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09/02/2021 Pratyabhijñā - Purnananda Zanoni

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La Bhaskārī di Bhāskara Kaṇṭha

                                                    Pratyabhijñā
Introduzione
Il monismo è un sistema di pensiero emerso in Kashmir nel IX secolo e.v., come sintesi delle tendenze all’idealismo, al
realismo, all’assolutismo e al misticismo dei pensatori di quella terra felice. Si può definire anche come il darśana della
Pratyabhijñā sulla base del titolo Īśvarapratyabhijñā che Utpaladeva diede alle sue Kārikā (X secolo) ovvero Le stanze del
riconoscimento del Signore. Questa visione filosofica era già stata riconosciuta da Mādhavācārya nel suo Sarva darśana
saṅgraha (La raccolta di tutti i darśana) come lo Svātantryavāda (la dottrina della libertà), nome riferito da
Abhinavagupta nella sua Vivṛti Vimarśinī.(ĪPVV, vol. I, p. 9). Per noi oggi è conosciuta con il nome di Śivaismo del Kashmir,
nome dato da J.C. Chatterji a questo sistema filosofico in quanto tutti gli autori erano kashmiri.
                                                  CENNI STORICI E TESTUALI
Somānanda, il fondatore del sistema della Pratyabhijñā
Il sistema della Pratyabhijñā era stato fondato in Kashmir da Somānanda (circa anno 850), l’autore della Śivadṛṣṭi. È in
questa opera che troviamo il termine pratyabhijñā, il “riconoscimento”, che indica il mezzo per la realizzazione della
Realtà Suprema, formulato per la prima volta nella letteratura del Kashmir. Somānanda stesso chiama questo lavoro
prakaraṇa probabilmente intendendo con ciò che è un trattato e non una enunciazione di principi sotto forma di semplici
aforismi, come aveva fatto Vasugupta, ma formando una base sistematica e razionale dell’insegnamento. I cinque testi: i
Sūtra, la Vṛtti e la Vivṛti di Utpaladeva, la Laghvī Vimarśinī e infine la Bṛhatī Vimarśinī ovvero la Vivṛti Vimarśinī di
Abhinavagupta, riconosciuti come i testi più autorevoli del sistema della Pratyabhijñā da Mādhava nel suo Sarva Darśana
Saṇgraha, sono l’elaborazione del pensiero di Somānanda sviluppato nella Śivadṛśṭi e quindi Somānanda appare come il
fondatore del sistema della Pratyabhijñā.
Somānanda e la tradizione del monismo śivaita
Nei versetti conclusivi della sua opera, la tradizione āgamica, a cui Somānanda aveva dato un rigore filosofico, era fatta
risalire ad un passato remoto e molto di questa appare come mitica agli occhi degli studiosi odierni tanto che non vale la
pena di parlarne. L’aspetto di valore storico, dal nostro attuale punto di vista, è riferibile alla discendenza
Tryambakāditya, che diffuse gli Āgama śivaiti monisti nel Kaliyuga.
Somānanda sembra essere il 19° discendente di Tryambaka, maestro del maestro di Abhinavagupta e probabilmente
contemporaneo di Bhaṭṭa Kallaṭa, che come sappiamo dal Rājataraṅgiṇī, era contemporaneo del re del Kashmir Avanti
Varman (855-883). Seguendo il metodo tradizionale di considerare trentacinque anni per ogni generazione, dovremo dire
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che c’è stato un periodo di quattrocentocinquanta anni tra Tryambaka, il propagatore degliRemind
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Āgamame later monisti e la
śivaiti
venuta di Somānanda. Quindi la tradizione filosofica sistematizzata da Somānanda risale circa alla fine del IV secolo.
I accept
Il suo approccio razionalista
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Nella storia della letteratura monistica śivaita del Kashmir Somānanda per primo realizza un approccio razionalista al
problema della Realtà Ultima. Si preoccupa delle diverse scuole di pensiero prevalenti e fornisce la prova della loro
inconsistenza. I suoi attacchi sono diretti principalmente contro il Śabdabrahmavāda dei Grammatici e lo Śaktyadvayavāda
di una parte degli stessi śivaiti del Kashmir. Ma altri sistemi, come le varie scuole buddhiste, il monismo Vedānta, il
Jainismo, il Sāṅkhya, il Nyāya e il Vaiśeṣika, li critica solo sommariamente, mettendo chiaramente in evidenza la
distinzione del Supremo affermato dallo śivaismo monista raffrontandolo alla concezione degli altri sistemi.
Lo svelamento della Pratyabhijñā
Dopo studi approfonditi sugli Āgama śivaiti Somānanda scoprì la via per ottenere la liberazione definitiva, sconosciuta fino
a Vasugupta, il primo autore di un testo sullo Śivaismo del Kashmir. Questo modo per realizzare il Supremo è la
Pratyabhijñā, da cui il nome della scuola, che, come già detto, è citata da Mādhava nel suo Sarva Darśana Saṅgraha.
Vasugupta aveva individuato solo tre mezzi per ottenere la liberazione: Śāmbhavopaya, Śāktopaya e Āṇavopaya. Ognuno
implica una condotta di vita ascetica, di distacco dal mondo e una assidua esperienza yogica, tutte pratiche
estremamente difficili vivendo nel mondo empirico. Somānanda fa un passo avanti rispetto a Vasugupta, rivelando un
nuovo percorso per realizzare la suprema Realtà metafisica: Maheśvara [sciogliendo il sandhi: Maha-Īśvara (lett. il Grande
Signore)]. Questa modalità consiste non nel realizzare qualcosa di potenzialmente latente, non nel conseguire qualcosa di
nuovo, non nel venire a conoscenza di qualcosa che prima ci era sconosciuto; ma nel penetrare attraverso il velo per
scoprire che Maheśvara appare ciò di cui essere consapevoli riconoscendoLo come individuo. Un individuo essenzialmente
libero, essendo la libertà l’essere intimo dell’individuo. L’ignoranza viene rimossa con il riconoscimento che Egli è lo
stessa Realtà Suprema.
Somānanda sostiene che la dottrina secondo cui l’intero universo è essenzialmente identico a Śiva o Rudra, è confermata
anche nei Veda e nei Purāṇa e riferisce passaggi nei Veda quali “Ekorudrovatasthe” (l’Uno è in Rudra), “Puruṣa evedaṃ
sarvam” (il Puruṣa [l’Essere Supremo] è proprio tutto questo [universo]), “So ‘rodīdyadasya rudrasya rudratvam” (Egli
urlava, e quella è la natura urlante di Rudra) e la concezione purāṇica delle otto forme di Śiva.
L’Īśvara Pratyabhijñā Kārikā di Utpaladeva
Utpaladeva fu il discepolo di Somānanda. Nell’Īśvara Pratyabhijñā Kārikā, per sua propria ammissione, il verso conclusivo
dell’opera riflette la stessa visione che Somānanda espone nella sua Śivadṛṣṭi.
Somānanda aveva criticato sommariamente le diverse scuole buddhiste e alcune altre scuole di pensiero. In quell’epoca il
buddhismo era molto vivo nel Kashmir e probabilmente era in contrasto con il monismo śivaita che stava per affermarsi.
Utpaladeva si prese carico di replicare a tali attacchi componendo l’Īśvara Pratyabhijñā Kārikā e scrivendovi due suoi
commenti che non sono nient’altro che la risposta alle obiezioni mosse dai buddhisti contro i fondamenti del monismo
śivaita. Questi due brevi commenti sono un’esposizione sintetica e prospettica del suo sistema filosofico.
Utpaladeva scrisse anche alcune opere minori. In tutte le sue opere c’era il tentativo di affermare la realtà che permane
rispetto alla contingenza, di proclamare l’universalità rispetto all’individualismo, la libertà di pensiero e di azione rispetto
alla passività (Śāntatva) della mente. La permanenza e l’universalità erano rivolte contro i Vijñānavadin Bauddha (i
buddhisti del Vijñānavada), in quanto da veri soggettivisti sostenevano l’impermanenza e l’individualità del soggetto e che
l’oggetto era una mera proiezione del soggetto stesso. Egli affermava inoltre la libertà del Sé universale in antitesi con il
monismo Vedānta che voleva il Brahman come Śānta, cioè senza vimarśa (consapevolezza riflessa), spanda o sphurattā
(vibrazione). In questi termini dimostrò dettagliatamente la differenza tra la sua scuola e quella buddhista da un lato e
quelle del Vedānta e del Sāṅkhya dall’altro.
L’importanza della Vimarśinī di Abhinavagupta
Utpaladeva nella sua Vṛtti non ha dato alcuna spiegazione dettagliata della terminologia utilizzata nelle kārikā. Il suo
scopo era quello di esporne chiaramente la sostanza. Infatti egli stesso, in linea con quanto citato da Abhinavagupta nella
sua Vimarśinī (Bh., Vol. I, p. 39), dice che la Vṛtti doveva essere una chiarificazione di quanto vi era di oscuro nei sūtra, e
ciò a causa del limite insito nello stile dei versi sūtra [concisione e cripticismo]. Utpaladeva nella sua Vṛtti non riporta mai
le stesse parole dei sūtra per spiegarne il significato. Quello che lui scrive sembra a tutti gli effetti un commento che non
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chiaramente i fondamenti
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dare una completa spiegazione dei sūtra, ma piuttosto del suo pensiero esposto nella Vṛtti.
I accept
Abhinavagupta nella sua Vimarśinī tende a far emergere la rilevanza dei Sūtra così da esporre come il sistema è definito in

