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I testi dello yoga tantrico

Questa sarà una lezione un po’ complicata, perché andiamo a toccare certi meccanismi, certi gangli da cui discendono tutte le considerazioni che abbiamo fatto e andiamo
proprio alle fonti e purtroppo sono fonti abbastanza impervie e in particolare una importante che vi citerò proprio all’inizio è il Gama tantra che è uno dei tanti tantra che
non è pervenuto. Se noi dovessimo fare una storia della letteratura non pervenuta del tantrismo sarebbe molto più lunga di quella pervenuta. Il krama non è pervenuto fino
a un certo punto, nel senso che molte opere importanti krama le troviamo in manoscritti nepalesi; tutte le opere non si trovano in India, ma si trovano in manoscritti
nepalesi; il krama sadbhava, il panchashatika…. solo che sono senza commento e poi siccome i nepalesi erano ignorantissimi, i manoscritti nepalesi sono noti per la loro
scarsa affidabilità e quindi bisogna lavorarci molto, ma d’altra parte è un patrimonio immenso grazie al quale noi abbiamo accesso a una quantità di opere, che in India
sono scomparse, perché i musulmani non sono arrivati in Nepal e poi il clima freddo del Nepal permette la conservazione delle foglie di palma dei manoscritti molto più
che in India del sud. In India un manoscritto antico ha trecento anni non di più, in Nepal noi troviamo manoscritti datati IX, X secolo, in India un manoscritto del IX
secolo è super antico.
Abbiamo delle fonti, una di queste è il Tantraloka. Uno dei punti centrali che toccheremo proprio oggi del Tantraloka è stato tradotto male da Gnoli ed è sicuramente
sbagliato e quindi bisogna pure intervenire e non solo il testo è difficile ma siamo guidati dalla letteratura secondaria anche in maniera non del tutto affidabile e in questo
caso uno si occupa di un testo così fluviale come il Tantraloka ed è naturale che ci siano cose che non vanno qua e là. Ci sono abbastanza errori e anche errori piuttosto
pesanti.
Abbiamo capito che lo yoga si inserisce all’interno di un grande dilemma che attraversa il mondo tantrico ovvero il primato della conoscenza sul primato dell’azione.
Quindi i poli sono due in sostanza, non sono tre, perché lo yoga alla fine viene fatto rientrare in un modo o nell’altro all’interno del polo azione, non conoscenza, anche
se ovviamente è nutrito necessariamente di conoscenza. Quello che io vorrei fare nell’ultima lezione sarebbe vedere effettivamente che cosa dicono i capitoli dedicati allo
yoga in alcuni testi tantrici shivaiti, in alcuni agama shivaiti. Un agama shivaita in linea di principio, solo in linea di principio, si appoggia su quattro piedi, come una
sedia con quattro piedi. Questi quattro piedi sono la conoscenza, jnana, ovvero la dimensione teoretica, la gnosi potremmo anche dire, una conoscenza che diventa una
conoscenza trasformativa, non è mai una conoscenza puramente libraria, basata sulle scritture. Abbiamo l’azione che è essenzialmente azione rituale. Quando si parla di
azione, si dice implicitamente rito, in India. Poi abbiamo lo yoga che è uno dei quattro piedi. Il quarto piede è charya, il comportamento. Qual è la differenza tra
comportamento e rito? Il comportamento riguarda il modo in cui uno si muove nella vita quotidiana, in particolare nella vita quotidiana post-iniziatica. Quindi questi testi
individuano un momento di rottura che è il momento dell’iniziazione, dopodiché tu non sei più lo stesso ma non sei ancora un altro e la liberazione non interviene mai in
queste scuole durante la vita ma interviene sempre alla fine della vita presente però tu devi fare in modo che il resto di vita che ti aspetta sia improntato a certi
comportamenti che non inibiscano questa operazione di rottura creata dalla diksha. Quindi se uno non compie nel resto della vita i comportamenti giusti, c’è il rischio che
la diksha rimanga sterile. Quindi sono quattro legati l’uno all’altro, e ognuno presuppone l’altro e non per niente sono chiamati piedi, pada, piedi: è un organismo che si
regge su quattro piedi. Se uno dei piedi cede, l’intero organismo cede.
D.: yoga e kriya sono diversi, non c’è proprio un coincidere vero?
No, non c’è un coincidere, infatti quando si arriva a quella che è la dicotomia centrale, la dicotomia centrale mette jnana da una parte e tutte le altre tre dall’altra. Quelle
che stanno dall’altra parte ovvero kriya e yoga hanno una speciale dipendenza dall’elemento cognitivo, gnostico, che adesso vedremo, perché il Gama tantra ci dice delle
cose molto interessanti proprio su questo.
