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LEZIONI DI ANTROPOLOGIA COGNITIVA

Lezione 1

prof. M. Squillacciotti

1 – Premessa

Come nasce l’antropologia cognitiva:


- da una parte ha la sua matrice storica nell’ambito delle altre e varie scienze antropologiche (dette
discipline Demo-Etno-Antropologiche in quanto raggruppano le varianti della Demologia,
dell’Etnologia e dell’Antropologia, sia interne che esterne a ciascuna di queste1);
- dall’altra ha un proprio titolo di campo scientifico nell’ambito del complesso denominato scienze
cognitive.

Punto comune tra questi due rami del sapere che configurano l’antropologia cognitiva è l’esperienza
di ricerca sul campo: l’etnografia nella e della alterità riguardo le forme del pensiero, i suoi codici di
espressione in contesti culturali definiti e diversi dai nostri per un qualche carattere storico.

Due i paradigmi2 dell’antropologia cognitiva o studi etno-cognitivi:


- la unità psichica del genere umano,
- la diversità di forme del pensiero è dovuta alla diversità delle forme culturali entro cui le prime
vengono prodotte e devono essere spiegate.

Da dove nasce: alcuni studiosi identificano l’origine dell’antropologia cognitiva a partire dagli studi
linguistici, etnolinguistici e di etnoscienza nella caratterizzazione statunitense dagli anni ‘950 in poi,
mentre questa “nuova” scienza si forma in realtà con l’assommare una serie di tematiche e filoni di
studio ben più ampi ed antichi che partono fin dall’origine degli studi sociologici ed antropologici.
Infatti, ad una attenta considerazione storiografica, le radici storiche dell’antropologia cognitiva
negli studi antropologici emergono come un crescendo che, provenendo nel tempo da diversi campi,
confluiscono negli ultimi 20 anni in un complesso dai molti interessi ma unificato per quanto detto
finora3.

La matrice di questo sviluppo fa riferimento a studi su:


- mentalità primitiva tra ontologie e naturalismo: Émile Durkheim (1898) e Marcel Mauss
(1901-1902); Franz Boas (1911); Lucien Lévy-Bruhl (1910-35);
- carattere dello spirito: forme sociali e storicismo: Remo Cantoni (1938-41), Ernesto de Martino
(1941) e Giuseppe Cocchiara (1948);
- ambiente culturale e sviluppo del pensiero: J. Piaget, L. Vygotskij, A. Lurija; D. R. Price-
Williams, C. R. Hallpike; J. S. Bruner, M. Cole, D. R. Olson; B. Whorf, E. Sapir, N.
Chomsky; B. Bernstein; M. McLuhan; J. Jaynes; G. Bateson (dagli anni ‘950 agli ’980);
- il pensiero selvaggio: Claude Lévi-Strauss (1949 e 1962 segg.); dagli anni ‘970: Alberto Cirese,
Vittorio Lanternari, Francesco Remotti, Michel Foucault, Maurice Godelier, Rodney
Needham, Marshall Sahlins, Edmund Leach, Jack Goody, Maurice Bloch;
- le categorie del pensiero: etnoscienza ed antropologia simbolica:
- temi specifici d’analisi all’interno dell’ormai vasto campo dell’antropologia cognitiva: H. Putman
(1975); H. Gardner (1983); P. N. Johnson-Laird (1983, 1988);
- etnoscienza: G. R. Cardona (1985a, 1985b);
- antropologia simbolica: M. Douglas (1970a, 1970b); C. Hugh-Jones (1979);

1
- categorie del pensiero di tempo, spazio, numero, colore, logica delle relazioni (Pignato 1987b; La
Cecla 1987; Gnerre 1987; Cardona 1980, 1987; Giannattasio 1987; Squillacciotti 1986,
1994, 1995, 1996a, 1996b, 2004, 2006);
- riflessioni sulla storiografia della scienza antropologica: S. Mancini (1989); L. Moruzzi (1991);
- limiti e questioni di epistemologia della cognizione e del simbolismo: D. Sperber (1974, 1982,
1996);
- tentativi di trasferimenti interdisciplinari di acquisizioni circa la dimensione cognitiva della specie
umana: T. Dobzhansky (1962); A. Leroi-Gourhan (1964); K. Lorenz 1965; C. Geertz (1973,
2000); M. Sahlins (1977); A. M. Cirese (1984); V. Turner (1986); G. Angioni (1986);
Tattersall 2002; T. Ingold (2004); L. L. Cavalli Sforza (2004); M. Tomasello (2005);
- aggiornamento della “ipotesi di Sapir-Whorf”, il rapporto tra categorie di lingua e categorie del
pensiero: L. Giannelli, L. e M. R. Sacco (1999), G. R. Cardona (1980), M. Squillacciotti
(1986, 1994, 1995, 1996b, 1998a, 2000a, 2004).
- codici dell'oralità e della scrittura: Walter Ong (1967, 1982), J. Goody (1977, 1987); G. R.
Cardona (1981); D. R. Olson (1979), D. R. Olson e N. Torrance (1991); M. Squillacciotti
(1986, 1998a, 2000a,).
- processi di pensiero e scienze cognitive
C. Geertz (2000); T. Ingold (2004); A. Acerbi (2003, 2005). S. Lutri (2008).

