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PRIMA PARTE: STORIA DI UNA RICERCA SPIRITUALE
5 Capitolo I AUTODIDATTA
6 Esercizio di vuoto mentale
7 Necessità di una più ampia disciplina
12 Capitolo II PRANAYAMA
12 Teoria del Pranayama classico
14 Routine di base
16 Kriya Pranayama appreso dai libri
22 Esperienza nella spina dorsale
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SECONDA PARTE: KRIYA YOGA IN PRATICA
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CAPITOLO I AUTODIDATTA
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benessere, percepito alla fine della sessione parlava in favore dell’utilità di
questa pratica.
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nell'attività mentale. Visualizzandolo come un oggetto, lo si spostava da
parte mettendolo come "in attesa", impedendo così che esso sviluppasse, a
sua volta, un’ulteriore catena di altri pensieri.
In questo modo, dopo alcuni minuti, mentre una parte dell'essere si
raccoglieva nell'area tra le sopracciglia [nello Yoga è chiamata Kutastha] e
godeva di un piacevole senso di riposo, un'altra parte, senza disturbare, si
trovava alla periferia della precedente dove un minimo di attività mentale,
come la creazione d’indefinite immagini (in ogni caso tutte estremamente
gradevoli) sarebbe avvenuta. Alcuni minuti più tardi, la consapevolezza si
sarebbe tutta raccolta nella regione tra le sopracciglia, come dentro un
"piccolo stagno" di pace, e sarebbe rimasta ferma e tranquilla così per altri
minuti. Nonostante l'assenza di pensieri, la consapevolezza sarebbe sempre
rimasta sveglia e avrebbe gioito di un inimitabile senso di riposo.
Nella mia esperienza questo stato non durava più di 10 o 15 minuti e
l'esercizio, nella sua totalità, preparazione compresa, non superava i 25-30
minuti. La tecnica finiva inevitabilmente in un modo "curioso": lo stato di
calma profonda era interrotto dal pensiero che l'esercizio doveva ancora
essere intrapreso, al quale il corpo reagiva con un fremito e il cuore batteva
più veloce. Poi appariva la consapevolezza che invece esso era stato
portato perfettamente a termine e che il tempo prescritto era trascorso.
Da bravo studente, usai tale mezzo per riposare, di pomeriggio, tra una
sessione di studio e quella successiva; cominciai ad affezionarmi ad esso.
Quanto stavo sperimentando non mi lasciava indifferente: era interessante
osservare il modo in cui il processo mentale poteva essere
momentaneamente arrestato, il modo in cui la sua apparente consistenza si
affievoliva mentre la consapevolezza pura, autonoma da contenuti, si
rivelava. Il Cartesiano: «Penso dunque sono», gradualmente divenne:
«Pensando in modo irrequieto corsi il rischio di vivere senza neanche
rendermi conto che esistevo; questa realizzazione avvenne, invece, non
appena imparai a pensare in un modo calmo ed ordinato».
Il momento decisivo fu quando provai ad estendere le dinamiche
essenziali di questa tecnica alla vita pratica - applicando la stessa disciplina
ai pensieri nei momenti di inattività. Lo scopo non era più quello di
riposare, quanto quello di sperimentare quel particolare stato, superiore e
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completamente di là della mente, che cominciavo ad intuire essere la mia
più vera essenza.
Mentre stavo portando avanti quest’intenzione, mi rendevo sempre più
conto dell'effetto negativo che una mente indisciplinata era capace di
esercitare sull’esperienze della vita. Nelle mie osservazioni non fui
condizionato dall’appartenere a tale o tal altro sistema filosofico. Cercai di
rendermi conto delle cause di così tanti fallimenti umani, particolarmente
quelli che non mi sembravano per niente ineluttabili.
La più importante realizzazione era che la mente, di solito iperattiva,
muovendosi caoticamente, esauriva ogni fonte di vitalità, tessendo una rete
d’inutili pensieri, come una coperta soffocante, intorno alla
consapevolezza, alla vita stessa. Questo rendeva difficile ottenere una
relazione autentica e sana con le belle esperienze nella vita, con quelle che
possono condurre ad una crescita interiore.
La mia determinazione era quella di disciplinare la mente per porre fine a
questa situazione e rinnovare le forze interiori, lasciando indietro i modi
errati e disordinati di pensare. Volevo evitare di perdermi nell’alternanza di
diverse spinte emotive che emergevano alla coscienza come molte diverse
personalità.
Avvenne però che, estendendo l'esercizio alla vita, praticandolo durante i
vari momenti di pausa, mi avvicinai ad uno stato d’animo veramente
sgradevole. Talvolta sperimentai un’ansia quasi intollerabile: qualche volta
vera e propria angoscia. La mia vita sembrava emergere come un'isola da
un oceano di dolore.
Questa così semplice azione di sospendere i pensieri era, infatti, divenuta -
e tale era percepita - un atto di rinuncia ad ampio-spettro; quasi come se
fossi entrato in una specie di "morte interiore", in un "vuoto" devastante, il
modo solito di vivere si era spento.
Ora non mi è difficile vedere che tutto quello che dovevo fare era soltanto
restare calmo e attraversare lo strato di emozioni negative e procedere;
invece continuai a coltivare intenzionalmente piccoli ed inutili nuovi
pensieri per fuggire da quel triste abisso. L'istinto era di sopravvivere
nutrendomi continuamente di innumerevoli piccole, evanescenti emozioni;
mi aggrappavo a loro come se fossero l'unico calore capace dare un
significato alla mia esistenza e proteggerla da qualsivoglia sgradevole
rivelazione.
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Era chiaro che il continuo nutrire pensieri e conseguenti emozioni stava
corrodendo la possibilità di sperimentare sentimenti autentici. Non potevo
continuare a vivere alienandomi continuamente da me stesso, perché - ora
ne sono completamente consapevole - non sarei riuscito nello stabilirmi in
alcun’integra realtà; al contrario avrei provocato solamente l'esaurimento
totale delle mie energie e, alla fine, sarei stato completamente intrappolato
in un vero vuoto patologico, lo stesso da cui ora volevo fuggir via.
In questo difficile momento, mi venne in aiuto, infondendo coraggio e
la determinazione di non abbandonare la lotta, qualcosa che trovai nella
mia cultura - non era orientale ma tipicamente occidentale.
I concetti di Reincarnazione, Karma, Dharma, Maya e simili, non mi
hanno aiutato nelle grandi svolte della mia vita. Non era davvero possibile,
almeno per me, risolvere i problemi aderendo "ipso facto" ai modi orientali
di pensare, intuiti da semplici letture.
In quella fase della mia vita mi attirò quasi istintivamente la Sinfonia No.2
di Mahler "Resurrezione". Nella quiete della mia stanza ero solito
ascoltarne un'incisione cercando - anche leggendo tutto quello che potevo
trovare su di essa - di penetrarne il significato.
Tale sinfonia, ascoltata tante volte, mi ritornava in mente durante il giorno
mentre studiavo e mi accompagnava nella vita. Cresceva, si amplificava
nei momenti di pace, espandendo gli stati elevati della mia mente, per
divenire un'esperienza di beatitudine che, nonostante la costernazione della
ragione, mi regalava un momentaneo conforto.
Le parole «Sterben werd ich, um zu leben!» - Morirò per vivere! -, scritte
dallo stesso Mahler e cantate dal coro nell'ultimo movimento sinfonico,
erano un'eco chiara al mio progetto; quella musica e quelle parole
divennero come un filo attorno al quale il mio pensiero si cristallizzò,
mentre il fascino dell’intera opera ripristinò in un modo chiaro una visione
d’infantile bellezza. Mahler accarezzava con la sua sensibilità - senza
crederci fino in fondo, tale fu allora la mia percezione - una soluzione
"religiosa." Nelle parole finali «Was du geschlagen, zu Gott wird es dich
tragen!» - quello che tu stesso ti sei guadagnato, ti porterà a Dio! - mi
sembrò volesse dire: «il fatto stesso che hai continuato a lottare,
incessantemente, ti ricompenserà con la immersione finale nella Luce».
Mentre mi stavo confrontando con l’irragionevole oscurità che, come ho
detto, pareva fungere da fondamento alla mia esistenza, incapace di
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accettare il sollievo della religione, continuai a ripetere internamente:
«Morirò per vivere»!
Ero deciso a rifiutare il "conforto" dei pensieri, le "piccole lucette" di
una mente che scintillava nella notte dell'insicurezza; volli mettere la
parola fine a tutto ciò che non era vero, attraversare con gli occhi ben
aperti un vasto territorio di dolore e incontrare la verità, non importa quale
fosse.
Intuivo oscuramente che dovevo morire a me stesso, che ciò era la più
grande e nobile cosa che potevo fare; morire ad ogni attaccamento alla vita
puramente mentale di cui sentivo la potenziale pericolosità e che si era
dimostrata, per alcune persone, essere un vero e proprio veleno.
In quel periodo vissi anche qualcosa di molto difficile dal punto di vista
affettivo. I problemi non arrivano mai da soli: la vita mentale ed affettiva
sono interdipendenti. Ciò di cui non riuscivo a trovare soluzione - verso il
quale la mia emotività mi spingeva a fare dei passi sicuramente distruttivi -
veniva offerto ad una specie di altare interiore: il rito abituale, quotidiano -
necessario come l’aria - di ascoltare musica classica.
Ascoltavo anche Beethoven: lo studio della sua vita, in particolare, era il
nutrimento della mia anima.
La tragedia della sordità lo colpì nel pieno della sua stagione creativa.
Reagì in un modo dignitoso decidendo di portare avanti, in condizioni
quasi impossibili, il suo sentiero artistico. Il tremendo impatto umano della
sua coraggiosa decisione si può trovare nel Testamento di Heiligestadt.
Estrasse dalle profondità del suo essere una musica incomparabile da
offrire ai suoi fratelli, all’umanità. La mia religione era il sublime che
parlava attraverso la sua musica. Esso rappresentava un sereno scavalcare
i limiti della vita reale e placava il mio anelito.
Mai e poi mai avrei pensato che a tale poesia anche lo Yoga mi potesse
guidare: tale disciplina pareva fatta solo per passare attraverso il muro dei
pensieri che esaurivano la mia linfa vitale. Non era difficile intuire che -
quando dall’esterno proveniva uno stimolo estetico - lo Yoga potesse darmi
una duratura base di lucidità, aiutandomi a mantenere la sua bella
atmosfera durante la notte che si nutriva della linfa nerastra delle mie
paure.
L’intuito mi diceva che una salda forza mentale poteva essere raggiunta
estendendo la mia disciplina all’intero sistema dell’Hatha Yoga.
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Quest’idea riempì di una fievole speranza il mio grigio. Per alcune
settimane, più di mezz’ora volava via in piacevoli esercizi.
Un libro attirò la mia attenzione sul luminoso potere del Pranayama; tutto
quello che di fisico facevo non era altro che una preparazione ad esso! Un
lampo improvviso pose il silenzio e la quiete nel mio essere; i primi
accenni al Pranayama, fatti da quell’amico, accesero la splendente
intuizione che attraverso quella disciplina avrei potuto imparare il segreto
per "morire a me stesso".
Delle annotazioni prudenziali nel libro - invece di smorzare il mio
entusiasmo e guidarmi ad una estrema prudenza - me ne accesero invece
un desiderio insaziabile.
Avevo letto che «se il Pranayama è praticato in modo esagerato, esso
scuoterà le basi del modo normale di vivere». Tale raccomandazione, portò
il mio interesse all'esasperazione, poiché tutto quello che stavo tentando di
realizzare consisteva nel far sì che le cose all'interno di me cambiassero in
qualche modo. Avevo bisogno di una qualsivoglia "miscela esplosiva" per
sopraffare le resistenze interne; persino un "terremoto interno" era da
preferirsi alla presente stagnazione.
La decisione di cominciare la pratica del Pranayama cambiò il corso della
mia vita. Piantai questa disciplina come un seme nella devastazione della
mia anima: crebbe illimitatamente in gioia e libertà interiore. Nella
Bhagavad Gita troviamo scritto: «Yoga è la liberazione dal contatto con il
dolore e la sfortuna. [Colui che pratica] conosce l’eterna gioia, quella che è
oltre il confine dei nostri sensi e la ragione non può sostenere.»
Richiamando alla mente le parole di quell’amico che un tempo aveva
destato il mio interesse verso il Pranayama, posso dire che questa
disciplina implicò molto di più che un vago cambiamento interiore. Afferrò
la mia speranza e la portò avanti.
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CAPITOLO II PRANAYAMA
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Attraverso la pratica del Pranayama, specificamente la varietà a narici-
alternate, tali tendenze opposte verranno, almeno temporaneamente,
equilibrate.
In pratica, c’è più gran consapevolezza emotiva, criteri più precisi di
valutazione e più abilità di elaborare le informazioni, più grande
intelligenza operativa. Da questa più efficiente sinergia tra pensiero e
affettività, ne verrà un’emozionalità più intensa e calibrata ed un pensiero
logico più chiaro, preciso e completo. Da quest’equilibrio nasce
l'intuizione la quale permette di passare sopra la logica sequenziale del
pensiero razionale ed affrontare quei momenti della vita nei quali uno è
tenuto a prendere delle importanti decisioni.
Chiaramente il buon senso suggerisce che il Pranayama non può essere un
trucco per risolvere automaticamente i propri problemi psicologici ed
esistenziali. Quando la pratica è incominciata, si deve usare tutta la forza
interiore possibile per realizzare un migliore modo di "vivere" e
considerare tutte le misure necessarie per sfidare gli ostacoli interni;
solamente così la pratica del Pranayama potrà collaborare con un stabile
rinnovamento interiore.
Quando s’incominciano a percepire i primi buoni effetti derivanti dalla
pratica, la persona è incoraggiata a persistere con la pratica andando anzi
sempre più in profondità, cercando "qualcosa di più". Questo " di più " è
l’attivazione della corrente Sushumna che, fluendo, crea un'esperienza di
gioia, felicità, esaltazione. Questo è l’inizio vero e proprio dell’avventura
"mistica", un processo che si mette in moto nonostante il soggetto potrebbe
non avere alcun barlume sul significato di tal esperienza.
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ROUTINE DI BASE
a…Nadi Sodhana.
È importante pulire le narici prima di cominciare l'esercizio, così che il
respiro possa fluire liberamente. Questo può essere fatto usando acqua,
inalando essenza d’eucalipto e soffiandosi il naso. Talvolta qualcuno si
lamenta del fatto che una delle due narici è sempre ostruita: questo è un
problema medico che va preso nella dovuta considerazione. Se l’ostruzione
è causata da un serio raffreddore, non si dovrebbe praticare nessun
esercizio di Pranayama.
Per incominciare la bocca deve essere chiusa, la narice destra deve essere
tenuta chiusa dal pollice destro e l’aria è lentamente, uniformemente e
profondamente inspirata attraverso la narice sinistra. L’inspirazione dura
da sei a dieci secondi. È importante non esagerare e sentire l’esercizio
come faticoso. Dopo avere inspirato attraverso la narice sinistra, lo yogi
chiude la narice sinistra col mignolo ed anulare - sempre della stessa mano
- ed espira attraverso la narice destra, sempre secondo lo stesso lento,
uniforme e profondo ritmo. Poi, le narici si scambiano il ruolo:
mantenendo chiusa la narice sinistra, l’aria è lentamente, uniformemente e
profondamente inspirata attraverso la narice destra. Poi, chiudendo la
narice destra col pollice, l’espirazione avviene attraverso la narice sinistra,
sempre in modo lento, uniforme e profondo.
Questo è un ciclo: all’inizio se ne fanno sei, poi dodici.
Uno yogi può usare un conteggio mentale per essere sicuro che
inspirazione ed espirazione abbiano la stessa durata. È possibile fare una
breve pausa dopo ciascun’inspirazione contando mentalmente fino a tre. Le
dita possono essere usate per aprire e chiudere le narici in diversi modi ed
ognuno può fare come preferisce.
[Una tradizione suggerisce che l'espirazione duri un tempo doppio di
quello usato per l'inspirazione, mentre la pausa dopo l'inspirazione duri un
tempo di ben quattro volte tanto; io non ho mai applicato tali consigli,
trovandoli innaturali]
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b…Ujjayi
La tecnica consiste nell'inspirare profondamente e poi espirare attraverso
entrambe le narici, producendo un suono nella gola. Durante l’espirazione
tale suono non è forte come durante l'inspirazione. Dopo la pratica d’alcuni
giorni, l'azione respiratoria si allunga senza sforzo. Quest’esercizio è
praticato normalmente per dodici volte.
[Un conteggio mentale aiuta a far sì che inspirazione ed espirazione
abbiano la stessa durata. È importante non solo concentrarsi sul processo
stesso, ma anche sul senso di benessere e di calma indotta; in tal modo la
concentrazione si approfondisce.]
c…Bandha
Il collo e la gola sono leggermente contratti, mentre il mento s’inclina
verso il petto (Jalandhara Bandha). I muscoli addominali sono
leggermente contratti per intensificare la percezione d’energia nella spina
dorsale (Uddiyana Bandha). I muscoli del perineo - tra l'ano e gli organi
genitali - sono contratti come a volerli sollevare verticalmente e inoltre, in
contemporanea, la parte inferiore dell'addome è premuta indietro (Mula
Bandha). I tre Bandhas sono applicati simultaneamente e mantenuti per
approssimativamente quattro secondi onde provocare una lieve vibrazione
del corpo; quest’esercizio è ripetuto per tre volte.
Col tempo, una sensazione di corrente energetica che sale lungo la colonna
spinale - un brivido interno quasi estatico - può essere percepito.
[Queste "contrazioni" portano l'energia nella colonna spinale; nel Kriya
Yoga le ritroveremo nel Maha Mudra].
d…Stato finale
Con un atteggiamento di profondo rilassamento, l'attenzione, per almeno
cinque minuti, è intensamente indirizzata nel Kutastha - il punto tra le
sopracciglia.
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Talvolta nei primi giorni di sole dopo l'inverno, quando i cieli erano
cristallini, blu come non lo erano mai stati, praticai spesso all'aria aperta.