Quindi noi abbiamo intanto una grande parte del tantrismo shivaita che fa il tifo per il rito ed è lo Shaiva siddhanta ed è il tantrismo che noi definiremo più di destra, più
mild, più legato al Veda, meno trasgressivo. Il tantrismo di sinistra fa il tifo nettamente per la conoscenza. Tra questi Abhinavagupta lo dice chiaramente proprio all’inizio
del Tantraloka, anche se poi il Tantraloka per gran parte descrive riti, che l’unico mezzo di liberazione è la conoscenza. E poi cerca di spiegare per quale motivo lui dà
spazio anche a queste cose. Quindi chiaramente conoscenza senza compromessi da un lato e azione rituale dall’altro. Vi ricordate che abbiamo anche esposto quali erano i
motivi principali. I principali motivi sono che lo Shaiva Siddhanta tende a vedere questo stato di imperfezione che rende necessaria l’iniziazione come un qualcosa quasi
di fisico, quindi la nostra identità con Shiva, noi siamo degli anu, come dicono i testi, ovvero degli atomi, siamo essenzialmente Shiva, abbiamo gli stessi poteri di Shiva
ma depotenziati. Per quale motivo depotenziati? Perché c’è qualcosa che li soffoca, che li blocca. Ora questa cosa che li blocca è concepito in tutto lo shivaismo mild,
come un qualcosa di quasi materiale e che quindi va rimosso con dei mezzi materiali. Invece i testi, a cominciare dal Malini vijaya, considerano questa macchia un
semplice stato di nescienza che va superato attraverso una conoscenza trasformativa e nient’altro. Sono due visioni molto distanti le quali entrano in collisione in maniera
molto interessante in un verso del Matangaparameshvara tantra che io ho citato nell’introduzione al libro di Padoux Tantra. Che cosa dice questo verso? E questo vi fa
anche rendere conto di come i testi siano importanti, ma altrettanto importanti sono i commentatori. Il commentatore è quello che pilota il testo da una parte e dall’altra,
quando il testo si fa pilotare. Questo è un caso veramente eclatante. Qui sta parlando appunto il Matangaparameshvara, come datazione siamo intorno al IX secolo, e
dice: “per coloro che per incapacità non sono in grado di risolversi verso la conoscenza, per essi viene esposto dal maestro un mezzo facile, il rito”. Questa è la lettura che
a prima vista si dà di questo verso, e verosimilmente quella che era nelle intenzioni del testo. Noi lo sappiamo anche per altri motivi, perché è vero che il
Matangaparameshvara appartiene allo Shaiva Siddhanta però è un testo un po’ di confine, tanto è vero che viene spesso citato anche da Abhinavagupta; ha delle linee non
dualistiche al suo interno e in questo è molto vicino ad un altro testo importante che forse non avete mai sentito e che avremo modo di citare anche oggi che è il
Mrighendra tantra, il ‘Tantra del signore degli animali selvaggi’, il tantra del leone, insomma.
Dov’è il punto in cui uno può trovare uno snodo? E’ l’espressione ashaktya, è uno strumentale, in questo caso di causa, e vuol dire ‘per mancanza di shakti’, per
mancanza di potere. Quindi io ho tradotto per impotenza, quindi si intende che la conoscenza presuppone una maggiore shakti, chi non ha questa capacità di mobilitare lo
slancio trasformativo della conoscenza ha bisogno di avere dei supporti e il supporto principale in questo caso è il rito. E il rito quindi diventa un mezzo facile, sukha
upaya; vedete come in questo caso il sanscrito si presti a due interpretazioni totalmente opposte, queste espressioni, sukha upaya e ashaktya “per mancanza di potenza, io
sono costretto a insegnarvi un mezzo facile, il rito”. Questa è l’interpretazione di chi di noi conosce un po’ il sanscrito e sicuramente è negli intendimenti dell’autore.
Come facciamo a dirlo? Prima di tutto perché in sanscrito, qui non si tratta di grammatica, si tratta di feeling, davanti a questa frase in sanscrito, il mio feeling nei
confronti del sanscrito mi fa virare decisamente, non prendo neanche in considerazione altro, io sanscritista vedo subito questa interpretazione. Come lo interpreta invece
il commentatore? Il commentatore, Ramakantha, che è una delle menti più brillanti dei dualisti, è un rajanaka, un aristocratico, figlio di un grande commentatore dualista,
Narayanakantha, un tantrico dualista, persona di grande cultura, in lui c’è un continuo confronto con il buddhismo in particolare con l’epistemologia buddhista,
esattamente come troviamo all’interno di Uptaladeva, Abhinavagupta, Somananda. Quindi è un tipo di cultura molto raffinata che comprende tanti aspetti, l’estetica, ecc.
e Abhinavagupta, che non ha paura delle menti brillanti anche avversarie, anzi le va a cercare e continuamente si confronta. Ramakantha scrive un commento
importantissimo al Matangaparameshvara e io vi dico come lo interpreta sulla base di come lo commenta. Quindi lui commentandolo in un certo modo ci fa capire che
lui lo sta leggendo in un certo modo e qual è il modo? “Per chi non riesce a raggiungere la realizzazione finale attraverso la conoscenza per incapacità” e lui intende non
dell’adepto ma per l’incapacità della conoscenza di operare questo capovolgimento, ovvero per l’incapacità dello strumento che stai usando, a questo punto viene
prescritto il rituale; se tu mi qualifichi il rituale come un mezzo semplice hai un po’ deposto le armi. Il mezzo semplice era guardato un po’ dall’alto in basso
nell’interpretazione reale, non dualistica, tu con la conoscenza non ce la fai, allora ti do un mezzo semplice, il rituale. E lui è molto imbarazzato da questo sukha upaya.
