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Kriya  Yoga:  sintesi di un’esperienza personale 

Autore: Ennio Nimis

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PRIMA PARTE: STORIA DI UNA RICERCA SPIRITUALE

5 Capitolo I AUTODIDATTA
6 Esercizio di vuoto mentale
7 Necessità di una più ampia disciplina

12 Capitolo II PRANAYAMA
12 Teoria del Pranayama classico
14 Routine di base
16 Kriya Pranayama appreso dai libri
22 Esperienza nella spina dorsale

29 Capitolo III UN’ORGANIZZAZIONE BASATA SUL KRIYA


32 Forte condizionamento
33 Un gruppo di Kriya
38 Tecniche Hong So e Om
42 Difficoltà con gli insegnamenti del Kriya

52 Capitolo IV JAPA E LO STATO DI ASSENZA DI RESPIRO


57 Patanjali: come costruire una routine Kriya
60 Japa e l’assenza di respiro

64 Capitolo V LA DIMENSIONE OMKAR DEL KRIYA YOGA


66 Il mio primo insegnante del Kriya originale
69 Il mio secondo insegnante
73 Toccare il fondo
79 La dimensione mistica del Kriya

83 Capitolo VI UNA DECISIONE DIFFICILE


83 Preghiera interiore e Kriya
86 La prima idea di scrivere un libro sul Kriya
90 Il concetto di Guru
95 Il lavoro

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SECONDA PARTE: KRIYA YOGA IN PRATICA

101 Capitolo VII PRIMO KRIYA E SILENZIO MENTALE


105 Chakra e Kriya Yoga
108 Tecniche di base del primo Kriya
118 Altre informazioni

123 Capitolo VIII PRIMO KRIYA E SINTONIA CON OMKAR


125 Migliorare il Kriya indipendentemente dal Kechari Mudra
134 Migliorare il Kriya per mezzo del Kechari Mudra

139 Capitolo IX PROFONDA TRASFORMAZIONE PER MEZZO DEI


PROCESSI VERTICALI

145 Capitolo X KRIYA SUPERIORI


147 Secondo Kriya
149 Terzo Kriya
153 Quarto Kriya

158 Capitolo XI IMPORTANTI VARIANTI DEI KRIYA SUPERIORI


159 Primo insieme di tecniche
165 Secondo insieme di tecniche

178 Capitolo XII IL SIGNIFICATO DEI QUATTRO LIVELLI DEL KRIYA

APPENDICE: SEMPLICE DIGRESSIONE SUL KRIYA YOGA

197 A… Comprendere l’essenza del Kriya Yoga


204 B… Atteggiamenti impropri
230 C… Un sentiero pulito

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CAPITOLO I AUTODIDATTA

La mia ricerca spirituale cominciò quando, affascinato in modo


inesplicabile dalle persone sedute nella "posizione del loto", comprai un
libro introduttivo allo Yoga classico. Il fatto di poter fare qualcosa
d’importante senza muovermi da alcuna parte, senza i rischi e i pericoli
degli sport classici, mi attraeva come se mi trovassi davanti ad un’arte, la
più perfetta di tutte, che non presentava dei limiti intrinsechi.
Una gran fiducia verso «certe pratiche orientali» mi era stata comunicata
anche da un compagno di scuola, il quale aveva detto di possedere un testo
dove erano spiegati, in tutti i dettagli, degli esercizi di respirazione -
Pranayama - aggiungendo che: «questi esercizi ti trasformano dentro...».
Cosa poteva significare ciò? Non poteva certo riferirsi solo al
conseguimento di particolari condizioni di rilassamento o di
concentrazione; sicuramente non all’aderire ad una particolare filosofia.
Intendeva qualcosa di più coinvolgente. L'intuizione mi suggerì la
possibilità, di grande attrattiva, che il Pranayama risvegliasse alcune
facoltà latenti.
L'amico non si decise a prestarmi il libro e dopo alcuni giorni non ci
pensai più. Avvenne che un semplice testo, Yoga in 20 lezioni, esposto
presso l’edicola della stazione ferroviaria, attirò la mia attenzione e lo
acquistai. In un angolo della nostra palestra, durante le lezioni di
Educazione Fisica, dopo gli esercizi preliminari di riscaldamento, fatti in
gruppo, l’insegnante mi dava il permesso di separarmi dai compagni di
classe – che si divertivano con qualche gioco di squadra – e dedicarmi a
padroneggiare alcune posizioni di Yoga (Asana). [L’insegnante era
stupefatto nell’osservare come riuscissi a muovere i muscoli addominali
per mezzo della tecnica Nauli.]
Obiettivamente il libro non era di qualità mediocre: c'era, insieme a ogni
posizione, il chiarimento del significato del nome che la designava, una
breve annotazione sul miglior atteggiamento mentale nei confronti della
pratica e molte considerazioni su come ciascuna poteva stimolare certe
particolari funzioni fisiologiche (importanti ghiandole endocrine ecc.). Era
chiaro che queste posizioni non dovevano essere considerate come un
semplice "lavoro di stretching", ma come un mezzo per fornire uno stimolo
complessivo a tutti gli organi interni per aumentare la vitalità. Il senso di

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benessere, percepito alla fine della sessione parlava in favore dell’utilità di
questa pratica.

ESERCIZIO DI VUOTO MENTALE

Un capitolo intero era dedicato alla "Posizione del cadavere", Savasana,


da praticarsi per ultima.
Per quanto riguarda le istruzioni, penso che l'autore ci avesse messo
qualche cosa appresa in altri contesti. Tale insegnamento, trattato con gran
cura, costituiva un profondo esercizio di concentrazione. L’autore
prometteva che, in un intervallo di venti minuti, era possibile ottenere un
«riposo mentale equivalente a tre ore di sonno».
Il testo non perdeva di vista ciò cui mirava [come accertai di conseguenza
con la maggioranza di libri che trattavano temi analoghi, attraverso
complicate dissertazioni sulle più svariate forme di energia, all'interno del
corpo ecc.] ma, con un linguaggio tipicamente occidentale, presentava
l’interessante possibilità di «fermare tutte le funzioni mentali mantenendo
una piena consapevolezza, senza per questo cadere nello stato di sonno».
Forniva, in altre parole, l'opportunità di porre a riposo le facoltà pensanti
per poter «ricaricare di fresca energia il nostro sistema psico-fisico ».
Descriverò brevemente l'esercizio che divenne poi un'abitudine
quotidiana: fu, per molte ragioni, essenziale; grazie ad esso, verificai una
volta per tutte la differenza fondamentale, tuttora cruciale per la mia
comprensione del Kriya Yoga, tra mente e consapevolezza.
La posizione da assumere era quella supina, le braccia distese lungo i lati
del corpo e una benda per coprire gli occhi, onde non essere disturbati dalla
luce. Dopo due o tre minuti di quiete, l'esercizio cominciava con
l'affermazione mentale: «sono rilassato, sono calmo, non penso a niente».
Dopo di questo, per entrare nello stato definito "vuoto mentale", era
necessario portare avanti una sola azione: dare una forma visiva ai pensieri,
spingendoli via, uno per volta, come se «una mano interna li trasportasse
dolcemente dal centro dello schermo mentale verso la sua periferia». Tutti i
pensieri, senza eccezioni, dovevano essere messi da parte, anche il
pensiero di star praticando una tecnica.
Per eseguire correttamente questo processo delicato era essenziale "vedere"
ogni pensiero, anche se questo aveva caratteristiche astratte. Non si doveva
mai rifiutare un pensiero, censurarlo, eliminarlo, ma solo creare una pausa

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nell'attività mentale. Visualizzandolo come un oggetto, lo si spostava da
parte mettendolo come "in attesa", impedendo così che esso sviluppasse, a
sua volta, un’ulteriore catena di altri pensieri.
In questo modo, dopo alcuni minuti, mentre una parte dell'essere si
raccoglieva nell'area tra le sopracciglia [nello Yoga è chiamata Kutastha] e
godeva di un piacevole senso di riposo, un'altra parte, senza disturbare, si
trovava alla periferia della precedente dove un minimo di attività mentale,
come la creazione d’indefinite immagini (in ogni caso tutte estremamente
gradevoli) sarebbe avvenuta. Alcuni minuti più tardi, la consapevolezza si
sarebbe tutta raccolta nella regione tra le sopracciglia, come dentro un
"piccolo stagno" di pace, e sarebbe rimasta ferma e tranquilla così per altri
minuti. Nonostante l'assenza di pensieri, la consapevolezza sarebbe sempre
rimasta sveglia e avrebbe gioito di un inimitabile senso di riposo.
Nella mia esperienza questo stato non durava più di 10 o 15 minuti e
l'esercizio, nella sua totalità, preparazione compresa, non superava i 25-30
minuti. La tecnica finiva inevitabilmente in un modo "curioso": lo stato di
calma profonda era interrotto dal pensiero che l'esercizio doveva ancora
essere intrapreso, al quale il corpo reagiva con un fremito e il cuore batteva
più veloce. Poi appariva la consapevolezza che invece esso era stato
portato perfettamente a termine e che il tempo prescritto era trascorso.

NECESSITÀ DI UNA PIÙ AMPIA DISCIPLINA

Da bravo studente, usai tale mezzo per riposare, di pomeriggio, tra una
sessione di studio e quella successiva; cominciai ad affezionarmi ad esso.
Quanto stavo sperimentando non mi lasciava indifferente: era interessante
osservare il modo in cui il processo mentale poteva essere
momentaneamente arrestato, il modo in cui la sua apparente consistenza si
affievoliva mentre la consapevolezza pura, autonoma da contenuti, si
rivelava. Il Cartesiano: «Penso dunque sono», gradualmente divenne:
«Pensando in modo irrequieto corsi il rischio di vivere senza neanche
rendermi conto che esistevo; questa realizzazione avvenne, invece, non
appena imparai a pensare in un modo calmo ed ordinato».
Il momento decisivo fu quando provai ad estendere le dinamiche
essenziali di questa tecnica alla vita pratica - applicando la stessa disciplina
ai pensieri nei momenti di inattività. Lo scopo non era più quello di
riposare, quanto quello di sperimentare quel particolare stato, superiore e

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completamente di là della mente, che cominciavo ad intuire essere la mia
più vera essenza.
Mentre stavo portando avanti quest’intenzione, mi rendevo sempre più
conto dell'effetto negativo che una mente indisciplinata era capace di
esercitare sull’esperienze della vita. Nelle mie osservazioni non fui
condizionato dall’appartenere a tale o tal altro sistema filosofico. Cercai di
rendermi conto delle cause di così tanti fallimenti umani, particolarmente
quelli che non mi sembravano per niente ineluttabili.
La più importante realizzazione era che la mente, di solito iperattiva,
muovendosi caoticamente, esauriva ogni fonte di vitalità, tessendo una rete
d’inutili pensieri, come una coperta soffocante, intorno alla
consapevolezza, alla vita stessa. Questo rendeva difficile ottenere una
relazione autentica e sana con le belle esperienze nella vita, con quelle che
possono condurre ad una crescita interiore.
La mia determinazione era quella di disciplinare la mente per porre fine a
questa situazione e rinnovare le forze interiori, lasciando indietro i modi
errati e disordinati di pensare. Volevo evitare di perdermi nell’alternanza di
diverse spinte emotive che emergevano alla coscienza come molte diverse
personalità.
Avvenne però che, estendendo l'esercizio alla vita, praticandolo durante i
vari momenti di pausa, mi avvicinai ad uno stato d’animo veramente
sgradevole. Talvolta sperimentai un’ansia quasi intollerabile: qualche volta
vera e propria angoscia. La mia vita sembrava emergere come un'isola da
un oceano di dolore.
Questa così semplice azione di sospendere i pensieri era, infatti, divenuta -
e tale era percepita - un atto di rinuncia ad ampio-spettro; quasi come se
fossi entrato in una specie di "morte interiore", in un "vuoto" devastante, il
modo solito di vivere si era spento.
Ora non mi è difficile vedere che tutto quello che dovevo fare era soltanto
restare calmo e attraversare lo strato di emozioni negative e procedere;
invece continuai a coltivare intenzionalmente piccoli ed inutili nuovi
pensieri per fuggire da quel triste abisso. L'istinto era di sopravvivere
nutrendomi continuamente di innumerevoli piccole, evanescenti emozioni;
mi aggrappavo a loro come se fossero l'unico calore capace dare un
significato alla mia esistenza e proteggerla da qualsivoglia sgradevole
rivelazione.

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Era chiaro che il continuo nutrire pensieri e conseguenti emozioni stava
corrodendo la possibilità di sperimentare sentimenti autentici. Non potevo
continuare a vivere alienandomi continuamente da me stesso, perché - ora
ne sono completamente consapevole - non sarei riuscito nello stabilirmi in
alcun’integra realtà; al contrario avrei provocato solamente l'esaurimento
totale delle mie energie e, alla fine, sarei stato completamente intrappolato
in un vero vuoto patologico, lo stesso da cui ora volevo fuggir via.
In questo difficile momento, mi venne in aiuto, infondendo coraggio e
la determinazione di non abbandonare la lotta, qualcosa che trovai nella
mia cultura - non era orientale ma tipicamente occidentale.
I concetti di Reincarnazione, Karma, Dharma, Maya e simili, non mi
hanno aiutato nelle grandi svolte della mia vita. Non era davvero possibile,
almeno per me, risolvere i problemi aderendo "ipso facto" ai modi orientali
di pensare, intuiti da semplici letture.
In quella fase della mia vita mi attirò quasi istintivamente la Sinfonia No.2
di Mahler "Resurrezione". Nella quiete della mia stanza ero solito
ascoltarne un'incisione cercando - anche leggendo tutto quello che potevo
trovare su di essa - di penetrarne il significato.
Tale sinfonia, ascoltata tante volte, mi ritornava in mente durante il giorno
mentre studiavo e mi accompagnava nella vita. Cresceva, si amplificava
nei momenti di pace, espandendo gli stati elevati della mia mente, per
divenire un'esperienza di beatitudine che, nonostante la costernazione della
ragione, mi regalava un momentaneo conforto.
Le parole «Sterben werd ich, um zu leben!» - Morirò per vivere! -, scritte
dallo stesso Mahler e cantate dal coro nell'ultimo movimento sinfonico,
erano un'eco chiara al mio progetto; quella musica e quelle parole
divennero come un filo attorno al quale il mio pensiero si cristallizzò,
mentre il fascino dell’intera opera ripristinò in un modo chiaro una visione
d’infantile bellezza. Mahler accarezzava con la sua sensibilità - senza
crederci fino in fondo, tale fu allora la mia percezione - una soluzione
"religiosa." Nelle parole finali «Was du geschlagen, zu Gott wird es dich
tragen!» - quello che tu stesso ti sei guadagnato, ti porterà a Dio! - mi
sembrò volesse dire: «il fatto stesso che hai continuato a lottare,
incessantemente, ti ricompenserà con la immersione finale nella Luce».
Mentre mi stavo confrontando con l’irragionevole oscurità che, come ho
detto, pareva fungere da fondamento alla mia esistenza, incapace di

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accettare il sollievo della religione, continuai a ripetere internamente:
«Morirò per vivere»!
Ero deciso a rifiutare il "conforto" dei pensieri, le "piccole lucette" di
una mente che scintillava nella notte dell'insicurezza; volli mettere la
parola fine a tutto ciò che non era vero, attraversare con gli occhi ben
aperti un vasto territorio di dolore e incontrare la verità, non importa quale
fosse.
Intuivo oscuramente che dovevo morire a me stesso, che ciò era la più
grande e nobile cosa che potevo fare; morire ad ogni attaccamento alla vita
puramente mentale di cui sentivo la potenziale pericolosità e che si era
dimostrata, per alcune persone, essere un vero e proprio veleno.
In quel periodo vissi anche qualcosa di molto difficile dal punto di vista
affettivo. I problemi non arrivano mai da soli: la vita mentale ed affettiva
sono interdipendenti. Ciò di cui non riuscivo a trovare soluzione - verso il
quale la mia emotività mi spingeva a fare dei passi sicuramente distruttivi -
veniva offerto ad una specie di altare interiore: il rito abituale, quotidiano -
necessario come l’aria - di ascoltare musica classica.
Ascoltavo anche Beethoven: lo studio della sua vita, in particolare, era il
nutrimento della mia anima.
La tragedia della sordità lo colpì nel pieno della sua stagione creativa.
Reagì in un modo dignitoso decidendo di portare avanti, in condizioni
quasi impossibili, il suo sentiero artistico. Il tremendo impatto umano della
sua coraggiosa decisione si può trovare nel Testamento di Heiligestadt.
Estrasse dalle profondità del suo essere una musica incomparabile da
offrire ai suoi fratelli, all’umanità. La mia religione era il sublime che
parlava attraverso la sua musica. Esso rappresentava un sereno scavalcare
i limiti della vita reale e placava il mio anelito.
Mai e poi mai avrei pensato che a tale poesia anche lo Yoga mi potesse
guidare: tale disciplina pareva fatta solo per passare attraverso il muro dei
pensieri che esaurivano la mia linfa vitale. Non era difficile intuire che -
quando dall’esterno proveniva uno stimolo estetico - lo Yoga potesse darmi
una duratura base di lucidità, aiutandomi a mantenere la sua bella
atmosfera durante la notte che si nutriva della linfa nerastra delle mie
paure.
L’intuito mi diceva che una salda forza mentale poteva essere raggiunta
estendendo la mia disciplina all’intero sistema dell’Hatha Yoga.

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Quest’idea riempì di una fievole speranza il mio grigio. Per alcune
settimane, più di mezz’ora volava via in piacevoli esercizi.
Un libro attirò la mia attenzione sul luminoso potere del Pranayama; tutto
quello che di fisico facevo non era altro che una preparazione ad esso! Un
lampo improvviso pose il silenzio e la quiete nel mio essere; i primi
accenni al Pranayama, fatti da quell’amico, accesero la splendente
intuizione che attraverso quella disciplina avrei potuto imparare il segreto
per "morire a me stesso".
Delle annotazioni prudenziali nel libro - invece di smorzare il mio
entusiasmo e guidarmi ad una estrema prudenza - me ne accesero invece
un desiderio insaziabile.
Avevo letto che «se il Pranayama è praticato in modo esagerato, esso
scuoterà le basi del modo normale di vivere». Tale raccomandazione, portò
il mio interesse all'esasperazione, poiché tutto quello che stavo tentando di
realizzare consisteva nel far sì che le cose all'interno di me cambiassero in
qualche modo. Avevo bisogno di una qualsivoglia "miscela esplosiva" per
sopraffare le resistenze interne; persino un "terremoto interno" era da
preferirsi alla presente stagnazione.
La decisione di cominciare la pratica del Pranayama cambiò il corso della
mia vita. Piantai questa disciplina come un seme nella devastazione della
mia anima: crebbe illimitatamente in gioia e libertà interiore. Nella
Bhagavad Gita troviamo scritto: «Yoga è la liberazione dal contatto con il
dolore e la sfortuna. [Colui che pratica] conosce l’eterna gioia, quella che è
oltre il confine dei nostri sensi e la ragione non può sostenere.»
Richiamando alla mente le parole di quell’amico che un tempo aveva
destato il mio interesse verso il Pranayama, posso dire che questa
disciplina implicò molto di più che un vago cambiamento interiore. Afferrò
la mia speranza e la portò avanti.

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CAPITOLO II PRANAYAMA

Ora descriverò nei dettagli il modo in cui praticai il Pranayama,


premettendo una breve teoria. Mi perdoni il lettore se questo implica un
cambiamento nella natura della narrazione.

TEORIA DEL PRANAYAMA CLASSICO

Non è un compito difficile capire che gli esercizi di respirazione non


sono volti ad allenare i muscoli del torace, fortificare il diaframma o creare
delle condizioni particolari d’ossigenazione di sangue ma ad agire
sull'energia - Prana - presente nel nostro sistema psicofisico.
Durante tale pratica, si cerca di percepire i flussi d’energia attraverso canali
sottili chiamati Nadi. I principali sono Ida, che fluisce verticalmente lungo
il lato sinistro della colonna spinale - si dice che possieda una natura
femminile - e Pingala - di natura maschile - che fluisce parallelamente alla
precedente. Nel mezzo fluisce Sushumna, al di sopra della dualità inerente
alle precedenti Nadi. Non è difficile pensare che tali canali, proprio come i
tubi che conducono l'acqua nelle case, possano essere "arrugginiti",
"sporchi", "ostruiti" e che questo fatto implichi una diminuzione della
vitalità nel corpo. L'ammontare dell’"immondizia" nelle Nadi può essere
collegato a disarmonia e conflitti nella nostra disposizione d’animo; così,
pulendo questi canali attraverso le tecniche di Pranayama si ottiene una
trasformazione anche nella personalità.
Ci sono momenti nella nostra vita nei quali ci sentiamo più esteriorizzati,
altri in cui siamo più interiorizzati; in una persona sana quest’alternanza è
caratterizzata da un equilibrio tra una vita di rapporti positivi ed un
contatto sereno con la profondità del proprio essere.
Sfortunatamente, molte persone vivono al di fuori di tale armonia. Colui
che è troppo introverso incomincia a perdere il contatto con la realtà
esterna, al punto che questa "si farà sentire" esercitando - per reazione -
un’eccessiva influenza e quindi distruggerà la pace interna; chi è troppo
estroverso si cagionerà ben presto tutti quei sintomi che sono
comunemente considerati l'inizio di una nevrosi.

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Attraverso la pratica del Pranayama, specificamente la varietà a narici-
alternate, tali tendenze opposte verranno, almeno temporaneamente,
equilibrate.
In pratica, c’è più gran consapevolezza emotiva, criteri più precisi di
valutazione e più abilità di elaborare le informazioni, più grande
intelligenza operativa. Da questa più efficiente sinergia tra pensiero e
affettività, ne verrà un’emozionalità più intensa e calibrata ed un pensiero
logico più chiaro, preciso e completo. Da quest’equilibrio nasce
l'intuizione la quale permette di passare sopra la logica sequenziale del
pensiero razionale ed affrontare quei momenti della vita nei quali uno è
tenuto a prendere delle importanti decisioni.
Chiaramente il buon senso suggerisce che il Pranayama non può essere un
trucco per risolvere automaticamente i propri problemi psicologici ed
esistenziali. Quando la pratica è incominciata, si deve usare tutta la forza
interiore possibile per realizzare un migliore modo di "vivere" e
considerare tutte le misure necessarie per sfidare gli ostacoli interni;
solamente così la pratica del Pranayama potrà collaborare con un stabile
rinnovamento interiore.
Quando s’incominciano a percepire i primi buoni effetti derivanti dalla
pratica, la persona è incoraggiata a persistere con la pratica andando anzi
sempre più in profondità, cercando "qualcosa di più". Questo " di più " è
l’attivazione della corrente Sushumna che, fluendo, crea un'esperienza di
gioia, felicità, esaltazione. Questo è l’inizio vero e proprio dell’avventura
"mistica", un processo che si mette in moto nonostante il soggetto potrebbe
non avere alcun barlume sul significato di tal esperienza.

Naturalmente nulla di quanto detto può essere verificato


scientificamente; io decisi di verificare queste ipotesi. Attraverso una
pratica seria, volli vedere da me se la disciplina del Pranayama era
realmente dotata di tale forte potenzialità!
Intrapresi questa pratica in un "modo assoluto", con una concentrazione
feroce, quasi fosse la mia unica ragione di vita. Oggi, a distanza di decenni,
ricordo con nostalgia quest’intensità, specialmente se realizzo che mi
manca la spontaneità iniziale.

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ROUTINE DI BASE

a…Nadi Sodhana.
È importante pulire le narici prima di cominciare l'esercizio, così che il
respiro possa fluire liberamente. Questo può essere fatto usando acqua,
inalando essenza d’eucalipto e soffiandosi il naso. Talvolta qualcuno si
lamenta del fatto che una delle due narici è sempre ostruita: questo è un
problema medico che va preso nella dovuta considerazione. Se l’ostruzione
è causata da un serio raffreddore, non si dovrebbe praticare nessun
esercizio di Pranayama.
Per incominciare la bocca deve essere chiusa, la narice destra deve essere
tenuta chiusa dal pollice destro e l’aria è lentamente, uniformemente e
profondamente inspirata attraverso la narice sinistra. L’inspirazione dura
da sei a dieci secondi. È importante non esagerare e sentire l’esercizio
come faticoso. Dopo avere inspirato attraverso la narice sinistra, lo yogi
chiude la narice sinistra col mignolo ed anulare - sempre della stessa mano
- ed espira attraverso la narice destra, sempre secondo lo stesso lento,
uniforme e profondo ritmo. Poi, le narici si scambiano il ruolo:
mantenendo chiusa la narice sinistra, l’aria è lentamente, uniformemente e
profondamente inspirata attraverso la narice destra. Poi, chiudendo la
narice destra col pollice, l’espirazione avviene attraverso la narice sinistra,
sempre in modo lento, uniforme e profondo.
Questo è un ciclo: all’inizio se ne fanno sei, poi dodici.
Uno yogi può usare un conteggio mentale per essere sicuro che
inspirazione ed espirazione abbiano la stessa durata. È possibile fare una
breve pausa dopo ciascun’inspirazione contando mentalmente fino a tre. Le
dita possono essere usate per aprire e chiudere le narici in diversi modi ed
ognuno può fare come preferisce.
[Una tradizione suggerisce che l'espirazione duri un tempo doppio di
quello usato per l'inspirazione, mentre la pausa dopo l'inspirazione duri un
tempo di ben quattro volte tanto; io non ho mai applicato tali consigli,
trovandoli innaturali]

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b…Ujjayi
La tecnica consiste nell'inspirare profondamente e poi espirare attraverso
entrambe le narici, producendo un suono nella gola. Durante l’espirazione
tale suono non è forte come durante l'inspirazione. Dopo la pratica d’alcuni
giorni, l'azione respiratoria si allunga senza sforzo. Quest’esercizio è
praticato normalmente per dodici volte.
[Un conteggio mentale aiuta a far sì che inspirazione ed espirazione
abbiano la stessa durata. È importante non solo concentrarsi sul processo
stesso, ma anche sul senso di benessere e di calma indotta; in tal modo la
concentrazione si approfondisce.]

c…Bandha
Il collo e la gola sono leggermente contratti, mentre il mento s’inclina
verso il petto (Jalandhara Bandha). I muscoli addominali sono
leggermente contratti per intensificare la percezione d’energia nella spina
dorsale (Uddiyana Bandha). I muscoli del perineo - tra l'ano e gli organi
genitali - sono contratti come a volerli sollevare verticalmente e inoltre, in
contemporanea, la parte inferiore dell'addome è premuta indietro (Mula
Bandha). I tre Bandhas sono applicati simultaneamente e mantenuti per
approssimativamente quattro secondi onde provocare una lieve vibrazione
del corpo; quest’esercizio è ripetuto per tre volte.
Col tempo, una sensazione di corrente energetica che sale lungo la colonna
spinale - un brivido interno quasi estatico - può essere percepito.
[Queste "contrazioni" portano l'energia nella colonna spinale; nel Kriya
Yoga le ritroveremo nel Maha Mudra].

d…Stato finale
Con un atteggiamento di profondo rilassamento, l'attenzione, per almeno
cinque minuti, è intensamente indirizzata nel Kutastha - il punto tra le
sopracciglia.

Praticai questa routine il mattino e la sera stando attento a che lo


stomaco fosse vuoto. Essa era preceduta da qualche esercizio di stretching
o, quando avevo più tempo, da qualche semplice Asana. Praticai la
sessione di Pranayama nella posizione del mezzo-loto, seduto sul bordo di
un cuscino e tenendo la schiena in posizione diritta.

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Talvolta nei primi giorni di sole dopo l'inverno, quando i cieli erano
cristallini, blu come non lo erano mai stati, praticai spesso all'aria aperta.
Contemplavo ciò che mi circondava: se in una fossa piena di vecchi
cespugli, ricoperti dall'edera, il sole riversava la sua luce su dei fiori come
quelli che un mese prima erano sbocciati durante i freddi giorni invernali
ed in quel momento si attardavano nonostante i giorni più miti,
quest’incantevole radiosità, mi ispirava.
In quello splendido scenario mi concentravo nell’applicare correttamente le
istruzioni; poi, la bellezza delle sensazioni alternate di fresco e di tepore
prodotte dall’aria che sfiorava la mano, usata per aprire e chiudere le
narici, mi catturava; mi concentravo sulla pressione, sul fluire lieve e
uniforme del respiro…
Divenendo consapevole di ciascun particolare tecnico riuscivo a mantenere
una vigile attenzione senza esserne stressato. In questo modo la pratica si
rivelò essere molto piacevole.

KRIYA PRANAYAMA APPRESO DAI LIBRI

Dopo avere acquistato le opere di Ramakrishna e Vivekananda e un


bel libro coi commenti agli Yoga Sutra di Patanjali - una antica opera,
fondamentale per capire le basi dello Yoga, specialmente del Pranayama -
decisi in fine di acquistare l’autobiografia di un Santo Indiano, un libro da
cui già ero stato attratto anni prima ma che non avevo acquistato.
Era appassionato di manuali pratici ma pensai che avrei potuto trovarvi
delle buone informazioni, degli indirizzi di valide scuole di Yoga.
L’autore che indicherò con P.Y. era un esperto di quel genere di
Pranayama, che fu per primo insegnato da Lahiri Mahasaya col nome di
Kriya Yoga.
Egli scrisse che questa tecnica poteva essere padroneggiata con una pratica
graduale di quattro precisi livelli: questo fatto accese la mia curiosità;
amavo il Pranayama e l’idea di poterlo migliorare mi sembrava qualcosa
di meraviglioso.
Se le tecniche che avevo già praticato mi avevano dato risultati così belli,
era chiaro che il sistema fatto di quattro livelli li avrebbe ingranditi; Lahiri
Mahasaya era descritto come l'incarnazione dello Yoga: questo mi faceva
pensare che ci doveva essere qualcosa di unico nel suo "sentiero"!

