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ANSELM GRỈĨN

flUTOSTIMA
E ACCETTAZIONE DELL’OMBRA
Vie spirituali verso lo spazio interiore
Titolo originale dell’opera:
Selbstwert entwickeln - o h n m a ch t m eistern:
' spirituelle Wege zum ìnneren Raunì

© Kreuz Verlag GmbH & Co. KG, Stuttgart, 1995

Traduzione di:
B arbara Zadra

Quarta edizione 2006

©EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 1998


Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino
L ’ESPERIENZA DI SÉ DELL’UOMO D ’OGGI

Gli uomini che incontro in qualità di pastore ruota­


no spesso attorno a questi due poli: mancanza di auto­
stima e senso di incapacità. Non si tratta solo di giova­
ni che soffrono di mancanza di fiducia in se stessi e che
per questo anelano a sviluppare un forte senso di auto­
stima, ma anche di persone che si trovano a metà della
propria vita e che provano spesso un senso di sofferen­
za dovuto alla mancanza di stima di sé. Non hanno il
coraggio di difendere la propria opinione se incontra­
no altre persone sicure di sé; non si credono capaci di
nulla; pensano che gli altri sappiano fare meglio. So­
prattutto mamme, i cui figli sono da poco usciti di ca­
sa, si accorgono all’improvviso di come la loro fiducia
in se stesse, così faticosamente costruita, crolli. Esse han­
no trovato appagamento nella vita dei propri figli e ora
che si devono confrontare con se stesse hanno la sensa­
zione di non valere più nulla. Anche persone di una certa
età affermano spesso di avere un’opinione assai mode­
sta di sé: in vecchiaia si ricordano di non essere state
prese sul serio da bambini, e come non fosse mai chie­
sta la loro opinione. Ora che non possono più vantarsi
di alcun rendimento, si sentono privi di valore. Ci so­
no giovani che nutrono grossi dubbi sul loro valore; essi
soffrono del fatto di non essere considerati, di avere delle

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inibizioni, di non essere indifferenti come vorrebbero.
Si infuriano se arrossiscono, qualora si affronti un di­
scorso che li mette a disagio. Soprattutto temono di non
risultare piacevoli. Giovani uomini si sentono inibiti in
presenza delle donne, perché non sono sicuri di essere
da loro accettati: se vedono altri in compagnia di una
ragazza provano un senso di inferiorità, perché sono
ancora soli e perché nessuna ragazza li avvicina. Ci so­
no ragazze che hanno paura di non essere considerate
dagli uomini, di essere derise da loro, perché non si av­
vicinano al loro ideale di bellezza: investono perciò tutte
le loro energie per apparire così come pensano che gli
uomini le desiderino.
Durante i colloqui spirituali si affrontano spesso di­
scorsi che riguardano il senso di incapacità. C’è il gio­
vane che si sente incapace di prendere una decisione per
il futuro; altri sperimentano un senso di impotenza nel
dominio di sé: semplicemente non ce la fanno più ad
andare avanti,.soffrono per il proprio fallimento ma non
riescono a cambiare nulla. Giovani donne soffrono per­
ché non sono capaci di disciplinare il loro rapporto con
il cibo. Giovani uomini si sentono incapaci di gestire
la propria sessualità secondo ridea che se ne sono fatta
e secondo i loro ideali. Altri si adirano, perché fanno
continuamente brutta figura, si mostrano insicuri di
fronte agli altri e talvolta commettono errori senza riu­
scire in alcun modo ad evitarli.
Spesso le sensazioni dì incapacità hanno la loro cau­
sa nei rapporti con il mondo esterno, ad esempio nel
mondo del lavoro o nella realtà politica 0 sociale. Chi,
terminati gli studi, ha inviato il proprio curriculum a
quaranta o cinquanta ditte senza successo prova un sen­
so di impotenza e di frustrazione di fronte al futuro:

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ha la sensazione che qualunque cosa faccia sarà sem­
pre vana. Contro la dura realtà spesso non si può far
nulla: chi, in giovane età, si è dato da fare per l’ecolo­
gia, più tardi a volte si rassegna nella convinzione che
tutto ciò non abbia alcun senso. La società infatti mal­
tratta continuamente la natura. Altri si sentono inca­
paci di salvare il loro matrimonio che naufraga o di mo­
dificare qualcosa in un rapporto che si è arenato. Mol­
te sensazioni di impotenza affondano le radici nell’in­
fanzia: durante l’infanzia un bambino si è sentito inca­
pace di mitigare le tensioni tra i genitori e di porre fine
ai litigi; spesso i bambini hanno provato un senso di ira
impotente quando sono stati puniti ingiustamente. Il me­
desimo senso di impotenza vivono oggi nel rapporto con
i superiori e le autorità e nelle situazioni di conflitto in
famiglia, nella comunità, sul posto di lavoro.
I genitori si sentono inadeguati nei confronti dei fi­
gli ormai divenuti adulti e quando hanno compiuto delle
scelte completamente diverse da quelle che essi aveva­
no pensato, a tal punto che non riescono più a instau­
rare alcun rapporto con loro. Vecchi e giovani si sento­
no impotenti nei confronti di un mondo in cui tante cose
vanno male e sulle quali tuttavia non possono esercita­
re alcun influsso, perché le decisioni sono prese da al­
tri, da gruppi potenti e da forze anonime che non è pos­
sibile controllare.

Fiducia e sicurezza in se stessi, consapevolezza di sé

Nell’ambito dei sentimenti che riguardano la stima


di sé e il senso di impotenza vi sono molti termini simi­
li: si parla di fiducia in se stessi, di consapevolezza di

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sé, di sicurezza in se stessi. I concetti sono in un certo
senso connessi l’uno airaltro, tuttavia ognuno signifi­
ca qualcosa di diverso. Durante i colloqui viene spesso
lamentata la mancanza di consapevolezza di sé, di fi­
ducia in se stessi, di sicurezza di sé. Una persona con­
sapevole di sé è quella che è cosciente di se stessa, che
sa chi è e cosa c’è dentro di lei. Come persona sicura
di sé viene indicata quella che sa presentarsi in modo
spigliato e che non si lascia intimorire da niente e da
nessuno. Talora, della consapevolezza di sé, si può an­
che far mostra: in questo caso si esibisce consapevol­
mente il proprio sé. Un individuo, tuttavia, può mo­
strarsi consapevole di sé anche quando abbia scarsa au­
tostima; questa viene occultata mediante un compor­
tamento consapevole e sicuro.
Autostima significa conoscere il proprio valore, la
propria dignità, la propria unicità in qualità di perso­
na: è la percezione del mio sé, del mio vero essere, del­
l’immagine che Dio si è fatta di me.
Sicurezza di sé significa invece che una persona ha
il coraggio di fare qualcosa, ha il coraggio dei propri
sentimenti e confida in Dio, che la conduce e l’accetta.
Autostima e fiducia in se stessi si integrano recipro­
camente. Poiché so che come uomo ho valore divino,
posso accettarmi così come sono, posso confidare nel
fatto di essere buono, posso avere il coraggio di pre­
sentarmi così come sono. Ciò non deve significare ne­
cessariamente essere sicuri di sé: posso forse apparire
insicuro in un ambiente sconosciuto, ma esserne con­
sapevole, così da conservare anche allora fiducia in me
stesso e autostima. Io valgo anche nella mia insicurez­
za e nelle mie inibizioni: mentre colui che è consapevo­
le di sé non si può concedere alcuna debolezza, la fidu-
eia in me stesso mi permette anche di essere debole. Il
senso di autostima non gonfia; è piuttosto il senso del
proprio valore in tutte le sue debolezze e i suoi limiti.

Impotenza, mancanza di capacità, di possibilità

Il vocabolo « impotenza » designa anche lo svenimen­


to e il deliquio che insorge a causa di un attacco di de­
bolezza. Quando la necessità diviene così pressante da
risultare quasi insopportabile, il corpo spesso reagisce
venendo meno: l’uomo perde i sensi, per non dover più
mostrare ciò che ci sì aspetta da lui. D ’altro canto il sen­
so di impotenza implica il senso della propria mancan­
za di potere. Potere deriva da volere, essere in grado.
Essere senza potere significa essere senza possibilità, sen­
za influsso, senza capacità. L’impotente non può fare
nulla, non ha alcuna possibilità di modificare le cose,
di creare qualcosa. Il senso di impotenza appartiene es­
senzialmente all’uomo. L’uomo è potente e impotente
nello stesso tempo: egli ha il potere di dominare se stesso
e il mondo; ma è anche incapace di gestirsi sempre ade­
guatamente, è impotente nei confronti di Dio.
Di fronte a questo senso di impotenza che appartie­
ne inevitabilmente all’uomo, si parla di esso quando un
individuo, nella sua vita,'si percepisce incapace dinan­
zi agli uomini che lo circondano o di fronte al mondo
intero. Il senso di impotenza è spesso connesso alla man­
canza di stima di sé, ma non si identifica con essa. A
volte il senso di impotenza e la mancanza di autostima
camminano parallelamente, quando ci si sente incapa­
ci di fronte ai propri errori e di fronte alla possibilità
di cambiare se stessi. Ma esistono anche tante persone

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che effettivamente hanno una sana fiducia in se stesse
e tuttavia soffrono di sensi di impotenza in molti am­
biti della propria vita: si sentono impotenti come inse­
gnanti, perché — a causa di una cattiva educazione im­
partita dai genitori — non riescono a ottenere quasi nulla
dai ragazzi; si sentono impotenti come parroci, perché
sempre meno persone frequentano la messa — nono­
stante si siano dati cura di prepararla con molto impe­
gno e fantasia — e perché nonostante tutti gli sforzi nella
pastorale non riscuotono alcun successo. Si sentono im­
potenti di fronte alle ingiustizie del mondo, alla diffu­
sa miseria nel mondo, di fronte all’ondata di violenza,
di fronte alla burocrazia incancrenita, di fronte a guer­
re senza senso. Quasi nessun uomo riesce a sopportare
questi sensi di impotenza: alcuni reagiscono in manie­
ra depressiva, oppure si rifugiano nella rassegnazione;
altri diventano aggressivi, si dimenano, per non dover
più percepire la propria impotenza, oppure mirano al
potere per sfuggire alla propria impotenza.
Nelle pagine che seguono intendiamo vedere come si
possa agire contro il senso di impotenza proprio dell’e­
sistenza umana senza essere determinati e paralizzati da
esso. In qualità di pastore vorrei prendere in esame i
modi che possono condurre allo sviluppo di una sana
autostima; tuttavia non tratterò di ciò solo a livello pu­
ramente psicologico, ma anche considerandolo imme­
diatamente in una dimensione spirituale. Mi interrogo
come monaco che vive della fede e sperimenta la fede
come aiuto e come valore, e che trae la fiducia in sé dalla
fiducia in Dio. Spero di trovare nella fede una strada
per poter affrontare il mio senso di impotenza e poter
agire in maniera creativa con essa. Però prima di poter
trovare un aiuto nella fede che mi permetta di domina­

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re il mio senso di impotenza e sviluppare una buona au­
tostima devo affrontare la realtà della mia impotenza
e della mia mancanza di autostima. La dimensione spi­
rituale non può semplicemente scavalcare il piano psi­
cologico; piuttosto, solo passando da esso posso giun­
gere a Dio. La via per giungere a Dio non aggira la no­
stra realtà psicologica: ciò sarebbe uno spiritual bypas­
sing, una scorciatoia spirituale, come gli americani chia­
mano lo scavalcare la realtàẵ Non esiste una scorciatoia
spirituale che possa evitarci di affrontare la realtà psi­
chica della nostra vita. Cristo è disceso tra gli uomini
perché noi trovassimo il coraggio di discendere nella no­
stra realtà: solo così possiamo salire a Dio.

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PARTE P R IM A

SVILUPPARE LA STIMA DI SÉ

Sulla base di concetti psicologici intendo spiegare co­


me nasce l’autostima e le cause della mancanza di fid u ­
cia in se stessi. Desidero indicare anche una via che possa
accrescere la fiducia in se stessi: si tratta sempre di una
via che unisce l ’esperienza della psicologia e quella del­
la spiritualità. È sempre lo stesso sé che deve imparare
ad affermarsi e che sta dinanzi a Dio come persona uni­
ca, che ha una fiducia fondamentale nella vita e che con­
fida in Dio.

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1

LA COSTRUZIONE DI UNA BUONA STIMA DI SÉ

Indipendentemente da come è trascorsa la nostra in­


fanzia ognuno di noi ha il compito di sviluppare una
sana autostima. Le premesse in base alle quali dobbia­
mo affrontare questo compito sono evidentemente di­
verse. C’è chi sin dall’infanzia ha ricevuto sufficiente
fiducia nella vita e in se stesso. C’è chi invece da bam­
bino è stato sminuito e svalorizzato, per cui farà più
fatica a realizzare il proprio compito. Ma anch’egli può
giungere ad accettare se stesso e la propria storia, a ri­
conciliarsi con le proprie potenzialità e debolezze, sco­
prire così il proprio sé unico e affermarlo anche davan­
ti agli altri.

Fiducia originaria

Determinante è l’esperienza della fiducia originaria


che il bambino piccolo fa con la mamma. Se la mam­
ma irradia fiducia, allora anche nel bambino nascerà
un forte senso di fiducia; ma se ia mamma è insicura,
se ha paura di commettere qualche errore nell’educa­
zione del figlio, allora anche il bambino diventerà insi­
curo. Nella prima fase egli assume semplicemente ciò
che sperimenta da parte della mamma. Il bambino per-

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cepìsce non solo ciò che la mamma fa, ma anche il mo­
do in cui lo fa: percepisce se lei sta bene o male, se si
sente sicura 0 insicura, se lo accudisce volentieri o con­
trovoglia, se c’è benevolenza o aggressività. È in base
a tutte queste percezioni che nel bambino si sviluppa
sicurezza 0 insicurezza, il senso di una propria auto­
stima.
Il concetto di « fiducia originaria » è stato esposto da
Erik Erikson La fiducia originaria è la sensazione di
potersi fidare dei propri genitori, ma anche di se stessi.
Chi ha ereditato dai suoi genitori e nella cerchia fami­
liare questa fiducia originaria considera il mondo at­
torno a sé con gli occhi della fiducia: non ha timore di
« rischiare » la propria vita, ha voglia di mettere alla pro­
va le sue capacità. I] suo sentimento di fondo è domi­
nato da una profonda fiducia di poter contare sugli uo­
mini, di potersi fidare in tutta semplicità dell’essere uma­
no. Infine questa fiducia originaria ha anche una com­
ponente religiosa: nella sicurezza dell’uomo risplende
qualcosa della fedeltà di Dio che ci sostiene e sul quale
possiamo contare.
Erikson ritiene che un’educazione dei bambini fon­
data sulla religione e sulla tradizione « rafforzi la fidu­
cia originaria del bambino nei confronti del mondo » 2.
La fede prolunga la fiducia originaria del bambino dal­
l’uomo e dal mondo fino a Dio, al principio originario
di ogni essere. Quando un bambino sviluppa una scar­
sa fiducia originaria diviene esageratamente autocriti­
co: dubita di se stesso, delle proprie capacità e del suo
essere accettato da parte degli uomini. La fiducia nella

1 Cfr. E. H. Erikson, Identitat und Lebenszyklus, Frankfurt 1966.


2 E, H, Erikson, Identitat und Lebenszykìus, op. cìt., p. 74.

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vita è la condizione grazie alla quale il bambino può tro­
vare l’identità dell’io. L ’identità dell’io implica il sen­
timento di aver accettato tutti gli aspetti della vita e di
averli integrati nel proprio io, comporta il fatto di aver
visto il filo d’oro della vita e di aver trovato l’unità in­
terna dell’essereẻ Una forte identità dell’io dà sicurez­
za al bambino nei confronti dei suoi istinti e lo proteg­
ge da una coscienza spietata, dalla quale sono tormen­
tati gli uomini privi di fiducia originaria. Chi ha trova­
to la propria identità è capace di intimità e infine di ge­
nerazione, di fecondità, che si esprime nei figli oppure
in un’attività creativa. Il fine dello sviluppo umano, se­
condo Erikson, è l’integrità: chi ha raggiunto l’integri­
tà è divenuto uno con se stesso, in accordo con la pro­
pria storia, ha sviluppato un forte senso di autostima,
una coscienza della propria dignità unica.
Le osservazioni di Erikson hanno un significato per­
manente pure per noi cristiani. Anche per quanto ri­
guarda l’educazione religiosa, la fiducia in Dio di cui
ci si può fidare deve divenire la base di ogni discorso
su di Lui. Se Dio, però, viene mostrato come il sorve­
gliante e l’osservatore continuo, anziché la fiducia ori­
ginaria, il sentimento fondamentale del bambino è la
paura originaria: egli si sente controllato, limitato, os­
servato e giudicato in tutto. Non basta, però, che noi
parliamo del Dio della fiducia: Dio deve diventare spe­
rimentabile come il principio ultimo di ogni fiducia at­
traverso il nostro atteggiamento rassicurante. I pensie­
ri di Erikson potrebbero divenire un criterio del giusto
parlare di Dio e dell’uomo. Se noi esigiamo dal bambi­
no prima di tutto che sia buono e osservi i comanda-
menti di Dio e le nostre prescrizioni, lo educheremo co­
me un uomo adattato e noioso. L’immagine dell’uomo,

17
così come Dio lo vuole, è impregnata di integrità e ge-
neratività, di interezza e fecondità. L ’uomo che ha sco­
perto l'interiore unità della propria vita, che sprizza vi­
talità, che ha sempre nuove idee, attorno al quale sor­
ge qualcosa che ha significato anche per gli altri, è l’uo­
mo che corrisponde alla volontà dì Dio.

Singolarità e unicità

Per sviluppare una buona stima di sé non si tratta solo


di fidarsi di se stessi, del mondo e di Dio, ma piuttosto
di scoprire la propria unicità. Ogni uomo costituisce
un’immagine unica, che Dio ha costruito solo per lui.
Tommaso d ’Aquino ritiene che ognuno di noi in que­
sto mondo rappresenti Dio in un modo unico: il mon­
do sarebbe più povero se ognuno di noi non esprimesse
Dio in modo personale unico. Nella sua autobiografia
Romano Guardini dice che Dìo pronuncia su ogni uo­
mo una parola originaria, che vale esclusivamente per
questo solo uomo. Ogni uomo è una parola di Dio di­
venuta carne. Il nostro compito consiste nel rendere per­
cepibile nella nostra vita questa parola di Dio esclusi­
va. Avere stima di sé comporta la percezione di que-
st’unica immagine di Dio che io sono, percepire la pa­
rola unica di Dio, che Dio pronuncia Solo in me. Con
ciò forse non apparirò affatto consapevole e sicuro di
me, ma percepirò il segreto della mia esistenza unica.
Rinuncerò a mettermi a confronto con gli altri e a met­
tere in mostra i miei punti forti: la mia unicità sarà in­
dipendente da tutti i vantaggi che potrei derivarne. Es­
sa consiste nel fatto che vengo formato da Dio. Il sal­
mista ha espresso così quest’esperienza che rende feli­

18
ci: « Sì, tu hai plasmato i miei reni, mi hai tessuto nel
grembo di mia madre. Ti rendo grazie perché sono sta­
to formato in modo stupendo» (Sai 139,13ss).
Che la percezione della propria unicità sia importan­
te per la formazione di una buona autostima, è stato
espresso soprattutto da John Bradshaw: un bambino
sviluppa una forte autostima, se viene preso sul serio
dai genitori nella sua unicità, se i suoi sentimenti sono
rispettati, se egli può essere, di fronte a loro, così come
egli è. Se ciò non si verifica, allora il bambino reagirà
con un atteggiamento di sfiducia, si sentirà ferito inte­
riormente e si chiuderà. Nell’unicità del bambino è ri­
posta la sua somiglianza con Dio, il quale si è manife­
stato come r io sono. Quando un bambino non viene
rispettato nei suoi sentimenti unici e nel suo particola­
re valore, secondo Bradshaw si incorre in una ferita spi­
rituale. Essa è responsabile del fatto « che noi divenia­
mo dei bambini adulti dipendenti e pieni di vergogna.
La storia del declino di ogni uomo e di ogni donna ri­
guarda il fatto che un bambino favoloso, prezioso, par­
ticolare e caro, ha perso il suo senso delP“ io sono chi
sono” » 3.
I giovani che soffrono di mancanza di autostima mi
dicono continuamente che i genitori non hanno rispet­
tato la loro unicità, non hanno affrontato la fatica di
immedesimarsi con loroằ Li hanno giudicati secondo i
propri parametri. Se il bambino voleva sperimentare
qualcosa di nuovo, si sentiva dire: « Sei troppo piccolo
per questo. Non sei capace di farlo. Sei troppo stupi­
do. Non lo capirai mai ». Questi messaggi negativi stron­
cano ogni senso di autostima. Il bambino recepisce il

' J. Bradshaw, D as K in d in uns, Miinchen 1992, p. 66.

19
così come Dio lo vuole, è impregnata di integrità e ge-
neratività, di interezza e fecondità. L’uomo che ha sco­
perto l’interiore unità della propria vita, che sprizza vi­
talità, che ha sempre nuove idee, attorno al quale sor­
ge qualcosa che ha significato anche per gli altri, è l’uo­
mo che corrisponde alla volontà di Dio.

Singolarità e unicità

Per sviluppare ima buona stima di sé non si tratta solo


di fidarsi di se stessi, del mondo e di Dio, ma piuttosto
di scoprire la propria unicità. Ogni uomo costituisce
un’immagine unica, che Dio ha costruito solo per lui.
Tommaso d ’Aquino ritiene che ognuno di noi in que­
sto mondo rappresenti Dio in un modo unico: il mon­
do sarebbe più povero se ognuno di noi non esprimesse
Dio in modo personale unico. Nella sua autobiografia
Romano Guardini dice che Dio pronuncia su ogni uo­
mo una parola originaria, che vale esclusivamente per
questo solo uomo. Ogni uomo è una parola di Dio di­
venuta carne, Il nostro compito consiste nel rendere per­
cepibile nella nostra vita questa parola di Dio esclusi­
va. Avere stima di sé comporta la percezione di que-
st’unica immagine di Dio che io sono, percepire la pa­
rola unica di Dio, che Dio pronuncia Solo in me. Con
ciò forse non apparirò affatto consapevole e sicuro đi
me, ma percepirò il segreto della mia esistenza unica.
Rinuncerò a mettermi a confronto con gli altri e a met­
tere in mostra i miei punti forti: la mia unicità sarà in­
dipendente da tutti i vantaggi che potrei derivarne. Es­
sa consiste nel fatto che vengo formato da Dio. Il sal­
mista ha espresso così quest’esperienza che rende feli­

18
ci: « Sì, tu hai plasmato i miei reni, mi hai tessuto nel
grembo di mia madre. Ti rendo grazie perché sono sta­
to formato in modo stupendo» (Sai 139,13ss).
Che la percezione della propria unicità sia importan­
te per la formazione di una buona autostima, è stato
espresso soprattutto da John Bradshaw: un bambino
sviluppa una forte autostima, se viene preso sul serio
dai genitori nella sua unicità, se i suoi sentimenti sono
rispettati, se egli può essere, di fronte a loro, così come
egli è. Se ciò non si verifica, allora il bambino reagirà
con un atteggiamento di sfiducia, si sentirà ferito inte­
riormente e si chiuderà. Nell’unicità del bambino è ri­
posta la sua somiglianza con Dio, il quale si è manife­
stato come l’io sono. Quando un bambino non viene
rispettato nei suoi sentimenti unici e nel suo particola­
re valore, secondo Bradshaw si incorre in una ferita spi­
rituale. Essa è responsabile del fatto « che noi divenia­
mo dei bambini adulti dipendenti e pieni di vergogna.
La storia del declino di ogni uomo e di ogni donna ri­
guarda il fatto che un bambino favoloso, prezioso, par­
ticolare e caro, ha perso il suo senso dell’“ io sono chi
sono” » 3.
I giovani che soffrono di mancanza di autostima mi
dicono continuamente che i genitori non hanno rispet­
tato la loro unicità, non hanno affrontato la fatica di
immedesimarsi con loro. Li hanno giudicati secondo i
propri parametri. Se il bambino voleva sperimentare
qualcosa di nuovo, si sentiva dire: « Sei troppo piccolo
per questo. Non sei capace di farlo. Sei troppo stupi­
do. Non lo capirai mai ». Questi messaggi negativi stron­
cano ogni senso di autostima. Il bambino recepisce il

3 J. Bradshaw, D as K ind ìn UIIS, Mùnchen 1992, p. 66.

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messaggio dei genitori e lo interiorizza: ha l’impressio­
ne di non servire a nulla, di essere troppo lento, che al­
tri siano capaci di fare meglio ecc. In questo modo non
può crescere un sentimento della propria peculiarità. I
giudizi dei genitori sminuiscono così radicalmente, che
ci si sente unici al massimo in senso negativo. Ci si sen­
te come spazzatura, come i più stupidi, i peggiori: se
non mi sento unico nelPunicità che Dio mi ha donato,
mi devo almeno sentire unico nella mia negatività.

La pentola piena

Virginia Satir, una psicoterapeuta familiare america­


na, riporta nel suo libro Autostima e comunicazione
un’immagine efficace per il sentimento di autostim a4.
Essa prende a immagine dell’autostima la grande pen­
tola in ferro che si trova nella sua fattoria e che a se­
conda della stagione è piena di sapone, di minestrone
o di concime. Se uno dice: « La mia pentola oggi è pie­
na », tutti sanno che è piena di energia e di autostima.
Se dice: « Lasciami in pace, la mia pentola perde », ciò
rivela agli altri che non ci si sente in forma. Nella no­
stra casa di accoglienza gli ospiti che sono da noi per
tre mesi, per scoprire le loro fonti interiori nell’accom­
pagnamento terapeutico e spirituale, hanno fatto pro­
pria l’immagine della pentola. Uno ha gridato a un al­
tro che la sua pentola quel giorno era straripante. Op­
pure hanno parlato l’uno con l’altro servendosi dell’im­
magine della pentola: di uno si è detto che quel giorno
probabilmente aveva per pentola un secchio pieno di

4 V. Satir, Selbstwert u n d K om m unikation, Mìinchen 1993.

20
buchi, di un altro che aveva una pentola come una be­
toniera. Gli ospiti potevano esprimere, con l’immagine
della pentola, il proprio stato d’animo.
Il sentimento di autostima non è innato: lo si impara
in famiglia. Dipende dai messaggi che un bambino ri­
ceve dai genitori, se egli si sente accettato e prezioso.
Il bambino percepisce l’espressione sul volto dei geni­
tori e đa essa comprende se i genitori lo stimano o me­
no, se sono convinti del suo valore o meno. Perché possa
nascere una buona autostima, si ha bisogno di un at­
teggiamento di apertura. Si deve parlare apertamente
l’uno con l’altro e si devono saper accettare gli errori
degli altri. Causa della mancanza di autostima è spesso
una comunicazione velata, in cui non risulta chiaro quale
posizione assumere.
Ma non è mai troppo tardi per apprendere Pautosti-
ma o per rinforzarla: in qualsiasi momento si può so­
stituire la mancanza di comunicazione con una comu­
nicazione positiva e fare così sempre nuove esperienze,
che ci aiutano a riempire la nostra pentola vuota. Gli
ospiti, nella nostra casa di accoglienza, si sono aiutati
reciprocamente — tramite nuove forme di colloquio —
ad avere una pentola piena. Il livello di comunicazione
è indiscutibilmente molto importante per far nascere
l’autostima: non basta che una famiglia sia affettuosa,
se è incapace di colloquio. L ’affetto, da solo, non è suf­
ficiente a far nascere l’autostima: è necessaria anche la
premessa umana di una comunicazione riuscita, perché
noi ci stimiamo importanti l’un l’altro e dinanzi a Dio.