Sukha upaya si può intendere sukha nel senso di semplice, facilmente praticabile, agevole, upaya vuol dire mezzo. Sukha però in sanscrito è anche un nome proprio che
vuol dire felicità. Allora lui prende sukha nel senso di nome proprio, di felicità, e quindi nel senso di liberazione, la suprema felicità ovvero l’emancipazione, la
liberazione e questa qualifica il rituale quindi devi praticare il rituale in quanto è un mezzo per la suprema liberazione. A questo punto ashaktya va riferito a una cosa
piuttosto che a un’altra; sukha upaya lo ha interpretato diversamente, invece che un aggettivo che qualifica upaya, è diventato un sostantivo, quindi non è un mezzo
agevole ma un mezzo volto alla suprema felicità.
Ora noi come facciamo a essere proprio sicuri che il testo volesse dire questo? Perché più avanti Abhinavagupta cita un altro passo, sempre del Matangaparameshvara, e
questo altro verso dice: “per chi non riesce a raggiungere la realizzazione attraverso la conoscenza (qui il sanscrito ti mette con le spalle al muro, non ti puoi inventare
niente) allora viene prescritto il rituale”. Quindi il rituale viene prescritto per chi non riesce a raggiungere la realizzazione attraverso la conoscenza. Come fa Ramakantha
a cavarsela con un verso molto meno drastico che non offre appigli di interpretazione se non proprio arrampicandosi palesemente sugli specchi, sapete come fa? Il suo
commento tralascia questo verso il quale viene citato solamente dagli avversari, lui non risponde, in sostanza. Questo vuol dire che l’intera tradizione dello Shaiva
Siddhanta non conoscerà questo verso, perché il tantra viene letto alla luce del commento principe, che è questo qui. Il commento finisce per essere un modo per
plasmare il testo, quindi non soltanto per commentarlo, renderlo chiaro, per modellarlo. Questo episodio ci insegna la lotta senza quartiere tra conoscenza e azione. E
vediamo un po’ come lo yoga si piazza all’interno di questa lotta.
Prima di passare a questa citazione di questo tantra perduto che parla dello yoga, potremmo cercare di capire qual è questo obiettivo da raggiungere, perché così capiamo
anche che tipo di mezzi va usato.
Qual è il concetto di liberazione, qual è il summum bonum per questi autori? E qual è il mezzo centrale? C’è un verso nel Tantraloka (2°cap.) in cui si parla di uno stato
condizionato, la parola per condizionato è una parola ben nota nel mondo vedantico, è upadhi, parola nota anche all’interno dello yoga; upadhi è una condizione
aggiuntiva che modifica qualcosa oscurandola, è un qualcosa che si sovrappone e ci impedisce di vedere qualcosa nella sua vera realtà e nello stesso tempo la qualifica, la
rende molteplice, ecc. però ci rendiamo conto che tutte queste upadhi sono tutte delle aggiunte. Upadhi vuol dire proprio aggiunta, un’aggiunta posticcia e quindi nel
momento in cui noi vogliamo capire veramente qual è questa realtà, dobbiamo eliminare l’upadhi. Quindi uno stato dal quale le upadhi sono eliminate è quello stato al di
là del quale non c’è niente, anuttara.
Allora Abhinavagupta si chiede come si fa ad eliminare queste upadhi? Ci sono sostanzialmente due modi e questo rientra nella prospettiva dei tre mezzi di liberazione, i
tre upaya. Leggiamoli questi tre versi che sono importanti perché fanno da cornice agli stessi Shiva-sutra, i quali ancora non conoscono la teoria dei tre mezzi, vengono
però letti da un commentatore del X secolo che conosceva la teoria dei tre mezzi e la sovrappone agli Shiva-sutra, legge gli Shiva-sutra alla luce di questa lettura: “questi
tre specie di mezzi sono stati insegnati da Parameshvara Shiva nel Malinivijaya tantra, là dove sono spiegate le compenetrazioni, la cosiddetta compenetrazione divina,
shambava, la più alta, è quella che nasce in una senza che nulla pensi, grazie a un’intensa percezione tesa verso il suo oggetto”, è un atto intenso di risveglio. Traduzione
alternativa: “proprio grazie a un atto di risveglio non più intenso, guru, ma prendendo guru come sostantivo, ad un atto di risveglio indotto dal maestro. Questa è la prima.