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Da un lato, continuai a leggere tutti i libri, che riuscivo a trovare, scritti da
quest’autore [alcuni erano in Italiano, alcuni in Inglese], dall’altro lato
cominciai ad esplorare tutta la letteratura che riuscivo a trovare sullo Yoga.
Leggendo P.Y. fui stupito dalla sua personalità, dotata d’incomparabile
potere di volontà e spirito pratico.
Lo studio dei suoi scritti mi emozionava ma non quando parlava con un
tono puramente devozionale, bensì quando assumeva un tono tecnico che
mi permetteva di avvicinarmi all'arte sottile del Kriya - la consideravo
un'arte in continuo perfezionamento, non un qualcosa di religioso.
Ero entusiasmato dalla forza con la quale l'autore poneva l’accento sul
valore evolutivo del Pranayama, specificando: evoluzione spirituale,
mentale e fisica.
Spiegava che se noi paragoniamo la spina dorsale ad una sostanza
ferromagnetica, costituita, come insegna la Fisica, di magneti elementari
che si volgono verso la stessa direzione quando un campo magnetico è
sovrapposto ad essi, allora l'azione del Pranayama è analoga a questo
processo di magnetizzazione.
Era implicito che, durante questa pratica, ci si dovesse concentrare
sull'energia interna e farla ruotare, in qualche modo, attorno ai Chakra.
Creando un orientamento uniforme di tutte le parti "sottili" dell’essenza
fisica e astrale della nostra spina dorsale, il Pranayama avrebbe bruciato i
cosiddetti "cattivi semi" del nostro Karma.
[È bene ricordare che "Reincarnazione" e Karma sono le basi del pensiero
indiano e di Lahiri Mahasaya stesso, ecco perché vale la pena di parlarne
liberamente - naturalmente il Kriya è una pratica che può essere
sperimentata senza dovere necessariamente accettare alcun credo.
Ci riferiamo al Karma, quando riportiamo la comune credenza che una
persona erediti dalle vite precedenti una gran massa di tendenze latenti,
comparabili a semi destinati a fiorire, alla fine, nella vita attuale. Secondo
questa credenza, il Pranayama può essere considerato un processo che
esaurisce gli effetti di quei semi prima che diventino manifesti nella vita.
È spiegato ulteriormente che le persone che sono attirate intuitivamente da
metodi di sviluppo spirituale come il Kriya, hanno già praticato qualcosa di
analogo nell’"incarnazione precedente". Si fa notare, infatti, che tale azione
non è mai invano e nella presente incarnazione la persona riprende il suo
cammino esattamente da dove, in un passato remoto, era stata costretta ad
abbandonarlo.]
17
Il mio problema urgente era decidere se dovevo, o no, partire per l'India
dove cercare un insegnante per ottenere tutti i chiarimenti necessari al
Kriya. Siccome progettavo di completare al più presto possibile i miei
studi universitari, esclusi un viaggio immediato.
Mi decisi piuttosto a rimanere dov’ero e tentare di migliorare il Pranayama
usando i libri che potevo trovare sullo Yoga - poco importava in che lingua
fossero scritti.
La domanda era: come trasformare la pratica attuale in modo che l'energia
interna si muovesse attorno ai Chakra?
Se questo era - come P.Y. affermava - un processo universale, non c'era
dubbio che avrei trovato sue tracce attraverso altre fonti, anzi forse sarei
stato capace di discernere l’intero sistema del Kriya nei suoi quattro livelli.

Qualcosa riposto in un angolo della mia memoria mi ritornò vivo


davanti agli occhi. Quando ero piccolo, leggevo tutto ciò che mi capitava
tra le mani, specialmente libri censurati dalla Chiesa o, per qualche
ragione, considerati non adatti alla mia età; ero orgoglioso di esercitare una
totale libertà di scelta; non badavo ad alcun suggerimento. Sprecai molto
tempo in letture di poco conto; tra quel gran mucchio non era possibile
distinguere in anticipo i libri che avevano un po' di valore, da così tanti
altri che, pur avendo un titolo allettante contenevano le invenzioni di
coloro che amavano sbalordire le persone. Alla fine compresi di aver fatto
un viaggio in un indistinto caos. Capivo con amarezza che i segreti più
preziosi erano ancora a me ben nascosti in qualche altro libro che non ero
stato abbastanza fortunato di trovare.
Mi ricordavo, indistintamente, di aver visto dei disegni che ritraevano, di
profilo, una persona: c’erano diversi circuiti di movimento energetico che
attraversavano il suo corpo. Nacque l’idea di cercare la necessaria
informazione nella sfera esoterica piuttosto che nei libri classici di Yoga.
Cominciai a frequentare una rivendita di libri usati; essa era molto ben
fornita, probabilmente perché una volta era stata la libreria di riferimento
della Società Teosofica. Trascurai i testi che trattavano solo di temi
filosofici, mentre, estatico e senza badare al tempo, sfogliavo quelli che
illustravano degli esercizi pratici.
Prima di acquistare un libro mi assicuravo che contenesse istruzioni
relative alla possibilità di guidare l'energia lungo i canali interni, meglio se
18
esse promettevano di creare un'azione sull'energia di Kundalini,
risvegliandola.
Fin dalla prima visita fui molto fortunato; leggendo l'indice di un testo in
tre volumi, che presentava il pensiero magico di una famosa confraternita,
fui attirato dal titolo di un capitolo: Esercizio di respirazione per il
risveglio di Kundalini.
In realtà delle mille e più pagine che sfogliai affrettatamente in pochi
giorni, solamente due o tre erano degne di essere lette. Esse contenevano
un approfondimento del Nadi Sodhana; questo era, secondo gli autori, il
segreto per svegliare l'energia misteriosa!
Tentando di ricostruire la tecnica a memoria - poiché non la sto praticando
più e non possiedo quel libro - ricordo che il segreto era di inspirare
attraverso la narice sinistra, visualizzare una corrente energetica che dal
naso scendeva entro il corpo fino alla base della spina dorsale; la sillaba
sacra Om colpiva tre volte il Chakra Muladhar.
Poi, espirando, una corrente partiva dal Muladhar, saliva nel corpo, in
particolarmente nella spina dorsale, ed era chiaramente percepita.
Delle note ammonivano che l'esercizio non doveva essere usato in modo
esagerato, perché rischiava di risvegliare Kundalini prematuramente. Ciò
doveva essere evitato con tutti i mezzi.
Di sicuro, questo non poteva essere il Kriya di P.Y., il quale, da vari indizi,
non era eseguito respirando alternativamente attraverso le narici.
Continuai a frequentare la libreria; il proprietario era molto gentile con me
ed io mi sentivo quasi obbligato, anche in considerazione del prezzo
conveniente dei libri - di seconda mano ma in condizioni perfette - di
comprarne almeno uno ad ogni visita. Qualche volta rimasi deluso; troppo
spazio era destinato a teorie che rifuggivano dai semplici concetti che
trattavano della vita pratica, cercando di descrivere quello che non è visto,
quello che non può essere sperimentato - i mondi astrali, i vari gusci sottili
d’energia che avvolgono il nostro corpo fisico…. mentre precise pratiche
erano aggiunte alla fine, a mo’ di appendice.
Tra queste c’erano delle tecniche dai nomi più allettanti che non erano altro
che esercizi di visualizzazione attraverso i quali una persona sperava di
materializzare i suoi progetti, i suoi desideri.
Un giorno, dopo una faticosa selezione, mi avvicinai al proprietario
tenendo in mano un libro; forse mi lesse negli occhi che non ero sicuro del

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suo valore e mentre lo riguardava decidendo il prezzo, sembrò ricordare
qualche cosa che avrebbe potuto accendere il mio interesse.
Mi condusse in un angolo nascosto del suo negozio e m’invitò a frugare in
un mucchio disordinato di fogli contenuti in una scatola di cartone. Tra una
quantità consistente di materiale miscellaneo (serie complete della rivista
teosofica, note sparse di un vecchio corso di ipnosi ecc.) - trovai un
libretto, scritto in tedesco da un certo K. Spiesberger che illustrava, tra
alcune tecniche esoteriche, delle tecniche di Mantra. Quasi all’inizio
m’imbattei nel Respiro Kundalini.
Non avevo allora abbastanza dimestichezza con la lingua tedesca, ma
riuscii ad intuire subito la straordinaria importanza di quella tecnica; a
casa, con l'aiuto di un dizionario, sarei riuscito indubbiamente a decifrarla.
[Sorrido quando sento persone affermare di essere appassionati di Kriya, e
tuttavia non si danno da fare nello studiare importanti testi in inglese,
avendo paura, presumibilmente, di interpretare male tale idioma! Sono
convinto che il loro interesse è superficiale e piuttosto emotivo. Tale era il
mio entusiasmo, che sarei stato in grado di mettermi a studiare il Sanscrito
o il Cinese, o qualsiasi altra lingua nella quale, ahimè, fossero stati
compilati gli insegnamenti essenziali del Pranayama!
La descrizione del Respiro Kundalini ancora mi stupisce; l’autore, infatti,
non era tanto vicino al Kriya di Lahiri Mahasaya quanto alla versione
portata in occidente da P.Y. Durante un respiro profondo, l'aria era
immaginata, invece del suo corso abituale, fluire dentro la colonna spinale.
Era perciò indicata la visualizzazione della spina dorsale come fosse un
tubo vuoto. Inspirando l'aria, questa doveva essere immaginata fluire
dentro il tubo cavo dalla base fino alla zona tra le sopracciglia; espirando,
si sarebbe dovuto sentire che l'aria andava in giù verso il Muladhar lungo
lo stesso percorso.]
In un altro libro, in Inglese, c’era una descrizione esaustiva del Respiro
Magico - che era circa lo stesso esercizio.
[In esso l'energia non era da percepirsi all’interno della spina dorsale, ma
"intorno" ad essa, seguendo un percorso ellittico. Tramite l'inspirazione,
l'energia saliva dietro la colonna spinale, fino al centro della testa;
espirando, scendeva lungo la parte frontale del corpo. Questo è ciò che
avviene nel "Piccolo Circolo", la tecnica descritta nei testi dell'Alchimia
Interiore che rappresenta la tradizione mistica dell’antica Cina].

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Lasciai da parte tutto l'altro materiale. L’espressione di soddisfazione
che mostri davanti al proprietario della libreria, come se avessi trovato un
tesoro di valore insondabile, mi cagionò certamente un aumento di prezzo.
Ritornando a casa, non potevo non trattenermi dallo sfogliare quelle
pagine, molto curioso a riguardo di alcuni disegni grezzi che illustravano
altre tecniche basate sul movimento dell’energia interiore.
Qualcosa che lessi sul valore del Respiro Magico mi riempì della più gran
curiosità ed entusiasmo: c’era scritto che questo era uno dei segreti più
preziosi delle scuole esoteriche di tutti i tempi. Se praticato costantemente,
con forza di visualizzazione, avrebbe costruito una specie di sostanza
interna che avrebbe poi condotto alla visione dell'occhio spirituale.
Studiando attentamente queste due tecniche, mi convinsi che il Respiro
Magico era sicuramente il Kriya di Lahiri Mahasaya, mentre l'altra, il
Respiro Kundalini ne era una variante. Lo praticai per alcuni mesi.

Ero al settimo cielo, perché con questo approfondimento del


Pranayama ottenevo momenti estremamente belli. Sentivo come se la
percezione delle cose fosse cambiata: cercavo il calore dei più intensi
colori, come se essi riflettessero la mia radiosità interna.
La pratica dello Yoga gradualmente stava integrandosi con la mia vita.
Tante volte ebbi occasione di osservare un cambiamento nel
funzionamento complessivo della mia mente - memoria, concentrazione... -
questo accadeva sopratutto durante gli esami.
Alcuni minuti prima di sostenere un esame, praticando un po’ di
Pranayama, ero investito da un’improvvisa calma che durava per l’intero
esame, non importa quale fosse l'atteggiamento dell'esaminatore.
Non mi sentivo per niente nervoso. Ero capace di essere totalmente
padrone delle mie parole, tanto da esprimere non solo quello che sapevo,
ma anche qualche cosa più - come se alcuni concetti divenissero allora
chiari per la prima volta. Con quest’esperienza, una nuova epoca
incominciò.
Nel frattempo la Primavera era ritornata e con essa l’abitudine di
praticare, specie verso l’ora del tramonto, in campagna.
Alla fine della pratica, quando la mia vista si muoveva attorno liberamente,
appariva un panorama tra le foglie: un gruppo di case distanti che
circondavano un campanile. Chiudevo gli occhi e mi affidavo ad

21
un’interna radiosità. Ero immerso nell’estasi! Attraverso quella "luce" non
era difficile attraversare il muro della dimensione psicologica.
Ricordo come, durante un quieto pomeriggio, poco prima del tramonto,
mentre mi trovavo in un boschetto, le parole di un commento filosofico ad
alcune Upanishad, mi balzarono alla mente e cominciai a ripetere: «Tu sei
Quello». Non so se la mia intuizione riusciva ad afferrare
l’incommensurabile implicazione di quell’affermazione, ma sì … io ero
quella luce che filtrava attraverso le foglie, di un verde incredibilmente
delicato perché era primavera ed erano appena nate.
A casa, non tentavo neppure di stendere su carta i vari "momenti di grazia"
esperiti - non sarei stato capace di farlo. Il mio unico desiderio era di
immergermi sempre più in questa nuova esperienza interiore.

ESPERIENZA NELLA SPINA DORSALE

Una notte avvenne qualcosa di nuovo, di radicalmente diverso da


qualsiasi cosa mai sperimentata prima.
Quanto sto per descrivere è indubbiamente un evento "intimo", ma,
tuttavia, per condividere l'esperienza del Kriya credo sia corretto
raccontare nei dettagli quello che non può essere considerato un vago
fenomeno spirituale ma una conseguenza ben-definita cui la pratica del
Pranayama mi aveva portato. Per me non c’è dubbio che la routine, nel
modo in cui fu concepita, con un profondo Ujjayi, una pratica intensa dei
Bandha, una concentrazione quasi incandescente nel Kutastha produsse
quest’esperienza. Molti lettori riconosceranno nella seguente descrizione la
loro stessa esperienza.

Una notte, assorbito nella lettura, ebbi un brivido, come una corrente
elettrica che attraversava il corpo. L'esperienza non aveva nulla di speciale,
ma l’intuito mi annunciò un'esperienza più profonda.
I minuti trascorrevano, ma non ero capace di proseguire con la lettura;
percepivo un senso di inquietudine che si trasformò in ansia, e poi divenne
paura, una paura intensa di qualche cosa di ignoto, una minaccia alla mia
esistenza. Non avevo davvero mai provato un simile terrore. In momenti di
pericolo, mi era capitato di restare come paralizzato, incapace di pensare,
ma ora l'ansia era di qualità diversa, era panico per qualche cosa d’alieno
all'esperienza comune, qualche cosa di assolutamente imprevedibile.

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Mentre la mente prevedeva le peggiori ipotesi su quanto stava per
accadere, sentivo l'urgenza di fare qualcosa, anche se non sapevo cosa.
Assunsi la posizione di meditazione ed attesi.
Mi sembrava d’essere vicino alla pazzia - o alla morte. Una parte di me,
forse la totalità di quell'entità che io chiamo "me stesso", sembrava al
punto di scomparire; i peggiori pensieri, minacciosi, senza una chiara
ragione erano sospesi sopra di me. In quei giorni avevo finito Kundalini,
l'energia evolutiva dell’uomo di Gopi Krishna. L'autore descriveva come,
seguendo un’intensa pratica di concentrazione sul settimo Chakra, aveva
avuto un'esperienza splendida di "risveglio", mentre, dopo di ciò,
probabilmente perché il corpo non era preparato, aveva incontrato dei seri
problemi fisici e, di riflesso, anche psichici.
Secondo quella descrizione, nel suo corpo un'energia si era messa in
movimento dalla base della spina dorsale verso il cervello. Talmente forte
era il flusso da costringerlo a letto ed impedire il completamento delle
normali funzioni fisiche. Aveva l’impressione di stare letteralmente
bruciando di un fuoco interno, che non riusciva a spegnere in alcun modo.
Settimane più tardi scoprì intuitivamente come controllare il fenomeno, il
quale si trasformò in una fondamentale esperienza di realizzazione
spirituale.
Per quel che mi riguarda, temevo di essere arrivato alla soglia della stessa
esperienza ma, siccome non vivevo in India, ero spaventato che le persone
attorno a me non potessero capire; in tal caso l'esperienza sarebbe stata
terribile! Nessuno avrebbe potuto assicurarmi che, come accadde a Gopi
Krishna, essa si sarebbe indirizzata verso un esito corretto, benefico.
Durante quei momenti, il mondo spirituale mi sembrava un orribile incubo,
capace distruggere, annientare la persona che gli si era avvicinata
imprudentemente. La vita consueta, al contrario, mi sembrava la realtà più
cara, più sana. Temevo di non riuscire più a ritornare in quella condizione.
Ero convinto nel modo più assoluto che una malattia mentale stesse
facendo a pezzi il mio essere: la ragione era che avevo aperto una porta
sull'infinito, e questo era molto più immenso di quanto potevo
prefigurarmi.
Decisi di fermare l’esperienza e rimandare, se possibile, il momento fatale.
Non ero nell'umore adatto per rimanere nella posizione di meditazione.
Sentivo che dovevo alzarmi, uscire all'aria aperta. Era notte e non c'era
alcuno con cui scambiare due parole! Al centro del cortile di casa mi
23
trovavo oppresso, soffocato, schiacciato da un sentimento di disperazione,
invidiando quelle persone che non avevano mai praticato lo Yoga,
provando rimorso perché, attraverso parole aspre, avevo ferito un amico.
Lui, come molti altri, aveva un tempo preso parte alla mia ricerca; poi
aveva rinunciato alla pratica e si era preoccupato soltanto di godersi la vita.
Dotato di una giovanile baldanza, gli avevo indirizzato parole per nulla
affettuose, e queste mi rintronavano ora in testa; provavo dolore per aver
espresso una crudeltà ingiustificata senza sapere che cosa realmente vi
fosse nella mente e nell’anima dell’amico.
Avrei fatto qualsiasi cosa per averlo di nuovo davanti a me, per potergli
dire quanto mi spiaceva. Sentivo di aver violato brutalmente il suo diritto a
vivere come meglio credeva: non aveva cercato altro che la salute
psicologica e non si era arrischiato ad avventurarsi in pratiche di cui non si
sentiva sicuro o che, intuiva, avrebbero potuto arrecargli più problemi di
quanti ne avessi.
Considerata la mia gran passione per musica classica, pensai che una bella
musica avrebbe avuto un effetto calmante, forse una protezione
dall'angoscia, forse un aiuto per ritornare indietro... perché non tentare? Fu
la musica di Beethoven - il suo Concerto per violino ed orchestra – a
calmarmi e, mezz’ora dopo, a conciliarmi il sonno.
La mattina seguente mi svegliai con la stessa paura. Ciononostante, avevo
un intero giorno davanti a me, la luce del sole stava risplendendo, mi sarei
distratto in mezzo ad altre persone.
Uscii ed incontrai degli amici. Non dissi nulla di quello che stavo
sperimentando, cercai di nascondere la mia angoscia, passai il pomeriggio
scherzando su varie cose, comportandomi proprio come le persone che
avevo sempre considerato pigre e intellettualmente spente.
Il primo giorno passò così - la mia mente era logora; dopo due giorni,
ciononostante, la paura diminuì e finalmente mi sentii sicuro.
In ogni modo, qualche cosa in me era cambiata: non riuscivo infatti a
pensare al cammino spirituale. Rifuggivo da quell'idea!
Se pensavo agli esercizi di Yoga provavo nausea e paura. La nozione stessa
del "Divino" mi dava un senso d’orrore!
Una settimana più tardi, distaccato e calmo, cominciai a pensare al
significato di quello che era accaduto; compresi la natura della mia
reazione. Avevo, da codardo, volto le spalle proprio all'esperienza che
avevo perseguito per così lungo tempo!
24
La dignità presente nel profondo del mio animo mi diceva che dovevo
ricominciare la ricerca dal punto dove l’avevo abbandonata, accettando
tutto quello che sarebbe accaduto, lasciando che ogni cosa seguisse il suo
corso, anche se ciò avesse implicato la perdita della mia vita o della salute
mentale. Ripresi la pratica del Pranayama, inseguendo la stessa esperienza
che non ero stato capace di sostenere, solo che, questa volta, avevo preso la
determinazione di non fuggire via.
Alcuni giorni passarono e non percepii alcuna forma di paura; poi
sperimentai qualche cosa di tremendamente bello, presi parte a un
fenomeno fantastico che, da quel momento in poi, si sarebbe ripetuto
diverse volte.

Era notte. Mi trovavo rilassato in Savasana, quando percepii una


piacevole sensazione, come se un vento elettrico stesse soffiando nella
parte esterna del corpo, propagandosi rapidamente e con un moto ondoso,
dai piedi alla testa. Il corpo era così stanco che non potevo muovermi,
anche se la mia mente impartì l’ordine di muovermi. La Tranquillità era
così profonda, che non avevo alcun timore. Ero capace di mantenere la
totalità del mio essere assolutamente composta e serena.
Poi il vento elettrico fu sostituito da un’altra sensazione, comparabile ad
un’enorme forza che entrava nella spina dorsale e rapidamente saliva al
cervello. Quell'esperienza fu caratterizzata da un indescrivibile e fino
allora ignoto senso di beatitudine, e tutto fu accompagnato dalla percezione
di un’intensa luminosità. Posso condensare tutto ciò che riesco a ricordare
con un’espressione - «una certezza chiara ed euforica di esistere come
oceano illimitato di consapevolezza e beatitudine! ».
Nell’opera Dio esiste, io l’ho incontrato, l'autore, A.Frossard, tenta di
descrivere un'esperienza simile usando il concetto di "valanga al
contrario". La valanga è qualcosa che crolla, che va in giù, prima
lentamente, poi in modo più veloce e violento allo stesso tempo. Frossard
suggerisce di immaginare una "valanga al contrario" che comincia
raccogliendo le forze ai piedi della montagna e sale verso l'alto spinta da
un potere che aumenta e poi, improvvisamente, fa un balzo verso il cielo.
Non so quanto tempo durò quest’esperienza, ma il suo colmo fu di soli
pochi secondi, dopo i quali la mia coscienza mollò la presa e si lasciò
cadere in un sonno calmo ed ininterrotto.

25
Stranamente, il giorno seguente, quando mi svegliai, non ci pensai; mi
venne in testa solo alcune ore più tardi, quando ero all'aria aperta.
Fui preso dalla bellezza di quell’esperienza e, appoggiandomi ad un albero,
per molti minuti fui letteralmente affascinato dal quel ricordo e dal
riverbero di quello stato d’anima. Il pensiero cercava di familiarizzarsi –
compito impossibile - con un'esperienza che lo travalicava.
Tutto ciò che fino allora avevo pensato sullo Yoga non aveva affatto
importanza. Per me l'esperienza era come essere stato colpito da un
fulmine. Non avevo nemmeno la possibilità di scoprire quali parti di me
erano ancora là e quali erano scomparse per sempre, non ero capace di
capire realmente quello che mi era accaduto, piuttosto non ero sicuro se
"qualcosa" fosse davvero accaduto.
Passarono alcuni giorni, belli, e poi, gradualmente, una certezza d’eternità,
una condizione che si distendeva oltre i confini della mia consapevolezza,
come una memoria che si nascondeva nei recessi della coscienza, cominciò
a rivelarsi, come se una nuova zona del mio cervello si fosse messa in
moto verso un pieno risveglio. Avevo scoperto qualche cosa che
apparteneva a me e presto o tardi lo avrei padroneggiato ed espanso sino
agli estremi confini!
Più tardi fui testimone di quest’esperienza ancora tante volte. Quando
mi impegnavo nello studio fino a notte tarda e mi concedevo, ogni tanto,
un breve riposo, nel momento in cui, esausto, mi distendevo per dormire,
dopo alcuni minuti questa esperienza avveniva invariabilmente, e la salita
dell'energia avveniva molte volte.
Negli anni seguenti ebbi l’opportunità di verificare delle cose in comune
con le persone che avevano avuto presumibilmente la stessa esperienza.
Anzitutto, una pratica di qualche forma di meditazione caratterizzata da
una profonda concentrazione nel Kutastha; in secondo luogo, la presenza
di un’aspirazione intensa non importa verso cosa, purché si potesse
assimilare ad una destinazione spirituale e, infine, un lavoro mentale
intenso, come lo studio, durante il quale era importante non cedere alla
tendenza naturale di addormentarsi. Cominciai a considerare quest’evento
come un segno della correttezza del mio modo di praticare e della forza
della mia aspirazione verso la meta spirituale.
La mia pratica terminava sempre con una concentrazione molto intensa sul
Kutastha come se la mia vita dipendesse dal risultato di tale azione.

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Talvolta la tensione cresceva e diveniva quello che è riferito nei testi
orientali: «come anelare al respiro mentre si sta affogando».
È chiaro che il risveglio dell’energia non avveniva nel momento in cui la
tensione si esplicava, ma più tardi. Lo stato di coscienza doveva trovarsi
raggiungere una condizione favorevole, una dimensione intermedia tra
sonno e veglia. Qualche volta, pochi istanti prima che emergesse, un
paesaggio meraviglioso - permeato da un senso di irrealtà - appariva alla
mia visione interiore.

Commisi l’errore di tentare di trasmettere ad altri le mie scoperte di di


raccontare la mia esperienza. Parlai un po’ troppo, tanto da generare una
violenta reazione. Lasciamo perdere la diagnosi di pazzia e di seri disturbi
mentali, che alcuni proposero, quasi per scongiurare la fatica di ascoltarmi
attentamente. Secondo loro non solo ero la vittima di un'illusione, ma non
ero capace d’amare, rispettare e mostrare disponibilità umana verso altri.
Il conflitto nacque a causa della mia persistenza. Allora mi sembrava così
facile aprire loro gli occhi, liberarli dalla prigione mentale ed emotiva nella
quale davo per scontato che stessero vivendo.
Per me, la miseria umana risiedeva unicamente nella tirannia del pensiero.
Perciò cercavo di renderli consapevoli di un qualcosa che era come uno
schermo - fatto di inutili pensieri e di irrequiete emozioni – che impediva
l'immensa esperienza spirituale d’illimitata gioia che si trovava appena
dietro l'angoscia e l'agonia della loro esistenza.
Ero fin troppo convinto che il Pranayama avesse il potere di vincere quegli
ostacoli e far sì che un uomo sperimentasse il fiorire della pura, eterna
gioia! Quello era, per me, il segreto della vita - indubbiamente fin troppo
"semplice e disadorno" per loro!
Solamente un amico, un "Hippy" [eravamo negli anni settanta],
manifestò un po' di empatia; l'unica cosa che considerava impropria era il
mio zelo nella disciplina. Tutte le altre persone continuarono a rivoltarsi
contro di me con amarezza. Ne nacque un periodo in cui ero molto
disorientato, chiedendomi quale fosse per me il significato della parola
"amicizia". Cominciai ad avere il dubbio di approfittare dell’amicizia solo
per discutere le mie teorie. Avrei dovuto rinunciare, ammettendo che
l'abilità di esprimere il vero amore apparteneva ad altri, non a me.
A me sembrava di vedere le persone come in trasparenza. Il loro modo di
agire, di esprimersi, mi sembrava fosse accompagnato da una specie
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d’isterismo, che incarnava un inganno mentale: volevano creare
un'immagine totalmente falsa di sé. Spesso, dopo essersi torturati, loro
stessi e chi stava ad ascoltarli, con argomenti stressanti, davano
l'impressione di "implodere" in se stessi e "scomparivano" per un certo
tempo, stando lontane da quelle persone che dicevano di amare così tanto
perché evidentemente non le tolleravano più.
Forse qualche volta potevano comprendere le mie ragioni, ma non si
fermavano neanche per un istante in un reale dialogo con me. I nostri modi
di pensare erano divergenti: quella trasparenza mentale di cui ho parlato,
era per loro un vuoto senza senso, qualche cosa di innaturale, aveva il
sapore della "morte", era come una morsa fredda e dolorosa che
minacciava di estinguere ogni gioia nella loro vita.
Imperturbabile, continuai a procedere verso la rigida determinazione di
migliorare, senza alcun limite, l’"arte del respiro".
Mentre cercavo tutti i modi come trovare le informazioni che mi servivano,
giunse una lettera della organizzazione fondata da P.Y. che mi informava
dell’esistenza di altre persone, vicino a me, che praticavano il Kriya Yoga.
Ne fui entusiasta, fremevo dell’anticipazione gioiosa di incontrarle. Quella
sera riuscii a stento a prendere sonno.