21
L ’acccttazione dell’om bra

Una sana autostima non deve necessariamente con­


sistere nel fatto che uno appaia sicuro di sé: decisivo
è che uno sappia dire di sì a se stesso. Tanti anni fa ho
tenuto un corso per psicologi. Uno di essi, all’arrivo,
raccontò di essere completamente confuso, perché il
viaggiare lo stressava molto. Io avevo pensato che gli
psicologi si distinguessero per una grande sicurezza di
sé. Allora mi divenne chiaro che solo chi sa riconciliar­
si con le proprie debolezze e le proprie ombre ha vera­
mente una buona autostima. Chi può ammettere i pro­
pri errori dinanzi agli altri, chi accetta se stesso se fa
una gaffe di fronte ad altri, questi possiede veramente
una buona autostima. Egli si sa accettare così com’è,
anche con i suoi aspetti meno piacevoli.
Secondo c . G. Jung appartiene all’accettazione di sé
anche l’accettazione della propria ombra. L ’uomo vi­
ve continuamente tra due poli, tra paura e fiducia, tra
ragione e sentimento, tra amore e aggressione, tra di­
sciplina e disordine. Alcuni, che appaiono molto sicuri
di sé, sono in contatto con un solo polo. Così l’uomo
ragionevole si mostra sicuro di sé, ma non è capace di
rivelare i propri sentimenti: appena si tocca il livello dei
sentimenti entra nel panico e si chiude. Egli non ha una
vera autostima, si percepisce solo in modo unilaterale.
Chi vive coscientemente solo uno dei due aspetti relega
l’altro neirombra, subendo però da quest’ultimo un in­
flusso negativo. Così il sentimento represso si esprime
come sentimentalismo; oppure, la mancanza di disci­
plina che è stata repressa porta l’uomo a perdere com­
pletamente il controllo verso un aspetto della sua vita.
L ’ombra si può manifestare anche con reazioni ecces­

22
sive, non appena uno entri in contatto con i propri punti
deboli. In questo caso chi appare esternamente sicuro
di sé perde all’improvviso il controllo. La sua sicurez­
za esibita si sgretola all’improvviso. Colui che invece
ha accettato la propria ombra, può reagire con calma
quando fa una brutta figura o quando venga bersaglia­
to dalle critiche. Egli si conosce, si è riconciliato con
i suoi limiti e le sue qualità. In questo modo tutto quel­
lo che si dice di luì non lo può sconvolgere tanto facil­
mente, perché il fondamento su cui poggia ha due ba­
si, i due poli che ha accettato dentro di sé.
Per C ệ G. Jung la via verso una sana autostima pas­
sa per l’accettazione dell’ombra, per l’integrazione di
anima e di animus e per l’ammissione dell’immagine di
Dio, che si esprime nell’animo umano in immagini e sim­
boli. Jung parla di realizzazione del sé, non di realizza­
zione dell’io. Il sé si distingue dall'io: solo l’io è coscien­
te. Esso è il nucleo cosciente a partire dal quale io mi
decido. Ciò appare chiaramente all’esterno quando di­
co: « Voglio dò adesso. Io mi decido in questo modo
adesso. Io vado là adesso. Io non ho voglia ». L ’io vuole
fare impressione. Noi ci aggrappiamo spesso all’io, ma
per giungere ai sé, dobbiamo lasciare il piccolo io. Dob­
biamo scendere nella nostra profondità e scoprire il ve­
ro nucleo della nostra persona. Spesso, tuttavia, non
è facile per gli uomini « scendere dalla loro altezza e ri­
manere in basso. Si ha paura in primo luogo di una per­
dita sociale di prestigio e poi di una perdita della con­
sapevolezza morale di sé, quando si deve ammettere a
se stessi la propria debolezza » 5. Dobbiamo scendere
nei nostri abissi prima di imbatterci nell’immagine di

s c , G. Jung, Gesammelte Werke, vol. X, Olten 1974, p. 387.

23
Dio. Solo colui che ammette in sé l’immagine di Dio
può trovare il proprio sé; e solo colui che ha trovato
questo nucleo interiore, il suo vero sé, ha un vero sen­
so di autostima.
Chi è in contatto col proprio sé si sente indipendente
dall’opinione altrui, trova se stesso, la propria dignità.
E diviene capace di rimanere presso di sé e di continua­
re a starci. Il viaggio nella propria interiorità è così af­
fascinante che non si considerano più così importanti
la lode e la correzione che giungono dairesterno. Jung
lo afferma in una sua lettera: « Il valore di un uomo
non si esprime mai nella relazione con l’altro uomo, ma
esiste in sé. Perciò non dobbiamo mai far dipendere la
consapevolezza di noi stessi o la nostra autostima dal
comportamento di un altro uomo, anche se possiamo
risultarne danneggiati » s. Autorealizzazione significa
raggiungere un vero sé e perciò rendersi indipendenti
dal giudizio degli uomini.
Secondo Jung all’autostima appartiene anche la ri­
conciliazione con la propria storia: ciò significa che non
ha senso rivangare continuamente nel proprio passato
e cercare in esso le cause per una mancanza di fiducia
in se stessi. Una volta 0 l’altra ognuno dovrà assumersi
la responsabilità della propria vita, dovrà accettare il
proprio passato come materiale che è disposto a mo­
dellare. Si può creare una bella statua dal legno, si può
scolpire qualcosa di meraviglioso dalla pietra e model­
lare qualcosa di prezioso con l’argilla: tuttavia bisognerà
trattare il legno come legno e la pietra come pietra, al­
trimenti non se ne potrà ricavare una figura. Il nostro
passato è il materiale che abbiamo a disposizione: pos­

6 c . G. Jung, Brìefe, vol. I, Olten 1972, pp. 198ss.

24
siamo modellare con esso una bella figura, indipenden­
temente dal fatto che si tratti di legno o di pietra o di
argilla; ma dobbiamo adattarci a questo materiale, dob­
biamo riconciliarci con la nostra storia. Allora essa può
diventare preziosa per noi. Ripeto continuamente alle
persone che accompagno: « La tua storia è il tuo capi­
tale. Se tu ti riconcili con il percorso della tua vita, esso
può produrre frutto per tanti, proprio con i suoi aspet­
ti più difficili ».
Se mi assumo le responsabilità della mìa vita, smet­
terò di cercare in altri la colpa delle mie miserie. La re­
sponsabilità mi aprirà gli occhi sulle possibilità che io
solo ho per realizzare l’immagine unica che Dio si è fatto
di me. Per far ciò devo però allontanarmi da ideali trop­
po alti con cui forse mi identifico: non si tratta di di­
ventare perfetti e privi di errori, ma di divenire un tut-
t ’uno con me stesso, con tutte le dissonanze che si tro­
vano in me. Avere una sana autostima significa per c .
G. Jung trovare un significato per la luce e il buio den­
tro di me, per gli aiti e i bassi, per il bene e il male, per
il divino e l’umano. Si tratta dell’intuizione secondo la
quale Dio vuole nascere in me in maniera unica: il sé
è in ultima analisi rimmagine di Dio in me, l’immagi­
ne unica che Dio si è fatto di me.

Il sé spirituale

Già per c . G. Jung il sé è qualcosa di più del risulta­


to della storia della nostra vita. Chi siamo in realtà, af­
ferma oggi la psicologia transpersonale, lo scopriamo
solo se abbandoniamo le nostre tante identificazioni.
Ci identifichiamo spesso con le opinioni dei nostri ge­

25
nitori, ci definiamo a partire dal successo e dal rendi­
mento, dall’accettazione e dalle conferme, dall’atten­
zione e dalle relazioni. Finché ci identifichiamo con i
nostri sentimenti e i nostri bisogni, con i nostri stati di
salute, ne dipendiamo e diventiamo ciechi nei confron­
ti della realtà del sé. Dobbiamo abbandonare l’identi­
ficazione con uomini, con ruoli, con il nostro lavoro
e il nostro rendimento, per scoprire chi siamo realmen­
te. Dobbiamo dis-identificarci per trovare il nostro sé
spirituale.
La psicologia transpersonale ha sviluppato l’eserci­
zio della dis-identificazione. Osservo i miei pensieri, i
miei sentimenti, le mie passioni e poi mi dico: « Sento
la mia ira, la osservo. Ma non sono identico alla mia
ira. Io non sono la mia ira: dentro di me c’è un punto
che può osservare l’ira, che non è più determinato dal­
l’ira». È il testimone inosservato, il vero sé. Roberto
Assagioli, uno psichiatra italiano, ha sviluppato que­
sto esercizio di dis-identificazione. Prima si deve per­
cepire il proprio corpo e poi ci si deve rendere consape­
voli del fatto che è possibile trasformarlo. Dal corpo
si deve ritornare al sé spirituale, al centro della coscienza
pura, che osserva il corpo trasformabile e resta tutta­
via costante e immutabile. Questa è la nostra vera iden­
tità. Assagioli chiama questo sé spirituale « un centro
di pura autocoscienza e autorealizzazione » 7.
Noi siamo perciò più dell’io che si intende afferma­
re, che appare sicuro e consapevole del proprio valore.
Il sé spirituale è la patria interiore, nella quale siamo
totalmente in noi, nella quale scopriamo che il nostro

7 R. Assagioli, Psychosyntese. Prinzipìen, M ethoden und Technikett, Zu­


rich 1988, p“ 139.

26
vero sé è stato formato da Dio: è l’immagine unica e
inconfondibile che Dio si è fatto di noi. Non si tratta
dunque semplicemente di apparire sicuri di noi stessi e
consapevoli del nostro valore. Noi siamo più di ciò che
viviamo all’esterno, indipendentemente dalla nostra ap­
parenza, sicuri o insicuri, forti o deboli. Perciò il nostro
compito consiste nell’abbandonare la nostra autovalu­
tazione. Non è importante come valuto me stesso, se
mi valuto migliore o più forte degli altri. Non scopro
me stesso contemplando le ferite della mia infanzia e
analizzando le mie paure, che dipendono dalla mancanza
di fiducia in me stesso: decisivo è che scopra il segreto
del mio vero sé. Per lo psicologo transpersonale Bur-
gental il nostro problema consiste nel fatto che cerchia­
mo sempre il nostro sé all’esterno, nelle conferme ester­
ne, nei successi esterni, nella sicurezza esterna. Ma lo
possiamo trovare solo all'interno, nel mondo interiore
della nostra anima, nella nostra vera patria: « La no­
stra patria è all'interno. E là siamo sovrani. Finché noi
non riscopriremo questa verità antica — e d ò ognuno
per sé e a proprio modo — siamo condannati a vagare
e a cercare consolazione là dove non esiste: nel mondo
esterno » 8. È dunque troppo poco avere esternamente
una notevole consapevolezza di sé, presentarsi bene, sa­
per tralasciare critiche e saper gestire le opposizioni. In
questi casi appariamo sì esternamente sicuri e consape­
voli di noi; ma non abbiamo scoperto il nostro vero sé.
La consapevolezza di noi è infatti costruita sulla sab­
bia, non siamo davvero in contatto con il nostro sé.

8 J. Bugental, Stufen Iherapeutiscker E ntw icklung, ill A a.vv., Psycho-


logie in der W ende, a cura di R. N. Walsh - F. Vaughan, Mtinchen 1985,
p. 217.

27
Il mio vero sé è più del risultato della mia storia, più
del risultato della mia educazione e del mio lavoro su
me stesso: esso è qualcosa di chiaramente divino, un
mistero, perché Dio stesso vi si esprime in maniera uni­
ca. È l’immagine originaria che Dio si è fatto di me,
è la parola di Dio unica che vuole diventare carne in
me. È la parola originaria di Dio, che riguarda un solo
e unico uomo. La Parola che deve divenire udibile nel
mondo tramite noi. Il sé spirituale è questa unica e in­
confondibile parola di Dio che intende diventare visi­
bile e udibile dentro di me.
Esistono tante immagini per esprimere r autostima,
immagini che sono state sviluppate dai vari psicologi.
Possiamo però osservare anche immagini contenute nella
Bibbia per una sana autostima. Vi troviamo l’immagi­
ne dell’albero che nasce dal seme di senapa piccolo e
insignificante (Mt 13,31ss). L ’albero cresce alto e af­
fonda profondamente le proprie radici nella terra: è
un’immagine per l’uomo che accetta se stesso, che non
si fa abbattere facilmente, perché è saldamente fonda­
to in Dio. Così ci si può appoggiare a esso, cercare pro­
tezione e rifugio nella sua ombra. C’è poi l’immagine
del tesoro nascosto nel campo (Mt 13,44ss). Il tesoro
nascosto è l’immagine di noi stessi: esso si trova in mezzo
al campo, in mezzo alla sporcizia. Dobbiamo vangare
la terra per trovare il nostro vero sé. C’è l’immagine
della perla preziosa (Mt 13,45ss). La perla nasce nella
ferita dell’ostrica, In mezzo alle nostre ferite possiamo
trovare il nostro sé, l’immagine che Dio si è fatto di noi.
La ferita frantuma tutte le immagini che abbiamo in­
dossato e con le quali occultiamo il nostro vero sé.
Con queste immagini la Bibbia ci mostra chi siamo
veramente; ci mostra che il nostro sé è un mistero in

28
cui Dio stesso si rivela, nel quale siamo parte di Dio.
E intende mostrarci che siamo più della nostra storia
e del nostro passato, anche se essi ci hanno segnati. Ciò
risulta chiaro dall’immagine del tronco d’albero dal qua­
le nasce un ramoscello: da ciò che è potato, distrutto,
ferito, andato in rovina, nasce un nuovo germoglio. Il
sé non è qualcosa che possiamo tener stretto: esso di­
viene visibile proprio quando qualcosa nella nostra vi­
ta viene potato e tagliato via. Questo è il messaggio con­
solante della Bibbia: il sé può rinascere nuovamente dai
cocci della nostra vita, che rifiorisce proprio là dove tutto
appare sterile, e diviene benedizione per gli altri (cfr.
Is 11,1). È un’immagine consolante, che non scambia
il nostro sé con il successo esteriore e la sicurezza ester­
na, ma scopre proprio nell’insuccesso, in mezzo alle fe­
rite, un sé formato da Dio, che resiste a ogni devasta­
zione e scombussolamento esterni, perché giunge dalle
mani di Dio.

29
2

IMMAGINI DELLA MANCANZA DI AUTOSTIMA

Nella pastorale incontro sempre più persone che man­


cano di autostima. Spesso quelli che chiedono consiglio
adducono come causa dei loro problemi il fatto che non
hanno fiducia in se stessi, che posseggono un bassissi­
mo senso di autostima. Talora ho l’impressione che la
gente sia contenta di aver trovato la causa dei propri
problemi nella mancanza di autostima. La questione,
però, è come poter raggiungere una migliore autosti­
ma, come lavorare su di sé per divenire più sicuri. Vor­
rei tracciare alcune immagini di una debole fiducia in
se stessi, poiché le immagini, spesso, sono più efficaci
di teorie e di modelli psicologici. Vorrei nuovamente li“
mitarmi a immagini bibliche.

Il piccolo

Nel parlare di colleghi di lavoro o amici, sì sente dire


spesso che una persona è singolare perché ha complessi
di inferiorità. Qualsiasi psicologo dilettante conosce il
vocabolo coniato da Alfred Adler nella sua psicologia
individuale9. Spesso i complessi di inferiorità vengono

9 A. Adler, D er Sìnn des Lebens, Frankfurt 1980.

30
compensati con il fatto di mettersi particolarmente in
risalto. In qualcuno i sensi di inferiorità si nascondono
dietro a un comportamento arrogante: ci si costruisce
una facciata sicura di sé, si assume un’aria di sufficien­
za e si guardano gli altri dall’alto in basso. Spesso que­
sto è un segnale del fatto che dietro la facciata non c’è
alcun edificio considerevole, ma una catapecchia. Ed
è questa che tuttavia si vorrebbe nascondere dietro la
propria facciata arrogante. C’è chi invece mette in atto
la propria compensazione, vantandosi del proprio de­
naro 0 delle proprie capacità.
La storia di Zaccheo è la tipica storia che riguarda
il complesso di inferiorità e il tentativo di compensarlo
(Le 19,1-10). Di Zaccheo, capo dei pubblicani, si dice
che era basso di statura. Questa è proprio un’immagi­
ne dell'uomo che si sente piccolo e per questo si deve
rendere grande. Zaccheo cerca di compensare i propri
sensi di inferiorità nel guadagnare più denaro possibi­
le. Come capo dei pubblicani riscuote denaro senza cle­
menza: egli crede che, se diventa l’uomo più ricco, sa­
rà finalmente considerato e stimato da tutti. Ma si tratta
proprio del contrario: quanto più egli cerca di compen­
sare la propria inferiorità con il denaro, tanto più vie­
ne evitato da tutti. Viene emarginato dalle persone pie
come peccatore e si imbatte in un circolo vizioso, che
per molte persone « basse di statura » è tipico. Si inten­
de compensare la propria inferiorità con l’apparire, col
diventare i primi della classe 0 accumulando sempre più
ricchezze. Si desidera infine valere qualcosa per gli al­
tri e si esagera nella descrizione delle proprie capacità
ed esperienze. Ma quanto più si mette in mostra il pro­
prio valore e il proprio genio, tanto più si viene rifiuta­
ti. Noi pure reagiamo in maniera simile quando qual-

31
cuno nella nostra comunità, sul posto di lavoro, in fa­
miglia si mette regolarmente in mostra. Involontaria­
mente cresce in noi un sentimento di rifiuto. Chi si mette
in mostra, chi compensa la propria inferiorità, viene ri­
fiutato e riceve sempre meno dalla vita.
Gesù guarisce la mancanza di autostima di Zaccheo
semplicemente guardandolo e invitandosi a pranzo da
lui. Non lo condanna, non gli fa alcun rimprovero, ma
lo accetta incondizionatamente. Quest’esperienza di es­
sere accettato senza condizioni trasforma il pubblicano
ricco e avaro. Ora egli fa di più delle persone pie che lo
condannano. Ora dà la metà dei suoi beni ai poveri. Non
ha più bisogno di rendersi grande. Ora cerca la comu­
nione con gli uomini, condivide con essi i propri averi
e la propria vita. Così egli si sente uomo tra gli uomini.
Sì, a casa sua si radunano tutti i pubblicani e peccatori
e mangiano assieme a Gesù, il quale comunica loro la
misericordia di Dio e il suo amore per l’uomo.
Secondo Alfred Adler la guarigione del senso di in­
feriorità passa esclusivamente attraverso il senso di co­
munione. Luca ha voluto dire proprio questo nella sto­
ria di Zaccheo: non la concentrazione su se stessi, non
la ricerca di riconoscimento e di importanza, ma la di­
sponibilità di darsi agli altri uomini, di condividere con
essi la vita. Nella convivenza con gli altri sento di avere
valore, mi sento un membro accettato della comunità
umana.

I] paralitico

Gesù guarisce un paralitico che viene calato da quat­


tro uomini dal tetto della casa direttamente ai suoi pie­

32
di (Me 2,1-12). Gesù riconosce che la paralisi non è so­
lo esterna, ma è determinata da un atteggiamento inte­
riore: per questo, prima gli perdona i peccati. Il parali­
tico deve modificare il proprio atteggiamento interiore
prima di potersi alzare in piedi anche fisicamente. Le
persone che soffrono di mancanza di autostima si sen­
tono spesso paralizzate. Si sentono bloccate alla pre­
senza di determinate persone e non riescono a uscire da
se stesse. Non hanno il coraggio di esprimere la pro­
pria opinione. Danno ad altri così tanto potere, da sen­
tirsi poi piene di impedimenti accanto a loro, oppure
non hanno il coraggio di prendere la parola quando si
trovano in un gruppo. Temono di dire qualcosa di sba­
gliato e di cui gli altri possano ridere. Il paralitico non
è presso di sé; guarda continuamente agli altri, a ciò che
essi potrebbero pensare, all’effetto che egli fa su di lo­
ro, Piuttosto spesso si mette in testa che gli altri stiano
pensando a lui, che ridano e parlino male di lui: tutto
ciò che vede negli altri, lo riferisce subito a se stesso.
E questo lo paralizza.
Una donna entra in chiesa e si sente osservata da tut­
ti: preferirebbe uscire per evitare gli sguardi degli altri.
In realtà, gli altri non la guardano affatto. Si tratta di
un problema diffuso: persone prive di fiducia in se stesse
pensano che gli altri le osservino continuamente, che
gli altri parlino di loro. Allora può accadere che uno
viaggi in treno e pensi che i giovani accanto a lui lo de­
ridano. In realtà stanno ridendo tra loro. Colui che non
è in se stesso, attribuisce ogni cosa a sé: gli altri parla­
no di me, mi osservano, vedono come sono insicuro;
pensano a me, mi perseguitano. L ’ho vissuto io stesso
quando, dopo l’ordinazione sacerdotale e gli studi teo­
logici, ho ricominciato a studiare economia e commer­

33
ciò. Mi sentivo completamente spaesato nel mio ruolo
e personalmente non stavo bene: provavo sempre disa­
gio ad andare in tram all’università. Pensavo sempre
che gli altri mi fissassero, non ero presso di me. L’uni­
co aiuto era quello di immergermi in uno scritto e di­
strarmi così dagli altri. Allora non mi aiutava convin­
cere me stesso del fatto che gli altri non mi stavano os­
servando. Dovevo piuttosto ripetermi: « Se mi osserva­
no, è un problema loro. Io sono io ». Ciò mi ha aiuta­
to pian piano a rendermi meno dipendente dagli altri.
In una signora lo scarso senso di autostima si è ma­
nifestato nel fatto di sentirsi continuamente controlla­
ta dal marito. Quando le domandai se suo marito la con­
trollasse realmente oppure se lei se lo immaginava sol­
tanto, dovette ammettere che interpretava ogni sempli­
ce domanda di suo marito come un atteggiamento di
controllo 0 critica. Poiché essa non ha stima di sé, vive
ogni parola di suo marito come un rifiuto. Allora si sente
paralizzata: ha l’impressione che suo marito non la pren­
da sul serio. In verità è lei stessa a non prendersi sul
serio, non si crede capace di alcunché. Soffre del fatto
che la gente non la considera; in realtà gli altri la sti­
mano molto. Solo perché lei non si stima ha l’impres­
sione che tutti gli altri non la apprezzino nelle sue ca­
pacità. Poiché lei per prima non si prende sul serio, non
si sente considerata dagli altri. Se entrambi gli sposi han­
no scarsa autostima, il più delle volte non sono capaci
di discutere in maniera imparziale. Ciascuno si sente at­
taccato dalle osservazioni dell’altro e si deve subito di­
fendere e giustificare. La minima critica fa provare lo­
ro una sensazione di insicurezza. Allora devono affer­
marsi in maniera spasmodica: ciascuno ha paura di per­
dere, perciò deve continuamente ferire l’altro ế Così nasce

34
un’insanabile confusione, un’eterna battaglia in trincea,
nonostante i due sposi si amino come prima.
Gesù guarisce il paralitico, invitandolo semplicemente
così: « Sorgi, prendi il tuo lettuccio e vattene a casa »
(Me 2,11). Con questo imperativo vieta al paralitico di
concentrarsi solo su se stesso, di pensare se sarà capace
di camminare in maniera corretta e accettare se stesso.
Infatti tutti questi pensieri gli impediscono di alzarsi.
Una volta, quando ho tenuto un corso per psicologi sul­
l'interpretazione della Scrittura in prospettiva di psico­
logia del profondo, questi sono rimasti entusiasti del
metodo terapeutico di confronto di Gesù. Qualcuno os­
servò che il compito comunemente riconosciuto come
il più importante della psicologia è quello di compren­
dere l’altro. Ma egli avvertiva che semplicemente com­
prendere era troppo poco, perciò desiderava raggiun­
gere il metodo di confronto di Gesù. Tramite il confron­
to, Gesù toglie all’ammalato l’illusione, non gli lascia
via di scampo per affrontare la propria verità. Egli non
può più illudersi: non gli rimane altro che alzarsi. Deve
prendere sottobraccio il lettuccio, simbolo della sua ma­
lattia, e camminare. Tutti noi ci libereremmo volentie­
ri delle nostre inibizioni, delle nostre insicurezze, sia­
mo addolorati dalle nostre paresi e ci alzeremmo vo­
lentieri. Ma ci alziamo solo se siamo sicuri che gli altri
non notano più le nostre debolezze e inibizioni. Gesù
ci invita ad accettare le nostre inibizioni, a prenderle
addirittura sottobraccio, a trascurarle anziché a farci
paralizzale da esse. Il lettuccio che portiamo sottobrac­
cio ricorda a noi e agli altri che siamo sempre insicuri
e inibiti. Ma non ci lasciamo tenere a letto da questi sen­
timenti! Dobbiamo accettarli e portarli con noi, senza
farci determinare da essi.