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ogni particolare dalle parole dei sūtra. Essendo un grandissimo grammatico, mise in evidenza il valore terminologico sulla
base delle regole grammaticali, di cui ci sono frequenti riferimenti nel testo.
Come si è detto, Utpaladeva scrisse due commenti, la Vrtti e la Vivṛti o Ṭikā, ma della Vṛtti non è pervenuto il
manoscritto completo. L’edizione kashmira riporta la Vṛtti solo sulla ventesima kārikā del terzo Adhikāra.
Sfortunatamente, nonostante tutte le ricerche effettuate, non è stata rinvenuta traccia della Vivṛti, ritenuta un testo
molto importante nel quale l’autore aveva elaborato il suo pensiero, presente per aforismi nelle kārikā. Pur tuttavia
dobbiamo dare ulteriori delucidazioni. Abhinavagupta infatti, scrisse un commento su questo commento: la Vivṛti
Vimarśinī, che peraltro non riporta il testo originale di Utpaladeva. Ne consegue che la maggior parte del materiale
disponibile per una appropriata comprensione del sistema della Pratyabhijñā ci perviene dalla penna di Abhinavagupta. La
sua Vṛtti Vimarśinī sebbene sia un possente e importantissimo lavoro sul sistema della Pratyabhijñā non è del tutto di
aiuto a riconnetterci nel dettaglio con l’idea alla base del sistema stesso, dato che il commento originale, la Vṛtti di
Utpaladeva è andata perduta. Tant’è che Abhinavagupta nel suo testo si addentra in personali complesse riflessioni su vari
aspetti del commento che potevano essere capiti solo dopo che i principi fondamentali del sistema filosofico fossero
percepiti accuratamente fin nei particolari.
Appare evidente dunque, che l’unico commento ufficiale sulla Pratyabhijñā pervenuto interamente nel quale il sistema è
esposto in modo accurato e appropriato è la Vimarśinī di Abhinavagupta, che essendo l’opera più importante disponibile,
presenta un compendio del sistema in modo tale da potersene fare un’idea adeguata, senza fare ricorso ad alcun altro
testo, incluse le stesse Kārikā.
Bhāskarī il testo di Bhaskara Kaṇṭha
Come già detto, la Vimarśinī di Abhinavagupta è un testo estremamente difficile, per scriverlo deve aver lottato anni
senza apprezzabili risultati. Pur parlandone con anziani pandit del Kashmir che avevano la padronanza di questa dottrina,
i dubbi sulla correttezza di una tale interpretazione non sono stati rimossi, e questo perché essendosi interrotta la
continuità della tradizione il loro atteggiamento non era privo di dubbi. Un commento che riportasse all’interpretazione
tradizionale era auspicabile. È stato un momento di grande gioia quando a Srinagar nel 1931 fu rinvenuta la Bhaskārī.
Maggiori informazioni su questo commento si trovano in “Abhinavagupta: An Historical and Philosophical Study” e
nell’introduzione al primo volume della Bhaskārī stessa.
Un altro commento della Vimarśinī
Nel corso della ricerca dei manoscritti sui vari aspetti dello śivaismo, si era rinvenuto nella Biblioteca Governativa dei
Manoscritti di Madras un altro commento sulla Vimarśinī chiamato Īśvara Pratyabhijñā Vimarśinī Vyakhyā di cui non si
conosce l’autore. Questo commento è servito per riempire i vuoti della Bhaskārī nel Kryādhikāra, Āhnika II, stanze da 2 a
6 e per le ultime due stanze del Tattva Saṅgrahādhikāra cioè i versi conclusivi della Bhaskārī. Come ci ha detto il diretto
discendente di Bhaskara Kaṇṭha, la parte mancante nel Kryādhikāra era andata perduta nel manoscritto originale mentre
gli ultimi due versetti nella stampa.
                                                    LA FILOSOFIA
I fondamenti filosofici della Kriyāśakti
Questo testo tratta principalmente della Kryāśakti. Per comprenderla meglio è necessario avere un’idea esatta di ciò che
rappresenta il Maheśvara nello Svātantryavāda e delle obiezioni dei Bauddha riguardo al concetto di Kartā (colui che fa, il
Creatore) ad Lui attribuito, di cui si parla adesso.
Il Maheśvara
Maheśvara, dal punto di vista metafisico è Libertà e Volontà. In questo senso ha due poteri. Il primo, la Kriyāśakti, è il
potere di agire cioè manifestarsi sul piano fenomenico, che è la base della dimensione spazio-temporale; il secondo, la
Jñānasakti, è il potere della conoscenza, con cui si manifesta come molteplici enti (soggetti e oggetti) limitati e tutto ciò
che ne è coinvolto. Il nome Maheśvara (Grande Signore) significa onnipotenza e onniscienza, non nel senso del sistema
Nyāya, ma in quando possiede i due poteri sopra descritti.
A questo proposito è necessario tener presente che sulla nozione di Potenza (Śakti) lo śivaismo differisce dal Niayāyika,
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e di conseguenza chi la possiede deve
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Questa posizione implica necessariamente dualismo. Il conoscitore è differente dal potere della conoscenza e anche colui
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che agisce e diverso dal potere di azione. Lo śivaismo sostiene invece che la Potenza non è differente da chi la possiede