Contemplavo ciò che mi circondava: se in una fossa piena di vecchi
cespugli, ricoperti dall'edera, il sole riversava la sua luce su dei fiori come
quelli che un mese prima erano sbocciati durante i freddi giorni invernali
ed in quel momento si attardavano nonostante i giorni più miti,
quest’incantevole radiosità, mi ispirava.
In quello splendido scenario mi concentravo nell’applicare correttamente le
istruzioni; poi, la bellezza delle sensazioni alternate di fresco e di tepore
prodotte dall’aria che sfiorava la mano, usata per aprire e chiudere le
narici, mi catturava; mi concentravo sulla pressione, sul fluire lieve e
uniforme del respiro…
Divenendo consapevole di ciascun particolare tecnico riuscivo a mantenere
una vigile attenzione senza esserne stressato. In questo modo la pratica si
rivelò essere molto piacevole.
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Da un lato, continuai a leggere tutti i libri, che riuscivo a trovare, scritti da
quest’autore [alcuni erano in Italiano, alcuni in Inglese], dall’altro lato
cominciai ad esplorare tutta la letteratura che riuscivo a trovare sullo Yoga.
Leggendo P.Y. fui stupito dalla sua personalità, dotata d’incomparabile
potere di volontà e spirito pratico.
Lo studio dei suoi scritti mi emozionava ma non quando parlava con un
tono puramente devozionale, bensì quando assumeva un tono tecnico che
mi permetteva di avvicinarmi all'arte sottile del Kriya - la consideravo
un'arte in continuo perfezionamento, non un qualcosa di religioso.
Ero entusiasmato dalla forza con la quale l'autore poneva l’accento sul
valore evolutivo del Pranayama, specificando: evoluzione spirituale,
mentale e fisica.
Spiegava che se noi paragoniamo la spina dorsale ad una sostanza
ferromagnetica, costituita, come insegna la Fisica, di magneti elementari
che si volgono verso la stessa direzione quando un campo magnetico è
sovrapposto ad essi, allora l'azione del Pranayama è analoga a questo
processo di magnetizzazione.
Era implicito che, durante questa pratica, ci si dovesse concentrare
sull'energia interna e farla ruotare, in qualche modo, attorno ai Chakra.
Creando un orientamento uniforme di tutte le parti "sottili" dell’essenza
fisica e astrale della nostra spina dorsale, il Pranayama avrebbe bruciato i
cosiddetti "cattivi semi" del nostro Karma.
[È bene ricordare che "Reincarnazione" e Karma sono le basi del pensiero
indiano e di Lahiri Mahasaya stesso, ecco perché vale la pena di parlarne
liberamente - naturalmente il Kriya è una pratica che può essere
sperimentata senza dovere necessariamente accettare alcun credo.
Ci riferiamo al Karma, quando riportiamo la comune credenza che una
persona erediti dalle vite precedenti una gran massa di tendenze latenti,
comparabili a semi destinati a fiorire, alla fine, nella vita attuale. Secondo
questa credenza, il Pranayama può essere considerato un processo che
esaurisce gli effetti di quei semi prima che diventino manifesti nella vita.
È spiegato ulteriormente che le persone che sono attirate intuitivamente da
metodi di sviluppo spirituale come il Kriya, hanno già praticato qualcosa di
analogo nell’"incarnazione precedente". Si fa notare, infatti, che tale azione
non è mai invano e nella presente incarnazione la persona riprende il suo
cammino esattamente da dove, in un passato remoto, era stata costretta ad
abbandonarlo.]
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Il mio problema urgente era decidere se dovevo, o no, partire per l'India
dove cercare un insegnante per ottenere tutti i chiarimenti necessari al
Kriya. Siccome progettavo di completare al più presto possibile i miei
studi universitari, esclusi un viaggio immediato.
Mi decisi piuttosto a rimanere dov’ero e tentare di migliorare il Pranayama
usando i libri che potevo trovare sullo Yoga - poco importava in che lingua
fossero scritti.
La domanda era: come trasformare la pratica attuale in modo che l'energia
interna si muovesse attorno ai Chakra?
Se questo era - come P.Y. affermava - un processo universale, non c'era
dubbio che avrei trovato sue tracce attraverso altre fonti, anzi forse sarei
stato capace di discernere l’intero sistema del Kriya nei suoi quattro livelli.
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suo valore e mentre lo riguardava decidendo il prezzo, sembrò ricordare
qualche cosa che avrebbe potuto accendere il mio interesse.
Mi condusse in un angolo nascosto del suo negozio e m’invitò a frugare in
un mucchio disordinato di fogli contenuti in una scatola di cartone. Tra una
quantità consistente di materiale miscellaneo (serie complete della rivista
teosofica, note sparse di un vecchio corso di ipnosi ecc.) - trovai un
libretto, scritto in tedesco da un certo K. Spiesberger che illustrava, tra
alcune tecniche esoteriche, delle tecniche di Mantra. Quasi all’inizio
m’imbattei nel Respiro Kundalini.
Non avevo allora abbastanza dimestichezza con la lingua tedesca, ma
riuscii ad intuire subito la straordinaria importanza di quella tecnica; a
casa, con l'aiuto di un dizionario, sarei riuscito indubbiamente a decifrarla.
[Sorrido quando sento persone affermare di essere appassionati di Kriya, e
tuttavia non si danno da fare nello studiare importanti testi in inglese,
avendo paura, presumibilmente, di interpretare male tale idioma! Sono
convinto che il loro interesse è superficiale e piuttosto emotivo. Tale era il
mio entusiasmo, che sarei stato in grado di mettermi a studiare il Sanscrito
o il Cinese, o qualsiasi altra lingua nella quale, ahimè, fossero stati
compilati gli insegnamenti essenziali del Pranayama!
La descrizione del Respiro Kundalini ancora mi stupisce; l’autore, infatti,
non era tanto vicino al Kriya di Lahiri Mahasaya quanto alla versione
portata in occidente da P.Y. Durante un respiro profondo, l'aria era
immaginata, invece del suo corso abituale, fluire dentro la colonna spinale.
Era perciò indicata la visualizzazione della spina dorsale come fosse un
tubo vuoto. Inspirando l'aria, questa doveva essere immaginata fluire
dentro il tubo cavo dalla base fino alla zona tra le sopracciglia; espirando,
si sarebbe dovuto sentire che l'aria andava in giù verso il Muladhar lungo
lo stesso percorso.]
In un altro libro, in Inglese, c’era una descrizione esaustiva del Respiro
Magico - che era circa lo stesso esercizio.
[In esso l'energia non era da percepirsi all’interno della spina dorsale, ma
"intorno" ad essa, seguendo un percorso ellittico. Tramite l'inspirazione,
l'energia saliva dietro la colonna spinale, fino al centro della testa;
espirando, scendeva lungo la parte frontale del corpo. Questo è ciò che
avviene nel "Piccolo Circolo", la tecnica descritta nei testi dell'Alchimia
Interiore che rappresenta la tradizione mistica dell’antica Cina].
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Lasciai da parte tutto l'altro materiale. L’espressione di soddisfazione
che mostri davanti al proprietario della libreria, come se avessi trovato un
tesoro di valore insondabile, mi cagionò certamente un aumento di prezzo.
Ritornando a casa, non potevo non trattenermi dallo sfogliare quelle
pagine, molto curioso a riguardo di alcuni disegni grezzi che illustravano
altre tecniche basate sul movimento dell’energia interiore.
Qualcosa che lessi sul valore del Respiro Magico mi riempì della più gran
curiosità ed entusiasmo: c’era scritto che questo era uno dei segreti più
preziosi delle scuole esoteriche di tutti i tempi. Se praticato costantemente,
con forza di visualizzazione, avrebbe costruito una specie di sostanza
interna che avrebbe poi condotto alla visione dell'occhio spirituale.
Studiando attentamente queste due tecniche, mi convinsi che il Respiro
Magico era sicuramente il Kriya di Lahiri Mahasaya, mentre l'altra, il
Respiro Kundalini ne era una variante. Lo praticai per alcuni mesi.
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un’interna radiosità. Ero immerso nell’estasi! Attraverso quella "luce" non
era difficile attraversare il muro della dimensione psicologica.
Ricordo come, durante un quieto pomeriggio, poco prima del tramonto,
mentre mi trovavo in un boschetto, le parole di un commento filosofico ad
alcune Upanishad, mi balzarono alla mente e cominciai a ripetere: «Tu sei
Quello». Non so se la mia intuizione riusciva ad afferrare
l’incommensurabile implicazione di quell’affermazione, ma sì … io ero
quella luce che filtrava attraverso le foglie, di un verde incredibilmente
delicato perché era primavera ed erano appena nate.
A casa, non tentavo neppure di stendere su carta i vari "momenti di grazia"
esperiti - non sarei stato capace di farlo. Il mio unico desiderio era di
immergermi sempre più in questa nuova esperienza interiore.
Una notte, assorbito nella lettura, ebbi un brivido, come una corrente
elettrica che attraversava il corpo. L'esperienza non aveva nulla di speciale,
ma l’intuito mi annunciò un'esperienza più profonda.
I minuti trascorrevano, ma non ero capace di proseguire con la lettura;
percepivo un senso di inquietudine che si trasformò in ansia, e poi divenne
paura, una paura intensa di qualche cosa di ignoto, una minaccia alla mia
esistenza. Non avevo davvero mai provato un simile terrore. In momenti di
pericolo, mi era capitato di restare come paralizzato, incapace di pensare,
ma ora l'ansia era di qualità diversa, era panico per qualche cosa d’alieno
all'esperienza comune, qualche cosa di assolutamente imprevedibile.
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Mentre la mente prevedeva le peggiori ipotesi su quanto stava per
accadere, sentivo l'urgenza di fare qualcosa, anche se non sapevo cosa.
Assunsi la posizione di meditazione ed attesi.
Mi sembrava d’essere vicino alla pazzia - o alla morte. Una parte di me,
forse la totalità di quell'entità che io chiamo "me stesso", sembrava al
punto di scomparire; i peggiori pensieri, minacciosi, senza una chiara
ragione erano sospesi sopra di me. In quei giorni avevo finito Kundalini,
l'energia evolutiva dell’uomo di Gopi Krishna. L'autore descriveva come,
seguendo un’intensa pratica di concentrazione sul settimo Chakra, aveva
avuto un'esperienza splendida di "risveglio", mentre, dopo di ciò,
probabilmente perché il corpo non era preparato, aveva incontrato dei seri
problemi fisici e, di riflesso, anche psichici.
Secondo quella descrizione, nel suo corpo un'energia si era messa in
movimento dalla base della spina dorsale verso il cervello. Talmente forte
era il flusso da costringerlo a letto ed impedire il completamento delle
normali funzioni fisiche. Aveva l’impressione di stare letteralmente
bruciando di un fuoco interno, che non riusciva a spegnere in alcun modo.
Settimane più tardi scoprì intuitivamente come controllare il fenomeno, il
quale si trasformò in una fondamentale esperienza di realizzazione
spirituale.
Per quel che mi riguarda, temevo di essere arrivato alla soglia della stessa
esperienza ma, siccome non vivevo in India, ero spaventato che le persone
attorno a me non potessero capire; in tal caso l'esperienza sarebbe stata
terribile! Nessuno avrebbe potuto assicurarmi che, come accadde a Gopi
Krishna, essa si sarebbe indirizzata verso un esito corretto, benefico.
Durante quei momenti, il mondo spirituale mi sembrava un orribile incubo,
capace distruggere, annientare la persona che gli si era avvicinata
imprudentemente. La vita consueta, al contrario, mi sembrava la realtà più
cara, più sana. Temevo di non riuscire più a ritornare in quella condizione.
Ero convinto nel modo più assoluto che una malattia mentale stesse
facendo a pezzi il mio essere: la ragione era che avevo aperto una porta
sull'infinito, e questo era molto più immenso di quanto potevo
prefigurarmi.
Decisi di fermare l’esperienza e rimandare, se possibile, il momento fatale.
Non ero nell'umore adatto per rimanere nella posizione di meditazione.
Sentivo che dovevo alzarmi, uscire all'aria aperta. Era notte e non c'era
alcuno con cui scambiare due parole! Al centro del cortile di casa mi
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trovavo oppresso, soffocato, schiacciato da un sentimento di disperazione,
invidiando quelle persone che non avevano mai praticato lo Yoga,
provando rimorso perché, attraverso parole aspre, avevo ferito un amico.
Lui, come molti altri, aveva un tempo preso parte alla mia ricerca; poi
aveva rinunciato alla pratica e si era preoccupato soltanto di godersi la vita.
Dotato di una giovanile baldanza, gli avevo indirizzato parole per nulla
affettuose, e queste mi rintronavano ora in testa; provavo dolore per aver
espresso una crudeltà ingiustificata senza sapere che cosa realmente vi
fosse nella mente e nell’anima dell’amico.
Avrei fatto qualsiasi cosa per averlo di nuovo davanti a me, per potergli
dire quanto mi spiaceva. Sentivo di aver violato brutalmente il suo diritto a
vivere come meglio credeva: non aveva cercato altro che la salute
psicologica e non si era arrischiato ad avventurarsi in pratiche di cui non si
sentiva sicuro o che, intuiva, avrebbero potuto arrecargli più problemi di
quanti ne avessi.
Considerata la mia gran passione per musica classica, pensai che una bella
musica avrebbe avuto un effetto calmante, forse una protezione
dall'angoscia, forse un aiuto per ritornare indietro... perché non tentare? Fu
la musica di Beethoven - il suo Concerto per violino ed orchestra – a
calmarmi e, mezz’ora dopo, a conciliarmi il sonno.
La mattina seguente mi svegliai con la stessa paura. Ciononostante, avevo
un intero giorno davanti a me, la luce del sole stava risplendendo, mi sarei
distratto in mezzo ad altre persone.
Uscii ed incontrai degli amici. Non dissi nulla di quello che stavo
sperimentando, cercai di nascondere la mia angoscia, passai il pomeriggio
scherzando su varie cose, comportandomi proprio come le persone che
avevo sempre considerato pigre e intellettualmente spente.
Il primo giorno passò così - la mia mente era logora; dopo due giorni,
ciononostante, la paura diminuì e finalmente mi sentii sicuro.
In ogni modo, qualche cosa in me era cambiata: non riuscivo infatti a
pensare al cammino spirituale. Rifuggivo da quell'idea!
Se pensavo agli esercizi di Yoga provavo nausea e paura. La nozione stessa
del "Divino" mi dava un senso d’orrore!
Una settimana più tardi, distaccato e calmo, cominciai a pensare al
significato di quello che era accaduto; compresi la natura della mia
reazione. Avevo, da codardo, volto le spalle proprio all'esperienza che
avevo perseguito per così lungo tempo!
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La dignità presente nel profondo del mio animo mi diceva che dovevo
ricominciare la ricerca dal punto dove l’avevo abbandonata, accettando
tutto quello che sarebbe accaduto, lasciando che ogni cosa seguisse il suo
corso, anche se ciò avesse implicato la perdita della mia vita o della salute
mentale. Ripresi la pratica del Pranayama, inseguendo la stessa esperienza
che non ero stato capace di sostenere, solo che, questa volta, avevo preso la
determinazione di non fuggire via.
Alcuni giorni passarono e non percepii alcuna forma di paura; poi
sperimentai qualche cosa di tremendamente bello, presi parte a un
fenomeno fantastico che, da quel momento in poi, si sarebbe ripetuto
diverse volte.
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Stranamente, il giorno seguente, quando mi svegliai, non ci pensai; mi
venne in testa solo alcune ore più tardi, quando ero all'aria aperta.
Fui preso dalla bellezza di quell’esperienza e, appoggiandomi ad un albero,
per molti minuti fui letteralmente affascinato dal quel ricordo e dal
riverbero di quello stato d’anima. Il pensiero cercava di familiarizzarsi –
compito impossibile - con un'esperienza che lo travalicava.
Tutto ciò che fino allora avevo pensato sullo Yoga non aveva affatto
importanza. Per me l'esperienza era come essere stato colpito da un
fulmine. Non avevo nemmeno la possibilità di scoprire quali parti di me
erano ancora là e quali erano scomparse per sempre, non ero capace di
capire realmente quello che mi era accaduto, piuttosto non ero sicuro se
"qualcosa" fosse davvero accaduto.
Passarono alcuni giorni, belli, e poi, gradualmente, una certezza d’eternità,
una condizione che si distendeva oltre i confini della mia consapevolezza,
come una memoria che si nascondeva nei recessi della coscienza, cominciò
a rivelarsi, come se una nuova zona del mio cervello si fosse messa in
moto verso un pieno risveglio. Avevo scoperto qualche cosa che
apparteneva a me e presto o tardi lo avrei padroneggiato ed espanso sino
agli estremi confini!
Più tardi fui testimone di quest’esperienza ancora tante volte. Quando
mi impegnavo nello studio fino a notte tarda e mi concedevo, ogni tanto,
un breve riposo, nel momento in cui, esausto, mi distendevo per dormire,
dopo alcuni minuti questa esperienza avveniva invariabilmente, e la salita
dell'energia avveniva molte volte.
Negli anni seguenti ebbi l’opportunità di verificare delle cose in comune
con le persone che avevano avuto presumibilmente la stessa esperienza.
Anzitutto, una pratica di qualche forma di meditazione caratterizzata da
una profonda concentrazione nel Kutastha; in secondo luogo, la presenza
di un’aspirazione intensa non importa verso cosa, purché si potesse
assimilare ad una destinazione spirituale e, infine, un lavoro mentale
intenso, come lo studio, durante il quale era importante non cedere alla
tendenza naturale di addormentarsi. Cominciai a considerare quest’evento
come un segno della correttezza del mio modo di praticare e della forza
della mia aspirazione verso la meta spirituale.
La mia pratica terminava sempre con una concentrazione molto intensa sul
Kutastha come se la mia vita dipendesse dal risultato di tale azione.
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Talvolta la tensione cresceva e diveniva quello che è riferito nei testi
orientali: «come anelare al respiro mentre si sta affogando».