35
Colili che fa confronti

Nel quinto capitolo del vangelo di Giovanni il mala- I


to individua la causa della sua malattia nel fatto di es~ V
sere svantaggiato. Gli altri sono più veloci: essi hanno
qualcuno che li porta in piscina, non appena l’acqua
si muove. Il fare confronti è spesso espressione di man­
canza di autostima. Colui che continuamente si confron­
ta con gli altri non dà alcun significato a se stesso, al
suo valore, alla sua vita. Egli si definisce solo nel con­
fronto con gli altri, per cui riscuote sempre minor sue-
cesso. Vi saranno sempre persone più veloci di noi, più
portate di noi, più amate, che si presentano meglio di
noi. Finché ci metteremo a confronto con gli altri, non
saremo presso di noi. Non avremo alcuna percezione
di noi stessi.
Una donna frequenta volentieri un circolo femmini­
le. Spesso, però, vi si trova a disagio: si mette infatti
a confronto con le altre. Le altre hanno studiato, lei no.
Le altre sanno parlare meglio di lei. Cosa penseranno,
se lei parla in maniera così poco forbita? Durante il di­
scorso si arrovella il cervello su ciò che le altre sanno
fare meglio di lei e sulle cose in cui lei è svantaggiata.
Gesù guarisce chi si confronta, impedendogli di scer-
veliarsi. Prima lo guarda e gli dà così considerazione.
Riconosce la sua situazione e gli chiede: « Vuoi guari­
re? » (Gv 5,6), Egli lo pone a confronto con se stesso,
con la sua volontà. Anziché confrontarsi con gli altri,
deve chiedere a se stesso cosa intende fare della propria
vita. Gesù priva di scuse l'uom o che si confronta con
gli altri: non è importante dò che fanno e dicono gli
altri, come essi siano, se siano migliori o più veloci. Si
tratta esclusivamente di cosa noi stessi vogliamo fare

36
della nostra vita, se ci assumiamo la responsabilità per
noi stessi. Quando il malato cerca di eludere la doman­
da di Gesù con il confronto, Egli gli comanda in ma­
niera analoga alla storia precedente: « Alzati, prendi il
UIO giaciglio e cammina» (Gv 5,8). Possiamo alzarci
in piedi, camminare. Mettiamo da parte i confronti,
smettiamo di lamentarci, di piangere! Alziamoci, met­
tiamoci in piedi, raddrizziamoci, stiamo diritti! Possia­
mo camminare. Ne siamo capaci.

il pusillanime

Anche nella parabola dei talenti si parla del confronto:


qui il terzo servo ha l’impressione di essere svantaggia­
to. Ma in questa storia viene descritto anche un altro
aspetto della mancanza di autostima: la paura. Il terzo
servo si scusa con il padrone per aver sotterrato il pro­
prio talento: « Signore, sapevo che tu sei un uomo se­
vero, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove
non hai sparso; per questo ho avuto paura e sono an­
dato a nascondere il tuo talento sotto terra. Ecco, prendi
dò che è tuo » (Mt 25,24ss). La paura del padrone è
il motivo per cui il servo sotterra il proprio talento, per
cui ignora la realtà della propria vita. Egli ha paura che
gli possa mancare qualcosa al momento di fare i conti,
di poter perdere qualcosa nel fare speculazioni. La paura
lo porta a mettersi le spalle al coperto. In ogni caso,
egli vuole evitare di commettere errori. Vuole avere la
certezza assoluta. E la paura lo costringe a controllare
se stesso e la sua vita: egli sotterra il talento per con­
trollarlo. Ma è una legge di vita che colui che vuole con­
trollare tutti a un certo punto perde il controllo sulla

37
propria vita. Così una vita di paura diviene infine pianto
e stridor di denti. Il terzo servo ha paura di Dio. Molte
persone sono state ferite nella loro autostima, perché
è stato loro mostrato un Dio che suscita paura. L ’im­
magine di sé dipende fortemente dall'immagine di Dio:
l’immagine di Dio è infatti l’immagine archetipa più for­
te in noi. Essa esercita un influsso determinante sull’e­
sperienza di noi stessi e sulla nostra immagine del sé.
Chi, da bambino, pensando a Dio ha avuto paura per­
ché il Dio che gli è stato annunciato fa paura, deve sot­
terrarsi, deve cercare di controllare tutto. La sua im­
magine del sé diviene catastrofica. H a paura non solo
di Dio, ma anche di tutto ciò che lo minaccia: ha paura
della morte, del fallimento, di fare brutta figura davanti
agli altri. Con la parabola dei talenti Gesù insegna che
un uomo come questo, che ha un’immagine di Dio che
incute paura, non ha alcuna chance. A lui sarà tolto tut­
to: anche quello che ha (Mt 25,29). Nel descrivere le con­
seguenze della paura, Gesù vuole invitarci a percorrere
la via della fiducia, a rischiare la nostra vita, a mettere
in gioco noi stessi. Non si tratta di moltiplicare i nostri
talenti, ma di rischiare la nostra vita.
Se qualcuno, durante l’infanzia, ha sperimentato Dio
come un contabile, oppure l’ha sperimentato come un
signore arbitrario, se lo vede come un giudice severo
e che punisce, non può sviluppare alcuna percezione del
proprio valore. Dinanzi al Dio contabile, che prende no­
ta di tutte le nostre azioni, non abbiamo alcuna possi­
bilità di sentirci preziosi. Ci sentiremo continuamente
giudicati e condannati. A molti uomini e donne, durante
la loro infanzia, è stato mostrato un Dio che non con­
sente di provare gioia nella vita, che li opprime e li smi­
nuisce, che li giudica anziché incoraggiarli. U n’imma­

38
gine crudele di Dio conduce sempre a un’immagine ca­
tastrofica del sé. L’immagine del Dio castigatore viene
spesso interiorizzata in una coscienza spietata, che tor­
menta se stessa, che punisce se stessa e continuamente
si sminuisce e svaluta. Nella coscienza spietata l’imma­
gine interiorizzata di Dio esercita la sua forza distrut­
trice, senza che ci si possa difendere da essa. La paura
di Dio conduce a una paura di se stessi, degli abissi del­
ia propria anima. Non si ha il coraggio di guardare in
se stessi e di accettare tutto ciò che c’è in noi.
Le ferite che derivano da un’immagine erronea di Dio
sono evidentemente diverse negli uomini e nelle donne.
Gli uomini si sentono lesi nella loro autostima da un
Dio che loda soltanto coloro che sono umili, davanti
al quale possiamo essere solo persone che ricevono e
non partecipare alla creazione, davanti al quale ci pos­
siamo sentire solo peccatori, poiché la nostra forza viene
corrosa in partenza. Molte donne si sentono invece fe­
rite da un’immagine di Dio unilateralmente maschile e
da una teologia puramente razionale, che inconsapevol­
mente, insieme al sentimento, sminuisce anche la don­
na. In alcuni ambienti cattolici le donne sperimentano
spesso l’esclusione dal presbiterato come una svaluta­
zione. Talvolta le donne hanno l’impressione che alcu­
ni gruppi di devozione rifiutino il loro essere donne e
che esse possano entrare a farvi parte solo come neutro
asessuato: in tali ambienti è difficile, per una donna,
sperimentare il proprio valore e sviluppare una sana sti­
ma di sé.

39
Il curvo

In modo ancor peggiore la religiosità ha svalorizzato


gli uomini con un falso concetto di umiltà: qualcuno
intende infatti per umiltà la propria umiliazione, sva­
lutazione e autodistruzione. Non si può essere orgogliosi
di ciò che di buono Dio ci ha donato. Già l’orgoglio
giustificato di ciò che è in noi si rifiuta come superbia
dinanzi a Dio. Quando Gesù dice: « Chiunque si abbassa
sarà innalzato » (Le 14,11), ciò significa: chi ha il co­
raggio di scendere nella propria realtà, nel buio della
sua anima, salirà a Dio. Chi ha il coraggio di accettare
il suo essere terreno {humilitas = umiltà, viene da hu­
mus, terra), comprende anche chi è Dio, si avvicina mag­
giormente a Dio. In questo senso, l’umiltà è qualcosa
di molto attuale. Essa indica il coraggio di scendere nella
propria realtà, nell’ombra đi se stessi, per andare verso
Dio. Noi, però, abbiamo spesso frainteso l’umiltà co­
me un atteggiamento di persone curve, con il quale ci
rendiamo piccoli e ci svalutiamo, per il quale non ci cre­
diamo capaci di niente e ci scusiamo per il fatto di esi­
stere. Con questa umiltà fraintesa abbiamo falsificato
il messaggio di Gesù e portato tanti cristiani ad abbas­
sare se stessi e svalutarsi, a sospettare che tutto ciò che
è grande in loro sia orgoglio e a rinnegare così lo splen­
dore di Dio nelPuomoẵ
Un errato concetto di umiltà ha piegato gli uomini.
Gesù invece non desidera l’uomo inchinato e curvo, ma
ritto. Ciò è descritto da Luca nella famosa storia della
guarigione della donna curva (Le 13,10-17). Una don­
na è malata da diciotto anni. « Era curva e in nessun
modo poteva stare diritta » (Le 13,11). La schiena cur­
va rivela il suo scarso senso di autostima: non è capace

40
di affrontare la vita eretta, non sa ammettere la pro­
pria dignità. È stata piegata dal peso della vita. È pos­
sibile che altri l’abbiano sottomessa, che non potesse
ribellarsi. Forse qualcuno le ha spezzato la spina dor­
sale, forse ha proiettato tutti i suoi sentimenti repressi
nella schiena. E questa non poteva più sopportare il peso
dei sentimenti rifiutati. Gesù raddrizza la donna guar­
dandola, la chiama a sé e le esprime tutto il positivo
he vede in lei. La tocca delicatamente. Egli non dice
semplicemente: « Coraggio », ma tocca la donna, per­
ché essa possa entrare in contatto con la forza e la di­
gnità che è dentro di lei. Toccata dall’amore di Gesù,
essa si alza immediatamente e loda Dio: ora avverte la
propria dignità intoccabile come donna e inizia, in mez­
zo alla sinagoga, a lodare Dio. Gesù desidera l’uomo
diritto in piedi, mentre il capo della sinagoga, che a sua
volta non ha spina dorsale, e perciò si nasconde dietro
le norme rigide, vuole piegare gli uomini sotto il far­
dello della legge.
Gesù raddrizza la donna di sabato e cioè durante il
culto, nella sinagoga. Con dò rivela come vuole che sia
inteso il culto: non lo celebriamo nel suo nome se cari­
chiamo gli uomini di fardelli, se inculchiamo loro una
cattiva coscienza e chiediamo che si pieghino come pec­
catori e si facciano piccoli dinanzi a Dio. Nel senso in­
teso da Gesù, ii culto è solo quello grazie al quale gli
uomini si fanno eretti, scoprono la propria intoccabile
dignità divina. Il messaggio del Dio che ci dona la sua
dignità divina raddrizza gli uomini e rinforza così il lo­
ro senso di autostima.
Talvolta durante i corsi faccio fare l’esercizio di met­
terci prima in piedi e di percepire così la comunicazio­
ne tra cielo e terra. Dopodiché facciamo cadere prima

41
la testa, poi le spalle. Questo movimento comprime e
impedisce il flusso del respiro. Poi camminiamo curvi
nella stanza; si vede solo lo stretto orizzonte attorno ai
propri piedi; il volto si rabbuia sempre di più, lo stato
d’animo si modifica. Allora raddrizzo il primo, acca­
rezzandogli la schiena. Se gli massaggio abbastanza a
lungo la schiena, chi è curvo si raddrizza da sé: non l’ho
umiliato con il mio atteggiamento, ma egli stesso si è
messo in movimento con le sue forze, quando l’ho toc­
cato.
Per me la guarigione della donna curva è un’imma­
gine del nostro essere cristiani: siamo discepoli e disce­
pole di Cristo, se percepiamo la nostra intoccabile di­
gnità. Crediamo alla risurrezione di Cristo, se cammi­
niamo diritti nel mondo. Siamo di più della nostra quo­
tidianità con i suoi affanni e le sue preoccupazioni. Sia­
mo figli e figlie di Dio. Nella liturgia ci immedesimia­
mo continuamente in questa dignità dei figli di Dio, ad
esempio quando durante una processione camminiamo
diritti, oppure quando lodiamo Dio a braccia aperte.
Percepiamo il valore del nostro sé non attraverso ciò
che facciamo, ma attraverso la nostra dignità, che ci
è stata donata da Dio. Gesù non ci vuole vedere in pri­
mo luogo come peccatori, ma, ancor più, come figli e
figlie di Dio, che partecipano alla vita divina.
Perciò il continuo ruotare intorno al peccato contrad­
dice lo spirito di Gesù. In alcuni ambienti ecclesiali la
persona viene prima denigrata, perché poi si possa ri­
fugiare nella misericordia di Dio. Ogni senso di auto­
stima viene considerato con sospetto: la persona deve
prima essere demolita nella propria autostima, per po­
ter poi ricevere con gratitudine il perdono dei propri pec­
cati da parte di Dio. Naturalmente siamo tutti peccato­

42
ri davanti a Dio: ma la buona notizia di Gesù è che noi
veniamo accettati da Dio, che possiamo essere così co­
me siamo, che veniamo accolti senza condizioni. Ciò
ci fa stare dritti. La Chiesa cattolica festeggia il « rad­
drizzamento » della donna curva con una festa parti­
colare: si tratta della festa dell’immacolata Concezio­
ne. In Maria festeggiamo la nostra liberazione: in noi
— questo è il significato di questa festa — c’è uno spa­
zio ove il peccato non può entrare. Laddove Cristo è
in noi, veniamo esclusi dal peccato, là il peccato non
ha alcuna chance. Là siamo in contatto con il vero sé,
che non è corrotto dal peccato. La festa celebra ciò che
la lettera agli Efesini dice a noi tutti: in Cristo Dio P a ­
dre ci « elesse prima della creazione de] mondo, perché
fossimo santi e irreprensibili davanti a lui nell’amore,
predestinandoci a essere suoi figli adottivi, tramite Ge­
stì Cristo, secondo il benevolo disegno della sua volon­
tà, a lode dello splendore della sua grazia, con la quale
ci ha gratificati nel Diletto » (Ef 1,4-6).
Gesù non ci vuole dire prima di tutto che siamo pec­
catori, ma che siamo figli e figlie di Dio, che Dio ci ha
scelti per questo, che egli vuole prendere dimora in noi,
che la ricchezza della sua grazia, del suo amore, della
sua delicatezza è in noi (cfr. Gv 14,23 e Ef l,7ss). I pri­
mi cristiani hanno sempre ringraziato Dio di averli fat­
ti rialzare tramite la risurrezione del suo Figlio e di aver
donato loro una dignità divinaẵ Non il cristiano curvo
e abbassato, ma quello diritto e alzato ha compreso ciò
che Gesù Cristo ci ha donato con la sua incarnazione,
la sua morte e risurrezione.

43
L ’adattato

U n’altra immagine che esprime la mancanza di au­


tostima è quella della guarigione dell’uomo dalla ma­
no paralizzata. Egli rappresenta quell’uomo che si è
adattato, che non osa più fare alcunché. Con le mani
ci tocchiamo delicatamente l’un l’altro. Con le mani fac­
ciamo qualcosa, creiamo qualcosa, siamo creativi. Al­
l’uomo di questa storia (Me 3,1-6) la mano si è para­
lizzata: egli non rischia più in alcun modo. Molto spes­
so le persone che hanno una scarsa stima di sé non han­
no il coraggio di esprimere la propria opinione: pre­
feriscono adattarsi. Prima, durante un discorso, ve­
dono qual è l’opinione prevalente; poi portano avanti
lo stesso punto di vista. Non hanno il coraggio di di­
re di no, se qualcuno chiede loro qualcosa. Vogliono
essere amati da tutti. Ma poiché vogliono accontenta­
re tutti, restano insignificanti e alla fine non trovano
nessuno che voglia veramente essere loro amico. A fu­
ria di voler accontentare, perdono essi stessi la ragione
della loro vita.
La causa dell’atteggiamento di chi si adatta è da at­
tribuire al fatto che si riceve autostima dall’approva­
zione e dall’attenzione degli altri. Ci dobbiamo gua­
dagnare paccettazione degli altri. Da bambini non. si
sperimenta mai il fatto di essere accettati grazie al no­
stro stesso sé. Siamo accettati solo a condizione di es­
sere bravi e di adattarci. In questo modo cerchiamo
di adattarci e di renderci amabili a tutti. Frielingsdorf
afferma che chi non ha mai sperimentato il fatto di
essere accettato senza condizioni sviluppa delle stra­
tegie di sopravvivenza in modo da guadagnarsi Taccet-
tazione 0 mediante il rendimento o mediante l’adat-

44
tamento. Questa però non è vita, ma sopravvivenza10.
Persone di questo tipo vivono sempre nella tensione di
essere accettate o meno dagli altri: poiché esse stesse non
si accettano, sono sempre concentrate sul fatto di esse­
re accettate dagli altri, per poter così sperimentare il loro
diritto di esserci. E hanno sempre paura di essere rifiu­
tate: esse riferiscono tutto ciò che vedono a se stesse.
Pensano che gli altri parlino e ridano di loro. Poiché
esse stesse non si accettano, pensano che anche gli altri
non le accettino. Tuttavia il loro più struggente deside­
rio è di essere finalmente accettate, di poter finalmente
valere agli occhi degli altri. Un comportamento che ri­
cerca l’approvazione è davvero una vita di livello ridotto:
ci si deve sempre adattare agli altri; si ha paura di espri­
mere la propria opinione, perché potrebbe essere derisa.
Gesù guarisce l’uomo che si adatta, provocandolo:
« Levati su, in mezzo! » (Me 3,3). Adesso egli non può
più adattarsi, ora deve porsi davanti alla sua verità.
Adesso deve stare di fronte a se stesso. Sì, ora verrà esa­
minato criticamente da tutti coloro che gli stanno at­
torno; infatti i farisei osservano esattamente se Gesù lo
guarirà di sabato e se in tal modo scavalcherà un co­
mandamento. Gesù però non si adatta: egli fa ciò che
ritiene giusto. E tiene fede al proprio comportamento,
alla propria convinzione che per Dio la persona è più
importante dell’osservanza dei comandamenti. Egli
guarda ciascuno dei farisei, che non hanno alcuna sti­
ma di sé, ma si trincerano dietro la norma comune. Gesù
guarda ciascuno « con sdegno e rattristato ». Con lo sde­
gno egli si difende dalla durezza del loro cuore. Prende
le distanze da loro e fa ciò che secondo lui è giusto. Con

10 K. Frielingsdorf, Vom Uberleben zum /.ebeti, Mainz 1989,

45
la tristezza però avvicina ognuno a sé, lo comprende
e si rattrista per la sua caparbietà, per la sua vita caren­
te. Gesù ha un forte senso di autostima: egli sa ciò che
vuole. E lo fa, nonostante tutti si rivoltino contro di
lui. Egli non ha bisogno di rendersi amabile agli occhi
degli uomini: fa ciò che sente da Dio e proprio così si
mette all’altezza degli uomini.

L’arrogante

Spesso dietro la facciata dell’arroganza e della pre­


sunzione si nasconde la mancanza di autostima: ci si
sente meglio degli altri, li si svaluta per sopravvalutare
se stessi. Ci si mostra come persone sicure e consape­
voli. Ma tutto questo è solo apparenza: si è ciechi per
la propria realtà. Non si vedono le proprie macchie, ma
ci si ritiene privi di errori e perfetti. Spesso queste per­
sone si vantano delle proprie buone qualità e di ciò che
fanno, si mettono in mostra di fronte agli altri. Ciò col­
pisce molti. Ai perspicaci, invece, risulta spiacevole che
uno abbia bisogno di mettersi così in mostra. La Bib­
bia rappresenta queste persone con l’immagine del cie­
co. Il cieco si rifiuta di guardare in faccia la propria real­
tà, perché gli è scomoda, perché si trova al di sotto del­
la sua dignità. Così chiude gli occhi davanti ad essa, per
poter continuare ad aggrapparsi all’illusione della pro­
pria grandezza.
Gesù guarisce il cieco nato — colui che dalla nascita
ha chiuso gli occhi di fronte alla propria realtà — spu­
tando in terra, facendo del fango con la saliva e spal­
mando gli occhi del cieco (Gv 9,6). Gesù lo pone a con­
fronto con la terra, con Vhumus. Guarisce la sua pre­

46
sunzione attraverso l’umiltà, humilitas: ci vuole corag­
gio per accettare il proprio essere terreni e la propria
umanità e così riconciliarsi con il fatto che si viene dal­
ia terra. Gesù spalma dello sporco sugli occhi del cieco
per dirgli: «T u potrai vedere soltanto quando sarai
pronto a vedere anche lo sporco in te e a riconciliarti
con esso ». Ma Gesù non rinfaccia la verità al cieco: egli
spalma con amore sui suoi occhi questa « pappa » fat-
la di terra e fango. La pappa è qualcosa di materno.
Solo perché Gesù tratta il cieco con delicatezza e ma­
ternamente egli può aprire gli occhi e guardare la pro­
pria realtà. L'humilitas (umiltà) guarisce la hybrìs (pre­
sunzione). L 'humilitas non ha a che fare solo con Vhu­
mus, con la terra, ma anche con l’umorismo. Per poter
accettare se stessi ci vuole umorismo. Gli arroganti e
i presuntuosi ne sono per lo più privi. Guai se qualcu­
no li tocca! Gesù guarisce il cieco avvicinandosi a lui
pieno di umorismo e permettendogli così di riconciliar­
si con la sua umanità e di accettare se stesso con allegria.
Queste sono alcune delle immagini della mancanza
di autostima, cosi come ce la descrive la Bibbia. Si po­
trebbero prendere in considerazione tutte le storie di gua­
rigione e di volta in volta vedere negli ammalati perso­
ne che hanno uno scarso senso di autostima. Così il leb­
broso, che non si può sopportare. Poiché non accetta
se stesso, si sente rifiutato, emarginato da tutti (Me
1,40-45). Così l’emorroissa, che spende tutto il patri­
monio per avere un po’ di giovamento, e invece peg­
giora, perde sempre più sangue, diventa sempre più de­
bole (Me 5,25-34). Così la figlia di Giairo, che non ha
il coraggio di vivere, che non vuole crescere, che non
osa alzarsi di fronte ai genitori (Me 5,21-24.35-43). Così
il sordomuto, che è ammutolito per la paura: sarebbe

47
rifiutato e preso in giro per ciò che dice; ha tappato le
sue orecchie per la paura di sentire qualcosa di negati­
vo su di sé (Me 7,31-37). Così il ragazzo indemoniato,
che non sa esprimere 1 propri sentimenti e per questo
viene sbattuto di qua e di là con violenza dalla sua stes­
sa aggressività, perché suo padre non ha creduto in lui
(Me 9,14-29). E ancora il giovinetto di Nain, che vor­
rebbe vivere e non ci riesce (Le 7,11-17). Nell’incontro
con Gesù queste persone ricevono il coraggio di essere
in un buon rapporto con se stesse, di accettarsi, di riz­
zarsi in piedi e di scoprire il proprio valore. Attraverso
le parole che dice loro, attraverso il suo sguardo, pieno
d’amore e il suo tocco delicato, Gesù fa loro intendere
di essere preziose e uniche. In questo modo ci mostra
le vie per le quali possiamo scoprire la nostra autosti­
ma e credervi.

48
3

VIE CHE CONDUCONO


A UNA SANA AUTOSTIMA

Ci sono molti modi di sviluppare una sana autosti­


ma. Vi sono vie psicologiche, descritte oggi in molti li­
bri di consultazione. Ci sono vie indicateci dalla Bib­
bia. Nella Bibbia possiamo scoprire una terapia tipica
di Gesù, come egli aiuta degli uomini a trovare una sa­
na stima di sé. Vorrei indicale brevemente solo alcuni
percorsi, che mi sembrano importanti: essi uniscono il
piano psicologico e quello spirituale.

L’accettazione di se stessi

Non è importante sapere apparire sicuri all’esterno,


tna acquistare sensibilità per il nostro indiscutibile va­
lore e accettarci nella nostra unicità. Oggi tutti ci con­
sigliano di accettare noi stessi: lo sappiamo da tanto tem­
po. La questione è come fare ad accettare se stessi. Per
prima cosa bisogna liberarsi dalle illusioni che ci fac­
ciamo su di noi: dobbiamo dire addio ai sogni diurni,
nei quali fantastichiamo su di noi come se fossimo le
persone più grandi e più belle. Accettare se stessi ha a
che fare con l’umiltà, con Vhumìlitas, con il coraggio
di accettare la propria umanità. Molti consigliano alle
persone dotate di scarsa autostima di guardare ai loro

49
punti forti: dò può essere senz’altro giusto; ma se die­
tro a ciò sta la concezione che solo i forti valgono, un
tale consiglio non conduce a nulla. Decisivo è accettar­
si con tutto ciò che sta dentro di noi, non solo con i
nostri punti forti, ma anche con le nostre debolezze. Per
me ha un sano senso di autostima solo chi si permette
anche di essere debole, chi sa guardare con umorismo
alle sue debolezze.
Spesso, però, è un cammino lungo quello per ricon­
ciliarsi con tutto ciò che scopriamo dentro di noi: quanto
più intensamente viviamo con gli altri, in modo tanto
più forte scopriamo i nostri Iati d ’ombra, i bisogni re­
pressi, i sentimenti soffocati. Una coppia che intende­
va fondare il suo matrimonio sulla fede che la univa,
dopo neanche un anno ha provato un tale senso di de­
lusione da sentire dentro di sé tantissima cattiveria. La
fede era per loro una via per eludere la propria verità:
essi dovevano prima imparare lentamente, in tutta umil­
tà, ad accettare i lati d’ombra dentro di sé, la voglia
di ferire, il sentimento di vendetta e la cattiveria della
quale erano capaci.
Noi non possiamo mai dire di esserci accettati: è un
processo che dura tutta la vita. Scopriamo continuamen­
te dei lati, in noi, che ci fanno rabbia e dai quali siamo
delusi. Più vado avanti negli anni, più parlo con caute­
la dell’accettazione del mio sé. Quando sono entrato in
convento ho pensato che avrei superato con la preghie­
ra e l’ascesi tutti i miei aspetti negativi. Ma poi torna­
vano sempre a galla. Ora ho abbandonato l’illusione
di diventare come mi piacerebbe: ora cerco di dire sì,
in tutta umiltà, a ciò che è, nella certezza che io, così
come sono, sono accettato da Dio. Se mi infurio per
il fatto di aver reagito ancora una volta in modo infan-

50
tile, mi dico: « Sono sempre io. Ed è permesso che sia
così ». Allora, pur nella mia delusione, avverto la pace
interiore e la tranquillità, il senso che tutto è ammesso,
che tutto va bene così com’è. E so di essere nelle mani
amorose di Dio.
Accettarsi significa riconciliarsi con la propria storia
di vita. Tanti si lamentano di aver avuto un’infanzia
difficile, durante la quale sono stati feriti. Nella guida
spừituale di persone profondamente ferite fa spesso male
guardare insieme quelle ferite: alcuni si sentono pres­
sati da un atteggiamento di efficienza, come se doves­
sero rielaborare tutte queste ferite. Io cerco di trasmet­
tere alle persone ferite che la storia della loro vita è an­
che il capitale che possono far fruttificare: se esse si ri­
conciliano con le loro ferite, possono divenire sorgenti
di vita. Proprio la loro ferita le può rendere capaci di
comprendere altri e di accompagnarli. Spesso qualcu­
no scopre solo allora la sua vera vocazione, avverte quale
carisma abbia sullo sfondo della propria storia. Se si
diviene capaci di riconciliarsi con la propria storia, al­
lora si scopre che tutto ha un senso. Anche le difficoltà
non erano prive di senso: ci rendono capaci di vivere
ili maniera diversa, più sensibile, più intensa, più rico­
noscente e aperta agli uomini. Le ferite, nel momento
in cui ci riconciliamo con esse, divengono fonte di be­
nedizione per noi e per gli altri.
Per poter accettare se stessi è necessario evitare i con­
fronti: fintantoché ci confrontiamo con gli altri risul­
teremo sempre in svantaggio. Vi saranno sempre delle
cose in cui gli altri risultano più portati di noi. Se fac­
ciamo confronti non siamo più presso noi stessi e vi­
vremo sempre e solo confrontandoci con gli altri. È ne­
cessario invece essere presso se stessi, accettarsi, voler­

51
si bene. Se una persona ha scarsa autostima, si metterà
a fare confronti, lo voglia o no. Una donna sa benissi­
mo che non deve mettersi a fare confronti, ma non ap­
pena si trova in un gruppo si mette a farli. Guardare
solo i propri punti forti non le sarà quindi di alcuna uti­
lità per valutarsi interiormente in maniera positiva, per­
ché poi si metterà sempre a fare confronti. Sarà anche
di poco aiuto svalutare gli altri, dicendo che è tutta ap­
parenza ciò che essi mostrano, perché si tratterà di sva­
lutare gli altri per rivalutare noi stessi. È di più grande
aiuto passare dalla testa, che fa confronti, al cuore, che
ha sentimenti. La donna ha trovato una via per uscire
dal confronto: essa cerca di percepire il proprio respi­
ro, le proprie mani, di essere presso di sé. Poi si sente
bene e può dire qualcosa, se vuole. Così non sente più
la costrizione di dover portare un proprio contributo
per avere successo con gli altri. Fintantoché essa face­
va confronti si sentiva male: erano infatti gli altri a de­
cidere il suo umore. Ora che è in sé, che percepisce se
stessa, può percepire anche gli altri e sperimentare la
comunione con loro.