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(Śaktiśaktimatorabhedaḥ), essendone la sua vera essenza: la distinzione tra la Potenza e chi la detiene è tanto
immaginaria quanto lo è il fuoco rispetto al suo potere di bruciare.
Lo stesso vale per la differenza tra un potere e l’altro, presunto in base alla diversità dei loro esiti. È la stessa metafora
riferita al fuoco e alla sua qualità di bruciare, e anche di cuocere.
L’influenza della religione
È un fatto accertato che molto spesso la filosofia è una conseguenza della religione. Questo è vero in particolare per
alcuni importanti sistemi di pensiero indiano come Buddhismo, Jainismo, Visnuismo, Śāktismo e Śivaismo. Quest’ultimo,
come dice la parola, viene dalla religione che riconosce Śiva come il Dio supremo, che fin dai Veda ha assunto diversi nomi
come Śambhava, Mayobhava, Śaṅkara, Mayaskara, Rudra ecc. Il Dio Śiva era venerato in India fin dal passato più remoto
come risulta dai reperti trovati a Harappa e Mohenjodaro, i siti archeologici nella valle dell’Indo, i più antichi del sub-
continente. Lo śivaismo è tutt’ora una delle più grandi religioni praticate e molti dei più imponenti monumenti religiosi
sono dedicati a Śiva.
La religione porta alla filosofia e la filosofia che viene dalla religione può utilizzare le parole della letteratura religiosa
dando loro nuovi significati e interpretando filosoficamente i miti e le credenze religiose. Così avrebbero potuto fare i due
principali sistemi di pensiero, lo śivaismo e il visnuismo, distaccandosi dalla religione per diventare essenzialmente
speculativi simili al razionalismo occidentale.
In realtà lo śivaismo non si è mai separato dalla religione. Nella letteratura āgamica, su cui si basa la filosofia śivaita, in
ogni Āgama ci sono quattro sezioni: Vidyā, Kriyā, Yoga e Carya. La prima, Vidyā, riguarda le categorie e le altre questioni
puramente filosofiche. La seconda, Kriyā, si occupa delle varie forme di iniziazione spirituale e i riti relativi. E poiché
l’auto-realizzazione non è possibile senza lo Yoga vengono qui trattate le varie tipologie di Yoga che pur tuttavia
presuppongono una condotta eticamente adeguata. Mentre la quarta, Carya, prescrive le regole di comportamento. Lo
śivaismo, pertanto, non è solo pensiero speculativo, ma anzi una sintesi di religione, filosofia e etica.
Se prendiamo ad esempio la Vimarśinī di Abhinavagupta e la Bhāskarī di Bhāskara Kaṇṭha, vi troviamo che la religione
parla del mito della Realtà Ultima come la intende anche la razionalità filosofica e la rivela per via immediata lo Yoga.
Nel Kriyādhikāra, Abhinavagupta dà una rappresentazione accessibile della difficile dottrina filosofica śivaita della
Kriyāśakti e nei versi iniziali beneauguranti usa il nome Gaurīpati, che nel contesto religioso identifica il mitico Dio Śiva
quale marito di Gaurī e ne dà una connotazione filosofica. Questo sottolineatura è presentata chiaramente nel commento
di Bhāskara precisando che questi versi benedicenti all’inizio di ogni capitolo della Vimarśinī sono di grande importanza
per inquadrare l’argomento del capitolo in modo semplice, chiaro e poetico. Anche Bhāskara fa la stessa cosa nel suo
commento per esporre in modo accessibile questi sottili insegnamenti filosofici.
In effetti se studiamo bene l’Īśvara Pratyabhijñā scopriamo che spiega in chiave filosofica la visione religiosa riguardo a
Dio, in quanto onnisciente e onnipotente, alla luce del monismo filosofico. Maheśvara, come è concepito in questo testo
śivaita, viene rappresentato proprio nel primo verso dell’opera: kartari, jñātari ecc. La credenza śivaita dell’onniscienza
e onnipotenza del Maheśvara è diversa dalla concezione di Dio da parte del Naiyāyika, secondo cui Īśvara non è libero
(svatantra), essendo condizionato dalla dimensione del mondo della creazione.. Inoltre il Nyāya si basa su una filosofia
pluralista, mentre nello śivaismo Dio è libero e la sua natura è fondata dalla filosofia monista.
Maheśvara, la Mente Assoluta
Nella filosofia teoretica dello Śivaismo del Kashmir, il principio metafisico ultimo è tecnicamente chiamato Maheśvara.
Contrariamente al Brahman vedāntino che è un nome di genere neutro, il Maheśvara dello śivaismo è di genere maschile.
“Egli non è solo auto-luminoso (Prakāśamaya) come il Brahman del Vedānta e perciò Śānta (passivo) (?), ma anche auto-
cosciente e libero (Vimarśamaya)”. L’applicazione del suffisso “maya” nel presente contesto è simile a quella dei
vedāntini, quando parlano del Brahman come Ānandamaya.
Prakāśa e Vimarśa sono inseparabili. Non c’è auto-illuminazione senza auto-coscienza e viceversa. Le due espressioni
semplicemente presentano un’analitica visione della stessa Realtà Ultima. Questa Realtà, poiché è auto-luminosa e auto-
cosciente, è chiamata Mente Universale ovvero il Sé. La Realtà per gli śivaiti è “Prakāśa-vimarśa-maya”. Per
rappresentare questo
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riflessa, e proprio come uno specchio rimane inalterato rispetto agli oggetti esterni riflessi, così la Realtà
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rimane del tutto inalterata in relazione alla manifestazione delle apparenze, ābhāsa, derivanti dai pensieri, dalle idee o