La seconda, quella compenetrazione che si ottiene solo meditando una cosa con la mente senza l’intervento del trasferimento, uccara, è chiamata col nome di potenziata,
ma a me non piace, è chiamata legata alla potenza, mentre quella di prima è legata all’aspetto maschile del dio, questa all’aspetto dinamico del divino; terzo quella
compenetrazione che nasce in virtù del trasferimento delle cose del corpo, karana, della meditazione, dhyana, dei fonemi, dharana, della formazione dei luoghi, è
correttamente chiamata col nome di minimale. In questa minimale, uccara, trasferimento, ecc. è compreso lo yoga. Nel livello più basso, questo minimale, abbiamo tutto
ciò che non rientra negli altri due e qui torniamo a quello che stavo dicendo adesso, come si fa a liberare l’assoluto da queste upadhi, perché in certe persone queste
upadhi non nascono, quindi noi non abbiamo bisogno in certi casi estremi di nessun tipo di opera di eliminazione di upadhi, semplicemente perché c’è una consonanza
nativa con l’assoluto, per cui noi siamo liberati senza mezzi e questo rappresenta l’anupaya, il non mezzo, che in gran parte rappresenta anche la parte superiore del
mezzo shambhava. Nell’altro invece, quello legato alla potenza, abbiano un qualcosa per la quale non serve nessuna pratica, non serve yoga, non serve rito, non serve
niente, serve una purificazione, così dicono i testi, dei vikalpa. Vikalpa sono le attività del pensiero discorsivo normale, noi facciamo un atto interiore, graduale, ripetuto,
sempre più intenso di auto-purificazione, utilizzando dei mezzi molto sofisticati, possiamo dire che tutto o quasi tutto il Vijnanabhairava e tutti i testi di questa scuola
indicano in questo settore che poi al suo culmine estremo sbocca naturalmente nello shambava upaya ovvero nel mezzo divino. La liberazione avviene soltanto all’interno
del mezzo divino, su questo i testi sono chiari, anche se chi espone questi testi non è altrettanto chiaro, non sono chiari i manuali,ecc.
D.: ma quindi questo mezzo centrale usa la mente?
R.: diciamo la mente in senso lato, quindi è un modo di lavorare interiormente, su se stessi, ma non utilizzando dei supporti che possono essere il respiro, ecc. ma
semplicemente interiorizzando. E’ uno yoga interiorizzato.
Se uno si legge il Vijnanabhairava, che potrebbe essere un testo da leggere dall’inizio alla fine, il Vijnanabhairava è il ‘Bhairava in quanto conoscenza’, questa è la
traduzione giusta. Come ho già sottolineato più volte quella data dal libro di Adelphi di Gnoli è sbagliata, non è la conoscenza del Tremendo, è il Tremendo, Bhairava in
quanto vijnana che si contrappone a un altro Bhairava, Ananda Bhairava, la dimensione di beatitudine di Bhairava, il Bhairava della beatitudine. Il testo poi è un dialogo
tra Bhairava e la sua shakti. Questo testo è stato commentato da Kshemaraja, che è questo grande commentatore che ha commentato gli Shiva-sutra fino al diciottesimo
capitolo, dopodiché non è chiaro cosa sia successo, o non sono pervenuti i manoscritti ma neanche citazioni di brani dopo il diciottesimo capitolo. Capire questo testo non
è difficile, il sanscrito è abbastanza chiaro, è un testo che si basa su un’esperienza spirituale, per nostra fortuna è stato commentato alcuni secoli dopo, quando il grande
spessore di questa scuola si era già un po’ affievolito, perché lo shivaismo del Kashmir era rientrato in forme mescolate con sufismo, ecc., perché il Kashmir poi è stato
occupato dai musulmani e questi testi entravano molto in consonanza con le dottrine sufiche, quindi noi abbiamo due commenti, il più noto è quello di Shivopadhyaya,
commento tardo del XVII secolo, il quale però fa una cosa molto interessante, ogni verso del Vijnanabhairava lui lo riferisce a un upaya. Ci sono delle parole chiave e
queste parole chiave ci fanno capire che il tipo di atteggiamento è un atteggiamento riferibile all’uno o all’altro, in particolare quando ricorre il verbo cint che vuol dire
esaminare, considerare, stiamo al livello inferiore, a livello di anava upaya mentre quando si parla di bhavana, è questo atteggiamento interiore a cui facevano
riferimento nel momento in cui tu coltivi un certo stato, lo vivi mentalmente in maniera così intensa da sconfinare con l’esperienza diretta, bhavana fa sì che qualcosa
diventi carne e sangue di te, non più un oggetto da indagare e la bhavana appartiene al livello intermedio, dello shakti upaya, quindi ci sono alcuni che non hanno bisogno
di mezzi.