Essere presso di sé

Fiducia in se stessi può anche significare essere pres­


so di sé, in se stessi, sentirsi bene con se stessi, essere
indipendenti dagli altri. Molti non sono in grado di svi­
luppare un senso di autostima perché trasferiscono su­
gli altri il potere su se stessi. Non sono presso di sé, ma
sempre con gli altri: non riposano in se stessi, ma rife­
riscono la propria autostima solo ed esclusivamente agli
altri, alla loro benevolenza, alla loro lode, alla loro ap­

52
provazione. Essi inoltre non riescono a porre dei con­
Sili attorno a sé: riferiscono tutto a se stessi, vengono
feriti da qualsiasi osservazione pungente. A tali perso-
ut. consiglio di mettersi a confronto con la propria ag­
gressività: mediante l’aggressività è possibile segnare i
confini tra noi e gli altri. L’aggressività è l’impulso a
porre distanze dall’altro, per poter essere presso se stessi.
Talora bisogna espellere da sé chi ci ha ferito. Fintan­
toché si è posseduti da un’altra persona, non è possibi­
li essere presso se stessi, non è possibile sviluppare al­
cuna autostima. Si è vissuti dagli altri, anziché vivere
iti prima persona.
L’essere presso dì sé può verificarsi in vario modo:
sono presso di me se ho una percezione di me stesso,
se mi fido dei miei sentimenti, se riposo in me stesso.
Non sono dipendente dall’umore degli altri, ma sono
ìli contatto con i miei sentimenti. Sono presso di me se
«fi sento nel corpo: se, ad esempio, faccio una corsa
ae! bosco e arrivo a sudare per lo sforzo fisico, allora
sono presso di me. Allora sono nel mio corpo: sento
il mio corpo e mi ci sento bene dentro. Non mi salta
neanche in mente di mettere in dubbio la mia autosti-
tna, poiché io sento, sono. Non ho bisogno di afferma­
re il mio valore mediante prestazioni esterne. Mi sento,
c*questo mi fa bene. Così come io sento, nessuno sen­
te. Io sono unico. Io sono me stesso. Questa non è una
conoscenza, ma un’esperienza che da sé trasmette au­
tostima. Molte persone ricercano negli altri la causa dei
propri problemi: dovrebbero imparare piuttosto a sta­
re presso di sé, a sondare la propria interiorità e a svi­
luppare una percezione per se stesse, per i propri senti­
menti e per il proprio corpo.

53
La via che passa per il corpo

Una via importante per essere presso di sé è quella


che passa per il corpoề Negli anni Settanta ero spesso
a Riitte con alcuni miei confratelli, presso il conte
Durckheim. Da lui abbiamo imparato a sentirci nel cor­
po, a comprendere il corpo come via per giungere alla
fiducia in noi stessi, ma anche per una maggiore aper­
tura verso Dio; abbiamo pure imparato a esercitarci in
questo. Per Durckheim il corpo era uno strumento del­
la realizzazione umana: il corpo è un barometro, che
indica lo stato interiore della persona. In una persona
insicura si nota dal corpo il fatto che non ha alcuna fi-
ducìa in se stessa: si vede, ad esempio, dal fatto che «
appoggia a qualcosa, che non abbandona liberamenif
le braccia, persino nel camminale le tiene chiuse per tro­
vare un appoggio in se stessa. Oppure spesso, dalle spaìiỉ
tirate su, si percepisce che qualcuno è pieno dì pau.ĩi.
Persone così insicure hanno il loro centro nella regions
del busto. Non sono presso di sé: devono spasmodic
mente presentarsi all’esterno forti e invincibili. In rei»'’
tà non hanno alcuna stabilità: basta toccarle, e C30& ~
no. Nello stare in piedi è possibile percepire la fid a c i
in se stessi. Tuttavia il corpo non è solo un baroniè''?*^
ma anche uno strumento per l’umana realizzazione jg|
possibile esercitare mediante il corpo e nel corpo
giamenti interiori. È possibile dunque esercitarsi iiC'J mẫ
tosiima stando in piedi, con la stabilità.
Si può, ad esempio, immaginare di stare fermi c
di, come un albero, che le nostre radici siano ra:3«3$i|
profondamente nella terraề Sto bene qui, se sono
tato. E sono piantato, se il baricentro si trova u a à i i l
Ione e i polpacci. Posso raggiungere ciò se akc

54
dasso un po’ le ginocchia: allora sto rilassato come un
albero, e non come un palo di cemento. Poi posso im-
raaginarmi come il respiro, al momento dell’espirazio­
ni', scorra attraverso i polpacci nel terreno, e al momento
vMl’inspirazione scorra dalla terra fin sopra la testa, ver-
•km! cielo. Io allora sono davvero un albero, che sotto
■Ị hen radicato e sopra schiude la sua chioma al cielo.
Sisio cosi a lungo, la fiducia in me può crescere. Allo-
- 1 |K*sso dire a me stesso frasi come: « So stare in pie-
i Sio con i due piedi sul pavimento. Ho un punto fer-
Sk,\, Posso sopportare qualcosa. Posso rendermi respon­
si per me, per qualcosa. Sto con me stesso, sto in
« c c Oppure, nello stare cosi, posso ripetere delle fra­
ti ‘.ila Bibbia: « Getta sul Signore la tua cura, ed egli
4 ?» -iterrà » (Sai 55,23). oppure: « Il Signore sta sem-
•&% .Laaiut ai raiei occhi: se sta alla mia destra, non va­
n ta r J . 16,8). sperimento continuamente che la
■mi f&ssa solo dalla testa non può trasmettermi al-
f J u a a in me stesso. Gli esercizi del corpo posso-
ad accrescere sempre più la fiducia in me
jUiSNiii Vtiuralmente anche questo non è un trucco che
ỳỆỊrr-iKiM M a volta per tutte fiducia in me stesso: devo
a esercitarmi.'
......... diceva che dobbiamo stare nell’/ìara.
u fesso ventre: se abbiamo il baricentro nel
possiamo stare saldamente in piedi. Al­
asi» potrà farci cadere facilmente. Stare nel-
e Í tipifica piantarsi con forza nel pavimento
.noci possa urtare. V'hara è piuttosto una
r -ós permeabilità: non mi appoggio a me stes­
iti.' jfW io a Dio o alPEssere 0 , come lo chia-
Í3cư% atrEssenza. In questa apertura perce-
1TCViiMk sicurezza: poiché sono aperto a qual-

55
cosa di più grande, non devo tenermi spasmodicamen­
te a me stesso, ma mi sento tenuto su da Dio.
Se durante una conferenza sto coscientemente nel-
Vhara, divento più calmo e chiaro. Molti, durante una
conferenza, si reggono al pulpito da cui parlano, oppure
continuano a cambiare appoggio da un piede all’altro;
ciò tuttavia non solo fa scaturire insicurezza, ma la raf­
forza ancor di più. Porsi coscientemente nell’hara è un
esercizio nella fiducia e nella permeabilità: non si tratta
di imporsi mediante la propria conferenza; ma si tratta
del fatto che qualcosa di più grande scorre attraverso di
me, cioè del fatto che Dio parla agli uomini attraverso di
me. Molti credono che non si possa far nulla senza fidu­
cia in se stessi. Ma non dipendiamo solo da questo: at­
traverso il corpo possiamo esercitarci a fare entrare len­
tamente maggior fiducia in noi stessi. Naturalmente, il
processo di trasformazione nel corpo avviene con lentez­
za. È necessaria molta pazienza. Soprattutto, però, il
corpo non si fa ingannare: non lo possiamo usare solo
per sviluppare maggiore fiducia in noi stessi. Il corpo ci
costringe a essere onesti. Hara significa essere permeabili
per ciò che è più grande, per Dio. Una vera fiducia in noi
stessi cresce attraverso il corpo solo se rinunciamo a con­
servare le nostre esigenze e i nostri criteri. Dobbiamo
essere pronti a lasciarci andare, ad affidarci a Dio, il
solo che ci doni vero appoggio e autostima.

La via della fede

Il problema deir autostima per me è sempre, in ulti­


ma analisi, anche un problema religioso. La fede mo­
stra chi siamo veramente, da dove traiamo il nostro va-

56
Ma non è sufficiente dire agii uomini che essi do-
■«ebbero aver fiducia in Dio e che in questo modo tro­
verebbero anche la fiducia in se stessi. La questione che
ÍỈ pone è come possiamo imparare ad aver fiducia in
il» : un appello alla fiducia non crea ancora la fiducia.
%«sso uomini religiosi si imbattono in un circolo vi­
lloso, attribuendo la colpa della loro mancanza di fi-
Alicia in Dio alla loro scarsa preghiera, rimproveran­
dosi per questo e poi cercando di pregare sempre più,
perché finalmente la fiducia cresca. Ma essi possono pre­
fare quanto vogliono: continueranno a vivere situazio­
ni in cui saranno privi di fiducia in se stessi. La spirale
itila preghiera ai rimproveri nei confronti di se stessi
ậi chiuderà sempre più ed essi non potranno fare alcun
■«asso avanti.
La fiducia in Dio non può essere ottenuta per forza
; ssanche con la preghiera: possiamo imparare ciò solo
unendo presente la fiducia che Dio ha in noi ed eserci-
■.iumJoci alla fiducia in Dio. Si tratta di una grazia se
a ooi, airimprovviso, appare una profonda fiducia in
§Mo e — mediante la fiducia in Dio — una nuova fidu-
«la in noi stessi. Un aiuto in questo senso è agire come
issi avesse fiducia. Possiamo, ad esempio, ripetere pa-
fole di fiducia tratte dalla Bibbia, e poi provare a vede-
3®come va, se agiamo come se esse fossero giuste. Se
àpedamo sempre il Salmo 118: «Il Signore è per me:
ami avrò timore; cosa può farmi un uomo? », allora
issia m o entrare in contatto con la fiducia che è già
á noi. c . G. Jung ritiene che in noi sono presenti sem­
pre entrambi i poli: paura e fiducia. Non c’è uomo che
afebia solo paura e qualcuno che abbia solo fiducia.
Troppo spesso tuttavia siamo concentrati sulla nostra
paura. Se viviamo le parole di fiducia della Scrittura,

57
scopriamo la fiducia stessa in fondo alla nostra anima.
Così essa può crescere in noi, tanto da prenderci sem­
pre più. Se meditiamo il Salmo 23: « Il Signore è il mio
pastore: nulla mi mancherà», intuiamo certo che non
si tratta di pura immaginazione. Naturalmente nutria­
mo anche dubbi in proposito, se ciò non sia troppo bello
per essere vero. Durante la meditazione facciamo però
come se la frase fosse giusta: allora può crescere in noi
un sentimento di libertà e indipendenza dalle persone.
Comprendiamo che Dio ci basta, che Egli ci dà ciò di
cui abbiamo bisogno, che ci dona il nostro vero valore:
La realtà di fondo della nostra fede è che siamo ac­
cettati da Dio incondizionatamente. Nel battesimo Dio
ha pronunciato su di noi la parola: « Tu sei il figlio mio
diletto, la figlia mia diletta; in te mi sono compiaciu­
to » (cfr. Me 1,11). Se viviamo di questa realtà, verranno
a cadere molti dubbi, allora cesseranno i messaggi ne­
gativi che spesso abbiamo udito: « Sei un buono a nul­
la. Non ce la farai mai. Sei troppo stupido per questo ».
La domanda che si pone è se possiamo vivere di questa
realtà della fede, tanto da essere improntati da essa in
maggior misura rispetto alle autosvalutazioni, alle ac­
cuse e ai rimproveri che ci facciamo e dei quali altri­
menti viviamo. Per me la meditazione di testi biblici e
la cosciente celebrazione delle feste cristiane sono delle
strade importanti.

La meditazione di testi biblici

Durante gli esercizi individuali do sempre alle perso­


ne che soffrono di mancanza di fiducia in se stesse testi
della Bibbia che possono aiutarle a creare fiducia e a

58
scoprire la loro autostima. Sia l’Antico sia il Nuovo Te­
stamento ci annunciano in ogni pagina che abbiamo un
valore indiscutibile. Se potessimo credere alla nostra di­
gnità divina, allora avremmo una sana autostima, al­
lora saremmo indipendenti dal giudizio degli altri. Un
testo che ci può aiutare ad aver fiducia nella protezio­
ne di Dio, e a riconoscere, in base a questa fiducia, il
nostro valore, è quello di Isaia 43: «N on temere, per­
ché ti ho redento, ti ho chiamato per nome, tu sei mio.
Quando attraverserai le acque, io sarò con te e i fiumi
non ti sommergeranno. Quando camminerai in mezzo
al fuoco, non brucerai, la fiamma non ti consumerà...
Perché sei prezioso ai miei occhi, hai valore e io ti amo.
Darò uomini in tua vece e popoli in cambio di te » (Is
43,2ss). Non considero queste parole solo con la ragio­
ne, ma le lascio entrare nel cuore. Indago la loro veri­
tà: « Se ciò fosse la mia realtà più profonda, come mi
sperimenterei? ». Mi devo ripetere spesso le parole e dir­
mi: « Questa è l’unica verità, più reale del sentimento
che tu provi in questo momento, più vera della tua stessa
autovalutazione ». Allora può accadere che io inizi a sen­
tire dentro di me che Dio è in me, che ho un valore in­
discutibile, che sono così prezioso agli occhi di Dio che
Lui darebbe interi popoli in cambio di me. Né l’acqua
— tutto ciò che nel mio inconscio è minaccioso e peri­
coloso — mi può sommergere, né il fuoco delle mie pas­
sioni e dei miei istinti mi può bruciare. Non ho bisogno
di temere minacce dall’esterno né quelle dall’interno.
Egli è con me.
Personalmente continuo a fare l’esperienza che la me­
ditazione di queste parole aiuta le persone prive di fi­
ducia in se stesse a scoprire il proprio valore. Vedo con­
tinuamente persone che si accusano di non avere alcu­

59
na fiducia in Dio e in se stesse. Esse non avrebbero in
verità alcun motivo di avere paura, perché Dio le con­
duce. Tuttavia tali appelli alla fiducia sono solo noci­
vi, non possono eliminare la paura. Tutte le frasi del
tipo: « Veramente dovrei... » provocano al massimo una
cattiva coscienza, perché ci si sente pieni di paura an­
che se non ve ne è motivo. Non ha senso costringersi
con la volontà oppure convincersi solo per via raziona­
le del fatto che si hanno sufficienti motivi per aver fi­
ducia, La fiducia deve crescere, deve penetrare anche
l’inconscio e formarlo. E la fiducia può crescere, se gu­
stiamo le parole di Dio e le mastichiamo, se le faccia­
mo entrare sempre più profondamente dentro di noi.
Allora esse, un po’ alla volta, ci trasformeranno, allo­
ra creeranno in noi fiducia e sicurezza.
Come meditazione consiglio volentieri anche Is 54:
« Giubila, o sterile, che non hai generato; prorompi in
giubilo ed esulta, tu che non hai avuto le doglie! Per­
ché i figli dell’abbandonata sono più numerosi dei figli
della maritata, dice il Signore. Allarga lo spazio della
tua tenda, distendi i teli delle tue dimore senza rispar­
mio! Allunga le corde, fissa bene i tuoi piuoli » (Is
54,ls). Forse ci sentiamo sterili e soli: abbiamo la sen­
sazione di essere giù, di aver vissuto finora inutilmen­
te, che nulla abbia valore. Se all'interno di sensazioni
di questo tipo entrano queste parole di Dio, allora po­
tranno cessare le autoaccuse e le autosvalutazioni. Il sen­
so di sterilità può esistere, qualche volta ci si può senti­
re soli e abbandonati, Proprio per me, solo e abbando­
nato, vale questo annuncio che la mia vita porterà ab­
bondanti frutti. Allargare lo spazio della mia tenda si­
gnifica ammettere l’ampiezza interiore, non pensare cose
troppo avvilenti per me. La mia tenda ha posto per mol­

60
ti. Il mio cuore ha un’ampiezza infinita. Mi posso aprire
a Dio, Egli mi crea un ampio spazio. E posso invitare
gli uomini a prendere posto nella mia tenda. Da Dio
ho ricevuto una tenda meravigliosa, una tenda nella qua­
le Dio stesso ha preso dimora. Non ho bisogno di na­
scondermi, credo alla mia bellezza interiore e posso in­
vitare gli uomini a rallegrarsi insieme a me della gioia
che Dio mi ha dato.
Meditando le parole della Bibbia non voglio ottene­
re nulla per forza, neanche la fiducia in me stesso. Ap­
pelli morali ad avere fiducia perché Dio me lo dice ser­
vono a poco. Provocano solo una cattiva coscienza, il
pensiero di credere poco. La meditazione è una via più
delicata: lascio che le parole stesse della Bibbia agisca­
no in me. Pongo me stesso e la mia mancanza di auto­
stima in Dio, perché egli mi invada con la sua Parola,
con il suo Spirito, con il suo Amore. Durante gli eser­
cìzi non si tratta di risolvere i propri problemi, ma di
lasciarsi trasformare da Dio. Se un uomo ha sentito den­
tro di sé chi è davanti a Dio, allora tratterà anche i suoi
problemi in maniera diversa. Allora non dovrà costrin­
gersi ad avere fiducia, conoscerà la sua più profonda
realtà, la sua dignità divina, la sua immagine unica che
Dio ha fatto per lui.

La celebrazione delle feste cristiane

Le feste dell’anno liturgico meditano ciascuna in mo­


do particolare il messaggio della Bibbia. Nelle feste ce­
lebriamo la nostra vita, così come Dio, tramite Gesù
Cristo, « l’ha creata in maniera meravigliosa e Pha fat­
ta nuova in maniera ancora più meravigliosa » (preghiera

61
della festa di Natale). Celebriamo la nostra vita, per­
ché è importante che venga celebrata. Nella liturgia rap­
presentiamo la nostra esistenza salvata. E nell’entrare
nella rappresentazione sacra della liturgia, possiamo in­
tuire chi siamo in verità. Allora può crescere in noi il
sentimento della nostra particolare dignità. Voglio di­
mostrare quanto detto con l’esempio di alcune feste.
A Natale celebriamo la nascita del Signore nel no­
stro cuore: Dio nasce in noi bambino. Noi non siamo
solo determinati dal nostro passato: Dio, con noi, sta­
bilisce un nuovo inizio. Egli ci mette in contatto con
l’immagine non falsificata che Egli si è fatto di noi. Mal­
grado io non possa credere al mio valore perché mi sva­
luto continuamente, nella nascita di Cristo Dio stesso
viene da me per darmi questo annuncio: « Qualcosa di
così bello come te esiste solo una volta ». A Natale fe­
steggiamo la bellezza divina che ci è stata irradiata dal
Bambino di Betlemme e che risplende in ogni volto
umano.
Ci sono tre immagini con cui a Natale ci viene rap­
presentato il mistero della nostra esistenza salvata. Una
è quella della nascita di Cristo in una stalla: nel mio buio
brilla la luce di Dio e trasforma il caos nel mio cuore.
Questo evento lo festeggiamo durante la santa notte.
Non devo vantarmi di nulla con Dio: è sufficiente che
gli mostri la mia stalla. E Lui la illumina. All’Epifania
si tratta della manifestazione della gloria di Dio nella
mia carne. Una volta, nella nostra foresteria, abbiamo
tenuto degli incontri su questa festa, volendoci eserci­
tare solo su quest’unica realtà: manifestazione della glo­
ria di Dio nel mio corpo. Come mi sento, se ciò è vero,
se questa è la mia più profonda realtà? Era una cosa
sorprendente vedere come gli ospiti, attraverso questa

62
immedesimazione nel mistero della festa, divenissero più
belli e trasparenti e acquistassero un nuovo senso di au­
tostima.
La terza immagine viene festeggiata col battesimo di
Gesù, con cui termina il tempo di Natale. Mentre si tro­
vava in mezzo ai flutti del Giordano, si aprì il cielo su
Gesù e Dio gli disse: « Tu sei il Figlio mio diletto; in
le mi sono compiaciuto » (Me 1,11). I flutti del Gior­
dano sono pieni della colpa di tutti i peccatori che vi
si sono fatti battezzare da Giovanni. Immergendomi nel­
la mia colpa, si apre il cielo su di me. La mia vita si
amplia, si estende fino all’ambito divino del cielo. E dal
cielo Dio pronuncia la parola originaria della mia di­
gnità intoccabile: «T u sei il mio figlio diletto, la mia
figlia diletta. Mi piaci ». Essere figlio e figlia di Dio:
questo mi dà il mio valore divino. Io smetto di autode­
finirmi a partire dai miei genitori, a farmi determinare
dai.messaggi che ho ricevuto da loro. Non ricevo il mio
valore a partire dagli altri, da mio padre o da mia m a­
dre, dalla loro attenzione o approvazione, bensì da DioỆ
Non ricevo il mio valore dal fatto che la gente mi loda
e mi sta vicino, ma dal fatto che Dio mi ha creato me­
raviglioso. Essere nati da Dio: ciò mi dona libertà nei
confronti delle attese e dei giudizi degli uomini. Gesù
Cristo, il Figlio di Dio, si è fatto uomo perché io fossi
divinizzato, come dicono i padri greci della ChiesaỆ
L ’immagine che Dio si è fatta di ciascuno di noi, la
dignità divina che egli ci ha donato in Gesù Cristo, vie­
ne dispiegata sempre più nel corso dell’anno liturgico.
Durante la Quaresima ci esercitiamo nella libertà inte­
riore, a non essere dipendenti dalle nostre abitudini.
Questo esercizio serve a rafforzare la nostra autostima:
non siamo determinati dall’esterno, ma formiamo la no­

63
stra vita autonomamente. Il digiuno serve a rendere il
corpo più trasparente di fronte a Dio. Questo esercizio
porta a una vita più intensa: infatti riusciamo a consi­
derare con maggiore serietà noi stessi e il mondo attor­
no a noi. Mediante il digiuno diveniamo più svegli e at­
tenti. Il digiuno — cosi pensa Agostino — prepara il
nostro corpo alla risurrezione.
A Pasqua non celebriamo solo la risurrezione di Ge­
sù, ma anche la nostra. Nella nostra abbazia vengono
ogni anno duecentocinquanta giovani per festeggiare con
noi la Pasqua. Essi sentono che si tratta della loro ri­
surrezione, poiché Dio, nella risurrezione di Gesù, ha
sciolto anche le nostre catene, ha srotolato il sasso che
poggia su di esse e le blocca, vuole farci uscire dalla no­
stra tomba, verso la vita. Essi celebrano la vittoria del­
la vita sulla morte. Si alzano nel canto e nella danza
contro ogni forza che ostacola la vita. Si alzano per ce­
lebrare in piedi la vittoria della vita sulla morte, la vit­
toria dell’amore sull’odio. Si fanno sollevare da Cristo,
dalla tomba della loro paura e della loro mancanza di
speranza, per celebrare in piedi la loro dignità di uomi­
ni salvati e liberati. Molti giovani mi hanno raccontato
che la celebrazione intensa della Pasqua li ha veramen­
te levati in piedi, che ora hanno più coraggio, che han­
no avuto la percezione di valere di più.
A Pentecoste viene perfezionato lo stare eretti della
Pasquaẳ Lo Spirito Santo fa alzare in piedi gli apostoli
impauriti, per annunciare a tutto il mondo la notizia
della risurrezione di Gesù. Lo Spirito trasforma gli apo­
stoli paurosi in uomini pieni di fiducia: essi hanno il co­
raggio di essere presso di sé, di stare con ciò che sento­
no dentro di sé, con il fuoco che brucia in loro, con i
sentimenti dell’entusiasmo. Io vedo molti giovani che

64
non hanno il coraggio dei propri sentimenti: soprattut­
to si rendono facilmente insicuri se altri infondono lo­
ro una cattiva coscienza e in nome della morale cristia­
na li incitano a vivere la loro fede in maniera più radi­
cale. Lo Spirito Santo ci palla con impulsi delicati. Sen­
tire questi impulsi interni, avere fiducia nei propri sen­
timenti, non farsi intimorire dai moralisti: a tutto ciò
intende incoraggiarci la festa della Pentecoste. Lo spi­
rito Santo è in noi, ci parla. Non è lo sconosciuto che
ci obbliga a fare qualcosa, ma lo Spirito che ci è fami­
liare, che ci pone in contatto con l’immagine originaria
di Dio in noi. Se durante la preghiera entriamo nel si­
lenzio, possiamo spesso sentire questo Spirito. Egli non
ci spaventa, ma ci conduce alla verità che rende liberi.
Ci mostra chi siamo veramente. Chi si fida dello Spiri­
to in sé, costui smaschera il non-Spirito che spesso lo
circonda. Crescerà sempre più nell'immagine che Dio
si è fatta di lui.
Le numerose feste dell’anno liturgico intendono mo­
strarci chi siamo noi, tramite Gesù Cristo, secondo Dio.
Sono immagini della nostra salvezza, immagini della no­
stra dignità divina. Ciò vale anche per le numerose fe­
ste dei santi, che ci indicano come ciascuno, nel suo mo­
do unico, esprime Dio e lo rende visibile in questo mon­
do. Ciò vale per le feste di Maria, che sono sempre fe­
ste ispirate a ottimismo, che vogliono incoraggiare la
donna ad avere il coraggio della propria dignità. Pur­
troppo in alcuni gruppi ecclesiali si abusa di Maria per
inculcare nelle donne una cattiva coscienza. Si è posta
Maria su un piedistallo così alto, che di fronte a lei tut­
te le donne dovevano sentirsi inferiori. Ma non è que­
sto il senso delle feste di Maria: in Maria noi celebria­
mo la nostra salvezza, celebriamo ciò che Dio ha fatto

65
per noi in Gesù Cristo. Pensiamo, ad esempio, alla fe­
sta deirAnnunciazione: essa mostra Maria come mo­
dello originario della fede, come donna coraggiosa, che
si appoggia, da sola, a Dio, contro ogni aspettativa.
Mentre Israele si allontana continuamente da Dio, ella
si mette a disposizione come rappresentante del p o p o
lo di Dio, con la parola orgogliosa, piena di fiducia in
sé: « Ecco la serva del Signore; si faccia di me come hai
detto tu » (Le 1,38). La donna che proviene dall’insi­
gnificante Nazaret ha il coraggio di parlare a nome del
popolo e di offrirsi a Dio. La liturgia decanta con im­
magini meravigliose questo mistero della donna che Dio
ha scelto per far nascere suo Figlio. In queste immagi­
ni traspare sempre anche la nostra dignità e la nostra
bellezza, la nostra vocazione: Dio vuole nascere anche
in noi. Diversamente dalla visione ufficiale della Chie­
sa riguardo alla donna, la liturgia ha sempre portato
avanti una teologia coraggiosa e inascoltata. Essa ha
posto al centro delle feste di Maria la donna, la donna
mediante la quale è nato Cristo, mediante la quale la
salvezza è venuta nel mondo. La teologia femminista
oggi sta cercando di far riscoprire la visione liturgica
di Maria e della dignità della donnaệ

L’esperienza di Paolo

Nelle sue lettere Paolo scrive continuamente che Cri­


sto ci ha liberati da tutte le dipendenze dalle persone
e dalle loro opinioni: « Infatti tutti coloro che si lascia­
no guidare dallo spirito di Dio sono figli di Dio. Non
riceveste infatti uno spirito di schiavi, ma riceveste lo
Spirito di adozione a figli, in unione con il quale gri­

66
diamo: Abbà, Padre! » (Rm 8 , 14ss). Essere figlio e fi­
glia di Dio: questa è per Paolo soprattutto una libera­
zione dalla schiavitù degli uomini. Lo schiavo è in po­
tere di altri uomini e li deve temere. Lo schiavo è l’im­
magine di colui che conferisce il potere su di sé agli al­
tri. Egli rende la propria autostima dipendente dagli al­
tri: se gli altri si curano di lui, allora si sente bene; se
gli altri lo evitano, il mondo gli crolla addosso. Io do
potere su di me a un altro se mi rendo dipendente dal
suo umore. Vi sono persone il cui sentimento dipende
totalmente da coloro con cui vivono: se l’altro bronto­
la, sono abbattute; se gira con una faccia depressa, di­
ventano tristi o si sentono in colpa. Siamo figli di Dio
e non schiavi degli uomini. Non dobbiamo abbando­
narci totalmente nelle mani di un altro uomo. Non dob­
biamo dare agli altri potere su di noi. Devo temere co­
lui che ha potere su di me. Devo vivere continuamente
nella paura che egli abusi del suo potere, che mi ferisca
e mi faccia del male. Essere figlie e figli di Dio, per Pao­
lo, significa il contrario della paura. Dio ci dona il no­
stro autentico valore, un valore che nessun uomo ci può
portar via. Gli altri ci possono anche ferire, ma in noi
c’è una dignità intoccabile, che nessuno ci può togliere.
A quelli che sono delusi per le proprie debolezze e
i propri errori, può essere d’aiuto l’esperienza di san
Paolo, che dice di sé: « Quando sono debole, allora so­
no forte » (2Cor 12,10). Fiducia in se stessi non signifi­
ca che siamo sempre forti, che siamo al di sopra di ogni
problema, che riusciamo a tenere tutto sotto controllo.
Significa piuttosto che ci accettiamo nella nostra debo­
lezza, perché crediamo alla grazia di Dio, che ci alza
proprio nella nostra debolezza. Colui che fa dipendere
la propria autostima dal fatto di essere sempre forte,

67
di raggiungere sempre i suoi ideali, crollerà con l’espe­
rienza della sconfitta e della debolezza. Chi invece si
permette di essere anche debole, ne trarrà vantaggio in
forza interiore. La sua autostima non sarà disturbata
dalle delusioni, perché in esse egli sa di essere condotto
da Dio. Egli riconduce il proprio valore a ciò che Pao­
lo dice di se stesso: « Ne morte né vita, né Angeli né
Potestà, né presente né futuro, né altezze né profondi­
tà, né qualunque altra cosa creata potrà separarci dal­
l’amore che Dio ha per noi in Gesù Cristo nostro Si­
gnore» (Rm 8,38ss).