È chiaro che il risveglio dell’energia non avveniva nel momento in cui la
tensione si esplicava, ma più tardi. Lo stato di coscienza doveva trovarsi
raggiungere una condizione favorevole, una dimensione intermedia tra
sonno e veglia. Qualche volta, pochi istanti prima che emergesse, un
paesaggio meraviglioso - permeato da un senso di irrealtà - appariva alla
mia visione interiore.
Nota
Il lettore mi perdonerà se non menziono il nome di P.Y. - non è difficile
comunque dedurne l’identità!
Ci sono molte scuole di Yoga che diffondono i suoi insegnamenti secondo
una precisa legittimazione. Una di queste, attraverso i suoi rappresentanti,
mi fece comprendere che non solo non avrebbe tollerato la minima
violazione del Copyright, ma che non gradiva che il nome del loro amato
Maestro venisse, in Internet, mescolato a discussioni sul Kriya.
La ragione va ricercata nel fatto che, in passato, delle persone usarono quel
nome per fuorviare la ricerca di un gran numero di ricercatori che stavano
cercando di ricevere gli insegnamenti originali.
Voglio porre l’accento sul fatto che nelle pagine seguenti mi soffermerò
solo sommariamente sulla mia comprensione dei Suoi insegnamenti, senza
alcuna pretesa di riuscire a dare un resoconto obiettivo di essi. Un lettore
interessato non dovrebbe rinunciare al privilegio di rivolgersi alla
letteratura originale!
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CAPITOLO III UN’ORGANIZZAZIONE BASATA SUL KRIYA
29
C'è solamente un modo per riceverlo: essere iniziato da un "Ministro" della
sua organizzazione!
Fissandomi direttamente negli occhi, con un enorme impatto emotivo
cominciò a dirmi che una pratica imparata da qualsivoglia altra fonte «non
valeva nulla, non sarebbe stata effettiva per quanto riguarda la finalità
spirituale», ed eventuali effetti, solo apparentemente incoraggianti,
sarebbero stati «solo una pericolosa illusione nella quale l'ego sarebbe
rimasto intrappolato per molto tempo».
Secondo lui, a parte i pochissimi autorizzati dalla direzione della scuola,
nessun’altra persona al mondo poteva insegnare quella tecnica. La regola
era rispettata strettamente dai membri del gruppo i quali avevano, infatti,
sottoscritto una precisa e solenne promessa di segretezza!
Segretezza!
Come insolito risuonò tale termine alle mie orecchie, che strano richiamo,
che misteriosa fascinazine esercitò sul mio essere!
Fino a quel momento avevo sempre creduto che fosse di poco o di nessun
valore il modo in cui un certo insegnamento fosse appreso, su quale genere
di libri fosse stato studiato; l'unica cosa importante era che dovesse essere
praticato in modo corretto, con l’aggiunta, auspicabile, del costante
desiderio di perfezionarlo.
Pensai che, effettivamente, non fosse un’idea balzana quella di proteggere
un insegnamento prezioso da occhi indiscreti. Apparentemente la
segretezza era da consigliarsi in questo campo. Ma in seguito, nel corso di
molti anni, fui testimone di una serie innumerabile di assurdità che
provennero da questa richiesta; in modo drammatico, ebbi l’evidenza che
essa portò nella vita di migliaia di person delle miserabili ripercussioni.
Mi invitò ad entrare e, prima di qualsiasi descrizione verbale, mi chiese di
mostrargli come praticavo la tecnica. Era mosso da curiosità umana e dalla
speranza che nel mio indovinare la tecnica fossi andato molto lontano dal
vero Kriya. Fu sollevato, intimamente rassicurato quando vide che stavo
respirando attraverso il naso e non attraverso la bocca, come a lui era stato
detto di fare; la mia pratica era - secondo la sua impressione - chiaramente
sbagliata. Mi chiese di spiegare più profondamente quello che visualizzavo
internamente durante la mia respirazione e, mentre glielo stavo
descrivendo, vedevo una soddisfazione intima che si diffondeva sul suo
volto.
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Giudicò che la mia tecnica non fosse corretta e vide con ciò verificato un
ben radicato pregiudizio secondo cui la tecnica, appresa fuori dai canali
legittimi non può essere - a causa di una particolare legge spirituale - che
corrotta.
Il segreto cui lui era legato non era dunque stato violato da alcun autore dei
miei libri esoterici!
Come il lettore ricorderà, secondo le istruzioni trovate sui libri, l’energia
interiore poteva essere guidata sia lungo un percorso ellittico attorno ai
Chakra sia in su e in giù dentro la spina dorsale.
Avevo provato entrambi i metodi ma, poiché P.Y. aveva scritto che la
pratica del Kriya avveniva facendo ruotare l'energia attorno ai Chakra, mi
ero abituato principalmente al primo metodo, ed era perciò questa la
versione che ora avevo esposto a quel giovane.
Inoltre, avendo letto in un altro libro che durante il Kriya Pranayama si
doveva cantare mentalmente Om nei Chakra, aggiunsi anche questo
dettaglio.
Non potevo immaginare che P.Y. avesse insegnato l’altra variante, quella
in cui il respiro si muove dentro la spina dorsale, che avesse richiesto di
respirare attraverso la bocca socchiusa e infine che avesse deciso di
omettere il canto mentale di Om nei Chakra. Mi trovavo in una situazione
ben strana: gli stavo esponendo quello che, come il lettore molto
probabilmente già sa, era il Pranayama originale di Lahiri Mahasay, e lui
sorrideva con espressione sarcastica, sicuro al cento per cento che stessi
dicendo delle sciocchezze!
Fingendo di sentirsi addolorato per la mia naturale disillusione, m’informò
in un tono ufficiale che la mia tecnica «non aveva niente a che fare con il
Kriya Pranayama»!
Interrogato con costernazione su quello che fosse, almeno in un modo
generico, il mio errore, non accettò di chiarirmi alcun dettaglio perché lui
«non era autorizzato» a farlo.
Chiaramente provai una forte curiosità su quella che fosse la procedura
corretta e di conseguenza in molte occasioni lo "corteggiai" con la
speranza, sempre elusa, di ricevere almeno qualche briciola
d’informazione.
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FORTE CONDIZIONAMENTO
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sottolineato che non valevano niente o piuttosto «potevano essere negativi
e pericolosi»!
Cominciò il racconto - che in seguito avrei avuto l'opportunità d’ascoltare
tante volte fino alla nausea - dello yogi tibetano Milarepa che, avendo
acquisito senza le benedizioni del suo Guru, delle tecniche spirituali, non
ricavando risultati incoraggianti anche se queste erano state praticate con
grande intensità, ricevette finalmente le stesse istruzioni dalla bocca del
suo Guru - con le benedizioni di questo - ed i risultati questa volta
arrivarono facilmente! Sappiamo che la mente umana è condizionata più da
una storia che dall'inferenza logica! Un aneddoto come questo, anche se
completamente immaginato, tanto per costruire la trama di un romanzo,
possiede un genere di "luminosità interna" che condiziona il buon senso di
una persona: attraverso lo stimolo delle emozioni ed i sentimenti può far
accettare conclusioni che apparirebbero assurde alla facoltà raziocinante.
Questa storia mi ammutolì, non seppi cosa rispondere; per quel giorno,
almeno, avevo perso la partita. Dissi all'amico che avrei seguito i suoi
suggerimenti.
UN GRUPPO DI KRIYA
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In quell'occasione cominciai a conoscere più da vicino i miei nuovi amici
kriyaban: era una bella occasione di passare insieme del tempo parlando e
rallegrandosi della reciproca compagnia. Sfortunatamente un forte
imbarazzo rovinava la piacevolezza degli incontri.
Perché molti di noi non godevano dell'approvazione e meno ancora
dell'appoggio nella pratica dello Yoga da parte della loro famiglia,
l'occasione unica di trovarsi fra persone con le stesse idee ed interessi
avrebbe dovuto essere un'esperienza di gran serenità e rilassamento.
Ma coloro che, da lontano, dirigevano i gruppi, avevano richiesto di non
parlare di altri percorsi spirituali e inoltre di non trattare i specifici dettagli
del Kriya - tale compito doveva essere riservato solamente a persone di
proposito autorizzate dalla scuola, nel nostro gruppo nessuno.
Queste proibizioni distorcevano e mortificavano il nostro comportamento.
Durante gli incontri, data la necessità di indirizzare i contenuti delle
conversazioni su binari sempre ben definiti, non riuscivamo a trovare un
argomento di conversazione che rispettasse le regole, essendo, nello stesso
tempo, interessante.
Non era certo quello il luogo per pettegolezzi mondani, disadatti a gruppo
spirituale. Certo si poteva conversare sulla bellezza del nostro percorso
spirituale, sulla gran fortuna di averlo trovato! Molti pensavano che la
nostra scuola fosse la materializzazione di un piano Divino per salvare la
specie umana dal disastro. Ma, come si può presumere, dopo alcune
riunioni di "reciproca esaltazione", cominciò a regnare nel gruppo una noia
quasi allucinante.
Come ultima via di salvezza, ogni tanto alcuni si arrischiavano ad entrare
nel regno dei moti di spirito. L’innocente e lieve humour però non riusciva
a risvegliare una sola briciola di vera giovialità: si scontrava, infatti, con
l'atteggiamento ispirato a devozione tenuto dalla maggior parte dei membri
e capitolava di fronte alla loro fredda reazione. Il malcapitato che aveva
tentato di sollevare il tono dell'incontro rimaneva raggelato per il resto del
giorno.
Non ci si deve meravigliare che il gruppo fosse caratterizzato da un grande
riciclo; molti, entrati con entusiasmo, dopo alcuni mesi non solo
decidevano di abbandonarlo ma poi si davano da fare per rimuovere del
tutto quell'esperienza dalla loro coscienza.
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Fra coloro che frequentai, non fui capace di trovarne uno solo che
potesse essere considerato quello che comunemente si definisce un serio
studioso del fenomeno spirituale. Anche se continuavo a credere di
trovarmi fra individui simili a me - vale a dire appassionati, entusiasti del
Kriya, desiderosi di capirlo e di perfezionarlo - dovetti ammettere che la
realtà era ben diversa!
Alcuni reagivano al mio entusiasmo con un certo fastidio: non potevano
credere che non coltivassi alcun dubbio o incertezza verso il sentiero del
Kriya. Consideravano la mia euforia quella tipica di un principiante
immaturo. Sembravano censurare il mio eccessivo interesse per le tecniche
del Kriya, affermando che la devozione era molto più importante e -
presentando un concetto che trovavo duro situare nel campo dello Yoga -
anche la lealtà lo era!
Pensando a quei tempi, mi chiedo che opinione si fossero fatti di me,
quanto imprudente potesse essere apparso il mio atteggiamento: una vera
minaccia alla loro calma e alla loro - se mi è concesso dirlo - un po’ opaca
esistenza. Facevano uno sforzo moderato nelle pratiche del Kriya e si
affaticavano ad estrarre dalle profondità della loro psiche la minima
briciola, parvenza di devozione. Al contrario io usavo la totalità
dell’energia nel migliorare l’esecuzione delle tecniche per far sì che dalla
realizzazione spirituale ne conseguisse una devozione genuina.
Due approcci diversi verso la meta spirituale si "guardavano" l'un l'altro
con perplessità, senza alcuna speranza di incontrarsi.
Mi sia concesso uno sfogo: spesso ho visto come lo sfoggio della
devozione nasconda, il più delle volte, la propria insincerità e negligenza.
Talvolta arriva persino a mascherare la presenza di disturbi mentali. Sia
chiaro che io rispetto la sofferenza e che non posso mettermi nei panni
altrui, ma riconosco che la vera aspirazione mistica possa operare cose
incredibili mentre a mio avviso il recitare la parte del perfetto devoto non
ne produce alcuno.
Poiché P.Y. scrisse che il Secondo Kriya rende il praticante capace di
abbandonare il corpo consapevolmente, cercai qualcuno che conoscesse la
tecnica nella speranza che potesse accordarmi almeno un'idea generale di
essa. Una signora che praticava il Kriya da anni ed una volta aveva
risieduto presso la sede centrale della nostra scuola sembrò non capire la
mia domanda.
35
Perciò, con stupore, richiamai l'episodio col quale Swami Pranabananda,
discepolo di Lahiri Mahasay, aveva accompagnato il momento della sua
morte con la pratica del Secondo Kriya.
Visibilmente alterata, sostenne che la citazione chiaramente si riferiva alla
tecnica del Pranayama: un respiro, poi un altro ancora e questo "secondo
respiro" era a suo dire (!) il "Secondo Kriya"! So per certo che fino ad
oggi lei è rimasta ferma nella sua convinzione.
Ebbi l'impressione che la stessa idea dell'esistenza di una tecnica simile la
sconvolgesse; era come se lei avesse fatto uno sforzo così grande nello
stabilire l'abitudine alla pratica quotidiana del Primo Kriya da sentirsi
esausta, come se avesse già «dato il massimo». In altre parole non poteva
accettare l’idea che esistesse un’altra tecnica con la quale portare avanti un
lavoro ancora più impegnativo.
In ogni caso la sua "ignoranza compiacente e voluta" fu superata da un
altro obbrobrio. Un’anziana signora, forse con l'intenzione di impartirmi
una lezione d’umiltà, mi prese in parte e mi rivelò di aver ricevuto molto
tempo addietro l'iniziazione ai cosiddetti Kriya superiori ma di aver deciso
di non praticarli ….. per umiltà (!).
Affermò che si era sentita così indegna che li aveva messi da parte e, dopo
anni, era riuscita - questa era per me la cosa inconcepibile - a dimenticarli!
Seppi poi che altre persone si erano trovate nella condizione di poter
ricevere questi insegnamenti, ma li avevano semplicemente rifiutati.
Quando chiesi la ragione di quella chiara manifestazione d’indifferenza
verso i più alti insegnamenti del loro Guru, mi guardarono con
un'espressione stupefatta e quasi offesa, come se la mia domanda avesse
violato un tacito accordo: non criticare nessuno o insinuare dubbi che
possano mettere in discussione le intime scelte di una persona nel campo
spirituale! Risposero che quello che avevano era abbastanza per loro ed
interruppero bruscamente il discorso. Questo fatto, insieme con altri
sperimentati in quella scuola fu per me una ragione di sofferenza: mi
pareva di essere il solo ad amare visceralmente il Kriya! Provai una gran
delusione nel vedere in quelle persone una tale ignoranza o, peggio,
indifferenza verso tale arte!
36
serietà, sincerità e lungo comportamento da discepola fedele, aveva
ricevuto l’autorizzazione di insegnare le tecniche preliminari al Kriya.
Il suo temperamento era molto dolce e sembrava più incline alla
comprensione che alla censura.
Da quello che ero capace di leggere sul suo volto, quando si riferiva alla
mia tecnica Kriya, indovinata per mezzo di letture non ortodosse, dava da
intendere che la considerava valida, efficace. In ogni modo era convinta
che se avessi appreso la tecnica da canali ufficiali, la mia pratica sarebbe
divenuta più bella, più soddisfacente.
M’insegnò perciò due tecniche preliminari al Kriya, invitandomi a limitare
la mia pratica a queste. La prima, chiamata Hong-so a causa del Mantra
impiegato, calma il respiro e l’intero sistema psicofisico. La seconda
riguarda l’ascolto dei suoni interiori [astrali] che, approfondendo, si
mescolano, si fondono col suono di Om. Non mi diede queste istruzioni in
un’unica sessione ma in due momenti diversi - la seconda quattro mesi più
tardi. Ebbi perciò la splendida possibilità di dedicarmi per molto tempo
solamente alla prima tecnica e, per altri mesi, nell’attesa dell’iniziazione al
Kriya, alla combinazione delle due: la prima il mattino, la seconda di notte.
Potei sperimentare perciò il significato e la bellezza di ciascuna.
37
corsi il rischio di perdermi per strada e non conoscere mai la tecnica corretta.
Oggigiorno, nel mondo del Kriya, non c’è dubbio che il Secondo Kriya di Lahiri
Mahasaya sia il processo del Thokar - in una o nell’altra delle sue varianti - in cui
avviene un movimento brusco sul petto fatto con il mento e il Chakra del cuore riceve
un grande stimolo. Quando ebbi ben stampato in mente il meccanismo di questo Kriya,
mi tuffai completamente in esso.]
TECNICHE HONG SO E OM
42
questo fosse il miglior fondamento per la pratica del Kriya -, il modo
yogico per prevenire le malattie, per trovare un lavoro che non fosse in
contrasto col percorso spirituale; cercai anche di mettermi in sintonia con
l’atmosfera religiosa, Indiano-Cristiana tipica della scuola. Cercai di
avvicinarmi alla figura di Krishna, ImmaginandoLo come la quintessenza
di ogni bellezza; alla figura della Divina Madre, che non era la Madonna,
ma un addolcimento dell’idea della dea Kali. Lessi e rilessi solo gli scritti
di P.Y.. Talvolta trovavo un particolare pensiero di P.Y. così bello e così
perfetto che lo scrivevo su un foglio di carta e lo tenevo davanti a me sulla
scrivania, mentre studiavo. Tanto feci che mi allontanai di molto da me
stesso.
Gli altri membri del gruppo tendevano a costruire una venerazione per
P.Y., come se questi fosse Dio in un corpo umano. Un dirigente del più
importante centro italiano della nostra scuola ci disse: «ma non avete
ancora compreso che P.Y. è la Divina Madre Stessa»?
Ricordo una signora - sembra una cosa scherzosa ma non lo è - che
sceglieva gli stessi gusti del gelato che erano stati i preferiti di P.Y..
Credevano, per mezzo di tali meschinerie, di incrementare la devozione per
il loro Guru; forse ciò avveniva, non so dirlo, ma era anche evidente il
rischio di appoggiarsi troppo all’idea di avere un santo protettore che mette
a posto tutte le cose della nostra vita e sviluppare molto meno l’intelligenza
pratica.