Nota
Il lettore mi perdonerà se non menziono il nome di P.Y. - non è difficile
comunque dedurne l’identità!
Ci sono molte scuole di Yoga che diffondono i suoi insegnamenti secondo
una precisa legittimazione. Una di queste, attraverso i suoi rappresentanti,
mi fece comprendere che non solo non avrebbe tollerato la minima
violazione del Copyright, ma che non gradiva che il nome del loro amato
Maestro venisse, in Internet, mescolato a discussioni sul Kriya.
La ragione va ricercata nel fatto che, in passato, delle persone usarono quel
nome per fuorviare la ricerca di un gran numero di ricercatori che stavano
cercando di ricevere gli insegnamenti originali.
Voglio porre l’accento sul fatto che nelle pagine seguenti mi soffermerò
solo sommariamente sulla mia comprensione dei Suoi insegnamenti, senza
alcuna pretesa di riuscire a dare un resoconto obiettivo di essi. Un lettore
interessato non dovrebbe rinunciare al privilegio di rivolgersi alla
letteratura originale!

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CAPITOLO III UN’ORGANIZZAZIONE BASATA SUL KRIYA

Venni a sapere che, non molto lontano da dove abitavo, esisteva un


gruppo di persone collegate formalmente con la scuola fondata da P.Y..
Nonostante questi fosse scomparso ormai da molti anni, lo consideravano
«il loro Guru». D’abitudine s’incontravano due volte a settimana per
praticare insieme le tecniche del Kriya Yoga.
Il primo contatto con loro avvenne incontrando il kriyaban [colui che
pratica il Kriya] che organizzava quelle riunioni. Con grande entusiasmo
ed una specie d’euforia, nutrita dalle mie recenti esperienze spirituali, mi
avvicinai a lui nella speranza di parlare dettagliatamente della pratica.
Ricordo il nostro incontro con particolare emozione; questo fu davvero un
evento chiave. Aveva circa la mia età, conosceva e praticava il Kriya,
avendo ricevuto istruzione in questo da parte di un discepolo diretto di
P.Y.. Non avrei mai pensato che alle conseguenze del nostro incontro si
potessero applicare le parole di Sri Aurobindo: « troppo brillanti erano i
nostri cieli, troppo distante, troppo fragile la loro eterea sostanza».
Se mi fosse permesso di usare una certa amara ironia, oserei affermare che
la fase attuale della mia esistenza era troppo un felice per durare. La vita è
fatta di brevi momenti di tranquillità ed equilibrio immersi tra alternate
vicissitudini durante le quali una persona soffre sulla sua pelle i problemi,
le limitazioni, le deformazioni causate dalla mente umana. Avvicinandomi
a lui con totale e disarmante sincerità, non potevo rendermi conto di che
duro colpo stavo per ricevere. Visibilmente emozionato, mi diede il
benvenuto, sinceramente entusiasta di incontrare uno con cui condividere
la sua "passione".
Sin dal primo istante del nostro incontro - non avevo ancora varcato la
soglia della sua casa - gli dissi quanto fossi entusiasta della pratica del
Kriya! Di rimando mi chiese quando fossi stato iniziato al Kriya, dando per
scontato che l’avessi ricevuto dalla stessa organizzazione di cui lui era un
membro.
Quando seppe come io avevo imparato la tecnica, rimase come pietrificato,
mostrando un sorriso amaro di sconforto. Era come se gli avessi dichiarato
di essere l'autore del più gran crimine. Ricomponendosi dalla delusione, mi
disse con molta enfasi che il Kriya non può essere appreso attraverso libri.

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C'è solamente un modo per riceverlo: essere iniziato da un "Ministro" della
sua organizzazione!
Fissandomi direttamente negli occhi, con un enorme impatto emotivo
cominciò a dirmi che una pratica imparata da qualsivoglia altra fonte «non
valeva nulla, non sarebbe stata effettiva per quanto riguarda la finalità
spirituale», ed eventuali effetti, solo apparentemente incoraggianti,
sarebbero stati «solo una pericolosa illusione nella quale l'ego sarebbe
rimasto intrappolato per molto tempo».
Secondo lui, a parte i pochissimi autorizzati dalla direzione della scuola,
nessun’altra persona al mondo poteva insegnare quella tecnica. La regola
era rispettata strettamente dai membri del gruppo i quali avevano, infatti,
sottoscritto una precisa e solenne promessa di segretezza!
Segretezza!
Come insolito risuonò tale termine alle mie orecchie, che strano richiamo,
che misteriosa fascinazine esercitò sul mio essere!
Fino a quel momento avevo sempre creduto che fosse di poco o di nessun
valore il modo in cui un certo insegnamento fosse appreso, su quale genere
di libri fosse stato studiato; l'unica cosa importante era che dovesse essere
praticato in modo corretto, con l’aggiunta, auspicabile, del costante
desiderio di perfezionarlo.
Pensai che, effettivamente, non fosse un’idea balzana quella di proteggere
un insegnamento prezioso da occhi indiscreti. Apparentemente la
segretezza era da consigliarsi in questo campo. Ma in seguito, nel corso di
molti anni, fui testimone di una serie innumerabile di assurdità che
provennero da questa richiesta; in modo drammatico, ebbi l’evidenza che
essa portò nella vita di migliaia di person delle miserabili ripercussioni.
Mi invitò ad entrare e, prima di qualsiasi descrizione verbale, mi chiese di
mostrargli come praticavo la tecnica. Era mosso da curiosità umana e dalla
speranza che nel mio indovinare la tecnica fossi andato molto lontano dal
vero Kriya. Fu sollevato, intimamente rassicurato quando vide che stavo
respirando attraverso il naso e non attraverso la bocca, come a lui era stato
detto di fare; la mia pratica era - secondo la sua impressione - chiaramente
sbagliata. Mi chiese di spiegare più profondamente quello che visualizzavo
internamente durante la mia respirazione e, mentre glielo stavo
descrivendo, vedevo una soddisfazione intima che si diffondeva sul suo
volto.

30
Giudicò che la mia tecnica non fosse corretta e vide con ciò verificato un
ben radicato pregiudizio secondo cui la tecnica, appresa fuori dai canali
legittimi non può essere - a causa di una particolare legge spirituale - che
corrotta.
Il segreto cui lui era legato non era dunque stato violato da alcun autore dei
miei libri esoterici!
Come il lettore ricorderà, secondo le istruzioni trovate sui libri, l’energia
interiore poteva essere guidata sia lungo un percorso ellittico attorno ai
Chakra sia in su e in giù dentro la spina dorsale.
Avevo provato entrambi i metodi ma, poiché P.Y. aveva scritto che la
pratica del Kriya avveniva facendo ruotare l'energia attorno ai Chakra, mi
ero abituato principalmente al primo metodo, ed era perciò questa la
versione che ora avevo esposto a quel giovane.
Inoltre, avendo letto in un altro libro che durante il Kriya Pranayama si
doveva cantare mentalmente Om nei Chakra, aggiunsi anche questo
dettaglio.
Non potevo immaginare che P.Y. avesse insegnato l’altra variante, quella
in cui il respiro si muove dentro la spina dorsale, che avesse richiesto di
respirare attraverso la bocca socchiusa e infine che avesse deciso di
omettere il canto mentale di Om nei Chakra. Mi trovavo in una situazione
ben strana: gli stavo esponendo quello che, come il lettore molto
probabilmente già sa, era il Pranayama originale di Lahiri Mahasay, e lui
sorrideva con espressione sarcastica, sicuro al cento per cento che stessi
dicendo delle sciocchezze!
Fingendo di sentirsi addolorato per la mia naturale disillusione, m’informò
in un tono ufficiale che la mia tecnica «non aveva niente a che fare con il
Kriya Pranayama»!
Interrogato con costernazione su quello che fosse, almeno in un modo
generico, il mio errore, non accettò di chiarirmi alcun dettaglio perché lui
«non era autorizzato» a farlo.
Chiaramente provai una forte curiosità su quella che fosse la procedura
corretta e di conseguenza in molte occasioni lo "corteggiai" con la
speranza, sempre elusa, di ricevere almeno qualche briciola
d’informazione.

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FORTE CONDIZIONAMENTO

In quell'occasione, infiammato da una fede assoluta, si lanciò in una


digressione sul valore del "Guru" - Maestro spirituale - un concetto che per
me rimaneva enigmatico, anche perché attribuito ad una persona
[ovviamente lui non aveva dubbi che il suo Guru fosse P.Y.] che non si è
conosciuta direttamente. In base a quello che mi comunicava, poiché lui
era stato iniziato al Kriya dai canali legittimi, P.Y. era una presenza reale
nella sua vita.
Quelli che appartenevano a quel gruppo erano convinti che il Guru - anche
loro non l'avevano conosciuto personalmente - fosse uno specifico aiuto
che Dio stesso aveva loro inviato. Un evento simile, creare tale relazione
col Guru era perciò «la più gran fortuna che potesse accadere ad un essere
umano». La conseguenza logica - e chiaramente lui rilevò questo con
grand’enfasi - era che abbandonare di conseguenza tale forma d’aiuto, o
cercare un percorso spirituale diverso, equivaleva a «rifiutare con
disprezzo la mano del Divino protesa in benedizione».
Poiché la mia posizione era totalmente inconsistente, mi raccomandò di
spedire una descrizione scritta, precisa e dettagliata, delle mie vicissitudini
alla direzione della scuola, nella speranza che loro mi accettassero come
discepolo. Poi avrei iniziato la pratica sotto la loro guida.
Vidi una trasformazione strana avvenire in lui; come investito
all'improvviso di un’ispirazione che proveniva dall’alto, mi assicurò che
«avrebbe pregato per me»!
Ero come inebetito dal tono che il nostro dialogo stava assumendo; per
riattivare l'amabilità iniziale della riunione tentai di rassicurarlo parlando
degli effetti positivi che avevo ottenuto con la mia pratica.
Quest’affermazione ebbe l'effetto di peggiore la situazione, dandogli
l'opportunità per una seconda reprimenda, davvero non completamente
sbagliata, ma in ogni modo fuori luogo.
Mi chiarì che, nella pratica del Kriya, non avrei mai dovuto cercare degli
effetti tangibili; meno ancora vantarmene, perché così « li avrei persi».
Quel "bravo giovine", senza rendersi conto, era entrato diritto in una chiara
contraddizione: stava dicendo che i risultati erano importanti ed uno non
doveva neppure rischiare di perderli raccontandoli ma, poco prima, aveva

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sottolineato che non valevano niente o piuttosto «potevano essere negativi
e pericolosi»!
Cominciò il racconto - che in seguito avrei avuto l'opportunità d’ascoltare
tante volte fino alla nausea - dello yogi tibetano Milarepa che, avendo
acquisito senza le benedizioni del suo Guru, delle tecniche spirituali, non
ricavando risultati incoraggianti anche se queste erano state praticate con
grande intensità, ricevette finalmente le stesse istruzioni dalla bocca del
suo Guru - con le benedizioni di questo - ed i risultati questa volta
arrivarono facilmente! Sappiamo che la mente umana è condizionata più da
una storia che dall'inferenza logica! Un aneddoto come questo, anche se
completamente immaginato, tanto per costruire la trama di un romanzo,
possiede un genere di "luminosità interna" che condiziona il buon senso di
una persona: attraverso lo stimolo delle emozioni ed i sentimenti può far
accettare conclusioni che apparirebbero assurde alla facoltà raziocinante.
Questa storia mi ammutolì, non seppi cosa rispondere; per quel giorno,
almeno, avevo perso la partita. Dissi all'amico che avrei seguito i suoi
suggerimenti.

UN GRUPPO DI KRIYA

La stanza dove le persone appartenenti al gruppo s’incontravano aveva


un arredamento essenziale, ma piacevole. I membri si erano auto tassati per
affittarla affinché la sua fruizione non dipendesse dai capricci del
proprietario, e anche per il piacere di consacrarla esclusivamente ad un uso
spirituale.
La mia frequentazione avvenne in un periodo che ricordo con particolare
nostalgia: l'ascoltare canti spirituali indiani, tradotti ed armonizzati
all'occidentale e, soprattutto, il fatto di meditare insieme era una vera gioia!
Tutto mi sembrava paradisiaco - anche se l'ammontare di tempo dedicato
alla pratica delle tecniche era davvero corto: non più di 20 minuti, spesso
solo 15. Siccome non avevo ricevuto ancora il Kriya nel "modo ufficiale",
loro mi chiesero di limitare la pratica al puro atto di tenere il centro della
consapevolezza nel punto tra le sopracciglia.
Una sessione particolarmente bella di pratica collettiva avvenne alla vigilia
di Natale, fu arricchita da canzoni devozionali e durò per molte ore.
Una volta il mese c’era il "pranzo sociale".

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In quell'occasione cominciai a conoscere più da vicino i miei nuovi amici
kriyaban: era una bella occasione di passare insieme del tempo parlando e
rallegrandosi della reciproca compagnia. Sfortunatamente un forte
imbarazzo rovinava la piacevolezza degli incontri.
Perché molti di noi non godevano dell'approvazione e meno ancora
dell'appoggio nella pratica dello Yoga da parte della loro famiglia,
l'occasione unica di trovarsi fra persone con le stesse idee ed interessi
avrebbe dovuto essere un'esperienza di gran serenità e rilassamento.
Ma coloro che, da lontano, dirigevano i gruppi, avevano richiesto di non
parlare di altri percorsi spirituali e inoltre di non trattare i specifici dettagli
del Kriya - tale compito doveva essere riservato solamente a persone di
proposito autorizzate dalla scuola, nel nostro gruppo nessuno.
Queste proibizioni distorcevano e mortificavano il nostro comportamento.
Durante gli incontri, data la necessità di indirizzare i contenuti delle
conversazioni su binari sempre ben definiti, non riuscivamo a trovare un
argomento di conversazione che rispettasse le regole, essendo, nello stesso
tempo, interessante.
Non era certo quello il luogo per pettegolezzi mondani, disadatti a gruppo
spirituale. Certo si poteva conversare sulla bellezza del nostro percorso
spirituale, sulla gran fortuna di averlo trovato! Molti pensavano che la
nostra scuola fosse la materializzazione di un piano Divino per salvare la
specie umana dal disastro. Ma, come si può presumere, dopo alcune
riunioni di "reciproca esaltazione", cominciò a regnare nel gruppo una noia
quasi allucinante.
Come ultima via di salvezza, ogni tanto alcuni si arrischiavano ad entrare
nel regno dei moti di spirito. L’innocente e lieve humour però non riusciva
a risvegliare una sola briciola di vera giovialità: si scontrava, infatti, con
l'atteggiamento ispirato a devozione tenuto dalla maggior parte dei membri
e capitolava di fronte alla loro fredda reazione. Il malcapitato che aveva
tentato di sollevare il tono dell'incontro rimaneva raggelato per il resto del
giorno.
Non ci si deve meravigliare che il gruppo fosse caratterizzato da un grande
riciclo; molti, entrati con entusiasmo, dopo alcuni mesi non solo
decidevano di abbandonarlo ma poi si davano da fare per rimuovere del
tutto quell'esperienza dalla loro coscienza.

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Fra coloro che frequentai, non fui capace di trovarne uno solo che
potesse essere considerato quello che comunemente si definisce un serio
studioso del fenomeno spirituale. Anche se continuavo a credere di
trovarmi fra individui simili a me - vale a dire appassionati, entusiasti del
Kriya, desiderosi di capirlo e di perfezionarlo - dovetti ammettere che la
realtà era ben diversa!
Alcuni reagivano al mio entusiasmo con un certo fastidio: non potevano
credere che non coltivassi alcun dubbio o incertezza verso il sentiero del
Kriya. Consideravano la mia euforia quella tipica di un principiante
immaturo. Sembravano censurare il mio eccessivo interesse per le tecniche
del Kriya, affermando che la devozione era molto più importante e -
presentando un concetto che trovavo duro situare nel campo dello Yoga -
anche la lealtà lo era!
Pensando a quei tempi, mi chiedo che opinione si fossero fatti di me,
quanto imprudente potesse essere apparso il mio atteggiamento: una vera
minaccia alla loro calma e alla loro - se mi è concesso dirlo - un po’ opaca
esistenza. Facevano uno sforzo moderato nelle pratiche del Kriya e si
affaticavano ad estrarre dalle profondità della loro psiche la minima
briciola, parvenza di devozione. Al contrario io usavo la totalità
dell’energia nel migliorare l’esecuzione delle tecniche per far sì che dalla
realizzazione spirituale ne conseguisse una devozione genuina.
Due approcci diversi verso la meta spirituale si "guardavano" l'un l'altro
con perplessità, senza alcuna speranza di incontrarsi.
Mi sia concesso uno sfogo: spesso ho visto come lo sfoggio della
devozione nasconda, il più delle volte, la propria insincerità e negligenza.
Talvolta arriva persino a mascherare la presenza di disturbi mentali. Sia
chiaro che io rispetto la sofferenza e che non posso mettermi nei panni
altrui, ma riconosco che la vera aspirazione mistica possa operare cose
incredibili mentre a mio avviso il recitare la parte del perfetto devoto non
ne produce alcuno.
Poiché P.Y. scrisse che il Secondo Kriya rende il praticante capace di
abbandonare il corpo consapevolmente, cercai qualcuno che conoscesse la
tecnica nella speranza che potesse accordarmi almeno un'idea generale di
essa. Una signora che praticava il Kriya da anni ed una volta aveva
risieduto presso la sede centrale della nostra scuola sembrò non capire la
mia domanda.

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Perciò, con stupore, richiamai l'episodio col quale Swami Pranabananda,
discepolo di Lahiri Mahasay, aveva accompagnato il momento della sua
morte con la pratica del Secondo Kriya.
Visibilmente alterata, sostenne che la citazione chiaramente si riferiva alla
tecnica del Pranayama: un respiro, poi un altro ancora e questo "secondo
respiro" era a suo dire (!) il "Secondo Kriya"! So per certo che fino ad
oggi lei è rimasta ferma nella sua convinzione.
Ebbi l'impressione che la stessa idea dell'esistenza di una tecnica simile la
sconvolgesse; era come se lei avesse fatto uno sforzo così grande nello
stabilire l'abitudine alla pratica quotidiana del Primo Kriya da sentirsi
esausta, come se avesse già «dato il massimo». In altre parole non poteva
accettare l’idea che esistesse un’altra tecnica con la quale portare avanti un
lavoro ancora più impegnativo.
In ogni caso la sua "ignoranza compiacente e voluta" fu superata da un
altro obbrobrio. Un’anziana signora, forse con l'intenzione di impartirmi
una lezione d’umiltà, mi prese in parte e mi rivelò di aver ricevuto molto
tempo addietro l'iniziazione ai cosiddetti Kriya superiori ma di aver deciso
di non praticarli ….. per umiltà (!).
Affermò che si era sentita così indegna che li aveva messi da parte e, dopo
anni, era riuscita - questa era per me la cosa inconcepibile - a dimenticarli!
Seppi poi che altre persone si erano trovate nella condizione di poter
ricevere questi insegnamenti, ma li avevano semplicemente rifiutati.
Quando chiesi la ragione di quella chiara manifestazione d’indifferenza
verso i più alti insegnamenti del loro Guru, mi guardarono con
un'espressione stupefatta e quasi offesa, come se la mia domanda avesse
violato un tacito accordo: non criticare nessuno o insinuare dubbi che
possano mettere in discussione le intime scelte di una persona nel campo
spirituale! Risposero che quello che avevano era abbastanza per loro ed
interruppero bruscamente il discorso. Questo fatto, insieme con altri
sperimentati in quella scuola fu per me una ragione di sofferenza: mi
pareva di essere il solo ad amare visceralmente il Kriya! Provai una gran
delusione nel vedere in quelle persone una tale ignoranza o, peggio,
indifferenza verso tale arte!

Poco dopo la mia ammissione al gruppo fui presentato ad una signora


anziana che era stata in corrispondenza con P.Y. stesso. Grazie alla sua

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serietà, sincerità e lungo comportamento da discepola fedele, aveva
ricevuto l’autorizzazione di insegnare le tecniche preliminari al Kriya.
Il suo temperamento era molto dolce e sembrava più incline alla
comprensione che alla censura.
Da quello che ero capace di leggere sul suo volto, quando si riferiva alla
mia tecnica Kriya, indovinata per mezzo di letture non ortodosse, dava da
intendere che la considerava valida, efficace. In ogni modo era convinta
che se avessi appreso la tecnica da canali ufficiali, la mia pratica sarebbe
divenuta più bella, più soddisfacente.
M’insegnò perciò due tecniche preliminari al Kriya, invitandomi a limitare
la mia pratica a queste. La prima, chiamata Hong-so a causa del Mantra
impiegato, calma il respiro e l’intero sistema psicofisico. La seconda
riguarda l’ascolto dei suoni interiori [astrali] che, approfondendo, si
mescolano, si fondono col suono di Om. Non mi diede queste istruzioni in
un’unica sessione ma in due momenti diversi - la seconda quattro mesi più
tardi. Ebbi perciò la splendida possibilità di dedicarmi per molto tempo
solamente alla prima tecnica e, per altri mesi, nell’attesa dell’iniziazione al
Kriya, alla combinazione delle due: la prima il mattino, la seconda di notte.
Potei sperimentare perciò il significato e la bellezza di ciascuna.

[Una nota sul Secondo Kriya.


Nella mia ricerca spirituale, la tecnica del Secondo Kriya fu un segreto ben-sigillato per
molti anni. Sognavo di praticarla un giorno, per trarre profitto dal suo delicato
meccanismo. Ritenevo improbabile lavorare con tale procedura e contemporaneamente
non sentire un complessivo effetto benefico per la mia evoluzione spirituale. Una
tecnica come quella, data da Lahiri Mahasaya solamente a discepoli eletti, non poteva
non accendere la mia immaginazione. Se ora considero che cosa diversi insegnanti
dissero e stanno dicendo attualmente su questa tecnica, penso a una iettatura che ci
grava sopra! Come se stessero esplicando una volontà perversa, essi diedero sfogo a
tutta la loro abilità di generare la più selvaggia deformazione. Uno di loro tentò di
convincermi che il Secondo Kriya era simile alla tecnica tibetana di aprire un foro nella
Fontanella [cima della testa] e la prova della validità della tecnica era la stessa delle
tradizioni tibetane: un kriyaban avrebbe dovuto poter inserirvi il gambo di un fiore (!).
Non opprimerò il lettore con l'elenco d’altre sciocchezze udite da me nel corso degli
anni. La ragione che spiega come mai rimasi pressoché ipnotizzato dal fascino magico
di tali assurdità, era che avevo l'attitudine di privilegiare tecniche complicate. Avevo un
approccio, abbastanza diffuso nel mondo esoterico, secondo il quale tanto più una
tecnica è artificiale e strana, o va persino contro le leggi del senso comune, tanto più
potente essa deve essere per forza di cose. Per molti anni, il lato più profondo di me
stava soffrendo, perché non conoscevo completamente i Kriya superiori - in effetti,
molte parti mi erano state negate - così temevo di essere nell'impossibilità di realizzare i
vari livelli del Kriya. Il pensiero di essere, dalla volontà di qualcuno, limitato nella mia
esperienza del percorso mistico mi faceva arrabbiare. Sicuramente in questa ricerca

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corsi il rischio di perdermi per strada e non conoscere mai la tecnica corretta.
Oggigiorno, nel mondo del Kriya, non c’è dubbio che il Secondo Kriya di Lahiri
Mahasaya sia il processo del Thokar - in una o nell’altra delle sue varianti - in cui
avviene un movimento brusco sul petto fatto con il mento e il Chakra del cuore riceve
un grande stimolo. Quando ebbi ben stampato in mente il meccanismo di questo Kriya,
mi tuffai completamente in esso.]

TECNICHE HONG SO E OM

La tecnica Hong-so è semplice e consiste, dopo alcuni respiri profondi


per ossigenare il sangue e calmare il sistema, nel lasciare il respiro libero,
ripetendo mentalmente il Mantra Hong-so, collegando la sillaba Hong con
l'inspirazione e So con l'espirazione. La concentrazione, lo sguardo
interiore, viene mantenuto sul terzo occhio.
La raccomandazione essenziale è non influenzare il respiro attraverso la
volontà, poiché esso deve procedere in modo del tutto naturale e
spontaneo!
Questi erano i dettagli pratici della tecnica ma lei proseguì e, prevedendo il
pensiero che si stava formando nella mia mente, aggiunse che la procedura,
nonostante la sua apparente semplicità, non era per niente facile!
Affermò che se i risultati erano stati deludenti, ciò sarebbe avvenuto a
causa di sottili errori introdotti, senza volerlo, nella pratica. Lasciò la
questione un poco vaga e, con un sorriso incoraggiante, concluse: «La
tecnica richiede un grande impegno ma contiene tutto ciò che ti permette di
entrare in contatto con la divina essenza».
Devo ammettere, francamente, che il mio atteggiamento da principiante mi
portò a pensare che il Mantra potesse agire come una "parola magica" e
darmi, come un incantesimo, risultati sbalorditivi.
Negli insegnamenti teorici impartiti dalla scuola, avevo trovato
un’assicurazione piuttosto strana: questa tecnica era presentata come
l’unico mezzo "scientifico" che poteva produrre una concentrazione vera,
reale, effettiva.
Ero stato indotto perciò a pensare che, se avessi semplicemente messo in
atto queste istruzioni, in breve tempo sarei stato in grado di ottenere una
concentrazione sovrumana.
Chiaramente incontrai una forte disillusione. Quella mi sembrava la
procedura più noiosa del mondo, un’inutile prova di ottusa persistenza.
Continuai a ripetere questo Mantra per settimane, ma la maggior parte del
tempo non riuscii a rimanere consapevole del respiro.
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Fu allora che, sostenuto da buona volontà, incominciai ad osservare con
grande attenzione due dettagli che, a mio avviso, era i responsabili dei miei
fallimenti.
Il Mantra Hong-so, citato ampiamente nei testi classici della spiritualità
indiana, è veramente eccellente per calmare gradualmente, senza forzature,
il ritmo del respiro. Tuttavia, il suo reiterato canto mentale può facilmente
e naturalmente conformarsi ad un ritmo che ha la tendenza a mantenersi
immutato. Se il respiro segue questo ritmo è chiaro che non rallenta mai!
Quando tale ritmo si è stabilizzato, la persona inspira ed espira anche se il
corpo "gradirebbe" rimanere dei momenti senza respirare. È in quegli
istanti che la persona fa dei brevi respiri senza che il corpo abbia il reale
bisogno di respirare. Chiunque può evitare quest’errore rimanendo sempre
attento a non cadere in tale tranello. Le pause tra un respiro e l’altro
devono "poter esistere", essere percepite e godute, anche se durano meno
di un istante.
Questo semplice fatto è sufficiente per calmare drasticamente il respiro:
come conseguenza una condizione di totale e quasi perfetta immobilità si
stabilizza nel corpo.
Un altro dettaglio è basato sul fatto che, dopo l'inspirazione, il torace si è
dilatato e si trova in tensione elastica. In tale istante è ovvio che la forza
elastica tenta di riportare il polmone a com’era prima dell’inspirazione. La
pausa tra inspirazione ed espirazione è contrastata dunque non solo dal
ritmo ma anche dall'elasticità dei muscoli della cassa toracica. Ebbene,
mantenendo la concentrazione anche sulla forza elastica del torace, sarà
possibile far sì che la pausa dopo l’inspirazione avvenga in un modo più
libero, così da aggiungere grand’armonia all'esercizio.
Mettendo in pratica tutto questo, il respiro divenne sempre più sottile e si
venne a creare un "circolo virtuoso" tra la calma crescente e la ridotta
necessità di ossigeno; ciò mi portò ad una condizione di minimizzazione
del processo di respirazione tanto che il movimento dell'aria fuori e dentro
i polmoni era ridotto ad un palpito. Rispettando questi semplici dettagli, la
tecnica Hong So perse completamente l’aspetto di esercizio noioso e
divenne come una bella e beata pausa di riposo.

Quando tentai di discutere le mie osservazioni con chi si supponeva


praticassero tale tecnica, osservai quanto fosse difficile affrontare tali
argomenti. Talvolta notai un’enorme ed irragionevole resistenza.
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Coloro che non erano soddisfatti della pratica e progettavano di interessarsi
seriamente ad essa nel futuro, non erano disposti in quell’occasione ad
ascoltare i miei ragionamenti; quelli che, purtroppo, non riuscivano a
capire quello che stavo dicendo, argomentavano che quanto proponevo
fosse uno stravolgimento della tecnica originale.
Ricordo una signora cui tentai di spiegare questi dettagli con molta cura,
che finse di ascoltarmi con attenzione e alla fine, con un dogmatismo più
brutale della più atroce violenza, disse che aveva già un Guru e non sentiva
il bisogno di un altro.
Fui sorpreso e ferito, poiché sapevo perfettamente che la mia intenzione
non era quella e che le mie osservazioni non costituivano per nulla «una
variazione della tecnica».
La mia azione non consisteva nel controllare il respiro imponendo che esso
divenisse breve o che delle pause si manifestassero per forza tra un atto
respiratorio e l’altro: cercavo soltanto di preservare la sua spontaneità.
Fu il susseguirsi di episodi simili a confermarmi l'idea che l’apparente
assiduità di quelle persone nella pratica quotidiana delle tecniche era il
risultato della loro superstizione.
Mancando della sufficiente attenzione e cura per i risultati, essi andavano
avanti ad eseguire meccanicamente quello che gli era stato detto di fare e
che era divenuto null’altro che un vuoto rituale, un modo per essere in pace
con la coscienza.

