di responsabilità, sia nell’ambito domestico che
scolastico, di fronte invece ai continui richiami a comportamenti inadeguati, promuovere invece la
sua capacità di fare qualcosa in particolare e magari supportarlo anche in questo anche a casa
con l’affiancamento di un educatore/educatrice che possa aiutarlo adeguatamente a sviluppare
quelle capacità e svolgere dei compiti. Le strategie suggerite sono due, una sarebbe l’educatore
domiciliare e quindi questa sarebbe un ulteriore servizio che può essere messa in atto e l’altra è
una responsabilizzazione dei compiti, delle attività, delle modalità. Ad esempio, i compiti da
svolgere a casa sono una responsabilità del ragazzo, se il ragazzo non svolge i compiti a casa,
quindi, non è responsabile dei suoi compiti quando torna a scuola prende una nota, una sanzione,
una annotazione. Responsabilizzarlo in piccole cose, in piccole attività, in piccole modalità, quindi
l’avere cura di qualcosa, del materiale che si deve portare oppure attenzionare un oggetto che gli
viene dato dalla scuola, quindi anche a casa averne cura, lo stesso potrebbe essere una modalità
per responsabilizzare il ragazzo e quindi in qualche modo attingere alla sfera della cura, del
prestare interesse, del prestare attenzione che potrebbe scardinare invece questo atteggiamento
di sfida nei confronti dell’altro. Un’altra proposta potrebbe essere quella di affiancargli a scuola,
oltre all’insegnate di sostegno, un educatore. Inoltre, potrebbe essere utile anche un supporto
psicologico, infatti nelle scuole ci sono degli sportelli di ascolto che la scuola mette a disposizione,
poi se la scuola non lo mette a disposizione suggeriamo alla famiglia un intervento extra scolastico
di tipo psicologico o di tipo pedagogico. Anche la mamma ha necessità di essere presa in carico,
quindi magari potrebbe essere opportuno inserirla in un gruppo di sostegno. Quindi suggeriamo
anche alla mamma un supporto psicologico, un supporto che può trovare all’interno di
un’associazione o un gruppo di auto-mutuo aiuto; quindi, anche la mamma necessita di essere
supportata. Inoltre, anche avere un servizio in cui il soggetto possa essere inserito nel momento in
cui la mamma va a lavoro, quindi il ragazzo non è da solo ma è preso in carico da un servizio.
Lezione del 23/11/2021
Procediamo con l’età adulta.
La famiglia in quanto proprio contesto di vita fondamentale per la persona è proprio uno dei luoghi
in cui si snoda, inizia a prendere forma l’adultità. Quindi necessario diviene proprio un percorso di
accompagnamento per i genitori, quindi per far sì che i genitori siano in qualche modo orientati
all’adultità del figlio, cioè che non vedano semplicemente il figlio sempre come un eterno bambino,
ma che ne percepiscano anche le potenzialità adulte. Quindi in questo luogo di crescita che è
quello familiare sicuramente l’apertura della famiglia ad altri contesti, cioè la creazione effettiva di
una rete di servizi e di risorse del territorio, permette in qualche modo di individuare, di condividere
quelle che sono le mete e i percorsi di lavoro che possono essere perseguibili. L’opportunità di
partecipare ad una vita comunitaria in realtà nasce proprio da questa esigenza della famiglia che
dovrebbe avere, ma che se non ha dobbiamo in qualche modo richiamare ad avere. La
progettazione si deve snodare a partire dall’adolescenza perché altrimenti in età adulta la famiglia
rischia di rimanere sola perché non ha più questi punti di riferimento, come la scuola che è uno dei
punti di riferimento per eccellenza, quindi come in qualche modo la famiglia poi riesce a farsi carico
della persona se nel tempo ha costruito una rete di sostegni, cioè se nel tempo si è avvalsa di
supporti ad esempio di realtà associative o magari di servizi che il territorio mette a disposizione,
quindi risorse che vi sono nel territorio e che possono essere utilizzate. Nel caso di un adolescente
la scuola può allarmare gli altri servizi, nel caso dell’adultità questo allarme deve venire dalla
famiglia; quindi, è la famiglia stessa che in qualche modo va a cercare all’esterno. Ora capiamo
bene che se la famiglia non l’ha fatto prima, ovviamente non lo fa nemmeno dopo e per questo che
quando prendiamo in carico una persona con disabilità dobbiamo riuscire a vederne il progetto a
lungo termine. Quindi se noi lo incontriamo nella scuola dobbiamo cercare in qualche modo di
proiettarci al di fuori della scuola, se lo incontriamo in un centro pomeridiano dobbiamo in qualche
modo proiettarci al di fuori, al dopo ecco perché l’importanza di una strutturazione di servizi. La
rete dei servizi in realtà è cruciale, fondamentale per poter raggiungere una qualità della vita
adulta. Pertanto, capiamo che se una persona con disabilità diventa adulta significa che i suoi
genitori sono anziani perché se la persona ha cinquanta anni, i suoi genitori minimo hanno venti
anni in più, quindi a settant’anni queste persone riescono ancora a farsi carico della persona con
disabilità? In qualche modo questa progettualità educativa, cioè questa tensione a un progetto di
vita effettivo per questa persona deve essere concretizzato, può essere concretizzato, ovviamente
se vi è questa rete di servizi, quindi questo sostegno reciproco, questo scambio, questo proficuo
lavoro di sinergia che nasce tra la famiglia e le risorse che ci sono nel territorio. Questa
progettazione a lungo termine, che abbiamo visto parte dall’infanzia che si determina fino all’età
adulta, deve in qualche modo essere attuata.