L’annuncio della riconciliazione

Un annuncio centrale nella Bibbia è la riconciliazio­


ne. Se Paolo scrive: « Vi supplichiamo in nome di Cri­
sto: riconciliatevi con Dio» (2Cor 5,20), in ciò si rife­
risce sia alla riconciliazione con gli altri sia alla riconci­
liazione con se stessi. Gesù intende riconciliare a sé l’uo­
mo lacerato in se stesso, quando gli dice che Dio lo ac­
cetta nonostante la sua colpa. Se Dio lo perdona, però,
egli deve smettere di accusarsi. La fede nel perdono di
Dio deve esprimersi nel perdonare anche se stessi. Non
ha alcun senso continuare ad accusarsi e a tormentarsi
con i sensi di colpa. Il perdono che Cristo non solo ha
predicato agli uomini, ma ha anche trasmesso con la
propria persona, ci permette di riconciliarci con noi stessi
e con il nostro passato. Non c’è più bisogno che io chiu­
da gli occhi di fronte alla mia colpa, perché so che essa
è stata perdonata, che non mi separa più da Dio, da
me stesso e dagli altri uomini. Colpa significa divisio­
ne: l’uomo che si sente in colpa si sente interiormente

68
diviso. La sua autostima è appannata. Egli ha perso il
rapporto con se stesso e la sua vera essenza.
Gesù parla all’uomo del perdono di Dio, lo incorag­
gia a stare presso di sé e a ricominciare da capo. Al pa­
ralitico cui perdona i peccati Gesù ordina: « Alzati, pren­
di il tuo lettuccio e cammina ». Egli non deve farsi pa­
ralizzare dal proprio passato. Il fatto stesso che ha pre­
so le colpe su di sé, non può essere un motivo per rifiu­
tare la vita. Gesù crede l’adultera capace di ricomin­
ciare da capo. Le dice: « Neppure io ti condanno: va’
e d’ora in poi non peccare più » (Gv 8,11). Il perdono
rende possibile anche un nuovo inizio. Gesù sfida la don­
na e le rafforza il debole io: non la umilia dandole pre­
cetti morali o incolpandola del peso della legge, ma la
raddrizza fidandosi di lei. Ella non è caduta in peccato
solo perché le piaceva, ma perché non riusciva a dire
di no, perché non aveva le idee chiare, perché non ri­
posava in se stessa. Ora Gesù interpella il suo io: « Tu
puoi vivere anche diversamente. Hai forza. Tenta un’al­
tra vita. Vedrai che ti farà bene ». Gesù non esige alcu­
na sottomissione della donna, ma la fa stare in piedi,
rivolgendosi alla forza che è dentro di lei e alla dignità
che ella in verità vuole vivere.
Possiamo aiutare gli altri ad avere fiducia in se stessi
dando loro fiducia. Ciò è evidente anche nell’incontro
di Gesù con la peccatrice in Luca 7. Dopo che Gesù le
ha perdonato i peccati, egli le dice: « La tua fede ti ha
salvata; va’ in pace» (Le 7,50). Gesù loda la sua fede.
Egli rafforza il positivo che la donna ha, la pone in con­
tatto con le sue forze positive. E la incoraggia: « Va’
in pace! Noil torturarti più con i sensi di colpa. Puoi
andare in pace, in pace con te stessa, in pace con gli
uomini. Non ti devi più scusare di esserci. Tu vali. Pos­

69
siedi la pace e hai una vita piena e colma in te. Vivila
ora! »,
Quello che Gesù fa con la peccatrice, con l’adultera,
i primi monaci l’hanno realizzato nell’accompagnamen­
to spirituale: essi hanno incoraggiato e dato fiducia ai
discepoli che chiedevano loro consiglio. Così un padre
spirituale ha imposto a un discepolo di non parlare per
un anno intero; a un altro di mangiare solo ogni due
giorni. L ’abate, nel chiedere qualcosa al discepolo, raf­
forza in lui Pautostima. Il discepolo scopre le proprie
capacità, le fa crescere e acquista voglia di vivere. Que­
sto metodo, per me, vale ancora oggi come principio
direttivo. Non mi basta avere un semplice colloquio di
tipo non-direttivo, confermare semplicemente l’altro.
Sento anche che qualche volta devo esigere qualcosa da
lui, perché egli possa crescere e scoprire le sue capaci­
tà, perché possa sviluppare la sua forza. Spesso do un
compito a chi fa gli esercizi: gli impongo di parlare ad
alta voce per mezz’ora con Dio, di dire a Dio tutti i sen­
timenti e i pensieri che vive in quel momento. Oppure
gli do il compito di scrivere una lettera. Egli deve im­
maginarsi che in punto di morte voglia scrivere a qual­
cuno tutto ciò che nella sua vita intendeva trasmettere,
quella che era la sua idea-forza. Alcuni si rifiutano di
fronte a tali compiti, ma se poi vi aderiscono, ne trag­
gono giovamento. Naturalmente non si tratta di imporre
qualcosa a qualcuno. Il metodo non-direttivo trova la
sua giustificazione nel fatto che fa scoprire all’uomo co­
sa c’è dentro di lui, nel fatto che l’uomo stesso deve tro­
vare la soluzione. Ma io sono sempre scettico quando
mi si descrive un metodo come toccasana. La mia espe­
rienza dice che è importante anche l’altro polo: la pro­
vocazione attiva, per rafforzare l’autostima dell’altro.

70
Provocazione non significa messa sotto tutela, non
significa consiglio — che spesso per l’altro può sembrare
uno schiaffo — ma proposta di come un indiviuo pos­
sa esercitarsi nella sua libertà e dignità, per scoprire le
proprie forze e dispiegarle. Gesù provoca gli uomini,
perché crede in ciò che di buono c’è in essi. Se provoco
qualcuno nella guida spirituale e mi aspetto qualcosa
da lui, è proprio perché credo allo Spirito Santo che agi­
sce in quest’uomo e che può far nascere in lui possibili­
tà nuove e impreviste. Utilizzando questo sistema di con­
fronto Gesù mette gli uomini in contatto con la forza
dello Spirito che agisce in loro: egli apre loro gli occhi
dinanzi al fatto che Dio ha un progetto più grande su
di loro rispetto a quello di accontentarsi di ciò che già
si conosce. Gesù sveglia gli uomini, li apre all’azione
dello Spirito e li mette in contatto con l’immagine ori­
ginaria e irripetibile che Dio si è fatta di loro.

La via mistica

U n’ulteriore via per una sana autostima è quella mi­


stica. La mistica — in maniera simile alla psicologia
transpersonale — si fonda sull’idea che dentro di noi
vi sia uno spazio al quale gli altri uomini non hanno
accesso, nel quale le riflessioni del proprio super-io non
possano entrare. È lo spazio del silenzio, nel quale Dio
stesso abita in noi. Dove Dio abita in noi, gli uomi­
ni non hanno alcun potere. I mistici credono che que­
sto spazio del silenzio sia presente in ognuno di noi. Mol­
ti, tuttavia, non percepiscono questo spazio, perché ne
sono separati da uno strato di macerie e ciottoli, da uno
strato di preoccupazioni e problemi, di pensieri e pro­

71
getti che si sono interposti tra la loro coscienza e il lo­
ro sé.
La via verso questo luogo interiore del silenzio passa
per la preghiera e per la meditazione. Nel m o n a c h e S i­
mo si è sviluppato il metodo della giaculatoria. Si col­
lega al ritmo del respiro una parola della Scrittura, ad
esempio: « Vedi, sono con te », oppure la preghiera:
« Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me ».
Rivolgo la mia attenzione sul respiro e connetto la pa­
rola al respiro. In questo modo mi faccio condurre, nel-
Pinspirazione, dalla parola allo spazio interiore del si­
lenzio, nel quale Dio abita in me. Isacco di Ninive pen­
sa che la parola che viene meditata possa aprire la por­
ta al mistero senza parole di Dio, alla casa del silenzio,
alla quale solo Dio ha accesso. Quando medito, non av­
verto ogni volta questo spazio del silenzio: spesso è so­
lo una breve intuizione che lì dentro di me c’è qualcosa
di assai diverso, che lì Dio stesso abita in me. Ma già
questa breve intuizione muove qualcosa dentro di me:
mi sperimento diverso; tocco il mio vero essere, entro
nella mia profondità. Sento un profondo silenzio da cui
scaturisce pace.
Talvolta mi aiuta anche il solo fatto di immaginare
in me il luogo del silenzio, ad esempio pensando sem­
plicemente alle immagini con cui la Bibbia descrive que­
sto luogo interiore del silenzio. Non considero queste
immagini dall’esterno, ma osservo me stesso attraver­
so di esse. Nel vangelo di Giovanni Gesù dice riguardo
a colui che crede: «Dal suo ventre sgorgheranno fiumi
di acqua viva » (Gv 7,38). In me c’è una sorgente che
non si estingue mai, la sorgente dello Spirito Santo. Per
percepirla, posso immaginare di penetrare, nel momento
in cui espiro, gli strati di macerie che si sono posati so­

li
pra questa fonte, finché nel fondo deir anima non giunga
a percepire qualcosa di questa fonte pura, che disperde
le acque torbide dei miei pensieri osculi e mi rinfresca
interiormente. Oppure posso meditare l’immagine del
Santissimo, alla quale — secondo la lettera agli Ebrei
— solo il sommo sacerdote Gesù Cristo ha accesso. Se
immagino questa figura biblica, posso giungere in con­
tatto con la realtà che essa rappresenta, con Gesù Cri­
sto che abita in me. Laddove egli è in me, il rumore che
c’è nel vestibolo del tempio non può entrare, i pagani
non hanno accesso, ciò che è commercio e mondano
non può entrarvi, anche gli altri sacerdoti non possono
entrarvi, nessuno può turbare le mie riflessioni e i miei
progetti.
In questo spazio interiore intuisco anche chi sono, qui
vengo in contatto con il mio vero sé. Dove Dio è in me,
là mi libera dal potere degli uomini, dalle loro aspetta­
tive e richieste, dai loro giudizi e criteri, E qui mi libera
anche dalle rappresentazioni che altri mi hanno incul­
cato o che io stesso mi sono creato. Dio mi libera da
me stesso. Io sono più della storia della mia vita. Sono
una meravigliosa immagine di Dio: in me c’è un’imma­
gine intatta che Dio si è fatta di me, il mio vero essere,
così come Dio l’ha plasmato. La via della meditazione
mi conduce perciò anche al mio vero sé. Laddove le opi­
nioni degli altri e i criteri personali non possono entra­
re, posso essere pienamente me stesso, intuisco la mia
dignità divina, mi si può dischiudere la possibilità di es­
sere, nel mio più intimo, direttamente presso Dio.
Vengo continuamente in contatto con persone che sof­
frono del fatto di essere determinate da altri: esse non
possono sviluppare fiducia in se stesse, perché gli altri
gliela sottraggono. Sono continuamente criticate dal col­

73
lega di lavoro o dal capo; il vicino lunatico o la zia in­
soddisfatta le influenzano. Cerco di mostrare allora a
chi è venuto a chiedere consiglio questo luogo del si­
lenzio che è già in lui. Egli dovrebbe immaginare che
là nessuna forza abbia potere su di lui: ciò che il vicino
pensa di lui non può raggiungere quel luogo. Ciò che
gli altri dicono di lui, le loro critiche, il loro rifiuto, le
loro pretese, le loro aspettative, tutto ciò non ha acces­
so a quel luogo. Nella sfera emozionale sono ancora sen­
sibile e vengo toccato dalla critica degli altri. Ma dietro
c’è questo luogo silenzioso, dove tutto ciò non può pe­
netrare. Se immagino questo, emerge allora un senso
di libertà. In questo luogo del silenzio posso respirare
a pieni polmoni: là non vengo determinato da altri,
neanche dalle mie aspettative e dalle mie scadenze.
Una volta ho tenuto un corso per consulenti matri­
moniali sulla spiritualità e la consulenza: ho cercato di
trasmettere agli psicologi che la spiritualità e la consu­
lenza non sono solo parole pie, ma servono a condurre
le persone alla loro vera essenza, alla loro intoccabile
dignità, al luogo del silenzio ẵ Alcuni consulenti aveva­
no dichiarato che spesso è impossibile aiutare in ma­
niera efficace una coppia arenata, anche con i migliori
metodi di comunicazione. Una donna può sentirsi così
ferita, che un colloquio non è più possibile; oppure un
uomo può sentirsi rifiutato così radicalmente, da non
trovare più neanche una parola da dire alla propria com­
pagna. Allora può essere di aiuto condurre il partner
in questo luogo interiore in cui l’altro non ha accesso,
in cui le ferite e il rifiuto non possono penetrare, in cui
ciascuno scopre la propria dignità intoccabile, il luogo
invulnerabile e sano. Già l’intuizione di questo luogo
interiore può trasmettere, in mezzo al totale rifiuto e

74
alla più profonda ferita, una nuova autostima, una di­
gnità che nessuno può togliere.
Talvolta mi aiuta allontanare da me le persone che
ogni giorno occupano i miei pensieri, perché mi feri­
scono e mi fanno del male. L ’ira può essere una forza
positiva per allontanare quelli che hanno potere su di
noi, perché il luogo del silenzio sia veramente riempito
da Dio solo. Dobbiamo impedire ad alcune persone l’ac­
cesso al nostro intimo, dobbiamo impartire loro un in­
teriore divieto di entrare in casa. Laddove Dio abita in
noi, dove noi siamo a casa con Dio, gli altri non hanno
alcun diritto di entrare. Da me venne una signora che
veniva costantemente tormentata dalla sua direttrice.
A cena, col marito, l’unico argomento possibile era di­
ventato quello della direttrice impossibile, che le ren­
deva la vita un inferno. Io le dissi: « Non farei l’onore
alla mia direttrice di farmi disturbare da lei anche du­
rante la cena. Non farla entrare a casa tua. Lei non è
cosi importante »ẻ Anziché farci corrodere dall’ira, op­
pure di esplodere per essa, dovremmo servircene per al­
lontanarci da quelli che ci assorbono continuamente,
per scaraventarli interiormente fuori di noi. Alcuni pen­
sano che ciò non sia cristiano: cristiano sarebbe il per­
dono. Ma il perdono viene sempre dopo il senso di ira,
e non prima. Se chi mi ha ferito resta nel mio cuore,
il perdono è solo masochismo. Mi ferirei da solo con
esso. Solo quando ho preso le distanze, l’ho allontana­
to da me, posso perdonare veramente, sapendo che an­
che chi mi ha offeso è solo un bambino ferito.
Allontanare l’altro da me è solo il primo passo per
distinguere lo spazio del silenzio in me: in questo mo­
do è possibile difendere questo luogo interiore da tutti
quelli che vogliono entrarvi con la forza. Ma la difesa

75
da sola non basta: nella meditazione devo dare l’addio,
interiormente, a tutto ciò che in genere mi assorbe, alle
persone attorno alle quali ruoto, ai miei pensieri e pro­
getti. Devo fare completo silenzio e poi ascoltare atten­
tamente dentro di me e immaginare che in me,vi sia un
mistero che mi supera. Se ascolto dentro di me, non tro­
vo solo la mia storia personale e i miei problemi. Al di
sotto di questo livello c’è un luogo del silenzio, un luo­
go in cui Dio, il Mistero, vive in me. E là dove Dio,
il mistero, vive in me, posso essere realmente a casa:
là intuisco una profonda pace in me. Là so che — sot­
to il tumulto quotidiano e la confusione interiore — c’è
un luogo del silenzio. Per Evagrio Pontico, monaco e
scrittore del IV secolo, questo luogo di Dio è rappre­
sentato con il simbolo di Gerusalemme. Gerusalemme
è detta « visione della pace ». Così, in questo luogo del
silenzio, giungiamo alla « visione di pace, nella quale
uno guarda in sé quella pace che è più sublime di ogni
comprensione e che protegge i nostri cuori» ll.
Se mi abbandono al luogo del silenzio in me, allora
cresce il senso di libertà e di fiducia. Non si tratta di
una fiducia in se stessi messa in mostra, ma di una fi­
ducia che scaturisce dalla libertà interiore. Non com­
batto contro gli altri, ma gusto la libertà. C’è un luo­
go, in me, sul quale nessuno ha potere, il luogo in cui
Dio abita in me. Laddove Dio abita in me, vengo an­
che in contatto col mio vero sé. Là sono completamen­
te me stesso. Il mio sé è protetto. La mia autos.tima cre­
sce e io divento sempre più uno con me stesso.
Tutte le vie religiose ci conducono un po’ alla volta

11 E. Pontikos, B rìefe aus der w aste, trad, di G. Bunge, Trier 1986,


p. 39.

76
a provare la nostra autostima. Non c’è alcun trucco spi­
rituale per procurarsi in fretta fiducia in se stessi e au­
tostima: sono sempre vie che richiedono esercizio quel­
le che ci fanno procedere. Devo continuare a meditare
la parola di Dio, finché essa non trasformi il mio cuore
e ne allontani la paura. Nella preghiera devo continua­
mente venire in contatto con il luogo del silenzio in me,
per sentirmi indipendente dall’opinione degli altri e dai
criteri del mio super-io. Se percorro fedelmente e con
cautela questa via dell’esercizio, in me può crescere una
sana autostima. Non sono condannato semplicemente
a vivere con la scarsa autostima che ho ricevuto quan­
do ero bambino: r autostima può essere appresaễLa fede
è una scuola adatta per apprendere fiducia e autosti­
ma. M a come tutte le scuole necessita di costanza ed
esercizio. La fede non può infatti scavalcare la realtà
psicologica: come credente mi devo riconciliare con le
ferite che hanno intaccato la mia autostima. Come cre­
dente devo servirmi anche di tutti gli aiuti che mi offre
la psicologia. Ma posso trovare nella fede una via ulte­
riore per giungere al mio vero sé, così come Dio Pha
plasmato. Nella fede posso superare il livello psicolo­
gico e scoprire in me il livello transpersonale, il luogo
in cui Dio abita in me e in cui sono pienamente me stes­
so. Se sono in contatto col mio vero sé, ho autostima,
ed essa non può essere annientata da sconfitte e umi­
liazioni. È un sentire il mio nucleo divino, sul quale que­
sto mondo non esercita alcun potere.

77
PARTE SECONDA

VINCERE L ’IMPOTENZA

Nel nostro tempo vi sono tipici sentimenti di impo­


tenza motivati da rapporti politici e sociali: l ’impoten­
za nei confronti delle ingiustizie nel mondo, l’impoten­
za nei confronti del terrore e della guerra. Se negli anni
Sessanta l’ottimismo e la speranza nel futuro caratte­
rizzavano quel perìodo, i contraccolpi nello sviluppo
economico, politico, sociale hanno posto « una fine dra­
stica al sogno di uno sviluppo indefinito. Soprattutto
nella giovane generazione la fiducia nel futuro e nel suo
potere è distrutta. A l suo posto subentra un generale
senso dì impotenza nei confronti delle insuperabili co­
strizioni delle cose. Conseguenza di ciò è l ’inclinazione
alla rassegnazione e a ritirarsi » 12.
L ’esperienza della propria impotenza appartiene es­
senzialmente all’uomo: Sigmund Freud si è occupato
minuziosamente dell'impotenza infantile e della man­
canza di aiuto. Il bambino piccolo sperimenta la pro­
pria dipendenza dalla madre e dalle cose del mondo

12 F. Miiller, O hnm acht, ili Praktisches L exikon der Spiritualitat, a cu­


ra di Ch. Schiitz, Freiburg 1988, pp. 942s.

79
esterno. Ciò « richiama sentimenti strazianti di mancan­
za di aiuto, paura e rabbia » 13. Dopo la fase in cui ii
bambino si sente in armonia con la mamma e il mon­
do, segue regolarmente « l ’esperienza della mancanza
di potere e dì affetti difficili da dominare, così come
hanno avuto rilevanza nei miti gli angeli decadati e la
cacciata dal Paradiso » l4. Il compito del bambino con­
siste nel rispondere con lo sviluppo di una sana consa­
pevolezza air« esperienza della propria impotenza, di­
pendenza, mancanza di valore, inferiorità » l5. Se il
bambino si sperimenta privo di aiuto nei confronti del­
le persone 0 nei confronti dei propri istinti, reagisce con
la paura. A partire dallo sviluppo infantile in poi, sen­
timenti di impotenza, di autostima e di fiducia in se stessi
sono strettamente connessi. Il bambino si sente neces­
sariamente impotente e privo di aiuto. Appartiene alla
sua sana crescita sviluppare autostima e superare, con
la fiducia, la paura che l’esperienza dell’impotenza fa
nascere in lui.
Anche le esperienze degli adulti mostrano che auto­
stima e senso di impotenza sono collegati: ci si sente al­
lo stesso tempo privi di valore e impotenti nei confron­
ti degli altri che sanno fare molte cose meglio di noi,
che sono più veloci di noi. Ci si sente impotenti, perché
non ci si crede capaci di affrontare ciò che la vita ri­
chiede. Ma c ’è tutta una serie di sensi di impotenza, che
non derivano da una mancanza di autostima.

13 H. Henseler, Die Theorie desN arzifim us, in Psychologic des 20. Jahr-
hunderts, vol. II, a cura dĩ D. Eickem, Ziirich 1976, p. 463.
14 H. Henseler, D ie Theorie des Narzifim us, op. cit., p. 464.
15 H. Henseler, Die Theorìe des N arzìjim us, op. cit., p. 465.

80
4

SENSI DI IMPOTENZA

Non posso accennare, in questo libro, a tutti i sensi


di impotenza che oggi piagano gli uomini. Vorrei con­
siderare solo tre aspetti, nei quali vengono in evidenza
sensi di impotenza. Essi sono: l’impotenza nei confronti
di me stesso e delle mie passioni; pimpotenza nei con­
fronti di altre persone e del potere che emana da essi;
l’impotenza nei confronti della situazione attuale del
mondo.