Tecnica Om…Prima di cominciare la tecnica Om, lo yogi appoggia i


gomiti su un comodo sostegno che può essere stato costruito anche solo
per questa funzione. L'appoggio può essere dato da una tavoletta
orizzontale fatta di qualsiasi materiale coperta di gommapiuma e fissata su
un’asta verticale d’altezza regolabile. Il miglior momento per questa
pratica è di sera o di notte - è bene chiudersi in una stanza per evitare che
qualcuno possa disturbare.
La pratica consiste nel chiudere coi pollici le orecchie ed ascoltare
qualsiasi suono interiore, continuando a cantare mentalmente Om, Om
Om... L'attenzione, secondo le istruzioni, è diretta alla parte interna
dell'orecchio destro, poiché è là che i suoni sottili possono essere
facilmente realizzati e con più persistenza. L’intuizione di colui che pratica
comincia un lungo viaggio scoprendo la via per arrivare alla più profonda
memoria: quella della propria origine Divina.
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Il suono dell’Om può apparire attraverso diverse varianti, facilmente
percepite dopo avere chiuso gli orecchi, appena la calma interna è creata.
L'atteggiamento corretto è quello di focalizzarsi sulla più forte tra queste
varianti. Questo è il segreto per riuscire ad entrare in sintonia con il vero
suono di Om, come il rombo dell’oceano.
Ogni ripetizione mentale del Mantra Om mantenendo desta l’attenzione è
essenziale; la consapevolezza segue pazientemente ciascun debole suono
interno come se fosse un "filo d’Arianna" per uscire fuori del labirinto
della mente. In tal modo si avvicina ad una vasta regione, la realtà Omkar
che è la vibrazione dell'Energia primordiale.
Quella signora spiegò che il suo insegnante P.Y., (lo stesso che decise
che questa tecnica, fra tante possibili, dovesse essere una preparazione
necessaria e non facoltativa al Kriya) aveva tentato di spiegare in un modo
nuovo l'insegnamento della Trinità. Om è l'Amen della Bibbia - lo Spirito
Santo, il suono "testimone" della vibrazione dell'energia che sostiene
l'universo. Questa tecnica, una scoperta che i mistici fecero tempo addietro,
rende possibile percepire tale vibrazione. Grazie ad essa è possibile essere
guidati verso uno stato talmente profondo da essere impossibile da
raggiungersi altrimenti. Tramite quest’esperienza lo yogi può arrivare a
quella del "Figlio" - la consapevolezza Divina presente all’interno della
vibrazione energetica summenzionata. Alla fine del suo viaggio spirituale
lo yogi può raggiungere la più alta realtà: il "Padre" - la consapevolezza
Divina che risiede oltre tutto ciò che esiste nell'universo.
Mentre la precedente tecnica Hong So conduce allo sviluppo della
concentrazione (caratterizzata da pace e gioia spontanea), quest’ultima
realizza un contatto diretto con la Meta spirituale.
Il chiarimento ricevuto dalla signora fu caratterizzato da un tale sentimento
di sacralità che rimase con me nelle seguenti settimane e mi aiutò a
superare la fase iniziale della pratica nella quale sembra improbabile che i
suoni interiori appaiano. Ripenso con nostalgia a quel tempo in cui mi
trovai confinato nella mia stanza come un eremita.
Un giorno, dopo tre settimane di pratica, dopo pochi minuti dall’inizio,
quando mi trovavo in uno stato di gran rilassamento, mi resi conto che
stavo ascoltando un suono interiore. Non avvenne all’improvviso: era
come se lo stessi già ascoltando da alcuni minuti.
Era qualche cosa che mi ricordava il ronzio di una zanzara, poi finalmente
si trasformò nel suono di una distante campana; finalmente la mia
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concentrazione intuì il rumore d’acque correnti. Il suono della campana era
un abbraccio di dolcezza: si trattò di una vera esperienza estatica e si
manifestò in un modo talmente strano, afferrando la mia consapevolezza e
guidandomi in una dimensione estremamente dolce, dove mi sentivo a mio
agio. Personalmente non ho avuto mai l'opportunità di sperimentare altri
suoni menzionati nella letteratura classica dello Yoga, come per esempio il
"flauto" o le "arpe." Allora, la sintonia col suono interno di Om divenne il
toccare la "bellezza" stessa. Non riuscivo ad immaginare un’altra
esperienza dove una persona riesce a sentirsi così bene; mi sentivo
circondato dalle ali dell'ineffabile!
Stavo vivendo un'esperienza che era più grande del mio piccolo ego: era la
quintessenza dell’intero conforto che un essere umano può sperare,
dell’intero amore che può desiderare!
Penso che fu proprio allora che provai quella cosa che alcuni chiamano
"devozione"! Ricordo che nei momenti più intensi, quando la beatitudine
scaturita dalla pratica riempiva la mia anima, dicevo a me stesso «Questo è
precisamente quello che ho sempre desiderato, e non voglio perderlo più».
Nota
Può essere interessante spiegare che quest’ultima tecnica non appartiene a
quelle incluse nel Kriya originale, poiché in tale Kriya il fatto di ascoltare i
suoni interiori avviene senza chiudere le orecchie. È giusto rilevare inoltre
che la tecnica non è un segreto inventato da P.Y. ma è descritta
ampiamente nei libri che trattano dello yoga classico, col nome di Nada
Yoga - "lo Yoga del suono." Praticando questa tecnica per mesi si percorre
una strada eccellente per mutare il proprio atteggiamento verso la pratica
del Kriya. Grazie a questa tecnica una persona incomincia a mettere da
parte la propria ansietà di avere risultati.

DIFFICOLTÀ CON GLI INSEGNAMENTI DEL KRIYA

Il Kriya vero e proprio doveva, di norma, essere atteso per un periodo


minimo di sei mesi che, nel mio caso, per motivi contingenti - il materiale
scritto che la scuola inviava viaggiava per nave e i ritardi erano enormi -
divennero due anni.
Durante questo lungo periodo di attesa cercai in ogni modo di abbracciare
la visione religiosa della scuola, anche se questa mi era radicalmente
estranea. Non solo intrapresi il modo yogico di mangiare - convinto che

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questo fosse il miglior fondamento per la pratica del Kriya -, il modo
yogico per prevenire le malattie, per trovare un lavoro che non fosse in
contrasto col percorso spirituale; cercai anche di mettermi in sintonia con
l’atmosfera religiosa, Indiano-Cristiana tipica della scuola. Cercai di
avvicinarmi alla figura di Krishna, ImmaginandoLo come la quintessenza
di ogni bellezza; alla figura della Divina Madre, che non era la Madonna,
ma un addolcimento dell’idea della dea Kali. Lessi e rilessi solo gli scritti
di P.Y.. Talvolta trovavo un particolare pensiero di P.Y. così bello e così
perfetto che lo scrivevo su un foglio di carta e lo tenevo davanti a me sulla
scrivania, mentre studiavo. Tanto feci che mi allontanai di molto da me
stesso.
Gli altri membri del gruppo tendevano a costruire una venerazione per
P.Y., come se questi fosse Dio in un corpo umano. Un dirigente del più
importante centro italiano della nostra scuola ci disse: «ma non avete
ancora compreso che P.Y. è la Divina Madre Stessa»?
Ricordo una signora - sembra una cosa scherzosa ma non lo è - che
sceglieva gli stessi gusti del gelato che erano stati i preferiti di P.Y..
Credevano, per mezzo di tali meschinerie, di incrementare la devozione per
il loro Guru; forse ciò avveniva, non so dirlo, ma era anche evidente il
rischio di appoggiarsi troppo all’idea di avere un santo protettore che mette
a posto tutte le cose della nostra vita e sviluppare molto meno l’intelligenza
pratica.
Mentre continuavo a ricevere da chiunque, anche senza chiederle, lezioni
di devozione, umiltà e lealtà, il mio interesse per il Kriya divenne una vera
e propria brama, una febbre che mi consumava. Non capivo il motivo per
cui dovevo attendere tanto: la mia anticipazione, a volte, diveniva una
inutile tortura. Coloro che già possedevano il Kriya, mi prendevano in giro
con malcelata crudeltà e mi dicevano: «Vedrai che a te il Kriya neanche lo
daranno, perché un devoto non desidera una tecnica con tanta intensità: ciò
non è né una buona né una saggia cosa. Dio si trova anzitutto con la
devozione e l’abbandono alla Sua volontà.» Cercavo di stare buono,
attendevo e sognavo.
Alla fine venne il momento in cui potei richiedere l’insegnamento,
tramite posta, del Kriya. Passarono quattro mesi, ogni giorno speravo di
ricevere il tanto desiderato materiale, finalmente arrivò una busta. La
apersi con un’aspettativa che non so dire: rimasi profondamente deluso
perché conteneva soltanto altro materiale introduttivo. Dall’indice del
43
materiale, posto alla prima pagina, compresi che si trattava del primo di
una serie e che la tecnica completa sarebbe giunta entro circa cinque
settimane. Così, per un altro mese, avrei dovuto studiare le solite
filastrocche che conoscevo a memoria.
Avvenne invece che nel frattempo un Ministro di quella organizzazione
visitò il nostro paese e potei partecipare ad una cerimonia di iniziazione.
Dopo mesi di attesa, era giunto il tempo di «stringere un patto eterno con il
Guru e ricevere la tecnica Kriya nell’unica maniera legittima, carica quindi
delle Sue benedizioni».
Quelli come me, pronti per essere iniziati, erano un centinaio. Ci
trovavamo in una bella stanza affittata per l'occasione ad un costo molto
elevato e decorata con molti fiori - un simile insieme non ne avevo mai
visto in vita mia! L’introduzione alla cerimonia avvenne in un modo
alquanto strano: approssimativamente trenta persone, facenti parte del
gruppo locale, con una divisa particolare, quasi Ministri di un nuovo culto,
entrarono in fila nella stanza, con atteggiamento solenne e mani giunte in
preghiera. I due veri Ministri, appena arrivati dall'estero camminavano
umilmente, disorientati, dietro di loro.
Poi la cerimonia vera e propria incominciò.
Accettai senza obiezioni che ci fosse richiesta una promessa di fedeltà
eterna non solo al Guru P.Y. ma anche ad una catena formata da altri
cinque Maestri: Lahiri Mahasaya ne era un anello intermedio mentre P.Y.
era il così detto Guru-precettore, ovvero colui che si sarebbe parzialmente
assunto il peso del nostro Karma. Sarebbe stato veramente strano se
nessuno avesse avuto dubbi su quest’ultimo fatto: ricordo, infatti, un’amica
che si stava chiedendo, e ne parlò sottovoce con me, se P.Y. - non potendo
confermarlo, essendo residente nei mondi astrali - l'avesse realmente
accettata come "discepola" e, di conseguenza, avesse accettato anche il
fardello del suo Karma.
Ci assicurarono che il Cristo apparteneva a questa catena perché un tempo
era apparso a Babaji [Guru di Lahiri Mahasay] chiedendogli di mandare
qualche emissario nell'Ovest per diffondere l'insegnamento del Kriya.
Questa storia non ci provocò affatto perplessità; forse questa assicurazione
aiutò quelli che si sentivano un poco incerti nella loro coscienza (quasi
stessero per tradirlo attraverso questa iniziazione-battesimo), a considerare
tutta la missione mento di P.Y. come originato dal Cristo stesso.

44
Ricevere l’iniziazione al Kriya voleva dire in pratica che, oltre alle
promesse che dovevamo fare, tra cui come ho già detto la segretezza, che
ci sarebbero state insegnate tre tecniche: Kriya Pranayama, Maha Mudra e
Jyoti Mudra [nella scuola non si usava la più comune designazione Yoni
Mudra]. Queste tecniche, assicurarono, incarnavano le più effettive
benedizioni di Dio alla Sua creatura privilegiata, l'essere umano, che
possiede, a differenza degli animali, i Chakra.
Fu spiegato che la mistica scala fatta di sette gradini e rivelata attraverso il
Kriya, è la vera autostrada verso la salvezza; non l’unico percorso, perché
le religioni forniscono agli esseri umani altri strumenti validi, ma è
certamente il più veloce ed il più sicuro.
La mia mente era in una condizione d’enorme attesa per quello che avevo
desiderato con tutto il mio essere: per questo mi ero seriamente preparato
da mesi. Non partecipavo ad una cerimonia puramente formale per far
contento qualcuno o per salvaguardare una tradizione di famiglia, era la
coronazione di una scelta definitiva! Il mio cuore era immensamente e
perfettamente felice anticipando la gioia che sarebbe scaturita dalla pratica
del Kriya. Finalmente mi fu insegnato il Kriya Pranayama e così scoprii
che già conoscevo la tecnica - il Respiro Kundalini che avevo trovato
tempo addietro nelle mie letture esoteriche, quello in cui la corrente
energetica fluiva totalmente all’interno della spina dorsale. Ho già spiegato
che non lo avevo preso in seria considerazione poiché P.Y. nei suoi scritti
aveva scritto che l’energia ruotava «attorno ai Chakras, lungo un circuito
ellittico». Non fui deluso, anzi, la tecnica mi sembrava perfetta.

La scuola insegnava ogni dettaglio delle tecniche in un modo che non


ammetteva la minima variante ed, in aggiunta, prescriveva una routine di
pratica dalla quale non era possibile derogare.
Di conseguenza, se fosse sorto il minimo dubbio sulla correttezza di un
certo dettaglio, nessuno era incoraggiato a tentare un esperimento per
conto proprio e trarre da sé le conclusioni. L'azione corretta era quella di
prendere contatto con la direzione della scuola, esporre il problema,
ricevere i consigli appropriati e accettarli senza discutere, come fossero la
"parola definitiva". Per essere certo della correttezza della mia pratica,
imparai ad interagire solamente con persone "autorizzate"; cercavo
istintivamente il loro giudizio, convinto che non potessero sbagliare!

45
Avevo una grande fiducia nella loro guida poiché per me erano dei "canali"
attraverso i quali fluivano le benedizioni di quello che era divenuto il mio
Guru, convinto anche che avessero già raggiunto la realizzazione
spirituale.

Se ora voglio parlare dei motivi della mia crisi inesorabile, questo non è
per un'acredine infondata verso la scuola. Il mio scopo è, invece, quello di
discutere il problema generale di come costruire una routine efficace,
problema che sarà fondamentale all’interno del Kriya Yoga di Lahiri
Mahasaya il quale contiene, per altro, un numero ben maggiore di tecniche.
La routine che allora mi fu raccomandata, e che tutti nel gruppo avevano
adottato, mi causò davvero grandi problemi. Essa cominciava con la
tecnica di osservazione del respiro [la tecnica Hong-so] che durava da dieci
a venti minuti. Si dava per certo che il respiro si sarebbe calmato e si fosse
creato un buon livello di concentrazione onde praticare, subito dopo, la
tecnica di ascolto dei suoni interiori. Dopo avere messo gli avambracci su
un appoggio, cominciava quest’ascolto che durava circa lo stesso tempo.
Seguiva un’interruzione dello stato meditativo per eseguire il Maha
Mudra. Poi, ritornando nella posizione immobile e cercando di ripristinare
lo stato di rilassamento, s’incominciava il Kriya Pranayama nel rigido
rispetto di tutte le istruzioni. Si concludeva con lo Jyoti Mudra seguito da
dieci minuti di pura concentrazione nel Kutastha assorbendo gli effetti
della pratica.
Il problema era che le due tecniche preliminari erano profondamente
sacrificate. Durante l’esecuzione della prima tecnica, percepivo che presto
avrei dovuto interromperla per passare alla seconda. Questo mi creava una
sensazione di disturbo, un pensiero fisso che m’impediva di immergermi
totalmente in essa. Uno stato analogo era percepito praticando la tecnica
successiva. La decisione più infelice era di interrompere quest’ultima per
alzarsi a praticare il Maha Mudra. [So che qualcuno, per evitare questo
disagio, praticava il Maha Mudra all’inizio di tutta la routine; l'interruzione
doveva in ogni caso essere fatta per praticare il Pranayama.]
La tecnica d’ascolto dei suoni interiori era in se stessa un "universo
completo", portava all'esperienza mistica, al contatto reale con la
dimensione spirituale e perciò l'atto di interromperla era qualcosa di più
grave che un semplice disturbo.

46
Quest’azione, infatti, era incompatibile con ogni logica; era come se,
riconosciuto con piacevole sorpresa un amico in mezzo alla folla, mi
intrattenessi con lui, poi, all’improvviso, gli volgessi le spalle, mi
mescolassi alla folla ma con la speranza di sperimentare entro breve tempo
la sorpresa di incontrarlo nuovamente per riprendere la conversazione
sospesa.
Questa cosa sciocca, assurda, era precisamente quello che facevo
applicando alla lettera la routine menzionata: il suono di Om rappresentava
davvero l'esperienza mistica, la meta che cercavo attraverso ogni tecnica.
Ancora mi chiedo perché mai avrei dovuto interrompere la sintonia con
quel suono per poi riconquistarla attraverso un'altra tecnica considerata più
elevata? Provo imbarazzo a confessare che per circa tre anni ripetei ogni
giorno, due volte il giorno, quest’assurda commedia: tale fu il potere di
quella follia che nel nostro gruppo era chiamata "lealtà".
Andai avanti dunque senza mutare la routine prescritta, sperando in una
ipotetica mia evoluzione futura che mi avesse permesso di praticare con
più soddisfazione, di avere risultati più tangibili.
A causa di questi condizionamenti ero come divenuto uno di quegli
animali nutriti dall’uomo che tendono a dimenticare come essere auto
sufficienti; portai avanti per lungo tempo la tendenza a dipendere dal
giudizio della scuola per qualsiasi cosa, persino per le cose che
riguardavano gli aspetti pratici della vita.

Allora, il pensiero di lasciare l’organizzazione e camminare per conto


mio non mi attraversava neppure lontanamente la mente. La scuola era
buona e, in senso affettivo, la sentivo come una seconda famiglia;
consideravo il Maestro PY. come la migliore, anzi l’unica autorità nel
campo del Kriya. Ancora non sapevo che, nell’insegnamento del Kriya,
aveva scelto di semplificare le tecniche originali di Lahiri Mahasay. Un
provvidenziale, anche se triste, evento mi fece uscire da quella situazione.
La scuola impartiva i cosiddetti "Insegnamenti superiori" del Kriya
solamente in forma scritta. C'era qualche cosa in essi che non riuscivo a
comprendere pienamente: volevo padroneggiare la tecnica del Thokar [la
scuola lo chiamava Terzo e Quarto Kriya] che si basava sull’unificazione
del Mantra di dodici sillabe Om Namo Bhagabate Vasudevaya con alcuni
movimenti della testa.
Tutto ciò di cui avevo bisogno era soltanto vedere eseguiti tali movimenti.
47
Scrissi alla direzione della scuola per fissare un appuntamento con uno dei
suoi rappresentanti, un Ministro che presto avrebbe visitato il nostro
gruppo per tenervi delle lezioni. Stavo chiedendo un favore che una mente
razionale considera lecito, non sapendo quanto l’evento fosse improbabile -
la scuola poteva difficilmente cambiare le proprie consuetudini per venire
incontro al mio desiderio.
Probabilmente avevo chiesto qualcosa che era una fonte d’imbarazzo sia
per la scuola sia per il Ministro. Potevano esserci diverse spiegazioni per
ciò. Il Ministro avrebbe potuto lui stesso avere dei dubbi su quella tecnica,
che P.Y. aveva scritto molti anni prima; inoltre delle fonti accreditate
affermano che P.Y. non la avesse insegnata direttamente neppure alla
maggior parte di coloro che allora vivevano presso i quartieri generali della
scuola.
Non potevo comprendere tutte queste cose e fui molto deluso quando mi
accorsi che il Ministro continuava a posporre, senza valide ragioni, il
momento del nostro incontro. Quando infine, dopo mie reiterate insistenze,
c’incontrammo, attraversai un momento veramente spiacevole.
Credevo che l'ipocrisia, la burocrazia, le formalità, le piccole falsità e
sottili violenze all’onestà altrui fossero totalmente estranei a ciascun
rappresentante di quella scuola. L’impressione che ebbi fu simile a quella
di incontrare un agente di una delle molte istituzioni che troviamo nella
comune vita sociale.
Il fatto crudele fu che il Ministro non volle mostrarmi precisamente come
la testa dovesse essere mossa. Tentò di convincermi che avrei dovuto
praticare solamente le tecniche preliminari e il Primo Kriya. Risposi che
avrei tenuto il suo consiglio in debita considerazione, ma ciononostante
volevo vedere i movimenti corretti della testa, per praticarli in un ipotetico
futuro.
A causa della mia insistenza, divenne nervoso e m’invitò bruscamente ad
indirizzare le mie domande, in forma scritta, alla direzione della scuola.
Non servì a nulla obiettare che non era possibile verificare per mezzo di
una lettera i movimenti della testa, mi trovai di fronte a muro ed il rifiuto
fu assoluto.
Ero consapevole di avere seguito quella scuola con fiducia e rispetto; di
aver studiato l’intera letteratura come se avessi dovuto preparare un esame
universitario. La mia costernazione era quella d’essere ora un testimone
impotente del capriccio insensato di un uomo in una posizione di potere.
48
Questa situazione mi creò un terribile dubbio - forse l'organizzazione agiva
così verso chiunque? Se ciò era vero, allora era una cosa orribile!
Uscii dall'intervista in una condizione mentale ed emotiva molto strana.
Una parte di me era ferita e davvero disperata, non solo a causa della
crudeltà sperimentata, ma anche per un'altra ragione.
Ci sono tratti infantili in noi che in momenti difficili possono emergere.
Temevo, infatti, oscuramente, che quest’uomo, ritornato alla direzione
della scuola potesse parlare male di me, dicendo qualche cosa che nel
futuro avesse potuto mettere in pericolo un'altra opportunità di avere quei
chiarimenti tanto agognati. Intuivo che la mia relazione con quella scuola
era stata scossa alle radici. Dopo di ciò non poteva esistere più per me quel
rapporto idilliaco che per molti anni aveva costituito il mio orizzonte.
Nonostante tutto, il mio cuore diceva che in qualche modo avrei superato
ogni difficoltà e trovato tutti i chiarimenti che cercavo. Sapevo inoltre che
avrei trasformato quell'esperienza distruttiva in qualcosa di decisivo non
solo per il mio sviluppo spirituale, ma anche per quello d’altre persone. La
parte autodidatta di me, che non ero riuscito a soffocare per aderire allo
spirito del gruppo, era intimamente soddisfatta dalla situazione; con quel
salutare calcio "nel fondo schiena" la scuola mi costringeva a svegliarmi;
quello che io ero un tempo ora si stava ridestando.
Il mio interlocutore italiano era quella signora anziana che mi aveva già
insegnato le tecniche preliminari e che era investita ufficialmente del ruolo
chiamato "Meditation Counsellor".
Dopo aver ascoltato i miei dubbi e i miei ragionamenti, mi raccomandò
un'obbedienza assoluta dicendo che la mia logica non era di alcun valore:
essa si originava dall'ego e quindi non era di alcun’utilità. Affermò che
l'intelligenza è un'arma a doppio taglio, che può essere utilizzata per
eliminare il bubbone dell'ignoranza ma anche per troncare
improvvisamente la linfa vitale che sostiene il percorso spirituale.
Mi sia concesso di condividere qualche cosa in più, non per cercare di
trovare una giustificazione al mio stupido atteggiamento ma soltanto per
descrivere una situazione quasi irreale che, riconsiderandola ora con occhi
più maturi, mi sembra, più una questione pertinente al campo della
psichiatria che a quello del cammino spirituale.
Poiché, osservando una particolare fotografia di P.Y., presa lo stesso
giorno della sua morte, avevo percepito come se una lacrima fosse in
procinto di formarsi nei suoi dolci occhi [non era una sensazione bizzarra,
49
altre persone mi riferirono la stessa impressione] e poiché io, tanto per dire
qualche cosa, le avevo riferito quest’impressione, divenne seria, e
guardando lontano, verso un punto indefinito, sospirò gravemente: «devi
considerarlo un avvertimento; il Guru certamente non è contento di te»!
Rimasi in silenzio, confuso.
Mi raccontò un episodio della vita di P.Y. che provava come Lui fosse in
diretto contatto con Dio.
Mi disse quello che accadde quando un discepolo scelse di continuare la
ricerca spirituale attraverso altre tradizioni e lasciare l’Ashram di P.Y.
Il Guru intuì telepaticamente quanto stava avvenendo nell’animo lacerato
del discepolo e si accinse ad andare da questi per consigliarlo e quindi per
convincerlo a rimanere. Sentì però internamente una voce - quella di Dio
stesso, Lei assicurò - la quale gli intimava di non interferire con la libertà
del discepolo.
Il Guru obbedì ed in un bagliore d’intuizione vide tutte le incarnazioni
future del suo discepolo, quelle in cui lui si sarebbe perso, nelle quali
avrebbe continuato a cercare - in mezzo a sofferenze innumerabili e
indicibili, passando da un errore ad un altro - lo stesso sentiero spirituale
che ora stava abbandonando.
Il discepolo era dunque destinato a ritornare proprio ai piedi di P.Y., non
avrebbe mai trovato la Liberazione altrimenti. La signora proseguì il
racconto affermando che, in seguito, il suo Guru P.Y. specificò il numero
delle incarnazioni che quest’immenso e desolato "viaggio" sarebbe durato:
approssimativamente trenta (!)
La morale di questa storia era evidente: anche se avevo dei dubbi, dovevo
semplicemente andare avanti seguendo i consigli ricevuti dalla scuola e da
lei, «perché quella è la volontà di Dio».
Se non avessi fatto questo mi sarei senz'altro perso in un labirinto di
enormi sofferenze e chissà quando avrei di nuovo ritrovato la strada giusta.
Sebbene ammirasse la serietà con la quale procedevo lungo il sentiero -
diversamente da altre persone tiepide ed esitanti che andavano da lei
unicamente per essere ricaricate di una motivazione che non riuscivano a
trovare in loro stessi - era delusa per il fatto che la devozione che lei
provava per il suo Guru mi era totalmente estranea.
Raccontando questo o altri episodi della vita di P.Y., cercava di rendermi
compartecipe delle sue esperienze. Le sono grato per tutti i suoi sforzi
sinceri e il tempo che lei spese per me, ma come poteva cambiare la mia
50
natura? Fece quello che era nelle sue possibilità; non poteva dar sollievo
alla mia immensa sete di conoscenza dell’arte del Kriya.
Incapace com’era di chiarire i miei dubbi tecnici, mi disse in definitiva che
il consiglio che avevo ricevuto da parte di quel Ministro era giusto;
incarnava la volontà di Dio e la sola cosa che dovevo imparare era come
arrendermi completamente ad esso.
Avevo l’impressione che lei fosse in permanente anticipazione che io
agissi in qualche modo "sleale."
Mesi più tardi, infatti, venne a sapere che avevo letto un libro "proibito",
uno di quei testi che, agli appartenenti alla nostra scuola di Kriya, era
raccomandato categoricamente di non leggere.
Era scritto da un uomo [D.W.] il quale, un tempo, faceva parte della
direzione della scuola, mentre ora stava suoi propri piedi ed era, a suo dire,
uno che era "caduto" dal sentiero, uno che aveva "tradito".
Non avevo dubbi che in questo terzo millennio una persona potesse leggere
quello che riteneva più conveniente e così feci; trovai il libro interessante e
distribuii alcune copie ad altri amici!
Uno di questi, successivamente, mi mostrò una lettera nella quale lei si
riferiva a me come «uno che pugnala il suo Guru alle spalle e distribuisce
pugnali affinché altri facciano lo stesso»!
La sua reazione fu così abnorme che non mi ferì affatto; sperimentai
piuttosto per lei una sorta di tenerezza. Sentii che aveva agito sull'onda di
un’emozionalità irrefrenabile e che decenni di condizionamento avevano
influito irreparabilmente sul suo buonsenso.
Mi pareva di vederla mentre batteva a macchina quella lettera.
Ravvisando che le sue infauste attese nei miei confronti si erano
materializzate, scrivendo di getto e aggiungendo altre considerazioni come
per liberare tutta la tensione accumulata, la sua espressione doveva essersi
mantenuta serena, come quella di chi assapora una dolce, intima,
soddisfazione.

51
CAPITOLO IV JAPA E LO STATO DI ASSENZA DI RESPIRO

Quel Ministro e la Meditation counsellor non ce l’avevano con me.


