flUTOSTIMA
E ACCETTAZIONE DELL’OMBRA
Vie spirituali verso lo spazio interiore
Titolo originale dell’opera:
Selbstwert entwickeln - o h n m a ch t m eistern:
' spirituelle Wege zum ìnneren Raunì
Traduzione di:
B arbara Zadra
5
inibizioni, di non essere indifferenti come vorrebbero.
Si infuriano se arrossiscono, qualora si affronti un di
scorso che li mette a disagio. Soprattutto temono di non
risultare piacevoli. Giovani uomini si sentono inibiti in
presenza delle donne, perché non sono sicuri di essere
da loro accettati: se vedono altri in compagnia di una
ragazza provano un senso di inferiorità, perché sono
ancora soli e perché nessuna ragazza li avvicina. Ci so
no ragazze che hanno paura di non essere considerate
dagli uomini, di essere derise da loro, perché non si av
vicinano al loro ideale di bellezza: investono perciò tutte
le loro energie per apparire così come pensano che gli
uomini le desiderino.
Durante i colloqui spirituali si affrontano spesso di
scorsi che riguardano il senso di incapacità. C’è il gio
vane che si sente incapace di prendere una decisione per
il futuro; altri sperimentano un senso di impotenza nel
dominio di sé: semplicemente non ce la fanno più ad
andare avanti,.soffrono per il proprio fallimento ma non
riescono a cambiare nulla. Giovani donne soffrono per
ché non sono capaci di disciplinare il loro rapporto con
il cibo. Giovani uomini si sentono incapaci di gestire
la propria sessualità secondo ridea che se ne sono fatta
e secondo i loro ideali. Altri si adirano, perché fanno
continuamente brutta figura, si mostrano insicuri di
fronte agli altri e talvolta commettono errori senza riu
scire in alcun modo ad evitarli.
Spesso le sensazioni dì incapacità hanno la loro cau
sa nei rapporti con il mondo esterno, ad esempio nel
mondo del lavoro o nella realtà politica 0 sociale. Chi,
terminati gli studi, ha inviato il proprio curriculum a
quaranta o cinquanta ditte senza successo prova un sen
so di impotenza e di frustrazione di fronte al futuro:
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ha la sensazione che qualunque cosa faccia sarà sem
pre vana. Contro la dura realtà spesso non si può far
nulla: chi, in giovane età, si è dato da fare per l’ecolo
gia, più tardi a volte si rassegna nella convinzione che
tutto ciò non abbia alcun senso. La società infatti mal
tratta continuamente la natura. Altri si sentono inca
paci di salvare il loro matrimonio che naufraga o di mo
dificare qualcosa in un rapporto che si è arenato. Mol
te sensazioni di impotenza affondano le radici nell’in
fanzia: durante l’infanzia un bambino si è sentito inca
pace di mitigare le tensioni tra i genitori e di porre fine
ai litigi; spesso i bambini hanno provato un senso di ira
impotente quando sono stati puniti ingiustamente. Il me
desimo senso di impotenza vivono oggi nel rapporto con
i superiori e le autorità e nelle situazioni di conflitto in
famiglia, nella comunità, sul posto di lavoro.
I genitori si sentono inadeguati nei confronti dei fi
gli ormai divenuti adulti e quando hanno compiuto delle
scelte completamente diverse da quelle che essi aveva
no pensato, a tal punto che non riescono più a instau
rare alcun rapporto con loro. Vecchi e giovani si sento
no impotenti nei confronti di un mondo in cui tante cose
vanno male e sulle quali tuttavia non possono esercita
re alcun influsso, perché le decisioni sono prese da al
tri, da gruppi potenti e da forze anonime che non è pos
sibile controllare.
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sé, di sicurezza in se stessi. I concetti sono in un certo
senso connessi l’uno airaltro, tuttavia ognuno signifi
ca qualcosa di diverso. Durante i colloqui viene spesso
lamentata la mancanza di consapevolezza di sé, di fi
ducia in se stessi, di sicurezza di sé. Una persona con
sapevole di sé è quella che è cosciente di se stessa, che
sa chi è e cosa c’è dentro di lei. Come persona sicura
di sé viene indicata quella che sa presentarsi in modo
spigliato e che non si lascia intimorire da niente e da
nessuno. Talora, della consapevolezza di sé, si può an
che far mostra: in questo caso si esibisce consapevol
mente il proprio sé. Un individuo, tuttavia, può mo
strarsi consapevole di sé anche quando abbia scarsa au
tostima; questa viene occultata mediante un compor
tamento consapevole e sicuro.
Autostima significa conoscere il proprio valore, la
propria dignità, la propria unicità in qualità di perso
na: è la percezione del mio sé, del mio vero essere, del
l’immagine che Dio si è fatta di me.
Sicurezza di sé significa invece che una persona ha
il coraggio di fare qualcosa, ha il coraggio dei propri
sentimenti e confida in Dio, che la conduce e l’accetta.
Autostima e fiducia in se stessi si integrano recipro
camente. Poiché so che come uomo ho valore divino,
posso accettarmi così come sono, posso confidare nel
fatto di essere buono, posso avere il coraggio di pre
sentarmi così come sono. Ciò non deve significare ne
cessariamente essere sicuri di sé: posso forse apparire
insicuro in un ambiente sconosciuto, ma esserne con
sapevole, così da conservare anche allora fiducia in me
stesso e autostima. Io valgo anche nella mia insicurez
za e nelle mie inibizioni: mentre colui che è consapevo
le di sé non si può concedere alcuna debolezza, la fidu-
eia in me stesso mi permette anche di essere debole. Il
senso di autostima non gonfia; è piuttosto il senso del
proprio valore in tutte le sue debolezze e i suoi limiti.
9
che effettivamente hanno una sana fiducia in se stesse
e tuttavia soffrono di sensi di impotenza in molti am
biti della propria vita: si sentono impotenti come inse
gnanti, perché — a causa di una cattiva educazione im
partita dai genitori — non riescono a ottenere quasi nulla
dai ragazzi; si sentono impotenti come parroci, perché
sempre meno persone frequentano la messa — nono
stante si siano dati cura di prepararla con molto impe
gno e fantasia — e perché nonostante tutti gli sforzi nella
pastorale non riscuotono alcun successo. Si sentono im
potenti di fronte alle ingiustizie del mondo, alla diffu
sa miseria nel mondo, di fronte all’ondata di violenza,
di fronte alla burocrazia incancrenita, di fronte a guer
re senza senso. Quasi nessun uomo riesce a sopportare
questi sensi di impotenza: alcuni reagiscono in manie
ra depressiva, oppure si rifugiano nella rassegnazione;
altri diventano aggressivi, si dimenano, per non dover
più percepire la propria impotenza, oppure mirano al
potere per sfuggire alla propria impotenza.
Nelle pagine che seguono intendiamo vedere come si
possa agire contro il senso di impotenza proprio dell’e
sistenza umana senza essere determinati e paralizzati da
esso. In qualità di pastore vorrei prendere in esame i
modi che possono condurre allo sviluppo di una sana
autostima; tuttavia non tratterò di ciò solo a livello pu
ramente psicologico, ma anche considerandolo imme
diatamente in una dimensione spirituale. Mi interrogo
come monaco che vive della fede e sperimenta la fede
come aiuto e come valore, e che trae la fiducia in sé dalla
fiducia in Dio. Spero di trovare nella fede una strada
per poter affrontare il mio senso di impotenza e poter
agire in maniera creativa con essa. Però prima di poter
trovare un aiuto nella fede che mi permetta di domina
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re il mio senso di impotenza e sviluppare una buona au
tostima devo affrontare la realtà della mia impotenza
e della mia mancanza di autostima. La dimensione spi
rituale non può semplicemente scavalcare il piano psi
cologico; piuttosto, solo passando da esso posso giun
gere a Dio. La via per giungere a Dio non aggira la no
stra realtà psicologica: ciò sarebbe uno spiritual bypas
sing, una scorciatoia spirituale, come gli americani chia
mano lo scavalcare la realtàẵ Non esiste una scorciatoia
spirituale che possa evitarci di affrontare la realtà psi
chica della nostra vita. Cristo è disceso tra gli uomini
perché noi trovassimo il coraggio di discendere nella no
stra realtà: solo così possiamo salire a Dio.
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PARTE P R IM A
SVILUPPARE LA STIMA DI SÉ
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1
Fiducia originaria
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cepìsce non solo ciò che la mamma fa, ma anche il mo
do in cui lo fa: percepisce se lei sta bene o male, se si
sente sicura 0 insicura, se lo accudisce volentieri o con
trovoglia, se c’è benevolenza o aggressività. È in base
a tutte queste percezioni che nel bambino si sviluppa
sicurezza 0 insicurezza, il senso di una propria auto
stima.
Il concetto di « fiducia originaria » è stato esposto da
Erik Erikson La fiducia originaria è la sensazione di
potersi fidare dei propri genitori, ma anche di se stessi.
Chi ha ereditato dai suoi genitori e nella cerchia fami
liare questa fiducia originaria considera il mondo at
torno a sé con gli occhi della fiducia: non ha timore di
« rischiare » la propria vita, ha voglia di mettere alla pro
va le sue capacità. I] suo sentimento di fondo è domi
nato da una profonda fiducia di poter contare sugli uo
mini, di potersi fidare in tutta semplicità dell’essere uma
no. Infine questa fiducia originaria ha anche una com
ponente religiosa: nella sicurezza dell’uomo risplende
qualcosa della fedeltà di Dio che ci sostiene e sul quale
possiamo contare.
Erikson ritiene che un’educazione dei bambini fon
data sulla religione e sulla tradizione « rafforzi la fidu
cia originaria del bambino nei confronti del mondo » 2.
La fede prolunga la fiducia originaria del bambino dal
l’uomo e dal mondo fino a Dio, al principio originario
di ogni essere. Quando un bambino sviluppa una scar
sa fiducia originaria diviene esageratamente autocriti
co: dubita di se stesso, delle proprie capacità e del suo
essere accettato da parte degli uomini. La fiducia nella
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vita è la condizione grazie alla quale il bambino può tro
vare l’identità dell’io. L ’identità dell’io implica il sen
timento di aver accettato tutti gli aspetti della vita e di
averli integrati nel proprio io, comporta il fatto di aver
visto il filo d’oro della vita e di aver trovato l’unità in
terna dell’essereẻ Una forte identità dell’io dà sicurez
za al bambino nei confronti dei suoi istinti e lo proteg
ge da una coscienza spietata, dalla quale sono tormen
tati gli uomini privi di fiducia originaria. Chi ha trova
to la propria identità è capace di intimità e infine di ge
nerazione, di fecondità, che si esprime nei figli oppure
in un’attività creativa. Il fine dello sviluppo umano, se
condo Erikson, è l’integrità: chi ha raggiunto l’integri
tà è divenuto uno con se stesso, in accordo con la pro
pria storia, ha sviluppato un forte senso di autostima,
una coscienza della propria dignità unica.
Le osservazioni di Erikson hanno un significato per
manente pure per noi cristiani. Anche per quanto ri
guarda l’educazione religiosa, la fiducia in Dio di cui
ci si può fidare deve divenire la base di ogni discorso
su di Lui. Se Dio, però, viene mostrato come il sorve
gliante e l’osservatore continuo, anziché la fiducia ori
ginaria, il sentimento fondamentale del bambino è la
paura originaria: egli si sente controllato, limitato, os
servato e giudicato in tutto. Non basta, però, che noi
parliamo del Dio della fiducia: Dio deve diventare spe
rimentabile come il principio ultimo di ogni fiducia at
traverso il nostro atteggiamento rassicurante. I pensie
ri di Erikson potrebbero divenire un criterio del giusto
parlare di Dio e dell’uomo. Se noi esigiamo dal bambi
no prima di tutto che sia buono e osservi i comanda-
menti di Dio e le nostre prescrizioni, lo educheremo co
me un uomo adattato e noioso. L’immagine dell’uomo,
17
così come Dio lo vuole, è impregnata di integrità e ge-
neratività, di interezza e fecondità. L ’uomo che ha sco
perto l'interiore unità della propria vita, che sprizza vi
talità, che ha sempre nuove idee, attorno al quale sor
ge qualcosa che ha significato anche per gli altri, è l’uo
mo che corrisponde alla volontà dì Dio.
Singolarità e unicità
18
ci: « Sì, tu hai plasmato i miei reni, mi hai tessuto nel
grembo di mia madre. Ti rendo grazie perché sono sta
to formato in modo stupendo» (Sai 139,13ss).
Che la percezione della propria unicità sia importan
te per la formazione di una buona autostima, è stato
espresso soprattutto da John Bradshaw: un bambino
sviluppa una forte autostima, se viene preso sul serio
dai genitori nella sua unicità, se i suoi sentimenti sono
rispettati, se egli può essere, di fronte a loro, così come
egli è. Se ciò non si verifica, allora il bambino reagirà
con un atteggiamento di sfiducia, si sentirà ferito inte
riormente e si chiuderà. Nell’unicità del bambino è ri
posta la sua somiglianza con Dio, il quale si è manife
stato come r io sono. Quando un bambino non viene
rispettato nei suoi sentimenti unici e nel suo particola
re valore, secondo Bradshaw si incorre in una ferita spi
rituale. Essa è responsabile del fatto « che noi divenia
mo dei bambini adulti dipendenti e pieni di vergogna.
La storia del declino di ogni uomo e di ogni donna ri
guarda il fatto che un bambino favoloso, prezioso, par
ticolare e caro, ha perso il suo senso delP“ io sono chi
sono” » 3.
I giovani che soffrono di mancanza di autostima mi
dicono continuamente che i genitori non hanno rispet
tato la loro unicità, non hanno affrontato la fatica di
immedesimarsi con loroằ Li hanno giudicati secondo i
propri parametri. Se il bambino voleva sperimentare
qualcosa di nuovo, si sentiva dire: « Sei troppo piccolo
per questo. Non sei capace di farlo. Sei troppo stupi
do. Non lo capirai mai ». Questi messaggi negativi stron
cano ogni senso di autostima. Il bambino recepisce il
19
così come Dio lo vuole, è impregnata di integrità e ge-
neratività, di interezza e fecondità. L’uomo che ha sco
perto l’interiore unità della propria vita, che sprizza vi
talità, che ha sempre nuove idee, attorno al quale sor
ge qualcosa che ha significato anche per gli altri, è l’uo
mo che corrisponde alla volontà di Dio.
Singolarità e unicità
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ci: « Sì, tu hai plasmato i miei reni, mi hai tessuto nel
grembo di mia madre. Ti rendo grazie perché sono sta
to formato in modo stupendo» (Sai 139,13ss).
Che la percezione della propria unicità sia importan
te per la formazione di una buona autostima, è stato
espresso soprattutto da John Bradshaw: un bambino
sviluppa una forte autostima, se viene preso sul serio
dai genitori nella sua unicità, se i suoi sentimenti sono
rispettati, se egli può essere, di fronte a loro, così come
egli è. Se ciò non si verifica, allora il bambino reagirà
con un atteggiamento di sfiducia, si sentirà ferito inte
riormente e si chiuderà. Nell’unicità del bambino è ri
posta la sua somiglianza con Dio, il quale si è manife
stato come l’io sono. Quando un bambino non viene
rispettato nei suoi sentimenti unici e nel suo particola
re valore, secondo Bradshaw si incorre in una ferita spi
rituale. Essa è responsabile del fatto « che noi divenia
mo dei bambini adulti dipendenti e pieni di vergogna.
La storia del declino di ogni uomo e di ogni donna ri
guarda il fatto che un bambino favoloso, prezioso, par
ticolare e caro, ha perso il suo senso dell’“ io sono chi
sono” » 3.
I giovani che soffrono di mancanza di autostima mi
dicono continuamente che i genitori non hanno rispet
tato la loro unicità, non hanno affrontato la fatica di
immedesimarsi con loro. Li hanno giudicati secondo i
propri parametri. Se il bambino voleva sperimentare
qualcosa di nuovo, si sentiva dire: « Sei troppo piccolo
per questo. Non sei capace di farlo. Sei troppo stupi
do. Non lo capirai mai ». Questi messaggi negativi stron
cano ogni senso di autostima. Il bambino recepisce il
19
messaggio dei genitori e lo interiorizza: ha l’impressio
ne di non servire a nulla, di essere troppo lento, che al
tri siano capaci di fare meglio ecc. In questo modo non
può crescere un sentimento della propria peculiarità. I
giudizi dei genitori sminuiscono così radicalmente, che
ci si sente unici al massimo in senso negativo. Ci si sen
te come spazzatura, come i più stupidi, i peggiori: se
non mi sento unico nelPunicità che Dio mi ha donato,
mi devo almeno sentire unico nella mia negatività.
La pentola piena
20
buchi, di un altro che aveva una pentola come una be
toniera. Gli ospiti potevano esprimere, con l’immagine
della pentola, il proprio stato d’animo.
Il sentimento di autostima non è innato: lo si impara
in famiglia. Dipende dai messaggi che un bambino ri
ceve dai genitori, se egli si sente accettato e prezioso.
Il bambino percepisce l’espressione sul volto dei geni
tori e đa essa comprende se i genitori lo stimano o me
no, se sono convinti del suo valore o meno. Perché possa
nascere una buona autostima, si ha bisogno di un at
teggiamento di apertura. Si deve parlare apertamente
l’uno con l’altro e si devono saper accettare gli errori
degli altri. Causa della mancanza di autostima è spesso
una comunicazione velata, in cui non risulta chiaro quale
posizione assumere.
Ma non è mai troppo tardi per apprendere Pautosti-
ma o per rinforzarla: in qualsiasi momento si può so
stituire la mancanza di comunicazione con una comu
nicazione positiva e fare così sempre nuove esperienze,
che ci aiutano a riempire la nostra pentola vuota. Gli
ospiti, nella nostra casa di accoglienza, si sono aiutati
reciprocamente — tramite nuove forme di colloquio —
ad avere una pentola piena. Il livello di comunicazione
è indiscutibilmente molto importante per far nascere
l’autostima: non basta che una famiglia sia affettuosa,
se è incapace di colloquio. L ’affetto, da solo, non è suf
ficiente a far nascere l’autostima: è necessaria anche la
premessa umana di una comunicazione riuscita, perché
noi ci stimiamo importanti l’un l’altro e dinanzi a Dio.
21
L ’acccttazione dell’om bra
22
sive, non appena uno entri in contatto con i propri punti
deboli. In questo caso chi appare esternamente sicuro
di sé perde all’improvviso il controllo. La sua sicurez
za esibita si sgretola all’improvviso. Colui che invece
ha accettato la propria ombra, può reagire con calma
quando fa una brutta figura o quando venga bersaglia
to dalle critiche. Egli si conosce, si è riconciliato con
i suoi limiti e le sue qualità. In questo modo tutto quel
lo che si dice di luì non lo può sconvolgere tanto facil
mente, perché il fondamento su cui poggia ha due ba
si, i due poli che ha accettato dentro di sé.