Impotenza nei confronti di me stesso

Mi posso sentire impotente nei confronti dei miei sba­


gli e delle mie debolezze: nonostante tutte le battaglie
e tutti i tentativi di lavorare su di me, ricado continua­
mente negli stessi errori. Ad esempio, mi ripropongo
sempre di non parlare degli altri, ma tutti i miei propo­
siti rimangono senza risultato. Avviene continuamente
che io parli di altri. Molte persone soffrono del fatto
che i loro propositi non conducono a nulla, A ogni con­
fessione o dopo gli esercizi si propongono di prendersi
più tempo per la preghiera. Esse si propongono di eser­
citarsi in una maggiore disciplina, e di combattere i lo­
ro errori principali, ad esempio la loro irascibilità o ir-

81
ritabilità. Ma già dopo due settimane si accorgono che
il proposito è stato di nuovo inutile, e che non è cam­
biato proprio nulla in loro. Tuttavia la volta successiva
si ripropongono di cambiare, e di nuovo inutilmente!
Ciò lascia dietro di sé un senso di impotenza.
Alcuni si sentono impotenti nei confronti della pau­
ra: hanno letto molto sul fenomeno della paura, sono
stati in terapia, hanno discusso esaurientemente della
loro paura. Tuttavia si sentono impotenti appena essa
compare. Allora tutte le loro conoscenze non giovano
a nulla: essi vengono semplicemente presi dalla paura.
Spesso neanche la fede aiuta: sanno di essere nelle ma­
ni di Dio; tuttavia, non appena salgono su un aereo op­
pure devono affrontare un intervento, tutte le parole
pie non servono a nulla, la fede sembra essere impo­
tente nei confronti di questo timore spesso irrazionale.
La paura sta in agguato come un animale: la testa e il
cuore sembrano impotenti nei confronti di questa sub­
dola bestia.
Altri si sentono impotenti di fronte alle proprie emo­
zioni. Ad esempio, non vogliono essere gelosi, ma non
riescono a fare nulla contro la gelosia. Essa appare, sem­
plicemente, non appena la propria moglie parla conci­
tatamente con un altro uomo, oppure quando il pro­
prio ragazzo passa più tempo con altri. Tutti i giura­
menti della moglie 0 del ragazzo sulla loro fedeltà non
portano a nulla. La gelosia ricompare, non appena su­
bentra una nuova situazione. Altri si sentono impoten­
ti nei confronti dei propri istinti, ad esempio dell’istin­
to sessuale 0 del desiderio di cibo. Tutti gli sforzi di vo­
lontà non servono a nulla. Essi vengono dominati con­
tinuamente dai loro istinti: possono continuare a com­
battere i loro problemi con il cibo, ma perdono sem­

82
pre. Ciò lascia un senso di impotenza e di rassegnazione.
Una donna si infuria continuamente per il fatto di
essere in balia della propria depressione, senza aiuto.
La terapia non ha giovato: non appena essa subisce una
critica, ricade in un baratro. E quando sta in questo ba­
ratro nessuno dei ragionamenti fatti durante la terapia
della depressione può aiutarla. Non servono a nulla tutte
le parole o i metodi che potrebbe mettere in atto. Essa
sa che le farebbe bene, durante la depressione, telefo­
nare a qualcuno o occuparsi di qualche cosa, ad esem­
pio fare una passeggiata, o andare in bicicletta, oppure
lavorare a qualcosa di sensato. Ma ciò non la aiuta in
quel momento: è sparito tutto. Essa si sente impoten­
te, in balia della depressione come di una forza estra­
nea. Molto spesso la depressione proviene come da un
cielo sereno, senza un motivo ragionevole. Tutte le mi­
sure di sicurezza contro di essa non riescono ad arre­
starla. Anche questo lascia un senso di impotenza.
I malati psichici si sentono spesso impotenti nei con­
fronti della propria malattia. Una donna soffre di un
senso esagerato dell’igiene. Tutti i trattamenti terapeu­
tici finora non l’hanno potuta liberare: ella sente sem­
plicemente la necessità di lavarsi non appena si è sedu­
ta su una sedia imbottita.
Ma non è necessario considerare gli ammalati. Noi
tutti sappiamo di essere impotenti, in balia di alcune
costrizioni. Uno si sente costretto a ricontrollare, la se­
ra, se la porta è chiusa a chiave; un altro deve sincerar­
si che sulla sua scrivania sia tutto al posto giusto. Noi
ci infuriamo ogni volta che reagiamo in maniera sensi­
bile alle critiche; tuttavia non possiamo cambiare nul­
la. Se il discorso cade su determinati problemi, ci sen­
tiamo colpiti; se si toccano le nostre ferite, gridiamo.

83
Così vi sono molti fattori psicologici che siamo costretti
a guardare impotenti. Molti soffrono di se stessi, per­
ché hanno la sensazione di non poter mai rimarginare
le proprie ferite, perché la vita li ferisce sempre di più.
Numerose sensazioni di impotenza hanno la propria
causa nell’infanzia. I bambini si sentono impotenti se
i genitori litigano davanti a loro. Essi possono fare di
tutto per evitare il litigio: non giova a nulla. I bambini
si sentono impotenti quando vengono picchiati. Con­
tro la forza spesso brutale degli adulti il bambino è im­
potente, non ha alcuna chance. Allora nasce una rab­
bia impotente, che lo porta poi a doversi chiudere di
fronte a qualsiasi dolore per poter vivere. Se un bam­
bino viene trattato ingiustamente, può protestare, ma
spesso la protesta limane senza effetto. Il bambino re­
sta esposto all’ingiustizia, privo di aiuto. Se un bambi­
no viene rifiutato, anche se si dà molto da fare per ot­
tenere l’attenzione della mamma, nasce un senso di im­
potenza. Da bambini non avevamo alcuna chance per
difenderci dai nostri genitori e affermare i nostri biso­
gni. Spesso insorge dunque un senso di impotenza se
da adulti incontriamo qualcuno che ci ricorda i genito­
ri 0 il maestro onnipotenti, se ci sentiamo sottomessi,
se veniamo trattati ingiustamente. Ho accompagnato
una signora che da bambina doveva sempre assistere alle
scenate di gelosia di sua madre nei confronti del suo
amato padre e a come lei lo sgridava nei modi peggio­
ri. Lei stessa era stata maledetta come prostituta dalla
madre. Perciò ogni volta si sentiva impotente nei con­
fronti di sua madre: non aveva alcuna chance per sco­
prire il proprio valore. In seguito ogni volta che incon­
trava donne che somigliavano a sua madre, si sentiva
paralizzata. Tutte le conoscenze psicologiche che ave­

84
va acquisito nel frattempo non la aiutavano a vincere
i suoi sensi di impotenza.
Proprio in momenti di profonda solitudine può di­
venire nuovamente cosciente il senso di impotenza spe­
rimentato da bambini, il senso di essere abbandonati
a noi stessi e di non essere dunque compresi da nessu­
no. Ci sentiamo soli. Nessuno comprende i nostri sen­
timenti, nessuno fa caso ai nostri desideri. Ogni volta
che il senso di impotenza nei confronti della reale espe­
rienza è incommensurabilmente forte, dovremmo guar­
dare alla nostra infanzia per vedere se vengono a galla
ricordi di momenti in cui abbiamo avuto sensazioni ana­
loghe. Il ricordo da solo non ci libera dal senso di im­
potenza, ma può costituire un aiuto per confrontarci
con essa e così superarla. Almeno possiamo compren­
dere meglio i nostri sentimenti: non ci rifiuteremo più,
se cresceranno in noi sensi di impotenza. Mediante la
comprensione e il dialogo sulla nostra impotenza essa
può trasformarsi: se sappiamo da dove provengono i
nostri sensi di impotenza, essi perderanno forza e po­
tremo agire meglio nei loro confronti.

Impotenza nei confronti degli altri

Ci sono poi sensi di impotenza nei confronti di altre


persone. Anche questi hanno spesso la loro causa in
esperienze dell'infanzia.
Una donna si sente impotente nei confronti della ma­
dre, non riesce a difendersi nei suoi confronti. Quando
la madre la critica e la tocca nel suo punto debole, ella
è come paralizzata. Tutti i discorsi che ha portato avanti
con altri riguardo a sua madre, in cui ha sviluppato stra-

85
tegie per porre un limite fra lei e la madre, non la aiu­
tano in quel momento. La madre ha un sesto senso per
capire dove colpire la figlia: basta solo che le dica che
non troverà mai un marito e già esercita un potere su
di lei. E la figlia non riesce a svincolarsi da questo potere.
Un uomo è impotente nei confronti di suo padre. Il
padre sa fare tutto, è intelligente e svaluta sempre quello
che fa il figlio. Allora il figlio può darsi da fare finché
vuole, ma non può nulla contro suo padre. Egli non può
soddisfare le sue aspettative e soprattutto non riesce a
difendersi dalle sue stoccate e dai suoi giudizi denigra­
tori.
Un altro non riesce a difendersi dal suo principale.
Quando il principale sbotta, trasale e pieno di rancore
fa quello che lui vuole. Ogni volta si ripromette di dire
quali sono i suoi limiti, quello che può e non può intra­
prendere. Ma ogni volta che il principale lo apostrofa
ad alta voce, cede.
Ci si può sentire impotenti anche nei confronti di per­
sone che non ci sono preposte, ma sono al nostro livel­
lo. Una studentessa, ad esempio, si sente impotente se
una sua compagna le infonde una cattiva coscienza, di­
cendole che studia troppo poco. Un sottile mezzo di po­
tere è quello di insinuare in una persona sensi di colpa:
contro di essi non ci si riesce a difendere, perché nessu­
no di noi è privo di colpe. Siamo sempre persone che
assumono la colpa su di sé. Se qualcuno mi addossa sensi
di colpa non appena affermo anche solo per una volta
la mia volontà, non riesco più a sottrarmi a costui. Pu­
re se razionalmente so benissimo di aver agito in ma­
niera corretta, il senso di colpa mi corrode. È come un
veleno che l’altro mi inietta: non posso liberarmi da es­
so. Tali sensi di colpa ce li possono insinuare soprat­

86
tutto i nostri genitori. Se la mamma malata dice: « Tu
mi porterai alla tomba, se non ti occupi di me. Sono
così sola. È questo il ringraziamento per tutto quello
che ho fatto per te? », la figlia non può rifiutarsi di fron­
te a ciò, vengono subito a galla sensi di colpa: la mam­
ma potrebbe morire e lei potrebbe rimproverarsi di non
aver fatto abbastanza. Così va dalla madre ad aiutarla
piena di aggressività e si infuria ogni volta che si è fatta
determinare dai sensi di colpa.
Impotenti si sentono le persone deluse in amore: esse
amano il loro partner e si impigliano sempre più in un
inestricabile groviglio di rimproveri, sgridate, offese,
scoppi d’ira. Vogliono vivere un buon rapporto con la
persona che amano, ma il rapporto diviene sempre più
insopportabile. Qualunque cosa facciano, si sentono indi­
fese nel rapporto arenato. Esse però non possono nean­
che liberarsi dal sentimento del loro amore per l’altro.
Sono dipendenti dall’amato, gli conferiscono potere su
di loro e sono esse stesse prive della possibilità di stabilire
il rapporto che vorrebbero. I consulenti matrimoniali
conoscono spesso l’incapacità del coniuge di comuni­
care con l’altro in maniera adeguata e di risolvere i con­
flitti in maniera creativa. Ciascun partner ha buona vo­
lontà e tuttavia è incapace di parlare bene con l’altro.
Ciascuno si sente impotente nei confronti dei propri sen­
timenti e in balia delle ferite e delle umiliazioni dell’altro.

Impotenza nei confronti del mondo

Se oggi parliamo di senso di impotenza, intendiamo


prima di tutto i sentimenti nei confronti del nostro mon­
do. Molti si sentono impotenti nei confronti di un’a­

87
nonima burocrazia. Nonostante tutti gli sforzi dei po­
litici per una burocrazia più vicina all’uomo, incontria­
mo dei casi in cui la burocrazia si pone al di sopra di
qualsiasi ragionevolezza umana e colpisce a morte pro­
prio i perdenti. Molti si sentono impotenti se le autori­
tà statali emanano sentenze disumane, se esse espello­
no rifugiati riguardo ai quali si sa con certezza che so­
no perseguitati in patria. Tutti i tentativi per convince­
re le autorità si frantumano contro il muro della legge
che non è possibile abbattere. Ci si nasconde dietro de­
terminate leggi e si indurisce il proprio cuore. Rifugiarsi
nelle chiese è un tentativo per difendersi contro questo
senso di impotenza: per molti è stato liberatorio il fat­
to che la Chiesa abbia offerto un luogo che li aiutasse
a non rassegnarsi di fronte ai loro sensi di impotenza.
Molti si sentono impotenti se guardano immàgini del
Ruanda 0 della Bosnia alla televisione. Tentano di espri­
mere la propria impotenza rivolgendosi ai politici, ma
non riescono a far sentire la loro voce. Alcuni si libera­
no dando l’elemosina. Tuttavia resta il senso di impo­
tenza per il fatto che vicino a noi si verificano fatti ir­
reali che non ci si sarebbe mai sognati potessero avve­
nire. Si è impotenti di fronte a una crudeltà che si im­
magina superata da tempo. Si nota l’abbandono, bam­
bini che gridano, madri disperate, donne violentate, sol­
dati torturati, gente distrutta a cannonate, tombe co­
muni. E non si può fare nulla per impedirlo. Tutto ciò
paralizza, lascia un profondo senso di impotenza, molto
spesso rassegnazione, se non depressione. Si prega per­
ché cambi qualcosa, ma anche Dio sembra rimanere
muto.
I politici che si danno da fare per il Terzo Mondo spe­
rimentano la propria incapacità di fornire un efficace
aiuto a quelle popolazioni. I missionari che vivono da
decenni in Tanzania non sanno come migliorare i rap­
porti e come fornire un aiuto efficace e duraturo. Si sen­
tono impotenti di fronte a strutture paralizzanti nel Pae­
se, ma anche di fronte alle costrizioni del commercio
mondiale, al peso dei debiti, che cresce sempre più, di
fronte alla lotta senza speranza dei Paesi poveri per la
loro giusta partecipazione alla grossa torta del reddito
mondiale. Nonostante tutti i tentativi, la fetta di torta
che si cerca di guadagnare con fatica diviene ogni gior­
no più piccola. E se dopo una lunga lotta finalmente
viene attuata un’economia politica funzionante, essa vie­
ne nuovamente distrutta da guerre tribali. La battaglia
per uno sviluppo pacifico e per una crescita economica
in Africa sembra essere inutile. Senza dubbio alcuni po­
litici si sono rassegnati di fronte al fatto che FAfrica
è un continente che sta morendo: è fatale come essi cer­
chino di difendere con motivazioni logore la propria in­
capacità di cambiare qualcosa.
Psicologi e pastori analizzano la situazione del no­
stro tempo. Essi vedono che la televisione disturba sem­
pre più i bambini nella loro psiche, che i giochi al com­
puter fanno indurire il cuore, che la mancanza di sicu­
rezza provoca la violenza nella società. Essi scoprono
tendenze, nella nostra società, che li spaventano. Ma
si sentono impotenti a intraprendere qualcosa contro
di esse. Le loro ammonizioni sono come le grida di Cas­
sandra, che nessuno desidera sentire. Nessuno sembra
notare quanto siano pericolose oggi certe correnti di pen­
siero. Tutte le esortazioni vengono messe a tacere. Il
senso di impotenza per l’inutile lotta contro l’aumento
della violenza nella società e contro l’odio del diverso
paralizza sempre più. Nessuno vuole ascoltare, la gen­

89
te preferisce farsi ninnare da profeti che parlano bene.
Un’infermiera in un reparto sociale deve curare un
numero sempre maggiore di pazienti che vengono nutri­
ti con una sonda e la cui vita viene prolungata artifi­
cialmente. Essa avverte che il fatto di vegetare non può
essere lo scopo della vita. Soprattutto la cura di questi
malati diviene sempre più impegnativa: tutti i tentativi
comuni delle infermiere non sortiscono alcun effetto. I
medici hanno la parola. Le persone alle quali viene pre­
scritta la sonda — spesso contro il parere dei familiari —
devono essere nutrite artificialmente anche a casa. Le
infermiere si sentono impotenti nei confronti dei medici,
che portano molto dolore nelle famiglie con le loro pre­
scrizioni e che aggravano le condizioni di lavoro delle
infermiere stesse. Ogni appello al giudizio umano non
dà alcun frutto. Così vi sono tante situazioni in cui le
persone si sentono impotenti nell’arrestare lo sviluppo
di qualcosa che procede nella direzione sbagliata.
In tutte le confessioni cristiane i parroci lavorano sem­
pre più per motivare gli appartenenti alla loro parrocchia
e per costruire una comunità viva. Ma i loro sforzi resta­
no senza risultati: sempre meno persone prendono parte
alle loro offerte di conferenze, discussioni, servizi di culto.
Alcuni uomini e alcune donne che lavorano nella pastora­
le sono rassegnati. Hanno l’impressione di lottare contro
le sabbie mobili: qualunque cosa facciano, tutto si sgre­
tola sempre più. Si sentono impotenti nei confronti della
mentalità attuale, impotenti nei confronti di una sub­
dola scristianizzazione. In maniera sìmile si sentono mol­
ti genitori che desiderano educare cristianamente i pro­
pri figli. Contro il trend del tempo non possono vince­
re. Così devono stare a guardare, impotenti, i loro figli
che non vanno più in chiesa e cercano altri modi di vita.

90
5

CONSEGUENZE DEL SENSO DI IMPOTENZA

Nessun uomo può sopportare il senso di impotenza.


Così reagisce in modi diversi per liberarsi da tale senti­
mento così negativo e gravoso.

Ira e violenza

Si può avere una reazione d ’ira. Se ci si sente impo­


tenti nei confronti di una persona, spesso sale dentro
di noi un’ira sorda. Si vorrebbe picchiare l’altro a più
non posso. Così accadeva a Dawson, ogni qual volta
nasceva il senso di impotenza che conosceva fin dall’in­
fanzia, quando suo padre lo picchiava, John Bradshaw
racconta di Dawson che, quando lavorava come butta­
fuori in un locale notturno, aveva rotto la mandibola
a un uomo che lo aveva fatto infuriare. Per superare
la paura di essere picchiato, egli si identificava con suo
padre. « Ogni volta che una situazione gli ricordava le
scene brutali della sua infanzia, si risvegliavano in lui i
vecchi sensi di impotenza e di paura. Allora Dawson si
trasformava nel proprio padre violento e feriva gli altri al­
lo stesso modo in cui suo padre aveva ferito lui » 1S.

16 J. Bradshaw, Das K in d in uns, op. cit., p. 30.

91
Il fenomeno della violenza crescente nella società, del­
la violenza a scuola, della violenza degli estremisti di
destra, della violenza contro gli stranieri, ha certamen­
te molte cause. Una causa sta nell’educazione: se un
bambino viene poco considerato, deve mettersi in mo­
stra per trovare considerazione. Se a un bambino viene
fatta violenza, deridendolo 0 picchiandolo, lui stesso
si servirà della violenza. Bambini feriti trasmettono le
ferite che hanno ricevuto: se non rielaboriamo le ferite
della nostra infanzia, siamo condannati a ferire altri.
Alcuni giovani hanno una stima di sé così scarsa, da
percepire se stessi solo nel momento in cui sono violen­
ti. Una molla per la violenza è certo anche l’incapacità
di poter cambiare qualcosa nella nostra società. La vio­
lenza aumenta proprio laddove i giovani hanno minori
possibilità di lavoro, dove non trovano alcun significa­
to alla loro vita e dove vengono scarsamente conside­
rati. La violenza è allora espressione della propria de­
bolezza, della sensazione di essere insignificanti e sen­
za valore: ci si vuole dunque far ascoltare con la vio­
lenza. Spesso i giovani non hanno imparato a difendersi
a parole e utilizzano come unica arma la violenza. Al­
tri non hanno parole per esprimere i propri bisogni e
così non resta loro che rompere tutto, gridare il loro
bisogno di attenzione. Chi è padrone di sé non ha biso­
gno di farsi notare con la forza. Ma chi non è padrone
di sé e non ha potere in sé, costui deve mostrare il pro­
prio potere alpesterno, deve annientare altri per poter
credere alla propria grandezza, deve trattare con vio­
lenza gli altri per sentirsi potente.

92
Brutalità

Anche se una persona si sente impotente nei confronti


dei propri sbagli e delle proprie debolezze abbastanza
spesso reagisce con una certa violenza. Essa diviene vio­
lenta nei confronti di se stessa e allora cerca di trattarsi
con brutalità. Proprio coloro che si sentono impotenti
nei confronti dei propri istinti combattono spesso una
battaglia brutale contro se stessi. C’è chi cerca di con­
trollare con forza la propria sessualità, ma non ci rie­
sce. Spesso allora la brutalità si fossilizza nella coscienza.
L’individuo diviene uno spietato giudice di se stesso,
si condanna per le proprie fantasie sessuali e diviene allo
stesso tempo un apostolo della morale, che deve sgri­
dare tutti coloro che vivono la propria sessualità. Fur-
rer, un terapista svizzero, ritiene che la sessualità repres­
sa conduca spesso alla brutalità: essa si manifesta fre­
quentemente tra i moralisti, che piuttosto brutalmente
inculcano negli altri i comandamenti e condannano
chiunque non li osservi. Essi devono tenere il lorỡ sguar­
do sempre puntato sugli aitri e osservare come vivono
la loro sessualità, per poterli poi condannare e perse­
guitare il più brutalmente possibile. Negli Usa un at­
teggiamento puritano ha portato a far sì che fosse con­
trollato nel comportamento sessuale chiunque avesse
delle funzioni pubbliche. Naturalmente anche oggi vie-,
ne esercitata grande violenza nel campo sessuale; le mag­
giori violazioni si verificano proprio nell’ambito della
sessualità. È spaventoso quante donne da bambine sia­
no state violentate: vi sono sempre uomini che non rie­
scono a convivere con la sessualità che hanno represso
e che per questo la esternano sui bambini più deboli.
L’abuso sessuale si verifica in dimensioni spaventose,

93
ma oggi esiste anche già l’abuso dell’abuso. Oggi si in­
colpano di abuso anche uomini non colpevoli. Dinanzi
a una tale accusa, non ci si può mai difendere totalmen­
te, si è impotenti: il semplice fatto di essere incolpati
è già un pregiudizio. Nell’abuso e nell’abuso deir abu­
so si esprime in ugual maniera l’impotenza dinanzi alla
propria e all’altrui sessualità.

Rigorismo

Il senso di impotenza conduce sempre al rigorismo:


ciò vale per i fondamentalisti islamici come per gli asceti
cristiani che se la prendono con se stessi. I fondamen­
talisti islamici si sentono impotenti dinanzi all’influsso
della civilizzazione occidentale, per cui cercano di creare
un argine contro di essa. In maniera simile accade con
alcuni cristiani fondamentalisti: essi si sentono incapa­
ci di adempiere il loro ideale cristiano in tutta tranquil­
lità. Così devono occultare la propria incapacità me­
diante una lotta chiassosa contro ogni forma di immo­
ralità della società. Nella Chiesa evangelica vi sono dei
gruppi impietosi nei confronti dei loro confratelli che
lanciano continuamente accuse di deviazioni dalla Scrit­
tura e di immoralità. Nell’ambito cattolico vi sono dei
militanti devoti a Maria che accusano chiunque cerchi
di descrivere Maria secondo le immagini della Scrittu­
ra e non come la concepiscono loro. I gruppi militanti
non si fermano neanche dinanzi all’autorità ecclesiastica.
Il cardinale Dopfner, un uomo certamente piuttosto con­
servatore, ma che ha saputo integrare le correnti pro­
gressiste nella Chiesa, era un pio devoto di Maria. Ep­
pure ricevette un’ondata di lettere ingiuriose, perché tol­

94
lerava che r « Ave Èva» musicale di Wilhelm Willms
e Peter Janssens fosse rappresentata nell’abbazia di san
Bonifacio a Monaco. Anche persone così pie come il
cardinale Dopfner, presidente della conferenza episco­
pale tedesca, vengono insultate in maniera oscena se non
si uniformano a determinati modi di pensare,
È difficile entrare in dialogo con cristiani militanti:
essi sono certamente animati da buone intenzioni, cre­
dono di rappresentare il messaggio di Gesù e di lottare
per un annuncio puro, ma non si accorgono di quanto
divenga poco cristiana la loro lotta. Gli avversari ven­
gono oltraggiati ingiuriosamente e perseguitati con te­
lefonate notturne. La questione che si pone è perché cri­
stiani così impietosi non siano disposti al dialogo. Evi­
dentemente temono che qualcuno possa ricordare loro
l’incapacità di vivere secondo i loro principi. Queste per­
sone tentano chiaramente di vivere in maniera cristia­
na, si sforzano di adempiere ai comandamenti; tutta­
via non sono capaci di sopportare la propria impoten­
za nel non raggiungere mai ciò che desiderano. Se guar­
diamo alla storia della Chiesa, i grandi moralisti non
hanno mai vissuto ciò che chiedevano a tutto il mon­
do: la loro predica morale era evidentemente il tentati­
vo di fuggire la propria incapacità, ostentando una ri­
gida osservanza dei comandamenti divini. Temevano la
loro stessa ombra, l’immoralità del proprio cuore, e fug­
givano dalla loro paura additando gli altri come immo­
rali. Dal momento che temevano il diavolo nel proprio
cuore dovevano demonizzare gli altri, Nella loro impo­
tenza hanno tuttavia esercitato un potere brutale nei con­
fronti di quelli cui hanno predicato la loro morale di­
sumana. Nel timore della propria ombra hanno instil­
lato negli altri la paura della colpa e del peccato.

95
Autopunizione

L’ira e la brutalità come risposta al senso di impo­


tenza non vengono rivolte solo contro gli altri, ma spesso
anche contro se stessi. Chi si sente incapace di realizza­
re i propri ideali spesso tratta se stesso con rigore: cer­
ca di inibire i propri istinti e le proprie passioni; si vieta
ogni gioia; si punisce continuamente nel momento in
cui non osserva un comandamento. L’autopunizione
può essere espressa con un incidente o una malattia, op­
pure con rinunce severe con cui si reagisce alla propria
sconfitta. Spesso allora la crudeltà si annida nella co­
scienza: impietosa, la coscienza condanna i propri er~
rori. Le persone troppo severe con se stesse si trascina­
no spesso da sole davanti al tribunale deir implacabile
super-io: pur credendo alla misericordia di Dio, sono
impietose con se stesse. Si condannano per i minimi er­
rori ed esercitano un terrore profondo contro se stesse.
Infieriscono in una oscura ascesi contro se stesse.
Una donna mangia eccessivamente e ogni volta si pu­
nisce con il digiuno. Essa rimane perennemente atta­
nagliata da questo tema: mangiare e digiunare. Il di­
giuno è una via sperimentata per giungere alla libertà
interiore: ma se si digiuna per punirsi del fatto di aver
mangiato troppo, si è solo duri e crudeli con se stessi.
Allora il digiuno non conduce alla libertà, ma all’ag­
gressività e all’insoddisfazione.

Rassegnazione e disperazione

Un’altra reazione all’esperienza della propria impo­


tenza è la rassegnazione, la disperazione. Può accadere

96
che nonostante i ripetuti tentativi di correggere i propri
errori si rimanga delusi. La continua delusione di se stes­
si porta alla rassegnazione: ci si arrende e si vive sem­
plicemente alla giornata, senza grandi mete. Gli ideali
sì frantumano: nulla vale la pena di essere compiuto.
Non si procede: sebbene si continui a lavorare diligen­
temente, la melodia di fondo della propria vita è la di­
sperazione. Nonostante ci si tuffi nel lavoro per non in­
cappare più nella disperazione, essa ci guarda continua-
mente, non appena ci fermiamo e non abbiamo più nulla
da fare. Rassegnazione e disperazione sono spesso la
condizione a partire dalla quale le persone si buttano
nel lavoro o nel divertimento: esse ci fissano attraverso
il sorriso di chi fa della propaganda, le incontriamo negli
animatori che devono indurre gli altri alla felicità e nei
volti dei manager che lavorano ventiquattr’ore su ven­
tiquattro per fuggire il proprio vuoto interiore. Si trat­
ta di persone che si sono rassegnate a non cercare più
e a non lottare più. Esse si accontentano, rassegnate,
delle apparenze, pur sentendo dentro di sé che esiste
qualcos’altro, che Dio ci ha chiamati a un’altra vita.
Rassegnazione e disperazione sono presenti anche a
livello sociale e politico: troviamo politici ed economi­
sti che si arrendono nella lotta per un ambiente miglio­
re o per una maggiore giustizia nel mondo, poiché non
vedono possibilità di successo. Essi avvertono la nega­
tività di alcune situazioni, ma chiudono gli occhi dinanzi
a esse e continuano a occuparsi dei ỉoro affari quoti­
diani. Dietro ad alcuni politici e manager un tempo im­
pegnati si spalanca un vuoto desolante, che viene oc­
cultato da un’attività continua. Sono sempre in giro e
lottano per buoni fini; ma la vera lotta è stata abban­
donata.