Anzi, forse mi avevano preso in simpatia e il problema stava in loro stessi.
Venni a sapere infatti che entrambi, ai tempi dei loro primi passi nel
sentiero del Kriya erano stati dei ricercatori piuttosto esigenti per quel che
riguardava la comprensione di ciascuna tecnica; poi si erano trovati in
conflitto con la descrizione delle tecniche, alquanto sommaria, che P.Y.
aveva lasciato.
Facendo una certa violenza alla loro intima natura vi si erano adeguati - la
meditation counsellor mi disse di aver ricevuto tantissime lavate di capo.
Ora vedevano in me la loro ingenuità giovanile e riscoprivano un conflitto,
evidentemente non del tutto sanato. La direzione della scuola, cui scrissi,
fu invece sempre molto gentile: le risposte rivelavano la loro buona fede
che mi consolava come un vasto sorriso. Successivamente ebbi la gioia di
incontrare un altro loro rappresentante che mi risolse il problema senza
tanti isterismi.
Per molto tempo sperai di trovare in qualche libro dei suggerimenti che mi
facessero comprendere quello che la scuola non era riuscita o non aveva
voluto farmi comprendere ovvero l'insegnamento di P.Y. nella sua totalità.
Verso questo Maestro, infatti, nutrivo un atteggiamento particolare. Ho già
affermato che lo ritenevo unico; ero propenso, infatti, ad accogliere alcune
fantasie suggerite dai miei amici kriyaban secondo le quali egli avrebbe
avuto un incontro con Babaji molti anni dopo l’episodio dell’iniziazione di
Lahiri Mahasay. In pratica avrebbe ricevuto delle istruzioni più fresche ed
efficaci di quelle ricevute dallo stesso Lahiri Mahasay. Ero convinto che
quello che P.Y. aveva scritto contenesse la totalità delle informazioni
necessarie alla mia vita e se qualcuno affermava di possedere del materiale
diverso, appartenente a scuole che si rifacevano direttamente a Lahiri
Mahasay, questo fatto m’infastidiva.
Ma il problema rimaneva: come potevo decifrare i Suoi scritti?
Nel materiale da me studiato c'era una particolare lezione che, accennando
al Kechari Mudra, lo descriveva come una tecnica indispensabile ad
ottenere il risveglio di Kundalini ma non spiegava come raggiungerlo.
Sembrava inoltre che la scuola facesse il possibile per impedirmi di volare
alto.
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Venni a sapere che un gruppo di appassionati di Kriya, che vivevano in
un'importante città europea, dopo avere cercato invano di ricevere dai
cosiddetti "Ministri autorizzati" i chiarimenti su quella stessa tecnica, si
erano rivolti ad un insegnante indiano invitandolo nel loro gruppo.
L'insegnante accettò l'invito, arrivò nel gruppo e, dando una lettura veloce
al materiale scritto, oggetto di così molti dubbi, affermò di non riconoscere
il Kriya da lui praticato. Gli insegnamenti scritti forniti dalla scuola erano
effettivamente ambigui: per portare un esempio, il Mantra era presentato in
un modo inusuale; una pronuncia creata in modo specifico per gli
anglofoni (om naw maw bhaw….) era il sostituto dei reali termini del
Mantra. [E’ chiaro che io rispetto questa scelta, ma solo fintantoché essa
sia integrata da una nota che riporta il vero spelling del Mantra]. A parte
questo, la cosa assurda era che detto Mantra era sempre scritto con dodici
sillabe separate, come se non di un Mantra si trattasse ma di dodici diversi.
Il lettore medio non era capace di riconoscere affatto il Mantra, cercando
invano di immaginare l’origine e il significato di ciascuna delle sillabe.
[Altre persone avevano avuto lo stesso problema - talvolta in qualche
Forum su Internet ci sono ancora delle discussioni su tale punto.]
Ora, conoscendo gli indiani, sono sicuro che quel Maestro aveva totale
familiarità con quanto andava leggendo e che fosse capace di chiarire
facilmente, e con poche parole, ogni dubbio. Stava fingendo: la sua
sceneggiata era intesa a dare l’impressione che gli insegnamenti di P.Y.
fossero totalmente errati, ingannevoli, costruiti di fantasia. In questo modo
cercava di fare apparire come provvidenziale il suo lavoro di
chiarificazione. Voleva dare l’impressione di essere venuto presso il
gruppo per salvare le persone da un completo abisso di errore! Affermò
che era necessario ripartire completamente daccapo e ricevere di nuovo, da
lui, l’iniziazione al Primo Kriya.
Come conseguenza perse immediatamente due terzi degli studenti che
rifiutarono categoricamente di diventare formalmente "suoi discepoli",
come lui richiedeva. Quelli che accettarono le condizioni furono iniziati di
nuovo nel Primo Kriya e ricevettero tecniche nuove come il Kechari
Mudra e il Navi Kriya.
Provvidenzialmente la segretezza non fu rispettata, ed informazioni
preziose giunsero ai miei orecchi.

53
Alcuni praticanti assidui ricevettero in seguito anche i Kriya superiori;
qualcuno tra loro non si fece più sentire e scomparve, come in un buco
nero, nell'orbita di quell’insegnante, altri rimasero con un piede nella
scuola ed uno fuori, portando avanti una pratica distinta da molti
ripensamenti e sentimenti d’insoddisfazione.
La mia ricerca personale prese una particolare direzione. Sapevo che
c'erano dei discepoli diretti di P.Y. che avevano litigato con la direzione
della scuola e che in seguito si erano messi per conto proprio. Ebbene
speravo che, quasi per vendetta, questi avessero rivelato per scritto quei
particolari che m’interessavano. La mia ricerca s’indirizzò verso questi.
C’erano due o tre nomi di tali diretti discepoli: acquistai tutto il materiale
pubblicato da loro, persino registrazioni di loro conferenze. Quello che
trovai fu di una devastante banalità: i segreti, se ce n’erano, erano ben
custoditi.
Continuai la ricerca su libri che trattavano di argomenti simili ma che
provenivano dall’India e non erano tutti in relazione diretta col Kriya.
Speravo che in essi avrei potuto ottenere delle intuizioni corrette. Nel
frattempo incominciai a leggere dei libri scritti da discepoli di Lahiri
Mahasay, i quali non avevano alcun legame con P.Y. L'occasione fu
quando degli amici che tornavano dall'India me ne portarono qualcuno.
Essi mi delusero molto e mi fecero rimpiangere lo stile chiaro di P.Y. Non
vi trovai nient’altro che parole vuote, prive di alcun significato, ripetizioni
senza fine unite alla caratteristica intollerabile di saltare continuamente da
un argomento ad un altro. I chiarimenti pratici che erano presentati come
preziosi non erano altro che delle povere cose copiate dai libri classici di
Yoga. Erano scritti così male da far pensare che l'autore non si fosse
neanche dato la pena di controllare il testo originale. Probabilmente aveva
copiato da un altro libro il quale a sua volta era copiato da altri, in una
catena dove ogni autore aggiungeva qualche strana considerazione tanto
per lasciare il segno della sua personalità.

Le cose andarono avanti come descritto, finché una crisi profonda


sradicò ogni apparente certezza. Ebbe luogo un evento che mi fece
precipitare in uno stato dal quale non fui capace di emergere se non dopo
un decisivo cambiamento di rotta, ovvero un mutamento radicale delle mie
convinzioni. L'episodio riguardò una delicata relazione umana.
54
Penso che il buon senso sarebbe bastato per trovare un modo corretto di
azione, ma io ero un kriyaban [uno che pratica il Kriya] e perciò tentai di
applicare in un modo integrale gli insegnamenti di P.Y., particolarmente
quelli che riguardavano la vita concreta. Il problema delle "regole di
comportamento" fu esplorato anche studiando gli Yoga Sutra di Patanjali,
poiché davo per scontato che essi fossero non solo le basi dello Yoga
classico ma anche del Kriya Yoga.
Per decidere come comportarmi in un determinato momento cruciale,
scelsi, fra tutti gli scritti, quelli che concordavano con i miei piani mentali:
delle frasi che sembravano confermare le mie idee. A me interessava
sapere che il mio modo di agire era approvato e sostenuto dall’alto e che le
benedizioni e la forza del Guru erano con me.
Il fallimento giunse. Fu palese; in un primo momento non riuscii ad
accettarlo. Non riuscivo a credere di avere agito in modo errato; mi piaceva
nutrire il pensiero che fossero le altre persone a non essere all’altezza delle
mie decisioni. Era come se io fossi "troppo spirituale" per vivere in questo
mondo; perciò volevo credere di dover sopportare pazientemente per un
certo tempo una situazione provvisoria. Un giorno tutto si sarebbe risolto a
mio favore.
Come una persona mentalmente alienata, avevo perso il contatto con la
realtà finché il sogno illusorio incominciò a disgregarsi, lentamente ma
inesorabilmente.
Questo accadde quando tentai di scrivere una sintesi delle mie esperienze e
cominciai a richiamare alla mente gli accadimenti del mio percorso
spirituale dal loro vero inizio.
Ricordai vividamente le prime sedute di Pranayama e quanto avevo
allora sperimentato. In uno stato d’estasi creato dalla bellezza di quel
passato, il dolore pungente per la situazione venutasi a creare nel momento
presente divenne l'esaltazione per la certezza che questo passato non se
n’era andato per sempre, che bastava solo un atto di volontà per
recuperarlo.
Divenne sempre più chiaro quale fosse stato il vero male che aveva
dominato gli ultimi anni della mia vita. Vidi che la cosa letale era la sottile
e perniciosa idea di appartenere al gruppo privilegiato che praticava «la
tecnica più rapida nel campo dell'evoluzione spirituale». Questo pensiero
era penetrato nella mia consapevolezza, risvegliando cieche emozioni

55
istintive, le quali mi avevano impedito di esercitare la dovuta vigilanza
nonché la discriminazione verso le cose più ovvie della vita.
Pigrizia interiore, paralisi dell'intelligenza n’era seguita.
Ora non era più possibile evitare di vedere che la mia pratica del Kriya era
superficiale. Fra gli altri pensieri sciocchi accettai l’inganno che ogni
Pranayama produceva, quasi automaticamente, «l'equivalente di un anno
solare di evoluzione spirituale» e che con un milione di questi respiri Kriya
avrei raggiunto infallibilmente la Coscienza Cosmica.
Ogni volta che mi sedevo per praticare, cercavo di eseguire il più gran
numero possibile di Pranayama per avvicinarmi con sempre più fretta e
ansia al momento nel quale avrei completato quel numero!
Quando avevo incominciato la mia avventura spirituale non avevo
coltivato quelle certezze e avevo affrontato con coraggio il senso di
disperazione scoperto nelle profondità di me stesso. Il Pranayama era stato
il mezzo per fare a pezzi l’oscurità interiore!
Ora, anche se quel Pranayama era stato perfezionato divenendo
nientemeno che il supremo Kriya Yoga - ricevuto per di più con le
benedizioni del Guru - non lo stavo praticando con la primitiva intensità,
con la dignità di allora.
Era evidente che avevo perso totalmente la motivazione iniziale, lo spirito
di ricerca, la gioia della scoperta. In me non era avvenuta alcuna crescita
genuina. Stavo praticando con un atteggiamento arrogante, di supremazia,
fiducioso sull'automatismo del mio percorso. Era necessario sentire di
nuovo la benedizione della sofferenza e del dubbio. Era necessario
comportarmi non come chi ha trovato un tesoro, lo ha nascosto e ci dorme
sopra tranquillamente, ma come un ricercatore che sviluppa e amplifica la
sua scoperta.
L'atmosfera ipnotica delle "Guru's Blessings" era stata, nel mio caso, la
culla nella quale il mio ego era stato alimentato e fortificato.
La necessità di ricreare lo spirito di un’autentica ricerca divenne
imperativa.

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PATANJALI: COME COSTRUIRE UNA ROUTINE KRIYA
In quel tempo studiai gli Yoga Sutra di Patanjali e vi trovai degli spunti
per costruire una routine di Kriya che fosse razionale.
L’approccio di Patanjali allo Yoga è noto. Fu un pioniere nell’arte di
considerare razionalmente il sentiero mistico, cercando di individuare una
direzione agli eventi che fosse universale, fisiologica, che spiegasse come
mai un certo fenomeno, inerente al sentiero spirituale, dovesse precederne
un altro e necessariamente seguirne un altro. La sua fatica di sintesi
potrebbe essere criticata, o, a causa della sua distanza temporale, potrebbe
essere di difficile comprensione ma, in ogni caso, è di straordinaria
importanza. Nello svolgersi del processo Yoga, egli individua otto passi:
Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana,
Samadhi. Ci sono diversi modi di tradurre questi termini sanscriti.
Yama: autocontrollo. [Non-violenza, non mentire, non rubare, non lussuria
e non attaccamento.]
Niyama: osservanze religiose. [Pulizia, appagamento, disciplina, studio del
Sé, e resa al Dio Supremo.]
Asana: posizione o esercizio fisico. Quella assunta dallo Yogi deve essere
stabile e comoda.
Pranayama: regolazione del respiro. Per mezzo di questa, ne viene la
regolazione del Prana e poi la naturale cessazione del respiro.
Pratyahara: ritiro dei sensi. La consapevolezza è sconnessa dalla realtà
esterna.
Dharana: concentrazione. Concentrare la mente su un oggetto scelto.
Dhyana: meditazione o contemplazione. La prosecuzione di
quest’attenzione come un flusso costante ininterrotto di consapevolezza
che esplora completamente tutti gli aspetti dell'oggetto scelto.
Samadhi: perfetto assorbimento spirituale. Contemplazione profonda, nella
quale l'oggetto della meditazione diviene inseparabile da colui che medita.
Il paragone tra il sentiero del Kriya e quello di Patanjali può avvenire
qualora si faccia riferimento solo al testo originale, senza commenti, e si
osservi attentamente e obiettivamente la propria esperienza meditativa.
Sin dal primo sguardo appare chiaro che i primi tre passi di Patanjali
potrebbero essere sottintesi e non menzionati
I precetti morali, le cose che è giusto fare come anche quelle che è giusto
evitare, in altre parole la base etica del sentiero spirituale, sono un qualcosa
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che, presentando il Kriya, è meglio non affermare con forza, quale
prerequisito assoluto. Questo non significa che la vita del kriyaban possa
essere dissoluta, ma è chiara la totale inutilità delle "prediche"
moraleggianti. È avvenuto che delle persone dalla vita moralmente
discutibile ebbero successo nel Kriya e arrivarono spontaneamente alla
cosiddetta vita virtuosa, mentre molti "benpensanti" fallirono.
L'insegnante di Kriya è sempre incline a lasciar correre il comportamento
dell’allievo, facendo finta di non vederlo, di non intuirlo e, per un po’, non
ne parla, proprio perché ha gran fiducia nell’effetto trasformante della
stessa pratica del Kriya. D'altro canto è ovvio che se una persona,
desiderosa di imparare il Kriya, va dall'insegnante e questi gli propone le
regole morali di Patanjali [Yama, Niyama], chiedendogli una solenne
promessa di adeguarsi ad esse, quasi sicuramente l’allievo lo farà, come
per sbrigare una pratica burocratica, curioso di procedere con
l’apprendimento delle tecniche.
[Nel prossimo capitolo racconterò della mia frequentazione di due
insegnanti di Kriya. Ricordo quanto fossi infastidito qualora il secondo
chiedeva al pubblico una promessa che sapevo molto bene che lui stesso
non era capace di rispettare. Prima di ogni iniziazione al Kriya faceva
promettere ai suoi allievi che essi avrebbero guardato al sesso opposto –
tranne il loro partner – senza provare fisica attrazione. A tal fine
consigliava agli uomini di guardare le donne quali "madri" e,
analogamente, alle donne di guardare gli uomini come "padri". Con un
sospiro di mal celata insofferenza aspettavo che terminasse il suo
farneticare e procedesse con la parte rimanente della conferenza, arrivando
in fine alla spiegazione delle tecniche.]
Per quanto poi riguarda la posizione di meditazione "stabile e comoda", un
buon insegnante di Kriya lascia l'allievo libero di scegliere il mezzo-loto
oppure Siddhasana o Padmasana, anzi non perde tempo in questi dettagli
poiché sa che l'allievo serio e risoluto userà il buonsenso per trovare la
posizione ideale comoda che permetta di mantenere con facilità la spina
dorsale diritta durante la pratica del Kriya.
La prima azione che si compie nel Kriya è dunque il quarto passo di
Patanjali: il Pranayama. Egli afferma che l'azione del Pranayama sul
respiro e sull’energia presente nel corpo crea uno stato di calma,
d’Equilibrio che diventa la base degli stadi successivi. Ma Patanjali è
evasivo per quanto riguarda il Pratyahara: in questo stato l’energia nel
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corpo si volge verso l’interno e ne consegue uno stato dove il respiro è
perfettamente assente.
In realtà quest’evento non consiste in un singolo ma in due momenti:
anzitutto alcune tecniche specifiche [Maha Mudra, Navi Kriya e la
maggior parte dei Kriya superiori] che richiedono movimento fisico sono
consigliate; poi è richiesta la perfetta immobilità e la concentrazione è
diretta nella spina dorsale [nei Chakra] ad aumentare l’esperienza della
realtà Omkar e non, come avviene nel Dharana di Patanjali verso un
oggetto astratto o concreto.
In un modo davvero peculiare Patanjali spiega che, dopo la scomparsa del
respiro, lo Yogi dovrebbe cercare un oggetto fisico o astratto su cui volgere
la sua concentrazione ed esercitarla in una specie di meditazione
contemplativa fino a perdersi in esso.
E’ interessante per coloro che affrontano il Kriya, comprendere che la
definizione di Dharana data da Patanjali non ha nulla a che vedere con le
idee e gli intenti di Lahiri Mahasaya. Un kriyaban incontra la
manifestazione della realtà Omkar, la vibrazione che sostiene l'universo, il
suono interiore che afferra la sua coscienza e la porta sempre più in
profondità, evitandogli il pericolo di smarrirsi per strada. La coscienza è
riempita di tale delizia che non c’è motivo di abbandonare tale percezione
e sceglierne un'altra che sicuramente non potrà che appartenere al regno
della mente.
La distinzione poi tra Dharana e Dhyana - volgere il fascio della
concentrazione su un oggetto e cominciare ad esplorarlo in una
meditazione contemplativa - è per il kriyaban di poco valore. Una seduta
ideale di Kriya dovrebbe terminare con l’ottavo passo di Patanjali: il
Samadhi.

Riassunto
1… Una routine Kriya incomincia con un’azione sul respiro [Pranayama]
il quale viene guidato, indirizzato, controllato e, pur essendo lungo e
profondo, trasformato essenzialmente in un movimento di energia.
2….La spina dorsale è magnetizzata; questo crea una situazione di
profonda calma e tranquillità, una sensazione d’espansione e di conforto
interiore. Il respiro si calma e il cuore rallenta.
3….La consapevolezza del respiro è messa da parte, con lo scopo di
"trascenderlo" grazie ad un processo puramente mentale.
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La concentrazione sui Chakra, sia la parte che si trova all’interno della
spina dorsale sia quella volta all’esterno, secondo una tempistica suggerita
dall’intuizione, arricchisce enormemente la percezione della realtà Omkar.
4… La preoccupazione costante di sollevare il livello di coscienza nei
Chakra superiori, in particolare nel Kutastha, finisce col far sì che la
coscienza si fonda con Om. Nella totale immobilità, quando il rilassamento
raggiunge lo stato perfetto, l’energia entra nella spina dorsale; la
consapevolezza si fonde nella luce "risplendente come un milione di soli".
Rispettando i principi trovati, potei apprezzare maggiormente le
cosiddette tecniche preliminari Hong So e Om e potei farmene un’idea
diversa.
Esse possono rappresentare, ciascuna, una completa esperienza di Kriya.
Ciascuna, nella sua apparente semplicità, rivela di essere costituita da
diversi livelli e questi possiedono il potenziale per sostituire la routine
completa.

JAPA E L’ASSENZA DI RESPIRO

Riuscii a vincere la naturale riottosità di leggere anche libri al di fuori


delle opere che riguardavano il Kriya e lessi anche le opere di Mère.
Il gran fascino per quest’eminente figura cominciò dopo aver incontrato il
pensiero di Sri Aurobindo - i suoi Aforismi ed il poema epico Savitri erano
i miei preferiti. Dopo la morte di Aurobindo nel 1951 fu Mère che perseguì
la sua ricerca e portò avanti il suo sogno: che il Divino - l’intelligente forza
evolutiva alla base di tutto ciò che esiste - potesse giungere ad una perfetta
manifestazione su questo pianeta!
«Nella materia, il Divino diviene perfetto…» Mère sosteneva. Di certo
non si atteggiò a Guru tradizionale, sebbene cercasse di estrarre da ogni
essere umano che veniva a cercare inspirazione ai suoi piedi, tutte le
potenzialità nascoste. La storia della sua ricerca è descritta nell’Agenda di
Mère! La Sua presenza nella mia vita, evocata da letture attente e
appassionate, agiva come una pressione interna che invocava un significato
da ciascuna parte della mia vita. Lei pose l’accento sul valore di non
cercare ad ogni costo di divenire puri davanti agli occhi degli altri, ma di
comportarsi in modo naturale. Secondo lei, noi dovremmo accettare quello
che siamo, riconoscendo il nostro lato oscuro e quindi di essere
sostanzialmente simili «a coloro che vivono nell'oscurità»! Non so dove

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trovai la sua affermazione secondo cui «il desiderio della purezza è il più
grande ostacolo sul cammino spirituale»! «Non cercate di sembrare
virtuosi - aggiunse - vedete fino a che punto siete uniti, una sola cosa con
tutto ciò che è anti-divino.»
Non riuscirò mai a descrivere l’esplosione di gioia, il sentimento di libertà
che provai leggendo quelle parole così rivoluzionarie! Quando uscivo per
una passeggiata, se incontravo qualcuno e mi fermavo ad ascoltarlo, non
importa quello che dicesse, un’improvvisa gioia scoppiava nel mio petto,
saliva fino agli occhi tanto che era difficile trattenere le lacrime.
Guardando le montagne lontane o altre parti del paesaggio, cercavo di
indirizzare verso di esse quello che sentivo, onde trasformare la gioia
paralizzante in un rapimento estetico: questo tratteneva la gioia che serrava
il mio essere e la nascondeva.
Poiché avevo un bisogno disperato di pace e tranquillità, scelsi d’essere
fedele alla più semplice possibile routine di Kriya e vivere in un modo più
ritirato, introverso.
Caparbiamente mi aggrappai alla ben nota istruzione di mantenere
risolutamente, durante il giorno, un atteggiamento identicamente
indifferente verso eventi piacevoli o sgradevoli, cercando di sentirmi
sinceramente come un "testimone distaccato." Sostenuto dall'entusiasmo
per questo nuovo "trucco", descritto in modo talmente allettante in
pressoché tutti i libri che trattano di pratiche meditative orientali, riuscii ad
ottenere uno stato quasi ideale ma, dopo alcuni giorni, mi sentii sotto stress
come se tutto fosse una finzione, un'illusione. Fu a questo punto che
incontrai e lessi avidamente una biografia di Swami Ramdas, il santo
indiano che si era mosso in lungo e in largo attraverso tutta l’India
ripetendo incessantemente il Mantra Sri Ram Jai Ram Jai Jai Ram Om.
Questo fu davvero un importante evento: la sua fotografia - la semplicità
quasi infantile del Suo sorriso - accese la mia intuizione e mi spinse a
provare la stessa pratica; da questa decisione venne qualche cosa che
ancora rimane nel mio cuore come un’esperienza di vetta. Incominciai a
praticarlo ad alta voce durante le passeggiate, e poi tentai di continuarlo
mentalmente durante le attività della giornata. Il suono del Mantra che già
avevo ascoltato in un'incisione di un canto spirituale, dava l'idea di una
vibrazione forte ma dolce allo stesso tempo; l'uso di un rosario di 108 grani
rendeva la pratica molto piacevole.

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Anche se qualche volta mi sentivo un po’ stordito, ero determinato a non
abbandonare mai la pratica. Poiché, facendolo, notai un impulso
irresistibile di mettere tutto in ordine, pensai che il Mantra potesse lavorare
in un modo simile pulendo la mia sostanza mentale e mettendo in ordine la
mia "mobilia psicologica". Siccome la scelta del mio Mantra era scaturita
da una predilezione inequivocabile, fremevo di gioia a motivo della
vibrazione che esso creava nella mia consapevolezza. Perciò amavo
accarezzare questa vibrazione, prolungarla sulle mie labbra, farla vibrare
nel mio petto, investirla dell’aspirazione del mio cuore. Ci misi molta
forza in quella pratica; il mio atteggiamento non fu mai l’attitudine di
supplica di un devoto che si lamenta e singhiozza ma quella di un uomo
che si trova ad un passo dalla sua meta.
Venne l'estate; ogni giorno praticavo il mio Japa di mattina e il Kriya a
mezzodì in campagna. Una giorno, dopo il Pranayama, mentre stavo
salendo e scendendo su e giù attraverso i Chakra, percepii distintamente
un'energia fresca che sosteneva il mio corpo dall’interno. Entrai in
un'immobilità perfetta e, ad un certo momento, scoprii di essere
completamente senza respiro. Questa condizione durò vari minuti, senza
alcun sentimento di disagio: non c'era né il minino fremito di sorpresa, né
il pensiero: «Finalmente ho ottenuto questo stato! »
Nei giorni successivi, prima di iniziare il Pranayama guardavo il panorama
circostante e mi chiedevo se avrei tra poco sperimentato di nuovo lo stato
senza respiro; dopo 40-50 minuti avevo già completato la parte attiva - gli
ultimi respiri del Pranayama - e poi, dopo non più di due o tre minuti,
mentre stavo movendomi su e giù nella spina dorsale il miracolo accadeva
come previsto. Infallibilmente! Essa mi ricordava ciò che Sri Aurobindo,
dopo il lungo periodo di studi in Inghilterra, scrisse, quando posò piede sul
suolo indiano. Con uno spirito poetico, descrisse una vasta calma che
discese su di Lui, lo circondò e con Lui rimase per sempre. Siccome
verificai l'associazione perfetta tra la pratica del Japa durante il giorno e
l'ottenimento di questo stato, fui sorpreso che una delle più semplici
tecniche del mondo, qual è il Japa, avesse prodotto un tale prezioso
risultato! Effettivamente fu un evento strano, portatore di una lezione
fondamentale. Ecco qui sotto ciò che penso di tale fatto.
Poiché non siamo eremiti, è un compito quasi impossibile raggiungere in
circa di un'ora le condizioni ideali di rilassamento. Più tempo ci vuole per
calmare il corpo fino allo stato senza respiro. Ci sono pensieri che
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possiamo vedere, identificare ed eventualmente fermare, ma c’è un diffuso
rumore di fondo difficile da eliminare che rimane malgrado ogni nostro
sforzo. Quindi anche se il processo del Kriya è eseguito con tutta la
possibile accuratezza, questo rumore di fondo diventa un ostacolo
pressoché insormontabile. Annullarlo è possibile, a mio avviso, non con
trucchi tecnici ma solamente col Japa utilizzato durante le attività del
giorno: questo strumento è unico.
Ci deve essere sicuramente una ragione se il Japa ["Preghiera Continua",
"Preghiera Interiore", "Preghiera del Cuore", Dhikr] fu la pratica base della
maggioranza dei mistici. Sebbene le tradizioni Orientali raccomandino che
il Japa sia fatto mentalmente, ho la certezza che esso dovrebbe essere fatto
a voce alta - perlomeno durante un insieme iniziale di un centinaio di
ripetizioni. L’esperienza e il buon senso contraddicono la credenza che un
Mantra funzioni solo se è ricevuto da un Guru; naturalmente è chiaro che
una persona esperta che ci aiuta a scegliere un Mantra ed usa tutto il suo
potere di persuasione per convincerci ad applicarlo continuamente, ci fa il
più grande favore possibile! So che alcuni kriyaban non usano mai il Japa
durante la giornata; obiettano che Lahiri Mahasaya non raccomandò tale
pratica. A questo possiamo ribadire che pressoché tutti suoi discepoli, indù
e musulmani, praticavano il Japa perché questo era, a quell'epoca ed in
quel ambiente, una pratica molto diffusa.
È mia ferma convinzione che il Japa possa produrre "miracoli" proprio
anche dove la nostra volontà fallisce!
Nel corso di tre mesi vissi in questa dimensione celestiale, perfettamente a
mio agio, senza alcun altro desiderio da realizzare. Quasi ogni giorno
pensavo: «Non devo dimenticarmi un solo istante di quest’esperienza,
devo prender nota di ciascun dettaglio, voglio provarlo di nuovo, ogni
giorno della mia vita poiché questa è la più vera esperienza mai
sperimentata»! In una profondità fatta di blu, essa conteneva i cieli della
mia infanzia. Sembrava impossibile perderla.
Eppure la persi. Il mondo dei "Guru itineranti" si stava avvicinando alla
mia vita, e con esso un'incredibile confusione.