Per C ệ G. Jung la via verso una sana autostima pas
sa per l’accettazione dell’ombra, per l’integrazione di
anima e di animus e per l’ammissione dell’immagine di
Dio, che si esprime nell’animo umano in immagini e sim
boli. Jung parla di realizzazione del sé, non di realizza
zione dell’io. Il sé si distingue dall'io: solo l’io è coscien
te. Esso è il nucleo cosciente a partire dal quale io mi
decido. Ciò appare chiaramente all’esterno quando di
co: « Voglio dò adesso. Io mi decido in questo modo
adesso. Io vado là adesso. Io non ho voglia ». L ’io vuole
fare impressione. Noi ci aggrappiamo spesso all’io, ma
per giungere ai sé, dobbiamo lasciare il piccolo io. Dob
biamo scendere nella nostra profondità e scoprire il ve
ro nucleo della nostra persona. Spesso, tuttavia, non
è facile per gli uomini « scendere dalla loro altezza e ri
manere in basso. Si ha paura in primo luogo di una per
dita sociale di prestigio e poi di una perdita della con
sapevolezza morale di sé, quando si deve ammettere a
se stessi la propria debolezza » 5. Dobbiamo scendere
nei nostri abissi prima di imbatterci nell’immagine di
23
Dio. Solo colui che ammette in sé l’immagine di Dio
può trovare il proprio sé; e solo colui che ha trovato
questo nucleo interiore, il suo vero sé, ha un vero sen
so di autostima.
Chi è in contatto col proprio sé si sente indipendente
dall’opinione altrui, trova se stesso, la propria dignità.
E diviene capace di rimanere presso di sé e di continua
re a starci. Il viaggio nella propria interiorità è così af
fascinante che non si considerano più così importanti
la lode e la correzione che giungono dairesterno. Jung
lo afferma in una sua lettera: « Il valore di un uomo
non si esprime mai nella relazione con l’altro uomo, ma
esiste in sé. Perciò non dobbiamo mai far dipendere la
consapevolezza di noi stessi o la nostra autostima dal
comportamento di un altro uomo, anche se possiamo
risultarne danneggiati » s. Autorealizzazione significa
raggiungere un vero sé e perciò rendersi indipendenti
dal giudizio degli uomini.
Secondo Jung all’autostima appartiene anche la ri
conciliazione con la propria storia: ciò significa che non
ha senso rivangare continuamente nel proprio passato
e cercare in esso le cause per una mancanza di fiducia
in se stessi. Una volta 0 l’altra ognuno dovrà assumersi
la responsabilità della propria vita, dovrà accettare il
proprio passato come materiale che è disposto a mo
dellare. Si può creare una bella statua dal legno, si può
scolpire qualcosa di meraviglioso dalla pietra e model
lare qualcosa di prezioso con l’argilla: tuttavia bisognerà
trattare il legno come legno e la pietra come pietra, al
trimenti non se ne potrà ricavare una figura. Il nostro
passato è il materiale che abbiamo a disposizione: pos
24
siamo modellare con esso una bella figura, indipenden
temente dal fatto che si tratti di legno o di pietra o di
argilla; ma dobbiamo adattarci a questo materiale, dob
biamo riconciliarci con la nostra storia. Allora essa può
diventare preziosa per noi. Ripeto continuamente alle
persone che accompagno: « La tua storia è il tuo capi
tale. Se tu ti riconcili con il percorso della tua vita, esso
può produrre frutto per tanti, proprio con i suoi aspet
ti più difficili ».
Se mi assumo le responsabilità della mìa vita, smet
terò di cercare in altri la colpa delle mie miserie. La re
sponsabilità mi aprirà gli occhi sulle possibilità che io
solo ho per realizzare l’immagine unica che Dio si è fatto
di me. Per far ciò devo però allontanarmi da ideali trop
po alti con cui forse mi identifico: non si tratta di di
ventare perfetti e privi di errori, ma di divenire un tut-
t ’uno con me stesso, con tutte le dissonanze che si tro
vano in me. Avere una sana autostima significa per c .
G. Jung trovare un significato per la luce e il buio den
tro di me, per gli aiti e i bassi, per il bene e il male, per
il divino e l’umano. Si tratta dell’intuizione secondo la
quale Dio vuole nascere in me in maniera unica: il sé
è in ultima analisi rimmagine di Dio in me, l’immagi
ne unica che Dio si è fatto di me.
Il sé spirituale
25
nitori, ci definiamo a partire dal successo e dal rendi
mento, dall’accettazione e dalle conferme, dall’atten
zione e dalle relazioni. Finché ci identifichiamo con i
nostri sentimenti e i nostri bisogni, con i nostri stati di
salute, ne dipendiamo e diventiamo ciechi nei confron
ti della realtà del sé. Dobbiamo abbandonare l’identi
ficazione con uomini, con ruoli, con il nostro lavoro
e il nostro rendimento, per scoprire chi siamo realmen
te. Dobbiamo dis-identificarci per trovare il nostro sé
spirituale.
La psicologia transpersonale ha sviluppato l’eserci
zio della dis-identificazione. Osservo i miei pensieri, i
miei sentimenti, le mie passioni e poi mi dico: « Sento
la mia ira, la osservo. Ma non sono identico alla mia
ira. Io non sono la mia ira: dentro di me c’è un punto
che può osservare l’ira, che non è più determinato dal
l’ira». È il testimone inosservato, il vero sé. Roberto
Assagioli, uno psichiatra italiano, ha sviluppato que
sto esercizio di dis-identificazione. Prima si deve per
cepire il proprio corpo e poi ci si deve rendere consape
voli del fatto che è possibile trasformarlo. Dal corpo
si deve ritornare al sé spirituale, al centro della coscienza
pura, che osserva il corpo trasformabile e resta tutta
via costante e immutabile. Questa è la nostra vera iden
tità. Assagioli chiama questo sé spirituale « un centro
di pura autocoscienza e autorealizzazione » 7.
Noi siamo perciò più dell’io che si intende afferma
re, che appare sicuro e consapevole del proprio valore.
Il sé spirituale è la patria interiore, nella quale siamo
totalmente in noi, nella quale scopriamo che il nostro
26
vero sé è stato formato da Dio: è l’immagine unica e
inconfondibile che Dio si è fatto di noi. Non si tratta
dunque semplicemente di apparire sicuri di noi stessi e
consapevoli del nostro valore. Noi siamo più di ciò che
viviamo all’esterno, indipendentemente dalla nostra ap
parenza, sicuri o insicuri, forti o deboli. Perciò il nostro
compito consiste nell’abbandonare la nostra autovalu
tazione. Non è importante come valuto me stesso, se
mi valuto migliore o più forte degli altri. Non scopro
me stesso contemplando le ferite della mia infanzia e
analizzando le mie paure, che dipendono dalla mancanza
di fiducia in me stesso: decisivo è che scopra il segreto
del mio vero sé. Per lo psicologo transpersonale Bur-
gental il nostro problema consiste nel fatto che cerchia
mo sempre il nostro sé all’esterno, nelle conferme ester
ne, nei successi esterni, nella sicurezza esterna. Ma lo
possiamo trovare solo all'interno, nel mondo interiore
della nostra anima, nella nostra vera patria: « La no
stra patria è all'interno. E là siamo sovrani. Finché noi
non riscopriremo questa verità antica — e d ò ognuno
per sé e a proprio modo — siamo condannati a vagare
e a cercare consolazione là dove non esiste: nel mondo
esterno » 8. È dunque troppo poco avere esternamente
una notevole consapevolezza di sé, presentarsi bene, sa
per tralasciare critiche e saper gestire le opposizioni. In
questi casi appariamo sì esternamente sicuri e consape
voli di noi; ma non abbiamo scoperto il nostro vero sé.
La consapevolezza di noi è infatti costruita sulla sab
bia, non siamo davvero in contatto con il nostro sé.
27
Il mio vero sé è più del risultato della mia storia, più
del risultato della mia educazione e del mio lavoro su
me stesso: esso è qualcosa di chiaramente divino, un
mistero, perché Dio stesso vi si esprime in maniera uni
ca. È l’immagine originaria che Dio si è fatto di me,
è la parola di Dio unica che vuole diventare carne in
me. È la parola originaria di Dio, che riguarda un solo
e unico uomo. La Parola che deve divenire udibile nel
mondo tramite noi. Il sé spirituale è questa unica e in
confondibile parola di Dio che intende diventare visi
bile e udibile dentro di me.
Esistono tante immagini per esprimere r autostima,
immagini che sono state sviluppate dai vari psicologi.
Possiamo però osservare anche immagini contenute nella
Bibbia per una sana autostima. Vi troviamo l’immagi
ne dell’albero che nasce dal seme di senapa piccolo e
insignificante (Mt 13,31ss). L ’albero cresce alto e af
fonda profondamente le proprie radici nella terra: è
un’immagine per l’uomo che accetta se stesso, che non
si fa abbattere facilmente, perché è saldamente fonda
to in Dio. Così ci si può appoggiare a esso, cercare pro
tezione e rifugio nella sua ombra. C’è poi l’immagine
del tesoro nascosto nel campo (Mt 13,44ss). Il tesoro
nascosto è l’immagine di noi stessi: esso si trova in mezzo
al campo, in mezzo alla sporcizia. Dobbiamo vangare
la terra per trovare il nostro vero sé. C’è l’immagine
della perla preziosa (Mt 13,45ss). La perla nasce nella
ferita dell’ostrica, In mezzo alle nostre ferite possiamo
trovare il nostro sé, l’immagine che Dio si è fatto di noi.
La ferita frantuma tutte le immagini che abbiamo in
dossato e con le quali occultiamo il nostro vero sé.
Con queste immagini la Bibbia ci mostra chi siamo
veramente; ci mostra che il nostro sé è un mistero in
28
cui Dio stesso si rivela, nel quale siamo parte di Dio.
E intende mostrarci che siamo più della nostra storia
e del nostro passato, anche se essi ci hanno segnati. Ciò
risulta chiaro dall’immagine del tronco d’albero dal qua
le nasce un ramoscello: da ciò che è potato, distrutto,
ferito, andato in rovina, nasce un nuovo germoglio. Il
sé non è qualcosa che possiamo tener stretto: esso di
viene visibile proprio quando qualcosa nella nostra vi
ta viene potato e tagliato via. Questo è il messaggio con
solante della Bibbia: il sé può rinascere nuovamente dai
cocci della nostra vita, che rifiorisce proprio là dove tutto
appare sterile, e diviene benedizione per gli altri (cfr.
Is 11,1). È un’immagine consolante, che non scambia
il nostro sé con il successo esteriore e la sicurezza ester
na, ma scopre proprio nell’insuccesso, in mezzo alle fe
rite, un sé formato da Dio, che resiste a ogni devasta
zione e scombussolamento esterni, perché giunge dalle
mani di Dio.
29
2
Il piccolo
30
compensati con il fatto di mettersi particolarmente in
risalto. In qualcuno i sensi di inferiorità si nascondono
dietro a un comportamento arrogante: ci si costruisce
una facciata sicura di sé, si assume un’aria di sufficien
za e si guardano gli altri dall’alto in basso. Spesso que
sto è un segnale del fatto che dietro la facciata non c’è
alcun edificio considerevole, ma una catapecchia. Ed
è questa che tuttavia si vorrebbe nascondere dietro la
propria facciata arrogante. C’è chi invece mette in atto
la propria compensazione, vantandosi del proprio de
naro 0 delle proprie capacità.
La storia di Zaccheo è la tipica storia che riguarda
il complesso di inferiorità e il tentativo di compensarlo
(Le 19,1-10). Di Zaccheo, capo dei pubblicani, si dice
che era basso di statura. Questa è proprio un’immagi
ne dell'uomo che si sente piccolo e per questo si deve
rendere grande. Zaccheo cerca di compensare i propri
sensi di inferiorità nel guadagnare più denaro possibi
le. Come capo dei pubblicani riscuote denaro senza cle
menza: egli crede che, se diventa l’uomo più ricco, sa
rà finalmente considerato e stimato da tutti. Ma si tratta
proprio del contrario: quanto più egli cerca di compen
sare la propria inferiorità con il denaro, tanto più vie
ne evitato da tutti. Viene emarginato dalle persone pie
come peccatore e si imbatte in un circolo vizioso, che
per molte persone « basse di statura » è tipico. Si inten
de compensare la propria inferiorità con l’apparire, col
diventare i primi della classe 0 accumulando sempre più
ricchezze. Si desidera infine valere qualcosa per gli al
tri e si esagera nella descrizione delle proprie capacità
ed esperienze. Ma quanto più si mette in mostra il pro
prio valore e il proprio genio, tanto più si viene rifiuta
ti. Noi pure reagiamo in maniera simile quando qual-
31
cuno nella nostra comunità, sul posto di lavoro, in fa
miglia si mette regolarmente in mostra. Involontaria
mente cresce in noi un sentimento di rifiuto. Chi si mette
in mostra, chi compensa la propria inferiorità, viene ri
fiutato e riceve sempre meno dalla vita.
Gesù guarisce la mancanza di autostima di Zaccheo
semplicemente guardandolo e invitandosi a pranzo da
lui. Non lo condanna, non gli fa alcun rimprovero, ma
lo accetta incondizionatamente. Quest’esperienza di es
sere accettato senza condizioni trasforma il pubblicano
ricco e avaro. Ora egli fa di più delle persone pie che lo
condannano. Ora dà la metà dei suoi beni ai poveri. Non
ha più bisogno di rendersi grande. Ora cerca la comu
nione con gli uomini, condivide con essi i propri averi
e la propria vita. Così egli si sente uomo tra gli uomini.
Sì, a casa sua si radunano tutti i pubblicani e peccatori
e mangiano assieme a Gesù, il quale comunica loro la
misericordia di Dio e il suo amore per l’uomo.
Secondo Alfred Adler la guarigione del senso di in
feriorità passa esclusivamente attraverso il senso di co
munione. Luca ha voluto dire proprio questo nella sto
ria di Zaccheo: non la concentrazione su se stessi, non
la ricerca di riconoscimento e di importanza, ma la di
sponibilità di darsi agli altri uomini, di condividere con
essi la vita. Nella convivenza con gli altri sento di avere
valore, mi sento un membro accettato della comunità
umana.
I] paralitico
32
di (Me 2,1-12). Gesù riconosce che la paralisi non è so
lo esterna, ma è determinata da un atteggiamento inte
riore: per questo, prima gli perdona i peccati. Il parali
tico deve modificare il proprio atteggiamento interiore
prima di potersi alzare in piedi anche fisicamente. Le
persone che soffrono di mancanza di autostima si sen
tono spesso paralizzate. Si sentono bloccate alla pre
senza di determinate persone e non riescono a uscire da
se stesse. Non hanno il coraggio di esprimere la pro
pria opinione. Danno ad altri così tanto potere, da sen
tirsi poi piene di impedimenti accanto a loro, oppure
non hanno il coraggio di prendere la parola quando si
trovano in un gruppo. Temono di dire qualcosa di sba
gliato e di cui gli altri possano ridere. Il paralitico non
è presso di sé; guarda continuamente agli altri, a ciò che
essi potrebbero pensare, all’effetto che egli fa su di lo
ro, Piuttosto spesso si mette in testa che gli altri stiano
pensando a lui, che ridano e parlino male di lui: tutto
ciò che vede negli altri, lo riferisce subito a se stesso.
E questo lo paralizza.
Una donna entra in chiesa e si sente osservata da tut
ti: preferirebbe uscire per evitare gli sguardi degli altri.
In realtà, gli altri non la guardano affatto. Si tratta di
un problema diffuso: persone prive di fiducia in se stesse
pensano che gli altri le osservino continuamente, che
gli altri parlino di loro. Allora può accadere che uno
viaggi in treno e pensi che i giovani accanto a lui lo de
ridano. In realtà stanno ridendo tra loro. Colui che non
è in se stesso, attribuisce ogni cosa a sé: gli altri parla
no di me, mi osservano, vedono come sono insicuro;
pensano a me, mi perseguitano. L ’ho vissuto io stesso
quando, dopo l’ordinazione sacerdotale e gli studi teo
logici, ho ricominciato a studiare economia e commer
33
ciò. Mi sentivo completamente spaesato nel mio ruolo
e personalmente non stavo bene: provavo sempre disa
gio ad andare in tram all’università. Pensavo sempre
che gli altri mi fissassero, non ero presso di me. L’uni
co aiuto era quello di immergermi in uno scritto e di
strarmi così dagli altri. Allora non mi aiutava convin
cere me stesso del fatto che gli altri non mi stavano os
servando. Dovevo piuttosto ripetermi: « Se mi osserva
no, è un problema loro. Io sono io ». Ciò mi ha aiuta
to pian piano a rendermi meno dipendente dagli altri.
In una signora lo scarso senso di autostima si è ma
nifestato nel fatto di sentirsi continuamente controlla
ta dal marito. Quando le domandai se suo marito la con
trollasse realmente oppure se lei se lo immaginava sol
tanto, dovette ammettere che interpretava ogni sempli
ce domanda di suo marito come un atteggiamento di
controllo 0 critica. Poiché essa non ha stima di sé, vive
ogni parola di suo marito come un rifiuto. Allora si sente
paralizzata: ha l’impressione che suo marito non la pren
da sul serio. In verità è lei stessa a non prendersi sul
serio, non si crede capace di alcunché. Soffre del fatto
che la gente non la considera; in realtà gli altri la sti
mano molto. Solo perché lei non si stima ha l’impres
sione che tutti gli altri non la apprezzino nelle sue ca
pacità. Poiché lei per prima non si prende sul serio, non
si sente considerata dagli altri. Se entrambi gli sposi han
no scarsa autostima, il più delle volte non sono capaci
di discutere in maniera imparziale. Ciascuno si sente at
taccato dalle osservazioni dell’altro e si deve subito di
fendere e giustificare. La minima critica fa provare lo
ro una sensazione di insicurezza. Allora devono affer
marsi in maniera spasmodica: ciascuno ha paura di per
dere, perciò deve continuamente ferire l’altro ế Così nasce
34
un’insanabile confusione, un’eterna battaglia in trincea,
nonostante i due sposi si amino come prima.
Gesù guarisce il paralitico, invitandolo semplicemente
così: « Sorgi, prendi il tuo lettuccio e vattene a casa »
(Me 2,11). Con questo imperativo vieta al paralitico di
concentrarsi solo su se stesso, di pensare se sarà capace
di camminare in maniera corretta e accettare se stesso.
Infatti tutti questi pensieri gli impediscono di alzarsi.
Una volta, quando ho tenuto un corso per psicologi sul
l'interpretazione della Scrittura in prospettiva di psico
logia del profondo, questi sono rimasti entusiasti del
metodo terapeutico di confronto di Gesù. Qualcuno os
servò che il compito comunemente riconosciuto come
il più importante della psicologia è quello di compren
dere l’altro. Ma egli avvertiva che semplicemente com
prendere era troppo poco, perciò desiderava raggiun
gere il metodo di confronto di Gesù. Tramite il confron
to, Gesù toglie all’ammalato l’illusione, non gli lascia
via di scampo per affrontare la propria verità. Egli non
può più illudersi: non gli rimane altro che alzarsi. Deve
prendere sottobraccio il lettuccio, simbolo della sua ma
lattia, e camminare. Tutti noi ci libereremmo volentie
ri delle nostre inibizioni, delle nostre insicurezze, sia
mo addolorati dalle nostre paresi e ci alzeremmo vo
lentieri. Ma ci alziamo solo se siamo sicuri che gli altri
non notano più le nostre debolezze e inibizioni. Gesù
ci invita ad accettare le nostre inibizioni, a prenderle
addirittura sottobraccio, a trascurarle anziché a farci
paralizzale da esse. Il lettuccio che portiamo sottobrac
cio ricorda a noi e agli altri che siamo sempre insicuri
e inibiti. Ma non ci lasciamo tenere a letto da questi sen
timenti! Dobbiamo accettarli e portarli con noi, senza
farci determinare da essi.