Quando uno pensa al mondo indiano come qualcosa che non abbia un grande amore nei confronti dell’esperienza diretta, e magari pensa che ci sia un’esperienza
superiore o più prestigiosa della semplice esperienza diretta, si sbaglia, perché l’unico mezzo di conoscenza che è sentito come universalmente valido in India è
pratyaksha, la diretta conoscenza di qualcosa, il che non vuol dire che sia una conoscenza sensoriale, perché noi abbiamo conoscenze senza intermediari anche di tipo
semplicemente verbale: manava pratyaksha. C’è un passo importante che ho ricordato in uno scritto recente nel Nyaya bashya, il primo grande commento al Nyaya sutra,
che è il testo radice del nyaya, che è uno dei sei darshana. Questo passo del Nyaya bashya che è un testo molto argomentativo, ci dice che noi possiamo conoscere una
cosa grazie ai mezzi di conoscenza e lo shastra ovvero la tradizione è un mezzo di conoscenza, sì però dopo che noi abbiamo conosciuto questa cosa grazie a questo
mezzo, ci rimane un’insoddisfazione e vogliamo un tipo di conoscenza che ci attragga di più. Allora che facciamo, ci rivolgiamo al ragionamento, vagliamo razionalmente
una conoscenza che è un derivato dalle scritture e otteniamo il ragionamento e il gioco sembra finito e l’autore dice sì però anche dopo questo secondo mezzo, c’è
un’insoddisfazione, io vado cercando ancora qualcosa d’altro e alla fine arrivo alla percezione. Nel momento in cui io arrivo alla diretta percezione, finalmente io sono
appagato. Nel mondo indiano una cosa è la conoscenza e conoscere, una cosa è un conoscere che può generare persuasione e la vivezza necessaria per persuadere non te
la dà il ragionamento, te la dà qualcos’altro che è il pratyaksha, per cui tutte queste scuole vedono sfociare in una conoscenza non discorsiva, che è l’unica valida. Quindi
questo alla faccia dell’India fumosa, ecc. C’è un tu per tu con l’oggetto, con l’assoluto e c’è questa bellissima espressione in cui dice: sarve pramana, “tutti i mezzi di
conoscenza sono pratyakshapara”. Che cosa vuol dire pratyakshapara? Questo pratyakshapara compare a volte con la a lunga ma il significato non cambia moltissimo:
”hanno come ultima sponda, come approdo estremo, la percezione diretta”. Quindi tutti aspirano alla percezione diretta, sono tutti momenti intermedi in attesa del vero
appagamento che è dato dalla diretta, personale esperienza delle cose. Questo è detto nel Nyaya bashya, ma se tu ti leggi anche attentamente gli Yoga-sutra, quel punto del
samadhi pada, dove si parla di vishayavati, (I, 35) in cui l’adepto per eliminare gli ostacoli alla concentrazione, è chiamato a vishayavati pravritti, che viene tradotto
molto male, ma, letto alla luce dei commenti, è esattamente questo, lo yogin viene invitato ad una esperienza diretta di ciò che ha conosciuto attraverso il maestro, ecc. e
quel tipo di rivitalizzazione dell’insegnamento attraverso il diretto insegnamento è questo che ti rende citta prasada.
Allora stavamo dicendo di quei privilegiati che non hanno bisogno di niente per rimuovere queste upadhi, perché sono già in sintonia con l’assoluto. I meno fortunati
ovvero tutti quanti noi, debbono far acquietare, calmare queste upadhi. In sanscrito si può intendere anche in maniera più forte, calmare una cosa vuol dire annullarla,
disattivarla. Non è da intendersi come calmare ma come tagliare alla radice.
Come si fa eliminare queste upadhi? Ci sono due modi, un modo è un modo dolce, shanti, attraverso una pacificazione, shantya, parola a voi nota che vuol dire calmare
dolcemente, senza intervenire in maniera troppo drastica e violenta, in questa parola shanti sono compresi i mezzi di realizzazione di livello basso compreso lo yoga, il
rito. Anche se poi in altri contesti si dice che non servono a niente, serve solo la conoscenza, in altri si lascia aperto uno spiraglio, per cui è molto difficile in questo caso
stabilire proprio un catechismo. Basta che cambi un po’ il contesto allora emergono certe cose, altre si immergono, ecc. Qual è l’altro sistema? Per l’altro sistema si usa
un’espressione bellissima che è hatha paka che vuol dire cottura violenta e come si fa la cottura? Si fa col fuoco. Le linee alchemiche sono molto presenti e ci sono molte
similitudini alchemiche in cui si parla di rasa che penetra nel metallo, lo trasforma in oro, e poi c’è tutta una corrente di alchimisti, i Raseshvara in India che sono shivaiti.