97
Spesso ci si sente incapaci di raggiungere veramente
qualcosa in questo mondo. A volte si ha la sensazione
che le altisonanti parole dei politici intendano solo oc­
cultare l’impotenza che essi hanno avvertito da tempo
e dinanzi alla quale si sono rassegnati. Se un politico
0 un economista che lavora in maniera indefessa viene
criticato, spesso reagisce in modo piuttosto sensibile.
Allora si capisce che egli nasconde, con il suo super-
lavoro, l’impotenza interiore che sta in agguato sotto
la superficie delle sue attività e che gli fa paura.
6

VIE PER TRATTARE CON L ’IMPOTENZA

A) VIE UMANE

Non possiamo fuggire l’impotenza perché essa appar­


tiene alla nostra esistenza finita; ma possiamo trattare
la nostra impotenza in diversi modi. Possiamo reagire
ad essa in maniera rassegnata 0 aggressiva, oppure mo­
dellarla creativamente.
Se rispondiamo in maniera attiva all’impotenza, es­
sa può divenire fruttuosa per la nostra vita: allora es­
sa ci può spingere a fare tutto il possibile per noi stes­
si e per il mondo che ci circonda, può divenire una sor­
gente di fantasia per rendere questo mondo più uma­
no. Se reagiamo attivamente alla nostra impotenza,
riusciamo spesso anche a superarla. Allora non ci sen­
tiamo più impotenti, perché noi stessi prendiamo l’ini­
ziativa e facciamo il nostro possibile. Desidero indica­
re alcune vie per poter rispondere in modo positivo al
nostro senso di impotenza nei confronti del mondo e
di noi stessi.

99
Vic comuni

Un tentativo di superare l’impotenza in ambito so­


ciale sono le iniziative dei cittadini: ci si riunisce per lot­
tare per uno scopo. Da soli si sarebbe incapaci, ad esem­
pio, di difendere la posizione tranquilla del proprio quar­
tiere. Ma uniti si può ottenere qualcosa. Allora si pos­
sono spingere i politici a un ripensamento e a cercare
altre possibilità per canalizzare il traffico. Le iniziative
dei cittadini talvolta si oppongono alle decisioni dei po­
litici, che spesso subiscono le pressioni di determinate
fazioni e devono decidere contro ciò che è meglio. Tut­
tavia è bene che numerose iniziative vengano prese non
contro, ma per qualcosa: ad esempio, per la cura dei
bambini nel proprio quartiere o per l’aiuto al vicinatOj
per l’assistenza a domicilio, per un maggior numero di
parchi-giochi, per feste di quartiere ecc. Queste inizia­
tive danno il senso che non si è esposti semplicemente
agli obblighi della società, ma che in questo mondo ano­
nimo si possono creare delle comunità e organizzare una
più umana convivenza.
Altre vie comuni per uscire dall’impotenza sono inol­
tre i tentativi per creare una più adeguata comunica­
zione. Ditte, comunità parrocchiali, famiglie, monasteri,
tutti questi gruppi soffrono spesso di mancanza di co­
municazione. Quando non si riesce più a comunicare,
ogni iniziativa fallisce. Una ditta continua a lavorare,
ma non crea più il proprio futuro, non esercita più un
influsso sulle persone. Lo stesso vale per i monasteri
e le comunità parrocchiali: se non si può più dialogare,
la vita si inaridisce. Ciascuno lavora indefessamente, ma
senza risultato. Dalla comunità non nasce più la creati­
vità. Una via per uscire dal tran tran giornaliero della

100
rassegnazione è la ricerca di nuovi modelli di comuni­
cazione mediante i quali gli uomini possano esprimere
i loro sentimenti, i loro desideri, le possibilità e le ca­
pacità che essi portano dentro di sé e parlare delle loro
paure, dei loro sogni e desideri per il futuro. Allora na­
sce un potenziale di capacità, che si contrappone all’im­
potenza e la supera: di colpo si guarda speranzosi al fu­
turo e si ha voglia di costruire e plasmare la comunità
e con essa un pezzo di mondo.

Vie personali

Una via personale per uscire dall’impotenza può con­


sistere nel lavorare su se stessi. Il lavoro su se stessi è
stato chiamato dalla tradizione « ascesi »: con essa si
intende il fatto di dare forma alla propria vita median­
te rinunce, disciplina e un sano ordine. Ascesi, di per
sé, significa esercizio. Ci si esercita per nuove capacità,
ci si allena nella libertà interiore. Oggi corriamo il ri­
schio di lamentarci per il fatto che non possiamo cam­
biare nulla di noi e che dobbiamo guardare impotenti
come siamo diventati a causa della nostra educazione.
Ascesi significa in sé voglia di creare, voglia di lavora­
re su noi stessi, di scoprire cose nuove in noi e di dare
loro forma.
NelPascesi acquisto un significato per me, il senso di
vivere per me stesso, di non essere vissuto. Riesco a pos­
sedere me stesso, anziché assistere in modo impotente
a come sono determinato dall’esterno o dalle mie pas­
sioni. Non sono semplicemente in balia dei miei errori
e delle mie debolezze; posso lavorare su me stesso, posso
modificare alcuni aspetti, posso liberarmi da alcune co­

101
strizioni. Tuttavia anche con la mia ascesi incontrerò
dei limiti, sperimenterò in modo nuovo la mia impo­
tenza, comprenderò che non posso fare tutto quello che
desidero e che anche con l’ascesi non potrò disciplinar­
mi totalmente. In ogni caso la mia impotenza divente­
rà luogo dell’esperienza della grazia e non fonte di ras­
segnazione.
Se qualcuno si sente impotente dinanzi alle proprie
paure o alle proprie passioni, spesso può essere utile un
accompagnamento terapeutico. Mediante una terapia
posso scoprire le cause della mia paura 0 della mia ira
e posso riconciliarmi con le ferite del passato. Ma la sco­
perta delle cause in sé non guarisce; devo far emergere
nuovamente le sofferenze sperimentate da bambino, de­
vo accettarle, per poi prendere congedo da esse. Così
pian piano posso imparare ad agire in maniera creativa
con la mia paura 0 con le mie ferite. Non sto più, im­
potente, dinanzi alla mia paura, ma posso reagire nel
modo più adeguato. Sento che essa ha un significato,
che mi può ricondurre alla giusta misura. Chiaramente
la terapia non eliminerà mai del tutto il mio senso di
impotenza. Essa tuttavia può aiutare ad agire diversa-
mente rispetto all’impotenza, a riconciliarmi con essa
e a sperimentare poi le possibilità che ho a disposizio­
ne. c . G. Jung ritiene che sia importante assumersi a
un certo punto della vita le proprie responsabilità, dire
di sì al passato e comprenderlo come materiale da mo­
dellare. Se mi assumo la responsabilità della mia vita
agisco attivamente nei confronti delPimpotenza: so che
non sono capace di fare tutto ciò che voglio, ma posso
modificare qualcosa nella mia esistenza. Allora non sono
più determinato dalle mie ferite, ma esse divengono piut­
tosto fonte di nuove possibilità. Molti oggi si arenano

102
nel compiangere le proprie sofferenze, senza cercare il
modo di guarire le proprie ferite e di scoprire nuove pos­
sibilità in se stessi.

Sani rituali

Molti oggi hanno la sensazione di essere determinati


da costrizioni materiali e si sentono impotenti di fronte
a tali costrizioni. I sani rituali ci possono aiutare a dare
una forma benefica alla nostra vita. Se sviluppo dei sa­
ni rituali, ad esempio riguardo al modo di iniziare o ter­
minare la giornata, di impostare il fine settimana, ho
la sensazione di vivere in prima persona, anziché di es­
sere vissuto. Non sono abbandonato, impotente, di fron­
te a questo mondo con le sue costrizioni. Io stesso pos­
so dare una forma che mi piace alla mia vita. Secondo
Sigmund Freud i rituali hanno il compito di allontana­
re la paura. La mancanza di forma provoca infatti pau­
ra. I rituali ci aiutano a superare tale paura: sono parte
di una sana cultura della vita. La cultura che noi dia­
mo alla nostra vita ci libera dalla sensazione di essere
determinati dagli altri. Noi stessi possiamo creare la no­
stra cultura di vita. Rituali e cultura di vita rafforzano
il nostro senso di identità e di libertà. E trasmettono
voglia di vivere.
Io ho voglia di dare una forma bella e sana alla mia
vita. Mi sento bene nei miei rituali: sono espressione
della mia fantasia e della mia libertà. Non sono impo­
tente di fronte alla mia vita, ne assumo la responsabili­
tà e la gestisco in modo che mi faccia bene.

103
Liberarsi dal potere degli altri

Molte persone si sentono impotenti nei confronti del­


l’altro: non sono in grado di difendersi dal principale,
dal coniuge, dal collega di lavoro che li ferisce. Sono
abbandonati, impotenti di fronte alle loro stoccate e alle
loro offese. In questi casi l’ira può risultare un’impor­
tante medicina in grado di liberarci dall’impotenza nei
confronti degli altri. L ’ira può darci la forza di pren­
dere le distanze dagli altri, da chi ci ha ferito, e di al­
lontanarlo da noi. Un concetto da tenere a mente nel
trattare con le persone che ci feriscono e ci determina­
no è il seguente: l’altro ha su di me il potere che io gli
do. Non posso impedirmi di reagire quando mi ferisce:
rimuginare tutto il giorno e pensare alla mia ferita, que­
sta è una decisione che spetta a me. Non posso soppri­
mere ogni sentimento d ’ira; ma sta a me immedesimar­
mi con la mia ira oppure prendere le distanze. L ’ira,
in fondo, è una forza positiva, perché mi spinge a cam­
biare qualcosa: posso modificare una situazione, per la
quale mi infurio, organizzando qualcosa diversamen­
te. Oppure posso modificare il mio rapporto con chi
mi fa adirare. Allora l’ira è la capacità di prendere le
distanze dagli altri, di allontanarli interiormente da me
e di comunicare loro il divieto di entrare dentro di me.
Posso proibire a me stesso di continuare a pensare al­
l’altro a casa mia, nella mia camera. Qui non c’è posto
per lui. Non gli faccio l’onore di farmi rovinare la cena
da lui. Dipende solo da me il fatto di sentirmi impoten­
te nei confronti dell’altro oppure di liberarmi dal suo
potere, prendendo le distanze da lui e scaraventandolo
fuori del mio cuore.
Mi capita spesso di seguire donne che da bambine

104
hanno subito abusi sessualiẾCiò che è penoso è che, ac­
canto alla propria ira, esse provano sensi di colpa per
non essersi difese o per essere ritornate dall’uomo che le
ha violentate. Io cerco di incoraggiare queste donne a ve­
nire in contatto con la propria ira e a espellere da se
stesse colui che le ha ferite così nella loro dignità. Questo
è spesso l’inizio della guarigione. Se chi mi ha ferito è
ancora nel mio cuore, il perdono è solo un’umiliazione
masochistica del sé, che continua a scavare nella mia fe­
rita. Solo quando avrò allontanato dam e chi mi ha feri­
to potrò guardarlo in modo obiettivo e perdonarlo di cuo­
re. Il perdono è allora la liberazione definitiva dal po­
tere degli altri. Chi non sa perdonare* è determinato da
chi l’ha umiliato, continuerà a portare dentro di sé la
ferita. Solo se perdono mi libero dall’altro. Alcuni non
guariscono perché non sono ancora riusciti a perdonare.

Rapporto col potere

Il contrario di impotenza è potenza, potere. Oggi noi


abbiamo un duplice rapporto con il potere: evoca subi­
to l’idea di abuso di potere, del potere da esercitare su­
gli altri; ma potere è anche qualcosa di positivo. Origi­
nariamente, in tedesco, il potere — dall’antico tedesco
« mugan » — indica « essere in grado di », « riuscire ».
Di conseguenza indica anche la capacità di realizzare
qualcosa liberamente, con la propria forza, così come
si dice che « uno possiede una lingua», oppure innan­
zitutto che « è padrone di sé », e non è impotente 17ằ II

17 F. Furger, M acht, in Praktisches L exikon der Spirituaíităt, a cura di


Ch. Schiitz, Freiburg 1988, p. 823.

105
termine significa dunque innanzitutto padronanza, pa­
dronanza su se stessi, la capacità di costruire se stessi,
di vivere in prima persona anziché essere vissuti. An­
che il termine greco e quello latino per indicare potere
— dynamis, potestas — vengono da « essere in grado
di, essere capaci ». Ma possiamo trovare anche un al­
tro significato: dynamis significa anche forza. Luca vede
Gesù come dotato di una forza particolare. Fin dal suo
concepimento la forza deir Altissimo si è posata su di
lui (Le 1,35). Nella forza di Dio Gesù attua i suoi pro­
digi (= dynameis, opere della forza). I discepoli parte­
cipano della forza di Cristo. Nella sua forza anch’essi
compiono prodigi. Potenza, per i greci, è identico a es­
sere ed è un attributo essenziale di Dio. Anche il cri­
stiano che è divenuto partecipe della natura divina (cfr.
2Pt 1,3) partecipa della potenza di Dio. È chiamato a
costruire la propria vita e il mondo nel senso di Dio.
Solo in secondo luogo potere indica l’incarico di gui­
dare, di dirigere. Sento spesso le persone che hanno delle
responsabilità su altre persone lamentarsi del fatto di
non poter fare nulla, di dover capitolare impotenti con
i collaboratori difficili. Una vera guida è una risposta
all’esperienza dell’impotenza. Guidare significa scoprire
nuove possibilità e farle emergere. Gesù stesso ci mo­
stra come dobbiamo intendere il potere in senso positi­
vo: « I re governano sui loro popoli e quelli che hanno
il potere su di essi si fanno chiamare benefattori. Voi
però non agite così; ma chi tra voi è il più grande di­
venti come il più piccolo e chi governa diventi come quel­
lo che serve » (Le 22,25ss). I re governano sui popoli;
li governano e li determinano, esercitano su di essi il
potere, annientando gli altri. Tengono i popoli sotto­
messi, per apparire grandi. Vivono a spese degli oppres­

106
si. E i potenti si fanno chiamare benefattori. Si ser­
vono della propria potenza per presentarsi bene agli
altri. Abusano perciò del potere a vantaggio di loro
stessi.
Nel senso inteso da Gesù, il potere di cui si serve la
guida è servizio: serve l’uomo, serve la vita, fa emerge­
re dagli uomini le loro capacità e possibilità. Li pone
in contatto con i loro sogni, con le possibilità che si na­
scondono. Ognuno di noi è al contempo guida e guida­
to: ha ricevuto anche potere con il suo sé. Il potere è
la volontà di costruire la vita e di tirar fuori dalle per­
sone la vita, In questo senso partecipiamo al potere di
Dio.
Nei gruppi cristiani regna spesso un duplice rappor­
to con il potere: ci si rifiuta di esercitare potere, perché
esso sembra contraddire il nostro ideale di disinteres­
se e amore per il prossimo; ma spesso fatalmente un
potere represso è peggiore per gli uomini di un pote­
re manifesto. Nei confronti di un potere che si vede
ci si può difendere, ma nei confronti di un potere che
viene esercitato nella repressione in maniera sottile e
nascosta, si è impotenti. Dal momento che nella Chie­
sa il potere viene maledetto, si esercita spesso in es­
sa un potere distruttivo. Un potere dietro al quale ci
si nasconde, che non è visibile apertamente, anziché
costruire, distrugge. Sarebbe un compito importante per
le nostre Chiese quello di tentare un nuovo approccio
con il potere.
Potere è anche la volontà di costruire qualcosa, di
collaborare alla costruzione di questo mondo, di tirar
fuori dagli altri la vita, e di servire la vita, perché la vi­
ta che Dio ci ha donato possa fiorire in molti. Il potere
— così dice Karl Rahner — è « dono di Dio, espressio­

107
ne del suo stesso potere, una parte della rappresenta­
zione di Dio nel mondo » ls. Per Klaus Hemmerle, già
vescovo di Aachen, il fine proprio del potere è « che sia­
no potenti il buono e il giusto nella forma del bene co­
mune... Potere è ordine efficace di coesistenza umana
come essere nel mondo » 19. Anziché rimanere impo­
tenti di fronte alle nostre difficoltà e ai problemi del
mondo, dovremmo essere grati per il potere che Dio ci
ha donato e farne un uso tale da costruire, secondo i
disegni di Dio, la nostra vita e il mondo.

B) VIE RELIGIOSE

Spesso l’educazione religiosa ha condotto gli uomini


a sentire un senso d’impotenza. Se Dio viene conside­
rato unilateralmente come il Signore onnipotente, al­
l’uomo spesso non resta altro che percepirsi come pic­
colo e impotente. Nei confronti del Dio severo e che pu­
nisce, che vede tutto, non ho alcuna possibilità di fug­
gire. In ogni caso sarei colto Ilei commettere un errore.
Sono lasciato impotente in balia della sua onnipotenza.
C’è un modo di parlare della corruzione dell’uomo
che rinforza il nostro senso di impotenza, perché ci sen­
tiamo sempre peccatori che si devono battere il petto
dinanzi a Dio e devono chiedere perdono. A volte si per­
de di vista anche l’umanità di Gesù e si sottolinea solo
la sua divinità. Allora i miracoli di Gesù vengono di­

18 K. Rahner, Theoiogie derM achl, in Sch'iften zur Theologie, vol. IV,


Einsiedeln 1964, p. 491.
19 K. Hemmerle, Potere, in Sacramentum M undi, a cura di K. Rahner
- A. Darlap, co]]. 413-414.

108
pinti a colori così stridenti, che non possiamo fare al­
tro che sentirci piccoli e di scarso valore. La divinità
di Gesù e l’onnipotenza di Dio, allora, non annullano
la nostra impotenza, ma la rafforzano. Al contrario,
Gesù ci ha mostrato un’immagine dell’uomo assai di­
versa. Egli ha sollevato dal peso della vita gli uomini
oppressi che erano stati piegati e resi piccoli, cui era stata
spezzata la spina dorsale e ha mostrato ad essi la loro
dignità divina (cfr. Le 13,10ss). Nella sua risurrezione
Cristo ha sollevato tutti noi: per questo i primi cristia­
ni, in ricordo della risurrezione di Gesù, hanno prega­
to stando in piedi ễNella preghiera hanno sperimentato
il fatto che Cristo ha dato loro una dignità divina.

L’uomo regale

Giovanni ha descritto Gesù come uomo regale anche


nella sua passione, perché nei momenti di afflizione della
nostra vita sappiamo mantenere la nostra dignità rega­
le. Quando Pilato chiese a Gesù: « Che cosa hai fatto? »,
egli rispose: « Il mio regno non è di questo mondo » (Gv
18,36). Poiché il regno di Gesù non è di questo mondo,
Pilato non ha potere su di lui e non lo hanno neanche
i soldati che l’hanno imprigionato, flagellato e croci-
fisso. Esteriormente Gesù soffre la terribile morte del­
la croce; ma per Giovanni la crocifissione di Gesù è so­
lo la salita al trono del vero re. Ciò che Giovanni scrive
qui di Gesù vale anche per noi. Nella nostra passione,
là dove veniamo rifiutati, giudicati, resi ridicoli, feriti
e offesi possiamo dire: « Il mio regno non è di questo
mondo ». Dentro di noi c’è una dignità divina, che nes­
sun potere di questo mondo ci può togliere, proprio per-

109
ché essa non è di questo mondo. Anche nella più gran­
de impotenza della morte, la nostra dignità regale non
ci può esser tolta.
La Chiesa cattolica, l’ultima domenica dell’anno li­
turgico, festeggia la solennità di Cristo Re. Il fatto che
Cristo è Re su tutta la terra, che ritorna già in altre fe­
ste, come ad esempio nell’Epifania, viene ricordato an­
cora una volta in una festa vera e propria alla fine del­
l’anno liturgico. Non si tratta semplicemente di una pro­
clamazione di Cristo come Re, ma del fatto che nel Re
Cristo noi stessi ci sperimentiamo uomini regali. Il re
è un’immagine dell’uomo che regna su se stesso, che
è padrone delle proprie passioni e non è consegnato im­
potente ai suoi nemici. Per i greci il re è anche il sag­
gio, che conosce le altezze e le bassezze dell’essere uma­
no. Martin Buber riporta una parola del Rabbi Schio­
mo: « Qual è Fazione peggiore dell'impulso cattivo? Ed
egli risponde: Quando l’uomo dimentica di essere figlio
del re » 20. Noi festeggiamo la festa di Cristo Re per
camminare più dritti nella nostra quotidianità, per cre­
dere alla nostra dignità regale. La liturgia non vuole mo­
strarci la nostra impotenza, ma vuole invitarci a sco­
prire e a vivere la nostra vera essenza di cristiani, a par­
tecipare alla regalità di Cristo, ad avere una dignità di­
vina che ci faccia camminare eretti e ci doni libertà di­
nanzi a tutte le potenze di questo mondo. Nulla di que­
sto mondo ha potere sul nostro nucleo divino.

20 M . Buber, Die Erzahlungen der Chassidim , Zurich 1949, p. 403.

110
Liberazione dal potere del inondo

Questo nucleo divino viene preso in considerazione


anche dalla mistica, quando si parla del fatto che den­
tro di noi c’è uno spazio del silenzio in cui abita solo
Dio, sul quale il mondo non esercita alcun potere. Il
Dio che abita in noi è il Dio dell’Esodo, il Dio che ci
ha liberati dai sovrintendenti eli lavori forzati che ci spin­
gono al massimo rendimento, che ci portano a rinun­
ciare alla nostra libertà solo per ottenere la benevolen­
za dell’Egitto. Dio ci libera dal potere di questo mon­
do, dal potere degli uomini, dalle loro pretese e aspet­
tative, dai lóro giudizi e dalie loro condanne. E ci libe­
ra dal potere del nostro super-io, dalle autoaccuse e dagli
autorimproveri, dall’autopunizione e dall’autosvaluta­
zione.
Nel battesimo siamo morti con Cristo a questo mon­
do. Così ci dice la teologia del battesimo. Morire a que­
sto mondo non indica qualcosa di negativo, ma la stra­
da della libertà: se sono morto a questo mondo, allora
il mondo non esercita più potere su di me. Nel battesi­
mo sperimento che dentro di me c’è ancora un’altra vi­
ta, una vita divina, della quale questo mondo non può
disporre. La verità del nostro battesimo ce la ricorda
ogni celebrazione eucaristica in cui, insieme alla morte
e risurrezione, celebriamo anche la nostra morte a que­
sto mondo. E se entrando in una chiesa o anche uscen­
do di casa ci segniamo con l’acqua benedetta, ciò av­
viene in ricordo del fatto che viviamo di un’altra veri­
tà, di una verità sulla quale questo mondo, fortunata­
mente, non ha potere.

Ili
Riconciliarsi con la propria impotenza

È una tentazione dell’uomo l’invocare l’onnipoten­


za di Dio nei confronti della propria impotenza e pen­
sare che mediante la preghiera e una vita pia si possa
essere liberati dalla propria impotenza. Il paradosso cri­
stiano è però che dobbiamo riconciliarci con la nostra
impotenza: in Gesù Cristo Dio stesso si è rivelato nella
sua impotenza. Per Dietrich Bonhoeffer l’esperienza del­
l'impotenza di Dio è stata un’esperienza decisiva, che
l’ha portato, nella prigione di Tegel, a una concezione
nuova della sua teologia: « Con e al cospetto di Dio vi­
viamo senza Dio. Dio si lascia scacciare dal mondo sulla
croce, Dio è impotente e debole nel mondo e così e sol­
tanto così rimane con noi e ci a iu ta » 21. L’immagine
del Dio impotente conduce a un altro ritratto, diverso
rispetto a quello del Signore onnipotente. Se Dio, nel­
l’incarnazione e nella morte di suo Figlio, si rivela im­
potente, questo è un invito a riconciliarci con la nostra
impotenza. Non si tratta però di un’impotenza di fron­
te a Dio, di sentirsi cioè piccoli dinanzi al grande Dio,
ma di un’impotenza con Dio, nella quale intuisco la vi­
cinanza di Dio. La nostra impotenza diviene allora il
luogo dell’esperienza di Dio: proprio là dove non pos­
so più fare nulla, dove ho raggiunto il limite, dove fal­
lisco, Dio mi può aprire a sé. Là non mi rimane altro
che porgere le mani vuote a Dio e rimettermi a Dio.
Per il cristiano l’impotenza appartiene essenzialmente
alla sua esistenza. Chi crede in Cristo crocifisso e guar­

21 D. Bonhoeffer, W iderstand und Ergebung. B riefe und A ufzeichnun-


gen, Diìsseldorf 1959, p. 146 (trad. ít,: R esistenza e resa. L ettere e scritti
dal carcere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 19962) .

112
da a lui, vede rappresentata in lui l’impotenza di Dio.
Gesù si imbatte nell’impotenza della croce. Il predica­
tore della croce, l’apostolo Paolo, doveva sperimenta­
re nel proprio corpo di essere impotente dinanzi a quel
pungiglione messo nella sua carne. Questo pungiglione
era, a quanto pare, una malattia penosa, che ha impe­
dito Paolo nella sua predicazione. Paolo ha chiesto tre
volte al Signore di liberarlo da questo pungiglione. Ma
Cristo lo ha introdotto nel mistero della sua grazia, che
proprio nella sua debolezza raggiunge il compimento:
« Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nel­
la debolezza » (2Cor 12,9). Paolo era del parere di po­
ter essere un buon predicatore del messaggio di Cristo
solo se si fosse presentato sano dinanzi ai Corinzi. Do­
veva farsi insegnare da Cristo a poter usare non solo
la sua forza, ma anche la sua debolezza e la sua impo­
tenza e agire attraverso di esse. Noi siamo trasparenti
per la grazia di Dio proprio quando sperimentiamo la
nostra impotenza. Se quando siamo deboli siamo an­
che aperti ali’amore di Dio, il nostro volere non osta­
cola più il lavoro di Dio.
Ogni uomo sperimenterà almeno una volta nel corso
della propria vita ciò che Paolo ha sperimentato nel pro­
prio corpo, cioè che la potenza di Dio si sperimenta pro­
prio quando sì giunge al punto zero, quando tutto ci
viene tolto dalle mani, quando si deve ammettere dolo­
rosamente che non si può garantire per se stessi. In ma­
niera evidente dobbiamo sperimentare continuamente
che la nostra forza viene da Dio e non da noi stessi. La
nostra ultima impotenza rincontreremo nella morte: là
tutto ci sarà tolto, non potremo tenere niente in mano;
potremo solo abbandonarci, impotenti, nelle mani amo­
rose di Dio. Nell’impotenza che sperimentiamo di giorno

113
in giorno traspare già l’impotenza della morte. Così l’im­
potenza che sperimentiamo ci invita a credere nella forza
di Dio, nella forza della risurrezione, nella quale la po­
tenza di Dio si rivelerà vincitrice anche in noi. Si tratta
di un’esperienza liberatoria che sgorga dalla nostra im­
potenza: l’esperienza che non dobbiamo fare tutto da
noi stessi, che possiamo essere deboli, che nella nostra
debolezza siamo avvolti dalla potenza di Dio. Se impe­
disco in me ogni debolezza, devo vivere continuamente
nella paura di non riuscire. Ma se so che la grazia di
Dio si può mostrare sia nella mia forza sia nella mia
debolezza, posso aprire fiducioso le mie mani vuote e
porgerle a Dioệ Allora sperimenterò una pace interiore
profonda e la libertà dalla costrizione di dovermi ren­
dere perfetto.