35
Colili che fa confronti
36
della nostra vita, se ci assumiamo la responsabilità per
noi stessi. Quando il malato cerca di eludere la doman
da di Gesù con il confronto, Egli gli comanda in ma
niera analoga alla storia precedente: « Alzati, prendi il
UIO giaciglio e cammina» (Gv 5,8). Possiamo alzarci
in piedi, camminare. Mettiamo da parte i confronti,
smettiamo di lamentarci, di piangere! Alziamoci, met
tiamoci in piedi, raddrizziamoci, stiamo diritti! Possia
mo camminare. Ne siamo capaci.
il pusillanime
37
propria vita. Così una vita di paura diviene infine pianto
e stridor di denti. Il terzo servo ha paura di Dio. Molte
persone sono state ferite nella loro autostima, perché
è stato loro mostrato un Dio che suscita paura. L ’im
magine di sé dipende fortemente dall'immagine di Dio:
l’immagine di Dio è infatti l’immagine archetipa più for
te in noi. Essa esercita un influsso determinante sull’e
sperienza di noi stessi e sulla nostra immagine del sé.
Chi, da bambino, pensando a Dio ha avuto paura per
ché il Dio che gli è stato annunciato fa paura, deve sot
terrarsi, deve cercare di controllare tutto. La sua im
magine del sé diviene catastrofica. H a paura non solo
di Dio, ma anche di tutto ciò che lo minaccia: ha paura
della morte, del fallimento, di fare brutta figura davanti
agli altri. Con la parabola dei talenti Gesù insegna che
un uomo come questo, che ha un’immagine di Dio che
incute paura, non ha alcuna chance. A lui sarà tolto tut
to: anche quello che ha (Mt 25,29). Nel descrivere le con
seguenze della paura, Gesù vuole invitarci a percorrere
la via della fiducia, a rischiare la nostra vita, a mettere
in gioco noi stessi. Non si tratta di moltiplicare i nostri
talenti, ma di rischiare la nostra vita.
Se qualcuno, durante l’infanzia, ha sperimentato Dio
come un contabile, oppure l’ha sperimentato come un
signore arbitrario, se lo vede come un giudice severo
e che punisce, non può sviluppare alcuna percezione del
proprio valore. Dinanzi al Dio contabile, che prende no
ta di tutte le nostre azioni, non abbiamo alcuna possi
bilità di sentirci preziosi. Ci sentiremo continuamente
giudicati e condannati. A molti uomini e donne, durante
la loro infanzia, è stato mostrato un Dio che non con
sente di provare gioia nella vita, che li opprime e li smi
nuisce, che li giudica anziché incoraggiarli. U n’imma
38
gine crudele di Dio conduce sempre a un’immagine ca
tastrofica del sé. L’immagine del Dio castigatore viene
spesso interiorizzata in una coscienza spietata, che tor
menta se stessa, che punisce se stessa e continuamente
si sminuisce e svaluta. Nella coscienza spietata l’imma
gine interiorizzata di Dio esercita la sua forza distrut
trice, senza che ci si possa difendere da essa. La paura
di Dio conduce a una paura di se stessi, degli abissi del
ia propria anima. Non si ha il coraggio di guardare in
se stessi e di accettare tutto ciò che c’è in noi.
Le ferite che derivano da un’immagine erronea di Dio
sono evidentemente diverse negli uomini e nelle donne.
Gli uomini si sentono lesi nella loro autostima da un
Dio che loda soltanto coloro che sono umili, davanti
al quale possiamo essere solo persone che ricevono e
non partecipare alla creazione, davanti al quale ci pos
siamo sentire solo peccatori, poiché la nostra forza viene
corrosa in partenza. Molte donne si sentono invece fe
rite da un’immagine di Dio unilateralmente maschile e
da una teologia puramente razionale, che inconsapevol
mente, insieme al sentimento, sminuisce anche la don
na. In alcuni ambienti cattolici le donne sperimentano
spesso l’esclusione dal presbiterato come una svaluta
zione. Talvolta le donne hanno l’impressione che alcu
ni gruppi di devozione rifiutino il loro essere donne e
che esse possano entrare a farvi parte solo come neutro
asessuato: in tali ambienti è difficile, per una donna,
sperimentare il proprio valore e sviluppare una sana sti
ma di sé.
39
Il curvo
40
di affrontare la vita eretta, non sa ammettere la pro
pria dignità. È stata piegata dal peso della vita. È pos
sibile che altri l’abbiano sottomessa, che non potesse
ribellarsi. Forse qualcuno le ha spezzato la spina dor
sale, forse ha proiettato tutti i suoi sentimenti repressi
nella schiena. E questa non poteva più sopportare il peso
dei sentimenti rifiutati. Gesù raddrizza la donna guar
dandola, la chiama a sé e le esprime tutto il positivo
he vede in lei. La tocca delicatamente. Egli non dice
semplicemente: « Coraggio », ma tocca la donna, per
ché essa possa entrare in contatto con la forza e la di
gnità che è dentro di lei. Toccata dall’amore di Gesù,
essa si alza immediatamente e loda Dio: ora avverte la
propria dignità intoccabile come donna e inizia, in mez
zo alla sinagoga, a lodare Dio. Gesù desidera l’uomo
diritto in piedi, mentre il capo della sinagoga, che a sua
volta non ha spina dorsale, e perciò si nasconde dietro
le norme rigide, vuole piegare gli uomini sotto il far
dello della legge.
Gesù raddrizza la donna di sabato e cioè durante il
culto, nella sinagoga. Con dò rivela come vuole che sia
inteso il culto: non lo celebriamo nel suo nome se cari
chiamo gli uomini di fardelli, se inculchiamo loro una
cattiva coscienza e chiediamo che si pieghino come pec
catori e si facciano piccoli dinanzi a Dio. Nel senso in
teso da Gesù, ii culto è solo quello grazie al quale gli
uomini si fanno eretti, scoprono la propria intoccabile
dignità divina. Il messaggio del Dio che ci dona la sua
dignità divina raddrizza gli uomini e rinforza così il lo
ro senso di autostima.
Talvolta durante i corsi faccio fare l’esercizio di met
terci prima in piedi e di percepire così la comunicazio
ne tra cielo e terra. Dopodiché facciamo cadere prima
41
la testa, poi le spalle. Questo movimento comprime e
impedisce il flusso del respiro. Poi camminiamo curvi
nella stanza; si vede solo lo stretto orizzonte attorno ai
propri piedi; il volto si rabbuia sempre di più, lo stato
d’animo si modifica. Allora raddrizzo il primo, acca
rezzandogli la schiena. Se gli massaggio abbastanza a
lungo la schiena, chi è curvo si raddrizza da sé: non l’ho
umiliato con il mio atteggiamento, ma egli stesso si è
messo in movimento con le sue forze, quando l’ho toc
cato.
Per me la guarigione della donna curva è un’imma
gine del nostro essere cristiani: siamo discepoli e disce
pole di Cristo, se percepiamo la nostra intoccabile di
gnità. Crediamo alla risurrezione di Cristo, se cammi
niamo diritti nel mondo. Siamo di più della nostra quo
tidianità con i suoi affanni e le sue preoccupazioni. Sia
mo figli e figlie di Dio. Nella liturgia ci immedesimia
mo continuamente in questa dignità dei figli di Dio, ad
esempio quando durante una processione camminiamo
diritti, oppure quando lodiamo Dio a braccia aperte.
Percepiamo il valore del nostro sé non attraverso ciò
che facciamo, ma attraverso la nostra dignità, che ci
è stata donata da Dio. Gesù non ci vuole vedere in pri
mo luogo come peccatori, ma, ancor più, come figli e
figlie di Dio, che partecipano alla vita divina.
Perciò il continuo ruotare intorno al peccato contrad
dice lo spirito di Gesù. In alcuni ambienti ecclesiali la
persona viene prima denigrata, perché poi si possa ri
fugiare nella misericordia di Dio. Ogni senso di auto
stima viene considerato con sospetto: la persona deve
prima essere demolita nella propria autostima, per po
ter poi ricevere con gratitudine il perdono dei propri pec
cati da parte di Dio. Naturalmente siamo tutti peccato
42
ri davanti a Dio: ma la buona notizia di Gesù è che noi
veniamo accettati da Dio, che possiamo essere così co
me siamo, che veniamo accolti senza condizioni. Ciò
ci fa stare dritti. La Chiesa cattolica festeggia il « rad
drizzamento » della donna curva con una festa parti
colare: si tratta della festa dell’immacolata Concezio
ne. In Maria festeggiamo la nostra liberazione: in noi
— questo è il significato di questa festa — c’è uno spa
zio ove il peccato non può entrare. Laddove Cristo è
in noi, veniamo esclusi dal peccato, là il peccato non
ha alcuna chance. Là siamo in contatto con il vero sé,
che non è corrotto dal peccato. La festa celebra ciò che
la lettera agli Efesini dice a noi tutti: in Cristo Dio P a
dre ci « elesse prima della creazione de] mondo, perché
fossimo santi e irreprensibili davanti a lui nell’amore,
predestinandoci a essere suoi figli adottivi, tramite Ge
stì Cristo, secondo il benevolo disegno della sua volon
tà, a lode dello splendore della sua grazia, con la quale
ci ha gratificati nel Diletto » (Ef 1,4-6).
Gesù non ci vuole dire prima di tutto che siamo pec
catori, ma che siamo figli e figlie di Dio, che Dio ci ha
scelti per questo, che egli vuole prendere dimora in noi,
che la ricchezza della sua grazia, del suo amore, della
sua delicatezza è in noi (cfr. Gv 14,23 e Ef l,7ss). I pri
mi cristiani hanno sempre ringraziato Dio di averli fat
ti rialzare tramite la risurrezione del suo Figlio e di aver
donato loro una dignità divinaẵ Non il cristiano curvo
e abbassato, ma quello diritto e alzato ha compreso ciò
che Gesù Cristo ci ha donato con la sua incarnazione,
la sua morte e risurrezione.
43
L ’adattato
44
tamento. Questa però non è vita, ma sopravvivenza10.
Persone di questo tipo vivono sempre nella tensione di
essere accettate o meno dagli altri: poiché esse stesse non
si accettano, sono sempre concentrate sul fatto di esse
re accettate dagli altri, per poter così sperimentare il loro
diritto di esserci. E hanno sempre paura di essere rifiu
tate: esse riferiscono tutto ciò che vedono a se stesse.
Pensano che gli altri parlino e ridano di loro. Poiché
esse stesse non si accettano, pensano che anche gli altri
non le accettino. Tuttavia il loro più struggente deside
rio è di essere finalmente accettate, di poter finalmente
valere agli occhi degli altri. Un comportamento che ri
cerca l’approvazione è davvero una vita di livello ridotto:
ci si deve sempre adattare agli altri; si ha paura di espri
mere la propria opinione, perché potrebbe essere derisa.
Gesù guarisce l’uomo che si adatta, provocandolo:
« Levati su, in mezzo! » (Me 3,3). Adesso egli non può
più adattarsi, ora deve porsi davanti alla sua verità.
Adesso deve stare di fronte a se stesso. Sì, ora verrà esa
minato criticamente da tutti coloro che gli stanno at
torno; infatti i farisei osservano esattamente se Gesù lo
guarirà di sabato e se in tal modo scavalcherà un co
mandamento. Gesù però non si adatta: egli fa ciò che
ritiene giusto. E tiene fede al proprio comportamento,
alla propria convinzione che per Dio la persona è più
importante dell’osservanza dei comandamenti. Egli
guarda ciascuno dei farisei, che non hanno alcuna sti
ma di sé, ma si trincerano dietro la norma comune. Gesù
guarda ciascuno « con sdegno e rattristato ». Con lo sde
gno egli si difende dalla durezza del loro cuore. Prende
le distanze da loro e fa ciò che secondo lui è giusto. Con
45
la tristezza però avvicina ognuno a sé, lo comprende
e si rattrista per la sua caparbietà, per la sua vita caren
te. Gesù ha un forte senso di autostima: egli sa ciò che
vuole. E lo fa, nonostante tutti si rivoltino contro di
lui. Egli non ha bisogno di rendersi amabile agli occhi
degli uomini: fa ciò che sente da Dio e proprio così si
mette all’altezza degli uomini.
L’arrogante
46
sunzione attraverso l’umiltà, humilitas: ci vuole corag
gio per accettare il proprio essere terreni e la propria
umanità e così riconciliarsi con il fatto che si viene dal
ia terra. Gesù spalma dello sporco sugli occhi del cieco
per dirgli: «T u potrai vedere soltanto quando sarai
pronto a vedere anche lo sporco in te e a riconciliarti
con esso ». Ma Gesù non rinfaccia la verità al cieco: egli
spalma con amore sui suoi occhi questa « pappa » fat-
la di terra e fango. La pappa è qualcosa di materno.
Solo perché Gesù tratta il cieco con delicatezza e ma
ternamente egli può aprire gli occhi e guardare la pro
pria realtà. L'humilitas (umiltà) guarisce la hybrìs (pre
sunzione). L 'humilitas non ha a che fare solo con Vhu
mus, con la terra, ma anche con l’umorismo. Per poter
accettare se stessi ci vuole umorismo. Gli arroganti e
i presuntuosi ne sono per lo più privi. Guai se qualcu
no li tocca! Gesù guarisce il cieco avvicinandosi a lui
pieno di umorismo e permettendogli così di riconciliar
si con la sua umanità e di accettare se stesso con allegria.
Queste sono alcune delle immagini della mancanza
di autostima, cosi come ce la descrive la Bibbia. Si po
trebbero prendere in considerazione tutte le storie di gua
rigione e di volta in volta vedere negli ammalati perso
ne che hanno uno scarso senso di autostima. Così il leb
broso, che non si può sopportare. Poiché non accetta
se stesso, si sente rifiutato, emarginato da tutti (Me
1,40-45). Così l’emorroissa, che spende tutto il patri
monio per avere un po’ di giovamento, e invece peg
giora, perde sempre più sangue, diventa sempre più de
bole (Me 5,25-34). Così la figlia di Giairo, che non ha
il coraggio di vivere, che non vuole crescere, che non
osa alzarsi di fronte ai genitori (Me 5,21-24.35-43). Così
il sordomuto, che è ammutolito per la paura: sarebbe
47
rifiutato e preso in giro per ciò che dice; ha tappato le
sue orecchie per la paura di sentire qualcosa di negati
vo su di sé (Me 7,31-37). Così il ragazzo indemoniato,
che non sa esprimere 1 propri sentimenti e per questo
viene sbattuto di qua e di là con violenza dalla sua stes
sa aggressività, perché suo padre non ha creduto in lui
(Me 9,14-29). E ancora il giovinetto di Nain, che vor
rebbe vivere e non ci riesce (Le 7,11-17). Nell’incontro
con Gesù queste persone ricevono il coraggio di essere
in un buon rapporto con se stesse, di accettarsi, di riz
zarsi in piedi e di scoprire il proprio valore. Attraverso
le parole che dice loro, attraverso il suo sguardo, pieno
d’amore e il suo tocco delicato, Gesù fa loro intendere
di essere preziose e uniche. In questo modo ci mostra
le vie per le quali possiamo scoprire la nostra autosti
ma e credervi.
48
3
L’accettazione di se stessi
49
punti forti: dò può essere senz’altro giusto; ma se die
tro a ciò sta la concezione che solo i forti valgono, un
tale consiglio non conduce a nulla. Decisivo è accettar
si con tutto ciò che sta dentro di noi, non solo con i
nostri punti forti, ma anche con le nostre debolezze. Per
me ha un sano senso di autostima solo chi si permette
anche di essere debole, chi sa guardare con umorismo
alle sue debolezze.
Spesso, però, è un cammino lungo quello per ricon
ciliarsi con tutto ciò che scopriamo dentro di noi: quanto
più intensamente viviamo con gli altri, in modo tanto
più forte scopriamo i nostri Iati d ’ombra, i bisogni re
pressi, i sentimenti soffocati. Una coppia che intende
va fondare il suo matrimonio sulla fede che la univa,
dopo neanche un anno ha provato un tale senso di de
lusione da sentire dentro di sé tantissima cattiveria. La
fede era per loro una via per eludere la propria verità:
essi dovevano prima imparare lentamente, in tutta umil
tà, ad accettare i lati d’ombra dentro di sé, la voglia
di ferire, il sentimento di vendetta e la cattiveria della
quale erano capaci.
Noi non possiamo mai dire di esserci accettati: è un
processo che dura tutta la vita. Scopriamo continuamen
te dei lati, in noi, che ci fanno rabbia e dai quali siamo
delusi. Più vado avanti negli anni, più parlo con caute
la dell’accettazione del mio sé. Quando sono entrato in
convento ho pensato che avrei superato con la preghie
ra e l’ascesi tutti i miei aspetti negativi. Ma poi torna
vano sempre a galla. Ora ho abbandonato l’illusione
di diventare come mi piacerebbe: ora cerco di dire sì,
in tutta umiltà, a ciò che è, nella certezza che io, così
come sono, sono accettato da Dio. Se mi infurio per
il fatto di aver reagito ancora una volta in modo infan-
50
tile, mi dico: « Sono sempre io. Ed è permesso che sia
così ». Allora, pur nella mia delusione, avverto la pace
interiore e la tranquillità, il senso che tutto è ammesso,
che tutto va bene così com’è. E so di essere nelle mani
amorose di Dio.
Accettarsi significa riconciliarsi con la propria storia
di vita. Tanti si lamentano di aver avuto un’infanzia
difficile, durante la quale sono stati feriti. Nella guida
spừituale di persone profondamente ferite fa spesso male
guardare insieme quelle ferite: alcuni si sentono pres
sati da un atteggiamento di efficienza, come se doves
sero rielaborare tutte queste ferite. Io cerco di trasmet
tere alle persone ferite che la storia della loro vita è an
che il capitale che possono far fruttificare: se esse si ri
conciliano con le loro ferite, possono divenire sorgenti
di vita. Proprio la loro ferita le può rendere capaci di
comprendere altri e di accompagnarli. Spesso qualcu
no scopre solo allora la sua vera vocazione, avverte quale
carisma abbia sullo sfondo della propria storia. Se si
diviene capaci di riconciliarsi con la propria storia, al
lora si scopre che tutto ha un senso. Anche le difficoltà
non erano prive di senso: ci rendono capaci di vivere
ili maniera diversa, più sensibile, più intensa, più rico
noscente e aperta agli uomini. Le ferite, nel momento
in cui ci riconciliamo con esse, divengono fonte di be
nedizione per noi e per gli altri.
Per poter accettare se stessi è necessario evitare i con
fronti: fintantoché ci confrontiamo con gli altri risul
teremo sempre in svantaggio. Vi saranno sempre delle
cose in cui gli altri risultano più portati di noi. Se fac
ciamo confronti non siamo più presso noi stessi e vi
vremo sempre e solo confrontandoci con gli altri. È ne
cessario invece essere presso se stessi, accettarsi, voler
51
si bene. Se una persona ha scarsa autostima, si metterà
a fare confronti, lo voglia o no. Una donna sa benissi
mo che non deve mettersi a fare confronti, ma non ap
pena si trova in un gruppo si mette a farli. Guardare
solo i propri punti forti non le sarà quindi di alcuna uti
lità per valutarsi interiormente in maniera positiva, per
ché poi si metterà sempre a fare confronti. Sarà anche
di poco aiuto svalutare gli altri, dicendo che è tutta ap
parenza ciò che essi mostrano, perché si tratterà di sva
lutare gli altri per rivalutare noi stessi. È di più grande
aiuto passare dalla testa, che fa confronti, al cuore, che
ha sentimenti. La donna ha trovato una via per uscire
dal confronto: essa cerca di percepire il proprio respi
ro, le proprie mani, di essere presso di sé. Poi si sente
bene e può dire qualcosa, se vuole. Così non sente più
la costrizione di dover portare un proprio contributo
per avere successo con gli altri. Fintantoché essa face
va confronti si sentiva male: erano infatti gli altri a de
cidere il suo umore. Ora che è in sé, che percepisce se
stessa, può percepire anche gli altri e sperimentare la
comunione con loro.