Quindi possiamo dire che l’alchimia indiana che deriva da quella occidentale è di marca shivaita. Quindi si fa attraverso il fuoco, noi però sappiamo che in sanscrito
cottura vuol dire anche qualcosa d’altro, non è la cottura del cibo, vuol dire trasformazione, vuol dire maturazione, anche un frutto sull’albero si cuoce, quando diventa
maturo, è pakva vuol dire cotto e anche maturo. Una persona che si espone a un iter spirituale che lo porta a maturazione, lo porta a jivanmukti, ugualmente sta
compiendo un percorso di auto-cottura. Arrivato al momento finale lui è cotto semplicemente come è cotto un cibo, come è cotto qualcosa sull’albero, ecc. e questo è il
motivo per cui un sadhu non può essere bruciato, perché il sadhu è già cotto e quindi non c’è bisogno di cuocerlo. Il rito finale della cremazione è quello che completa la
cottura ma il sadhu è già cotto. Diciamo ci sono tre fuochi, uno è il fuoco-fuoco, l’altro è il fuoco, per esempio del sole, e l’altro ancora è il fuoco della digestione. Per cui
una traduzione possibile è digestione violenta e voi direte perché non cottura violenta, perché ci sono tanti altri contesti in cui compare questa espressione e compare
strettamente legata ai processi digestivi: “tutte le cose sono gettate con violenza nel fuoco divampante nello stomaco della nostra propria coscienza e quivi stando
abbandonano ogni differenziazione alimentandolo della loro proprio potenza”. Quindi come si fa a eliminare le upadhi? Si parte dal fuoco della digestione, il quale per
analogia è il fuoco della coscienza. La coscienza è quella attività che permette per esempio di fare entrare ciò che è altro, quindi noi ci confrontiamo con il mondo esterno
apparentemente ci confrontiamo con l’altro nel momento in cui lo conosciamo, il conoscere ce lo porta dentro, quindi noi togliamo all’altro la sua autorità, e questo altro
diventa parte di noi e si dissolve come dicono spesso i testi, nel fuoco della conoscenza. Si dissolve, non scomparendo, ma diventando qualcosa d’altro. Questo lo
abbiamo sottolineato, in India non scompare mai niente, soprattutto in India il fuoco non distrugge provoca un cambiamento di stato, alla fine del fuoco che brucia tutto,
rimane la cenere, la cenere è un qualcosa in cui l’oggetto esterno si è trasformato, ha perso la sua esteriorità. Perché viene usata la cenere? La cenere è una metafora della
introiezione del mondo esterno. Quindi in un certo senso di un impadronirsi trasformativo del mondo esterno. Dicevo nell’introduzione agli Shiva-sutra che nel momento
in cui Shiva distrugge Kama succede un gran casino, perché il mondo non può stare senza desiderio. Kama ha provocato Shiva troppo, lo ha distolto dalla meditazione e
Shiva si è arrabbiato e senza pensarci troppo si è svegliato dal samadhi, dalla sua meditazione. Il mondo è creato dal desiderio e tutti quanti, gli dei in particolare, vanno
da Shiva e gli dicono: “hai tolto il desiderio, come facciamo? Ma tu stesso hai creato il mondo pervaso dal desiderio”, vi ricordate quel passo del Malinivijaya varttika: “il
mondo ha, kama tattva, come realtà ultima il desiderio”, se togli il desiderio, il mondo finisce e a quel punto Shiva lo fa risorgere e Kama ritorna. In altre tradizioni,
perché questo è un mito che viene narrato in tutti i Purana, non c’è neanche bisogno di farlo risorgere, perché Shiva, nel momento in cui viene incenerito il desiderio, non
è scomparso, è stato trasformato in qualcosa d’altro, è diventato invisibile e il desiderio quando era visibile, si poteva controllare, quando è invisibile, no e questo è il
motivo per cui se voi andate a guardare sul vocabolario la parola desiderio, trovate tante parole, una delle quali è ananga in cui anga è l’anga degli anga dello yoga,
ananga vuol dire senza anga ma anga vuol dire corpo, quindi incorporeo è uno dei nomi del desiderio. Il desiderio incorporeo è ancora più penetrante e più attivo del
desiderio quindi alla fine il bruciarlo ha incrementato il potere.
Questo tipo di digestione violenta si ottiene in un modo: aggiungendo alla coscienza sempre più combustibile, invece che togliere alla coscienza il combustibile e farlo
deperire, e farla spegnere come dovrebbe accadere in una prospettiva vedantica, gliene dai sempre di più. Ma in che modo tu puoi infilare questo combustibile all’interno
della coscienza come se uno mettesse del carbone all’interno di una locomotiva? Perché la coscienza si spezza in miriadi di potenze, non dobbiamo immaginare una
shakti, la shakti è una, dice Abhinavagupta, poi dice sono tre, poi dice sono cinque, poi dice sono dodici, poi in realtà in quell’altra scuola del Krama in realtà sono
tredici, poi sono trenta, poi sono cinquanta, poi sono cento, alla fine dice sono infinite e poi dopo che ha detto sono infinite, dice sì però è una.
Una delle forme di manifestazione più diretta, più diretta anche per la nostra esperienza sono le potenze dei sensi che sono chiamate in vari modi, sono chiamate in modo
più frequente karaneshvari, che vuol dire le signore (ishvari) dei sensi (karana) e quindi come fai per incrementare le signore dei sensi, dai degli oggetti dei sensi sempre
più forti: quindi la signora dei sensi del tatto vuole delle sensazioni tattili, quindi gliene dai sempre di più, quella dell’udito vuole dei suoni e tu la pompi di suoni e così
via. Quindi tutto quanto va non ridotto ma va incrementato, va incrementato in modo di rendere questo fuoco sempre più fiammeggiante, fiammeggiando questo fuoco, le
upadhi vengono dissolte. Quindi quello che devi fare è creare questa situazione di digestione violenta (hatha paka).