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dalle immagini mentali proiettatati dalla mente individuale. Ma la distinzione tra la Realtà, lo Specchio Universale, e un
normale specchio è che mentre quest’ultimo non è consapevole del suo “essere”, e non avendo consapevolezza di se
stesso non è cosciente di sé, lo Specchio Universale invece lo è. Inoltre mentre lo specchio ordinario per riflettere gli
oggetti dipende dall’esterno, lo Specchio Universale è perfettamente indipendente da ogni cosa esterna poiché i riflessi vi
scaturiscono in virtù della mente individuale. Ciò significa che la Realtà è la Mente e l’universo non è nient’altro che il
pensiero della Mente Universale. Il mondo è un riflesso sullo Specchio Universale. Il prakāśa è lo Specchio e il potere di
consapevolezza dell’“Essere” è il vimarśa.
In ambito epistemologico, ciò significa che la Realtà è auto-luminosa e auto-cosciente e quindi è l’Auto-coscienza
Universale ed è il presupposto di ogni esperienza, asserzione e anche negazione.
Ogni singola esperienza è il riflesso di un oggetto esterno come reazione razionale ed emotiva ad un certo dato sensibile
da parte della mente individuale. Per lo śivaismo l’individuo che appare come il riflesso sul quale gli oggetti esterni sono a
loro volta riflessi è il “prakāśa” ed è identico al “Prakāśa Universale”; mentre l’interazione dell’individuo che reagisce in
un certo modo a quello che è riflesso su di lui è il “vimarśa” identico al “Vimarśa Universale”. “L’Universale e
l’individuale sono essenzialmente identici”, è un’asserzione che lo śivaita ha in comune con il vedāntino. È E un fatto
acquisito che la mente individuale è il presupposto di tutte le esperienze, fatto che è stato ammesso persino in occidente
da eminenti pensatori come Cartesio, e poiché l’individuale è identico all’universale, lo śivaita sostiene pertanto che la
Mente Universale in quanto “prakāśa” e “vimarśa” è il presupposto di tutte le esperienze.
Epistemologicamente “prakāśa” significa anche che l’oggetto dell’esperienza è essenzialmente “prakāśa” che è la natura
del pensiero. Quindi, se l’oggetto fosse diverso da prakāśa, essenzialmente opposto a “prakāśa” cioè “aprakāśa”, se
l’illuminazione non fosse la natura essenziale dell’oggetto ovvero se la natura essenziale dell’oggetto fosse “il non-
risplendere”, questo non splenderebbe mai nell’esperienza perché la natura essenziale di una cosa non cambia e se
cambia, non può essere considerata la sua natura essenziale.
Lo śivaita rifiuta la visione dualista e pluralista, che sostiene che sebbene non sia la natura essenziale dell’oggetto a
brillare, ciò non ostante l’oggetto verrebbe fatto risplendere grazie ai mezzi della giusta conoscenza “pramāṇa”; lo śivaita
afferma invece che la natura essenziale di ciò che non risplende non potrà mai essere fatta risplendere. Sostiene inoltre
che ogni cosa è essenzialmente “prakāśa” essendo un Mahādvaitavādin (il massimo fautore dell’advaita [non-dualità]).
Dal punto di vista del misticismo, la Realtà è considerata allo stesso modo: auto-risplendente e auto-cosciente. Lo śivaita
sostiene che nella pienezza della liberazione (Pūrṇamokṣa) non può esserci negazione dell’autocoscienza, che vorrebbe
dire una riduzione allo stato insenziente (jāḍyāpatti). Questo è la principale differenziazione tra lo śivaismo e il Vedānta.
Infatti mentre il vedāntino concepisce il Brahman solo auto- risplendente (cinmātra) ma privo di auto-coscienza
(nirvimarśa) e dunque Śānta, per cui la liberazione avviene per identità con il Brahman nello stato di negazione dell’auto-
coscienza, per lo śivaita invece l’auto-coscienza permane anche nella liberazione finale, essendo la Realtà, nella quale
l’apparenza si risolve, non è solo auto-illuminata ma anche auto-cosciente.
Per lo śivaismo la Realtà e la liberazione finale sono conseguite istantaneamente (nirvikalpa) senza bisogno di alcuna
mediazione tenendo conto di quanto segue: 1) unificando la molteplicità riportandola all’unità ovvero mettere insieme
elementi semplici riunendoli nel tutto; 2) contraddistinguere gli oggetti conoscenza separando “questo” da “non questo”;
3) interpretando gli impulsi in un certo modo distinguendo e assumendo ciò che è veritiero e rifiutando tutti quelli ritenuti
non veritieri. Pertanto, la determinazione in tutti i casi dipende sia dalla consapevolezza dell’unificazione della
molteplicità sia dalla consapevolezza della sua distinzione. In assenza di consapevolezza della molteplicità la
discriminazione non è possibile. Poiché nell’auto-coscienza trascendentale nulla può essere distinto dal Sé, in quanto non
c’è un “non-essere” che possa essere distinto dall’“essere” non è possibile parlare di coscienza separata.
Gli śivaiti, come pure i vedāntini, pensano che la mente individuale sia identica a quella Universale essendo la visione
macrocosmica fondata sullo studio accurato del microcosmo; infatti ciò che appare vero nell’ambito del sé individuale è
altrettanto vero nella dimensione universale. Inoltre sostengono che l’intero universo è una manifestazione della Mente
Universale esattamente come il mondo dell’immaginazione lo è di quella individuale e che l’universo è connesso alla
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Realtà Ultima come Prakāśa-vimarśa-maya auto-luminosa e auto-cosciente, non è solo ciò a cui
conduce la speculazione metafisica, ma anche quella I provata
accept nell’esperienza mistica del supremo Samādhi (nirvikalpa)