Mentre continuavo a ricevere da chiunque, anche senza chiederle, lezioni
di devozione, umiltà e lealtà, il mio interesse per il Kriya divenne una vera
e propria brama, una febbre che mi consumava. Non capivo il motivo per
cui dovevo attendere tanto: la mia anticipazione, a volte, diveniva una
inutile tortura. Coloro che già possedevano il Kriya, mi prendevano in giro
con malcelata crudeltà e mi dicevano: «Vedrai che a te il Kriya neanche lo
daranno, perché un devoto non desidera una tecnica con tanta intensità: ciò
non è né una buona né una saggia cosa. Dio si trova anzitutto con la
devozione e l’abbandono alla Sua volontà.» Cercavo di stare buono,
attendevo e sognavo.
Alla fine venne il momento in cui potei richiedere l’insegnamento,
tramite posta, del Kriya. Passarono quattro mesi, ogni giorno speravo di
ricevere il tanto desiderato materiale, finalmente arrivò una busta. La
apersi con un’aspettativa che non so dire: rimasi profondamente deluso
perché conteneva soltanto altro materiale introduttivo. Dall’indice del
43
materiale, posto alla prima pagina, compresi che si trattava del primo di
una serie e che la tecnica completa sarebbe giunta entro circa cinque
settimane. Così, per un altro mese, avrei dovuto studiare le solite
filastrocche che conoscevo a memoria.
Avvenne invece che nel frattempo un Ministro di quella organizzazione
visitò il nostro paese e potei partecipare ad una cerimonia di iniziazione.
Dopo mesi di attesa, era giunto il tempo di «stringere un patto eterno con il
Guru e ricevere la tecnica Kriya nell’unica maniera legittima, carica quindi
delle Sue benedizioni».
Quelli come me, pronti per essere iniziati, erano un centinaio. Ci
trovavamo in una bella stanza affittata per l'occasione ad un costo molto
elevato e decorata con molti fiori - un simile insieme non ne avevo mai
visto in vita mia! L’introduzione alla cerimonia avvenne in un modo
alquanto strano: approssimativamente trenta persone, facenti parte del
gruppo locale, con una divisa particolare, quasi Ministri di un nuovo culto,
entrarono in fila nella stanza, con atteggiamento solenne e mani giunte in
preghiera. I due veri Ministri, appena arrivati dall'estero camminavano
umilmente, disorientati, dietro di loro.
Poi la cerimonia vera e propria incominciò.
Accettai senza obiezioni che ci fosse richiesta una promessa di fedeltà
eterna non solo al Guru P.Y. ma anche ad una catena formata da altri
cinque Maestri: Lahiri Mahasaya ne era un anello intermedio mentre P.Y.
era il così detto Guru-precettore, ovvero colui che si sarebbe parzialmente
assunto il peso del nostro Karma. Sarebbe stato veramente strano se
nessuno avesse avuto dubbi su quest’ultimo fatto: ricordo, infatti, un’amica
che si stava chiedendo, e ne parlò sottovoce con me, se P.Y. - non potendo
confermarlo, essendo residente nei mondi astrali - l'avesse realmente
accettata come "discepola" e, di conseguenza, avesse accettato anche il
fardello del suo Karma.
Ci assicurarono che il Cristo apparteneva a questa catena perché un tempo
era apparso a Babaji [Guru di Lahiri Mahasay] chiedendogli di mandare
qualche emissario nell'Ovest per diffondere l'insegnamento del Kriya.
Questa storia non ci provocò affatto perplessità; forse questa assicurazione
aiutò quelli che si sentivano un poco incerti nella loro coscienza (quasi
stessero per tradirlo attraverso questa iniziazione-battesimo), a considerare
tutta la missione mento di P.Y. come originato dal Cristo stesso.
44
Ricevere l’iniziazione al Kriya voleva dire in pratica che, oltre alle
promesse che dovevamo fare, tra cui come ho già detto la segretezza, che
ci sarebbero state insegnate tre tecniche: Kriya Pranayama, Maha Mudra e
Jyoti Mudra [nella scuola non si usava la più comune designazione Yoni
Mudra]. Queste tecniche, assicurarono, incarnavano le più effettive
benedizioni di Dio alla Sua creatura privilegiata, l'essere umano, che
possiede, a differenza degli animali, i Chakra.
Fu spiegato che la mistica scala fatta di sette gradini e rivelata attraverso il
Kriya, è la vera autostrada verso la salvezza; non l’unico percorso, perché
le religioni forniscono agli esseri umani altri strumenti validi, ma è
certamente il più veloce ed il più sicuro.
La mia mente era in una condizione d’enorme attesa per quello che avevo
desiderato con tutto il mio essere: per questo mi ero seriamente preparato
da mesi. Non partecipavo ad una cerimonia puramente formale per far
contento qualcuno o per salvaguardare una tradizione di famiglia, era la
coronazione di una scelta definitiva! Il mio cuore era immensamente e
perfettamente felice anticipando la gioia che sarebbe scaturita dalla pratica
del Kriya. Finalmente mi fu insegnato il Kriya Pranayama e così scoprii
che già conoscevo la tecnica - il Respiro Kundalini che avevo trovato
tempo addietro nelle mie letture esoteriche, quello in cui la corrente
energetica fluiva totalmente all’interno della spina dorsale. Ho già spiegato
che non lo avevo preso in seria considerazione poiché P.Y. nei suoi scritti
aveva scritto che l’energia ruotava «attorno ai Chakras, lungo un circuito
ellittico». Non fui deluso, anzi, la tecnica mi sembrava perfetta.
45
Avevo una grande fiducia nella loro guida poiché per me erano dei "canali"
attraverso i quali fluivano le benedizioni di quello che era divenuto il mio
Guru, convinto anche che avessero già raggiunto la realizzazione
spirituale.
Se ora voglio parlare dei motivi della mia crisi inesorabile, questo non è
per un'acredine infondata verso la scuola. Il mio scopo è, invece, quello di
discutere il problema generale di come costruire una routine efficace,
problema che sarà fondamentale all’interno del Kriya Yoga di Lahiri
Mahasaya il quale contiene, per altro, un numero ben maggiore di tecniche.
La routine che allora mi fu raccomandata, e che tutti nel gruppo avevano
adottato, mi causò davvero grandi problemi. Essa cominciava con la
tecnica di osservazione del respiro [la tecnica Hong-so] che durava da dieci
a venti minuti. Si dava per certo che il respiro si sarebbe calmato e si fosse
creato un buon livello di concentrazione onde praticare, subito dopo, la
tecnica di ascolto dei suoni interiori. Dopo avere messo gli avambracci su
un appoggio, cominciava quest’ascolto che durava circa lo stesso tempo.
Seguiva un’interruzione dello stato meditativo per eseguire il Maha
Mudra. Poi, ritornando nella posizione immobile e cercando di ripristinare
lo stato di rilassamento, s’incominciava il Kriya Pranayama nel rigido
rispetto di tutte le istruzioni. Si concludeva con lo Jyoti Mudra seguito da
dieci minuti di pura concentrazione nel Kutastha assorbendo gli effetti
della pratica.
Il problema era che le due tecniche preliminari erano profondamente
sacrificate. Durante l’esecuzione della prima tecnica, percepivo che presto
avrei dovuto interromperla per passare alla seconda. Questo mi creava una
sensazione di disturbo, un pensiero fisso che m’impediva di immergermi
totalmente in essa. Uno stato analogo era percepito praticando la tecnica
successiva. La decisione più infelice era di interrompere quest’ultima per
alzarsi a praticare il Maha Mudra. [So che qualcuno, per evitare questo
disagio, praticava il Maha Mudra all’inizio di tutta la routine; l'interruzione
doveva in ogni caso essere fatta per praticare il Pranayama.]
La tecnica d’ascolto dei suoni interiori era in se stessa un "universo
completo", portava all'esperienza mistica, al contatto reale con la
dimensione spirituale e perciò l'atto di interromperla era qualcosa di più
grave che un semplice disturbo.
46
Quest’azione, infatti, era incompatibile con ogni logica; era come se,
riconosciuto con piacevole sorpresa un amico in mezzo alla folla, mi
intrattenessi con lui, poi, all’improvviso, gli volgessi le spalle, mi
mescolassi alla folla ma con la speranza di sperimentare entro breve tempo
la sorpresa di incontrarlo nuovamente per riprendere la conversazione
sospesa.
Questa cosa sciocca, assurda, era precisamente quello che facevo
applicando alla lettera la routine menzionata: il suono di Om rappresentava
davvero l'esperienza mistica, la meta che cercavo attraverso ogni tecnica.
Ancora mi chiedo perché mai avrei dovuto interrompere la sintonia con
quel suono per poi riconquistarla attraverso un'altra tecnica considerata più
elevata? Provo imbarazzo a confessare che per circa tre anni ripetei ogni
giorno, due volte il giorno, quest’assurda commedia: tale fu il potere di
quella follia che nel nostro gruppo era chiamata "lealtà".
Andai avanti dunque senza mutare la routine prescritta, sperando in una
ipotetica mia evoluzione futura che mi avesse permesso di praticare con
più soddisfazione, di avere risultati più tangibili.
A causa di questi condizionamenti ero come divenuto uno di quegli
animali nutriti dall’uomo che tendono a dimenticare come essere auto
sufficienti; portai avanti per lungo tempo la tendenza a dipendere dal
giudizio della scuola per qualsiasi cosa, persino per le cose che
riguardavano gli aspetti pratici della vita.
51
CAPITOLO IV JAPA E LO STATO DI ASSENZA DI RESPIRO
53
Alcuni praticanti assidui ricevettero in seguito anche i Kriya superiori;
qualcuno tra loro non si fece più sentire e scomparve, come in un buco
nero, nell'orbita di quell’insegnante, altri rimasero con un piede nella
scuola ed uno fuori, portando avanti una pratica distinta da molti
ripensamenti e sentimenti d’insoddisfazione.
La mia ricerca personale prese una particolare direzione. Sapevo che
c'erano dei discepoli diretti di P.Y. che avevano litigato con la direzione
della scuola e che in seguito si erano messi per conto proprio. Ebbene
speravo che, quasi per vendetta, questi avessero rivelato per scritto quei
particolari che m’interessavano. La mia ricerca s’indirizzò verso questi.
C’erano due o tre nomi di tali diretti discepoli: acquistai tutto il materiale
pubblicato da loro, persino registrazioni di loro conferenze. Quello che
trovai fu di una devastante banalità: i segreti, se ce n’erano, erano ben
custoditi.
Continuai la ricerca su libri che trattavano di argomenti simili ma che
provenivano dall’India e non erano tutti in relazione diretta col Kriya.
Speravo che in essi avrei potuto ottenere delle intuizioni corrette. Nel
frattempo incominciai a leggere dei libri scritti da discepoli di Lahiri
Mahasay, i quali non avevano alcun legame con P.Y. L'occasione fu
quando degli amici che tornavano dall'India me ne portarono qualcuno.
Essi mi delusero molto e mi fecero rimpiangere lo stile chiaro di P.Y. Non
vi trovai nient’altro che parole vuote, prive di alcun significato, ripetizioni
senza fine unite alla caratteristica intollerabile di saltare continuamente da
un argomento ad un altro. I chiarimenti pratici che erano presentati come
preziosi non erano altro che delle povere cose copiate dai libri classici di
Yoga. Erano scritti così male da far pensare che l'autore non si fosse
neanche dato la pena di controllare il testo originale. Probabilmente aveva
copiato da un altro libro il quale a sua volta era copiato da altri, in una
catena dove ogni autore aggiungeva qualche strana considerazione tanto
per lasciare il segno della sua personalità.
55
istintive, le quali mi avevano impedito di esercitare la dovuta vigilanza
nonché la discriminazione verso le cose più ovvie della vita.
Pigrizia interiore, paralisi dell'intelligenza n’era seguita.
Ora non era più possibile evitare di vedere che la mia pratica del Kriya era
superficiale. Fra gli altri pensieri sciocchi accettai l’inganno che ogni
Pranayama produceva, quasi automaticamente, «l'equivalente di un anno
solare di evoluzione spirituale» e che con un milione di questi respiri Kriya
avrei raggiunto infallibilmente la Coscienza Cosmica.
Ogni volta che mi sedevo per praticare, cercavo di eseguire il più gran
numero possibile di Pranayama per avvicinarmi con sempre più fretta e
ansia al momento nel quale avrei completato quel numero!
Quando avevo incominciato la mia avventura spirituale non avevo
coltivato quelle certezze e avevo affrontato con coraggio il senso di
disperazione scoperto nelle profondità di me stesso. Il Pranayama era stato
il mezzo per fare a pezzi l’oscurità interiore!
Ora, anche se quel Pranayama era stato perfezionato divenendo
nientemeno che il supremo Kriya Yoga - ricevuto per di più con le
benedizioni del Guru - non lo stavo praticando con la primitiva intensità,
con la dignità di allora.
Era evidente che avevo perso totalmente la motivazione iniziale, lo spirito
di ricerca, la gioia della scoperta. In me non era avvenuta alcuna crescita
genuina. Stavo praticando con un atteggiamento arrogante, di supremazia,
fiducioso sull'automatismo del mio percorso. Era necessario sentire di
nuovo la benedizione della sofferenza e del dubbio. Era necessario
comportarmi non come chi ha trovato un tesoro, lo ha nascosto e ci dorme
sopra tranquillamente, ma come un ricercatore che sviluppa e amplifica la
sua scoperta.
L'atmosfera ipnotica delle "Guru's Blessings" era stata, nel mio caso, la
culla nella quale il mio ego era stato alimentato e fortificato.
La necessità di ricreare lo spirito di un’autentica ricerca divenne
imperativa.
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PATANJALI: COME COSTRUIRE UNA ROUTINE KRIYA
In quel tempo studiai gli Yoga Sutra di Patanjali e vi trovai degli spunti
per costruire una routine di Kriya che fosse razionale.
L’approccio di Patanjali allo Yoga è noto. Fu un pioniere nell’arte di
considerare razionalmente il sentiero mistico, cercando di individuare una
direzione agli eventi che fosse universale, fisiologica, che spiegasse come
mai un certo fenomeno, inerente al sentiero spirituale, dovesse precederne
un altro e necessariamente seguirne un altro. La sua fatica di sintesi
potrebbe essere criticata, o, a causa della sua distanza temporale, potrebbe
essere di difficile comprensione ma, in ogni caso, è di straordinaria
importanza. Nello svolgersi del processo Yoga, egli individua otto passi:
Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana,
Samadhi. Ci sono diversi modi di tradurre questi termini sanscriti.
Yama: autocontrollo. [Non-violenza, non mentire, non rubare, non lussuria
e non attaccamento.]
Niyama: osservanze religiose. [Pulizia, appagamento, disciplina, studio del
Sé, e resa al Dio Supremo.]
Asana: posizione o esercizio fisico. Quella assunta dallo Yogi deve essere
stabile e comoda.
Pranayama: regolazione del respiro. Per mezzo di questa, ne viene la
regolazione del Prana e poi la naturale cessazione del respiro.
Pratyahara: ritiro dei sensi. La consapevolezza è sconnessa dalla realtà
esterna.
Dharana: concentrazione. Concentrare la mente su un oggetto scelto.
Dhyana: meditazione o contemplazione. La prosecuzione di
quest’attenzione come un flusso costante ininterrotto di consapevolezza
che esplora completamente tutti gli aspetti dell'oggetto scelto.
Samadhi: perfetto assorbimento spirituale. Contemplazione profonda, nella
quale l'oggetto della meditazione diviene inseparabile da colui che medita.
Il paragone tra il sentiero del Kriya e quello di Patanjali può avvenire
qualora si faccia riferimento solo al testo originale, senza commenti, e si
osservi attentamente e obiettivamente la propria esperienza meditativa.
Sin dal primo sguardo appare chiaro che i primi tre passi di Patanjali
potrebbero essere sottintesi e non menzionati
I precetti morali, le cose che è giusto fare come anche quelle che è giusto
evitare, in altre parole la base etica del sentiero spirituale, sono un qualcosa
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che, presentando il Kriya, è meglio non affermare con forza, quale
prerequisito assoluto. Questo non significa che la vita del kriyaban possa
essere dissoluta, ma è chiara la totale inutilità delle "prediche"
moraleggianti. È avvenuto che delle persone dalla vita moralmente
discutibile ebbero successo nel Kriya e arrivarono spontaneamente alla
cosiddetta vita virtuosa, mentre molti "benpensanti" fallirono.
L'insegnante di Kriya è sempre incline a lasciar correre il comportamento
dell’allievo, facendo finta di non vederlo, di non intuirlo e, per un po’, non
ne parla, proprio perché ha gran fiducia nell’effetto trasformante della
stessa pratica del Kriya. D'altro canto è ovvio che se una persona,
desiderosa di imparare il Kriya, va dall'insegnante e questi gli propone le
regole morali di Patanjali [Yama, Niyama], chiedendogli una solenne
promessa di adeguarsi ad esse, quasi sicuramente l’allievo lo farà, come
per sbrigare una pratica burocratica, curioso di procedere con
l’apprendimento delle tecniche.
[Nel prossimo capitolo racconterò della mia frequentazione di due
insegnanti di Kriya. Ricordo quanto fossi infastidito qualora il secondo
chiedeva al pubblico una promessa che sapevo molto bene che lui stesso
non era capace di rispettare. Prima di ogni iniziazione al Kriya faceva
promettere ai suoi allievi che essi avrebbero guardato al sesso opposto –
tranne il loro partner – senza provare fisica attrazione. A tal fine
consigliava agli uomini di guardare le donne quali "madri" e,
analogamente, alle donne di guardare gli uomini come "padri". Con un
sospiro di mal celata insofferenza aspettavo che terminasse il suo
farneticare e procedesse con la parte rimanente della conferenza, arrivando
in fine alla spiegazione delle tecniche.]
Per quanto poi riguarda la posizione di meditazione "stabile e comoda", un
buon insegnante di Kriya lascia l'allievo libero di scegliere il mezzo-loto
oppure Siddhasana o Padmasana, anzi non perde tempo in questi dettagli
poiché sa che l'allievo serio e risoluto userà il buonsenso per trovare la
posizione ideale comoda che permetta di mantenere con facilità la spina
dorsale diritta durante la pratica del Kriya.