Essere presso di sé
52
provazione. Essi inoltre non riescono a porre dei con
Sili attorno a sé: riferiscono tutto a se stessi, vengono
feriti da qualsiasi osservazione pungente. A tali perso-
ut. consiglio di mettersi a confronto con la propria ag
gressività: mediante l’aggressività è possibile segnare i
confini tra noi e gli altri. L’aggressività è l’impulso a
porre distanze dall’altro, per poter essere presso se stessi.
Talora bisogna espellere da sé chi ci ha ferito. Fintan
toché si è posseduti da un’altra persona, non è possibi
li essere presso se stessi, non è possibile sviluppare al
cuna autostima. Si è vissuti dagli altri, anziché vivere
iti prima persona.
L’essere presso dì sé può verificarsi in vario modo:
sono presso di me se ho una percezione di me stesso,
se mi fido dei miei sentimenti, se riposo in me stesso.
Non sono dipendente dall’umore degli altri, ma sono
ìli contatto con i miei sentimenti. Sono presso di me se
«fi sento nel corpo: se, ad esempio, faccio una corsa
ae! bosco e arrivo a sudare per lo sforzo fisico, allora
sono presso di me. Allora sono nel mio corpo: sento
il mio corpo e mi ci sento bene dentro. Non mi salta
neanche in mente di mettere in dubbio la mia autosti-
tna, poiché io sento, sono. Non ho bisogno di afferma
re il mio valore mediante prestazioni esterne. Mi sento,
c*questo mi fa bene. Così come io sento, nessuno sen
te. Io sono unico. Io sono me stesso. Questa non è una
conoscenza, ma un’esperienza che da sé trasmette au
tostima. Molte persone ricercano negli altri la causa dei
propri problemi: dovrebbero imparare piuttosto a sta
re presso di sé, a sondare la propria interiorità e a svi
luppare una percezione per se stesse, per i propri senti
menti e per il proprio corpo.
53
La via che passa per il corpo
54
dasso un po’ le ginocchia: allora sto rilassato come un
albero, e non come un palo di cemento. Poi posso im-
raaginarmi come il respiro, al momento dell’espirazio
ni', scorra attraverso i polpacci nel terreno, e al momento
vMl’inspirazione scorra dalla terra fin sopra la testa, ver-
•km! cielo. Io allora sono davvero un albero, che sotto
■Ị hen radicato e sopra schiude la sua chioma al cielo.
Sisio cosi a lungo, la fiducia in me può crescere. Allo-
- 1 |K*sso dire a me stesso frasi come: « So stare in pie-
i Sio con i due piedi sul pavimento. Ho un punto fer-
Sk,\, Posso sopportare qualcosa. Posso rendermi respon
si per me, per qualcosa. Sto con me stesso, sto in
« c c Oppure, nello stare cosi, posso ripetere delle fra
ti ‘.ila Bibbia: « Getta sul Signore la tua cura, ed egli
4 ?» -iterrà » (Sai 55,23). oppure: « Il Signore sta sem-
•&% .Laaiut ai raiei occhi: se sta alla mia destra, non va
n ta r J . 16,8). sperimento continuamente che la
■mi f&ssa solo dalla testa non può trasmettermi al-
f J u a a in me stesso. Gli esercizi del corpo posso-
ad accrescere sempre più la fiducia in me
jUiSNiii Vtiuralmente anche questo non è un trucco che
ỳỆỊrr-iKiM M a volta per tutte fiducia in me stesso: devo
a esercitarmi.'
......... diceva che dobbiamo stare nell’/ìara.
u fesso ventre: se abbiamo il baricentro nel
possiamo stare saldamente in piedi. Al
asi» potrà farci cadere facilmente. Stare nel-
e Í tipifica piantarsi con forza nel pavimento
.noci possa urtare. V'hara è piuttosto una
r -ós permeabilità: non mi appoggio a me stes
iti.' jfW io a Dio o alPEssere 0 , come lo chia-
Í3cư% atrEssenza. In questa apertura perce-
1TCViiMk sicurezza: poiché sono aperto a qual-
55
cosa di più grande, non devo tenermi spasmodicamen
te a me stesso, ma mi sento tenuto su da Dio.
Se durante una conferenza sto coscientemente nel-
Vhara, divento più calmo e chiaro. Molti, durante una
conferenza, si reggono al pulpito da cui parlano, oppure
continuano a cambiare appoggio da un piede all’altro;
ciò tuttavia non solo fa scaturire insicurezza, ma la raf
forza ancor di più. Porsi coscientemente nell’hara è un
esercizio nella fiducia e nella permeabilità: non si tratta
di imporsi mediante la propria conferenza; ma si tratta
del fatto che qualcosa di più grande scorre attraverso di
me, cioè del fatto che Dio parla agli uomini attraverso di
me. Molti credono che non si possa far nulla senza fidu
cia in se stessi. Ma non dipendiamo solo da questo: at
traverso il corpo possiamo esercitarci a fare entrare len
tamente maggior fiducia in noi stessi. Naturalmente, il
processo di trasformazione nel corpo avviene con lentez
za. È necessaria molta pazienza. Soprattutto, però, il
corpo non si fa ingannare: non lo possiamo usare solo
per sviluppare maggiore fiducia in noi stessi. Il corpo ci
costringe a essere onesti. Hara significa essere permeabili
per ciò che è più grande, per Dio. Una vera fiducia in noi
stessi cresce attraverso il corpo solo se rinunciamo a con
servare le nostre esigenze e i nostri criteri. Dobbiamo
essere pronti a lasciarci andare, ad affidarci a Dio, il
solo che ci doni vero appoggio e autostima.
56
Ma non è sufficiente dire agii uomini che essi do-
■«ebbero aver fiducia in Dio e che in questo modo tro
verebbero anche la fiducia in se stessi. La questione che
ÍỈ pone è come possiamo imparare ad aver fiducia in
il» : un appello alla fiducia non crea ancora la fiducia.
%«sso uomini religiosi si imbattono in un circolo vi
lloso, attribuendo la colpa della loro mancanza di fi-
Alicia in Dio alla loro scarsa preghiera, rimproveran
dosi per questo e poi cercando di pregare sempre più,
perché finalmente la fiducia cresca. Ma essi possono pre
fare quanto vogliono: continueranno a vivere situazio
ni in cui saranno privi di fiducia in se stessi. La spirale
itila preghiera ai rimproveri nei confronti di se stessi
ậi chiuderà sempre più ed essi non potranno fare alcun
■«asso avanti.
La fiducia in Dio non può essere ottenuta per forza
; ssanche con la preghiera: possiamo imparare ciò solo
unendo presente la fiducia che Dio ha in noi ed eserci-
■.iumJoci alla fiducia in Dio. Si tratta di una grazia se
a ooi, airimprovviso, appare una profonda fiducia in
§Mo e — mediante la fiducia in Dio — una nuova fidu-
«la in noi stessi. Un aiuto in questo senso è agire come
issi avesse fiducia. Possiamo, ad esempio, ripetere pa-
fole di fiducia tratte dalla Bibbia, e poi provare a vede-
3®come va, se agiamo come se esse fossero giuste. Se
àpedamo sempre il Salmo 118: «Il Signore è per me:
ami avrò timore; cosa può farmi un uomo? », allora
issia m o entrare in contatto con la fiducia che è già
á noi. c . G. Jung ritiene che in noi sono presenti sem
pre entrambi i poli: paura e fiducia. Non c’è uomo che
afebia solo paura e qualcuno che abbia solo fiducia.
Troppo spesso tuttavia siamo concentrati sulla nostra
paura. Se viviamo le parole di fiducia della Scrittura,
57
scopriamo la fiducia stessa in fondo alla nostra anima.
Così essa può crescere in noi, tanto da prenderci sem
pre più. Se meditiamo il Salmo 23: « Il Signore è il mio
pastore: nulla mi mancherà», intuiamo certo che non
si tratta di pura immaginazione. Naturalmente nutria
mo anche dubbi in proposito, se ciò non sia troppo bello
per essere vero. Durante la meditazione facciamo però
come se la frase fosse giusta: allora può crescere in noi
un sentimento di libertà e indipendenza dalle persone.
Comprendiamo che Dio ci basta, che Egli ci dà ciò di
cui abbiamo bisogno, che ci dona il nostro vero valore:
La realtà di fondo della nostra fede è che siamo ac
cettati da Dio incondizionatamente. Nel battesimo Dio
ha pronunciato su di noi la parola: « Tu sei il figlio mio
diletto, la figlia mia diletta; in te mi sono compiaciu
to » (cfr. Me 1,11). Se viviamo di questa realtà, verranno
a cadere molti dubbi, allora cesseranno i messaggi ne
gativi che spesso abbiamo udito: « Sei un buono a nul
la. Non ce la farai mai. Sei troppo stupido per questo ».
La domanda che si pone è se possiamo vivere di questa
realtà della fede, tanto da essere improntati da essa in
maggior misura rispetto alle autosvalutazioni, alle ac
cuse e ai rimproveri che ci facciamo e dei quali altri
menti viviamo. Per me la meditazione di testi biblici e
la cosciente celebrazione delle feste cristiane sono delle
strade importanti.
58
scoprire la loro autostima. Sia l’Antico sia il Nuovo Te
stamento ci annunciano in ogni pagina che abbiamo un
valore indiscutibile. Se potessimo credere alla nostra di
gnità divina, allora avremmo una sana autostima, al
lora saremmo indipendenti dal giudizio degli altri. Un
testo che ci può aiutare ad aver fiducia nella protezio
ne di Dio, e a riconoscere, in base a questa fiducia, il
nostro valore, è quello di Isaia 43: «N on temere, per
ché ti ho redento, ti ho chiamato per nome, tu sei mio.
Quando attraverserai le acque, io sarò con te e i fiumi
non ti sommergeranno. Quando camminerai in mezzo
al fuoco, non brucerai, la fiamma non ti consumerà...
Perché sei prezioso ai miei occhi, hai valore e io ti amo.
Darò uomini in tua vece e popoli in cambio di te » (Is
43,2ss). Non considero queste parole solo con la ragio
ne, ma le lascio entrare nel cuore. Indago la loro veri
tà: « Se ciò fosse la mia realtà più profonda, come mi
sperimenterei? ». Mi devo ripetere spesso le parole e dir
mi: « Questa è l’unica verità, più reale del sentimento
che tu provi in questo momento, più vera della tua stessa
autovalutazione ». Allora può accadere che io inizi a sen
tire dentro di me che Dio è in me, che ho un valore in
discutibile, che sono così prezioso agli occhi di Dio che
Lui darebbe interi popoli in cambio di me. Né l’acqua
— tutto ciò che nel mio inconscio è minaccioso e peri
coloso — mi può sommergere, né il fuoco delle mie pas
sioni e dei miei istinti mi può bruciare. Non ho bisogno
di temere minacce dall’esterno né quelle dall’interno.
Egli è con me.
Personalmente continuo a fare l’esperienza che la me
ditazione di queste parole aiuta le persone prive di fi
ducia in se stesse a scoprire il proprio valore. Vedo con
tinuamente persone che si accusano di non avere alcu
59
na fiducia in Dio e in se stesse. Esse non avrebbero in
verità alcun motivo di avere paura, perché Dio le con
duce. Tuttavia tali appelli alla fiducia sono solo noci
vi, non possono eliminare la paura. Tutte le frasi del
tipo: « Veramente dovrei... » provocano al massimo una
cattiva coscienza, perché ci si sente pieni di paura an
che se non ve ne è motivo. Non ha senso costringersi
con la volontà oppure convincersi solo per via raziona
le del fatto che si hanno sufficienti motivi per aver fi
ducia, La fiducia deve crescere, deve penetrare anche
l’inconscio e formarlo. E la fiducia può crescere, se gu
stiamo le parole di Dio e le mastichiamo, se le faccia
mo entrare sempre più profondamente dentro di noi.
Allora esse, un po’ alla volta, ci trasformeranno, allo
ra creeranno in noi fiducia e sicurezza.
Come meditazione consiglio volentieri anche Is 54:
« Giubila, o sterile, che non hai generato; prorompi in
giubilo ed esulta, tu che non hai avuto le doglie! Per
ché i figli dell’abbandonata sono più numerosi dei figli
della maritata, dice il Signore. Allarga lo spazio della
tua tenda, distendi i teli delle tue dimore senza rispar
mio! Allunga le corde, fissa bene i tuoi piuoli » (Is
54,ls). Forse ci sentiamo sterili e soli: abbiamo la sen
sazione di essere giù, di aver vissuto finora inutilmen
te, che nulla abbia valore. Se all'interno di sensazioni
di questo tipo entrano queste parole di Dio, allora po
tranno cessare le autoaccuse e le autosvalutazioni. Il sen
so di sterilità può esistere, qualche volta ci si può senti
re soli e abbandonati, Proprio per me, solo e abbando
nato, vale questo annuncio che la mia vita porterà ab
bondanti frutti. Allargare lo spazio della mia tenda si
gnifica ammettere l’ampiezza interiore, non pensare cose
troppo avvilenti per me. La mia tenda ha posto per mol
60
ti. Il mio cuore ha un’ampiezza infinita. Mi posso aprire
a Dio, Egli mi crea un ampio spazio. E posso invitare
gli uomini a prendere posto nella mia tenda. Da Dio
ho ricevuto una tenda meravigliosa, una tenda nella qua
le Dio stesso ha preso dimora. Non ho bisogno di na
scondermi, credo alla mia bellezza interiore e posso in
vitare gli uomini a rallegrarsi insieme a me della gioia
che Dio mi ha dato.
Meditando le parole della Bibbia non voglio ottene
re nulla per forza, neanche la fiducia in me stesso. Ap
pelli morali ad avere fiducia perché Dio me lo dice ser
vono a poco. Provocano solo una cattiva coscienza, il
pensiero di credere poco. La meditazione è una via più
delicata: lascio che le parole stesse della Bibbia agisca
no in me. Pongo me stesso e la mia mancanza di auto
stima in Dio, perché egli mi invada con la sua Parola,
con il suo Spirito, con il suo Amore. Durante gli eser
cìzi non si tratta di risolvere i propri problemi, ma di
lasciarsi trasformare da Dio. Se un uomo ha sentito den
tro di sé chi è davanti a Dio, allora tratterà anche i suoi
problemi in maniera diversa. Allora non dovrà costrin
gersi ad avere fiducia, conoscerà la sua più profonda
realtà, la sua dignità divina, la sua immagine unica che
Dio ha fatto per lui.
61
della festa di Natale). Celebriamo la nostra vita, per
ché è importante che venga celebrata. Nella liturgia rap
presentiamo la nostra esistenza salvata. E nell’entrare
nella rappresentazione sacra della liturgia, possiamo in
tuire chi siamo in verità. Allora può crescere in noi il
sentimento della nostra particolare dignità. Voglio di
mostrare quanto detto con l’esempio di alcune feste.
A Natale celebriamo la nascita del Signore nel no
stro cuore: Dio nasce in noi bambino. Noi non siamo
solo determinati dal nostro passato: Dio, con noi, sta
bilisce un nuovo inizio. Egli ci mette in contatto con
l’immagine non falsificata che Egli si è fatto di noi. Mal
grado io non possa credere al mio valore perché mi sva
luto continuamente, nella nascita di Cristo Dio stesso
viene da me per darmi questo annuncio: « Qualcosa di
così bello come te esiste solo una volta ». A Natale fe
steggiamo la bellezza divina che ci è stata irradiata dal
Bambino di Betlemme e che risplende in ogni volto
umano.
Ci sono tre immagini con cui a Natale ci viene rap
presentato il mistero della nostra esistenza salvata. Una
è quella della nascita di Cristo in una stalla: nel mio buio
brilla la luce di Dio e trasforma il caos nel mio cuore.
Questo evento lo festeggiamo durante la santa notte.
Non devo vantarmi di nulla con Dio: è sufficiente che
gli mostri la mia stalla. E Lui la illumina. All’Epifania
si tratta della manifestazione della gloria di Dio nella
mia carne. Una volta, nella nostra foresteria, abbiamo
tenuto degli incontri su questa festa, volendoci eserci
tare solo su quest’unica realtà: manifestazione della glo
ria di Dio nel mio corpo. Come mi sento, se ciò è vero,
se questa è la mia più profonda realtà? Era una cosa
sorprendente vedere come gli ospiti, attraverso questa
62
immedesimazione nel mistero della festa, divenissero più
belli e trasparenti e acquistassero un nuovo senso di au
tostima.
La terza immagine viene festeggiata col battesimo di
Gesù, con cui termina il tempo di Natale. Mentre si tro
vava in mezzo ai flutti del Giordano, si aprì il cielo su
Gesù e Dio gli disse: « Tu sei il Figlio mio diletto; in
le mi sono compiaciuto » (Me 1,11). I flutti del Gior
dano sono pieni della colpa di tutti i peccatori che vi
si sono fatti battezzare da Giovanni. Immergendomi nel
la mia colpa, si apre il cielo su di me. La mia vita si
amplia, si estende fino all’ambito divino del cielo. E dal
cielo Dio pronuncia la parola originaria della mia di
gnità intoccabile: «T u sei il mio figlio diletto, la mia
figlia diletta. Mi piaci ». Essere figlio e figlia di Dio:
questo mi dà il mio valore divino. Io smetto di autode
finirmi a partire dai miei genitori, a farmi determinare
dai.messaggi che ho ricevuto da loro. Non ricevo il mio
valore a partire dagli altri, da mio padre o da mia m a
dre, dalla loro attenzione o approvazione, bensì da DioỆ
Non ricevo il mio valore dal fatto che la gente mi loda
e mi sta vicino, ma dal fatto che Dio mi ha creato me
raviglioso. Essere nati da Dio: ciò mi dona libertà nei
confronti delle attese e dei giudizi degli uomini. Gesù
Cristo, il Figlio di Dio, si è fatto uomo perché io fossi
divinizzato, come dicono i padri greci della ChiesaỆ
L ’immagine che Dio si è fatta di ciascuno di noi, la
dignità divina che egli ci ha donato in Gesù Cristo, vie
ne dispiegata sempre più nel corso dell’anno liturgico.
Durante la Quaresima ci esercitiamo nella libertà inte
riore, a non essere dipendenti dalle nostre abitudini.
Questo esercizio serve a rafforzare la nostra autostima:
non siamo determinati dall’esterno, ma formiamo la no
63
stra vita autonomamente. Il digiuno serve a rendere il
corpo più trasparente di fronte a Dio. Questo esercizio
porta a una vita più intensa: infatti riusciamo a consi
derare con maggiore serietà noi stessi e il mondo attor
no a noi. Mediante il digiuno diveniamo più svegli e at
tenti. Il digiuno — cosi pensa Agostino — prepara il
nostro corpo alla risurrezione.