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[perfetto assorbimento], raggiunto dallo yogin sia spontaneamente (svatovyuttiṣṭhate) o perché risvegliato da intuizioni
superiori (parabodhitaḥ). Questo è il presupposto per ogni attività cosciente volitiva, cognitiva e fisica al livello empirico.
La prospettiva preminente dello Śivaismo del Kashmir in ambito metafisico è comunque la “Libera Volontà” (svātantrya-
īcchā).
Svātantryavāda
Questa prospettiva della Realtà da punto di vista della metafisica śivaita è molto simile al Volontarismo tedesco di
Schopenhauer. Il volontarismo śivaita, Svātantryavāda, concorda col Volontarismo tedesco per le seguenti ragioni: 1) ciò
che è conosciuto a livello empirico è solo il fenomeno, in quanto, come dice Kant, il soggetto conoscente può conoscere il
dato non come è in sé ma come appare, condizionato dalle limitazioni quali ad esempio: il tempo (kāla) ecc.; 2) la cosa-
in-sé è la volontà, di cui siamo immediatamente consapevoli nell’azione volontaria e nell’emozione intensa, dovendo
riconoscere che il principio di Libertà (svātantrya) è immediatamente presente in noi negli stati di intensa emozione e
quando tutte le sollecitazioni mentali esterne scompaiono; 3) l’atto materiale e il corpo fisico sono oggettivazioni dirette
della volontà essendo l’azione nient’altro che l’esternazione della volontà: la volontà di un grande yogin può manifestare
cose a livello fisico indipendentemente dalla materia; 4) la volontà è la natura intima di ogni cosa ed è l’unità di tutti i
fenomeni; 5) saggezza filosofica è fondamentalmente poter affermare all’interno della propria coscienza questa verità: “Il
mondo è una mia idea”. Il jīvanmukta dello śivaismo è colui che ha realizzato che “l’intero universo è una mia
manifestazione”.
Tuttavia ci sono differenze con il volontarismo di Schopenhauer nella misura in cui questi sostiene che la volontà è
inconscia, facendo la separazione tra la volontà e l’intelligenza, che viene relegata a una semplice funzione del cervello,
identifica la volontà con la Natura e quindi l’agire sarebbe indipendente dall’intelligenza. Era arrivato a ciò perché
cercava di ricondurre i presupposti di varie scienze con qualcosa di cui era immediatamente consapevole a livello
empirico, secondo la visione kantiana che il puro soggetto non ha coscienza se avulso dall’oggetto. Questo anche in
antagonismo con il sistema di pensiero hegeliano.
Lo Śivaismo del Kashmir sviluppatosi per mezzo degli yogin la cui auto-coscienza, per quanto isolata dall’oggetto,
rimaneva sicuramente una indubitabile esperienza, non distingueva la volontà dall’auto-coscienza, sostenendo che la
volontà è un aspetto della Mente. Questo coincide con il pensiero di Schopenhauer sul volontarismo che è nella natura
della Mente, la quale costituisce i sostrato metafisico dell’intero mondo fenomenico. La libertà-volontà di cui parliamo è
quanto abbiamo già detto e denominato “vimarśa”, ed è il punto di partenza della concretizzazione della Mente
universale come Realtà auto-risplendente e auto-cosciente. Ma differisce dal pensiero di Schopenhauer in quanto vimarśa
è libero dalla relazione con gli oggetti superando l’antitesi tra soggetto e oggetto, la volontà è di per sé oggettiva
risolvendo così l’antitesi soggetto e oggetto.
L’oggetto, tuttavia, a cui la volontà è correlata, è il “Questo” universale potenzialmente privo di determinazioni proprio
come può essere l’impressione mentale di un grande artista quando desidera creare un capolavoro che sorge nel suo
pensiero. È come immergersi in un lago piatto prima che si increspi l’onda oppure la sensazione interna che precede
l’impercettibile movimento iniziale di un organo fisico. È quell’aspetto della Mente universale che è responsabile
dell’oggettivazione di ciò che essa è prima di esprimere i poteri universali di conoscenza e di manifestare l’azione
(jñānaśakti e kriyāśakti), proprio come le intenzioni dell’individuo che precedono il suo conoscere e agire.
Lo Śivaismo del Kashmir afferma che la mente individuale è essenzialmente identica a quella universale, come già detto, e
sostiene che mentre ogni cosa può essere pensata come falsa (mithyā) o come apparenza (ābhāsa), il soggetto, l’Io, non
può presupporre o pensare in relazione alla non realtà delle cose, pur apprezzando il detto di Cartesio “cogito ergo sum”,
verità che non può essere messa in dubbio neanche dal pensatore più scettico.