La prima azione che si compie nel Kriya è dunque il quarto passo di
Patanjali: il Pranayama. Egli afferma che l'azione del Pranayama sul
respiro e sull’energia presente nel corpo crea uno stato di calma,
d’Equilibrio che diventa la base degli stadi successivi. Ma Patanjali è
evasivo per quanto riguarda il Pratyahara: in questo stato l’energia nel
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corpo si volge verso l’interno e ne consegue uno stato dove il respiro è
perfettamente assente.
In realtà quest’evento non consiste in un singolo ma in due momenti:
anzitutto alcune tecniche specifiche [Maha Mudra, Navi Kriya e la
maggior parte dei Kriya superiori] che richiedono movimento fisico sono
consigliate; poi è richiesta la perfetta immobilità e la concentrazione è
diretta nella spina dorsale [nei Chakra] ad aumentare l’esperienza della
realtà Omkar e non, come avviene nel Dharana di Patanjali verso un
oggetto astratto o concreto.
In un modo davvero peculiare Patanjali spiega che, dopo la scomparsa del
respiro, lo Yogi dovrebbe cercare un oggetto fisico o astratto su cui volgere
la sua concentrazione ed esercitarla in una specie di meditazione
contemplativa fino a perdersi in esso.
E’ interessante per coloro che affrontano il Kriya, comprendere che la
definizione di Dharana data da Patanjali non ha nulla a che vedere con le
idee e gli intenti di Lahiri Mahasaya. Un kriyaban incontra la
manifestazione della realtà Omkar, la vibrazione che sostiene l'universo, il
suono interiore che afferra la sua coscienza e la porta sempre più in
profondità, evitandogli il pericolo di smarrirsi per strada. La coscienza è
riempita di tale delizia che non c’è motivo di abbandonare tale percezione
e sceglierne un'altra che sicuramente non potrà che appartenere al regno
della mente.
La distinzione poi tra Dharana e Dhyana - volgere il fascio della
concentrazione su un oggetto e cominciare ad esplorarlo in una
meditazione contemplativa - è per il kriyaban di poco valore. Una seduta
ideale di Kriya dovrebbe terminare con l’ottavo passo di Patanjali: il
Samadhi.
Riassunto
1… Una routine Kriya incomincia con un’azione sul respiro [Pranayama]
il quale viene guidato, indirizzato, controllato e, pur essendo lungo e
profondo, trasformato essenzialmente in un movimento di energia.
2….La spina dorsale è magnetizzata; questo crea una situazione di
profonda calma e tranquillità, una sensazione d’espansione e di conforto
interiore. Il respiro si calma e il cuore rallenta.
3….La consapevolezza del respiro è messa da parte, con lo scopo di
"trascenderlo" grazie ad un processo puramente mentale.
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La concentrazione sui Chakra, sia la parte che si trova all’interno della
spina dorsale sia quella volta all’esterno, secondo una tempistica suggerita
dall’intuizione, arricchisce enormemente la percezione della realtà Omkar.
4… La preoccupazione costante di sollevare il livello di coscienza nei
Chakra superiori, in particolare nel Kutastha, finisce col far sì che la
coscienza si fonda con Om. Nella totale immobilità, quando il rilassamento
raggiunge lo stato perfetto, l’energia entra nella spina dorsale; la
consapevolezza si fonde nella luce "risplendente come un milione di soli".
Rispettando i principi trovati, potei apprezzare maggiormente le
cosiddette tecniche preliminari Hong So e Om e potei farmene un’idea
diversa.
Esse possono rappresentare, ciascuna, una completa esperienza di Kriya.
Ciascuna, nella sua apparente semplicità, rivela di essere costituita da
diversi livelli e questi possiedono il potenziale per sostituire la routine
completa.
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trovai la sua affermazione secondo cui «il desiderio della purezza è il più
grande ostacolo sul cammino spirituale»! «Non cercate di sembrare
virtuosi - aggiunse - vedete fino a che punto siete uniti, una sola cosa con
tutto ciò che è anti-divino.»
Non riuscirò mai a descrivere l’esplosione di gioia, il sentimento di libertà
che provai leggendo quelle parole così rivoluzionarie! Quando uscivo per
una passeggiata, se incontravo qualcuno e mi fermavo ad ascoltarlo, non
importa quello che dicesse, un’improvvisa gioia scoppiava nel mio petto,
saliva fino agli occhi tanto che era difficile trattenere le lacrime.
Guardando le montagne lontane o altre parti del paesaggio, cercavo di
indirizzare verso di esse quello che sentivo, onde trasformare la gioia
paralizzante in un rapimento estetico: questo tratteneva la gioia che serrava
il mio essere e la nascondeva.
Poiché avevo un bisogno disperato di pace e tranquillità, scelsi d’essere
fedele alla più semplice possibile routine di Kriya e vivere in un modo più
ritirato, introverso.
Caparbiamente mi aggrappai alla ben nota istruzione di mantenere
risolutamente, durante il giorno, un atteggiamento identicamente
indifferente verso eventi piacevoli o sgradevoli, cercando di sentirmi
sinceramente come un "testimone distaccato." Sostenuto dall'entusiasmo
per questo nuovo "trucco", descritto in modo talmente allettante in
pressoché tutti i libri che trattano di pratiche meditative orientali, riuscii ad
ottenere uno stato quasi ideale ma, dopo alcuni giorni, mi sentii sotto stress
come se tutto fosse una finzione, un'illusione. Fu a questo punto che
incontrai e lessi avidamente una biografia di Swami Ramdas, il santo
indiano che si era mosso in lungo e in largo attraverso tutta l’India
ripetendo incessantemente il Mantra Sri Ram Jai Ram Jai Jai Ram Om.
Questo fu davvero un importante evento: la sua fotografia - la semplicità
quasi infantile del Suo sorriso - accese la mia intuizione e mi spinse a
provare la stessa pratica; da questa decisione venne qualche cosa che
ancora rimane nel mio cuore come un’esperienza di vetta. Incominciai a
praticarlo ad alta voce durante le passeggiate, e poi tentai di continuarlo
mentalmente durante le attività della giornata. Il suono del Mantra che già
avevo ascoltato in un'incisione di un canto spirituale, dava l'idea di una
vibrazione forte ma dolce allo stesso tempo; l'uso di un rosario di 108 grani
rendeva la pratica molto piacevole.
61
Anche se qualche volta mi sentivo un po’ stordito, ero determinato a non
abbandonare mai la pratica. Poiché, facendolo, notai un impulso
irresistibile di mettere tutto in ordine, pensai che il Mantra potesse lavorare
in un modo simile pulendo la mia sostanza mentale e mettendo in ordine la
mia "mobilia psicologica". Siccome la scelta del mio Mantra era scaturita
da una predilezione inequivocabile, fremevo di gioia a motivo della
vibrazione che esso creava nella mia consapevolezza. Perciò amavo
accarezzare questa vibrazione, prolungarla sulle mie labbra, farla vibrare
nel mio petto, investirla dell’aspirazione del mio cuore. Ci misi molta
forza in quella pratica; il mio atteggiamento non fu mai l’attitudine di
supplica di un devoto che si lamenta e singhiozza ma quella di un uomo
che si trova ad un passo dalla sua meta.
Venne l'estate; ogni giorno praticavo il mio Japa di mattina e il Kriya a
mezzodì in campagna. Una giorno, dopo il Pranayama, mentre stavo
salendo e scendendo su e giù attraverso i Chakra, percepii distintamente
un'energia fresca che sosteneva il mio corpo dall’interno. Entrai in
un'immobilità perfetta e, ad un certo momento, scoprii di essere
completamente senza respiro. Questa condizione durò vari minuti, senza
alcun sentimento di disagio: non c'era né il minino fremito di sorpresa, né
il pensiero: «Finalmente ho ottenuto questo stato! »
Nei giorni successivi, prima di iniziare il Pranayama guardavo il panorama
circostante e mi chiedevo se avrei tra poco sperimentato di nuovo lo stato
senza respiro; dopo 40-50 minuti avevo già completato la parte attiva - gli
ultimi respiri del Pranayama - e poi, dopo non più di due o tre minuti,
mentre stavo movendomi su e giù nella spina dorsale il miracolo accadeva
come previsto. Infallibilmente! Essa mi ricordava ciò che Sri Aurobindo,
dopo il lungo periodo di studi in Inghilterra, scrisse, quando posò piede sul
suolo indiano. Con uno spirito poetico, descrisse una vasta calma che
discese su di Lui, lo circondò e con Lui rimase per sempre. Siccome
verificai l'associazione perfetta tra la pratica del Japa durante il giorno e
l'ottenimento di questo stato, fui sorpreso che una delle più semplici
tecniche del mondo, qual è il Japa, avesse prodotto un tale prezioso
risultato! Effettivamente fu un evento strano, portatore di una lezione
fondamentale. Ecco qui sotto ciò che penso di tale fatto.
Poiché non siamo eremiti, è un compito quasi impossibile raggiungere in
circa di un'ora le condizioni ideali di rilassamento. Più tempo ci vuole per
calmare il corpo fino allo stato senza respiro. Ci sono pensieri che
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possiamo vedere, identificare ed eventualmente fermare, ma c’è un diffuso
rumore di fondo difficile da eliminare che rimane malgrado ogni nostro
sforzo. Quindi anche se il processo del Kriya è eseguito con tutta la
possibile accuratezza, questo rumore di fondo diventa un ostacolo
pressoché insormontabile. Annullarlo è possibile, a mio avviso, non con
trucchi tecnici ma solamente col Japa utilizzato durante le attività del
giorno: questo strumento è unico.
Ci deve essere sicuramente una ragione se il Japa ["Preghiera Continua",
"Preghiera Interiore", "Preghiera del Cuore", Dhikr] fu la pratica base della
maggioranza dei mistici. Sebbene le tradizioni Orientali raccomandino che
il Japa sia fatto mentalmente, ho la certezza che esso dovrebbe essere fatto
a voce alta - perlomeno durante un insieme iniziale di un centinaio di
ripetizioni. L’esperienza e il buon senso contraddicono la credenza che un
Mantra funzioni solo se è ricevuto da un Guru; naturalmente è chiaro che
una persona esperta che ci aiuta a scegliere un Mantra ed usa tutto il suo
potere di persuasione per convincerci ad applicarlo continuamente, ci fa il
più grande favore possibile! So che alcuni kriyaban non usano mai il Japa
durante la giornata; obiettano che Lahiri Mahasaya non raccomandò tale
pratica. A questo possiamo ribadire che pressoché tutti suoi discepoli, indù
e musulmani, praticavano il Japa perché questo era, a quell'epoca ed in
quel ambiente, una pratica molto diffusa.
È mia ferma convinzione che il Japa possa produrre "miracoli" proprio
anche dove la nostra volontà fallisce!
Nel corso di tre mesi vissi in questa dimensione celestiale, perfettamente a
mio agio, senza alcun altro desiderio da realizzare. Quasi ogni giorno
pensavo: «Non devo dimenticarmi un solo istante di quest’esperienza,
devo prender nota di ciascun dettaglio, voglio provarlo di nuovo, ogni
giorno della mia vita poiché questa è la più vera esperienza mai
sperimentata»! In una profondità fatta di blu, essa conteneva i cieli della
mia infanzia. Sembrava impossibile perderla.
Eppure la persi. Il mondo dei "Guru itineranti" si stava avvicinando alla
mia vita, e con esso un'incredibile confusione.
63
CAPITOLO V LA DIMENSIONE OMKAR DEL KRIYA YOGA
65
vivere in una realtà perfetta ed il mondo intero mi sorrideva in estasi, ogni
dolore volò via, lontano dal mio sguardo.
Ebbi l’opportunità di trascorrere alcuni giorni in una bella località di sport
invernali, dove ero libero di camminare nella campagna bianca di neve
senza una destinazione prefissata. Un pomeriggio, mentre oziosamente
camminavo senza una meta, il tramonto venne presto e colori meravigliosi
tinsero il panorama; le luci del piccolo villaggio sprofondato nella neve
s’illuminarono nel buio. Quello rimarrà per sempre lo splendido simbolo
del mio contatto con l’esperienza Omkar.
La cosa curiosa è che ancora non conoscevo l’insegnante, avevo soltanto
letto il suo libro, ma era l’intensità della mia pratica che era totale!
Le vacanze invernali finirono e ripresi il lavoro.
Nei pochi momenti liberi pensavo al gioiello prezioso che avevo trovato e
visualizzai per il mio futuro la possibilità di approfondire, con tale
dedizione, anche i Kriya superiori.
Un giorno, sul luogo di lavoro, ero in una stanza dove, attraverso una porta
di vetro, potevo vedere da lontano le montagne e contemplare sopra di loro
un cielo di un puro celestiale. Ero in estasi! Quel cielo distante era lo
specchio dei miei anni futuri dove avrei gioito solamente del mio Kriya.
Per la prima volta, il progetto di andare in pensione e vivere con un
minimo reddito, permanendo in questo stato per il resto dei miei giorni,
venne a me.
66
Secondo lui, il Kriya non consisteva in un insieme di tecniche separate ma
in un unico processo progressivo di entrare in sintonia con la realtà Omkar:
come un filo in cui sono infilate le perle, così Omkar attraversa tutte le
diverse fasi del Kriya.
Tale realtà doveva essere percepita non solo come suono ma anche come
"sensazione di movimento" (altre volte egli si riferì a un senso di pressione
o pesantezza).
Tutte le tecniche del Kriya si dovevano praticare tenendo presente, come
obiettivo, quella percezione; il Maha Mudra, a tal fine, era preceduto da
particolari piegamenti.
L’obiettivo delle sue spiegazioni non era posto su quello che lui chiamava
"Pranayama col respiro lungo" ma sulla parte seguente dove il respiro è
sottile, esile e sembra talvolta scomparire. A questa pratica dedicò
un'enfasi enorme.
Mi stava conducendo in una meravigliosa dimensione che avevo solo
leggermente intuito. Si donava totalmente a noi per farci assaggiare questa
esperienza - per esempio come quando "toccava" gli studenti e faceva
vibrare il loro corpo.
In una sessione separata insegnò come introdurre nel Pranayama il Mantra
di dodici sillabe (Om Namo Bhagabate Vasudevaya) e con ogni sillaba
"toccare internamente" ciascun Chakra.
[Tutti i dettagli tecnici appresi da lui verranno condivisi nei prossimi
capitoli.]
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eccesso di curiosità o una cura dei dettagli. Secondo lui quelle persone
stavano sfidando la sua autorità.
La spiegazione delle tecniche era ragionevolmente chiara ma in alcune
parti sintetica in modo inusuale. Per esempio le istruzioni sul Pranayama,
formalmente corrette, potevano essere capite solamente da chi già
praticava da molto tempo il Kriya.
A questa tecnica dedicava un tempo veramente modesto - in un'occasione
lo cronometrai e vidi che non aveva dedicato più di due minuti alla relativa
spiegazione.
Continuò così per anni, nonostante le gentili rimostranze dei suoi intimi
collaboratori. Dava inoltre dimostrazione del Pranayama facendo un
suono vibrato esageratamente forte con la sua epiglottide. Riconosceva che
questo suono non era corretto ma continuò ad utilizzarlo per essere udito
anche dalle persone sedute nelle ultime file, risparmiandosi la fatica di
muoversi vicino a loro, come di solito fanno gli insegnanti di Kriya.
Ma non si prendeva la pena di chiarire che il suono dovesse essere pulito e
non vibrato. So che molte persone, pensando che esso fosse il "segreto"
che lui ci aveva portato dall'India, tentarono, per mesi, di produrre lo stesso
rumore.
Alcuni anni dopo, quando mi chiese di insegnare il Kriya a quelle
persone che, essendo lui assente, si dimostravano interessate, ero molto
felice di quest’occasione, poiché potevo finalmente dare tutte le
spiegazioni in modo esaustivo, completo. Volli che nessuno sentisse il
dolore di essere rifiutato, di vedere una domanda legittima non essere presa
in considerazione. Avevo l’impressione che la situazione procedesse nel
modo corretto, quando improvvisamente essa divenne difficile. Questo
avvenne quando, mesi prima del suo arrivo nel nostro gruppo, gli scrissi
per chiedergli che, dopo le sue sessioni di iniziazione, la comprensione
delle persone fosse controllata per mezzo di una pratica collettiva guidata.
Avvenne un fatto quasi incredibile: come risposta, mi eliminò
immediatamente dall'elenco dei suoi discepoli ed ufficialmente comunicò
la sua decisione ad uno stretto collaboratore. Probabilmente la mia
avventura con quest’insegnante sarebbe finita là - e sarebbe stato molto
meglio - se quel collaboratore mi avesse informato della situazione. Del
tutto inconsapevole, quando gli diedi il benvenuto al suo arrivo in Europa,
lui mi abbracciò come se nulla fosse accaduto. Probabilmente interpretò la
mia presenza come una mossa di ritorno sui miei passi.
70
Quando, tempo dopo, venni a sapere quello che era accaduto rimasi
frastornato, ma era troppo tardi per reagire. Cominciai a controllare il mio
atteggiamento e non gli proposi più nulla.
Per parlare della rottura definitiva dei nostri rapporti è necessario
premettere qualche cosa sui Kriya superiori di Lahiri Mahasaya. In questo
campo c’è molta confusione perché ci sono diverse scuole, ciascuna
originata da un differente discepolo di Lahiri Mahasaya, le quali insegnano
le tecniche in modo diverso omettendo alcune parti. Il mio attuale
insegnante apparteneva ad una particolare scuola che aveva eliminato tutti
quei Kriya che contengono il delicato problema di trattenere il respiro.
Questo è un fatto molto delicato implicito nella tecnica Thokar di Lahiri
Mahasaya: il Secondo e il Terzo Kriya. Veramente non è facile spiegare
come queste tecniche funzionano; una persona deve riuscire a sollevare
l'energia nella parte alta dei polmoni e creare un particolare modo di
respirare, talmente sottile da essere impercettibile. L'aspetto didattico
diviene critico se un insegnante ha intenzione di dare l’iniziazione ad un
pubblico e non a pochi scelti discepoli. Il mio nuovo insegnante
tralasciava, quindi, l’intera sequenza di tecniche connesse con questo
delicato aspetto.