La persona con disabilità divenuta giovane-adulta
Pianificare il futuro, lavorando nel presente (es. vita indipendente, residenzialità,
inserimento lavorativo);
La qualità e l’efficacia dei percorsi attivati negli anni precedenti si devono tradurre in un
trampolino di lancio per la vita futura;
Mantenere legami affettivi ed amicali è un obiettivo non trascurabile in una fase di vita che
può caratterizzarsi da una maggiore vulnerabilità emotiva;
Promuovere, anche in questa fase, processi educativi finalizzati costantemente alla
formazione e all’implementazione di competenze, secondo la prospettiva propria della lifelong
education.
Quindi la persona con disabilità diventa adulta, cioè significa che questa persona si affaccia alla
fase di vita adulta con un bagaglio di competenze che ha costruito nel corso degli anni e quindi nel
processo di crescita se noi inseriamo delle modalità che possano essere spendibili, realizzabili,
abilità di vita che sicuramente sono impegnative, costano tempo e sacrifici, però possono in
qualche modo essere realizzate. Quindi la pianificazione del futuro deve avvenire lavorando nel
momento presente. Ad esempio, per la vita indipendente, per la residenzialità, per l’inserimento
lavorativo quando ci lavoro? Quando la persona è già adulta? Non ci posso lavorare quando la
persona è adulta perché ormai le competenze e le capacità residue si sono addirittura affievolite;
quindi, di quello che ha raggiunto magari una parte se l’è perso e quindi non riesco a recuperare
tutto quello che ho perso. Quindi la qualità, l’efficacia dei percorsi che si sono attivati negli anni
precedenti in qualche modo si devono proprio tradurre in maniera concreta nei percorsi di vita
futura. È inutile che a scuola noi lavoriamo per il raggiungimento del corsivo perfetto nella persona
con disabilità intellettiva è inutile perché un’abilità di vita potrebbe essere più di aiuto, spendibile
nel momento in cui esce dalla scuola. Importanti in questo periodo sono proprio i progetti di
formazione professionale, come ad esempio la promozione di tirocini e stage. Avviare alla vita
futura significa proprio far sì che vi sia un lavoro che possa essere poi speso nella vita futura.
Inoltre, anche mantenere questi legami affettivi e amicali sicuramente è uno degli obiettivi che
dobbiamo perseguire proprio nei casi di persone adulte con disabilità. Questo perché nella fase di
vita adulta la persona vive proprio una vulnerabilità emotiva più forte; quindi, far sì che vi sia
questa cerchia affettiva e amicale solida, salda, sicuramente aiuta maggiormente la persona.
Quindi promuovere, anche in questa fase processi educativi finalizzati alla formazione e
all’implementazione delle competenze; quindi non è solo il bagaglio delle conoscenze e delle
competenze che ha acquisito, quello che dobbiamo attenzionare, ma è proprio il raggiungimento di
altre piccole competenze, magari legate a quelle precedenti, che in qualche modo possono aiutare
questa prospettiva della lifelong education, cioè significa che anche la persona con disabilità,
seppur in minima parte, può in qualche modo produrre, cioè avere nuove competenze.