2 – Cosa studia: la cognizione

L’Antropologia Cognitiva, dunque, studia la cognizione, secondo i paradigmi già enunciati.

Chiarisco subito che la prospettiva di studio dell’evoluzione umana, del processo di ominazione e
costituzione della specie:
- non dipende da un caso, né da una necessità, né da un atto creativo di qualsivoglia origine;
- non si verifica prima la trasformazione e l’assetto del corpo, poi formazione della psiche ed infine
la modificazione e la speciazione del cervello con le relative funzioni cognitive e categorie del
pensiero;
- non é merito di un particolare sviluppo del cervello con l’ampliamento delle sue possibilità
applicative, né dell’aumento in sé della grandezza della sua massa.

2
La spiegazione passa per la definizione di cognizione: con il termine cognizione4 indichiamo il
processo mentale di comprensione delle regole che governano il mondo e di significazione del
mondo, processo attivo di presa di possesso e di attribuzione di significato del sé e dell’ambiente
naturale e culturale da parte dell’uomo.

La cognizione è una condotta intelligente5, è una azione anche quando rimane solo nel pensiero, e
si struttura utilizzando gli organi di prensione, di senso e poi di parola; occupa il tempo e lo spazio;
si svolge con un ritmo.
Processo di mediazione mentale del soggetto (che si costruisce come persona) con il sé, gli altri ed
il mondo in un ambiente; come dire che la cognizione è:

Incorporata – Contestualizzata – Situata – Distribuita – Socializzata – Cumulativa – Mediata -


Tacita.

Processo attivo, dunque, perché l’uomo nel produrre il mondo, in cooperazione con gli altri uomini,
prende coscienza del suo operare e del suo collocarsi nel processo produttivo: la sua “natura”
diviene con ciò “culturale”, cioè definibile solo in termini di cultura.
La coscienza è la capacità che nasce quando il produttore è consapevole della relazione con il
prodotto, relazione tra idea della cosa e la cosa da produrre o già prodotta, sia nello strumento
oggetto (artefatto) che nella rappresentazione visiva (immagine mentale).

Come è successo questo? Al di là della poca differenza genetica tra la nostra specie e quella delle
scimmie antropoidi, la nostra storia primordiale ha visto processi di mutazione genetica e
selezione naturale-sociale a seguito di un dispiegamento del corpo e dei suoi organi nel produrre e
riprodurre le condizioni della propria esistenza. La morfogenesi6 della specie è strettamente legata
alla sociogenesi, come due facce di una stessa medaglia: l’evoluzione è un processo di sviluppo in
cui la morfogenesi si realizza in relazione di interdipendenza reciproca con la sociogenesi7. Per
questo la distinzione natura/cultura per gli umani è definibile solo come grado 0 perché nel
processo reale, concreto e storico le due facce appartengono unificate, inscindibili, interrelate,
interdipendenti… ad una sola medaglia che è la specie. Insisto nel dire che motore di questo
processo sono le rilevanze cerebrali (e poi mentali) degli strumenti corporei (e poi oggettuali e
simbolici) attivati nella presa di possesso del mondo. La relazione tra natura e cultura non è
configurabile come natura vs cultura, né natura+cultura, ma natura x cultura. Cioè la relazione

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costituisce non un ente ma un processo e possiamo schematizzare il processo costitutivo della
specie in questo modo:

Cognizione

STRUTTURA8 ARCHITETTURA9 SISTEMA10


funzioni ed organi categorie del pensiero simboli, valori
(cervello: funzioni cognitive) processi cognitivi codici, artefatti

La mente11 come “luogo” dei processi cognitivi, epifenomeno rispetto all’organo del cervello, relai
di connessione tra il sé e gli ambienti (il relai è un particolare tipo di interruttore che fa da
meccanismo di messa in relazione di parti diverse, e non solo di contatto tra queste parti,
conferendo un particolare tipo di connessione).