Io però le conoscevo tutte, avendole apprese da varie fonti, e le tenevo in
serbo per il mio futuro, avendo già molto da praticare con quanto, di
assolutamente prezioso, lui ci stava dando. Certo che anche quel poco che
ci dava non era spiegato per niente bene! Cercavo di essere indulgente per
quanto riguardava alcune piccolezze, ma facevo fatica a tollerare che da un
anno ad un altro spiegasse una tecnica in modo diverso. Ce n’era una che
includeva dei movimenti ben precisi della testa - non si trattava del Thokar
di Lahiri Mahasaya sul cuore, ma di un'altra. L’ultimo anno che venne nel
nostro gruppo cambiò la natura di tali movimenti; quando alcune persone
chiesero chiarimenti sul cambiamento, fece finta di non comprendere, poi
sostenne che non aveva cambiato nulla, che probabilmente, in passato,
c'era stato un problema di traduzione.
Ero io che allora avevo fatto la traduzione. Seppi trattenermi e non
protestai: la sua bugia era fin troppo evidente. I miei amici si ricordavano
bene i suoi movimenti della testa avendoli visti con i loro occhi ed erano
effettivamente diversi. Avevo l'impressione di essere il collaboratore di un
archeologo che intenzionalmente altera alcuni reperti per presentarli al
pubblico all’interno del suo abituale quadro di riferimento teorico.
71
Assorto in queste preoccupazioni non ero consapevole di aver quasi perso
del tutto il contatto con la realtà Omkar. Il mio inconscio faceva sentire
chiaramente la sua voce: ancora è vivo nella mia memoria un sogno nel
quale nuotavo nel letame. Mentre la diffusione del Kriya sfiorava
superficialmente molte persone, attratte ai seminari da una banale
pubblicità, dietro alla mia maschera di finta delizia, la mia anima
conosceva un’agonia di aridità. C'erano momenti nei quali, pensando ai
miei semplici inizi con lo Yoga, il mio cuore distillava una nostalgia
indefinita per quel periodo, pronto a sorgere di nuovo e fiorire finalmente
libero, ora che conoscevo ogni parte del Kriya.
Come risposta alla richiesta di alcuni amici all’estero, andai nel loro
gruppo ad insegnare il Kriya, chiaramente sempre per conto del mio
insegnante. In quel gruppo incontrai uno studente molto serio che mi pose
molte domande. Egli dimostrava di conoscere bene il Kriya e discutemmo
apertamente del fatto che c'era un’intera parte dei Kriya superiori che il
mio insegnante non dava.
Comprese il mio imbarazzo e rimase stupito che non ne avessi mai parlato
apertamente con il mio insegnante, poiché questi mi aveva scelto per
insegnare il Kriya. Era infatti del tutto irragionevole non avergli aperto il
mio cuore; ma sapevo, conoscendo il suo temperamento irascibile, che lui
si sarebbe molto arrabbiato e che l’intera situazione poteva precipitare.
Eppure era mio dovere affrontare la sua reazione.
Se avessi provocato una rottura, gli amici del gruppo ne avrebbero sofferto;
solo alcuni tra essi potevano capire le ragioni del mio agire.
Si sentivano a proprio agio con lui e il fatto che ogni anno visitasse il
nostro gruppo era molto stimolante; ci preparavamo alle sue visite con una
pratica intensa del Kriya come per affrontare un esame. Ognuno
apprezzava la sua filosofia, che condividevo completamente. Questa
rappresentava per tutti noi, la migliore medicina contro le deformazioni
New Age; essa consisteva in una salda comprensione che il Kriya non è
gonfiare mente ed Ego movendoci verso un’ipotetica mente superiore, ma
un viaggio oltre la mente in un territorio incontaminato.
Gli scrissi una lettera in cui gli accennai con tatto ai problemi proponendo
di parlarne al suo arrivo. La risposta severa arrivò pochi giorni dopo.
Mi disse che il mio eccessivo attaccamento alle tecniche non mi avrebbe
mai portato fuori dai recinti della mente, ero come San Tommaso, troppo
curioso di toccare con mano tutti i particolari del Kriya, mentre avrei
72
occupato meglio il mio tempo cercando di praticare con più profondità le
tecniche che avevo. Riconosco che aveva ragione - lo stesso Lahiri
Mahasaya assicurava che si può ottenere tutto col primo Kriya. Ma io
ragionai che un discorso sull’argomento non avrebbe fatto male a nessuno.
Risposi suggerendo di nuovo la possibilità in cui speravo. Alcune
settimane dopo mi resi conto che il mio nome e quello del mio gruppo, era
stato cancellato dal suo sito Internet; la mia lettera aveva compiuto una
rottura definitiva.
Questa fu percepita con sconcerto dai miei amici. Come un effetto domino,
alcuni coordinatori appartenenti ad altri gruppi qui in Europa, che da tanto
tempo mal tolleravano i suoi modi, colsero l’occasione per tagliare
definitivamente i loro legami con lui. Sentivano che il tempo era ormai
maturo per gioire di tale liberazione.
Non riuscivo ad immaginare che cosa sarebbe stato del nostro gruppo,
se ci fosse stato qualche altro insegnante che, in futuro, sarebbe venuto da
noi. Senza di questo, infatti, il nostro gruppo sarebbe divenuto chiuso,
sterile, destinato ad esaurirsi, perché non ci sarebbero stati nuovi iniziati al
Kriya e quindi l'apporto del loro entusiasmo. Mesi dopo sembrava che la
ruota riprendesse a girare e un nuovo insegnante potesse venire da noi nel
giro di uno o due anni. Accettai, infatti, la proposta di sostenere le spese
per il suo viaggio poiché si trattava di una persona stimata.
Alcuni giorni più tardi quando fui contattato dalla sua segretaria, lei trattò
il lato finanziario del viaggio con tale brutalità e volgarità che declinai
l'offerta. Ero veramente stanco della intera situazione, ne avevo abbastanza
di comportarmi come un discepolo che tutto accetta, pur di elemosinare le
briciole del "Kriya originale".
TOCCARE IL FONDO
73
di cocenti delusioni e dell’abbandono definitivo del sentiero spirituale in
generale.
Frequentando i seminari di Kriya conobbi molte persone, con
temperamenti eterogenei, i cui interessi spaziavano dal pensiero esoterico
allo spirito New Age dove sembravano alquanto "persi".
Trascorsi con loro uno dei periodi più strani e disordinati della mia vita.
Questo periodo mi ritorna in mente quando ascolto le registrazioni di
alcuni canti devozionali che in quelle occasioni acquistai. Le "iniziazioni"
erano un rituale al quale mi stavo abituando. Era prescritto di portare dei
fiori - qualche insegnante ne chiedeva uno, altri chiesero tre o sei - poi
qualche frutto. Qualcuno pretendeva un cocco - costringendo le persone ad
andare, quasi con disperazione, a cercarlo di negozio in negozio. Infine
un'offerta in denaro, qualche volta libera, qualche volta di ammontare
predeterminato. Ero immerso in qualche cosa di estraneo che comunque
accettavo come inevitabile inconveniente per riuscire ad avere le
informazioni che con tanta passione cercavo. Dopo così tanti rituali,
avveniva una spiegazione superficiale e, spesso, una polemica
spietatamente distruttiva nei confronti delle informazioni ricevute dalle
altre fonti. Uscivo da quelle "iniziazioni" ripetendomi quanto fossi
soddisfatto, proponendomi da allora in poi di abbandonare altre pratiche e
dedicarmi con gran serietà solamente a quelle appena ricevute.
Il cuore, se mi fossi fermato un istante ad ascoltarlo, mi avrebbe detto che
mi stavo ingannando, che l'iniziazione nuova aveva aggiunto solo qualcosa
di insignificante a quello che conoscevo, che le richieste dell’insegnante
sarebbero presto diventate una "gabbia" che prima o poi avrei trovato
troppo stretta ed abbandonata.
Coloro che organizzavano i seminari davano l'impressione di essere
ricercatori onesti, anzi davano la rassicurazione che dalla loro bocca non
sarebbe mai uscita alcuna sciocchezza. Rimasi stupito quando uno di loro,
non per pura e semplice esibizione, citò a memoria alcune righe di uno
scritto di P.Y. - proprio quelle stesse frasi sibilline verso le quali avevo
sperimentato dubbi di interpretazione. Lui aveva letto e riletto quei testi
moltissime volte tentando di decifrarli, chinato su di essi, aveva "sofferto"
veramente tanto tempo. Sentii che simili ricercatori erano la mia vera
"famiglia"; essere con loro non solo era un piacere ma una lezione molto
importante. Imparai ad ascoltarli con rispetto ed in silenzio quando
corressero molte mie fantasie sul Kriya e mi fornirono un buon cibo per il
74
cervello. Fummo d'accordo che i nostri insegnanti erano, nella pressoché
totalità dei casi, persone mediocri, con grandi limiti dal lato umano,
tollerabili in una persona comune, ma molto stridenti in individui che si
presentarono come "maestri spirituali." Non eravamo capaci di trovarne
almeno uno che lasciasse trasparire quell'abilità essenziale in una questione
sottile e delicata come il lavoro pedagogico che pensavano di svolgere.
Dei fatti secondari confermarono la prima impressione di precarietà ed
improvvisazione e, in un caso, persino d’instabilità mentale. Ne sapevano
pochissimo del Kriya ed in modo ancora più superficiale lo insegnavano.
Ciononostante anche ricevere quelle poche briciole era abbastanza da
lasciarci momentaneamente soddisfatti. Eravamo ricercatori onesti,
ipnotizzati dal mito del rapporto Guru-discepolo, la cui suggestione
avevamo ricevuto dalla scuola di P.Y. È strano pensare a come quella
organizzazione ci avesse instillato ciò che ci manteneva fermi e fedeli
anche a personaggi che intimamente disprezzavamo!
Conobbi tanti esemplari di quelli che chiamo devoti "New Age": come
descriverli?
Nella mia prima scuola di Kriya avevo conosciuto persone tiepidamente
entusiaste del Kriya, che sembrava lo praticassero - quelle poche tecniche
in loro possesso - come un sacrificio quasi necessario per domare una
mente instabile e per espiare… la loro colpa di "esistere".
I devoti "New Age", invece, erano anche "troppo entusiasti" del Kriya
verso il quale mostravano di avere una fiducia cieca nel potenziale di
risolvere ogni problema della vita. Legati ad uno stile di vita
orientaleggiante, amavano un'atmosfera, un modo di atteggiarsi
caratterizzato da particolari sensazioni che loro cercavano di coltivare con
piccole attenzioni e, soprattutto, innocenti manie.
Imparai ad associarmi con ognuno - per esempio quelli che mi ospitarono
quando frequentai seminari in città distanti - come un esploratore affronta
degli animali ignoti, preparandomi a qualsivoglia eccentrica rivelazione
….. supposti poteri taumaturgici, profezie di calamità imminenti
accompagnate da improbabili suggerimenti su come sfuggirvi.
Alcuni, detto senza cattiveria, mi davano l'impressione di non essere molto
equilibrati dal punto di vista psicologico e qualche volta di avere grosse
difficoltà emotive. Qualche volta, evitando di immergermi in profondità
nella loro realtà umana, reagivo alle loro stranezze con un po' d’ironia, la
quale sgorgava da me spontanea, intrattenibile. Spesso temevo di averli
75
amareggiati eppure continuavano sempre a mostrarsi generosi verso di me
e soprattutto rispettosi della mia personalità.
Mai cercarono di impormi qualche loro convincimento, mentre
condividevano tutto quello che conoscevano, anche quanto era costato
molto tempo, sforzo e denaro. Il nostro rapporto era basato su un reale
affetto e non c'era mai disapprovazione, acidità o formalità.
Tutt’altra cosa fu incontrare un’altra specie di ricercatori: quelli che
sembravano far provviste di tecniche come durante una carestia.
Asserivano con fierezza di essere fedeli al loro Guru ma stavano bene in
allerta ad ascoltare qualsiasi voce riguardante dettagli tecnici che
apparivano sui libri o nei siti web. Uno stato di disperazione li portava a
prender parte a diversi seminari d’iniziazione, dove la parola d’ordine per
essere accettati sembrava essere un devoto atteggiamento da mendicante
nonché l’impegno solenne di segretezza.
Appena la riunione era finita, condividevano al cellulare le informazioni
ottenute con altri studenti, i quali, in cambio, avrebbero preso parte ad altre
iniziazioni e restituito il favore.
Alcuni, di ritorno dall’India, mostravano sul volto l'emozione di avere
conosciuto una terra così straordinaria e, nello stesso tempo la delusione
per tutto quanto non erano riusciti a imparare.
Capitava spesso che qualcuno avesse incontrato un millantatore il quale li
aveva assicurati di conoscere il Kriya e di poter dare loro l'iniziazione.
Però richiedeva la segretezza assoluta e non prendere contatto con altri
insegnanti. In questo modo il manigoldo era certo che per molto tempo essi
non si sarebbero resi conto che in realtà quello che avevano ricevuto non
aveva nulla a che fare con il Kriya.
Mi accorsi di ciò solamente quando riuscii a vincere le resistenze interiori
di qualcuno e mi feci dire la tecnica che avevano appreso; in molti casi si
trattava della semplice ripetizione di un Mantra! La cosa che più mi
dispiaceva non era tanto la sostanziosa offerta che questi amici avevano
fatto a quelle persone [che per un indiano significava una fortuna] ma il
fatto che così, pur viaggiando in varie parti dell'India si erano privati della
possibilità di apprendere il Kriya da fonti più sicure.
Un fatto di diversa natura accadde ad un amico il quale incontrò un
discendente di Lahiri Mahasay, un nipote diretto, un uomo di grande
istruzione accademica e anche di profonda conoscenza del Kriya, ma non
ne ricavò assolutamente nulla. Rimasi allibito quando, ritornato dall'India
76
mi raccontò un qualcosa di curioso. L'amico, infatti, mi annunciò che a
Benares, e probabilmente anche in India, il Kriya ormai … non lo praticava
più nessuno. Aggiunse che anche i discendenti di Lahiri Mahasaya non lo
conoscevano! Con pazienza non lo interruppi e immaginai quello che
poteva essere successo; il mio amico, molto probabilmente, aveva condotto
il discorso su argomenti futili. Aveva chiesto varie curiosità sulle abitudini
indiane, l'indirizzo di un Ashram e poi, solo alla fine dell'intervista - quasi
ricordando improvvisamente di trovarsi nella casa di Lahiri Mahasaya -
chiese se per caso qualcuno dei discendenti di Lahiri Mahasaya praticasse
ancora il Kriya.
Il suo modo di atteggiarsi deve aver mancato del necessario rispetto perché
la risposta, che nascondeva un amaro sarcasmo, fu negativa; in altre parole:
«certo che no, qui nessuno lo pratica più. In India non si pratica più. Sei
rimasto tu solo a praticarlo! » L'amico mi guardava con occhi stupiti. Non
so ancora se sperava di convincermi o se era immerso nella sua amarezza e
frustrazione. Non dissi nulla. Sono sicuro che non si rendesse conto di
quanto stupidamente si era comportato con quel maestro.
La risposta per lui arrivò un mese dopo, quando venne a sapere che un suo
concittadino aveva ricevuto recentemente l'iniziazione al Kriya proprio da
quella stessa persona da lui intervistata a Benares. Fu molto contrariato,
offeso dalla notizia e fece il progetto di ritornare in India e protestare
presso quel maestro. [Purtroppo non ci ritorno più, perché una grave
malattia mi portò via quest’amico. Nonostante la diversità abissale del
nostro carattere, gli sarò sempre grato per tutto quello che del sentiero
spirituale in generale volle condividere con me].
Per completare il quadro, voglio citare solo un ulteriore episodio.
Un altro amico si era fermato per alcuni giorni presso un Ashram dove
sapeva che si poteva ricevere il Kriya Yoga. Il monaco che guidava questo
Ashram non era presente, però l'amico ricevette l'iniziazione al Kriya da un
suo discepolo. Alla fine gli fu consegnato del materiale stampato dove
c'era la descrizione sintetica delle tecniche.
Di ritorno dall'India l'amico, visibilmente soddisfatto, mi mostrò questo
materiale: le tecniche non erano molto diverse da quelle che conoscevo
però c'erano tante altri dettagli in più. Non c'era nulla, in ogni caso, che
andasse a chiarire i miei dubbi, non un cenno al Kechari Mudra, nulla sul
Thokar. Ricordo invece una tecnica molto complicata basata sulla
visualizzazione dei Chakra come sono descritti nei testi tantrici.
77
Ogni tecnica era preceduta da un'introduzione teorica con citazioni da libri
antichi e accompagnata da un'illustrazione che eliminava ogni possibile
dubbio. In conclusione veniva data una routine graduale molto precisa.
C'era naturalmente l’affermazione che tutte queste tecniche costituivano il
Kriya come spiegato da Babaji, il mitico Guru di Lahiri Mahasaya.
Siccome il materiale era molto interessante, mi sarebbe tanto piaciuto
illudermi che la mia ricerca fosse finalmente conclusa e che quegli appunti
contenessero quanto cercavo! Bastava solo credere che Babaji, per creare il
Kriya Yoga, non avesse fatto nient'altro che prendere lo Yoga classico e
fonderlo col più comune tantrismo. Ci voleva inoltre l’audacia di pensare
che il Thokar potesse essere visto come una banale variante dello
Jalandhara Bandha! E se non c'erano le istruzioni per il Kechari Mudra,
pazienza, ciò voleva dire …. che tale Mudra non era importante! Con un
po’ di buona volontà sarei riuscito a far quadrare il cerchio! Il caso volle
che io ascoltassi la registrazione di una conferenza dell'autore di quegli
appunti. Raccontava di aver trovato tali tecniche in alcuni testi tantrici e di
averne fatto una selezione accurata per formare un sistema coerente: quello
costituiva il suo sistema Kriya!