Ora in tutto questo trovare un posto per lo yoga tradizionale non è semplice, adesso passiamo a quel passo che vi dicevo prima. C’è una obiezione che viene formulata da
Abhinavagupta nel Tantraloka, dopo aver dato un quadro sommario dei vari upaya, si dice ma non avevi detto che mezzo è soltanto la conoscenza, allora perché nel
mezzo anava si parla anche di kriya? Abhinavagupta risponde sull’autorità del Gama tantra e dice: “la conoscenza non è altro che l’azione, la conoscenza arrivata al
piano estremo dello yoga è chiamata azione”. Questa frase è molto sibillina ma il testo sanscrito non offre alternative. Vediamo quello che dice dopo che forse illumina un
po’: Sempre Gama tantra, “Lo yoga e l’azione non sono diversi l’uno dall’altro, è sempre mati, è la conoscenza, che, tattva arudha, entrata nei principi, al fine di
pacificare le vasana è chiamata azione”. Qui retrospettivamente possiamo anche guardare alla storia del Samkhya; il Samkhya è una visione del mondo, una filosofia
basata unicamente sulla conoscenza, non presenta nessun mezzo realizzativo, presenta una visione del mondo molto forte, molto arcaico, tanto è vero che nel mio
Pensiero dell’India concludevo, voi immaginate una visione del mondo non sottile ma tagliata con l’accetta, con grandi blocchi: qui abbiamo il maschile, qui abbiamo il
femminile, qui abbiamo lo spirito, qui abbiano la materia, quindi è qualcosa di potente ma anche di molto arcaico. Quando le filosofie successive, le quali in un modo o
nell’altro tutte se la prendono col Samkhya, comprese quelle brahmaniche, anche se teoricamente è uno dei sei darshana, ma in realtà è un darshana che puzza di zolfo, si
sente che c’è una componente anti-brahmanica, un’insofferenza brahmanica e comincia con un’affermazione del dolore del mondo, cosa che nessun altro darshana fa e
che soltanto i buddhisti fanno. Comincia il primo verso delle Samkhya karika: “il mondo è dolore, ecc.”, nel secondo verso dice che per eliminare il dolore, i riti vedici
non servono a niente. Se voi andate a leggere un’opera brahmanica ortodossa, il Brahmasutra bashya di Shankara opera molto elaborata, profonda, ecc. chi è il nemico
principale di Shankara? Buddhisti e Samkhya. Quindi è una lotta tra cugini, lui se la prende più col Samkhya che con i buddhisti. Il Samkhya viene attaccato da tante
scuole, dai buddhisti, dallo shivaismo anche se poi lo shivaismo assorbe moltissimo dal Samkhya e tutta l’ossatura cosmologica è un’ossatura samkhya. Quindi il Samkhya
alla fine attaccato da tutti alla fine ha contagiato tutti. Ho scritto un articolo qualche anno fa, Samkhya as samanya shastra, in cui mostravo che ci sono due Samkhya, uno
è un Samkhya assorbito subliminalmente dagli indiani che non si accorgono più di stare a nominare dottrine samkhya, l’altro è il Samkhya come scuola specifica. Ora
questa scuola è la prima filosofia, prima del Samkhya non ci stanno filosofie in India. E’ stata il primo depositarsi dei filosofemi dell’India, lo trovate già nel
Mahabharata, nelle Upanishad, ecc. lo trovate un po’ dappertutto. Il Samkhya, questa dottrina così elementare e così potente, sotto tutti questi attacchi che gli arrivano a
destra e a manca, sente il bisogno, intorno al VI-VII secolo, di riformularsi per rispondere alle critiche soprattutto buddhiste. Arriva un Madhava, che non è il Madhava
del Sarva-darshana-samgraha, ma un Madhava samkhya, che per controbattere queste dottrine, queste critiche giuste che gli vengono fatte introduce delle modifiche.