Il pensiero12 viene assunto come insieme dei processi cognitivi, parte attiva di un “luogo”
costitutivo della specie (la mente), ed è organizzato secondo categorie.

Le funzioni cognitive13: la mutazione “naturale” del cervello, in relazione ed insieme al processo


ed alla trasformazione “culturale”, ha permesso nell’interazione sociale e tecnologica tra gli umani e
con l’ambiente l’accumulo e la trasmissione del sapere; ha permesso lo sviluppo delle funzioni
cognitive specie specifiche, che sono: percezione intermodale, controllo volontario, mediazione,
categorizzazione, memorizzazione, ordine sequenziale, automatismi 14.

Le categorie del pensiero15 sono i criteri, campi … di organizzazione del pensiero; le


concatenazioni, connessioni, messa in relazione, classi logiche… a cui il pensiero ricorre per
organizzarsi e poter attivare il processo di significazione; queste sono tempo, spazio, quantità,
colore, relazionalità.

I processi cognitivi:
- si attivano in virtù delle funzioni: percezione intermodale, controllo volontario, mediazione,
categorizzazione, memorizzazione, ordine sequenziale, automatismo;

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- operano attraverso meccanismi neuro-fisiologici, tipo: astrazione, attenzione, discriminazione,
identificazione, immaginazione, percezione, rappresentazione, simbolizzazione …

- si avvalgono di categorie del pensiero: tempo, spazio, quantità, colore, relazionalità;

- realizzano fenomeni di pensiero, tipo: dislocazione, slittamento, trasferimento, riconoscimento,


finzione, riduzione, evocazione, ripetizione, conservazione, differenziazione …

- devono fare i conti con: circostanze e coincidenze.

Dal punto di vista cognitivo, l’incorporazione non è solo un processo di memorizzazione nel corpo
di un sapere generico (memoria mentale) o di un sapere tecnico (memoria corporea) ma, proprio
come processo ed in quanto processo, è lo sviluppo di abilità della persona che si realizza con un
trasferimento e connessione di funzioni cognitive diverse, con una resa immateriale delle condizioni
materiali, delle regole dell’apprendimento, delle tecniche di produzione (materiale e immateriale).
E’ su questa base che si è allora costituita la capacità simbolica, la simboli-ficazione, cioè il fare e
sapere, o meglio, il saper fare ed il saper sapere...

NOTE
1
In nota è bene notare che la particolare sottolineatura nella dizione studi demo-ento-antropologici italiani,
un po’ pesante sì oggi, evidenzia storiograficamente gli apporti interni all’antropologia di quei diversi filoni
tutti italiani che venivano coordinandosi in un complesso di discipline in opposizione agli innesti disciplinari
provenienti dall’estero, che per diversi motivi non riuscivano ad inquadrarsi nelle specificità storico-culturale
italiana o che trovavano accoglienza nel versante socio-assistenziale di stampo cattolico. Questa stessa
dizione oggi servirebbe alla qualificazione della rilevanza dell’esperienza di campo, interna ed esterna alla
nostra società, ed irrinunciabile come apporto storico e specifico della ricerca antropologica altrimenti
generica e, tutto sommato, ridotta ad una semplice, anche se moderna, ottica d’analisi nell’assunzione dei
quadri culturali interni all’epoca cui si riferiscono le specifiche analisi storiche compiute.
«Nella storiografia degli studi antropologici italiani la data del 1941 assume un valore simbolico di
riferimento significativo: è l’anno di pubblicazione di una serie di libri che segnano uno spartiacque dallo
storicismo idealistico lungo quel percorso, tutto italiano, costituito da “De Sanctis-Croce-Gramsci”, per dirla
con Ernesto De Martino ed Alberto Cirese. Questi sono: il romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a
Eboli, l’antologia di Ernesto De Martino, Naturalismo e storicismo in etnologia, ed il saggio critico di Remo
Cantoni, Il pensiero dei primitivi. Con questi contributi si evidenza la distanza della “cultura” nazionale sia
dalle istanze di approcci moderni del sapere, che dalla scoperta della realtà diversa e specifica della “cultura”
meridionale; con la necessità, presto diventata anche impegno politico, di studiarla e comprenderla, con
strumenti adeguati come, in primo luogo, la dilatazione del concetto di cultura in prospettiva demo-etno-
antropologica. Eravamo in una Italia dal clima della “ricostruzione” postbellica, sia in senso materiale che di
formazione di un nuovo blocco storico.
È in questo ambito che nel 1953 nasce il confronto sulla rivista «La Lapa», fondata e diretta da Eugenio
Cirese, intorno alla portata di questa scoperta meridionalista della “cultura”, come dell’esistenza della
capacità analitica di strumenti già presenti negli studi italiani sul folklore, subito appresso rivitalizzati dalla
lettura dell’opera di Antonio Gramsci, come, ancora, della definizione del concetto di “cultura” tra studi
demologici italiani ed antropologia culturale (A. M. Cirese, T. Tentori ed altri).
È ancora in questo quadro che si svolgono in successione ravvicinata il I ed il II convegno nazionale di
antropologia culturale (1962 e 1963): nel confronto tra quadri concettuali interni alla rinnovata tradizione
scientifica italiana ed apporti dall’antropologia culturale, in primo luogo statunitense. Dalle posizioni