Preghiera e impotenza

La preghiera può liberarci dal potere che altri eserci­


tano su di noi. Ce lo mostra la parabola del giudice senza
Dio (Le 18,1-8). Gesù, con l’esempio della vedova che
lotta per i propri diritti che i nemici le vogliono negare
e dei quali il giudice senza Dio non si cura, spiega che
la preghiera ci dà il diritto alla vita. La preghiera mi
conduce nel luogo del silenzio, nel quale Dio abita in
me, nel quale nessuno ha potere su di me. A questo luo­
go del silenzio i nemici non hanno accesso, né i nemici
esterni, né quelli interni, che vogliono impedirmi di vi­
vere. Là il giudice che non si cura né di Dio né degli
uomini viene spodestato. Il giudice senza Dio è un’im­
magine del nosữo super-io, che non si interessa del no­
stro benessere interiore, che non si cura della nostra di-

114
gnità divina. Nella preghiera Dio mi aiuta a ottenere
il mio diritto, mi porta nel luogo della libertà e qui, nel
luogo interiore del silenzio,.sperimento già la vera vita,
sperimento uno spazio di protezione nel quale posso es­
sere totalmente me stesso.
Naturalmente la preghiera non mi libererà automa­
ticamente dall’impotenza che sperimento nelle mie pas­
sioni, nelle mie paure o nei confronti del mondo. La
preghiera non è un trucco che risolve tutti i problemi;
ma in essa posso scoprire il luogo del silenzio in me,
luogo al quale i problemi del mondo e i miei stessi pen­
sieri chiassosi non hanno accesso. Se qualcuno mi ha
ferito profondamente, questa ferita non sparisce auto­
maticamente, anche se nella meditazione tocco il luogo
del silenzio. Ma essa viene relativizzata: nel momento
della preghiera mi sento libero dalla mia ferita. Il mio
cuore è ancora ferito, ma nella profondità della mia ani­
ma (Tauler), nella cella interiore (Caterina da Siena),
nel Santissimo, nel santuario interiore al quale gli uo­
mini non possono accedere, l’umiliazione non ha ac­
cesso. Esiste dentro di me uno spazio, fino al quale i
sentimenti di paura, di rabbia, di gelosia e d’ira non si
possono spingere e nel quale nessuno mi può umiliare.
Quando tornerò dalla preghiera alla vita quotidiana sarò
ugualmente sensibile alle critiche: la ferita mi provocherà
sempre dolore, il mio cuore sarà ferito come prima, ma
esso intuirà di non essere totalmente preso da questa
umiliazione, che dentro di lui c’è uno spazio che rima­
ne intoccabile. Tutto ciò dà un senso di guarigione e
di liberazione, di pace e di fiducia, pur nell’umiliazione.

115
Partecipazione ai pieni poteri di Cristo

Ai discepoli che l’hanno seguito, Gesù promette:


« Nella rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo sederà
sul suo trono di gloria, sederete anche voi su dodici troni
a giudicare le dodici tribù d’Israele » (Mt 19,28). Essi
avranno dunque parte al potere e alla signoria di Gesù
Cristo. Questo però non vale solo per il potere che essi
avranno alla fine dei tempi, ma già per il loro agire in
questo mondo. Essi partecipano già ora al potere di Cri­
sto. Nel suo nome e in suo potere « scacceranno i de­
mòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano
serpenti e, se avranno bevuto qualcosa di mortifero, non
nuocerà loro, imporranno le mani agli infermi e questi
saranno risanati! » (Me 16,17ss). II potere che aveva sui
demòni Cristo lo comunica anche ai suoi discepoli. Il
pieno potere col quale ha predicato diviene visibile an­
che nelle parole dei discepoli, quando parlano in nome
di Gesù e nello Spirito di Gesù. Se in una persona è vi­
sibile lo Spirito di Cristo, allora i demòni non possono
più resistere: essi vengono trascinati alla luce del sole
e devono abbandonare la persona che hanno tenuto in
possesso. Laddove Cristo è all’opera, gli spiriti impu­
ri, le idee non chiare, i complessi, i pensieri che ci sbal­
lottano da una parte e dall’altra non hanno più alcun
potere sull’uomo.
La questione che si pone è se e come i pensieri biblici
sul potere di Cristo e dei suoi discepoli ci possano aiu­
tare oggi a superare i nostri sensi di colpa di fronte alle
nostre proprie debolezze e all’odierna situazione mon­
diale. Il solo ripetere le parole bibliche sull’onnipoten­
za di Dio e la signoria di Cristo non ci libera infatti dalla
nostra impotenza. Vorrei descrivere alcune esperienze

116
che possono mostrarci come la fede nella potenza di Dio
ci possa liberare dal senso di impotenza.
Parlando con alcune persone sperimento spesso la mia
impotenza: la persona con cui parlo è posseduta da idee
così confuse oppure è dominata a tal punto dalle ferite
dell’infanzia, che le mie parole non possono quasi rag­
giungerla. Tutti i tentativi per cercare insieme qualcosa
che possa aiutarla sono vani. Allora ini aiuta pregare,
per questa persona, durante la preghiera comune in co­
ro, chiedendo a Dio di sterminare i nemici: « Liberami
da quelli che mi perseguitano, poiché sono più forti di
me. Fa’ uscire dal carcere l’anima mia e io renderò grazie
al tuo Nome » (Sai 142,7-8). « Per la tua misericordia
sterminerai i miei nemici, e tutti quelli che avversano
l’anima mia tu li annienterai, poiché io sono tuo ser­
vo» (Sai 143,12). In queste parole dei Salmi sento la
forza di Dio, che è più forte delle potenze che tengono
prigioniera la persona che sto seguendo. I medesimi versi
li posso pregare anche di fronte all’impotenza nei con­
fronti delle mie debolezze: « Liberami, Signore, dai miei
nemici: verso di te mi rifugio » (Sai 143,9)ẾTalvolta in
tali situazioni prego il Salmo 31 e immagino che Gesù,
morendo sulla croce, abbia rivolto al Padre queste pa­
role, che egli, nel pieno della debolezza della morte, ab­
bia sentito la potenza del Padre e abbia confidato in
lui: « Mi trarrai dalla rete che per me han nascosta, poi­
ché tu sei il mio rifugio; nelle tue mani affido il mio
spirito; riscattami o Signore, Dio fedele» (Sa! 31,5ss).
Allora cresce in me la speranza che anche nella più gran­
de impotenza la fiducia nell’aiuto di Dio possa solle­
varmi e rafforzarmi, perciò non mi dispero, ma mi metto
fiducioso nelle mani di Dioễ
L’impotenza che oggi per lo più ci paralizza è quella

117
che sperimentiamo nei confronti della situazione del
mondo. Dobbiamo guardarci dal parlare semplicemente
di superamento della nostra impotenza mediante l’on­
nipotenza di Dio. Spesso infatti Dio sembra non rive­
larci nulla della sua potenza. È una provocazione per
la nostra fede il fatto che Dio non sia intervenuto di
fronte alle atrocità che si sono verificate in Bosnia, in
Ruanda e in molti altri luoghi del mondo. A cosa ser­
ve, in questi casi, parlare del Dio onnipotente, se egli
stesso guarda, impotente, come gli uomini distruggo­
no la sua creazione? Il popolo di Israele ha continua­
mente e dolorosamente sperimentato come Dio si sia
apparentemente tirato indietro e non sia intervenuto.
La storia di Israele è una storia unica di fallimento e
di impotenza. Le Chiese cristiane oggi in Europa fan­
no un’esperienza simile: esse sentono la propria impo­
tenza per il fatto che nonostante la preghiera e nono­
stante i loro sforzi perdono sempre più membri e per
esse ci si interessa sempre meno. Come cristiani possia­
mo pregare col salmista sia per la situazione delle Chiese
sia per noi stessi: « Ruggirono i tuoi nemici nel luogo
delle tue adunanze; là issarono i loro vessilli... I nostri
vessilli non li vediamo più; non c’è più nessun profeta,
e fra noi non c’è alcuno che sappia fino a quando. Si­
no a quando, o Dio, lancerà insulti l’avversario? Il ne­
mico potrà forse per sempre disprezzare il tuo Nome?
Perché ritrai la tua mano e trattieni in seno la tua de­
stra? » (Sai 74,4.9-11). Oppure facciamo un’esperien­
za simile a quella descritta da Isaia: « Speravamo nella
luce, ecco invece le tenebre; nello splendore, invece cam­
miniamo nell’oscurità. Come ciechi tastiamo la parete;
come privi di occhi palpiamo; inciampiamo a mezzo­
giorno come al crepuscolo, in pieno vigore siamo come

118
morti... Speravamo nel diritto, ma non c’è; nella sal­
vezza, ma essa è lontana da noi » (Is 59,9-11). Per mol­
ti l’impotenza di Dio è una tentazione a dubitare di Dio,
ad abbandonare la fede. Come può Dio permettere que­
sto, Egli che è l’onnipotente! Sopportare che Dio non
intervenga è per ogni cristiano una provocazione alla
sua fede, che egli può accettare unicamente nella pro­
spettiva della passione di Cristo sulla croce.
Se osservo la miseria del mondo, le atrocità in Bo­
snia e in Ruanda, davanti alle quali resto impotente,
la preghiera non può sciogliere il mio senso di impo­
tenza. Mi aiuta, però, immaginare che gli assassini non
trionfino sulle loro vittime e che il mondo, nonostante
tutto, sìa nelle mani di Dio e non nelle mani di un paz­
zo guerrafondaio. È necessaria una fede forte per non
dubitare di fronte alla propria impotenza. È natural­
mente più facile chiudere gli occhi e cercare di ignorare
la guerra, oppure attribuire la colpa agli uomini che si
trovano Là. La fede nell’onnipotenza di Dio non è l’op­
pio che mi fa chiudere gli occhi di fronte alle necessità
degli uomini; piuttosto, la preghiera mi spinge a fare
il possibile per questi uomini. Ora et labora. Contem­
plazione e lotta, resa e resistenza (Bonhoeffer), mistica
e politica vanno insieme. Non mi posso ritirare nella
preghiera. Molto spesso la preghiera mi può spingere
a fare ciò che Dio ora ha riservato per me. La fiducia
nell’onnipotenza di Dio non è un semplice palliativo,
ma può accendere — nell’ira senza senso che sale in noi
dinanzi alla nostra impotenza — un bagliore di speran­
za, che poi chiama a un serio agire.

119
La potenza delia preghiera

I monaci sul monte Athos sono convinti del fatto che


il nostro mondo non sia siato ancora completamente
raso al suolo, perché ovunque, nel mondo, si prega, per­
ché non passa un minuto senza che qualcuno rivolga
la propria preghiera a Dio. Starez Siluan ritiene « la pre­
ghiera per amore abbastanza forte da influenzare no­
tevolmente il corso della storia e ridurre la grandezza
della cattiveria » 21. Gli svizzeri pensano ancora oggi
che la loro pace, che perdura da secoli, sia dovuta alla
preghiera di san Nicola da Flue. Non si può dimostrare
la potenza della preghiera, ma tutte le religioni nutro­
no la convinzione che la preghiera rappresenti un forte
potenziale, posto sopra le forze distruttive di questo
mondo. Mi è stato chiesto da rappresentanti del movi­
mento pacifista se la preghiera in se stessa giovi. Secondo
loro, fare dimostrazioni smuoverebbe molto di più qual­
cosa nelle teste dei politici. Naturalmente io non posso
dimostrare se e come la preghiera trasformi le strutture
di pensiero dei potenti. Anche le dimostrazioni hanno
di certo il loro valore. Ma per me la preghiera ha certa­
mente il potere di smuovere qualcosa in questo mon­
do. La domanda è cosa abbia determinato il cambia­
mento nell’est 0 la pace tra Israele e gli arabi e la sop­
pressione dell’apartheid in Sudafrica. Io credo nella po­
tenza della preghiera, che mette in moto un ingranaggio.

22Starez Siluan, M ònch vom Heiìigem Berg A th o s. Leben-Lehre-


Schriften , a cura dell’A rchìm andrìta Sophronius, D iissd d o rf 1959, p. 146.

120
La potenza dell’amore

Noi cristiani, però, non crediamo solo nella potenza


della preghiera, ma anche nella potenza dell'amore. L’a­
more di Dio è apparso qui sulla terra in Gesù Cristo:
ha guarito i malati e ha risollevato uomini. Nella croce
l’amore di Cristo è visibile in maniera più chiara: là Gesù
stesso ha amato anche coloro che lo hanno messo in ero- '
ce. E così questo amore ci invita ad abbandonare le no­
stre autoaccuse: se Gesù ama persino i suoi assassini,
anch’io posso sapermi amato da lui e amarmi a mia vol­
ta. L ’amore di Gesù Cristo ha fatto nascere ovunque
nel mondo negli ultimi duemila anni isole di umanità:
di continuo gli uomini si sono fatti toccare da quest’a­
more e con esso hanno creato un pezzo di mondo più
umano e più piacevole. È sempre stato l’araore a far
cadere le barriere tra uomini e popoli. La preghiera mi
conduce all’amore; l’amore però deve essere visibile sia
nelle intenzioni sia nelle azioni. È stato l’amore che An­
war Sadat aveva nel suo cuore di pio musulmano a ren­
dere possibile la pace con Israele. È stato l’amore in
Martin Luther King a rompere senza violenza le bar­
riere fra neri e bianchi. La riconciliazione tra Francia
e Germania non è stata attuata soltanto attraverso i po­
litici, ma perché da entrambe le parti c’erano persone
che si amavano reciprocamente, per le quali l’amore era
più forte di quell’odio che aveva provocato una rivali­
tà secolare. Le favole narrano come l’amore possa tra­
sformare un uomo, come possa far sciogliere una pie­
tra e come da un animale possa venir fuori una perso­
na. Tutto ciò l’abbiamo potuto sperimentare più volte
negli ultimi decenni: l’amore ha abbattuto il muro che
divideva le due parti della Germania; l’amore trasfor­

mi
ma dei pazzi che lottano a sangue in uomini che cam­
minano nuovamente insieme.
Il paradosso dell’amore consiste nel fatto che esso è
potente proprio nella sua impotenza. L’amore rinun­
cia a tutte le potenze esteriori. L ’amore di Gesù divie­
ne visibile proprio nell’impotenza della sua morte. Osa
entrare nel buio e nella cattiveria e li trasforma. Nel suo
amore Gesù non si difende da coloro che lo uccidono.
Egli rompe il circolo vizioso del conưaccambio. Egli pe­
netra con il suo amore la cattiveria e così la distrugge.
Giovanni, nel racconto della lavanda dei piedi, ci de­
scrive l’amore di Gesù: « Avendo amato i suoi che era­
no nel mondo, li amò fino alla fine » (Gv Í3 ,l)ệ Gesù
si inginocchia per terra e, ai discepoli, lava i piedi, che
sono sporchi e vulnerabili. A partire dalla morte di Ge­
sù molti cristiani si sono impegnati per questo mondo
e l’hanno costruito con la forza di quest’amore divino.
II loro amore impotente è spesso divenuto la potenza
più forte in questo mondo: esso ha certo segnato la no­
stra terra nel modo più durevole.
Certamente ognuno ha già sperimentato nel proprio
ambiente che un amore disinteressato può muovere qual­
cosa nell’altro. C’è al riguardo una storia dei chassi-
dim, che narra di un padre che era impotente nei con­
fronti del proprio figlio maleducato. Lo porta dal rab­
bi. Questi lo stringe al proprio cuore e lo tiene fermo
così con le sue braccia. Dopo un giorno lo restituisce
completamente trasformato al padre. All’asilo una bam­
bina di cinque anni, di cui il padre aveva abusato ses­
sualmente, rifiorisce sotto gli occhi della suora che da
poco ha preso in consegna la classe. Ciò che gli altri
educatori non sono riusciti a fare per un anno intero,
ha potuto compierlo lo sguardo amoroso. Per la prima

122
volta la bambina si rivolge spontaneamente alla mae­
stra e per la prima volta partecipa alle attività di dise­
gno. Spesso è necessaria una grande fede per aver fidu­
cia nell’amore impotente e nella sua forza trasforman­
te. Spesso è necessario molto tempo perché una mam­
ma possa sperimentare che suo figlio, che si è perso per
strada, reagisce al suo amore,
Neir ambiente sociale e politico ci sentiamo ancora
più impotenti con il nostro amore. Cosa può fare il no­
stro amore contro la potenza delle armi? Gli esempi di
un Sadat, di un Gandhi, di un Martin Luther King ap­
paiono in questi casi solo delle eccezioni. Le discussio­
ni per la lotta non violenta per la pace hanno dimostra­
to che senza una potenza militare non si riesce ad assi­
curare la pace. E tuttavia le armi non portano pace, ma
nuove guerreẾL ’amore senza violenza di molti uomini
è un grano di senapa, che cresce e diventa un albero,
alla cui ombra gli uomini possono vivere in pace gli uni
con gli altri. Esso è come il lievito, che fermenta la massa
di farina.
Un confratello mi disse una volta che tre monaci che
prendono sul serio la loro donazione e il loro amore sa­
rebbero sufficienti a trasformare una comunità di due­
cento monaci. Forse bastano trenta persone che si la­
sciano penetrare dall’amore di Dio per smuovere un in­
tero popolo. Chi crede alla potenza dell’amore non si
sente del tutto impotente di fronte alla situazione del
mondo. Vi oppone il suo amore, anche se esso sembra
essere completamente privo di effetto per lungo tem­
po. Egli crede alla forza trasformante dell’amore e su­
pera con la sua fede la rassegnazione e la disperazione,
nelle quali cadono molti di fronte alla propria impo­
tenza nei confronti di chi semina guerra. Ma non può

123
dimostrare la potenza del suo amore: può solo credere
e sperare che il seme dell’amore cresca e porti molto
frutto.

Y2A
CONCLUSIONE

Autostima e impotenza sono i due poli attorno ai quali


ruotano oggi molti uomini. Essi anelano a un forte senso
di autostima, alla fiducia in se stessi, alla consapevo­
lezza e sicurezza di sé. Vorrebbero percepire se stessi,
il mistero della propria vita, scoprire il proprio sé. E
vorrebbero mostrarsi sicuri agli altri. I numerosi gio­
vani che vengono ai nostri corsi a Capodanno, a Pa­
squa e Pentecoste cercano nella fede non solo un senso
per la propria vita, ma spesso anche un rafforzamento
della propria autostima. Essi sperano di giungere con
ỉa preghiera a percepire se stessi, a sentire la propria di­
gnità divina, a superare la propria paura e insicurezza
in un mondo anonimo e freddo e a trovare fiducia- Fi­
ducia in Dio, fiducia in una comunità di uomini che si
accettano e rialzano reciprocamente e fiducia in se stessi,
nella forza che Dio ha donato loro, fiducia nel futuro
che Dio ha in serbo per loro. Oggi le questioni dogma­
tiche non interessano i giovani: la differenza tra i cat­
tolici e gli evangelici per essi quasi non sussiste. Anche
le questioni filosofiche, che toccavano i giovani ancora
dopo la seconda guerra mondiale, per loro non hanno
grande importanza. Importa loro soprattutto come poter
vivere in questo mondo in maniera significativa e fidu­
ciosa, come vedere se stessi con occhi nuovi e come gua­
dagnarsi da Dio una sana autostima e fiducia in se stessi.

125
La ricerca centrale di autostima ha talvolta tendenze
narcisistiche: alcuni giovani chiudono gli occhi di fronte
alla situazione del mondo, non ce la fanno a guardare
la situazione della Bosnia o del Ruanda. Per questo cer­
cano nei gruppi religiosi una patria e una sicurezza in
questo mondo ostile e impenetrabile. Ammettere la pro­
pria impotenza nei confronti delle numerose guerre e
ingiustizie è troppo per loro: non riescono ad affronta­
re questo senso di impotenza, perché non sentono in
sé la forza di sopportare la propria debolezza e impo­
tenza. Dal momento che è troppo forte il loro senso di
impotenza nei confronti di se stessi e della situazione
mondiale, lo devono sopprimere. Ovunque nel nostro
mondo constatiamo in politici, economisti, uomini di
Chiesa la rimozione della propria impotenza. È scomodo
sopportare l’impotenza. Per questo la si evita.
La Bibbia ci mostra che l’impotenza appartiene alla
nostra vita. Il popolo di Israele ha continuato a speri­
mentare quest’impotenza nella sua storia. La sua sto­
ria non è stata una storia di potere che aumentava, ma
di impotenza che cresceva, fino airesperienza dell'esi­
lio e al dover ricominciare da capo, piccolissimo e mo­
desto. Come cristiani guardiamo a Gesù Cristo, che si
è imbattuto nell’impotenza della croce. La potenza dì
Dio si è manifestata in Cristo proprio tramite Pimpo-
tenza della croce: è la potenza della risurrezione che ci
solleva dalla nostra impotenza, che si manifesta come
forza di Dio e non come nostra forza. La fede, che ci
mette a confronto con la nostra impotenza, ci indica
anche vie per poter trattare con essa in maniera creati­
va, anziché rifugiarci nella rassegnazione 0 nella depres­
sione, per accettare attivamente la sfida della nostra im­
potenza e poter così rendere, con la preghiera, più uma­

126
no e più a misura di Cristo il nostro mondo.
La via della fede può aiutarci a sviluppare una sana
autostima e a trattare la nostra impotenza in maniera
tale che essa divenga una sorgente di fantasia e creati­
vità. Sul nostro cammino spirituale dobbiamo passare
in rassegna tutte le vie umane, senza accorciarle spiri­
tualmente (spiritual bypassing). Autostima e impoten­
za hanno la propria causa in realtà psichiche, in espe­
rienze dell'infanzia e in quelle che facciamo quotidia­
namente. Perciò la fede deve considerare seriamente le
conoscenze psicologiche prima di indicare una via che
superi il livello psicologico. Non saremmo di alcun aiuto
a una persona che non ha potuto sviluppare autostima
durante la propria infanzia a causa di situazioni diffi­
cili, se le annunciassimo precipitosamente che essa de­
ve aver fiducia perché Dio ha fiducia in lei. Anche il
credente deve confrontarsi con la propria realtà psico­
logica: egli deve guardare in faccia le ferite della pro­
pria infanzia nella preghiera, davanti a Dio, e nel col­
loquio con la propria guida spirituale. Solo quando egli
avrà manifestato tutta la verità davanti a Dio e agli uo­
mini le sue ferite potranno guarire. Ed egli troverà nel­
la fede una via, nonostante le proprie ferite e umilia­
zioni, per scoprire la propria dignità e sviluppare così
una sana autostima. Nella fede egli udrà continuamen­
te la parola originaria, che Dio, al battesimo di Gesù,
ha rivolto a suo Figlio e che rivolge anche a noi, quan­
do siamo immersi nell’acqua del Giordano, nell’acqua
della nostra colpa e della nostra sconfitta: «T u sei il
figlio mio diletto, la mia figlia diletta; in te mi sono com­
piaciuto » (cfr. Me 1,11). E forse potrà allora sperimen­
tare che sopra di lui il cielo si apre e l’ampiezza di Dio
squarcia la sua ristrettezza (cfr. Me 1,10).

127
INDICE

L’esperienza di sé dell’uomo d’oggi pag. 5


Fiducia e sicurezza in se stessi, consapevolez­
za di sé » 7
Impotenza, mancanza di capacità, di possi­
bilità » 9

PARTE P R IM A

SVILUPPARE LA STIMA DI SÉ

1. La costruzione di una buona stima di sé » 15


Fiducia originaria » 15
Singolarità e unicità » 18
La pentola piena » 20
L ’accettazione dell’ombra » 22
Il sé spirituale » 25

2. Immagini della mancanza di autostima » 30


Il piccolo » 30
Il paralitico » 32
Colui che fa confronti » 36
Il pusillanime » 37
Il curvo » 40

129
L ’adattato pag. 44
L ’arrogante » 46

ie che conducono a una sana autostima » 49


L’accettazione di se stessi » 49
Essere presso di sé » 52
La via che passa per il corpo » 54
La via della fede » 56
La meditazione di testi biblici » 58
La celebrazione delle feste cristiane » 61
L’esperienza di Paolo » 66
L’annuncio della riconciliazione » 68
La via mistica » 71

PARTE SECONDA

VINCERE L’IMPOTENZA

4. Sensi di impotenza » 81
Impotenza nei confronti di me stesso » 81
Impotenza nei confronti degli altri » 85
Impotenza nei confronti del mondo » 87

5. Conseguenze del senso di impotenza » 91


Ira e violenza » 91
Brutalità » 93
Rigorismo » 94
Autopunizione » 96
Rassegnazione e disperazione » 96

6. Vie per trattare con l’impotenza » 99


A) VIE UMANE » 99
Vie comuni » 100

130
Vie personali pag. 101
Sani rituali » 103
Liberarsi dal potere degli altri » 104
Rapporto col potere » 105
B) VIE RELIGIOSE » 108
L ’uomo regale » 109
Liberazione dal potere del mondo » 111
Riconciliarsi con la propria impotenza » 112
Preghiera e impotenza » 114
Partecipazione ai pieni poteri di Cristo » 116
La potenza della preghiera » 120
La potenza dell’amore » 121

Conclusione » 125

131
Insicurezza, paura degli altri, mancanza di
coraggio e senso di impotenza di fronte ai pro­
pri limiti e alle realtà negative del mondo sono
atteggiamenti diffusi tra gli uomini e le donne
del nostro tempo.
Più questi atteggiamenti crescono e agitano
la nostra interiorità, più si ricerca un forte
senso di autostima, di fiducia in se stessi e nel
mistero della vita, al di là delle ombre che
sempre ci accompagnano.
Anselm Grũn, religioso ed esperto pastore
d’anime, coniugando il piano psicologico con
quello evangelico ed evitando ogni spiritual
bypassing (scavalcamento delia realtà), indica
con maestria le vie per recuperare consape­
volezza e sicurezza in se stessi, guidando il
lettore a «sperimentare che sopra di lui il cielo
si apre e l’ampiezza di Dio squarcia la sua
ristrettezza».

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