Īśvarapratyabhijñākārikā vṛttisahitāḥ
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Jñānādhikāraḥ - Conoscenza

prathamamāhnikam
kathamcidāsādya maheśvarasya dāsyaṃ janasyāpyupakāramicchan ‫׀‬
samasta saṃpatsamavāptihetuṃ tatpratyabhijñāmupapādayāmi ‫ ׀׀‬1 ‫׀׀‬
I.1.1  Avendo in qualche modo raggiunto la condizione di servitore di Maheśvara e desiderando offrire assistenza anche a
tutto il genere umano, secondo una certa logica, cercherò di rendere possibile il risveglio del riconoscimento del Signore,
che conduce alla realizzazione di ogni successo.

kartari jñātari svātmani ādisiddhe maheśvare ‫׀‬


ajaḍātmā niṣedhaṃ vā siddhiṃ vā vidadhīta kaḥ ‫ ׀׀‬2 ‫׀׀‬
I.1.2 Quale essere intelligente potrebbe mai negare o definire il conoscitore e l’agente, il Sé, Mahaeśvara, che è il
creatore [della realtà all’interno di se stesso] fin dall’inizio?

kiṃtu mohavaśādasmiman dṛṣte’pyanupalakṣite /


śaktyāviṣkaraṇeneyaṃ pratyabhijñopadarśyate // 3 //
I.1.3 Tuttavia, poiché Egli, pur essendo direttamente percepibile non è compreso per quello che è a causa dell’illusione,
mettendo in luce le Sue potenze, proprio per questo motivo è realizzabile il Suo riconoscimento.

tathā hi jaḍabhūtānaṃ pratiṣṭhā jīvadāśrayā /


jñānaṃ kriyā ca bhūtanaṃ jīvataṃ jīvanaṃ matam // 4 //
I.1.4 Infatti, anche il fondamento delle realtà insenzienti poggia sui jīva (esseri viventi), in quanto la conoscenza e
l’azione sono considerate la vita dell’essere vivente.

tatra jñānaṃ svataḥ siddhaṃ kriyā kāyāśritā satī /


parairapyūpalakṣyeta tayānyaiñāmūhyate // 5 //
I.1.5  La conoscenza è fondata in se stessa; quando l’azione si manifesta in un corpo, viene riconosciuta dagli altri. Grazie
a ciò, anche la conoscenza può essere percepita negli altri.

dvitīyamāhnikam
nanu svalakṣaṇābhāsaṃ jñānamekaṃ param punaḥ /
sābhilāpaṃ vikalpā khyaṃ bahudhā nāpi taddvayam // 1 //
nityasya kasyacid draṣṭustasyātrānavabhāsataḥ /
ahaṃpratītirapyeṣā śarīrādyavasāyinī // 2 //
I.2.1-2 [Obiezione] Ci può essere un tipo di conoscenza in cui la realtà particolare appare e un altro tipo di conoscenza
chiamata elaborazione mentale, inseparabilmente connessa con il discorso, che appare in molteplici forme. Per nessuna
delle due c’è alcuna necessità di postulare uno stabile soggetto percipiente, poiché questo non appare in esse. Anche la
nozione di “Io” in realtà ha come referenza il corpo ecc