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CAPITOLO V LA DIMENSIONE OMKAR DEL KRIYA YOGA

Durante un viaggio all’estero, trovai un testo scritto da un insegnante


Indiano di Kriya Yoga il quale presentava il suo metodo affermando essere
il Kriya Pranayama originale di Lahiri Mahasaya, mentre quello di P.Y.
era menzionato come una forma lievemente modificata di Kriya.
Ero molto incuriosito quando lessi che la pratica del Pranayama doveva
essere considerata errata se durante la sua esecuzione non avveniva
l’esperienza del suono dell’Om - chiaramente senza chiudere gli orecchi.
L'affermazione valeva la pena di essere presa in considerazione: era chiaro
che l'insegnante si riferiva ad una pratica molto profonda di Pranayama.
Leggendo il libro, ebbi la sensazione che l'autore conoscesse il processo
del Kriya più profondamente di altri insegnanti.
Tra pagine di teoria, l'autore affermava che la parte finale del processo
d’illuminazione accadeva nel cervello in una regione vuota, la cosiddetta
"grotta di Brahma". Nella parte frontale di questa vi è la ghiandola ipofisi
e, dietro, la pineale. [Secondo lui rispettivamente la sede del sesto e del
settimo Chakra.] In tale spazio avveniva il fenomeno della
"illuminazione", inteso anche nel significato letterale del termine. Fra i
due "poli" si sarebbe prodotta, infatti, un’emissione di luce, una specie
d’arco di voltaico il quale avrebbe "illuminato" la regione. Questo fatto era
descritto come un "matrimonio mistico". Il chiarimento era accompagnato
da uno schizzo suggestivo per non lasciare il minimo dubbio sulla validità
e l'universalità dell'esperienza.
Non avevo alcuna idea su quando e dove avrei avuto l’opportunità di
incontrare questo insegnante, ma ero eccitato come un bambino che riceve
il più bel regalo; quasi già pregustavo la meravigliosa possibilità di
approfondire il mio Pranayama chiarendo, probabilmente, gli altri dubbi
che riguardavano la routine, il Kechari Mudra e anche i Kriya superiori.
Nei mesi seguenti, la mia idea fissa era intuire come lui insegnava ad
approfondire la tecnica del Pranayama. Talvolta appariva un dubbio
insidioso: qualora avessi ricevuto questo nuovo insegnamento, come avrei
fatto a capire se esso era davvero quello originale oppure non era altro che
un’invenzione? La ragione di tali incertezze stanno nei miei
condizionamenti di allora secondo i quali qualsivoglia informazione Kriya,
ottenuta al di fuori della scuola, poteva essere una invenzione da parte di
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coloro che curavano solo i loro personali interessi, come far soldi o
esercitare potere sulle altre persone.
Comunque l’ascoltare l’Om con le orecchie aperte [diversamente dalla
tecnica Om] sarebbe stato sicuramente la prova di ottimo approfondimento
del Pranayama.
Mi convinsi che la decisiva aggiunta tecnica consisteva nel cantare
mentalmente Om nei Chakra, salendo e scendendo nella spina dorsale,
esercitando, allo stesso tempo, tutta la possibile attenzione all’ascolto dei
suoni interiori.
Il Pranayama unito al Japa mentale mi era familiare, ma non avevo mai
cercato di accompagnarlo all’ascolto interno.
La tecnica di ascolto dei suoni interiori, appresa all’interno della scuola, mi
aveva dato la più grande delle soddisfazioni. Poiché l’ascolto della
meravigliosa vibrazione Om era stata una esperienza incomparabile, mi
prefiguravo un marcato successo con la mia nuova impresa. Ignoravo di
starmi avvicinando in realtà non al Pranayama base di Lahiri Mahasaya
bensì al Suo Omkar Pranayama.
Non ricordo quanti di questi respiri praticavo durante ciascuna giornata:
credo non superassero mai le 48-60 unità. Dopo di essi osservavo, il più a
lungo possibile, il respiro nei Chakra - sempre ascoltando i suoni interiori.
Nel libro era riportata un’istruzione molto interessante: se volevamo
migliorare la nostra pratica del Kriya avremmo dovuto prendere l'impegno
di osservare il respiro per 1728 respiri al giorno, spostando l’attenzione sui
vari Chakra, uno per ciascun respiro. Mi limitai a un quarto della dose
prevista; ma comunque il tempo che vi dedicai era davvero molto.
Il suono interiore apparve dopo appena quattro giorni di pratica assidua.
Era d’inverno. Accadde che per circa tre settimane potei sottrarmi
completamente alla realtà. Scelsi di rimanere tutte le mattine nel caldo
della mia casa praticando il più possibile. Entrai in una stagione della vita
nella quale sperimentai un appagamento totale come se il mio percorso del
Kriya fosse giunto alla fase finale.
Pensando a quest’esperienza, la associo all'idea di vacanza, perché fu
vissuta come una vacanza dalla vita, da tutti i problemi e le preoccupazioni
della vita reale.
Durante il giorno tutte le cose sembravano essere circondate da un manto
che rendeva ogni dissonanza impossibile; erano trasfigurate - sentivo di

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vivere in una realtà perfetta ed il mondo intero mi sorrideva in estasi, ogni
dolore volò via, lontano dal mio sguardo.
Ebbi l’opportunità di trascorrere alcuni giorni in una bella località di sport
invernali, dove ero libero di camminare nella campagna bianca di neve
senza una destinazione prefissata. Un pomeriggio, mentre oziosamente
camminavo senza una meta, il tramonto venne presto e colori meravigliosi
tinsero il panorama; le luci del piccolo villaggio sprofondato nella neve
s’illuminarono nel buio. Quello rimarrà per sempre lo splendido simbolo
del mio contatto con l’esperienza Omkar.
La cosa curiosa è che ancora non conoscevo l’insegnante, avevo soltanto
letto il suo libro, ma era l’intensità della mia pratica che era totale!
Le vacanze invernali finirono e ripresi il lavoro.
Nei pochi momenti liberi pensavo al gioiello prezioso che avevo trovato e
visualizzai per il mio futuro la possibilità di approfondire, con tale
dedizione, anche i Kriya superiori.
Un giorno, sul luogo di lavoro, ero in una stanza dove, attraverso una porta
di vetro, potevo vedere da lontano le montagne e contemplare sopra di loro
un cielo di un puro celestiale. Ero in estasi! Quel cielo distante era lo
specchio dei miei anni futuri dove avrei gioito solamente del mio Kriya.
Per la prima volta, il progetto di andare in pensione e vivere con un
minimo reddito, permanendo in questo stato per il resto dei miei giorni,
venne a me.

IL MIO PRIMO INSEGNANTE DEL KRIYA ORIGINALE

Quest’insegnante, a causa della necessità di essere sottoposto ad un


intervento chirurgico negli Stati Uniti, si sarebbe presto fermato anche in
Europa; mi diedi molto da fare per essere presente ad uno dei suoi
seminari.
Esso fu di grande impatto emotivo. Aveva un aspetto maestoso e nobile,
era molto "bello" nel suo abito ocra, anziano con capelli lunghi, barba
anche: era la personificazione del saggio. Nascosto dietro alcune file di
persone lo sbirciavo mentre parlava; sentivo che si riferiva al lascito di
Lahiri Mahasaya in base ad esperienza diretta. Nelle sue parole, dai toni
forse un po’ troppo devozionali, non trovai contraddizioni. Diceva cose
radicalmente nuove per me.

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Secondo lui, il Kriya non consisteva in un insieme di tecniche separate ma
in un unico processo progressivo di entrare in sintonia con la realtà Omkar:
come un filo in cui sono infilate le perle, così Omkar attraversa tutte le
diverse fasi del Kriya.
Tale realtà doveva essere percepita non solo come suono ma anche come
"sensazione di movimento" (altre volte egli si riferì a un senso di pressione
o pesantezza).
Tutte le tecniche del Kriya si dovevano praticare tenendo presente, come
obiettivo, quella percezione; il Maha Mudra, a tal fine, era preceduto da
particolari piegamenti.
L’obiettivo delle sue spiegazioni non era posto su quello che lui chiamava
"Pranayama col respiro lungo" ma sulla parte seguente dove il respiro è
sottile, esile e sembra talvolta scomparire. A questa pratica dedicò
un'enfasi enorme.
Mi stava conducendo in una meravigliosa dimensione che avevo solo
leggermente intuito. Si donava totalmente a noi per farci assaggiare questa
esperienza - per esempio come quando "toccava" gli studenti e faceva
vibrare il loro corpo.
In una sessione separata insegnò come introdurre nel Pranayama il Mantra
di dodici sillabe (Om Namo Bhagabate Vasudevaya) e con ogni sillaba
"toccare internamente" ciascun Chakra.
[Tutti i dettagli tecnici appresi da lui verranno condivisi nei prossimi
capitoli.]

Purtroppo il terreno che il mio insegnante aveva seminato cominciò a


diventare sterile poiché lui aveva scelto di non spiegare tutte le tecniche
tramandate da Lahiri Mahasaya – non parlo specificatamente di quelle dei
Kriya superiori ma anche di quelle appartenenti al Primo Kriya.
Consapevole che lo spirito del Kriya originale fosse stato perso presso le
altre scuole, volle farci avvicinare al vero significato di esso. Le tecniche
originali del Kriya di Lahiri Mahasaya, lui le aveva provate tutte,
concludendo che alcune di esse non erano essenziali; altre erano piuttosto
troppo delicate e difficili da praticare. I tentativi di comprenderle
avrebbero potuto risolversi, allora, in un’inutile distrazione per gli studenti
e, per lui, quale insegnante, una perdita di tempo. Si espresse in modo
molto fermo: la richiesta, da parte di alcune persone, di ricevere i Kriya
superiori rivelava uno scarso impegno nella pratica di base.
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Tutto quello che asseriva aveva un senso profondo, ma finì per isolarlo.
Non aveva calcolato la realtà della mente umana, la sua curiosità
insaziabile, il rifiuto totale di ubbidire a qualunque censura.
Vidi il senso della sua solitudine quando un giorno, durante una seduta di
ripasso del Kriya, rivolgendosi al pubblico, affermò che il vero Pranayama
poteva avvenire solo nello stato di assenza di respiro; quello con il respiro
lungo, era un gioco per «bambini di asilo». Chiuse le narici con le dita e
rimase in quella posizione per un certo tempo; stava semplicemente
illustrando un concetto, non si trovava dello stato di assenza di respiro. Le
persone lo guardavano senza capire; lo ritenevano bizzarro, originale.
Dentro di me pensavo a chissà quante delusioni lo avevano portato a questa
singolare dimostrazione. Forse aveva incontrato persone che, dopo anni di
Pranayama col respiro lungo, non avevano ottenuto niente; forse voleva
comunicarci quella che era stata la scoperta decisiva della sua vita. Eppure
il risultato fu che i principianti non percepirono altro che una distanza
incolmabile tra loro e il maestro. Coloro che avevano già una buona
conoscenza del Kriya videro confermato il loro sospetto, che lui fosse
esperto in procedure di cui non avrebbe mai rivelato il segreto. Parve loro
che tutto ciò che lui aveva insegnato servisse solo per introdurre le persone
al Kriya ma non ne fornisse la chiave delle esperienze supreme.
Letteralmente divorati dalla brama di ricevere gli insegnamenti completi,
non riuscivano a concentrarsi serenamente su quello che avevano già
ricevuto.
Mi si dirà che molti lo ubbidivano - è vero, ma si trattava di persone che
tendenzialmente mai si sarebbero date da fare per organizzargli dei
seminari. Per dirla franca, la loro fedeltà non gli bastò ad evitare il
peggiore esito. Il sano obiettivo di tutto il suo sforzo, tutte le meravigliose
sottigliezze con cui aveva arricchito il nostro Kriya, rendendo questa
pratica più viva e tremendamente bella, non fu sufficiente ad impedirgli di
incontrare il totale naufragio, la rovina di tutta la sua missione.
Il libro che aveva scritto era stato una perfetta azione strategica che lo
aveva reso popolare in occidente, facendogli ottenere un posto di centrale
importanza nel campo del Kriya. Oltre a quel giusto passo iniziale c'era
anche la sua figura di saggio indiano che colpiva le persone, insomma
aveva tutto il necessario per conquistare l'occidente. C'erano centinaia di
ricercatori che erano entusiasti di lui, che erano pronti a sostenere la sua
missione, che l'avrebbero sempre trattato come una "divinità" e si
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sarebbero comportati in maniera altrettanto rispettosa anche con gli
eventuali suoi successori.
Eppure, dopo uno straordinario entusiasmo iniziale, la sua sciagurata scelta
mise in moto un meccanismo inesorabile che allontanò le persone a lui più
indispensabili. Tanto più, deluso dalla loro defezione, si concentrò
tenacemente sull'essenza del Kriya tanto meno nuove persone riuscì ad
attrarre. Se qualcuno avesse tentato di fargli capire l'assurdità della
situazione si sarebbe trovato davanti al muro del suo diniego assoluto di
cambiare.
Usando gli stessi volantini, solo cambiando foto e nome, alcuni che
prima avevano organizzato i suoi seminare invitarono al suo posto un altro
insegnante. Egli divenne il mio secondo insegnante. Sebbene i suoi
raggiungimenti spirituali fossero quasi inesistenti, alcuni kriyaban che già
lo avevano incontrato in India assicurarono che questi era più disposto a
parlare del Kriya nella sua forma completa.

IL MIO SECONDO INSEGNANTE

La magica dimensione di Omkar, conosciuta da me parzialmente sin dai


tempi della scuola, nella quale l'ultimo insegnante, in un modo
appassionato, mi aveva immerso non poteva essere messa da parte o
dimenticata. Non potevo nemmeno pensare di porre altri principi come
fondamento del mio sentiero spirituale; perciò mi avvicinai al nuovo
insegnante, bene deciso a rifiutarlo se lui, in qualche modo, sembrasse
portarmi lontano da tale realtà.
Lo incontrai in Italia in un Centro Yoga dove era stato invitato da alcuni
discepoli. Da un discorso informale seguito da una sessione di domande e
risposte, vidi che conosceva il mio ultimo insegnante ed era consapevole
della sua scelta di non insegnare tutte le tecniche del Kriya. Ci fece capire
in modo chiaro che la ragione del suo viaggio in occidente era ripristinare
gli insegnamenti originali in una forma completa. Questo fu sufficiente a
vincere le mie resistenze ed infiammarmi d’entusiasmo.
Nel seguente seminario d’iniziazione osservai con indulgenza alcuni difetti
di comportamento che impressionarono negativamente altre persone.
Rivelò, infatti, un temperamento irascibile: esplodeva se gli erano rivolte
domande innocenti e legittime; trovava sempre dietro le parole
un’intenzione nascosta, una forma velata di opposizione, invece che un

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eccesso di curiosità o una cura dei dettagli. Secondo lui quelle persone
stavano sfidando la sua autorità.
La spiegazione delle tecniche era ragionevolmente chiara ma in alcune
parti sintetica in modo inusuale. Per esempio le istruzioni sul Pranayama,
formalmente corrette, potevano essere capite solamente da chi già
praticava da molto tempo il Kriya.
A questa tecnica dedicava un tempo veramente modesto - in un'occasione
lo cronometrai e vidi che non aveva dedicato più di due minuti alla relativa
spiegazione.
Continuò così per anni, nonostante le gentili rimostranze dei suoi intimi
collaboratori. Dava inoltre dimostrazione del Pranayama facendo un
suono vibrato esageratamente forte con la sua epiglottide. Riconosceva che
questo suono non era corretto ma continuò ad utilizzarlo per essere udito
anche dalle persone sedute nelle ultime file, risparmiandosi la fatica di
muoversi vicino a loro, come di solito fanno gli insegnanti di Kriya.
Ma non si prendeva la pena di chiarire che il suono dovesse essere pulito e
non vibrato. So che molte persone, pensando che esso fosse il "segreto"
che lui ci aveva portato dall'India, tentarono, per mesi, di produrre lo stesso
rumore.
Alcuni anni dopo, quando mi chiese di insegnare il Kriya a quelle
persone che, essendo lui assente, si dimostravano interessate, ero molto
felice di quest’occasione, poiché potevo finalmente dare tutte le
spiegazioni in modo esaustivo, completo. Volli che nessuno sentisse il
dolore di essere rifiutato, di vedere una domanda legittima non essere presa
in considerazione. Avevo l’impressione che la situazione procedesse nel
modo corretto, quando improvvisamente essa divenne difficile. Questo
avvenne quando, mesi prima del suo arrivo nel nostro gruppo, gli scrissi
per chiedergli che, dopo le sue sessioni di iniziazione, la comprensione
delle persone fosse controllata per mezzo di una pratica collettiva guidata.
Avvenne un fatto quasi incredibile: come risposta, mi eliminò
immediatamente dall'elenco dei suoi discepoli ed ufficialmente comunicò
la sua decisione ad uno stretto collaboratore. Probabilmente la mia
avventura con quest’insegnante sarebbe finita là - e sarebbe stato molto
meglio - se quel collaboratore mi avesse informato della situazione. Del
tutto inconsapevole, quando gli diedi il benvenuto al suo arrivo in Europa,
lui mi abbracciò come se nulla fosse accaduto. Probabilmente interpretò la
mia presenza come una mossa di ritorno sui miei passi.
70
Quando, tempo dopo, venni a sapere quello che era accaduto rimasi
frastornato, ma era troppo tardi per reagire. Cominciai a controllare il mio
atteggiamento e non gli proposi più nulla.
Per parlare della rottura definitiva dei nostri rapporti è necessario
premettere qualche cosa sui Kriya superiori di Lahiri Mahasaya. In questo
campo c’è molta confusione perché ci sono diverse scuole, ciascuna
originata da un differente discepolo di Lahiri Mahasaya, le quali insegnano
le tecniche in modo diverso omettendo alcune parti. Il mio attuale
insegnante apparteneva ad una particolare scuola che aveva eliminato tutti
quei Kriya che contengono il delicato problema di trattenere il respiro.
Questo è un fatto molto delicato implicito nella tecnica Thokar di Lahiri
Mahasaya: il Secondo e il Terzo Kriya. Veramente non è facile spiegare
come queste tecniche funzionano; una persona deve riuscire a sollevare
l'energia nella parte alta dei polmoni e creare un particolare modo di
respirare, talmente sottile da essere impercettibile. L'aspetto didattico
diviene critico se un insegnante ha intenzione di dare l’iniziazione ad un
pubblico e non a pochi scelti discepoli. Il mio nuovo insegnante
tralasciava, quindi, l’intera sequenza di tecniche connesse con questo
delicato aspetto.
Io però le conoscevo tutte, avendole apprese da varie fonti, e le tenevo in
serbo per il mio futuro, avendo già molto da praticare con quanto, di
assolutamente prezioso, lui ci stava dando. Certo che anche quel poco che
ci dava non era spiegato per niente bene! Cercavo di essere indulgente per
quanto riguardava alcune piccolezze, ma facevo fatica a tollerare che da un
anno ad un altro spiegasse una tecnica in modo diverso. Ce n’era una che
includeva dei movimenti ben precisi della testa - non si trattava del Thokar
di Lahiri Mahasaya sul cuore, ma di un'altra. L’ultimo anno che venne nel
nostro gruppo cambiò la natura di tali movimenti; quando alcune persone
chiesero chiarimenti sul cambiamento, fece finta di non comprendere, poi
sostenne che non aveva cambiato nulla, che probabilmente, in passato,
c'era stato un problema di traduzione.
Ero io che allora avevo fatto la traduzione. Seppi trattenermi e non
protestai: la sua bugia era fin troppo evidente. I miei amici si ricordavano
bene i suoi movimenti della testa avendoli visti con i loro occhi ed erano
effettivamente diversi. Avevo l'impressione di essere il collaboratore di un
archeologo che intenzionalmente altera alcuni reperti per presentarli al
pubblico all’interno del suo abituale quadro di riferimento teorico.
71
Assorto in queste preoccupazioni non ero consapevole di aver quasi perso
del tutto il contatto con la realtà Omkar. Il mio inconscio faceva sentire
chiaramente la sua voce: ancora è vivo nella mia memoria un sogno nel
quale nuotavo nel letame. Mentre la diffusione del Kriya sfiorava
superficialmente molte persone, attratte ai seminari da una banale
pubblicità, dietro alla mia maschera di finta delizia, la mia anima
conosceva un’agonia di aridità. C'erano momenti nei quali, pensando ai
miei semplici inizi con lo Yoga, il mio cuore distillava una nostalgia
indefinita per quel periodo, pronto a sorgere di nuovo e fiorire finalmente
libero, ora che conoscevo ogni parte del Kriya.
Come risposta alla richiesta di alcuni amici all’estero, andai nel loro
gruppo ad insegnare il Kriya, chiaramente sempre per conto del mio
insegnante. In quel gruppo incontrai uno studente molto serio che mi pose
molte domande. Egli dimostrava di conoscere bene il Kriya e discutemmo
apertamente del fatto che c'era un’intera parte dei Kriya superiori che il
mio insegnante non dava.
Comprese il mio imbarazzo e rimase stupito che non ne avessi mai parlato
apertamente con il mio insegnante, poiché questi mi aveva scelto per
insegnare il Kriya. Era infatti del tutto irragionevole non avergli aperto il
mio cuore; ma sapevo, conoscendo il suo temperamento irascibile, che lui
si sarebbe molto arrabbiato e che l’intera situazione poteva precipitare.
Eppure era mio dovere affrontare la sua reazione.
Se avessi provocato una rottura, gli amici del gruppo ne avrebbero sofferto;
solo alcuni tra essi potevano capire le ragioni del mio agire.
Si sentivano a proprio agio con lui e il fatto che ogni anno visitasse il
nostro gruppo era molto stimolante; ci preparavamo alle sue visite con una
pratica intensa del Kriya come per affrontare un esame. Ognuno
apprezzava la sua filosofia, che condividevo completamente. Questa
rappresentava per tutti noi, la migliore medicina contro le deformazioni
New Age; essa consisteva in una salda comprensione che il Kriya non è
gonfiare mente ed Ego movendoci verso un’ipotetica mente superiore, ma
un viaggio oltre la mente in un territorio incontaminato.
Gli scrissi una lettera in cui gli accennai con tatto ai problemi proponendo
di parlarne al suo arrivo. La risposta severa arrivò pochi giorni dopo.
Mi disse che il mio eccessivo attaccamento alle tecniche non mi avrebbe
mai portato fuori dai recinti della mente, ero come San Tommaso, troppo
curioso di toccare con mano tutti i particolari del Kriya, mentre avrei
72
occupato meglio il mio tempo cercando di praticare con più profondità le
tecniche che avevo. Riconosco che aveva ragione - lo stesso Lahiri
Mahasaya assicurava che si può ottenere tutto col primo Kriya. Ma io
ragionai che un discorso sull’argomento non avrebbe fatto male a nessuno.
Risposi suggerendo di nuovo la possibilità in cui speravo. Alcune
settimane dopo mi resi conto che il mio nome e quello del mio gruppo, era
stato cancellato dal suo sito Internet; la mia lettera aveva compiuto una
rottura definitiva.
Questa fu percepita con sconcerto dai miei amici. Come un effetto domino,
alcuni coordinatori appartenenti ad altri gruppi qui in Europa, che da tanto
tempo mal tolleravano i suoi modi, colsero l’occasione per tagliare
definitivamente i loro legami con lui. Sentivano che il tempo era ormai
maturo per gioire di tale liberazione.
Non riuscivo ad immaginare che cosa sarebbe stato del nostro gruppo,
se ci fosse stato qualche altro insegnante che, in futuro, sarebbe venuto da
noi. Senza di questo, infatti, il nostro gruppo sarebbe divenuto chiuso,
sterile, destinato ad esaurirsi, perché non ci sarebbero stati nuovi iniziati al
Kriya e quindi l'apporto del loro entusiasmo. Mesi dopo sembrava che la
ruota riprendesse a girare e un nuovo insegnante potesse venire da noi nel
giro di uno o due anni. Accettai, infatti, la proposta di sostenere le spese
per il suo viaggio poiché si trattava di una persona stimata.
Alcuni giorni più tardi quando fui contattato dalla sua segretaria, lei trattò
il lato finanziario del viaggio con tale brutalità e volgarità che declinai
l'offerta. Ero veramente stanco della intera situazione, ne avevo abbastanza
di comportarmi come un discepolo che tutto accetta, pur di elemosinare le
briciole del "Kriya originale".

TOCCARE IL FONDO

Da quel momento in poi attraversai un periodo molto particolare poiché


decisi di muovermi, di viaggiare in varie parti del mondo e conoscere
diversi gruppi che praticavano il Kriya Yoga di Lahiri Mahasaya; la mia
speranza era di incontrare un vero esperto di Kriya. Ero deluso dalle mie
precedenti esperienze, ma mi stavo tuffando, completamente indifeso, nel
territorio desolate del Kriya contaminato dal pensiero New Age. Per
qualcuno esso è una prigione da cui non può uscire, per altri è l’anticamera

73
di cocenti delusioni e dell’abbandono definitivo del sentiero spirituale in
generale.
Frequentando i seminari di Kriya conobbi molte persone, con
temperamenti eterogenei, i cui interessi spaziavano dal pensiero esoterico
allo spirito New Age dove sembravano alquanto "persi".
Trascorsi con loro uno dei periodi più strani e disordinati della mia vita.
Questo periodo mi ritorna in mente quando ascolto le registrazioni di
alcuni canti devozionali che in quelle occasioni acquistai. Le "iniziazioni"
erano un rituale al quale mi stavo abituando. Era prescritto di portare dei
fiori - qualche insegnante ne chiedeva uno, altri chiesero tre o sei - poi
qualche frutto. Qualcuno pretendeva un cocco - costringendo le persone ad
andare, quasi con disperazione, a cercarlo di negozio in negozio. Infine
un'offerta in denaro, qualche volta libera, qualche volta di ammontare
predeterminato. Ero immerso in qualche cosa di estraneo che comunque
accettavo come inevitabile inconveniente per riuscire ad avere le
informazioni che con tanta passione cercavo. Dopo così tanti rituali,
avveniva una spiegazione superficiale e, spesso, una polemica
spietatamente distruttiva nei confronti delle informazioni ricevute dalle
altre fonti. Uscivo da quelle "iniziazioni" ripetendomi quanto fossi
soddisfatto, proponendomi da allora in poi di abbandonare altre pratiche e
dedicarmi con gran serietà solamente a quelle appena ricevute.
Il cuore, se mi fossi fermato un istante ad ascoltarlo, mi avrebbe detto che
mi stavo ingannando, che l'iniziazione nuova aveva aggiunto solo qualcosa
di insignificante a quello che conoscevo, che le richieste dell’insegnante
sarebbero presto diventate una "gabbia" che prima o poi avrei trovato
troppo stretta ed abbandonata.
Coloro che organizzavano i seminari davano l'impressione di essere
ricercatori onesti, anzi davano la rassicurazione che dalla loro bocca non
sarebbe mai uscita alcuna sciocchezza. Rimasi stupito quando uno di loro,
non per pura e semplice esibizione, citò a memoria alcune righe di uno
scritto di P.Y. - proprio quelle stesse frasi sibilline verso le quali avevo
sperimentato dubbi di interpretazione. Lui aveva letto e riletto quei testi
moltissime volte tentando di decifrarli, chinato su di essi, aveva "sofferto"
veramente tanto tempo. Sentii che simili ricercatori erano la mia vera
"famiglia"; essere con loro non solo era un piacere ma una lezione molto
importante. Imparai ad ascoltarli con rispetto ed in silenzio quando
corressero molte mie fantasie sul Kriya e mi fornirono un buon cibo per il
74
cervello. Fummo d'accordo che i nostri insegnanti erano, nella pressoché
totalità dei casi, persone mediocri, con grandi limiti dal lato umano,
tollerabili in una persona comune, ma molto stridenti in individui che si
presentarono come "maestri spirituali." Non eravamo capaci di trovarne
almeno uno che lasciasse trasparire quell'abilità essenziale in una questione
sottile e delicata come il lavoro pedagogico che pensavano di svolgere.
Dei fatti secondari confermarono la prima impressione di precarietà ed
improvvisazione e, in un caso, persino d’instabilità mentale. Ne sapevano
pochissimo del Kriya ed in modo ancora più superficiale lo insegnavano.
Ciononostante anche ricevere quelle poche briciole era abbastanza da
lasciarci momentaneamente soddisfatti. Eravamo ricercatori onesti,
ipnotizzati dal mito del rapporto Guru-discepolo, la cui suggestione
avevamo ricevuto dalla scuola di P.Y. È strano pensare a come quella
organizzazione ci avesse instillato ciò che ci manteneva fermi e fedeli
anche a personaggi che intimamente disprezzavamo!
Conobbi tanti esemplari di quelli che chiamo devoti "New Age": come
descriverli?
Nella mia prima scuola di Kriya avevo conosciuto persone tiepidamente
entusiaste del Kriya, che sembrava lo praticassero - quelle poche tecniche
in loro possesso - come un sacrificio quasi necessario per domare una
mente instabile e per espiare… la loro colpa di "esistere".
I devoti "New Age", invece, erano anche "troppo entusiasti" del Kriya
verso il quale mostravano di avere una fiducia cieca nel potenziale di
risolvere ogni problema della vita. Legati ad uno stile di vita
orientaleggiante, amavano un'atmosfera, un modo di atteggiarsi
caratterizzato da particolari sensazioni che loro cercavano di coltivare con
piccole attenzioni e, soprattutto, innocenti manie.
Imparai ad associarmi con ognuno - per esempio quelli che mi ospitarono
quando frequentai seminari in città distanti - come un esploratore affronta
degli animali ignoti, preparandomi a qualsivoglia eccentrica rivelazione
….. supposti poteri taumaturgici, profezie di calamità imminenti
accompagnate da improbabili suggerimenti su come sfuggirvi.
Alcuni, detto senza cattiveria, mi davano l'impressione di non essere molto
equilibrati dal punto di vista psicologico e qualche volta di avere grosse
difficoltà emotive. Qualche volta, evitando di immergermi in profondità
nella loro realtà umana, reagivo alle loro stranezze con un po' d’ironia, la
quale sgorgava da me spontanea, intrattenibile. Spesso temevo di averli
75
amareggiati eppure continuavano sempre a mostrarsi generosi verso di me
e soprattutto rispettosi della mia personalità.
Mai cercarono di impormi qualche loro convincimento, mentre
condividevano tutto quello che conoscevano, anche quanto era costato
molto tempo, sforzo e denaro. Il nostro rapporto era basato su un reale
affetto e non c'era mai disapprovazione, acidità o formalità.
Tutt’altra cosa fu incontrare un’altra specie di ricercatori: quelli che
sembravano far provviste di tecniche come durante una carestia.
Asserivano con fierezza di essere fedeli al loro Guru ma stavano bene in
allerta ad ascoltare qualsiasi voce riguardante dettagli tecnici che
apparivano sui libri o nei siti web. Uno stato di disperazione li portava a
prender parte a diversi seminari d’iniziazione, dove la parola d’ordine per
essere accettati sembrava essere un devoto atteggiamento da mendicante
nonché l’impegno solenne di segretezza.
Appena la riunione era finita, condividevano al cellulare le informazioni
ottenute con altri studenti, i quali, in cambio, avrebbero preso parte ad altre
iniziazioni e restituito il favore.
Alcuni, di ritorno dall’India, mostravano sul volto l'emozione di avere
conosciuto una terra così straordinaria e, nello stesso tempo la delusione
per tutto quanto non erano riusciti a imparare.
Capitava spesso che qualcuno avesse incontrato un millantatore il quale li
aveva assicurati di conoscere il Kriya e di poter dare loro l'iniziazione.
Però richiedeva la segretezza assoluta e non prendere contatto con altri
insegnanti. In questo modo il manigoldo era certo che per molto tempo essi
non si sarebbero resi conto che in realtà quello che avevano ricevuto non
aveva nulla a che fare con il Kriya.
Mi accorsi di ciò solamente quando riuscii a vincere le resistenze interiori
di qualcuno e mi feci dire la tecnica che avevano appreso; in molti casi si
trattava della semplice ripetizione di un Mantra! La cosa che più mi
dispiaceva non era tanto la sostanziosa offerta che questi amici avevano
fatto a quelle persone [che per un indiano significava una fortuna] ma il
fatto che così, pur viaggiando in varie parti dell'India si erano privati della
possibilità di apprendere il Kriya da fonti più sicure.
Un fatto di diversa natura accadde ad un amico il quale incontrò un
discendente di Lahiri Mahasay, un nipote diretto, un uomo di grande
istruzione accademica e anche di profonda conoscenza del Kriya, ma non
ne ricavò assolutamente nulla. Rimasi allibito quando, ritornato dall'India
76
mi raccontò un qualcosa di curioso. L'amico, infatti, mi annunciò che a
Benares, e probabilmente anche in India, il Kriya ormai … non lo praticava
più nessuno. Aggiunse che anche i discendenti di Lahiri Mahasaya non lo
conoscevano! Con pazienza non lo interruppi e immaginai quello che
poteva essere successo; il mio amico, molto probabilmente, aveva condotto
il discorso su argomenti futili. Aveva chiesto varie curiosità sulle abitudini
indiane, l'indirizzo di un Ashram e poi, solo alla fine dell'intervista - quasi
ricordando improvvisamente di trovarsi nella casa di Lahiri Mahasaya -
chiese se per caso qualcuno dei discendenti di Lahiri Mahasaya praticasse
ancora il Kriya.
Il suo modo di atteggiarsi deve aver mancato del necessario rispetto perché
la risposta, che nascondeva un amaro sarcasmo, fu negativa; in altre parole:
«certo che no, qui nessuno lo pratica più. In India non si pratica più. Sei
rimasto tu solo a praticarlo! » L'amico mi guardava con occhi stupiti. Non
so ancora se sperava di convincermi o se era immerso nella sua amarezza e
frustrazione. Non dissi nulla. Sono sicuro che non si rendesse conto di
quanto stupidamente si era comportato con quel maestro.
La risposta per lui arrivò un mese dopo, quando venne a sapere che un suo
concittadino aveva ricevuto recentemente l'iniziazione al Kriya proprio da
quella stessa persona da lui intervistata a Benares. Fu molto contrariato,
offeso dalla notizia e fece il progetto di ritornare in India e protestare
presso quel maestro. [Purtroppo non ci ritorno più, perché una grave
malattia mi portò via quest’amico. Nonostante la diversità abissale del
nostro carattere, gli sarò sempre grato per tutto quello che del sentiero
spirituale in generale volle condividere con me].
Per completare il quadro, voglio citare solo un ulteriore episodio.
Un altro amico si era fermato per alcuni giorni presso un Ashram dove
sapeva che si poteva ricevere il Kriya Yoga. Il monaco che guidava questo
Ashram non era presente, però l'amico ricevette l'iniziazione al Kriya da un
suo discepolo. Alla fine gli fu consegnato del materiale stampato dove
c'era la descrizione sintetica delle tecniche.
Di ritorno dall'India l'amico, visibilmente soddisfatto, mi mostrò questo
materiale: le tecniche non erano molto diverse da quelle che conoscevo
però c'erano tante altri dettagli in più. Non c'era nulla, in ogni caso, che
andasse a chiarire i miei dubbi, non un cenno al Kechari Mudra, nulla sul
Thokar. Ricordo invece una tecnica molto complicata basata sulla
visualizzazione dei Chakra come sono descritti nei testi tantrici.
77
Ogni tecnica era preceduta da un'introduzione teorica con citazioni da libri
antichi e accompagnata da un'illustrazione che eliminava ogni possibile
dubbio. In conclusione veniva data una routine graduale molto precisa.
C'era naturalmente l’affermazione che tutte queste tecniche costituivano il
Kriya come spiegato da Babaji, il mitico Guru di Lahiri Mahasaya.
Siccome il materiale era molto interessante, mi sarebbe tanto piaciuto
illudermi che la mia ricerca fosse finalmente conclusa e che quegli appunti
contenessero quanto cercavo! Bastava solo credere che Babaji, per creare il
Kriya Yoga, non avesse fatto nient'altro che prendere lo Yoga classico e
fonderlo col più comune tantrismo. Ci voleva inoltre l’audacia di pensare
che il Thokar potesse essere visto come una banale variante dello
Jalandhara Bandha! E se non c'erano le istruzioni per il Kechari Mudra,
pazienza, ciò voleva dire …. che tale Mudra non era importante! Con un
po’ di buona volontà sarei riuscito a far quadrare il cerchio! Il caso volle
che io ascoltassi la registrazione di una conferenza dell'autore di quegli
appunti. Raccontava di aver trovato tali tecniche in alcuni testi tantrici e di
averne fatto una selezione accurata per formare un sistema coerente: quello
costituiva il suo sistema Kriya!
Come poteva spiegarsi allora l'affermazione secondo la quale quegli
insegnamenti provenivano da Babaji? Semplice! Come molti altri
insegnanti indiani, erano stati i suoi discepoli, non lui, a redigere quel
materiale; questi ebbero la bella pensata di renderlo più interessante
parlando accennando alla derivazione dal mitico Babaji. L'insegnante,
sempre rispecchiando un tipico costume indiano, non aveva poi mai
controllato quegli appunti - rimase, infatti, sconcertato quando seppe di
quell’aggiunta. Difese però l'operato dei suoi discepoli affermando che, in
fondo … anche il Kriya di Babaji aveva origini tantriche.