A Pasqua non celebriamo solo la risurrezione di Ge
sù, ma anche la nostra. Nella nostra abbazia vengono
ogni anno duecentocinquanta giovani per festeggiare con
noi la Pasqua. Essi sentono che si tratta della loro ri
surrezione, poiché Dio, nella risurrezione di Gesù, ha
sciolto anche le nostre catene, ha srotolato il sasso che
poggia su di esse e le blocca, vuole farci uscire dalla no
stra tomba, verso la vita. Essi celebrano la vittoria del
la vita sulla morte. Si alzano nel canto e nella danza
contro ogni forza che ostacola la vita. Si alzano per ce
lebrare in piedi la vittoria della vita sulla morte, la vit
toria dell’amore sull’odio. Si fanno sollevare da Cristo,
dalla tomba della loro paura e della loro mancanza di
speranza, per celebrare in piedi la loro dignità di uomi
ni salvati e liberati. Molti giovani mi hanno raccontato
che la celebrazione intensa della Pasqua li ha veramen
te levati in piedi, che ora hanno più coraggio, che han
no avuto la percezione di valere di più.
A Pentecoste viene perfezionato lo stare eretti della
Pasquaẳ Lo Spirito Santo fa alzare in piedi gli apostoli
impauriti, per annunciare a tutto il mondo la notizia
della risurrezione di Gesù. Lo Spirito trasforma gli apo
stoli paurosi in uomini pieni di fiducia: essi hanno il co
raggio di essere presso di sé, di stare con ciò che sento
no dentro di sé, con il fuoco che brucia in loro, con i
sentimenti dell’entusiasmo. Io vedo molti giovani che
64
non hanno il coraggio dei propri sentimenti: soprattut
to si rendono facilmente insicuri se altri infondono lo
ro una cattiva coscienza e in nome della morale cristia
na li incitano a vivere la loro fede in maniera più radi
cale. Lo Spirito Santo ci palla con impulsi delicati. Sen
tire questi impulsi interni, avere fiducia nei propri sen
timenti, non farsi intimorire dai moralisti: a tutto ciò
intende incoraggiarci la festa della Pentecoste. Lo spi
rito Santo è in noi, ci parla. Non è lo sconosciuto che
ci obbliga a fare qualcosa, ma lo Spirito che ci è fami
liare, che ci pone in contatto con l’immagine originaria
di Dio in noi. Se durante la preghiera entriamo nel si
lenzio, possiamo spesso sentire questo Spirito. Egli non
ci spaventa, ma ci conduce alla verità che rende liberi.
Ci mostra chi siamo veramente. Chi si fida dello Spiri
to in sé, costui smaschera il non-Spirito che spesso lo
circonda. Crescerà sempre più nell'immagine che Dio
si è fatta di lui.
Le numerose feste dell’anno liturgico intendono mo
strarci chi siamo noi, tramite Gesù Cristo, secondo Dio.
Sono immagini della nostra salvezza, immagini della no
stra dignità divina. Ciò vale anche per le numerose fe
ste dei santi, che ci indicano come ciascuno, nel suo mo
do unico, esprime Dio e lo rende visibile in questo mon
do. Ciò vale per le feste di Maria, che sono sempre fe
ste ispirate a ottimismo, che vogliono incoraggiare la
donna ad avere il coraggio della propria dignità. Pur
troppo in alcuni gruppi ecclesiali si abusa di Maria per
inculcare nelle donne una cattiva coscienza. Si è posta
Maria su un piedistallo così alto, che di fronte a lei tut
te le donne dovevano sentirsi inferiori. Ma non è que
sto il senso delle feste di Maria: in Maria noi celebria
mo la nostra salvezza, celebriamo ciò che Dio ha fatto
65
per noi in Gesù Cristo. Pensiamo, ad esempio, alla fe
sta deirAnnunciazione: essa mostra Maria come mo
dello originario della fede, come donna coraggiosa, che
si appoggia, da sola, a Dio, contro ogni aspettativa.
Mentre Israele si allontana continuamente da Dio, ella
si mette a disposizione come rappresentante del p o p o
lo di Dio, con la parola orgogliosa, piena di fiducia in
sé: « Ecco la serva del Signore; si faccia di me come hai
detto tu » (Le 1,38). La donna che proviene dall’insi
gnificante Nazaret ha il coraggio di parlare a nome del
popolo e di offrirsi a Dio. La liturgia decanta con im
magini meravigliose questo mistero della donna che Dio
ha scelto per far nascere suo Figlio. In queste immagi
ni traspare sempre anche la nostra dignità e la nostra
bellezza, la nostra vocazione: Dio vuole nascere anche
in noi. Diversamente dalla visione ufficiale della Chie
sa riguardo alla donna, la liturgia ha sempre portato
avanti una teologia coraggiosa e inascoltata. Essa ha
posto al centro delle feste di Maria la donna, la donna
mediante la quale è nato Cristo, mediante la quale la
salvezza è venuta nel mondo. La teologia femminista
oggi sta cercando di far riscoprire la visione liturgica
di Maria e della dignità della donnaệ
L’esperienza di Paolo
66
diamo: Abbà, Padre! » (Rm 8 , 14ss). Essere figlio e fi
glia di Dio: questa è per Paolo soprattutto una libera
zione dalla schiavitù degli uomini. Lo schiavo è in po
tere di altri uomini e li deve temere. Lo schiavo è l’im
magine di colui che conferisce il potere su di sé agli al
tri. Egli rende la propria autostima dipendente dagli al
tri: se gli altri si curano di lui, allora si sente bene; se
gli altri lo evitano, il mondo gli crolla addosso. Io do
potere su di me a un altro se mi rendo dipendente dal
suo umore. Vi sono persone il cui sentimento dipende
totalmente da coloro con cui vivono: se l’altro bronto
la, sono abbattute; se gira con una faccia depressa, di
ventano tristi o si sentono in colpa. Siamo figli di Dio
e non schiavi degli uomini. Non dobbiamo abbando
narci totalmente nelle mani di un altro uomo. Non dob
biamo dare agli altri potere su di noi. Devo temere co
lui che ha potere su di me. Devo vivere continuamente
nella paura che egli abusi del suo potere, che mi ferisca
e mi faccia del male. Essere figlie e figli di Dio, per Pao
lo, significa il contrario della paura. Dio ci dona il no
stro autentico valore, un valore che nessun uomo ci può
portar via. Gli altri ci possono anche ferire, ma in noi
c’è una dignità intoccabile, che nessuno ci può togliere.
A quelli che sono delusi per le proprie debolezze e
i propri errori, può essere d’aiuto l’esperienza di san
Paolo, che dice di sé: « Quando sono debole, allora so
no forte » (2Cor 12,10). Fiducia in se stessi non signifi
ca che siamo sempre forti, che siamo al di sopra di ogni
problema, che riusciamo a tenere tutto sotto controllo.
Significa piuttosto che ci accettiamo nella nostra debo
lezza, perché crediamo alla grazia di Dio, che ci alza
proprio nella nostra debolezza. Colui che fa dipendere
la propria autostima dal fatto di essere sempre forte,
67
di raggiungere sempre i suoi ideali, crollerà con l’espe
rienza della sconfitta e della debolezza. Chi invece si
permette di essere anche debole, ne trarrà vantaggio in
forza interiore. La sua autostima non sarà disturbata
dalle delusioni, perché in esse egli sa di essere condotto
da Dio. Egli riconduce il proprio valore a ciò che Pao
lo dice di se stesso: « Ne morte né vita, né Angeli né
Potestà, né presente né futuro, né altezze né profondi
tà, né qualunque altra cosa creata potrà separarci dal
l’amore che Dio ha per noi in Gesù Cristo nostro Si
gnore» (Rm 8,38ss).
68
diviso. La sua autostima è appannata. Egli ha perso il
rapporto con se stesso e la sua vera essenza.
Gesù parla all’uomo del perdono di Dio, lo incorag
gia a stare presso di sé e a ricominciare da capo. Al pa
ralitico cui perdona i peccati Gesù ordina: « Alzati, pren
di il tuo lettuccio e cammina ». Egli non deve farsi pa
ralizzare dal proprio passato. Il fatto stesso che ha pre
so le colpe su di sé, non può essere un motivo per rifiu
tare la vita. Gesù crede l’adultera capace di ricomin
ciare da capo. Le dice: « Neppure io ti condanno: va’
e d’ora in poi non peccare più » (Gv 8,11). Il perdono
rende possibile anche un nuovo inizio. Gesù sfida la don
na e le rafforza il debole io: non la umilia dandole pre
cetti morali o incolpandola del peso della legge, ma la
raddrizza fidandosi di lei. Ella non è caduta in peccato
solo perché le piaceva, ma perché non riusciva a dire
di no, perché non aveva le idee chiare, perché non ri
posava in se stessa. Ora Gesù interpella il suo io: « Tu
puoi vivere anche diversamente. Hai forza. Tenta un’al
tra vita. Vedrai che ti farà bene ». Gesù non esige alcu
na sottomissione della donna, ma la fa stare in piedi,
rivolgendosi alla forza che è dentro di lei e alla dignità
che ella in verità vuole vivere.
Possiamo aiutare gli altri ad avere fiducia in se stessi
dando loro fiducia. Ciò è evidente anche nell’incontro
di Gesù con la peccatrice in Luca 7. Dopo che Gesù le
ha perdonato i peccati, egli le dice: « La tua fede ti ha
salvata; va’ in pace» (Le 7,50). Gesù loda la sua fede.
Egli rafforza il positivo che la donna ha, la pone in con
tatto con le sue forze positive. E la incoraggia: « Va’
in pace! Noil torturarti più con i sensi di colpa. Puoi
andare in pace, in pace con te stessa, in pace con gli
uomini. Non ti devi più scusare di esserci. Tu vali. Pos
69
siedi la pace e hai una vita piena e colma in te. Vivila
ora! »,
Quello che Gesù fa con la peccatrice, con l’adultera,
i primi monaci l’hanno realizzato nell’accompagnamen
to spirituale: essi hanno incoraggiato e dato fiducia ai
discepoli che chiedevano loro consiglio. Così un padre
spirituale ha imposto a un discepolo di non parlare per
un anno intero; a un altro di mangiare solo ogni due
giorni. L ’abate, nel chiedere qualcosa al discepolo, raf
forza in lui Pautostima. Il discepolo scopre le proprie
capacità, le fa crescere e acquista voglia di vivere. Que
sto metodo, per me, vale ancora oggi come principio
direttivo. Non mi basta avere un semplice colloquio di
tipo non-direttivo, confermare semplicemente l’altro.
Sento anche che qualche volta devo esigere qualcosa da
lui, perché egli possa crescere e scoprire le sue capaci
tà, perché possa sviluppare la sua forza. Spesso do un
compito a chi fa gli esercizi: gli impongo di parlare ad
alta voce per mezz’ora con Dio, di dire a Dio tutti i sen
timenti e i pensieri che vive in quel momento. Oppure
gli do il compito di scrivere una lettera. Egli deve im
maginarsi che in punto di morte voglia scrivere a qual
cuno tutto ciò che nella sua vita intendeva trasmettere,
quella che era la sua idea-forza. Alcuni si rifiutano di
fronte a tali compiti, ma se poi vi aderiscono, ne trag
gono giovamento. Naturalmente non si tratta di imporre
qualcosa a qualcuno. Il metodo non-direttivo trova la
sua giustificazione nel fatto che fa scoprire all’uomo co
sa c’è dentro di lui, nel fatto che l’uomo stesso deve tro
vare la soluzione. Ma io sono sempre scettico quando
mi si descrive un metodo come toccasana. La mia espe
rienza dice che è importante anche l’altro polo: la pro
vocazione attiva, per rafforzare l’autostima dell’altro.
70
Provocazione non significa messa sotto tutela, non
significa consiglio — che spesso per l’altro può sembrare
uno schiaffo — ma proposta di come un indiviuo pos
sa esercitarsi nella sua libertà e dignità, per scoprire le
proprie forze e dispiegarle. Gesù provoca gli uomini,
perché crede in ciò che di buono c’è in essi. Se provoco
qualcuno nella guida spirituale e mi aspetto qualcosa
da lui, è proprio perché credo allo Spirito Santo che agi
sce in quest’uomo e che può far nascere in lui possibili
tà nuove e impreviste. Utilizzando questo sistema di con
fronto Gesù mette gli uomini in contatto con la forza
dello Spirito che agisce in loro: egli apre loro gli occhi
dinanzi al fatto che Dio ha un progetto più grande su
di loro rispetto a quello di accontentarsi di ciò che già
si conosce. Gesù sveglia gli uomini, li apre all’azione
dello Spirito e li mette in contatto con l’immagine ori
ginaria e irripetibile che Dio si è fatta di loro.
La via mistica
71
getti che si sono interposti tra la loro coscienza e il lo
ro sé.
La via verso questo luogo interiore del silenzio passa
per la preghiera e per la meditazione. Nel m o n a c h e S i
mo si è sviluppato il metodo della giaculatoria. Si col
lega al ritmo del respiro una parola della Scrittura, ad
esempio: « Vedi, sono con te », oppure la preghiera:
« Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me ».
Rivolgo la mia attenzione sul respiro e connetto la pa
rola al respiro. In questo modo mi faccio condurre, nel-
Pinspirazione, dalla parola allo spazio interiore del si
lenzio, nel quale Dio abita in me. Isacco di Ninive pen
sa che la parola che viene meditata possa aprire la por
ta al mistero senza parole di Dio, alla casa del silenzio,
alla quale solo Dio ha accesso. Quando medito, non av
verto ogni volta questo spazio del silenzio: spesso è so
lo una breve intuizione che lì dentro di me c’è qualcosa
di assai diverso, che lì Dio stesso abita in me. Ma già
questa breve intuizione muove qualcosa dentro di me:
mi sperimento diverso; tocco il mio vero essere, entro
nella mia profondità. Sento un profondo silenzio da cui
scaturisce pace.
Talvolta mi aiuta anche il solo fatto di immaginare
in me il luogo del silenzio, ad esempio pensando sem
plicemente alle immagini con cui la Bibbia descrive que
sto luogo interiore del silenzio. Non considero queste
immagini dall’esterno, ma osservo me stesso attraver
so di esse. Nel vangelo di Giovanni Gesù dice riguardo
a colui che crede: «Dal suo ventre sgorgheranno fiumi
di acqua viva » (Gv 7,38). In me c’è una sorgente che
non si estingue mai, la sorgente dello Spirito Santo. Per
percepirla, posso immaginare di penetrare, nel momento
in cui espiro, gli strati di macerie che si sono posati so
li
pra questa fonte, finché nel fondo deir anima non giunga
a percepire qualcosa di questa fonte pura, che disperde
le acque torbide dei miei pensieri osculi e mi rinfresca
interiormente. Oppure posso meditare l’immagine del
Santissimo, alla quale — secondo la lettera agli Ebrei
— solo il sommo sacerdote Gesù Cristo ha accesso. Se
immagino questa figura biblica, posso giungere in con
tatto con la realtà che essa rappresenta, con Gesù Cri
sto che abita in me. Laddove egli è in me, il rumore che
c’è nel vestibolo del tempio non può entrare, i pagani
non hanno accesso, ciò che è commercio e mondano
non può entrarvi, anche gli altri sacerdoti non possono
entrarvi, nessuno può turbare le mie riflessioni e i miei
progetti.
In questo spazio interiore intuisco anche chi sono, qui
vengo in contatto con il mio vero sé. Dove Dio è in me,
là mi libera dal potere degli uomini, dalle loro aspetta
tive e richieste, dai loro giudizi e criteri, E qui mi libera
anche dalle rappresentazioni che altri mi hanno incul
cato o che io stesso mi sono creato. Dio mi libera da
me stesso. Io sono più della storia della mia vita. Sono
una meravigliosa immagine di Dio: in me c’è un’imma
gine intatta che Dio si è fatta di me, il mio vero essere,
così come Dio l’ha plasmato. La via della meditazione
mi conduce perciò anche al mio vero sé. Laddove le opi
nioni degli altri e i criteri personali non possono entra
re, posso essere pienamente me stesso, intuisco la mia
dignità divina, mi si può dischiudere la possibilità di es
sere, nel mio più intimo, direttamente presso Dio.
Vengo continuamente in contatto con persone che sof
frono del fatto di essere determinate da altri: esse non
possono sviluppare fiducia in se stesse, perché gli altri
gliela sottraggono. Sono continuamente criticate dal col
73
lega di lavoro o dal capo; il vicino lunatico o la zia in
soddisfatta le influenzano. Cerco di mostrare allora a
chi è venuto a chiedere consiglio questo luogo del si
lenzio che è già in lui. Egli dovrebbe immaginare che
là nessuna forza abbia potere su di lui: ciò che il vicino
pensa di lui non può raggiungere quel luogo. Ciò che
gli altri dicono di lui, le loro critiche, il loro rifiuto, le
loro pretese, le loro aspettative, tutto ciò non ha acces
so a quel luogo. Nella sfera emozionale sono ancora sen
sibile e vengo toccato dalla critica degli altri. Ma dietro
c’è questo luogo silenzioso, dove tutto ciò non può pe
netrare. Se immagino questo, emerge allora un senso
di libertà. In questo luogo del silenzio posso respirare
a pieni polmoni: là non vengo determinato da altri,
neanche dalle mie aspettative e dalle mie scadenze.
Una volta ho tenuto un corso per consulenti matri
moniali sulla spiritualità e la consulenza: ho cercato di
trasmettere agli psicologi che la spiritualità e la consu
lenza non sono solo parole pie, ma servono a condurre
le persone alla loro vera essenza, alla loro intoccabile
dignità, al luogo del silenzio ẵ Alcuni consulenti aveva
no dichiarato che spesso è impossibile aiutare in ma
niera efficace una coppia arenata, anche con i migliori
metodi di comunicazione. Una donna può sentirsi così
ferita, che un colloquio non è più possibile; oppure un
uomo può sentirsi rifiutato così radicalmente, da non
trovare più neanche una parola da dire alla propria com
pagna. Allora può essere di aiuto condurre il partner
in questo luogo interiore in cui l’altro non ha accesso,
in cui le ferite e il rifiuto non possono penetrare, in cui
ciascuno scopre la propria dignità intoccabile, il luogo
invulnerabile e sano. Già l’intuizione di questo luogo
interiore può trasmettere, in mezzo al totale rifiuto e
74
alla più profonda ferita, una nuova autostima, una di
gnità che nessuno può togliere.
Talvolta mi aiuta allontanare da me le persone che
ogni giorno occupano i miei pensieri, perché mi feri
scono e mi fanno del male. L ’ira può essere una forza
positiva per allontanare quelli che hanno potere su di
noi, perché il luogo del silenzio sia veramente riempito
da Dio solo. Dobbiamo impedire ad alcune persone l’ac
cesso al nostro intimo, dobbiamo impartire loro un in
teriore divieto di entrare in casa. Laddove Dio abita in
noi, dove noi siamo a casa con Dio, gli altri non hanno
alcun diritto di entrare. Da me venne una signora che
veniva costantemente tormentata dalla sua direttrice.
A cena, col marito, l’unico argomento possibile era di
ventato quello della direttrice impossibile, che le ren
deva la vita un inferno. Io le dissi: « Non farei l’onore
alla mia direttrice di farmi disturbare da lei anche du
rante la cena. Non farla entrare a casa tua. Lei non è
cosi importante »ẻ Anziché farci corrodere dall’ira, op
pure di esplodere per essa, dovremmo servircene per al
lontanarci da quelli che ci assorbono continuamente,
per scaraventarli interiormente fuori di noi. Alcuni pen
sano che ciò non sia cristiano: cristiano sarebbe il per
dono. Ma il perdono viene sempre dopo il senso di ira,
e non prima. Se chi mi ha ferito resta nel mio cuore,
il perdono è solo masochismo. Mi ferirei da solo con
esso. Solo quando ho preso le distanze, l’ho allontana
to da me, posso perdonare veramente, sapendo che an
che chi mi ha offeso è solo un bambino ferito.