Come poteva spiegarsi allora l'affermazione secondo la quale quegli
insegnamenti provenivano da Babaji? Semplice! Come molti altri
insegnanti indiani, erano stati i suoi discepoli, non lui, a redigere quel
materiale; questi ebbero la bella pensata di renderlo più interessante
parlando accennando alla derivazione dal mitico Babaji. L'insegnante,
sempre rispecchiando un tipico costume indiano, non aveva poi mai
controllato quegli appunti - rimase, infatti, sconcertato quando seppe di
quell’aggiunta. Difese però l'operato dei suoi discepoli affermando che, in
fondo … anche il Kriya di Babaji aveva origini tantriche.
78
Mentre acquistavo familiarità con i principali movimenti iniziatici, vidi
quale enorme impatto potesse avere sui ricercatori un libro; quale potere,
se esso asseriva di contenere la chiave dei misteri esoterici e occulti!
Fu proprio l’impatto emotivo che misi in tali letture storiche ad agire come
un purgante e a far si che da allora in poi divenisse per me impossibile
sprecare ancora del tempo in ricerche esoteriche.
Mi sentii soddisfatto. Fu come se questo mondo, il mio vecchio e caro
mondo, fosse scomparso per sempre da questa terra e confinato in una
dimensione di favola. Oggi quando trovo un ricercatore situato idealmente
in tale dimensione, mi sento molto vicino a lui e reagisco molto meglio che
quando mi trovo alla presenza di persone perse in deliri di carattere
puramente religioso. Certo, anche il vizio dell’esoterismo può essere
maniacale, ma è guaribile, mentre per le manie religiose non v’è medicina!
79
assoluto e la forza per combattere il concetto di casta e ogni forma
d’idolatria. In lui possiamo trovare il senso pieno dell'esperienza yogica;
afferma che nel nostro corpo c'è un giardino pieno di fiori, i Chakra, e
invita a stabilire la coscienza nel Loto dai mille petali dal quale
contemplare, la bellezza infinita.
Per quanto riguarda il suo concetto di "Shabda", che può essere tradotto
come "Parola" [la parola del Maestro] possiamo porlo in relazione con
l’insegnamento Omkar - la vibrazione Om.
Secondo lui questo Shabda-Om allontana tutti i dubbi, tutte le difficoltà del
discepolo, però è vitale mantenerlo continuamente, come una presenza
vivente, nella nostra consapevolezza. Insegnò a non abbandonare la vita e
diventare un eremita, a non coltivare alcun approccio estremo alla
disciplina spirituale, perché debilita il corpo e aumenta l'orgoglio. Molto
acutamente progettò di morire a Maghar, presso Benares - con un ultimo
gesto di scherno, giacché, secondo le credenze correnti, chi moriva a
Maghar sarebbe rinato nelle fattezze di un asino!
Penso che studiare il pensiero di Kabir possa aiutare, come pochi altri
argomenti di ricerca, a capire la personalità di Lahiri Mahasaya e quindi,
diritti come una freccia, a raggiungere il nucleo del Kriya. Nella sobrietà di
Kabir possiamo cogliere, come in un riflesso, la piena radiosità della luce
di Lahiri Mahasaya, al giorno d'oggi velata dalla letteratura, un po' troppo
complicata, che lo riguarda.
Una parte degli scritti di Lahiri Mahasaya – lettere e diari – ci ricordano
quelli di Kabir mentre, un’altra parte diverge singolarmente.
Lahiri Mahasaya commentò a voce alcuni testi sacri e le sue interpretazioni
furono stampate più tardi dal suo discepolo P. Battacharya. Questi libri per
molto tempo erano poco conosciuti, perché redatti in Bengali, ma in
seguito furono tradotti in Inglese. Molte persone li studiarono con
entusiasmo, sperando di trovarvi delle informazioni utili alla comprensione
del Kriya, eppure ne furono molto delusi.
Esaminandoli con attenzione rimaniamo perplessi poiché non riusciamo a
ricavarne alcunché di utile; non ce la sentiamo di affermare che essi siano
adulterati ma riconosciamo obiettivamente che il loro valore, dal punto di
vista esegetico, è quasi nullo. Viene spontaneo formulare due ipotesi: la
prima è che coloro che hanno redatto tali libri abbiano mescolato la loro
filosofia con quella di Lahiri Mahasaya, la seconda è che il suo pensiero
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abbia soltanto preso le mosse da quei testi sacri ma poi si sia sviluppato per
proprio conto, abbandonando completamente l’oggetto di partenza, e
quindi non possano essere considerati in alcun modo dei commenti.
Mi imbattei in un libro importante: Puran Purush basato sui diari di
Lahiri Mahasaya. Venne alla luce in Bengali grazie ad uno dei vari nipoti
di Lahiri Mahasaya, Satya Charan [1902 - 1978] che possedeva
materialmente quei diari. Con l'aiuto di uno scrittore suo discepolo decise
di operare una selezione dei principali pensieri che sarebbero potuti tornare
utili per coloro che praticavano il Kriya. Nonostante il fatto che tale libro
non rispettasse alcun ordine logico nella disposizione degli argomenti e
contenesse ripetizioni senza fine mescolate a frasi retoriche, fu una fonte di
grande ispirazione.
In estate lo portavo con me in campagna; dopo averlo aperto e letto una
frase, guardavo le montagne distanti e ripetevo dentro di me «finalmente,
finalmente!»… rimanendo per molto tempo, come in trance. Guardavo la
fotografia di Lahiri Mahasaya sulla copertina; chissà in quale stato elevato
si trovava quando fu scattata tale foto! Osservai sulla sua fronte delle linee
orizzontali, le sopracciglia sollevate come nello Shambhavi Mudra dove la
consapevolezza è stabilita in cima alla testa; guardando il mento sembrava
mantenere la posizione del Kechari Mudra. Durante quei giorni la sua
figura, con quel lieve sorriso pieno di beatitudine, sembrava un sole nel
mio cuore; era il simbolo della perfezione cui volevo arrivare, della
conoscenza che volevo acquisire, dell'amore che sarei voluto divenire. Il
tratto caratteristico del libro era la grande importanza data al Pranayama e
al Thokar.
Colpisce la capacità di sintesi quando afferma che tutto il cammino del
Kriya è il passaggio dal Prana dinamico al Prana statico; sentii un brivido
di delizia quando incontrai delle frasi che hanno in sé una luce incredibile:
«Kutastha è Dio, Lui è il Brahma supremo» o «Uno yogi che ha tagliato i
tre nodi diviene lui stesso Trivangamurari ovvero diviene Krishna stesso»!
Qui si percepisce l’essenzialità di Kabir, e nasce l’idea di sovrapporre gli
insegnamenti di entrambi ottenendo con ciò un miracolo di semplicità.
Il pensiero di Lahiri Mahasaya e di Kabir appare come quello di una
religione monoteistica in cui la realtà Omkar ha occupato il posto del "Dio
unico". Tutti i vari nomi della Divinità, usati da Lahiri Mahasaya nei suoi
diari scompaiono, diventano parole del tutto inutili poiché appare chiaro
che la realtà finale è Omkar!
81
Mi rendo conto che alcuni storceranno il naso sentendo parlare di religione.
Molte persone affrontano il Kriya con un atteggiamento sbagliato, quello
pseudo scientifico per cui facendo certe tecniche si hanno automaticamente
certi risultati. So che purtroppo molti insegnanti hanno strombazzato a
destra e a sinistra questa sciocchezza, alcuni attraggono persone al Kriya
promettendo risultati che gratificano l'ego. Questi insegnanti farebbero
bene a porre l’accento soltanto sul carattere mistico del Kriya. Sta al
ricercatore liberarsi da questo retaggio perché se pensa che il Kriya di
Lahiri Mahasaya sia un percorso di "crescita psicologica" e cerca risultati
in tale campo, allora prima o poi la sua molla iniziale d’entusiasmo andrà
esaurendosi.
Il Kriya non può divenire un sostituto della psicoterapia e anche se esso
crea un’inimitabile pulizia interiore, non può chiarire e risolvere cose che
devono essere risolte comportandosi con saggezza nella vita pratica.
Siamo esseri umani e anche se siamo le persone più razionali di questo
mondo, abbiamo bisogno di un sentiero che abbia un "cuore".
Nel Kriya Yoga noi dovremmo concepire la nostra meta come Omkar –
l’Amore, il Conforto e la Bellezza stessa.
Certo, dovremmo affrontare la pratica del Kriya senza aspettarci nulla in
cambio; piuttosto dovremmo rilassarci ricreando la memoria e l’atmosfera
delle esperienze più belle incontrate nella vita, sia dal punto di vista
estetico che sentimentale.
Avendo l'intelligenza per farlo, potremmo dare un colpo di piccone ad un
terreno arido e far scaturire una sorgente fresca: il potere trainante
dell’istinto spirituale, uno tra i più forti dell’uomo.
In questo modo potremmo entrare in uno stato vigile ma passivo ove la
"porta" comincerà ad aprirsi ed incontreremo l’abbraccio estatico di Om!
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CAPITOLO VI UNA DECISIONE DIFFICILE
85
LA PRIMA IDEA DI SCRIVERE UN LIBRO SUL KRIYA
Con rinnovato entusiasmo per l’austero ma, allo stesso tempo, ardente
sentiero del Kriya, un giorno, d’inverno, durante una pausa di sci, guardai
le montagne lontane che delimitavano, in tutte le direzioni, l'orizzonte.
Entro pochi minuti il sole le avrebbe dipinte di rosa, di più quelle ad
oriente, di un rosa che sfumava nel blu quelle ad occidente. Immaginai che
l’India fosse là dietro, che l’Himalaya fosse il prolungamento di quelle
montagne; il mio pensiero andò a tutti gli appassionati di Kriya che, come
me, trovavano degli ostacoli insuperabili nella comprensione della loro
amata disciplina. Per la prima volta osai contemplare un'immagine che
indugiava, forse da molto tempo, tra i miei pensieri: un libro sul Kriya
dove ogni tecnica fosse spiegata nei dettagli.
Tante volte avevo perso tempo a chiedermi cosa sarebbe successo se Lahiri
Mahasaya avesse scritto un siffatto testo. La mia immaginazione era
arrivata a visualizzare il colore della sua copertina, a dare uno sguardo alle
sue pagine, non molte, come gli Yoga Sutra di Patanjali. Forse alcuni
commentatori avrebbero tentato di "forzarne" il significato per adattarlo
alle loro teorie. Anzi, sono certo che qualche pseudo-guru avrebbe
suggerito che le tecniche incluse erano intese solo per i principianti, che
esistevano tecniche più "evolute" e che solamente delle persone
"autorizzate" potevano comunicarle, a pochi eletti, ovviamente. Alcuni
avrebbero abboccato, preso contatto con l'autore, pagato cifre enormi per
ricevere quelle tecniche che questi aveva creato con propria fantasia o che
aveva preso in prestito da qualche libro esoterico!
Il libro non esisteva. Cosa poteva succedere se io stesso lo avessi scritto?
Era difficile pur tuttavia possibile sintetizzare la totalità della mia
conoscenza in un libro, armonizzare teoria e tecniche in un’esposizione
pulita. Di sicuro l’intenzione non era quella di celebrare me stesso o porre
le fondamenta di una nuova scuola di Kriya. Se fosse necessario parlare
anche delle mie esperienze, questo sarebbe stato solamente per essere più
chiaro nelle spiegazioni teoriche e tecniche.
Il mio modello avrebbe potuto essere il libro di Theos Bernard Hatha Yoga
resoconto di un’esperienza personale [1943]. Questo manuale riesce più
che altri a chiarificare gli insegnamenti contenuti nei tre testi fondamentali
del tantrismo: Hatha Yoga Pradipika, Gheranda Samhita e Shiva Samhita.
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Nonostante gli anni trascorsi dalla sua pubblicazione ed i numerosi testi di
Hatha Yoga apparsi recentemente, tale libro rimane ancora uno dei
migliori. Un lavoro analogo sul Kriya sarebbe stato per molti ricercatori
una vera "manna dal cielo".
Non più retoriche affermazioni di legittimazione, non più frasi enigmatiche
per far intuire qualche particolare tecnico, creando però più dubbi di prima!
Sognavo un libro che provasse la sua validità incarnando il pensiero di
Lahiri Mahasaya nel modo più semplice e logico, in un insieme completo,
armonioso di tecniche.
Chiaramente, molti insegnanti di Kriya - quelli che vivono per mezzo delle
donazioni ricevute durante le iniziazioni e, grazie al vincolo della
segretezza, esercitano il loro potere sulle persone - avrebbero considerato il
libro una minaccia al loro lavoro. Forse quello che sembrava virtualmente
eterno per alcuni - vivere come dei pascià, circondati da persone pronte a
soddisfare tutti i loro capricci nella speranza di ricevere le briciole di
ipotetici "segreti" - avrebbe potuto cambiare, e lo temevano.
Questi avrebbero tentato di distruggerne l’affidabilità con una censura
impietosa. Già sentivo il loro commenti sprezzanti mentre lo sfogliavano
velocemente: «Contiene solo fantasie che nulla hanno a che vedere con
l'insegnamento di Babaji e Lahiri Mahasaya. Diffonde un insegnamento
falso!»
Ma un libro come il mio non poteva essere una minaccia alla attività di
nessun onesto insegnante di Kriya, soprattutto se questi avesse accettato di
comunicare tutte le parti del Kriya, gradualmente, con la delicatezza e la
cura richiese dalla materia, senza, per ragioni di convenienza legate al
mantenimento del proprio potere personale, tenere alcuna cosa per sé. Ma
come riassicurarli senza collidere con i condizionamenti radicati nella loro
stessa "chimica cerebrale"? Ero rammaricato che essi rimanessero
contrariati perché, come si dice, a me piace … vedere le persone contente!
Le persone "New Age", quelli che amano i testi arricchiti da varie
illustrazioni basate sul folclore indù, sarebbero rimasti certamente delusi
dalla sobrietà del libro e, affermando che «esso non possiede buone
vibrazioni», l'avrebbe messo da parte.
Ma per tutti coloro che amano il Kriya, scoprire che esiste un simile libro
sarebbe stato come un tocco magico che dissolve un incubo.
Io già vivevo in quella felicità.
87
Tramite loro il libro avrebbe continuato a circolare; e chissà quante volte
sarebbe ritornato davanti agli occhi di colui che ne aveva decretato la
condanna. Talvolta questi avrebbe dovuto far finta di non vedere che,
durante uno dei suoi seminari, qualche curioso lo stava esaminando per la
prima volta, perdendo con ciò parte della conferenza…
Mi beai per dei minuti in questi pensieri; poi ritornò con tutta la sua
forza devastante il senso della situazione attuale, riguardo alla diffusione
del Kriya.
La richiesta di segretezza aveva dato forza ad un circolo vizioso. I "saggi"
Acharya indiani non avevano "rappresentanti" in occidente ed i loro
studenti non avevano il permesso di insegnare nulla. Era impensabile che
ogni anno una serie innumerevole di voli charter trasportasse tutti gli
interessati al Kriya - non conta se vecchi o malati - presso un remoto
villaggio indiano, come un pellegrinaggio a Lourdes o a Fatima!
Molti ricercatori, non potendo recarsi in India, andarono presso alcuni
insegnanti presenti in occidente. Erano stati avvisati che questi erano
superficiali, che il loro contributo alla conoscenza del Kriya era
insignificante, pur tuttavia il pensiero di ricevere almeno qualche cosa
d’utile aveva vinto su ogni esitazione.
Gli Acharya indiani erano informati della situazione e si convinsero che,
stupidi come eravamo, non ci meritavamo un insegnante migliore,
autentico. La frattura tra loro e noi crebbe e divenne definitiva. Accecati
dai dogmi, decisero di rimanere chiusi nelle loro torri d'avorio e continuare
ad agire contro il buon senso, chiedendo ancora più segretezza ai loro
discepoli.
A deteriorare la situazione, voci sulle modifiche apportate al Kriya
crearono panico: persino il Navi Kriya ed il Thokar furono in alcuni Forum
considerati tecniche da non considerarsi originali. Un Kriyaban non poteva
che sentirsi disperato soffermandosi in tali siti con la speranza di trovare
importanti delucidazioni tecniche.
Talvolta in un simile Forum, frenesia, irritazione, ego ferito si
nascondevano dietro una maschera di gentilezza; spesso volgarità
irripetibili apparivano quando non c'era moderatore e le persone si
sentivano libere di offendere pesantemente coloro che la pensavano
diversamente. Ma quello che maggiormente indisponeva era leggere delle
risposte date a delle persone oneste che cercavano dei chiarimenti tecnici
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oppure s’informavano se esistessero delle fonti affidabili da cui ricevere
tali chiarimenti. C’erano sempre dei kriyaban che rispondevano con un
tono inaccettabile - con una finta gentilezza mista a commiserazione -
bollando come pericolosa mania il loro desiderio di approfondire
l’argomento del Kriya.
Quando un ricercatore chiedeva informazioni sul Kechari Mudra, spesso la
risposta era che esso «non è affatto importante o essenziale!», aggiungendo
altre banalità come il consiglio non richiesto di migliorare la profondità
delle tecniche già ricevute e di accontentarsi di ciò.
Con che faccia tosta osava lo scrivente - in un Forum dedicato al Kriya e
quindi alla teoria e anche alla pratica di esso – affermare il contrario di
quanto affermano tutti i maestri del Kriya?
Come osava, non invitato, entrare nella vita di un’altra persona, della quale
non sapeva nulla, trattandola da principiante incompetente e superficiale?
Era davvero tanto difficile rispondere: «Non conosco tale tecnica e
nemmeno quale istituzione cui poterti rivolgere»?
Chiusi gli occhi, la situazione attuale mi parve un’assurdità che
purtroppo vestiva i panni di un incubo - la mia anima era straziata.
Osservando il cielo blu sopra l'orlo dorato delle montagne che stavano
diventando rosa compresi che il libro avrebbe dovuto essere scritto.
Certo che non era possibile rompere il vincolo della segretezza nel Kriya
senza sconvolgere anche il mito del rapporto Guru-discepolo. Avrei dovuto
combattere una battaglia anzitutto entro me stesso, avrei dovuto ripulirmi
da grossi condizionamenti. Sopraffatto da un senso di spossatezza, ritornai
pigramente a casa.