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presenti in questi convegni appare chiaro come l’opposizione reciproca tra filoni di studio sia un riflesso
all’interno della scienza dei termini delle opposizioni più generali allora esistenti nella “cultura” italiana.
[…] Il dibattito all’interno dell’antropologia italiana ha avuto un altro momento d’intensità, tra la fine degli
anni ’70 e la metà degli anni ’80, ad opera di Francesco Remotti sulle pagine della «Rassegna Italiana di
Sociologia» a partire dal tema del rapporto tra antropologia e marxismo, ma subito generalizzatosi intorno al
senso stesso dell’antropologia culturale.» (M. SQUILLACCIOTTI 2000)
Va sottolineato che il dibattito svoltosi per scritto sulla rivista suddetta (1978) è sorto all’indomani
di un seminario che alcuni di noi organizzarono presso la Fondazione Feltrinelli di Milano (1977),
proprio nella prospettiva di una rifondazione marxista dell’antropologia italiana, ma anche in
risposta alla recensione che sul seminario aveva scritto A. Sobrero sulle pagine di «Rinascita». E
che più miti pretese, senza però demordere, avemmo poi – con Sandra Puccini, Alberto Sobrero e
Vincenzo Padiglione – nell’organizzare due numeri della rivista «Problemi del Socialismo» nel
1979, dedicati uno ad Orientamenti marxisti e studi antropologici italiani. Problemi e dibattiti ed il
secondo a Studi antropologici italiani e rapporti di classe. Dal positivismo al dibattito attuale.
2
Il termine paradigma è stato introdotto da Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni
scientifiche, Torino, Einaudi, 1978 [ed. orig. 1962].
Che cos’è un paradigma? «Con tale termine – dice Kuhn – voglio indicare conquiste scientifiche
universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e
soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca». In altre parole il filosofo,
servendosi di questo concetto, vuole indicare una struttura composita, formata da credenze e assunti
metafisici, oltre che da modelli scientifici di spiegazione. Si tratta di un complesso di principi,
concezioni culturali e scientifiche universalmente riconosciute, procedimenti metodologici,
modalità di comunicazione e trasmissione delle teorie, a cui si ispira il lavoro della “comunità
scientifica” di una data epoca. Esso è strettamente ancorato a condizioni e a fattori extrascientifici,
cioè sociali e psicologici, e non è quindi un modello “puro”, astorico e astratto.
[da: Thomas Kuhn: la struttura delle rivoluzioni scientifiche, a cura di Enrico Rubetti,
http://www.filosofico.net/kuhnrivscientiff.htm]
«Insieme di problematiche prestabilite alle quali si dovrà dare una risposta tramite un programma di
ricerca» [da Marcus e Fisher, Antropologia come critica culturale, p. 37].

Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

3
Per una ricostruzione interdisciplinare della storia degli studi dall’antropologia all’antropologia
cognitiva vedi: Borofsky R., L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi, 1994. - Gardner H., La
nuova scienza della mente, Milano, Feltrinelli, 1987. - Squillacciotti M., Postfazione. Prima lezione
di antropologia cognitiva ovvero I sette giorni all’antropologia cognitiva, nel volume curato da S.
Lutri, Modelli della mente e processi di pensiero, Catania, Ed.It, 2008, pp. 247-296; anche in questo
sito, nella sezione DOCUMENTI, con bibliografie relative al saggio ed al volume.
4
Il termine cognizione viene spesso usato per indicare altre due diverse “cose”:
- in primo luogo la “conoscenza” tout court, ma in antropologia ed in etnolinguistica la conoscenza,
patrimonio di un gruppo umano, è definita nell’ambito del più generale sistema di scienza predicata
e/o praticata e viene denominata etnoscienza;
- in secondo luogo ho trovato il termine cognizione per specificare il contesto e soprattutto il
rapporto tra antropologo ed indigeno, il tipo e la forma di relazione tra i due… ma questo a mio