Allontanare l’altro da me è solo il primo passo per
distinguere lo spazio del silenzio in me: in questo mo
do è possibile difendere questo luogo interiore da tutti
quelli che vogliono entrarvi con la forza. Ma la difesa
75
da sola non basta: nella meditazione devo dare l’addio,
interiormente, a tutto ciò che in genere mi assorbe, alle
persone attorno alle quali ruoto, ai miei pensieri e pro
getti. Devo fare completo silenzio e poi ascoltare atten
tamente dentro di me e immaginare che in me,vi sia un
mistero che mi supera. Se ascolto dentro di me, non tro
vo solo la mia storia personale e i miei problemi. Al di
sotto di questo livello c’è un luogo del silenzio, un luo
go in cui Dio, il Mistero, vive in me. E là dove Dio,
il mistero, vive in me, posso essere realmente a casa:
là intuisco una profonda pace in me. Là so che — sot
to il tumulto quotidiano e la confusione interiore — c’è
un luogo del silenzio. Per Evagrio Pontico, monaco e
scrittore del IV secolo, questo luogo di Dio è rappre
sentato con il simbolo di Gerusalemme. Gerusalemme
è detta « visione della pace ». Così, in questo luogo del
silenzio, giungiamo alla « visione di pace, nella quale
uno guarda in sé quella pace che è più sublime di ogni
comprensione e che protegge i nostri cuori» ll.
Se mi abbandono al luogo del silenzio in me, allora
cresce il senso di libertà e di fiducia. Non si tratta di
una fiducia in se stessi messa in mostra, ma di una fi
ducia che scaturisce dalla libertà interiore. Non com
batto contro gli altri, ma gusto la libertà. C’è un luo
go, in me, sul quale nessuno ha potere, il luogo in cui
Dio abita in me. Laddove Dio abita in me, vengo an
che in contatto col mio vero sé. Là sono completamen
te me stesso. Il mio sé è protetto. La mia autos.tima cre
sce e io divento sempre più uno con me stesso.
Tutte le vie religiose ci conducono un po’ alla volta
76
a provare la nostra autostima. Non c’è alcun trucco spi
rituale per procurarsi in fretta fiducia in se stessi e au
tostima: sono sempre vie che richiedono esercizio quel
le che ci fanno procedere. Devo continuare a meditare
la parola di Dio, finché essa non trasformi il mio cuore
e ne allontani la paura. Nella preghiera devo continua
mente venire in contatto con il luogo del silenzio in me,
per sentirmi indipendente dall’opinione degli altri e dai
criteri del mio super-io. Se percorro fedelmente e con
cautela questa via dell’esercizio, in me può crescere una
sana autostima. Non sono condannato semplicemente
a vivere con la scarsa autostima che ho ricevuto quan
do ero bambino: r autostima può essere appresaễLa fede
è una scuola adatta per apprendere fiducia e autosti
ma. M a come tutte le scuole necessita di costanza ed
esercizio. La fede non può infatti scavalcare la realtà
psicologica: come credente mi devo riconciliare con le
ferite che hanno intaccato la mia autostima. Come cre
dente devo servirmi anche di tutti gli aiuti che mi offre
la psicologia. Ma posso trovare nella fede una via ulte
riore per giungere al mio vero sé, così come Dio Pha
plasmato. Nella fede posso superare il livello psicolo
gico e scoprire in me il livello transpersonale, il luogo
in cui Dio abita in me e in cui sono pienamente me stes
so. Se sono in contatto col mio vero sé, ho autostima,
ed essa non può essere annientata da sconfitte e umi
liazioni. È un sentire il mio nucleo divino, sul quale que
sto mondo non esercita alcun potere.
77
PARTE SECONDA
VINCERE L ’IMPOTENZA
79
esterno. Ciò « richiama sentimenti strazianti di mancan
za di aiuto, paura e rabbia » 13. Dopo la fase in cui ii
bambino si sente in armonia con la mamma e il mon
do, segue regolarmente « l ’esperienza della mancanza
di potere e dì affetti difficili da dominare, così come
hanno avuto rilevanza nei miti gli angeli decadati e la
cacciata dal Paradiso » l4. Il compito del bambino con
siste nel rispondere con lo sviluppo di una sana consa
pevolezza air« esperienza della propria impotenza, di
pendenza, mancanza di valore, inferiorità » l5. Se il
bambino si sperimenta privo di aiuto nei confronti del
le persone 0 nei confronti dei propri istinti, reagisce con
la paura. A partire dallo sviluppo infantile in poi, sen
timenti di impotenza, di autostima e di fiducia in se stessi
sono strettamente connessi. Il bambino si sente neces
sariamente impotente e privo di aiuto. Appartiene alla
sua sana crescita sviluppare autostima e superare, con
la fiducia, la paura che l’esperienza dell’impotenza fa
nascere in lui.
Anche le esperienze degli adulti mostrano che auto
stima e senso di impotenza sono collegati: ci si sente al
lo stesso tempo privi di valore e impotenti nei confron
ti degli altri che sanno fare molte cose meglio di noi,
che sono più veloci di noi. Ci si sente impotenti, perché
non ci si crede capaci di affrontare ciò che la vita ri
chiede. Ma c ’è tutta una serie di sensi di impotenza, che
non derivano da una mancanza di autostima.
13 H. Henseler, Die Theorie desN arzifim us, in Psychologic des 20. Jahr-
hunderts, vol. II, a cura dĩ D. Eickem, Ziirich 1976, p. 463.
14 H. Henseler, D ie Theorie des Narzifim us, op. cit., p. 464.
15 H. Henseler, Die Theorìe des N arzìjim us, op. cit., p. 465.
80
4
SENSI DI IMPOTENZA
81
ritabilità. Ma già dopo due settimane si accorgono che
il proposito è stato di nuovo inutile, e che non è cam
biato proprio nulla in loro. Tuttavia la volta successiva
si ripropongono di cambiare, e di nuovo inutilmente!
Ciò lascia dietro di sé un senso di impotenza.
Alcuni si sentono impotenti nei confronti della pau
ra: hanno letto molto sul fenomeno della paura, sono
stati in terapia, hanno discusso esaurientemente della
loro paura. Tuttavia si sentono impotenti appena essa
compare. Allora tutte le loro conoscenze non giovano
a nulla: essi vengono semplicemente presi dalla paura.
Spesso neanche la fede aiuta: sanno di essere nelle ma
ni di Dio; tuttavia, non appena salgono su un aereo op
pure devono affrontare un intervento, tutte le parole
pie non servono a nulla, la fede sembra essere impo
tente nei confronti di questo timore spesso irrazionale.
La paura sta in agguato come un animale: la testa e il
cuore sembrano impotenti nei confronti di questa sub
dola bestia.
Altri si sentono impotenti di fronte alle proprie emo
zioni. Ad esempio, non vogliono essere gelosi, ma non
riescono a fare nulla contro la gelosia. Essa appare, sem
plicemente, non appena la propria moglie parla conci
tatamente con un altro uomo, oppure quando il pro
prio ragazzo passa più tempo con altri. Tutti i giura
menti della moglie 0 del ragazzo sulla loro fedeltà non
portano a nulla. La gelosia ricompare, non appena su
bentra una nuova situazione. Altri si sentono impoten
ti nei confronti dei propri istinti, ad esempio dell’istin
to sessuale 0 del desiderio di cibo. Tutti gli sforzi di vo
lontà non servono a nulla. Essi vengono dominati con
tinuamente dai loro istinti: possono continuare a com
battere i loro problemi con il cibo, ma perdono sem
82
pre. Ciò lascia un senso di impotenza e di rassegnazione.
Una donna si infuria continuamente per il fatto di
essere in balia della propria depressione, senza aiuto.
La terapia non ha giovato: non appena essa subisce una
critica, ricade in un baratro. E quando sta in questo ba
ratro nessuno dei ragionamenti fatti durante la terapia
della depressione può aiutarla. Non servono a nulla tutte
le parole o i metodi che potrebbe mettere in atto. Essa
sa che le farebbe bene, durante la depressione, telefo
nare a qualcuno o occuparsi di qualche cosa, ad esem
pio fare una passeggiata, o andare in bicicletta, oppure
lavorare a qualcosa di sensato. Ma ciò non la aiuta in
quel momento: è sparito tutto. Essa si sente impoten
te, in balia della depressione come di una forza estra
nea. Molto spesso la depressione proviene come da un
cielo sereno, senza un motivo ragionevole. Tutte le mi
sure di sicurezza contro di essa non riescono ad arre
starla. Anche questo lascia un senso di impotenza.
I malati psichici si sentono spesso impotenti nei con
fronti della propria malattia. Una donna soffre di un
senso esagerato dell’igiene. Tutti i trattamenti terapeu
tici finora non l’hanno potuta liberare: ella sente sem
plicemente la necessità di lavarsi non appena si è sedu
ta su una sedia imbottita.
Ma non è necessario considerare gli ammalati. Noi
tutti sappiamo di essere impotenti, in balia di alcune
costrizioni. Uno si sente costretto a ricontrollare, la se
ra, se la porta è chiusa a chiave; un altro deve sincerar
si che sulla sua scrivania sia tutto al posto giusto. Noi
ci infuriamo ogni volta che reagiamo in maniera sensi
bile alle critiche; tuttavia non possiamo cambiare nul
la. Se il discorso cade su determinati problemi, ci sen
tiamo colpiti; se si toccano le nostre ferite, gridiamo.
83
Così vi sono molti fattori psicologici che siamo costretti
a guardare impotenti. Molti soffrono di se stessi, per
ché hanno la sensazione di non poter mai rimarginare
le proprie ferite, perché la vita li ferisce sempre di più.
Numerose sensazioni di impotenza hanno la propria
causa nell’infanzia. I bambini si sentono impotenti se
i genitori litigano davanti a loro. Essi possono fare di
tutto per evitare il litigio: non giova a nulla. I bambini
si sentono impotenti quando vengono picchiati. Con
tro la forza spesso brutale degli adulti il bambino è im
potente, non ha alcuna chance. Allora nasce una rab
bia impotente, che lo porta poi a doversi chiudere di
fronte a qualsiasi dolore per poter vivere. Se un bam
bino viene trattato ingiustamente, può protestare, ma
spesso la protesta limane senza effetto. Il bambino re
sta esposto all’ingiustizia, privo di aiuto. Se un bambi
no viene rifiutato, anche se si dà molto da fare per ot
tenere l’attenzione della mamma, nasce un senso di im
potenza. Da bambini non avevamo alcuna chance per
difenderci dai nostri genitori e affermare i nostri biso
gni. Spesso insorge dunque un senso di impotenza se
da adulti incontriamo qualcuno che ci ricorda i genito
ri 0 il maestro onnipotenti, se ci sentiamo sottomessi,
se veniamo trattati ingiustamente. Ho accompagnato
una signora che da bambina doveva sempre assistere alle
scenate di gelosia di sua madre nei confronti del suo
amato padre e a come lei lo sgridava nei modi peggio
ri. Lei stessa era stata maledetta come prostituta dalla
madre. Perciò ogni volta si sentiva impotente nei con
fronti di sua madre: non aveva alcuna chance per sco
prire il proprio valore. In seguito ogni volta che incon
trava donne che somigliavano a sua madre, si sentiva
paralizzata. Tutte le conoscenze psicologiche che ave
84
va acquisito nel frattempo non la aiutavano a vincere
i suoi sensi di impotenza.
Proprio in momenti di profonda solitudine può di
venire nuovamente cosciente il senso di impotenza spe
rimentato da bambini, il senso di essere abbandonati
a noi stessi e di non essere dunque compresi da nessu
no. Ci sentiamo soli. Nessuno comprende i nostri sen
timenti, nessuno fa caso ai nostri desideri. Ogni volta
che il senso di impotenza nei confronti della reale espe
rienza è incommensurabilmente forte, dovremmo guar
dare alla nostra infanzia per vedere se vengono a galla
ricordi di momenti in cui abbiamo avuto sensazioni ana
loghe. Il ricordo da solo non ci libera dal senso di im
potenza, ma può costituire un aiuto per confrontarci
con essa e così superarla. Almeno possiamo compren
dere meglio i nostri sentimenti: non ci rifiuteremo più,
se cresceranno in noi sensi di impotenza. Mediante la
comprensione e il dialogo sulla nostra impotenza essa
può trasformarsi: se sappiamo da dove provengono i
nostri sensi di impotenza, essi perderanno forza e po
tremo agire meglio nei loro confronti.
85
tegie per porre un limite fra lei e la madre, non la aiu
tano in quel momento. La madre ha un sesto senso per
capire dove colpire la figlia: basta solo che le dica che
non troverà mai un marito e già esercita un potere su
di lei. E la figlia non riesce a svincolarsi da questo potere.
Un uomo è impotente nei confronti di suo padre. Il
padre sa fare tutto, è intelligente e svaluta sempre quello
che fa il figlio. Allora il figlio può darsi da fare finché
vuole, ma non può nulla contro suo padre. Egli non può
soddisfare le sue aspettative e soprattutto non riesce a
difendersi dalle sue stoccate e dai suoi giudizi denigra
tori.
Un altro non riesce a difendersi dal suo principale.
Quando il principale sbotta, trasale e pieno di rancore
fa quello che lui vuole. Ogni volta si ripromette di dire
quali sono i suoi limiti, quello che può e non può intra
prendere. Ma ogni volta che il principale lo apostrofa
ad alta voce, cede.
Ci si può sentire impotenti anche nei confronti di per
sone che non ci sono preposte, ma sono al nostro livel
lo. Una studentessa, ad esempio, si sente impotente se
una sua compagna le infonde una cattiva coscienza, di
cendole che studia troppo poco. Un sottile mezzo di po
tere è quello di insinuare in una persona sensi di colpa:
contro di essi non ci si riesce a difendere, perché nessu
no di noi è privo di colpe. Siamo sempre persone che
assumono la colpa su di sé. Se qualcuno mi addossa sensi
di colpa non appena affermo anche solo per una volta
la mia volontà, non riesco più a sottrarmi a costui. Pu
re se razionalmente so benissimo di aver agito in ma
niera corretta, il senso di colpa mi corrode. È come un
veleno che l’altro mi inietta: non posso liberarmi da es
so. Tali sensi di colpa ce li possono insinuare soprat
86
tutto i nostri genitori. Se la mamma malata dice: « Tu
mi porterai alla tomba, se non ti occupi di me. Sono
così sola. È questo il ringraziamento per tutto quello
che ho fatto per te? », la figlia non può rifiutarsi di fron
te a ciò, vengono subito a galla sensi di colpa: la mam
ma potrebbe morire e lei potrebbe rimproverarsi di non
aver fatto abbastanza. Così va dalla madre ad aiutarla
piena di aggressività e si infuria ogni volta che si è fatta
determinare dai sensi di colpa.
Impotenti si sentono le persone deluse in amore: esse
amano il loro partner e si impigliano sempre più in un
inestricabile groviglio di rimproveri, sgridate, offese,
scoppi d’ira. Vogliono vivere un buon rapporto con la
persona che amano, ma il rapporto diviene sempre più
insopportabile. Qualunque cosa facciano, si sentono indi
fese nel rapporto arenato. Esse però non possono nean
che liberarsi dal sentimento del loro amore per l’altro.
Sono dipendenti dall’amato, gli conferiscono potere su
di loro e sono esse stesse prive della possibilità di stabilire
il rapporto che vorrebbero. I consulenti matrimoniali
conoscono spesso l’incapacità del coniuge di comuni
care con l’altro in maniera adeguata e di risolvere i con
flitti in maniera creativa. Ciascun partner ha buona vo
lontà e tuttavia è incapace di parlare bene con l’altro.
Ciascuno si sente impotente nei confronti dei propri sen
timenti e in balia delle ferite e delle umiliazioni dell’altro.
87
nonima burocrazia. Nonostante tutti gli sforzi dei po
litici per una burocrazia più vicina all’uomo, incontria
mo dei casi in cui la burocrazia si pone al di sopra di
qualsiasi ragionevolezza umana e colpisce a morte pro
prio i perdenti. Molti si sentono impotenti se le autori
tà statali emanano sentenze disumane, se esse espello
no rifugiati riguardo ai quali si sa con certezza che so
no perseguitati in patria. Tutti i tentativi per convince
re le autorità si frantumano contro il muro della legge
che non è possibile abbattere. Ci si nasconde dietro de
terminate leggi e si indurisce il proprio cuore. Rifugiarsi
nelle chiese è un tentativo per difendersi contro questo
senso di impotenza: per molti è stato liberatorio il fat
to che la Chiesa abbia offerto un luogo che li aiutasse
a non rassegnarsi di fronte ai loro sensi di impotenza.
Molti si sentono impotenti se guardano immàgini del
Ruanda 0 della Bosnia alla televisione. Tentano di espri
mere la propria impotenza rivolgendosi ai politici, ma
non riescono a far sentire la loro voce. Alcuni si libera
no dando l’elemosina. Tuttavia resta il senso di impo
tenza per il fatto che vicino a noi si verificano fatti ir
reali che non ci si sarebbe mai sognati potessero avve
nire. Si è impotenti di fronte a una crudeltà che si im
magina superata da tempo. Si nota l’abbandono, bam
bini che gridano, madri disperate, donne violentate, sol
dati torturati, gente distrutta a cannonate, tombe co
muni. E non si può fare nulla per impedirlo. Tutto ciò
paralizza, lascia un profondo senso di impotenza, molto
spesso rassegnazione, se non depressione. Si prega per
ché cambi qualcosa, ma anche Dio sembra rimanere
muto.
I politici che si danno da fare per il Terzo Mondo spe
rimentano la propria incapacità di fornire un efficace
aiuto a quelle popolazioni. I missionari che vivono da
decenni in Tanzania non sanno come migliorare i rap
porti e come fornire un aiuto efficace e duraturo. Si sen
tono impotenti di fronte a strutture paralizzanti nel Pae
se, ma anche di fronte alle costrizioni del commercio
mondiale, al peso dei debiti, che cresce sempre più, di
fronte alla lotta senza speranza dei Paesi poveri per la
loro giusta partecipazione alla grossa torta del reddito
mondiale. Nonostante tutti i tentativi, la fetta di torta
che si cerca di guadagnare con fatica diviene ogni gior
no più piccola. E se dopo una lunga lotta finalmente
viene attuata un’economia politica funzionante, essa vie
ne nuovamente distrutta da guerre tribali. La battaglia
per uno sviluppo pacifico e per una crescita economica
in Africa sembra essere inutile. Senza dubbio alcuni po
litici si sono rassegnati di fronte al fatto che FAfrica
è un continente che sta morendo: è fatale come essi cer
chino di difendere con motivazioni logore la propria in
capacità di cambiare qualcosa.