In quel periodo studiai una storia del pensiero esoterico occidentale. La


lettura era un po’ noiosa ma mi vi ritrovai lo spirito della mia infanzia.
Invece di provare orrore per tutte le deformazioni provocate dalla mente
umana e per la sua, a volte tragica, debolezza, mi pareva di sentire la
curiosità di quelle persone; mi sembrava di sentire la gioia, il rapimento
quando finalmente arrivava nelle loro mani un nuovo libro esoterico da
tempo annunciato sul mercato.

78
Mentre acquistavo familiarità con i principali movimenti iniziatici, vidi
quale enorme impatto potesse avere sui ricercatori un libro; quale potere,
se esso asseriva di contenere la chiave dei misteri esoterici e occulti!
Fu proprio l’impatto emotivo che misi in tali letture storiche ad agire come
un purgante e a far si che da allora in poi divenisse per me impossibile
sprecare ancora del tempo in ricerche esoteriche.
Mi sentii soddisfatto. Fu come se questo mondo, il mio vecchio e caro
mondo, fosse scomparso per sempre da questa terra e confinato in una
dimensione di favola. Oggi quando trovo un ricercatore situato idealmente
in tale dimensione, mi sento molto vicino a lui e reagisco molto meglio che
quando mi trovo alla presenza di persone perse in deliri di carattere
puramente religioso. Certo, anche il vizio dell’esoterismo può essere
maniacale, ma è guaribile, mentre per le manie religiose non v’è medicina!

LA DIMENSIONE MISTICA DEL KRIYA

Di grande ispirazione fu lo studio di una biografia di Kabir [1398


Benares - 1448/1494 Maghar]. Tessitore analfabeta, musulmano d’origine,
fu un gran mistico, aperto all'influenza vedantica e yogica, fu uno
straordinario cantore del Divino, concepito al di là d’ogni nome e forma.
Le poesie e i detti, a lui attribuiti, sono espressi in un linguaggio
particolarmente efficace che s’incide nella memoria in modo indelebile.
Nel secolo scorso Rabindranath Tagore, il gran poeta mistico di Calcutta,
fece una bellissima traduzione in inglese dei suoi canti; egli riscoprì la
validità dei suoi insegnamenti e la forza della sua poesia.
Kabir ebbe come maestro un bramino [Ramananda] e fu quindi educato a
concepire l'Islam e l'Induismo come due vie convergenti verso un’unica
meta: fu sempre convinto della possibilità di superare le barriere che
dividono queste due grandi religioni. Non sembrava apprezzare le sacre
scritture, i rituali religiosi e i dogmi.
Che Dio debba essere riconosciuto interiormente, nella propria anima -
come un fuoco che, se nutrito con continua cura, brucia trasformando in
ceneri tutte le resistenze, dogmi, ignoranza - appare molto bene nel suo
detto: «un giorno la mia coscienza, come un uccello, volò in cielo ed entrò
nel paradiso. Quando arrivai, vidi che non c’era Dio: realizzai infatti che
dimorava nel cuore dei Santi». Dall’Induismo Kabir accetta il concetto di
reincarnazione e la legge del Karma, dall'Islam prende il monoteismo

79
assoluto e la forza per combattere il concetto di casta e ogni forma
d’idolatria. In lui possiamo trovare il senso pieno dell'esperienza yogica;
afferma che nel nostro corpo c'è un giardino pieno di fiori, i Chakra, e
invita a stabilire la coscienza nel Loto dai mille petali dal quale
contemplare, la bellezza infinita.
Per quanto riguarda il suo concetto di "Shabda", che può essere tradotto
come "Parola" [la parola del Maestro] possiamo porlo in relazione con
l’insegnamento Omkar - la vibrazione Om.
Secondo lui questo Shabda-Om allontana tutti i dubbi, tutte le difficoltà del
discepolo, però è vitale mantenerlo continuamente, come una presenza
vivente, nella nostra consapevolezza. Insegnò a non abbandonare la vita e
diventare un eremita, a non coltivare alcun approccio estremo alla
disciplina spirituale, perché debilita il corpo e aumenta l'orgoglio. Molto
acutamente progettò di morire a Maghar, presso Benares - con un ultimo
gesto di scherno, giacché, secondo le credenze correnti, chi moriva a
Maghar sarebbe rinato nelle fattezze di un asino!

Penso che studiare il pensiero di Kabir possa aiutare, come pochi altri
argomenti di ricerca, a capire la personalità di Lahiri Mahasaya e quindi,
diritti come una freccia, a raggiungere il nucleo del Kriya. Nella sobrietà di
Kabir possiamo cogliere, come in un riflesso, la piena radiosità della luce
di Lahiri Mahasaya, al giorno d'oggi velata dalla letteratura, un po' troppo
complicata, che lo riguarda.
Una parte degli scritti di Lahiri Mahasaya – lettere e diari – ci ricordano
quelli di Kabir mentre, un’altra parte diverge singolarmente.
Lahiri Mahasaya commentò a voce alcuni testi sacri e le sue interpretazioni
furono stampate più tardi dal suo discepolo P. Battacharya. Questi libri per
molto tempo erano poco conosciuti, perché redatti in Bengali, ma in
seguito furono tradotti in Inglese. Molte persone li studiarono con
entusiasmo, sperando di trovarvi delle informazioni utili alla comprensione
del Kriya, eppure ne furono molto delusi.
Esaminandoli con attenzione rimaniamo perplessi poiché non riusciamo a
ricavarne alcunché di utile; non ce la sentiamo di affermare che essi siano
adulterati ma riconosciamo obiettivamente che il loro valore, dal punto di
vista esegetico, è quasi nullo. Viene spontaneo formulare due ipotesi: la
prima è che coloro che hanno redatto tali libri abbiano mescolato la loro
filosofia con quella di Lahiri Mahasaya, la seconda è che il suo pensiero
80
abbia soltanto preso le mosse da quei testi sacri ma poi si sia sviluppato per
proprio conto, abbandonando completamente l’oggetto di partenza, e
quindi non possano essere considerati in alcun modo dei commenti.
Mi imbattei in un libro importante: Puran Purush basato sui diari di
Lahiri Mahasaya. Venne alla luce in Bengali grazie ad uno dei vari nipoti
di Lahiri Mahasaya, Satya Charan [1902 - 1978] che possedeva
materialmente quei diari. Con l'aiuto di uno scrittore suo discepolo decise
di operare una selezione dei principali pensieri che sarebbero potuti tornare
utili per coloro che praticavano il Kriya. Nonostante il fatto che tale libro
non rispettasse alcun ordine logico nella disposizione degli argomenti e
contenesse ripetizioni senza fine mescolate a frasi retoriche, fu una fonte di
grande ispirazione.
In estate lo portavo con me in campagna; dopo averlo aperto e letto una
frase, guardavo le montagne distanti e ripetevo dentro di me «finalmente,
finalmente!»… rimanendo per molto tempo, come in trance. Guardavo la
fotografia di Lahiri Mahasaya sulla copertina; chissà in quale stato elevato
si trovava quando fu scattata tale foto! Osservai sulla sua fronte delle linee
orizzontali, le sopracciglia sollevate come nello Shambhavi Mudra dove la
consapevolezza è stabilita in cima alla testa; guardando il mento sembrava
mantenere la posizione del Kechari Mudra. Durante quei giorni la sua
figura, con quel lieve sorriso pieno di beatitudine, sembrava un sole nel
mio cuore; era il simbolo della perfezione cui volevo arrivare, della
conoscenza che volevo acquisire, dell'amore che sarei voluto divenire. Il
tratto caratteristico del libro era la grande importanza data al Pranayama e
al Thokar.
Colpisce la capacità di sintesi quando afferma che tutto il cammino del
Kriya è il passaggio dal Prana dinamico al Prana statico; sentii un brivido
di delizia quando incontrai delle frasi che hanno in sé una luce incredibile:
«Kutastha è Dio, Lui è il Brahma supremo» o «Uno yogi che ha tagliato i
tre nodi diviene lui stesso Trivangamurari ovvero diviene Krishna stesso»!
Qui si percepisce l’essenzialità di Kabir, e nasce l’idea di sovrapporre gli
insegnamenti di entrambi ottenendo con ciò un miracolo di semplicità.
Il pensiero di Lahiri Mahasaya e di Kabir appare come quello di una
religione monoteistica in cui la realtà Omkar ha occupato il posto del "Dio
unico". Tutti i vari nomi della Divinità, usati da Lahiri Mahasaya nei suoi
diari scompaiono, diventano parole del tutto inutili poiché appare chiaro
che la realtà finale è Omkar!
81
Mi rendo conto che alcuni storceranno il naso sentendo parlare di religione.
Molte persone affrontano il Kriya con un atteggiamento sbagliato, quello
pseudo scientifico per cui facendo certe tecniche si hanno automaticamente
certi risultati. So che purtroppo molti insegnanti hanno strombazzato a
destra e a sinistra questa sciocchezza, alcuni attraggono persone al Kriya
promettendo risultati che gratificano l'ego. Questi insegnanti farebbero
bene a porre l’accento soltanto sul carattere mistico del Kriya. Sta al
ricercatore liberarsi da questo retaggio perché se pensa che il Kriya di
Lahiri Mahasaya sia un percorso di "crescita psicologica" e cerca risultati
in tale campo, allora prima o poi la sua molla iniziale d’entusiasmo andrà
esaurendosi.
Il Kriya non può divenire un sostituto della psicoterapia e anche se esso
crea un’inimitabile pulizia interiore, non può chiarire e risolvere cose che
devono essere risolte comportandosi con saggezza nella vita pratica.
Siamo esseri umani e anche se siamo le persone più razionali di questo
mondo, abbiamo bisogno di un sentiero che abbia un "cuore".
Nel Kriya Yoga noi dovremmo concepire la nostra meta come Omkar –
l’Amore, il Conforto e la Bellezza stessa.
Certo, dovremmo affrontare la pratica del Kriya senza aspettarci nulla in
cambio; piuttosto dovremmo rilassarci ricreando la memoria e l’atmosfera
delle esperienze più belle incontrate nella vita, sia dal punto di vista
estetico che sentimentale.
Avendo l'intelligenza per farlo, potremmo dare un colpo di piccone ad un
terreno arido e far scaturire una sorgente fresca: il potere trainante
dell’istinto spirituale, uno tra i più forti dell’uomo.
In questo modo potremmo entrare in uno stato vigile ma passivo ove la
"porta" comincerà ad aprirsi ed incontreremo l’abbraccio estatico di Om!

82
CAPITOLO VI UNA DECISIONE DIFFICILE

Alla ricerca di tutto quanto poteva riguardare l’esperienza Omkar,


trovai gli scritti di Giovanni della Croce e Teresa di Avila. Il primo dava
una splendida descrizione del suo incontro con la "musica silenziosa", con
"la solitudine che risuona". Non c’è dubbio che ascoltò il tipico suono
dell’Om: quello di acque in movimento.

PREGHIERA INTERIORE E KRIYA

Entrambe queste imponenti figure sostengono che senza la "Orazione


interna", la perfezione nella vita spirituale non può essere raggiunta. Gli
scritti di Teresa d’Avila si propongono di spiegare che la preghiera
possiede diversi gradi e che è necessario cominciare umilmente e
pazientemente dal primo e poi salire fino allo stato più elevato che lei
definisce come «Unione trasformante con Dio». La preghiera, che all'inizio
è un'azione, diviene uno stato di coscienza.
Possiamo osservare che nel Cattolicesimo il concetto di "Preghiera
interiore" ha rischiato un'eclisse totale: molte incomprensioni e malintesi si
sono depositati su di essa nel corso dei secoli. Per quelli che ancora la
praticano, essa sembra non avere, a parte in rari conventi, altro significato
che supplica a Dio per ottenere dei favori personali o benedizioni per
l'umanità che soffre… Questa tendenza va contro i testi classici
d’ascetismo e misticismo, dove la preghiera non mira a contrastare i così-
detti "piani di Dio" e ad ottenere qualcosa, ma solo ad arrenderci ed
accordarci con i Suoi "piani eterni."
Incontrai la letteratura che riguarda l’Esicasmo, un movimento
spirituale che considera la pace interiore come una necessità base d’ogni
essere umano; il suo principale strumento spirituale è la "Preghiera
continua, ininterrotta". L'essenza di questo movimento si trova nel I
racconti di un pellegrino russo [Anonimo; Bompiani]; la storia è quella di
un pellegrino di ritorno dal Santo Sepolcro che si fermò a Monte Athos e
raccontò ad un monaco la sua ricerca, durata una vita intera,
dell'insegnamento spirituale su come «pregare continuamente» - secondo
le raccomandazioni di San Paolo. Egli era deciso a percorrere le steppe
fino all’infinito pur di trovare una guida spirituale che gli svelasse il
83
segreto di come riuscire a pregare in tal modo. Un giorno il suo ardore fu
premiato e un maestro spirituale lo accettò come discepolo chiarendogli,
nel corso del tempo, ogni dettaglio del sentiero spirituale.
Tracce della pratica esicasta risalgono al 250-355 D.C. presso eremiti come
Antonio del deserto; tale pratica ebbe il suo più grande sviluppo dal XI al
XIV secolo presso i conventi di Monte Athos.

Scopriamo che c'è una singolare parentela tra il Kriya Yoga e


l’Esicasmo. Vi troviamo succinte indicazioni concernenti un esercizio di
respirazione simile al nostro Pranayama con una precisazione sulla
posizione della lingua simile a quella del Kechari Mudra. Il modo di
pregare in solitudine ed immobilità ricorda il nostro Navi Kriya: c’è un
incoraggiamento ad essere saldi nella preghiera con la concentrazione
sull’ombelico. È scritto che: «è possibile scoprire in se stessi un'oscurità
senza gioia, senza luce interiore ma, perseverando, si raggiungerà una
felicità senza limiti». Una volta superato l'ostacolo dell'ombelico, si apre,
infatti, il sentiero che porta al cuore. Sublime - indimenticabile - è la
descrizione del momento in cui la preghiera entra nel cuore; gli effetti
ottenuti ricordano quelli del Thokar di Lahiri Mahasaya e ciò in modo
molto preciso!
Il collegamento tra il Kriya Yoga e le diverse forme di Preghiera è assai
interessante ed utile; esso può fornirci molta ispirazione creando una
rivoluzione nel modo in cui concepire la pratica Kriya.
Il lettore può non essere pronto a cogliere questo legame, specialmente se,
condizionato dalle teorie tradizionali dello Yoga, è abituato a guardare al
Pranayama essenzialmente come ad un esercizio di respirazione il quale
mira a modificare lo stato energetico del corpo, utile semplicemente a
preparare il vero stato di meditazione, di introspezione.
Proviamo a riflettere: quando noi cantiamo "Om" nei Chakra, prima del
Pranayama, quando pratichiamo l’Omkar Pranayama e ripetiamo il
Mantra di dodici sillabe, non è forse la nostra una forma di "Preghiera
Interiore"?
Nel Pranayama il movimento d’energia ha un ruolo indiscutibile, ma
proviamo, per alcuni giorni, a dimenticarcene del tutto e a tuffarci solo
nella pratica di respirare profondamente pensando unicamente alle sillabe
nei luoghi prescritti: il flusso energetico sarà percepito dopo un certo
tempo, chiaro e preciso, apparirà spontaneamente, più forte che mai.
84
Può anche accadere che coloro che non sono mai riusciti a sentire il flusso
energetico tipico del Pranayama, riusciranno a percepirlo proprio in tale
occasione!
Quando decidiamo di introdurre la procedura del Thokar, ci stiamo
movendo, passo dopo passo, verso la più alta tra tutte le vette, quella della
"Preghiera del Cuore", un inestimabile tesoro mistico. Essa è come bussare
alla porta del tempio interiore con la certezza che questa si aprirà.
Proviamo ad eseguire tutte le tecniche Kriya tenendo in mente questi
pensieri e poi vediamo quello che accadrà!
Thokar è lo stesso processo chiamato dai Sufi "Dhikr".
Esso non comincia in modo diverso da una qualsiasi altra preghiera.
Quando i movimenti della testa la accompagnano, le sillabe "scivolano"
all’interno ed entrano nel cuore.
La Preghiera prende possesso di colui che la sta sussurrando: è scritto che è
la Preghiera che "pronuncia la persona", invece che la persona a
pronunciare la Preghiera.
Questa preghiera non è più una azione ma uno stato di estasi dove la
mente-ego non esiste più.
Durante il giorno possiamo scegliere se procedere con la Preghiera
ininterrotta o rimanere immersi negli effetti che seguono alla sua pratica.
Come accadde al pellegrino, esso contrassegnerà la nostra stupefacente ed
ubriacante coabitazione con un continuo stato celestiale di beatitudine.
Questo è un sentimento intimo di presenza divina che assorbe ogni
desiderio e riempie l'anima con una beatitudine ineffabile che permette di
pregustare in terra le dolcezze celestiali! In questo modo la Preghiera sarà
una presenza vivente, una gemma meravigliosa il cui splendore proteggerà
il corpo, conquistandosi l’affetto di tutti i cuori. Simili a colui che, vicino
al focolare, si gode la bellezza dell’inverno ventoso, freddo, che circonda il
nido della sua casa, così noi contempleremo sia il triste sia il gioioso
spettacolo della vita, avendo trovato nel centro del nostro cuore l'infinità
dei cieli!
L’esperienza di questa suprema forma di Preghiera prepara, in seguito, il
terreno adatto all’incontro con la travolgente, vasta esperienza dell’assenza
di respiro.

85
LA PRIMA IDEA DI SCRIVERE UN LIBRO SUL KRIYA

Con rinnovato entusiasmo per l’austero ma, allo stesso tempo, ardente
sentiero del Kriya, un giorno, d’inverno, durante una pausa di sci, guardai
le montagne lontane che delimitavano, in tutte le direzioni, l'orizzonte.
Entro pochi minuti il sole le avrebbe dipinte di rosa, di più quelle ad
oriente, di un rosa che sfumava nel blu quelle ad occidente. Immaginai che
l’India fosse là dietro, che l’Himalaya fosse il prolungamento di quelle
montagne; il mio pensiero andò a tutti gli appassionati di Kriya che, come
me, trovavano degli ostacoli insuperabili nella comprensione della loro
amata disciplina. Per la prima volta osai contemplare un'immagine che
indugiava, forse da molto tempo, tra i miei pensieri: un libro sul Kriya
dove ogni tecnica fosse spiegata nei dettagli.
Tante volte avevo perso tempo a chiedermi cosa sarebbe successo se Lahiri
Mahasaya avesse scritto un siffatto testo. La mia immaginazione era
arrivata a visualizzare il colore della sua copertina, a dare uno sguardo alle
sue pagine, non molte, come gli Yoga Sutra di Patanjali. Forse alcuni
commentatori avrebbero tentato di "forzarne" il significato per adattarlo
alle loro teorie. Anzi, sono certo che qualche pseudo-guru avrebbe
suggerito che le tecniche incluse erano intese solo per i principianti, che
esistevano tecniche più "evolute" e che solamente delle persone
"autorizzate" potevano comunicarle, a pochi eletti, ovviamente. Alcuni
avrebbero abboccato, preso contatto con l'autore, pagato cifre enormi per
ricevere quelle tecniche che questi aveva creato con propria fantasia o che
aveva preso in prestito da qualche libro esoterico!
Il libro non esisteva. Cosa poteva succedere se io stesso lo avessi scritto?
Era difficile pur tuttavia possibile sintetizzare la totalità della mia
conoscenza in un libro, armonizzare teoria e tecniche in un’esposizione
pulita. Di sicuro l’intenzione non era quella di celebrare me stesso o porre
le fondamenta di una nuova scuola di Kriya. Se fosse necessario parlare
anche delle mie esperienze, questo sarebbe stato solamente per essere più
chiaro nelle spiegazioni teoriche e tecniche.
Il mio modello avrebbe potuto essere il libro di Theos Bernard Hatha Yoga
resoconto di un’esperienza personale [1943]. Questo manuale riesce più
che altri a chiarificare gli insegnamenti contenuti nei tre testi fondamentali
del tantrismo: Hatha Yoga Pradipika, Gheranda Samhita e Shiva Samhita.

86
Nonostante gli anni trascorsi dalla sua pubblicazione ed i numerosi testi di
Hatha Yoga apparsi recentemente, tale libro rimane ancora uno dei
migliori. Un lavoro analogo sul Kriya sarebbe stato per molti ricercatori
una vera "manna dal cielo".
Non più retoriche affermazioni di legittimazione, non più frasi enigmatiche
per far intuire qualche particolare tecnico, creando però più dubbi di prima!
Sognavo un libro che provasse la sua validità incarnando il pensiero di
Lahiri Mahasaya nel modo più semplice e logico, in un insieme completo,
armonioso di tecniche.
Chiaramente, molti insegnanti di Kriya - quelli che vivono per mezzo delle
donazioni ricevute durante le iniziazioni e, grazie al vincolo della
segretezza, esercitano il loro potere sulle persone - avrebbero considerato il
libro una minaccia al loro lavoro. Forse quello che sembrava virtualmente
eterno per alcuni - vivere come dei pascià, circondati da persone pronte a
soddisfare tutti i loro capricci nella speranza di ricevere le briciole di
ipotetici "segreti" - avrebbe potuto cambiare, e lo temevano.
Questi avrebbero tentato di distruggerne l’affidabilità con una censura
impietosa. Già sentivo il loro commenti sprezzanti mentre lo sfogliavano
velocemente: «Contiene solo fantasie che nulla hanno a che vedere con
l'insegnamento di Babaji e Lahiri Mahasaya. Diffonde un insegnamento
falso!»
Ma un libro come il mio non poteva essere una minaccia alla attività di
nessun onesto insegnante di Kriya, soprattutto se questi avesse accettato di
comunicare tutte le parti del Kriya, gradualmente, con la delicatezza e la
cura richiese dalla materia, senza, per ragioni di convenienza legate al
mantenimento del proprio potere personale, tenere alcuna cosa per sé. Ma
come riassicurarli senza collidere con i condizionamenti radicati nella loro
stessa "chimica cerebrale"? Ero rammaricato che essi rimanessero
contrariati perché, come si dice, a me piace … vedere le persone contente!
Le persone "New Age", quelli che amano i testi arricchiti da varie
illustrazioni basate sul folclore indù, sarebbero rimasti certamente delusi
dalla sobrietà del libro e, affermando che «esso non possiede buone
vibrazioni», l'avrebbe messo da parte.
Ma per tutti coloro che amano il Kriya, scoprire che esiste un simile libro
sarebbe stato come un tocco magico che dissolve un incubo.
Io già vivevo in quella felicità.