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avviso rientra nelle condizioni e caratteri del più generale “rapporto di intersoggettività” che si
sviluppa anche in contesto di alterità.
A questo proposito, estraggo un brano dalla mia postfazione al volume curato da S. Lutri, Modelli
della mente e processi di pensiero, Catania, Ed.It, 2008, pp. 247-296; anche in questo sito, nella
sezione DOCUMENTI:
«Arrivati alla fine di questo volume, il lettore attento, addetto ai lavori o ancora inesperto che sia,
potrebbe avere la sensazione che l’antropologia cognitiva nasconda qualche ambiguità o che
rischi di contenere velleità conoscitive. Le domande che rimangono in qualche modo sospese o
controverse o – ancora – le cui risposte sembrano attualmente richiedere ulteriori indagini,
possono andare da un minimo ad un massimo, per cominciare con: la cultura esiste nella specie
umana grazie al linguaggio (verbale) con la preminenza del secondo sulla stessa “costituzione”
della prima e con la conclusione che la conoscenza della lingua altrui potrebbe esaurire la
conoscenza dell’antropologia o contenere ontologie culturali; e per finire con: oggi è
l’antropologia stessa ad essere antropologia cognitiva in quanto ricerca situata tra la cognizione
dell’indigeno e la conoscenza dell’antropologo sull’indigeno (spesso definita anche in questo
caso come “cognizione”), con il rischio che allora tutto è cognizione… In mezzo stanno tutta una
serie di questioni che nella storia della cultura e del pensiero scientifico occidentale si pongono
da lunga data e con soluzioni spesso contrapposte, come il rapporto mente-pensiero-cultura, il
rapporto biologia-cultura, quello corpo-intelletto-sapere, quello lingua-pensiero, ed altro
ancora».

Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

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Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

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Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

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Estratto da: Squillacciotti M., Postfazione. Prima lezione di antropologia cognitiva ovvero I sette
giorni all’antropologia cognitiva, nel volume curato da S. Lutri, Modelli della mente e processi di
pensiero. Il dibattito antropologico contemporaneo, Catania, Ed.It, 2008, pp. 247-296; anche in
questo sito, nella sezione DOCUMENTI:

«[…] negli anni 2000, da una parte si segnala una consistente produzione di saggi di
presentazione e riflessione sugli studi cognitivi e dall’altra in antropologia nodo cruciale risulta
essere la dimensione epistemologica nel raffronto tra prospettiva naturalistica o culturologica
nell’analisi della cognizione (Geertz 2000; Ingold 2004; Acerbi 2003, 2005).
Su una questione gli antropologi sembrano essere d’accordo, al di là delle parole usate, come
in questo caso: a partire dalla definizione delle categorie del pensiero e delle sue forme di
espressione, si ipotizza un'identità strutturale delle prime per cui ogni pensiero prodotto ed ogni
prodotto di pensiero, a qualsiasi società il soggetto appartenga, è sì un pensiero storico ma questo
si attiva ed agisce in base alle sue specifiche categorie. Ma una questione rimane comunque qui
aperta e sembra essere per ora “l’ultima questione”: l’uguaglianza strutturale di queste
“categorie” da cosa è stata prodotta e configurata nella storia dello sviluppo cognitivo della
specie? In altre parole la questione diviene l’ordine della catena “logica” e “storica” [vedi a fine
nota] del rapporto tra corpo, mente, cervello, ambiente, cultura, anche se una cosa è del tutto
evidente: le domande ora poste alla e dalla antropologia cognitiva divergono profondamente da
quelle degli studi classici sulla mentalità primitiva…
Seguiamo la questione come viene posta prima da Clifford Geertz (1973, 2000) e poi da Tim
Ingold (2004), che risponde esplicitamente al primo, anche se in alcuni passaggi sembra cercare
un “antagonista intellettuale” più come mera funzione narrativa che sulla base di una reale
differenza di prospettiva.
Nell’esigenza di rinnovamento dell’idea di evoluzione e di sviluppo umano, Geertz (2000)
ricorda come la tradizione occidentale abbia elaborato una “visione” di trasformazione per strati:
prima la biologica, poi la psichica ed infine quella culturale. A questa lo studioso contrappone la