Psicologi e pastori analizzano la situazione del no
stro tempo. Essi vedono che la televisione disturba sem
pre più i bambini nella loro psiche, che i giochi al com
puter fanno indurire il cuore, che la mancanza di sicu
rezza provoca la violenza nella società. Essi scoprono
tendenze, nella nostra società, che li spaventano. Ma
si sentono impotenti a intraprendere qualcosa contro
di esse. Le loro ammonizioni sono come le grida di Cas
sandra, che nessuno desidera sentire. Nessuno sembra
notare quanto siano pericolose oggi certe correnti di pen
siero. Tutte le esortazioni vengono messe a tacere. Il
senso di impotenza per l’inutile lotta contro l’aumento
della violenza nella società e contro l’odio del diverso
paralizza sempre più. Nessuno vuole ascoltare, la gen
89
te preferisce farsi ninnare da profeti che parlano bene.
Un’infermiera in un reparto sociale deve curare un
numero sempre maggiore di pazienti che vengono nutri
ti con una sonda e la cui vita viene prolungata artifi
cialmente. Essa avverte che il fatto di vegetare non può
essere lo scopo della vita. Soprattutto la cura di questi
malati diviene sempre più impegnativa: tutti i tentativi
comuni delle infermiere non sortiscono alcun effetto. I
medici hanno la parola. Le persone alle quali viene pre
scritta la sonda — spesso contro il parere dei familiari —
devono essere nutrite artificialmente anche a casa. Le
infermiere si sentono impotenti nei confronti dei medici,
che portano molto dolore nelle famiglie con le loro pre
scrizioni e che aggravano le condizioni di lavoro delle
infermiere stesse. Ogni appello al giudizio umano non
dà alcun frutto. Così vi sono tante situazioni in cui le
persone si sentono impotenti nell’arrestare lo sviluppo
di qualcosa che procede nella direzione sbagliata.
In tutte le confessioni cristiane i parroci lavorano sem
pre più per motivare gli appartenenti alla loro parrocchia
e per costruire una comunità viva. Ma i loro sforzi resta
no senza risultati: sempre meno persone prendono parte
alle loro offerte di conferenze, discussioni, servizi di culto.
Alcuni uomini e alcune donne che lavorano nella pastora
le sono rassegnati. Hanno l’impressione di lottare contro
le sabbie mobili: qualunque cosa facciano, tutto si sgre
tola sempre più. Si sentono impotenti nei confronti della
mentalità attuale, impotenti nei confronti di una sub
dola scristianizzazione. In maniera sìmile si sentono mol
ti genitori che desiderano educare cristianamente i pro
pri figli. Contro il trend del tempo non possono vince
re. Così devono stare a guardare, impotenti, i loro figli
che non vanno più in chiesa e cercano altri modi di vita.
90
5
Ira e violenza
91
Il fenomeno della violenza crescente nella società, del
la violenza a scuola, della violenza degli estremisti di
destra, della violenza contro gli stranieri, ha certamen
te molte cause. Una causa sta nell’educazione: se un
bambino viene poco considerato, deve mettersi in mo
stra per trovare considerazione. Se a un bambino viene
fatta violenza, deridendolo 0 picchiandolo, lui stesso
si servirà della violenza. Bambini feriti trasmettono le
ferite che hanno ricevuto: se non rielaboriamo le ferite
della nostra infanzia, siamo condannati a ferire altri.
Alcuni giovani hanno una stima di sé così scarsa, da
percepire se stessi solo nel momento in cui sono violen
ti. Una molla per la violenza è certo anche l’incapacità
di poter cambiare qualcosa nella nostra società. La vio
lenza aumenta proprio laddove i giovani hanno minori
possibilità di lavoro, dove non trovano alcun significa
to alla loro vita e dove vengono scarsamente conside
rati. La violenza è allora espressione della propria de
bolezza, della sensazione di essere insignificanti e sen
za valore: ci si vuole dunque far ascoltare con la vio
lenza. Spesso i giovani non hanno imparato a difendersi
a parole e utilizzano come unica arma la violenza. Al
tri non hanno parole per esprimere i propri bisogni e
così non resta loro che rompere tutto, gridare il loro
bisogno di attenzione. Chi è padrone di sé non ha biso
gno di farsi notare con la forza. Ma chi non è padrone
di sé e non ha potere in sé, costui deve mostrare il pro
prio potere alpesterno, deve annientare altri per poter
credere alla propria grandezza, deve trattare con vio
lenza gli altri per sentirsi potente.
92
Brutalità
93
ma oggi esiste anche già l’abuso dell’abuso. Oggi si in
colpano di abuso anche uomini non colpevoli. Dinanzi
a una tale accusa, non ci si può mai difendere totalmen
te, si è impotenti: il semplice fatto di essere incolpati
è già un pregiudizio. Nell’abuso e nell’abuso deir abu
so si esprime in ugual maniera l’impotenza dinanzi alla
propria e all’altrui sessualità.
Rigorismo
94
lerava che r « Ave Èva» musicale di Wilhelm Willms
e Peter Janssens fosse rappresentata nell’abbazia di san
Bonifacio a Monaco. Anche persone così pie come il
cardinale Dopfner, presidente della conferenza episco
pale tedesca, vengono insultate in maniera oscena se non
si uniformano a determinati modi di pensare,
È difficile entrare in dialogo con cristiani militanti:
essi sono certamente animati da buone intenzioni, cre
dono di rappresentare il messaggio di Gesù e di lottare
per un annuncio puro, ma non si accorgono di quanto
divenga poco cristiana la loro lotta. Gli avversari ven
gono oltraggiati ingiuriosamente e perseguitati con te
lefonate notturne. La questione che si pone è perché cri
stiani così impietosi non siano disposti al dialogo. Evi
dentemente temono che qualcuno possa ricordare loro
l’incapacità di vivere secondo i loro principi. Queste per
sone tentano chiaramente di vivere in maniera cristia
na, si sforzano di adempiere ai comandamenti; tutta
via non sono capaci di sopportare la propria impoten
za nel non raggiungere mai ciò che desiderano. Se guar
diamo alla storia della Chiesa, i grandi moralisti non
hanno mai vissuto ciò che chiedevano a tutto il mon
do: la loro predica morale era evidentemente il tentati
vo di fuggire la propria incapacità, ostentando una ri
gida osservanza dei comandamenti divini. Temevano la
loro stessa ombra, l’immoralità del proprio cuore, e fug
givano dalla loro paura additando gli altri come immo
rali. Dal momento che temevano il diavolo nel proprio
cuore dovevano demonizzare gli altri, Nella loro impo
tenza hanno tuttavia esercitato un potere brutale nei con
fronti di quelli cui hanno predicato la loro morale di
sumana. Nel timore della propria ombra hanno instil
lato negli altri la paura della colpa e del peccato.
95
Autopunizione
Rassegnazione e disperazione
96
che nonostante i ripetuti tentativi di correggere i propri
errori si rimanga delusi. La continua delusione di se stes
si porta alla rassegnazione: ci si arrende e si vive sem
plicemente alla giornata, senza grandi mete. Gli ideali
sì frantumano: nulla vale la pena di essere compiuto.
Non si procede: sebbene si continui a lavorare diligen
temente, la melodia di fondo della propria vita è la di
sperazione. Nonostante ci si tuffi nel lavoro per non in
cappare più nella disperazione, essa ci guarda continua-
mente, non appena ci fermiamo e non abbiamo più nulla
da fare. Rassegnazione e disperazione sono spesso la
condizione a partire dalla quale le persone si buttano
nel lavoro o nel divertimento: esse ci fissano attraverso
il sorriso di chi fa della propaganda, le incontriamo negli
animatori che devono indurre gli altri alla felicità e nei
volti dei manager che lavorano ventiquattr’ore su ven
tiquattro per fuggire il proprio vuoto interiore. Si trat
ta di persone che si sono rassegnate a non cercare più
e a non lottare più. Esse si accontentano, rassegnate,
delle apparenze, pur sentendo dentro di sé che esiste
qualcos’altro, che Dio ci ha chiamati a un’altra vita.
Rassegnazione e disperazione sono presenti anche a
livello sociale e politico: troviamo politici ed economi
sti che si arrendono nella lotta per un ambiente miglio
re o per una maggiore giustizia nel mondo, poiché non
vedono possibilità di successo. Essi avvertono la nega
tività di alcune situazioni, ma chiudono gli occhi dinanzi
a esse e continuano a occuparsi dei ỉoro affari quoti
diani. Dietro ad alcuni politici e manager un tempo im
pegnati si spalanca un vuoto desolante, che viene oc
cultato da un’attività continua. Sono sempre in giro e
lottano per buoni fini; ma la vera lotta è stata abban
donata.
97
Spesso ci si sente incapaci di raggiungere veramente
qualcosa in questo mondo. A volte si ha la sensazione
che le altisonanti parole dei politici intendano solo oc
cultare l’impotenza che essi hanno avvertito da tempo
e dinanzi alla quale si sono rassegnati. Se un politico
0 un economista che lavora in maniera indefessa viene
criticato, spesso reagisce in modo piuttosto sensibile.
Allora si capisce che egli nasconde, con il suo super-
lavoro, l’impotenza interiore che sta in agguato sotto
la superficie delle sue attività e che gli fa paura.
6
A) VIE UMANE
99
Vic comuni
100
rassegnazione è la ricerca di nuovi modelli di comuni
cazione mediante i quali gli uomini possano esprimere
i loro sentimenti, i loro desideri, le possibilità e le ca
pacità che essi portano dentro di sé e parlare delle loro
paure, dei loro sogni e desideri per il futuro. Allora na
sce un potenziale di capacità, che si contrappone all’im
potenza e la supera: di colpo si guarda speranzosi al fu
turo e si ha voglia di costruire e plasmare la comunità
e con essa un pezzo di mondo.
Vie personali
101
strizioni. Tuttavia anche con la mia ascesi incontrerò
dei limiti, sperimenterò in modo nuovo la mia impo
tenza, comprenderò che non posso fare tutto quello che
desidero e che anche con l’ascesi non potrò disciplinar
mi totalmente. In ogni caso la mia impotenza divente
rà luogo dell’esperienza della grazia e non fonte di ras
segnazione.
Se qualcuno si sente impotente dinanzi alle proprie
paure o alle proprie passioni, spesso può essere utile un
accompagnamento terapeutico. Mediante una terapia
posso scoprire le cause della mia paura 0 della mia ira
e posso riconciliarmi con le ferite del passato. Ma la sco
perta delle cause in sé non guarisce; devo far emergere
nuovamente le sofferenze sperimentate da bambino, de
vo accettarle, per poi prendere congedo da esse. Così
pian piano posso imparare ad agire in maniera creativa
con la mia paura 0 con le mie ferite. Non sto più, im
potente, dinanzi alla mia paura, ma posso reagire nel
modo più adeguato. Sento che essa ha un significato,
che mi può ricondurre alla giusta misura. Chiaramente
la terapia non eliminerà mai del tutto il mio senso di
impotenza. Essa tuttavia può aiutare ad agire diversa-
mente rispetto all’impotenza, a riconciliarmi con essa
e a sperimentare poi le possibilità che ho a disposizio
ne. c . G. Jung ritiene che sia importante assumersi a
un certo punto della vita le proprie responsabilità, dire
di sì al passato e comprenderlo come materiale da mo
dellare. Se mi assumo la responsabilità della mia vita
agisco attivamente nei confronti delPimpotenza: so che
non sono capace di fare tutto ciò che voglio, ma posso
modificare qualcosa nella mia esistenza. Allora non sono
più determinato dalle mie ferite, ma esse divengono piut
tosto fonte di nuove possibilità. Molti oggi si arenano
102
nel compiangere le proprie sofferenze, senza cercare il
modo di guarire le proprie ferite e di scoprire nuove pos
sibilità in se stessi.
Sani rituali
103
Liberarsi dal potere degli altri
104
hanno subito abusi sessualiẾCiò che è penoso è che, ac
canto alla propria ira, esse provano sensi di colpa per
non essersi difese o per essere ritornate dall’uomo che le
ha violentate. Io cerco di incoraggiare queste donne a ve
nire in contatto con la propria ira e a espellere da se
stesse colui che le ha ferite così nella loro dignità. Questo
è spesso l’inizio della guarigione. Se chi mi ha ferito è
ancora nel mio cuore, il perdono è solo un’umiliazione
masochistica del sé, che continua a scavare nella mia fe
rita. Solo quando avrò allontanato dam e chi mi ha feri
to potrò guardarlo in modo obiettivo e perdonarlo di cuo
re. Il perdono è allora la liberazione definitiva dal po
tere degli altri. Chi non sa perdonare* è determinato da
chi l’ha umiliato, continuerà a portare dentro di sé la
ferita. Solo se perdono mi libero dall’altro. Alcuni non
guariscono perché non sono ancora riusciti a perdonare.
105
termine significa dunque innanzitutto padronanza, pa
dronanza su se stessi, la capacità di costruire se stessi,
di vivere in prima persona anziché essere vissuti. An
che il termine greco e quello latino per indicare potere
— dynamis, potestas — vengono da « essere in grado
di, essere capaci ». Ma possiamo trovare anche un al
tro significato: dynamis significa anche forza. Luca vede
Gesù come dotato di una forza particolare. Fin dal suo
concepimento la forza deir Altissimo si è posata su di
lui (Le 1,35). Nella forza di Dio Gesù attua i suoi pro
digi (= dynameis, opere della forza). I discepoli parte
cipano della forza di Cristo. Nella sua forza anch’essi
compiono prodigi. Potenza, per i greci, è identico a es
sere ed è un attributo essenziale di Dio. Anche il cri
stiano che è divenuto partecipe della natura divina (cfr.
2Pt 1,3) partecipa della potenza di Dio. È chiamato a
costruire la propria vita e il mondo nel senso di Dio.
Solo in secondo luogo potere indica l’incarico di gui
dare, di dirigere. Sento spesso le persone che hanno delle
responsabilità su altre persone lamentarsi del fatto di
non poter fare nulla, di dover capitolare impotenti con
i collaboratori difficili. Una vera guida è una risposta
all’esperienza dell’impotenza. Guidare significa scoprire
nuove possibilità e farle emergere. Gesù stesso ci mo
stra come dobbiamo intendere il potere in senso positi
vo: « I re governano sui loro popoli e quelli che hanno
il potere su di essi si fanno chiamare benefattori. Voi
però non agite così; ma chi tra voi è il più grande di
venti come il più piccolo e chi governa diventi come quel
lo che serve » (Le 22,25ss). I re governano sui popoli;
li governano e li determinano, esercitano su di essi il
potere, annientando gli altri. Tengono i popoli sotto
messi, per apparire grandi. Vivono a spese degli oppres
106
si. E i potenti si fanno chiamare benefattori. Si ser
vono della propria potenza per presentarsi bene agli
altri. Abusano perciò del potere a vantaggio di loro
stessi.
Nel senso inteso da Gesù, il potere di cui si serve la
guida è servizio: serve l’uomo, serve la vita, fa emerge
re dagli uomini le loro capacità e possibilità. Li pone
in contatto con i loro sogni, con le possibilità che si na
scondono. Ognuno di noi è al contempo guida e guida
to: ha ricevuto anche potere con il suo sé. Il potere è
la volontà di costruire la vita e di tirar fuori dalle per
sone la vita, In questo senso partecipiamo al potere di
Dio.
Nei gruppi cristiani regna spesso un duplice rappor
to con il potere: ci si rifiuta di esercitare potere, perché
esso sembra contraddire il nostro ideale di disinteres
se e amore per il prossimo; ma spesso fatalmente un
potere represso è peggiore per gli uomini di un pote
re manifesto. Nei confronti di un potere che si vede
ci si può difendere, ma nei confronti di un potere che
viene esercitato nella repressione in maniera sottile e
nascosta, si è impotenti. Dal momento che nella Chie
sa il potere viene maledetto, si esercita spesso in es
sa un potere distruttivo. Un potere dietro al quale ci
si nasconde, che non è visibile apertamente, anziché
costruire, distrugge. Sarebbe un compito importante per
le nostre Chiese quello di tentare un nuovo approccio
con il potere.
Potere è anche la volontà di costruire qualcosa, di
collaborare alla costruzione di questo mondo, di tirar
fuori dagli altri la vita, e di servire la vita, perché la vi
ta che Dio ci ha donato possa fiorire in molti. Il potere
— così dice Karl Rahner — è « dono di Dio, espressio
107
ne del suo stesso potere, una parte della rappresenta
zione di Dio nel mondo » ls. Per Klaus Hemmerle, già
vescovo di Aachen, il fine proprio del potere è « che sia
no potenti il buono e il giusto nella forma del bene co
mune... Potere è ordine efficace di coesistenza umana
come essere nel mondo » 19. Anziché rimanere impo
tenti di fronte alle nostre difficoltà e ai problemi del
mondo, dovremmo essere grati per il potere che Dio ci
ha donato e farne un uso tale da costruire, secondo i
disegni di Dio, la nostra vita e il mondo.
B) VIE RELIGIOSE
108
pinti a colori così stridenti, che non possiamo fare al
tro che sentirci piccoli e di scarso valore. La divinità
di Gesù e l’onnipotenza di Dio, allora, non annullano
la nostra impotenza, ma la rafforzano. Al contrario,
Gesù ci ha mostrato un’immagine dell’uomo assai di
versa. Egli ha sollevato dal peso della vita gli uomini
oppressi che erano stati piegati e resi piccoli, cui era stata
spezzata la spina dorsale e ha mostrato ad essi la loro
dignità divina (cfr. Le 13,10ss). Nella sua risurrezione
Cristo ha sollevato tutti noi: per questo i primi cristia
ni, in ricordo della risurrezione di Gesù, hanno prega
to stando in piedi ễNella preghiera hanno sperimentato
il fatto che Cristo ha dato loro una dignità divina.
L’uomo regale
109
ché essa non è di questo mondo. Anche nella più gran
de impotenza della morte, la nostra dignità regale non
ci può esser tolta.
La Chiesa cattolica, l’ultima domenica dell’anno li
turgico, festeggia la solennità di Cristo Re. Il fatto che
Cristo è Re su tutta la terra, che ritorna già in altre fe
ste, come ad esempio nell’Epifania, viene ricordato an
cora una volta in una festa vera e propria alla fine del
l’anno liturgico. Non si tratta semplicemente di una pro
clamazione di Cristo come Re, ma del fatto che nel Re
Cristo noi stessi ci sperimentiamo uomini regali. Il re
è un’immagine dell’uomo che regna su se stesso, che
è padrone delle proprie passioni e non è consegnato im
potente ai suoi nemici. Per i greci il re è anche il sag
gio, che conosce le altezze e le bassezze dell’essere uma
no. Martin Buber riporta una parola del Rabbi Schio
mo: « Qual è Fazione peggiore dell'impulso cattivo? Ed
egli risponde: Quando l’uomo dimentica di essere figlio
del re » 20. Noi festeggiamo la festa di Cristo Re per
camminare più dritti nella nostra quotidianità, per cre
dere alla nostra dignità regale. La liturgia non vuole mo
strarci la nostra impotenza, ma vuole invitarci a sco
prire e a vivere la nostra vera essenza di cristiani, a par
tecipare alla regalità di Cristo, ad avere una dignità di
vina che ci faccia camminare eretti e ci doni libertà di
nanzi a tutte le potenze di questo mondo. Nulla di que
sto mondo ha potere sul nostro nucleo divino.
110
Liberazione dal potere del inondo
Ili
Riconciliarsi con la propria impotenza
112
da a lui, vede rappresentata in lui l’impotenza di Dio.