87
Tramite loro il libro avrebbe continuato a circolare; e chissà quante volte
sarebbe ritornato davanti agli occhi di colui che ne aveva decretato la
condanna. Talvolta questi avrebbe dovuto far finta di non vedere che,
durante uno dei suoi seminari, qualche curioso lo stava esaminando per la
prima volta, perdendo con ciò parte della conferenza…

Mi beai per dei minuti in questi pensieri; poi ritornò con tutta la sua
forza devastante il senso della situazione attuale, riguardo alla diffusione
del Kriya.
La richiesta di segretezza aveva dato forza ad un circolo vizioso. I "saggi"
Acharya indiani non avevano "rappresentanti" in occidente ed i loro
studenti non avevano il permesso di insegnare nulla. Era impensabile che
ogni anno una serie innumerevole di voli charter trasportasse tutti gli
interessati al Kriya - non conta se vecchi o malati - presso un remoto
villaggio indiano, come un pellegrinaggio a Lourdes o a Fatima!
Molti ricercatori, non potendo recarsi in India, andarono presso alcuni
insegnanti presenti in occidente. Erano stati avvisati che questi erano
superficiali, che il loro contributo alla conoscenza del Kriya era
insignificante, pur tuttavia il pensiero di ricevere almeno qualche cosa
d’utile aveva vinto su ogni esitazione.
Gli Acharya indiani erano informati della situazione e si convinsero che,
stupidi come eravamo, non ci meritavamo un insegnante migliore,
autentico. La frattura tra loro e noi crebbe e divenne definitiva. Accecati
dai dogmi, decisero di rimanere chiusi nelle loro torri d'avorio e continuare
ad agire contro il buon senso, chiedendo ancora più segretezza ai loro
discepoli.
A deteriorare la situazione, voci sulle modifiche apportate al Kriya
crearono panico: persino il Navi Kriya ed il Thokar furono in alcuni Forum
considerati tecniche da non considerarsi originali. Un Kriyaban non poteva
che sentirsi disperato soffermandosi in tali siti con la speranza di trovare
importanti delucidazioni tecniche.
Talvolta in un simile Forum, frenesia, irritazione, ego ferito si
nascondevano dietro una maschera di gentilezza; spesso volgarità
irripetibili apparivano quando non c'era moderatore e le persone si
sentivano libere di offendere pesantemente coloro che la pensavano
diversamente. Ma quello che maggiormente indisponeva era leggere delle
risposte date a delle persone oneste che cercavano dei chiarimenti tecnici
88
oppure s’informavano se esistessero delle fonti affidabili da cui ricevere
tali chiarimenti. C’erano sempre dei kriyaban che rispondevano con un
tono inaccettabile - con una finta gentilezza mista a commiserazione -
bollando come pericolosa mania il loro desiderio di approfondire
l’argomento del Kriya.
Quando un ricercatore chiedeva informazioni sul Kechari Mudra, spesso la
risposta era che esso «non è affatto importante o essenziale!», aggiungendo
altre banalità come il consiglio non richiesto di migliorare la profondità
delle tecniche già ricevute e di accontentarsi di ciò.
Con che faccia tosta osava lo scrivente - in un Forum dedicato al Kriya e
quindi alla teoria e anche alla pratica di esso – affermare il contrario di
quanto affermano tutti i maestri del Kriya?
Come osava, non invitato, entrare nella vita di un’altra persona, della quale
non sapeva nulla, trattandola da principiante incompetente e superficiale?
Era davvero tanto difficile rispondere: «Non conosco tale tecnica e
nemmeno quale istituzione cui poterti rivolgere»?
Chiusi gli occhi, la situazione attuale mi parve un’assurdità che
purtroppo vestiva i panni di un incubo - la mia anima era straziata.
Osservando il cielo blu sopra l'orlo dorato delle montagne che stavano
diventando rosa compresi che il libro avrebbe dovuto essere scritto.
Certo che non era possibile rompere il vincolo della segretezza nel Kriya
senza sconvolgere anche il mito del rapporto Guru-discepolo. Avrei dovuto
combattere una battaglia anzitutto entro me stesso, avrei dovuto ripulirmi
da grossi condizionamenti. Sopraffatto da un senso di spossatezza, ritornai
pigramente a casa.
A sera mi sentivo esaurito, stranamente non eccitato a riguardo del
progetto. Rimasi per un po’ inginocchiato davanti al divano con la faccia
sprofondata tra i cuscini. Regolai il lettore CD con la funzione "repeat" sul
secondo movimento del Concerto Imperatore di Beethoven. Era mai
successo che qualcuno, ben caricato delle Guru’s blessings [benedizioni
del Guru] ricevute frequentando tutte le possibili cerimonie di iniziazione
condotte dai canali legittimi, praticasse il Kriya con quella dignità e
coraggio con cui Beethoven sfidò il suo destino?
Abbassai le luci e contemplai il sole che scendeva in lontananza dietro gli
alberi in cima ad una collina. La silouette di un cipresso eclissava in parte
il grosso disco del sole, rosso come il sangue. Quella era la bellezza eterna!
Mi sedetti un po’ assonnato; una strana immagine afferrò la mia
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attenzione: quello dell'"investitura" di Vivekananda da parte del suo Guru
Ramakrishna. Avevo letto che un giorno, verso la fine della sua esistenza
terrena, Ramakrishna entrò in Samadhi mentre il suo discepolo
Vivekananda [Naren] gli era vicino. Quest’ultimo cominciò a sentire una
forte corrente, poi perse conoscenza. Quando ritornò in sé, il suo Guru,
piangendo, gli sussurrò: «O mio Naren, oggi ti ho dato tutto, ora sono
divenuto un povero fachiro, non possiedo nulla; con questo potere farai un
immenso bene al mondo». In seguito Ramakrishna spiegò che i poteri che
aveva passato a Vivekananda non potevano essere utilizzati dal suo
discepolo per accelerare la propria realizzazione spirituale - perché ognuno
deve sostenere da solo tale fatica - ma lo avrebbero aiutato nella sua
missione futura quale insegnante spirituale.
Penso che il mio inconscio si manifestò con quest’immagine come per
ammonirmi a non cedere alla tentazione di gettare via qualcosa di valido e
prezioso. Ora, se noi affermiamo che Ramakrishna era il Guru di
Vivekananda affermiamo un fatto autentico e di profondità insondabile.
Cominciò ad albeggiare la consapevolezza che il problema non stava nel
concetto di Guru, che comunque meritava esplorato appieno, ma su che
cosa noi qui in occidente avevamo fatto di tale concetto.

IL CONCETTO DI GURU

Per anni avevo subito ogni tipo di pressione per identificare il Guru
con Dio; l’organizzazione da me frequentata - che sosteneva di essere il
prolungamento nel tempo e nello spazio dell’azione del Guru – doveva
essere quindi considerata la materializzazione delle benedizioni Divine.
Avevo accettato la segretezza come un dogma inviolabile voluto da Dio
stesso, non una scelta umana.
Eppure sentivo che la segretezza non era così importante; mi era noto che,
spesso, i discepoli di Lahiri Mahasaya conoscevano in anticipo le tecniche
che avrebbero ricevuto con l’iniziazione.
Non c'è prova che Egli sia stato intransigente per quanto riguarda la
segretezza, intesa come condividere dettagli tecnici. Lui chiedeva una
discrezione d'insieme, il mantenere il silenzio sull’intera faccenda; questa
è una cosa diversa!
Sapeva bene che, specialmente all'inizio dell’impresa, vi era una tendenza
latente nel kriyaban a sprecare molto tempo ed energia nel comunicare ai

90
suoi amici l'oggetto del nuovo interesse. Ciò contribuiva a produrre una
situazione molto stressante: il kriyaban, infatti, si sentiva coinvolto nel
reagire alla critica e al sarcasmo - oppure, talvolta, a lasciarsi invischiare
nel recitare la parte della guida spirituale.
Non credo che Lahiri Mahasaya temesse una libera diffusione del Kriya -
un'idea simile non può confarsi con alcuno dei suoi ideali - quanto una
pericolosa, inutile, dissipazione di energia. Il compito di essere una guida
spirituale e condividere liberamente le tecniche fu da Lui assegnato ai
discepoli capaci e forti abbastanza da sostenere quest’esigente ruolo.
Oggigiorno, gli Acharya e le organizzazioni pongono l’accento non tanto
sulla discrezione ma sul non rivelare le procedure del Kriya.
Ora, chi è avvantaggiato dal fatto che la segretezza sia mantenuta?
Le organizzazioni affermano che questa regola è stata concepita per
«mantenere gli insegnamenti puri», ma l'evento paradossale è che proprio
da loro tutta una serie di modifiche nella pratica del Kriya prese l’avvio!
Gli Acharya affermano che è pericoloso dare tecniche evolute a persone
che non sono pronte a sostenerne il potere - e citano alcune delle frasi di
Lahiri Mahasaya sull’argomento - ma non è forse questo quello che loro
stanno facendo durante le iniziazioni di massa, dove non c’è alcun contatto
personale tra insegnante e studente?
Fin qui arrivava il mio pensiero e qui si fermò - per mesi.

Fu in questo periodo che incontrai nuovi ricercatori e imparai da essi altre


tecniche di Kriya; risposi alla loro gentilezza condividendo quello che
conoscevo. Per conservare ogni particolare delle tecniche apprese,
corroborate e amplificate dalle nuove informazioni, cominciai a trascorrere
parte delle giornate a scrivere una specie di promemoria. Esso cominciò
sempre di più ad assumere l’aspetto di un libro.
Man mano che procedevo, il problema del rapporto Guru-discipolo
emergeva oscuramente, più come una ferita che come una teoria che
dispiega i suoi miti, mentre una soluzione cominciava a disegnarsi. Il cuore
esitava ad accettarla.
Il concetto di Guru è molto logico: egli è il Maestro spirituale che rimuove
permanentemente l’ignoranza e l’oscurità in quelli che, docilmente, lo
seguono. [Gu = oscurità Ru = colui che rimuove].

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Pensando all’indimenticabile, straordinario discorso di Dostoevsky sul
ruolo dei padri anziani - Starec - nei monasteri Russi [I fratelli
Karamazov], non mi sognerei nemmeno di metterlo in discussione.

«Ma allora che cos'è uno starec? Lo starec è colui che accoglie la vostra anima,
la vostra volontà nella propria anima, nella propria volontà. Quando scegliete
uno starec, voi rinunciate alla vostra volontà e gliela affidate in completa
sottomissione, con assoluta abnegazione. Questo tirocinio, questa terribile scuola
di vita viene accettata spontaneamente da colui che offre se stesso, nella
speranza, al termine della lunga prova, di sconfiggere il proprio essere e di
dominarsi fino al punto di conquistare infine, attraverso una vita di ubbidienza,
la libertà assoluta, vale a dire la libertà da se stesso, per evitare il destino di
coloro che hanno vissuto tutta una vita senza trovare dentro di sé se stessi. »

Ma ascoltando le organizzazioni che insegnano il Kriya, il ruolo di Guru


era attribuito ad una persona non necessariamente incontrata in carne ed
ossa. Finché si spiega che il Guru è una persona assegnata da Dio a ciascun
discepolo, la quale ha il compito di portare, parzialmente, il carico del
Karma di costui, in altre parole bruciarne una parte, non ci sono problemi.
Ma che dire quando tale Guru non è mai stato fisicamente presente nella
propria vita, avendo da tempo abbandonato il corpo e trovandosi ora … nei
cosiddetti mondi astrali? Eppure tale rapporto dovrebbe funzionare lo
stesso! Prudentemente le organizzazioni introducono il concetto che il
Guru, da vivo, conosceva già in anticipo quei discepoli che sarebbero
venuti dopo la sua dipartita fisica e stava già lavorando e soffrendo per
costoro. È chiaro che esse avrebbero stabilito il contatto con Lui tramite la
Sua organizzazione.
Ricordo che quando mi fu detto questo, rimasi piacevolmente sorpreso; mi
sentii molto fortunato e mi chiesi come mai una simile fortuna fosse
toccata proprio a me! La mia meditation counsellor coglieva ogni
occasione per affermare come tal evento - il legame di discepolato col
Guru - fosse «la più gran fortuna che potesse mai capitare ad un essere
umano».
Studiando il materiale fornitomi dall’organizzazione, cercai di convincermi
che il Guru era una presenza reale nella mia vita. Dopo la cerimonia, di
grande impatto emotivo, d’Iniziazione al Kriya, la convivenza con tale
idea, si trasformò da un atto di fede in una convinzione radicata. Sapevo
che l’organizzazione considerava tale certezza, più che non l’abilità pratica

92
nel Kriya, il segno dell’avvenuta maturazione dello studente in un vero
discepolo.
No, decisamente non potevo accettare più queste storielle infantili; era il
momento di riattivare l’uso del cervello e fare i conti con ciò che mi
sembrava irreale, in contrasto con la tradizione indiana, come pure con
quella di altre tradizioni mistiche.
Mi apparve, evidentemente suggerita da passate riflessioni, l’idea di una
rete; ogni individualità era un nodo dal quale partivano diversi
collegamenti, come quelli fra i neuroni del cervello. Quando il singolo
individuo si muoveva - intendo un movimento significativo come un
deciso progresso sul sentiero mistico -, egli muoveva anche l’intera rete
nelle immediate prossimità. Chi avanza sul sentiero spirituale non è, infatti,
mai isolato: comincia a sentire la risposta positiva di altre persone e sarà
rallentato dalla loro indolenza e apatia. È essenziale capire che se x
trascina y, qualche volta avviene anche, inevitabilmente, che y trascini x.
Vidi che il concetto di rapporto Guru-discepolo trovava in questo
fenomeno la sua base. Ramakrishna e Vivekananda avevano due
personalità diverse ma in profondità erano una sola cosa: l’amore li aveva
legati inscindibilmente.
Una persona riesce a trascinare un'altra persona in avanti, vale a dire a
favorire il suo progresso spirituale, solo se possiede un particolare potere
che si è guadagnato, costruito da solo, che nessuno può attribuirgli
formalmente – che non nasce per esempio dall’aver ricevuto
l’autorizzazione di iniziare altri al Kriya.
Come il lettore sa, Jung affermò che c’è un livello più profondo
dell'Inconscio che è «ereditato con la nostra struttura cerebrale» e consiste
dei «modi umani tipici di risposta» alle situazioni più intense che possono
accadere nella vita - nascita, morte, malattia, famiglia, guerra... -.
Noi esseri umani siamo legati l'un l'altro attraverso questo Inconscio
Collettivo. Se per Freud l’Inconscio era una parte della psiche simile ad un
deposito pieno di vecchie cose "rimosse" - rifiutate da un atto quasi
automatico della volontà - un ammasso che oggi non riusciamo più a
richiamare alla coscienza - questo Inconscio Collettivo lega insieme tutti
gli esseri umani attraverso gli strati più profondi della coscienza.
Chi ritiene di aver ricevuto legittimamente il potere di iniziare, farebbe
bene a riflettere se tra lui e il discepolo cui concede l’iniziazione esiste un
simile legame.
93
Accettare un discepolo non si risolve nel darsi da fare per spiegargli il
Kriya, ma consiste nella lucida e coerente accettazione di futuri grovigli o
sofferenze che tale rapporto potrà comportare. Anche se ci sentiamo
protetti dalla nostra fervente aspirazione per il Divino, è saggio riflettere
sulla nostra fragilità e vulnerabilità.

Negli scritti di Lahiri Mahasaya non ho mai trovato una


contraddizione a tale modo di pensare. Il grande Yoga Avatar rifiutò di
essere adorato come un Dio. Questo è un fatto che alcuni tra i Suoi seguaci
sembrano aver dimenticato. Egli disse: «Io non sono il Guru, io non
mantengo una barriera tra il vero Guru (il Divino) ed il discepolo».
Aggiunse che voleva essere considerato a guisa di «uno specchio». Quando
il Kriyaban comprende che Lahiri Mahasaya è la personificazione di quello
che un giorno lui stesso diventerà, allora quello specchio deve essere
«gettato via». Si, piaccia o non piaccia, dice proprio così: gettato via.
Le persone che sono state allevate in un’organizzazione di Kriya non
possono capire appieno l'impatto di queste parole; se lo capissero
troverebbero una forte contraddizione con tutto quello che è stato loro
insegnato. Per capirle ci vuole il coraggio di abbandonare le proprie
illusioni, quelle che fanno comodo, nonché un buon cervello.
«Dio non è una persona ma uno stato di coscienza», faceva notare!
Se così è, noi possiamo fare una sola cosa: decidere di fare quanto è nelle
nostre forze per entrare in sintonia con tale Realtà, la quale è al di là delle
nostre capacità di comprensione; questo è tutto!
Perché allora molti sentono la necessità di venerare alcuni esseri umani
come se questi fossero Dio?
Fin tanto che si va da un Maestro ad imparare il Kriya, ciò va benissimo - a
patto che tale Maestro si riveli un autentico esperto - ma quando il Kriya
comincia a funzionare e la realtà Omkar si rivela, allora lo scenario
cambia: un qualcosa d’intimo tra il Kriyaban e il Divino ha incominciato
ad essere.
Quanti si trovano a camminare soli, che hanno appreso il Kriya non
importa come e da chi, e hanno l’interesse, l’entusiasmo, la volontà di
esservi fedeli, dovrebbero essere contenti di ciò. L’esperienza Omkar
aggiungerà alla loro pratica tutte le "benedizioni" necessarie.
Coloro invece che hanno creato un legame, fatto d’amore e di rispetto, con
un onesto esperto di Kriya, il quale è stato quindi, a tutti gli effetti, il loro
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Guru, possiedono un qualcosa che è unicamente loro, che non può essere
comunicato ad alcuno, anche se andassero avanti per una infinità di tempo
a narrare i più toccanti aneddoti della loro esperienza, la meraviglia di una
vita salvata dalla insignificanza dalla grazia di un autentico Maestro. Anzi,
se le loro storie dovessero contribuire a mitizzare la figura di tale Maestro,
senza tener conto della natura umana di costui, il loro sforzo non sarebbe
semplicemente inutile ma potrebbe avere, per l’evoluzione spirituale altrui,
un effetto disastroso.

IL LAVORO

La realizzazione che il sentiero mistico del Kriya era universale, che


nessuno aveva il diritto di avanzare pretese di proprietà esclusiva, mi aiutò
a continuare a scrivere il libro e a vincere le mie resistenze che apparivano,
alcuni giorni, come una stretta dolorosa nel petto e un senso generale di
disagio ed irrealtà.
Avevo bisogno di estrarre dal materiale enorme dei miei appunti, presi
lungo tanti anni seguendo diversi insegnanti, solamente la teoria
essenziale; poi avrei dovuto pormi intensamente al lavoro con una intensa
e seria pratica, sperimentando di nuovo ciascuna tecnica dall’inizio.
Da prigioniero volontario, avendo ridotto al minimo la vita sociale, mi misi
al lavoro cercando uno stretto isolamento. Anni passarono senza che me ne
rendessi conto. Fu quello il momento in cui praticai grandi dosi di ciascuna
delle varie tecniche. In tal modo, quello che in passato era già stato
utilizzato, spesso in un modo superficiale, ricevette ora una profonda
attenzione. Spesso in passato, la forza trainante era anche il desiderio di
completare al più presto possibile il numero di ripetizioni prescritte per
ciascuna tecnica onde ottenere dal mio insegnante l’iniziazione successiva.
Il desiderio ardente di "spremere" ogni insegnante di Kriya per riceverne
qualunque cosa potesse insegnarmi, era causato dal timore che, per
qualsivoglia motivo, non sarei stato più capace di contattarlo in futuro.
Ora questa situazione snervante era cessata: stavo vivendo un momento
tranquillo della mia vita, libero da ogni fretta e da ogni obbligo di
indossare una maschera d’ipocrisia; finalmente potevo concentrarmi con
calma su qualsivoglia tecnica, incontrarne l’essenza e trascrivere le mie
impressioni.

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Effettivamente, questi anni sono stati del tutto diversi dal resto della mia
vita. La gran quantità di esperimenti che feci aveva un solo scopo: se una
certa variante di una tecnica Kriya - che mi era stata proposta in passato –
era superflua e senza alcuna efficacia, essa finiva necessariamente per auto
eliminarsi. Alla luce della pratica, il nucleo essenziale di ciascuna tecnica,
privo di fronzoli, appariva come un qualcosa di ovvio, inevitabile, che non
poteva essere altro che così. Tuttavia rimaneva l’impressione di trovarmi a
ricomporre un ampio puzzle, senza avere qualsiasi anteprima di quello che
sarebbe apparso alla fine. Procedevo mettendo ogni cosa al suo posto;
alcune tecniche appartenevano al Primo Kriya nella sua forma più
semplice, altre alla sua forma più evoluta; alcune tecniche apparivano
come un’arbitraria semplificazione di altre e non dovevano essere citate nel
libro; altre erano una variante che aveva la sua ragione d’essere e quindi
dovevano essere citate.
Dopo aver vissuto la deludente esperienza con la mia prima scuola di
Kriya, nulla di quello che appresi fu considerato come verità sacrosanta.
Quando si perde l’innocenza, cioè quando il primo maestro in cui si è
riposta la più totale fiducia ci ha deluso, quando s’incontrano le prove che
ci ha mentito - anche se tante voci gridano che era per il nostro bene - non
si può più credere ciecamente ad alcuno!
Un insieme di tecniche, che mi era stato presentato come il Dhyana Kriya,
stonava terribilmente. Lo strumento base di queste era il potere, portato
all’esasperazione, della visualizzazione.
Già eminenti scrittori [vedi Puran Purush] avevano fatto notare come tali
pratiche non potevano avere diritto di cittadinanza nel Kriya di Lahiri; esse
non avevano alcun aggancio con altre tradizioni mistiche ma presentavano
una forte analogia con la tradizione esoterica o magica. Non avevano nulla
a che fare con la percezione Omkar o con lo stato di assenza di respiro. Mi
sentii sollevato nel ripulire per sempre la mia vita da tale ciarpame.
Ora il quadro apparve armonioso e completo: tutte le tecniche, da quelle
del primo Kriya agli ultimi Kriya superiori, collaboravano ciascuna con
tutte le altre. In questo modo il puzzle appariva completo.
Le prime tecniche base contenevano, potenzialmente, le successive, le
quali ne erano un approfondimento.
C’era la tangibile evidenza che sin dal primo momento ogni dettaglio
tecnico prepara le fasi evolute del sentiero.

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Quanto sarebbe stato sciocco - come alcune scuole pretendevano - di
lavorare dei mesi a familiarizzarsi con un certo percorso d’energia, per poi
sentirsi dire che non era il definitivo, che uno migliore sarebbe stato
ottenuto tramite l’iniziazione ad un Kriya superiore!
Il quadro quindi poteva dirsi complesso solo per il fatto che conteneva
diversi gradi di raffinamento, non per altri motivi.
Mentre non trovavo difficoltà a descrivere le prime esperienze da
autodidatta oppure quelle ai tempi della prima scuola di Kriya, tentando
invece di mettere per iscritto le mie osservazioni personali relative alle
tecniche Kriya, quelle che avevo tutte le ragioni di considerare come
originali, incontrai un sostanziale impedimento.
Il racconto delle prime esperienze era volto solo a chiarire al lettore quanto
grande fosse stata la mia attrazione verso il Kriya e quanto disperata e
caotica fosse stata la mia ricerca; nel trattare le esperienze autentiche del
Kriya originale di Lahiri Mahasaya avrei voluto che il lettore incontrasse il
Kriya Yoga soltanto per quello che esso era, senza essere filtrato dalla mia
esperienza.
Eppure non era certo fare giustizia al Kriya presentare delle tecniche senza
vita, descritte quasi per soddisfare la curiosità, superficiale e insaziabile, di
alcuni lettori. Era un fatto vitale quello di mostrare che cosa una tecnica
diventa nella vita.
Mi ricordai della prima idea relativa al mio libro, quella di considerare il
lavoro di Theos Bernard [Hatha Yoga: Sintesi di un’esperienza personale]
come un esempio da seguire. Tecniche su cui si era posata la povere del
tempo, diventavano più che mai attuali, fattibili, chiare davanti agli occhi
della nostra intuizione.
Non c’era altra soluzione che mantenere un tono personale nella
discussione degli effetti delle tecniche, e questo inserito in uno schema più
ampio di riflessioni di natura didattica.
Naturalmente queste riflessioni dovevano essere aggiunte alla fine di
ciascun capitolo, ben staccate dall’enunciazione pulita delle tecniche, in
modo tale che il lettore potesse saltarle, se lo desiderava.
Per capire le ragioni di un’ultima difficoltà bisogna aprire una parentesi.
Nella stessa esperienza personale di Lahiri Mahasaya, ci volle del tempo
prima che una serie di dettagli fossero sistemati in una definitiva visione
teorica.

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Quello che Lahiri Mahasaya insegnò all’inizio della sua diffusione del
Kriya fu un po’ diverso da quello che Lui aveva in mente alla fine della
Sua vita terrena.
Le differenze tra le varie scuole di Kriya non sono sempre causate dalla
tendenza a semplificare o modificare, ma anche ad epoche diverse in cui i
discepoli appresero il Kriya da Lahiri Mahasaya.
Questo non deve portare alla visione estrema secondo cui Lahiri Mahasaya
diede a ciascun discepolo una tecnica diversa, "personale" - accettare ciò
vorrebbe dire sancire la fine del Kriya Yoga!
Comprendiamo che quando un discepolo si presentava una seconda volta
davanti a Lahiri Mahasaya, poteva ricevere il Thokar quale "Seconda
iniziazione" o "Secondo Kriya" o, invece, essere istruito su come porsi in
sintonia più profonda con la realtà Omkar, come percepire meglio la realtà
dei Chakra, come identificare la loro sede nella spina dorsale e nel
Kutastha… e tale istruzione sarebbe stata per lui il "Secondo Kriya".
Nella mia descrizione dunque non potevo e non dovevo appoggiarmi, una
volta per tutte, su quanto un qualsivoglia insegnante di Kriya,
contrapponendosi ad altre tradizioni, sosteneva; dovevo trovare il coraggio
di proporre un sistema che rappresentasse il mio - dunque relativo e quindi
criticabile - tentativo di fare una sintesi.
Più pensavo a come uscire da questa situazione disagevole, più scoprivo
che il mio pensare, che credevo chiaro, era davvero incerto e
contraddittorio.Irritato ed incline all’esasperazione, quando riuscivo ad
esprimere un'idea, mi sentivo, il giorno successivo, insoddisfatto.
La decisione pratica su quale fosse l’ordine d’esposizione delle varie
tecniche fu, infine, presa.
Per quanto riguarda i Kriya Superiori, mi parve logico incominciare con il
Thokar e finire con le sottigliezze della percezione Omkar.
Mi sentii sollevato e, con questo principio in mente, fui capace di
concludere il libro.
Naturalmente se una persona dovesse pretendere da me una prova certa
dell’autenticità delle tecniche, non potrà che restare delusa.
Posso solo assicurare che l’insieme delle tecniche condivise nel libro non
deriva solo da un’unica fonte, che insegnanti diversi, ricercatori spirituali
che studiarono con altri insegnanti ed il mio studio personale contribuirono
a definirlo.

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Colui che ricerca il Kriya originale, dopo aver letto quello che ho scritto,
dovrebbe comunque portare avanti la sua ricerca: se qualcosa di utile egli
può trarre dalla mia ricerca, questo non riguarda più me.
Così come è avvenuto nella mia vita, il ricercatore non sarà mai soddisfatto
fin quando non scenderà in campo e si "sporcherà" le mani.
Se s’impegnerà al cento per cento, a cercare solo la meta mistica e non la
chimera di un’ipotetica "crescita personale", allora l’Intelligenza che sta
all’interno della vibrazione Omkar sarà la sua guida.

Cessato definitivamente il rapporto col secondo maestro, molte persone


mi chiedevano informazioni sul Kriya - da chi impararlo o da chi ricevere i
Kriya superiori. Ovviamente non parlo delle persone appartenenti
all’organizzazione, che non si sarebbero mai rivolte a me considerandomi
un traditore, uno che era da tempo «caduto dal sentiero».
Quanto a me, davo una copia della prima versione del libro a tutti i
ricercatori seri con cui ero in contatto.
Preso da un’ossessione di perfezionismo lo ritoccavo continuamente e non
lo ritenevo mai pronto per essere messo su Internet.
Nel frattempo i miei amici mi prendevano in giro, sembrava che non
potessi mai porre la parola fine a tale impresa.
Un amico affermò che esso era per me il mito che mi permetteva di vivere
e che non sarebbe mai stato completato.
In quella mia apparente serenità, dove non sentivo alcuna pressione
interiore, si verificò la spinta decisiva!
Avvenne un episodio che in passato non mi avrebbe dato più di tanto
fastidio. Invece, in quel particolare momento della mia vita, suscitò una
violenta reazione negativa.
Un amico col quale avevo condiviso ogni cosa del percorso spirituale, che
mi aveva accompagnato in tutte le vicissitudini relative ad entrambi gli
insegnanti precedenti e sofferto sulla sua pelle per gli stessi motivi, fece
una lunga vacanza in India e fece una visita proprio a un insegnante che io
stimavo molto anche se non avevo mai avuto l’occasione di conoscere.
L’amico spiegò al Maestro la deplorevole situazione della diffusione del
Kriya qui in occidente e in particolare le vicissitudini del nostro gruppo;
questi si dimostrò addolorato e disse di essere disposto ad aiutarci.
L’amico si fece controllare il Pranayama.

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Quando ritornò in Italia lo incontrai: era molto felice e mi chiese di
praticare il Pranayama davanti a lui. Affermò che riscontrava un errore
nella mia pratica. Quando gli chiesi di cosa si trattasse, la sua risposta mi
gelò: affermò, infatti, che non poteva dirlo perché aveva promesso
solennemente all’insegnante di non rivelare nulla.
Lui aveva chiesto all’insegnante il permesso di correggere eventuali nostri
errori: la risposta era stata negativa anzi il maestro aveva preteso un vero e
proprio giuramento di non rivelare nulla.
Quest’insegnante - che aveva manifestato l’intenzione di aiutarci - aveva
forse paura che, una volta chiarito l’errore, non ci saremmo più recato da
lui? Era veramente così meschino?
Non pretendevo certo che il mio amico mi raccontasse per filo e per segno
tutte le cose che si erano dette lui e l’insegnante; non potevo e non volevo
entrare nell’intimità di quella esperienza, ma come poteva quel Maestro
lasciarmi continuare con quello che riteneva un errore? Trovai questo fatto
allucinante. Reagii molto male, troncai ogni discussione e me ne andai via.
Ripensando all’episodio compresi qual era questo particolare errato: non
avevo fatto un respiro particolarmente addominale, ero sicuro di questo
perché era l’unica cosa che il mio amico fu capace di vedere – non
parlammo di dettagli interiori della pratica.
Ormai ogni esitazione era vinta; chiesi l’aiuto di un amico per controllare
la traduzione inglese del libro e lo pubblicai su Internet.

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