.athanubhavadhvaṃse smṛtistadanurodhini /
kathaṃ bhavenna nithyaḥ syādātmā yadyanubhāvakaḥ // 3 //
I.2.3 [Risposta] Come potremmo spiegare la memoria, che è conforme alla percezione diretta quando
quest’ultima non è più presente, se non ci fosse un sé permanente che è il soggetto della percezione?

sathyapyātmani dyaṅnāśāktaddyārā dyaṣṭavastuṣa /


smṛtiḥ kenātha
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I.2.4 [Obiezione] Anche se noi riconosciamo l’esistenza di un sé, la memoria non è ancora spiegata, dato che
la percezione non esiste più e che solo attraverso Iquella accept [percezione] la memoria ha accesso agli oggetti prima

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percepiti. [Risposta] Ma la memoria agisce proprio su quelle cose che erano l'oggetto della percezione. 

ĪŚVARAPRATYABHIJÑĀVIVÍTIVIMARŚINĪ
di Abhinavagupta
Volume 60 (I) Kashmir Series Texts and Studies (KSTS)
PREFAZIONE
La prima edizione in stampa dell’Īśvarapratyabhijñā-vivṛti-vimarśinī che forma il sessantesimo fascicolo delle
Kashmir Series of Texts and Studies è basata sulla riunione dei seguenti manoscritti:
A.A manoscritto in pergamena della biblioteca privata del Maharaja Bahādur. Contiene 199 fogli con 16 righe
per pagina, ogni riga ha da 24 a 29 lettere in alfabeto Śāradā. Incompleto sia all’inizio che alla fine, molto
corretto per quanto rovinato.
B.A manoscritto in carta comune della Research Library di 820 pagine con in media 20 righe per pagina, ogni
riga contiene 18 lettere in Śāradā, parzialmente non corrette per quanto complete e recente.
C.A trascrizione in carta protocollo, consiste in 3147 pagine con 10 righe per pagina, ogni riga ha in media 15
lettere. È in Devanāgarī non corretto.
Inizio e fine del manoscritto B:
(1)   oṃ namaḥ śivaya oṃ śrīgaṇeśāya namaḥ || śṛīgurave namaḥ ||
oṃ śṛīmacchrīvidyārūpāya gurave namaḥ | śreyo’stu |
oṃ śrīśakti… …
(2)   samāptā ceyamiścarapratyabhijñāvivṛtivimarśinī ||
kṛtiḥ śrītrinayanacaraṇacintanalabdhaprasiddherabhinaviguptasya ||
śubhamastu sarvajagatāṃ parahitaniratā bhavantu bhūtagaṇāḥ ||
doṣāḥ prayāntu śāntiṃ sarvatra sukhībhavantu lokāḥ ||
            Sebbene il sopradescritto materiale sia stato acquisito e sistematizzato molti anni fa, non poté essere
utilizzato per produrre un’edizione a stampa dell’opera perché si ritenne prudente rimandare di qualche anno
ed effettuare nel frattempo una accurata ricerca successiva sul manoscritto che conteneva la glossa completa
e il commento di Utpaladeva, entrambi a loro volta commentati estesamente da Abhinavagupta
nell’Īśvarapratyabhijñā-vivṛti-vimarśinī. In questo senso ho fatto ogni possibile sforzo, sempre in associazione
con il Research Department, senza tuttavia pervenire ad un manoscritto che potessi ritenere adeguato; e non
vedendo prospettive migliori pensavo che chi sarebbe venuto dopo avrebbe potuto avere successo dove io
avevo fallito, rimuovendo i difetti che per mancanza di materiale migliore erano inevitabili nel presentare
questo particolareggiato commento di Abhinavagupta.
            È più che certo che potrei aver fatto degli errori distinguendo tra le parole originali della glossa e del
commento e quelle della loro spiegazione. La particella avverbiale “iti” senza dubbio ha la stessa funzione di
marcatore della citazione ma l’inizio non così sicuro come la fine a meno che non vi sia qualcosa che lo indica.
Inoltre questa è una modalità di cui Abhinava e i suoi epigoni facevano libero e frequente usando il marcatore
“iti” non solo in conclusione della citazione ma anche in posti dove un’idea finisce e dove un’altra inizia.
            Relativamente spesso le virgolette sono state impiegate nelle citazioni come regola di stampa del
testo, della glossa e del commento di Utpaladeva. Molti passaggi oggetto di parafrasi di parole di Utpaladeva
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fatti da Abhinavagupta,
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www.youronlinechoices.eu di discorso
diretto “iti”. Il testo di tutta l’opera ha sofferto molto I accepta causa della mancanza di accuratezza e per
l’impreparazione dei copisti. Per colpa di ciò in un manoscritto si legge erroneamente tūṣṇīkenāpi come
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tūṣṇīṃ kenāpi e in un altro come tūṣṇīṃ mūkenāpi.