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concezione dello sviluppo come processo di interazione delle diverse componenti implicate:
mente, cultura, corpo non sono individualità, enti, ma parti costituenti che si definiscono nel
procedimento stesso di integrazione, senza preminenza dell’una sulle altre. Questo senza nulla
togliere alla specificità che è propria a ciascuna delle componenti: ciascuna costituisce un
dispositivo il cui senso, direzione e realtà ultima è definibile alla fine del processo stesso di
nuovo organismo ed organizzazione. In questo quadro, credo, vada ripresa l’affermazione di
Geertz (1973, 2000) che “La cultura è un ingrediente dello sviluppo”, cioè come sistema di
integrazione di specifiche componenti il cui risultato non è nell’aggregazione delle parti stesse
ma nel particolare processo che ridefinisce di volta in volta, di tempo in tempo non solo
l’apporto di ciascuna ma soprattutto il tipo di integrazione “unica” raggiunta. Ora questa sintesi
sembra essere per Ingold (2000, p. 55) ancora culturologica o troppo culturologica da una parte,
ma dall’altra ritiene anche che a questa non risponda sufficientemente la prospettiva biologistica:

“Ora, se la biologia neodarwinista presume che esista un disegno specifico indipendente dal
contesto per il modello di corpo, così nel campo della psicologia, la scienza cognitiva postula
un modello analogamente indipendente dall’architettura della mente. Questa architettura
include i vari meccanismi cognitivi o meccanismi di elaborazione che (…) dovrebbero essere
in atto prima di qualsiasi trasmissione di rappresentazioni culturali. Quanto al problema
delle origini di tali meccanismi, gli scienziati cognitivi generalmente presumono che questo
sia già stato risolto dalla biologia evolutiva. Poiché l’informazione che specifica i
meccanismi non può essere trasmessa culturalmente , vi è una sola possibilità. Deve essere
trasmessa geneticamente – cioè come una componente del genotipo umano. Infatti
solitamente nella letteratura cognitiva, il postulato di strutture mentali innate viene preso per
buono senza ulteriore giustificazione se non un vago riferimento alla genetica e alla selezione
naturale”.

In sostanza Ingold ritiene che le tre scienze implicate nel definire i caratteri dell’uomo, e il
loro livello di competenza, “cospirino a produrre una teoria sistematica dell’essere vivente e
agente come una creatura composta di tre elementi: genotipo, mente e cultura.” (p. 58) alla luce
di un postulato da queste condiviso: “che le forme organiche, le capacità intellettuali e le
disposizioni comportamentali degli esseri umani sono specificate e determinate
indipendentemente e prima del loro coinvolgimento nei contesti pratici dell’attività.” (p. 59).
A tutto questo lo studioso contrappone la sua sintesi: “un punto di vista unitario
sull’organismo-persona, che passa attraverso processi di crescita e sviluppo in un ambiente,
contribuendo con la sua presenza e attività allo sviluppo di altri” (p. 59), come dire che genotipo-
mente-cultura “sono il risultato dello sviluppo dell’intero organismo-persona (…) situato in un
ambiente.” (p.. 78).
Ma qui sorge in me un interrogativo: dove siamo arrivati? E mi viene spontaneo rispondere
per ora con una proposizione frutto di parafrasi del pensiero di vari e diversi studiosi: l’uomo,
come animale che produce e riproduce nel tempo le condizioni materiali e spirituali della propria
esistenza, nel costruire il mondo, costruisce se stesso, in un modo tale che in questo processo di
conoscenza e significazione entra in relazione particolare con gli altri, uomini, ideologia o natura
che sia. Noi siamo qui e qui è la sfida dell’antropologia cognitiva nell’individuare componenti e
caratteri della cognizione, come la prospettiva di un punto di vista…»

Estratto da: Squillacciotti M., Pensiero, scrittura, comunicazione, conoscenza. Riflessioni in antropologia
cognitiva, “Orientamenti Pedagogici”, n. 5, 1986, pp. 829-844; qui alle pp. 835-836:

«Il pensiero è concepibile in sé, indipendentemente dalle forme della sua espressione in senso
logico, come grado zero: in questo caso il pensiero è, il pensiero può pensare se stesso. Ma se