Queste modifiche lo fanno chiamare “Distruttore del Samkhya” e io concludevo nella presentazione de Il Pensiero dell’India che la dottrina, l’edificio samkhya non si
presta al restauro, togliete una di queste pietre e crolla tutto. Una di queste pietre arcaiche su cui si regge tutto è la centralità della conoscenza. Alla fine di questo iter hai
una visione discriminativa, metti la natura da una parte, lo spirito dall’altra e operando questa distinzione, questa discriminazione tra questi due elementi, tu hai raggiunto
in qualche modo la felicità, perché ti accorgi che tutto il tuo dramma umano, personale nasceva da un equivoco, nasceva dal fatto che questi due elementi riluttavano l’uno
verso l’altro, meglio ancora ti accorgi che tutto il tuo dramma è stato un equivoco. Anche il coinvolgimento che ha causato in te tanto dolore era un equivoco, quindi alla
fine di questo iter per il quale abbiamo soltanto strumenti di tipo intellettuale, arriviamo a una visione intellettuale molto fredda e anche molto amara. Lo yoga interviene
in qualche modo come correttivo a questa eccessiva astrazione del Samkhya e dà degli strumenti che sono strumenti che si basano su elementi umani, su pulsioni umane,
su poteri e caratteristiche umane. Quello che sotto sotto tiene il mondo del tantrismo lontano dallo yoga è probabilmente questo, cioè il fatto che lo yoga è fatto di strutture
proprie del Samkhya, si basa su una convinzione di una insanabile alterità. Non porta a una integrazione come sembrerebbe, ma porta a una disintegrazione, ovvero porta
a una integrazione per quanto riguarda la parte prakriti, ma tu ti trovi davanti alla disintegrazione tra prakriti e purusha. Ora una visione del mondo così fortemente
unitaria, non dualistica come può accettare uno strumento il quale poggia sulla disintegrazione? Ci sono delle differenze tra la filosofia dello yoga e quella del Samkhya
ma abbastanza trascurabili. Lo yoga è perfettamente consapevole di essere legato al Samkhya. Se voi andate a vedere come definisce se stesso lo yoga bashya, il
commento espone il Samkhya.
Come era lo yoga al tempo del tantrismo? La storia del Samkhya è interessante, perché il Samkhya subisce un progressivo declino ma mantiene comunque un grande
prestigio, primo perché le opere fondamentali del pensiero indiano sono intrise di Samkhya, avviene un fenomeno non unico ma molto interessante nel momento in cui
una corrente avversaria si appropria di tutto il modo. In che modo? Si manda un commentatore. In questo caso si manda una delle menti più brillanti, Vachaspatimishra.
E’ stato definito sarvatantrasvatantra, lui era a suo agio, libero in tutti i tantra, aderendo a tutte le visioni del mondo ed è unico in tutto il mondo indiano. Comincia a
leggere il Samkhya in termini vedantici, questa operazione viene proseguita nei secoli e sbocca con l’opera di Vijnanabikshu, uno dei grandi commentatori dello Yoga-
sutra bashya, XVI secolo, altra mente molto brillante, vedantico doc. Vijnanabikshu attacca Shankara e lo definisce con questo aggettivo che diventerà famoso
prakshanda bauddha, che vuol dire buddhista mascherato. Tu sei un buddhista infiltrato, perché sta emergendo un’altra India, un’India che non sa che farsene di
Shankara, un’India segnata dalla bhakti, dalla devozione. Se tu mi presenti una visione del mondo talmente esangue, astratta, intellettualizzata che gli racconto io a quelli
che vengono qui e vogliono fare “hari, hari”. Allora lui fa questa opera di inserimento di eventi anche emozionali, meno intellettuali in modo da dare ad Ishvara un’altra
dimensione, in modo da creare tra l’anima individuale e Ishvara quello spazio necessario, perché la corrente della bhakti possa emergere, se tu aderisci a Dio la bhakti non
c’è. Nel fare questo lui compie il cammino e lo porta al passo finale: purusha e prakriti in sostanza diventano prakriti, la dea, la shakti e purusha diventa il dio maschio.
Per cui lo yoga sicuramente è passato non per niente lo yoga nel commentario di questi termini, è vero che siamo nel XV secolo e con questi testi siamo più in là ma
probabilmente questo processo di rivitalizzazione dello yoga e di liberare lo yoga da questa originaria visione puramente disintegrata, questo è…… forse è anche per
questo che questi qui, questa accusa non viene fatta, la faccio io malignamente ma gli autori tantrici non la facevano. Sono altre le accuse che fanno, non quella di tendere
alla disintegrazione.
D.: c’è una grande molteplicità sui mezzi della liberazione, volevo chiederle se esiste una molteplicità di sfondo su ciò da cui ci si libera, se la legge del karma è sullo
sfondo di tutte le scuole. La concezione del karma rimane la stessa in questa scuole così sofisticate nell’analizzare i mezzi?
Rimane la stessa fino a un certo punto, perché tutte le scuole dicono che i mezzi sono vari e il fine è unico, si arriva sempre lì, upaya ce ne stanno migliaia, upeya ce n’è
uno, upeya è auto-identificazione, l’anuttara, ecc. Da che cosa bisogna liberarsi? Ne abbiamo menzionata una mala ma di mala ce ne stanno tre, capendo bene che cosa
sono queste tre macchie, che noi dobbiamo eliminare, sono condivise da tutte le scuole sua da quelle dualiste che da quelle non dualiste. Il fatto di liberarsi dal karma è
comune a tutti. In sostanza ci si deve liberare da tre cose in senso lato: una è da questa contrazione interiore che abbiamo, questa contrazione interiore che sia causata da
un momento quasi materiale o da un’erronea presunzione di limitatezza che noi abbiamo, il sentire il dio lontano, sancire questa grande distanza. Le altre due sono la
maculazione di maya e l’altra è il karma. Maya nella prospettiva shivaita è il prospettarsi di una realtà altra da noi, che noi abbiamo un oggetto proliferante che è altra
cosa rispetto a noi…….

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