A sera mi sentivo esaurito, stranamente non eccitato a riguardo del
progetto. Rimasi per un po’ inginocchiato davanti al divano con la faccia
sprofondata tra i cuscini. Regolai il lettore CD con la funzione "repeat" sul
secondo movimento del Concerto Imperatore di Beethoven. Era mai
successo che qualcuno, ben caricato delle Guru’s blessings [benedizioni
del Guru] ricevute frequentando tutte le possibili cerimonie di iniziazione
condotte dai canali legittimi, praticasse il Kriya con quella dignità e
coraggio con cui Beethoven sfidò il suo destino?
Abbassai le luci e contemplai il sole che scendeva in lontananza dietro gli
alberi in cima ad una collina. La silouette di un cipresso eclissava in parte
il grosso disco del sole, rosso come il sangue. Quella era la bellezza eterna!
Mi sedetti un po’ assonnato; una strana immagine afferrò la mia
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attenzione: quello dell'"investitura" di Vivekananda da parte del suo Guru
Ramakrishna. Avevo letto che un giorno, verso la fine della sua esistenza
terrena, Ramakrishna entrò in Samadhi mentre il suo discepolo
Vivekananda [Naren] gli era vicino. Quest’ultimo cominciò a sentire una
forte corrente, poi perse conoscenza. Quando ritornò in sé, il suo Guru,
piangendo, gli sussurrò: «O mio Naren, oggi ti ho dato tutto, ora sono
divenuto un povero fachiro, non possiedo nulla; con questo potere farai un
immenso bene al mondo». In seguito Ramakrishna spiegò che i poteri che
aveva passato a Vivekananda non potevano essere utilizzati dal suo
discepolo per accelerare la propria realizzazione spirituale - perché ognuno
deve sostenere da solo tale fatica - ma lo avrebbero aiutato nella sua
missione futura quale insegnante spirituale.
Penso che il mio inconscio si manifestò con quest’immagine come per
ammonirmi a non cedere alla tentazione di gettare via qualcosa di valido e
prezioso. Ora, se noi affermiamo che Ramakrishna era il Guru di
Vivekananda affermiamo un fatto autentico e di profondità insondabile.
Cominciò ad albeggiare la consapevolezza che il problema non stava nel
concetto di Guru, che comunque meritava esplorato appieno, ma su che
cosa noi qui in occidente avevamo fatto di tale concetto.
IL CONCETTO DI GURU
Per anni avevo subito ogni tipo di pressione per identificare il Guru
con Dio; l’organizzazione da me frequentata - che sosteneva di essere il
prolungamento nel tempo e nello spazio dell’azione del Guru – doveva
essere quindi considerata la materializzazione delle benedizioni Divine.
Avevo accettato la segretezza come un dogma inviolabile voluto da Dio
stesso, non una scelta umana.
Eppure sentivo che la segretezza non era così importante; mi era noto che,
spesso, i discepoli di Lahiri Mahasaya conoscevano in anticipo le tecniche
che avrebbero ricevuto con l’iniziazione.
Non c'è prova che Egli sia stato intransigente per quanto riguarda la
segretezza, intesa come condividere dettagli tecnici. Lui chiedeva una
discrezione d'insieme, il mantenere il silenzio sull’intera faccenda; questa
è una cosa diversa!
Sapeva bene che, specialmente all'inizio dell’impresa, vi era una tendenza
latente nel kriyaban a sprecare molto tempo ed energia nel comunicare ai
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suoi amici l'oggetto del nuovo interesse. Ciò contribuiva a produrre una
situazione molto stressante: il kriyaban, infatti, si sentiva coinvolto nel
reagire alla critica e al sarcasmo - oppure, talvolta, a lasciarsi invischiare
nel recitare la parte della guida spirituale.
Non credo che Lahiri Mahasaya temesse una libera diffusione del Kriya -
un'idea simile non può confarsi con alcuno dei suoi ideali - quanto una
pericolosa, inutile, dissipazione di energia. Il compito di essere una guida
spirituale e condividere liberamente le tecniche fu da Lui assegnato ai
discepoli capaci e forti abbastanza da sostenere quest’esigente ruolo.
Oggigiorno, gli Acharya e le organizzazioni pongono l’accento non tanto
sulla discrezione ma sul non rivelare le procedure del Kriya.
Ora, chi è avvantaggiato dal fatto che la segretezza sia mantenuta?
Le organizzazioni affermano che questa regola è stata concepita per
«mantenere gli insegnamenti puri», ma l'evento paradossale è che proprio
da loro tutta una serie di modifiche nella pratica del Kriya prese l’avvio!
Gli Acharya affermano che è pericoloso dare tecniche evolute a persone
che non sono pronte a sostenerne il potere - e citano alcune delle frasi di
Lahiri Mahasaya sull’argomento - ma non è forse questo quello che loro
stanno facendo durante le iniziazioni di massa, dove non c’è alcun contatto
personale tra insegnante e studente?
Fin qui arrivava il mio pensiero e qui si fermò - per mesi.
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Pensando all’indimenticabile, straordinario discorso di Dostoevsky sul
ruolo dei padri anziani - Starec - nei monasteri Russi [I fratelli
Karamazov], non mi sognerei nemmeno di metterlo in discussione.
«Ma allora che cos'è uno starec? Lo starec è colui che accoglie la vostra anima,
la vostra volontà nella propria anima, nella propria volontà. Quando scegliete
uno starec, voi rinunciate alla vostra volontà e gliela affidate in completa
sottomissione, con assoluta abnegazione. Questo tirocinio, questa terribile scuola
di vita viene accettata spontaneamente da colui che offre se stesso, nella
speranza, al termine della lunga prova, di sconfiggere il proprio essere e di
dominarsi fino al punto di conquistare infine, attraverso una vita di ubbidienza,
la libertà assoluta, vale a dire la libertà da se stesso, per evitare il destino di
coloro che hanno vissuto tutta una vita senza trovare dentro di sé se stessi. »
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nel Kriya, il segno dell’avvenuta maturazione dello studente in un vero
discepolo.
No, decisamente non potevo accettare più queste storielle infantili; era il
momento di riattivare l’uso del cervello e fare i conti con ciò che mi
sembrava irreale, in contrasto con la tradizione indiana, come pure con
quella di altre tradizioni mistiche.
Mi apparve, evidentemente suggerita da passate riflessioni, l’idea di una
rete; ogni individualità era un nodo dal quale partivano diversi
collegamenti, come quelli fra i neuroni del cervello. Quando il singolo
individuo si muoveva - intendo un movimento significativo come un
deciso progresso sul sentiero mistico -, egli muoveva anche l’intera rete
nelle immediate prossimità. Chi avanza sul sentiero spirituale non è, infatti,
mai isolato: comincia a sentire la risposta positiva di altre persone e sarà
rallentato dalla loro indolenza e apatia. È essenziale capire che se x
trascina y, qualche volta avviene anche, inevitabilmente, che y trascini x.
Vidi che il concetto di rapporto Guru-discepolo trovava in questo
fenomeno la sua base. Ramakrishna e Vivekananda avevano due
personalità diverse ma in profondità erano una sola cosa: l’amore li aveva
legati inscindibilmente.
Una persona riesce a trascinare un'altra persona in avanti, vale a dire a
favorire il suo progresso spirituale, solo se possiede un particolare potere
che si è guadagnato, costruito da solo, che nessuno può attribuirgli
formalmente – che non nasce per esempio dall’aver ricevuto
l’autorizzazione di iniziare altri al Kriya.
Come il lettore sa, Jung affermò che c’è un livello più profondo
dell'Inconscio che è «ereditato con la nostra struttura cerebrale» e consiste
dei «modi umani tipici di risposta» alle situazioni più intense che possono
accadere nella vita - nascita, morte, malattia, famiglia, guerra... -.
Noi esseri umani siamo legati l'un l'altro attraverso questo Inconscio
Collettivo. Se per Freud l’Inconscio era una parte della psiche simile ad un
deposito pieno di vecchie cose "rimosse" - rifiutate da un atto quasi
automatico della volontà - un ammasso che oggi non riusciamo più a
richiamare alla coscienza - questo Inconscio Collettivo lega insieme tutti
gli esseri umani attraverso gli strati più profondi della coscienza.
Chi ritiene di aver ricevuto legittimamente il potere di iniziare, farebbe
bene a riflettere se tra lui e il discepolo cui concede l’iniziazione esiste un
simile legame.
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Accettare un discepolo non si risolve nel darsi da fare per spiegargli il
Kriya, ma consiste nella lucida e coerente accettazione di futuri grovigli o
sofferenze che tale rapporto potrà comportare. Anche se ci sentiamo
protetti dalla nostra fervente aspirazione per il Divino, è saggio riflettere
sulla nostra fragilità e vulnerabilità.
IL LAVORO
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Effettivamente, questi anni sono stati del tutto diversi dal resto della mia
vita. La gran quantità di esperimenti che feci aveva un solo scopo: se una
certa variante di una tecnica Kriya - che mi era stata proposta in passato –
era superflua e senza alcuna efficacia, essa finiva necessariamente per auto
eliminarsi. Alla luce della pratica, il nucleo essenziale di ciascuna tecnica,
privo di fronzoli, appariva come un qualcosa di ovvio, inevitabile, che non
poteva essere altro che così. Tuttavia rimaneva l’impressione di trovarmi a
ricomporre un ampio puzzle, senza avere qualsiasi anteprima di quello che
sarebbe apparso alla fine. Procedevo mettendo ogni cosa al suo posto;
alcune tecniche appartenevano al Primo Kriya nella sua forma più
semplice, altre alla sua forma più evoluta; alcune tecniche apparivano
come un’arbitraria semplificazione di altre e non dovevano essere citate nel
libro; altre erano una variante che aveva la sua ragione d’essere e quindi
dovevano essere citate.
Dopo aver vissuto la deludente esperienza con la mia prima scuola di
Kriya, nulla di quello che appresi fu considerato come verità sacrosanta.
Quando si perde l’innocenza, cioè quando il primo maestro in cui si è
riposta la più totale fiducia ci ha deluso, quando s’incontrano le prove che
ci ha mentito - anche se tante voci gridano che era per il nostro bene - non
si può più credere ciecamente ad alcuno!
Un insieme di tecniche, che mi era stato presentato come il Dhyana Kriya,
stonava terribilmente. Lo strumento base di queste era il potere, portato
all’esasperazione, della visualizzazione.
Già eminenti scrittori [vedi Puran Purush] avevano fatto notare come tali
pratiche non potevano avere diritto di cittadinanza nel Kriya di Lahiri; esse
non avevano alcun aggancio con altre tradizioni mistiche ma presentavano
una forte analogia con la tradizione esoterica o magica. Non avevano nulla
a che fare con la percezione Omkar o con lo stato di assenza di respiro. Mi
sentii sollevato nel ripulire per sempre la mia vita da tale ciarpame.
Ora il quadro apparve armonioso e completo: tutte le tecniche, da quelle
del primo Kriya agli ultimi Kriya superiori, collaboravano ciascuna con
tutte le altre. In questo modo il puzzle appariva completo.
Le prime tecniche base contenevano, potenzialmente, le successive, le
quali ne erano un approfondimento.
C’era la tangibile evidenza che sin dal primo momento ogni dettaglio
tecnico prepara le fasi evolute del sentiero.
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Quanto sarebbe stato sciocco - come alcune scuole pretendevano - di
lavorare dei mesi a familiarizzarsi con un certo percorso d’energia, per poi
sentirsi dire che non era il definitivo, che uno migliore sarebbe stato
ottenuto tramite l’iniziazione ad un Kriya superiore!
Il quadro quindi poteva dirsi complesso solo per il fatto che conteneva
diversi gradi di raffinamento, non per altri motivi.
Mentre non trovavo difficoltà a descrivere le prime esperienze da
autodidatta oppure quelle ai tempi della prima scuola di Kriya, tentando
invece di mettere per iscritto le mie osservazioni personali relative alle
tecniche Kriya, quelle che avevo tutte le ragioni di considerare come
originali, incontrai un sostanziale impedimento.
Il racconto delle prime esperienze era volto solo a chiarire al lettore quanto
grande fosse stata la mia attrazione verso il Kriya e quanto disperata e
caotica fosse stata la mia ricerca; nel trattare le esperienze autentiche del
Kriya originale di Lahiri Mahasaya avrei voluto che il lettore incontrasse il
Kriya Yoga soltanto per quello che esso era, senza essere filtrato dalla mia
esperienza.
Eppure non era certo fare giustizia al Kriya presentare delle tecniche senza
vita, descritte quasi per soddisfare la curiosità, superficiale e insaziabile, di
alcuni lettori. Era un fatto vitale quello di mostrare che cosa una tecnica
diventa nella vita.
Mi ricordai della prima idea relativa al mio libro, quella di considerare il
lavoro di Theos Bernard [Hatha Yoga: Sintesi di un’esperienza personale]
come un esempio da seguire. Tecniche su cui si era posata la povere del
tempo, diventavano più che mai attuali, fattibili, chiare davanti agli occhi
della nostra intuizione.
Non c’era altra soluzione che mantenere un tono personale nella
discussione degli effetti delle tecniche, e questo inserito in uno schema più
ampio di riflessioni di natura didattica.
Naturalmente queste riflessioni dovevano essere aggiunte alla fine di
ciascun capitolo, ben staccate dall’enunciazione pulita delle tecniche, in
modo tale che il lettore potesse saltarle, se lo desiderava.
Per capire le ragioni di un’ultima difficoltà bisogna aprire una parentesi.
Nella stessa esperienza personale di Lahiri Mahasaya, ci volle del tempo
prima che una serie di dettagli fossero sistemati in una definitiva visione
teorica.
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Quello che Lahiri Mahasaya insegnò all’inizio della sua diffusione del
Kriya fu un po’ diverso da quello che Lui aveva in mente alla fine della
Sua vita terrena.
Le differenze tra le varie scuole di Kriya non sono sempre causate dalla
tendenza a semplificare o modificare, ma anche ad epoche diverse in cui i
discepoli appresero il Kriya da Lahiri Mahasaya.
Questo non deve portare alla visione estrema secondo cui Lahiri Mahasaya
diede a ciascun discepolo una tecnica diversa, "personale" - accettare ciò
vorrebbe dire sancire la fine del Kriya Yoga!
Comprendiamo che quando un discepolo si presentava una seconda volta
davanti a Lahiri Mahasaya, poteva ricevere il Thokar quale "Seconda
iniziazione" o "Secondo Kriya" o, invece, essere istruito su come porsi in
sintonia più profonda con la realtà Omkar, come percepire meglio la realtà
dei Chakra, come identificare la loro sede nella spina dorsale e nel
Kutastha… e tale istruzione sarebbe stata per lui il "Secondo Kriya".
Nella mia descrizione dunque non potevo e non dovevo appoggiarmi, una
volta per tutte, su quanto un qualsivoglia insegnante di Kriya,
contrapponendosi ad altre tradizioni, sosteneva; dovevo trovare il coraggio
di proporre un sistema che rappresentasse il mio - dunque relativo e quindi
criticabile - tentativo di fare una sintesi.
Più pensavo a come uscire da questa situazione disagevole, più scoprivo
che il mio pensare, che credevo chiaro, era davvero incerto e
contraddittorio.Irritato ed incline all’esasperazione, quando riuscivo ad
esprimere un'idea, mi sentivo, il giorno successivo, insoddisfatto.
La decisione pratica su quale fosse l’ordine d’esposizione delle varie
tecniche fu, infine, presa.
Per quanto riguarda i Kriya Superiori, mi parve logico incominciare con il
Thokar e finire con le sottigliezze della percezione Omkar.
Mi sentii sollevato e, con questo principio in mente, fui capace di
concludere il libro.
Naturalmente se una persona dovesse pretendere da me una prova certa
dell’autenticità delle tecniche, non potrà che restare delusa.
Posso solo assicurare che l’insieme delle tecniche condivise nel libro non
deriva solo da un’unica fonte, che insegnanti diversi, ricercatori spirituali
che studiarono con altri insegnanti ed il mio studio personale contribuirono
a definirlo.
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Colui che ricerca il Kriya originale, dopo aver letto quello che ho scritto,
dovrebbe comunque portare avanti la sua ricerca: se qualcosa di utile egli
può trarre dalla mia ricerca, questo non riguarda più me.
Così come è avvenuto nella mia vita, il ricercatore non sarà mai soddisfatto
fin quando non scenderà in campo e si "sporcherà" le mani.
Se s’impegnerà al cento per cento, a cercare solo la meta mistica e non la
chimera di un’ipotetica "crescita personale", allora l’Intelligenza che sta
all’interno della vibrazione Omkar sarà la sua guida.
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Quando ritornò in Italia lo incontrai: era molto felice e mi chiese di
praticare il Pranayama davanti a lui. Affermò che riscontrava un errore
nella mia pratica. Quando gli chiesi di cosa si trattasse, la sua risposta mi
gelò: affermò, infatti, che non poteva dirlo perché aveva promesso
solennemente all’insegnante di non rivelare nulla.
Lui aveva chiesto all’insegnante il permesso di correggere eventuali nostri
errori: la risposta era stata negativa anzi il maestro aveva preteso un vero e
proprio giuramento di non rivelare nulla.
Quest’insegnante - che aveva manifestato l’intenzione di aiutarci - aveva
forse paura che, una volta chiarito l’errore, non ci saremmo più recato da
lui? Era veramente così meschino?
Non pretendevo certo che il mio amico mi raccontasse per filo e per segno
tutte le cose che si erano dette lui e l’insegnante; non potevo e non volevo
entrare nell’intimità di quella esperienza, ma come poteva quel Maestro
lasciarmi continuare con quello che riteneva un errore? Trovai questo fatto
allucinante. Reagii molto male, troncai ogni discussione e me ne andai via.
Ripensando all’episodio compresi qual era questo particolare errato: non
avevo fatto un respiro particolarmente addominale, ero sicuro di questo
perché era l’unica cosa che il mio amico fu capace di vedere – non
parlammo di dettagli interiori della pratica.
Ormai ogni esitazione era vinta; chiesi l’aiuto di un amico per controllare
la traduzione inglese del libro e lo pubblicai su Internet.
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