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prendiamo in considerazione un segmento reale del pensiero, un atto di pensiero, cambiano sia il
grado di pensiero che il suo senso analitico: il pensiero non è più il pensiero ma un pensiero,
forma di pensiero; in senso storico il pensiero diviene, il pensiero è relazione.
Ancora, da una parte il senso logico postula il pensiero come fatto (semplice, teorico), come
categoria; dall'altra il secondo termine - il senso storico - lo reperisce come complesso, relazione
di fatti (complessi, empirici). Questo perché diverse sono, da un punto di vista teorico, le
implicazioni connesse e le specificità delle due facce del pensiero enunciate, per i caratteri stessi
dei termini del nesso costitutivo senso logico-senso storico. Da una parte il primo termine del
nesso non è introdotto a livello dell'oggetto ma è fissato a livello di teoria dell'oggetto, come
definizione di campo che, differenziando appunto le due facce di un oggetto, fissa con il grado
zero un prius logico-teorico a prescindere dai caratteri dell'oggetto e delle sue relazioni.
Dall'altra il secondo termine – senso storico – assume invece la realtà e l'atto di pensiero come
punto di partenza dell'analisi: il posterius si definisce allora come un complesso le cui relazioni
vanno enunciate e definite sulla base di un'analisi storico-culturale specifica.
Ma cosa determina la complessità della seconda faccia o dimensione del pensiero? Il pensiero
sembra assumere, in sostanza, a livello analitico, fondamenti specifici e caratteri distintivi a
seconda della forma espressiva realizzata, del codice prescelto (gestuale, visivo, verbale, grafico,
cinesico, prossemico...). Ma non per questo il pensiero, l'atto di pensiero, è tutto determinato
dalle sue forme di espressione: da una parte il pensiero ha caratteri costitutivi irrinunciabili, ha
un suo statuto, delle regole da seguire in se stesso; dall'altra le forme di espressione del pensiero
risultano non indifferenti rispetto al pensiero stesso, perché anch'esse seguono regole proprie, pur
di ordine diverso da quelle del pensiero. In realtà questa non-indifferenza delle forme espressive
è pertinente non solo rispetto ai caratteri costitutivi del pensiero, ma anche rispetto agli strumenti
d'espressione usati. E' quanto accade, ad es., nel rapporto tra suoni naturali e segni linguistici
verbali: noi possiamo pronunciare tutti i suoni possibili che in natura sono posti lungo un
continuum, ma nella realtà c'è bisogno di una cesura tra suoni perché un suono diventi un segno
verbale, perché un atto linguistico si produca. Tutto ciò presuppone una lingua, un sistema
linguistico ma anche uno strumento: l'apparato fono-vocatorio-uditivo, non indifferente nella
produzione dell'atto linguistico come nell'articolazione della cesura suoni/segni.»

10
8
Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

Vedi anche in questo sito la Sezione: STRUMENTI, Indirizzi Teorici e Concetti di Antropologia.
9
Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

11
10
Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

12
Vedi anche in questo sito la Sezione: STRUMENTI, Indirizzi Teorici e Concetti di Antropologia.
11
Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

13
12
Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

13
Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

14
Lever F., Rivoltella P. C., Zanacchi A. (a cura), La comunicazione: il dizionario di scienze e
tecniche, Rai Radioletevisione italiana, Elledici, Las, Roma, 2002:

Vedi anche in questo sito la Sezione: STRUMENTI, Indirizzi Teorici e Concetti di Antropologia.

15
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Estratto da Francesca Lussana, Genesi delle capacità linguistiche, in “Annali” della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Siena, IX, 1988, pp. 195-218; anche in questo sito,
nella sezione DOCUMENTI:

«1) Percezione intermodale: si intende la interrelazione tra i cinque sensi, ossia che le
modalità sensoriali degli esseri umani operano insieme come un sistema integrato di unità.
Possiamo fare esperienza di una stessa cosa attraverso uno dei nostri sensi, ma ciò nonostante il
concetto è rappresentato nella memoria in un modo unitario. E' interessante notare che tali
capacità non sono riscontrabili in animali più elementari delle scimmie.
2) Controllo volontario: si intende la capacità da parte di un individuo di controllare,
comandare il proprio comportamento. Già Köhler (1921) aveva notato che la capacità di dirigere
l'attenzione è un fattore essenziale del successo di qualsiasi operazione pratica. Nei primati non
umani tutte le vocalizzazioni sono istintuali, non comandate, e la stimolazione elettrica mostra
che sono localizzate a livello del sistema limbico. Viceversa, come ricorda Lyons (1981), il
linguaggio verbale è libero da stimoli.
3) Mediazione: si intende il processo attraverso il quale una percezione naturale, cioè di
stimolo-risposta, viene soppiantata attraverso l'inserimento di un elemento mediatore (Vygotskij
1978). L'aspetto interessante è proprio come questi processi mediati ristrutturino la mente,
arricchendo le capacità cognitive.
4) Categorizzazione: è quel processo attraverso il quale la maggior parte degli animali
organizzano il mondo sensoriale. Una categoria è una classe a cui appartengono elementi che
hanno caratteristiche pertinenti comuni. Tramite la classificazione si riesce ad organizzare
l'esperienza e a socializzarla. Il linguaggio ci fornisce la possibilità di ridurre a categorie discrete
quello che altrimenti, come ha scritto incisivamente Hjelmslev, non sarebbe che flusso continuo,
massa amorfa.
5) Memorizzazione: la possibilità di memorizzare i dati d'esperienza è un requisito
fondamentale per un adeguato sviluppo linguistico. L'essere parlante deve essere in grado di
trattenere i significati interiorizzandoli. La nostra memoria è molto efficiente proprio perché
l'informazione è codificata. E' una memoria, per usare un'espressione vygotskiana mediata,
diversa dalla memoria naturale (ossia l'influenza diretta di certi stimoli esterni).
6) Ordine sequenziale: la capacità di seguire un ordine sequenziale presiede alla capacità di
usare la sintassi. Per interrelare i segni del linguaggio, l'essere umano deve essere in grado di
attribuire significato non solo ai singoli segni, ma anche al particolare modo in cui vengono
raggruppati.
7) Automatismi: sequenze di eventi che si svolgono senza richiedere l'intervento cosciente del
pensiero nella loro esecuzione. E' necessario presupporre un comportamento automatizzato,
altrimenti sarebbe difficile in tempi così brevi compiere i complessi movimenti articolatori
richiesti al parlante o seguire le numerose norme che regolano la sintassi. Probabilmente,
filogeneticamente tale capacità si sviluppò nell'ambito di situazioni e attività specializzate.
[…] Perché una certa funzione emerga c'è bisogno di un contesto in cui possa essere reperita e
una mente capace di reperirla. Se questo ragionamento vale per il linguaggio, dobbiamo allora
andare in cerca di un ambito socioculturale dove si possono ipotizzare condizioni di vita
appropriate al suo reperimento e di un ominide con capacità cognitive avanzate tali da far
presupporre l'esistenza di un'attività linguistica. Probabilmente ambiente "idoneo" ed ominide
"evoluto" sono le facce di una stessa medaglia. L'uomo costruisce il suo ambiente sociale e le sue
costruzioni, i suoi prodotti di rimando modellano l'uomo ossia ampliano le potenzialità della sua
mente (Vygotskij 1978). Di quale habitat dobbiamo rinvenire le tracce?
[…] Leroi-Gourhan (1964:27) sostiene che "utensile per la mano e linguaggio per la faccia
sono i due poli di uno stesso dispositivo". L'idea è che l'ominide, una volta assunta la postura,

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eretta, ha liberato i suoi arti anteriori permettendo ad essi di sviluppare altre potenzialità: la mano
raffina la sua presa di forza e soprattutto sviluppa quella di precisione e si prolunga
artificialmente nello strumento; parallelamente ci sono state modifiche profonde della
sospensione cranica con un progressivo allargamento del ventaglio corticale e una
ristrutturazione del cavo orale. Per Leroi-Gourhan i due cammini sono assolutamente paralleli,
per cui possiamo seguire l'evoluzione delle culture litiche e insieme congetturare su probabili
stadi evolutivi del linguaggio. Egli ipotizza che l'australopiteco possedesse un linguaggio con
contenuti limitati; l'habilis possedesse "concatenazioni operative" più complesse, un linguaggio
più ricco, ma ancora legato all'espressione di situazioni concrete. Infine il neanderthal giunse ad
utilizzare simboli non concreti per esprimere sentimenti imprecisi.
[…] E cioè le esigenze di cooperazione e di comunicazione che sono alla base di ogni assetto
sociale promuovono le facoltà creative del cervello.»
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Il termine categoria sta qui ad indicare il risultato del processo di categorizzazione (una delle
funzioni cognitive) e “categoria” è una classe a cui appartengono elementi che hanno caratteristiche
pertinenti comuni, in relazione ad un preciso sistema di riferimento.
Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995:

Oltre alle voci estratte dai due Dizionari:


Lever F., Rivoltella P. C., Zanacchi A. (a cura), La comunicazione: il dizionario di scienze e
tecniche, Rai Radioletevisione italiana, Elledici, Las, Roma, 2002;
Devoto G., Oli G. C., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995;
altre voci estratte da altri dizionari sono reperibili nel sito alla sezione STRUMENTI.

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