Gesù si imbatte nell’impotenza della croce. Il predica
tore della croce, l’apostolo Paolo, doveva sperimenta
re nel proprio corpo di essere impotente dinanzi a quel
pungiglione messo nella sua carne. Questo pungiglione
era, a quanto pare, una malattia penosa, che ha impe
dito Paolo nella sua predicazione. Paolo ha chiesto tre
volte al Signore di liberarlo da questo pungiglione. Ma
Cristo lo ha introdotto nel mistero della sua grazia, che
proprio nella sua debolezza raggiunge il compimento:
« Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nel
la debolezza » (2Cor 12,9). Paolo era del parere di po
ter essere un buon predicatore del messaggio di Cristo
solo se si fosse presentato sano dinanzi ai Corinzi. Do
veva farsi insegnare da Cristo a poter usare non solo
la sua forza, ma anche la sua debolezza e la sua impo
tenza e agire attraverso di esse. Noi siamo trasparenti
per la grazia di Dio proprio quando sperimentiamo la
nostra impotenza. Se quando siamo deboli siamo an
che aperti ali’amore di Dio, il nostro volere non osta
cola più il lavoro di Dio.
Ogni uomo sperimenterà almeno una volta nel corso
della propria vita ciò che Paolo ha sperimentato nel pro
prio corpo, cioè che la potenza di Dio si sperimenta pro
prio quando sì giunge al punto zero, quando tutto ci
viene tolto dalle mani, quando si deve ammettere dolo
rosamente che non si può garantire per se stessi. In ma
niera evidente dobbiamo sperimentare continuamente
che la nostra forza viene da Dio e non da noi stessi. La
nostra ultima impotenza rincontreremo nella morte: là
tutto ci sarà tolto, non potremo tenere niente in mano;
potremo solo abbandonarci, impotenti, nelle mani amo
rose di Dio. Nell’impotenza che sperimentiamo di giorno
113
in giorno traspare già l’impotenza della morte. Così l’im
potenza che sperimentiamo ci invita a credere nella forza
di Dio, nella forza della risurrezione, nella quale la po
tenza di Dio si rivelerà vincitrice anche in noi. Si tratta
di un’esperienza liberatoria che sgorga dalla nostra im
potenza: l’esperienza che non dobbiamo fare tutto da
noi stessi, che possiamo essere deboli, che nella nostra
debolezza siamo avvolti dalla potenza di Dio. Se impe
disco in me ogni debolezza, devo vivere continuamente
nella paura di non riuscire. Ma se so che la grazia di
Dio si può mostrare sia nella mia forza sia nella mia
debolezza, posso aprire fiducioso le mie mani vuote e
porgerle a Dioệ Allora sperimenterò una pace interiore
profonda e la libertà dalla costrizione di dovermi ren
dere perfetto.
Preghiera e impotenza
114
gnità divina. Nella preghiera Dio mi aiuta a ottenere
il mio diritto, mi porta nel luogo della libertà e qui, nel
luogo interiore del silenzio,.sperimento già la vera vita,
sperimento uno spazio di protezione nel quale posso es
sere totalmente me stesso.
Naturalmente la preghiera non mi libererà automa
ticamente dall’impotenza che sperimento nelle mie pas
sioni, nelle mie paure o nei confronti del mondo. La
preghiera non è un trucco che risolve tutti i problemi;
ma in essa posso scoprire il luogo del silenzio in me,
luogo al quale i problemi del mondo e i miei stessi pen
sieri chiassosi non hanno accesso. Se qualcuno mi ha
ferito profondamente, questa ferita non sparisce auto
maticamente, anche se nella meditazione tocco il luogo
del silenzio. Ma essa viene relativizzata: nel momento
della preghiera mi sento libero dalla mia ferita. Il mio
cuore è ancora ferito, ma nella profondità della mia ani
ma (Tauler), nella cella interiore (Caterina da Siena),
nel Santissimo, nel santuario interiore al quale gli uo
mini non possono accedere, l’umiliazione non ha ac
cesso. Esiste dentro di me uno spazio, fino al quale i
sentimenti di paura, di rabbia, di gelosia e d’ira non si
possono spingere e nel quale nessuno mi può umiliare.
Quando tornerò dalla preghiera alla vita quotidiana sarò
ugualmente sensibile alle critiche: la ferita mi provocherà
sempre dolore, il mio cuore sarà ferito come prima, ma
esso intuirà di non essere totalmente preso da questa
umiliazione, che dentro di lui c’è uno spazio che rima
ne intoccabile. Tutto ciò dà un senso di guarigione e
di liberazione, di pace e di fiducia, pur nell’umiliazione.
115
Partecipazione ai pieni poteri di Cristo
116
che possono mostrarci come la fede nella potenza di Dio
ci possa liberare dal senso di impotenza.
Parlando con alcune persone sperimento spesso la mia
impotenza: la persona con cui parlo è posseduta da idee
così confuse oppure è dominata a tal punto dalle ferite
dell’infanzia, che le mie parole non possono quasi rag
giungerla. Tutti i tentativi per cercare insieme qualcosa
che possa aiutarla sono vani. Allora ini aiuta pregare,
per questa persona, durante la preghiera comune in co
ro, chiedendo a Dio di sterminare i nemici: « Liberami
da quelli che mi perseguitano, poiché sono più forti di
me. Fa’ uscire dal carcere l’anima mia e io renderò grazie
al tuo Nome » (Sai 142,7-8). « Per la tua misericordia
sterminerai i miei nemici, e tutti quelli che avversano
l’anima mia tu li annienterai, poiché io sono tuo ser
vo» (Sai 143,12). In queste parole dei Salmi sento la
forza di Dio, che è più forte delle potenze che tengono
prigioniera la persona che sto seguendo. I medesimi versi
li posso pregare anche di fronte all’impotenza nei con
fronti delle mie debolezze: « Liberami, Signore, dai miei
nemici: verso di te mi rifugio » (Sai 143,9)ẾTalvolta in
tali situazioni prego il Salmo 31 e immagino che Gesù,
morendo sulla croce, abbia rivolto al Padre queste pa
role, che egli, nel pieno della debolezza della morte, ab
bia sentito la potenza del Padre e abbia confidato in
lui: « Mi trarrai dalla rete che per me han nascosta, poi
ché tu sei il mio rifugio; nelle tue mani affido il mio
spirito; riscattami o Signore, Dio fedele» (Sa! 31,5ss).
Allora cresce in me la speranza che anche nella più gran
de impotenza la fiducia nell’aiuto di Dio possa solle
varmi e rafforzarmi, perciò non mi dispero, ma mi metto
fiducioso nelle mani di Dioễ
L’impotenza che oggi per lo più ci paralizza è quella
117
che sperimentiamo nei confronti della situazione del
mondo. Dobbiamo guardarci dal parlare semplicemente
di superamento della nostra impotenza mediante l’on
nipotenza di Dio. Spesso infatti Dio sembra non rive
larci nulla della sua potenza. È una provocazione per
la nostra fede il fatto che Dio non sia intervenuto di
fronte alle atrocità che si sono verificate in Bosnia, in
Ruanda e in molti altri luoghi del mondo. A cosa ser
ve, in questi casi, parlare del Dio onnipotente, se egli
stesso guarda, impotente, come gli uomini distruggo
no la sua creazione? Il popolo di Israele ha continua
mente e dolorosamente sperimentato come Dio si sia
apparentemente tirato indietro e non sia intervenuto.
La storia di Israele è una storia unica di fallimento e
di impotenza. Le Chiese cristiane oggi in Europa fan
no un’esperienza simile: esse sentono la propria impo
tenza per il fatto che nonostante la preghiera e nono
stante i loro sforzi perdono sempre più membri e per
esse ci si interessa sempre meno. Come cristiani possia
mo pregare col salmista sia per la situazione delle Chiese
sia per noi stessi: « Ruggirono i tuoi nemici nel luogo
delle tue adunanze; là issarono i loro vessilli... I nostri
vessilli non li vediamo più; non c’è più nessun profeta,
e fra noi non c’è alcuno che sappia fino a quando. Si
no a quando, o Dio, lancerà insulti l’avversario? Il ne
mico potrà forse per sempre disprezzare il tuo Nome?
Perché ritrai la tua mano e trattieni in seno la tua de
stra? » (Sai 74,4.9-11). Oppure facciamo un’esperien
za simile a quella descritta da Isaia: « Speravamo nella
luce, ecco invece le tenebre; nello splendore, invece cam
miniamo nell’oscurità. Come ciechi tastiamo la parete;
come privi di occhi palpiamo; inciampiamo a mezzo
giorno come al crepuscolo, in pieno vigore siamo come
118
morti... Speravamo nel diritto, ma non c’è; nella sal
vezza, ma essa è lontana da noi » (Is 59,9-11). Per mol
ti l’impotenza di Dio è una tentazione a dubitare di Dio,
ad abbandonare la fede. Come può Dio permettere que
sto, Egli che è l’onnipotente! Sopportare che Dio non
intervenga è per ogni cristiano una provocazione alla
sua fede, che egli può accettare unicamente nella pro
spettiva della passione di Cristo sulla croce.
Se osservo la miseria del mondo, le atrocità in Bo
snia e in Ruanda, davanti alle quali resto impotente,
la preghiera non può sciogliere il mio senso di impo
tenza. Mi aiuta, però, immaginare che gli assassini non
trionfino sulle loro vittime e che il mondo, nonostante
tutto, sìa nelle mani di Dio e non nelle mani di un paz
zo guerrafondaio. È necessaria una fede forte per non
dubitare di fronte alla propria impotenza. È natural
mente più facile chiudere gli occhi e cercare di ignorare
la guerra, oppure attribuire la colpa agli uomini che si
trovano Là. La fede nell’onnipotenza di Dio non è l’op
pio che mi fa chiudere gli occhi di fronte alle necessità
degli uomini; piuttosto, la preghiera mi spinge a fare
il possibile per questi uomini. Ora et labora. Contem
plazione e lotta, resa e resistenza (Bonhoeffer), mistica
e politica vanno insieme. Non mi posso ritirare nella
preghiera. Molto spesso la preghiera mi può spingere
a fare ciò che Dio ora ha riservato per me. La fiducia
nell’onnipotenza di Dio non è un semplice palliativo,
ma può accendere — nell’ira senza senso che sale in noi
dinanzi alla nostra impotenza — un bagliore di speran
za, che poi chiama a un serio agire.
119
La potenza delia preghiera
120
La potenza dell’amore
mi
ma dei pazzi che lottano a sangue in uomini che cam
minano nuovamente insieme.
Il paradosso dell’amore consiste nel fatto che esso è
potente proprio nella sua impotenza. L’amore rinun
cia a tutte le potenze esteriori. L ’amore di Gesù divie
ne visibile proprio nell’impotenza della sua morte. Osa
entrare nel buio e nella cattiveria e li trasforma. Nel suo
amore Gesù non si difende da coloro che lo uccidono.
Egli rompe il circolo vizioso del conưaccambio. Egli pe
netra con il suo amore la cattiveria e così la distrugge.
Giovanni, nel racconto della lavanda dei piedi, ci de
scrive l’amore di Gesù: « Avendo amato i suoi che era
no nel mondo, li amò fino alla fine » (Gv Í3 ,l)ệ Gesù
si inginocchia per terra e, ai discepoli, lava i piedi, che
sono sporchi e vulnerabili. A partire dalla morte di Ge
sù molti cristiani si sono impegnati per questo mondo
e l’hanno costruito con la forza di quest’amore divino.
II loro amore impotente è spesso divenuto la potenza
più forte in questo mondo: esso ha certo segnato la no
stra terra nel modo più durevole.
Certamente ognuno ha già sperimentato nel proprio
ambiente che un amore disinteressato può muovere qual
cosa nell’altro. C’è al riguardo una storia dei chassi-
dim, che narra di un padre che era impotente nei con
fronti del proprio figlio maleducato. Lo porta dal rab
bi. Questi lo stringe al proprio cuore e lo tiene fermo
così con le sue braccia. Dopo un giorno lo restituisce
completamente trasformato al padre. All’asilo una bam
bina di cinque anni, di cui il padre aveva abusato ses
sualmente, rifiorisce sotto gli occhi della suora che da
poco ha preso in consegna la classe. Ciò che gli altri
educatori non sono riusciti a fare per un anno intero,
ha potuto compierlo lo sguardo amoroso. Per la prima
122
volta la bambina si rivolge spontaneamente alla mae
stra e per la prima volta partecipa alle attività di dise
gno. Spesso è necessaria una grande fede per aver fidu
cia nell’amore impotente e nella sua forza trasforman
te. Spesso è necessario molto tempo perché una mam
ma possa sperimentare che suo figlio, che si è perso per
strada, reagisce al suo amore,
Neir ambiente sociale e politico ci sentiamo ancora
più impotenti con il nostro amore. Cosa può fare il no
stro amore contro la potenza delle armi? Gli esempi di
un Sadat, di un Gandhi, di un Martin Luther King ap
paiono in questi casi solo delle eccezioni. Le discussio
ni per la lotta non violenta per la pace hanno dimostra
to che senza una potenza militare non si riesce ad assi
curare la pace. E tuttavia le armi non portano pace, ma
nuove guerreẾL ’amore senza violenza di molti uomini
è un grano di senapa, che cresce e diventa un albero,
alla cui ombra gli uomini possono vivere in pace gli uni
con gli altri. Esso è come il lievito, che fermenta la massa
di farina.
Un confratello mi disse una volta che tre monaci che
prendono sul serio la loro donazione e il loro amore sa
rebbero sufficienti a trasformare una comunità di due
cento monaci. Forse bastano trenta persone che si la
sciano penetrare dall’amore di Dio per smuovere un in
tero popolo. Chi crede alla potenza dell’amore non si
sente del tutto impotente di fronte alla situazione del
mondo. Vi oppone il suo amore, anche se esso sembra
essere completamente privo di effetto per lungo tem
po. Egli crede alla forza trasformante dell’amore e su
pera con la sua fede la rassegnazione e la disperazione,
nelle quali cadono molti di fronte alla propria impo
tenza nei confronti di chi semina guerra. Ma non può
123
dimostrare la potenza del suo amore: può solo credere
e sperare che il seme dell’amore cresca e porti molto
frutto.
Y2A
CONCLUSIONE
125
La ricerca centrale di autostima ha talvolta tendenze
narcisistiche: alcuni giovani chiudono gli occhi di fronte
alla situazione del mondo, non ce la fanno a guardare
la situazione della Bosnia o del Ruanda. Per questo cer
cano nei gruppi religiosi una patria e una sicurezza in
questo mondo ostile e impenetrabile. Ammettere la pro
pria impotenza nei confronti delle numerose guerre e
ingiustizie è troppo per loro: non riescono ad affronta
re questo senso di impotenza, perché non sentono in
sé la forza di sopportare la propria debolezza e impo
tenza. Dal momento che è troppo forte il loro senso di
impotenza nei confronti di se stessi e della situazione
mondiale, lo devono sopprimere. Ovunque nel nostro
mondo constatiamo in politici, economisti, uomini di
Chiesa la rimozione della propria impotenza. È scomodo
sopportare l’impotenza. Per questo la si evita.
La Bibbia ci mostra che l’impotenza appartiene alla
nostra vita. Il popolo di Israele ha continuato a speri
mentare quest’impotenza nella sua storia. La sua sto
ria non è stata una storia di potere che aumentava, ma
di impotenza che cresceva, fino airesperienza dell'esi
lio e al dover ricominciare da capo, piccolissimo e mo
desto. Come cristiani guardiamo a Gesù Cristo, che si
è imbattuto nell’impotenza della croce. La potenza dì
Dio si è manifestata in Cristo proprio tramite Pimpo-
tenza della croce: è la potenza della risurrezione che ci
solleva dalla nostra impotenza, che si manifesta come
forza di Dio e non come nostra forza. La fede, che ci
mette a confronto con la nostra impotenza, ci indica
anche vie per poter trattare con essa in maniera creati
va, anziché rifugiarci nella rassegnazione 0 nella depres
sione, per accettare attivamente la sfida della nostra im
potenza e poter così rendere, con la preghiera, più uma
126
no e più a misura di Cristo il nostro mondo.
La via della fede può aiutarci a sviluppare una sana
autostima e a trattare la nostra impotenza in maniera
tale che essa divenga una sorgente di fantasia e creati
vità. Sul nostro cammino spirituale dobbiamo passare
in rassegna tutte le vie umane, senza accorciarle spiri
tualmente (spiritual bypassing). Autostima e impoten
za hanno la propria causa in realtà psichiche, in espe
rienze dell'infanzia e in quelle che facciamo quotidia
namente. Perciò la fede deve considerare seriamente le
conoscenze psicologiche prima di indicare una via che
superi il livello psicologico. Non saremmo di alcun aiuto
a una persona che non ha potuto sviluppare autostima
durante la propria infanzia a causa di situazioni diffi
cili, se le annunciassimo precipitosamente che essa de
ve aver fiducia perché Dio ha fiducia in lei. Anche il
credente deve confrontarsi con la propria realtà psico
logica: egli deve guardare in faccia le ferite della pro
pria infanzia nella preghiera, davanti a Dio, e nel col
loquio con la propria guida spirituale. Solo quando egli
avrà manifestato tutta la verità davanti a Dio e agli uo
mini le sue ferite potranno guarire. Ed egli troverà nel
la fede una via, nonostante le proprie ferite e umilia
zioni, per scoprire la propria dignità e sviluppare così
una sana autostima. Nella fede egli udrà continuamen
te la parola originaria, che Dio, al battesimo di Gesù,
ha rivolto a suo Figlio e che rivolge anche a noi, quan
do siamo immersi nell’acqua del Giordano, nell’acqua
della nostra colpa e della nostra sconfitta: «T u sei il
figlio mio diletto, la mia figlia diletta; in te mi sono com
piaciuto » (cfr. Me 1,11). E forse potrà allora sperimen
tare che sopra di lui il cielo si apre e l’ampiezza di Dio
squarcia la sua ristrettezza (cfr. Me 1,10).
127
INDICE
PARTE P R IM A
SVILUPPARE LA STIMA DI SÉ
129
L ’adattato pag. 44
L ’arrogante » 46
PARTE SECONDA
VINCERE L’IMPOTENZA
4. Sensi di impotenza » 81
Impotenza nei confronti di me stesso » 81
Impotenza nei confronti degli altri » 85
Impotenza nei confronti del mondo » 87
130
Vie personali pag. 101
Sani rituali » 103
Liberarsi dal potere degli altri » 104
Rapporto col potere » 105
B) VIE RELIGIOSE » 108
L ’uomo regale » 109
Liberazione dal potere del mondo » 111
Riconciliarsi con la propria impotenza » 112
Preghiera e impotenza » 114
Partecipazione ai pieni poteri di Cristo » 116
La potenza della preghiera » 120
La potenza dell’amore » 121
Conclusione » 125
131
Insicurezza, paura degli altri, mancanza di
coraggio e senso di impotenza di fronte ai pro
pri limiti e alle realtà negative del mondo sono
atteggiamenti diffusi tra gli uomini e le donne
del nostro tempo.
Più questi atteggiamenti crescono e agitano
la nostra interiorità, più si ricerca un forte
senso di autostima, di fiducia in se stessi e nel
mistero della vita, al di là delle ombre che
sempre ci accompagnano.
Anselm Grũn, religioso ed esperto pastore
d’anime, coniugando il piano psicologico con
quello evangelico ed evitando ogni spiritual
bypassing (scavalcamento delia realtà), indica
con maestria le vie per recuperare consape
volezza e sicurezza in se stessi, guidando il
lettore a «sperimentare che sopra di lui il cielo
si apre e l’ampiezza di Dio squarcia la sua
ristrettezza».