INTRODUZIONE
            Ogni persona che conosce il Sanscrito che ha avuto la possibilità di studiare qualche opera del
monismo idealistico del Kashmir sa molto bene che Utpaladeva, l’unico discepolo conosciuto di Somānanda, ha
dedicato la sua vita alla diffusione degli insegnamenti del maestro contenuti nella Śivaḍṛṣti. Per questo scopo
scrisse il suo lavoro chiamandolo Īśvarapratyabhijñā in 190 distici. Per chiarire al lettore il suo intendimento,
egli fornì anche la sua glossa e commento ad ogni distico, dando nel primo la sostanza e nel secondo la
discussione al riguardo.
            Abhinavagupta nel suo modo più completo, prova a spiegare per primi i distici, che troviamo nella
Vimarśinī, e poi la glossa e il commento, che si trovano nella Vivṛtivimarśinī.
Bhāskara Rājānaka, un autore del XVIII secolo, intitola i distici con la glossa col nome Laghupratyabhijñā,
quelli con la Vivṛti col nome di Madhyapratyabhijñā e ancora quelli con la Vivṛtivimarśinī di Abhinavagupta col
nome di Vṛhatpratyabhijñā. Quest’ultima opera e chiamata anche Aṣṭādaśasāhasṛkā per il fatto che la stessa è
formata da 18.000 versetti.
Null’altro si conosce del lavoro di Utpaladeva che non sia già fornito dalla Review of the Research
Publications. Il suo cognome sembra sia stato Utpalākara, il nome del padre mentre il nome del figlio era
Udayākara e Vibhramākara.
L’Īśvarapratyabhijñā come noi la conosciamo è il frutto della richiesta di Padmānanda che fu il compagno di
studi di Utpaladeva. Mentre il testo della Īśvarapratyabhijñā-vivṛti-vimarśinī deve la sua esistenza alla pia
implorazione di Manoratha, fratello minore di Abhinavagupta, e venne scritta in tarda età quando egli si era
completamente ritirato dalla vita attiva come un anziano celibe e quando appunto si godeva i coinvolgenti
dibattiti sul concetto di Dio come Unità. Il lavoro terminò nel mese di novembre del 1014.
Il seguente emistichio che si trova alla fine dell’opera ricorda l’evento:
jñāti navatitame’sminvatsare’ntye yugāṃśe
tithiśaśijalabhisthe mārgaśīrpavasāne |
Egli attribuisce il suo successo in tutto ciò che ha sperimentato allo stato di celibato per tutta la vita, che lo
ha liberato dalle preoccupazioni domestiche.
La sistematizzazione che troviamo qui è la stessa da lui adottata nell’Īśvarapratyabhijñā-vimarśinī, e quindi
tutto il lavoro è diviso in quattro parti di complessivi 16 capitoli. Il tema di ogni capitolo è già esposto
nell’Introduzione al secondo volume, lo stesso che forma il trentatreesimo fascicolo delle Kashmir Series of
Texts and Series. Ogni capitolo, in sintonia con il nome del commentario cioè Vivṛti-Vimarśinī è chiamato
Vimarśa. Comincia con una stanza in cui l’autore offre la propria devozione alla sua deità preferita: Śiva nel
nome-forma di Rudra. Pertanto il primo capitolo è un omaggio a Amṛta, il secondo a Amṛtapūrṇa e così via.
Alla fine dell’opera Abhinava dice che questa era stata da lui pensata principalmente per indurre le persone a
far ricorso solamente al percorso tracciato dallo Śivaismo monistico del Kashmir.
Qui come in altre composizioni è molto accurato nel mettersi in relazione con i nomi dei sui maestri preferiti,
dicendo che era figlio di Chukkhalaka alias Narasimba Gupta figlio di Varāha Gupta della famiglia di Atri Gupta
e che la sua tenebrosa ignoranza era stata dissolta dalla luce con cui era stato illuminato dalla grazia di
Bhutirāja. Riguardo a questo testo ringrazia prima di tutto il suo venerabile maestro Lakṣmana Gupta,
discepolo di Utpaladeva.
L’opera si conclude con alcuni versi intimi tra cui il seguente merita di essere citato e liberamente tradotto
qui:
pāṣāṇān prati vaktu kaḥ śṛṇuta bho yuṣmān ṣruve jaṃgamāḥ
śayyotbhāyamanarbhamarbhasaraṇe ko ‘yaṃ vṛbhaivodyamaḥ |
saṃviddhāmani śāṃbhave viśabha cet kālīyamekaṃ lavaṃ
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Chi dovrebbe essere redarguito? O voi esseri viventi ascoltate vi prego, mi rivolgo a voi. Perché sprecate il
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vostro tempo e le vostre energie giorno dopo giorno in occupazioni inutili per la vostra vita. Se avete la
possibilità di entrare nella dimensione śivaica, la sede della Coscienza suprema, anche per un solo istante, vi
troverete faccia a faccia con la Realtà assoluta. Quindi considero queste mie esortazioni del tutto superflue.
Opere e autori citati nel testo.
1 Kumārasambhava – 2 Manusmṛti – 3 Kathavalli – 4 Bhagavadgītā – 5 Tantrāloka – 6 Mālatimādhava – 7
Ajadapramātrisiddhi – 8 Vijñānabhairava – 9 Vākyapadiya – 10 Śivadṛṣṭi – 11 Yogasūtra – 12 Sāṁkhyakārikā – 13
Nyāyasūtra – 14 Sambandhasiddhi – 15 Nareśvaraviveka – 16 Mālinivijayatantram – 17 Dharmottara – 18
Śatarudriyam – 19 Kakśyāstotram – 20 Tantrasāra – 21 Spandakārikā – 22 Śivasūtra – 23 Rauravasūtrasaṃgraha –
24 Makutasaṃhitā – 25 Chinmayatvasūtra – 26 Kiraṇā – 27 Matangatantram – 28 Svacchandatantram – 29
Triśirobhairava – 30 Devalāchārya – 31 Āchārya Dharmakirti – 32 Bhatta – 33 Bhatta Nārāyaṇa – 34 Bhatta
Divākaravatsa – 35 Bhartṛhari – 36 Vira Nāga – 37 Bhatta Śankarānanda – 38 Bhatta Chandrānanda – 39
Siddhapāda – 40 Varāhamihira – 41 Akśapāda – 42 Vidyāguru – 43 Avadhutāchārya.

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