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Intervento di Leonardo Anfolsi Reiyo Ekai – dicembre 2018

Dzogchen e Zen
Nei secoli passati la tradizione zen si è intrecciata con l’insegnamento tendai e con quello tantrico,
sia in Cina, che in Tibet, che negli altri paesi asiatici in cui si è manifestato. Anche se questo viene
talvolta negato, oramai gli accademici ne sono al corrente, come anche è ovvia nella disciplina
monastica zen la presenza di questi contenuti tantrici, per esempio nel canto dei sutra e soprattutto
nelle invocazioni durante i pasti che paiono ricopiate parola per parola da simili rituali rinvenibili
nella tradizione tantrica tibetana.

Nello zen, tutta la fantasmagoria visionaria del tantra è ridotta a un fattore di consapevolezza, cosa
che mi rende particolarmente cara questa pratica eremitica, sistematicamente, genialmente
condivisa in luoghi appositi.

Premetto che sono Ministro di Culto secondo l’unione Buddhista Italiana essendo stato formato dal
Monastero Zenshinji in quanto Maestro di Dharma della discendenza rinzai, ma che ho frequentato
l’insegnamento di altre scuole buddhiste per avere una più ampia esperienza del Dharma.
Al tempo dell’uscita del testo “Zen e Dzogchen” scritto da uno dei miei amati Maestri, Chogyall
Namkhai Norbu, gli feci presente come e perché avesse sbagliato in alcuni punti della sua disanima,
ed il tempo mi dette sempre più ragione. Rinpoche si mostrò sempre estremamente versato, sia
accademicamente che iniziaticamente, a riguardo della comprensione del senso, del portato
iniziatico e della storia del buddhismo Tibetano – segnatamente dello Dzogchen - avendo
manifestato varie volte premonizioni a riguardo di molte connessioni fra tradizione bon e buddhista,
come anche in particolare a riguardo della storia dello Shangshung; nonostante ciò non mi feci
intimidire dalla sua erudizione e maestria e gli feci presente tali errori. Il più importante è che il
Maestro Norbu considerò lo zen come la cuspide del buddhismo mahayana e lo dzogchen come la
cuspide, ma anche il superamento del buddhismo vajrayana, e per spiegare questo citò un testo
rinvenuto nelle grotte dell’oasi di Dunhuang, il Samdan Migdron.

Lo dzogchen non fu solo quel maha-ati - tipicamente sopravvenente dopo la pratica tantrica - come
è tipicamente visto nella scuola Nymapa, ma anche e soprattutto un metodo a se stante. Esempio di
ciò ne sia la linea convergente sia buddhista che bonpo proveniente da Adzom Drugpa (1842-1924)
e Shardza Tashi Gyaltsen (1859 - 1935) che trovò la propria sintesi in Changchub Dorje (1826-
1961), principale Maestro dzogchen di Rinpoche. Changchub tesaurizzò entrambi gli insegnamenti,
quello bonpo e quello buddhista, strutturando peraltro una comunità dzogchen su nuove basi di
intendimento laico e democratico, qualcosa che Namkhai Norbu raccolse come eredità feconda per
impostare la moderna Comunità Dzogchen.
Perché dunque è dato da Rinpoche allo dzogchen l’essere un superamento del Vajrayana - di già un
indirizzo considerato dai tibetani alquanto “superiore” - e non è detto allo zen l’essere un
superamento del mahayana?
Ma cosa è “superiore”?
L’assunto creato dal Maestro si mostrò infelice proprio perché usò intellettualmente due pesi e due
misure: dello dzogchen prende in considerazione la suprema sintesi dei maestri succitati - quasi
come se non esistesse altro - a riguardo dello zen non pare volere fare lo stesso o, più probabile, non
conosce abbastanza per poterlo fare.
Peraltro alcuni fra i più noti Maestri di Dzogchen tibetani presero nel momento della loro vita di più
intensa pratica dell’upadesha dzogchen tutti i voti monacali Mahayana e aggiungo la considerazione
di Huìnéng che ci informa del fatto che “superiore” è quella via dove qualcuno realizza il risveglio,
ovvero samyak sambodhi, anche fosse un semplice sravaka.
In realtà la chiave di quanto asserisco sarebbe esperienzialmente riconoscibile nella vita degli
eremiti cinesi che invariabilmente praticano una sorta di ekayana - veicolo unificato - nel quale zen,
forme di tantrismo, di pura terra e di dzogchen paiono indissolubilmente unite.
Shantideva, il più famoso ed indiscusso esegeta della tradizione Tibetana, arrivò a definire come
eretica la pratica dzogchen che porta al riassorbimento del corpo nella luce originaria; questo -
assumo io - per evitare che potesse essere confusa tale realizzazione con il risveglio samyak
sambodhi. Di queste o di altre banalità mi ritrovai a discutere con lama tibetani che sarebbero stati
esperti di dzogchen e, supponevo, di buddhismo, per i quali pensavo potesse essere ovvio che tale
fenomeno fosse un sigillo della realizzazione e non il quid; questo anche in considerazione del fatto
che nel momento in cui il corpo di chi si sta riassorbendo viene toccato il processo di
riassorbimento si blocca lasciando feretri mummificati piccoli se non minuscoli il che, forse,
vorrebbe dire che tali praticanti non si siano illuminati?
Spesso un familiare o un discepolo tocca il corpo in riassorbimento per avere delle reliquie utili alla
fede dei seguaci, questo sarebbe un atto così screanzato da bloccare la realizzazione del risveglio?

Ribadisco che Namkhai Norbu è stata una figura centrale per la comprensione del buddhismo e
dell’esoterismo centroasiatico, e questo non solo in senso accademico; a ciò va sommata una sua
verve e simpatia umana che lo hanno reso comprensibile e vicino a molte persone chiamate alla
pratica meditativa come anche al passatempo filosofico, se non alla caccia di guru. A tutti questi il
Maestro ha dato una possibilità concreta, ed al mondo ha dato nuove prospettive culturali e storiche
riguardanti quel millenario e prezioso esperimento storico, religioso e spirituale chiamato Tibet.
Su alcune questioni che citerò in questa mia analisi, mi sono confrontato col Prof. Paul Harrison
dell’Università di Stanford; entrambi ci confessammo allibiti pur riconoscendo come sensata la
citazione del Maestro Hóngrěn - il quinto patriarca chán cinese - del Sutra della Meditazione di
Amitayus in quanto meditazione tipica del chán/zen; quindi non fu dall’origine lo zazen la pratica
essenziale dei monaci zen, quanto invece lo fu una pratica visionaria che potrebbe essere vista in
comune con la pura terra e lo dzogchen. Su questa base scambiai con Paul Harrison alcune
riflessioni storiche e metodologiche che ci permisero un congruo panorama dello zen delle origini,
pur condito di molte illazioni.
Essendo venuto a conoscenza di questo ritrovamento solo grazie a una citazione del Prof. Leonardo
Arena, il Prof. Harrison volle farmi il gentilissimo dono dell’originale dei Sacred Books of the East
editi da Max Muller contenente tutto il sutra citato; oltre ciò ci dette il permesso di usare la sua
traduzione del Sutra del Diamante per porvi accanto il commento del Maestro Taino, libro che il
nostro Comitato di Traduzione pubblicò in lingua inglese.

Il Maestro Norbu per puntellare la sua intuizione cita dello zen il Maestro Huìnéng che, certamente,
è storicamente rappresentativo ma che non ne designa l’ampio respiro storico né, in particolare,
quello da poco rinvenuto dagli studiosi.
Huìnéng, col suo Sutra dell’Altare, detto anche della Piattaforma, pone le basi di un chán cinese
che si smarca dall’area indiano/persiana, dove in realtà erano i contenuti che possono mostrarci cosa
è davvero lo zen-profondo, quella realtà spirituale che fu raccolta dall’esperienza di coraggiosi
eremiti per diventare un metodo di coltivazione monastica, cioè una sorta di eremitismo estremo di
gruppo che non ha uguali nella storia.
In tal senso basterebbe già solo citare il Maestro Rinzai col suo sodale Fuke, chiamati in cinese
rispettivamente Línjì Yìxuán e Zhenzhou Pǔhuà. Ma poi si può proseguire, proprio grazie i rotoli
ritrovati in Dunhuang, citando Hóngrěn che ci rendeva noto, proprio prima dell’avvento di Huìnéng,
di come l’insegnamento zen - come abbiamo già detto - vertesse su di una pratica meditativa
contenta nel Sutra della Meditazione di Amitayus, del tutto simile alle pratiche visionarie che
farebbero dello dzogchen la cuspide del Dharma. Una nota biografica importante di Puhua è che
realizzò alla sua morte il corpo di luce, secondo la testimonianza di chi compilò il Línjì Lù (Rinzai
Roku), dove condivide con Rinzai stesso la parte del protagonista dell’insegnamento zen.
Oltre tutto ciò, studiando le fonti cinesi dello zen si può rimanere allibiti proprio grazie agli ultimi
rinvenimenti riguardanti il lignaggio che va dalla figura semimitica di Bodhidharma fino a quella
ben storicizzata di Hóngrěn, tanto che non si può proprio dire che lo zen sia così dipendente dal
mahayana, anche se è una scuola mahayana; diciamo pure che zen e dzogchen possono essere visti
al di fuori di questi schemi accademici di facile uso, proprio perché entrambi hanno come
caratteristica lo sviluppo di una via a sé stante, reggente perfettamente se stessa, l’una oltre le
tecniche teurgiche inseguendo le pratiche dell’energia e quelle visionarie, ed in più l’altra
designandosi come ben oltre le scritture; come del resto fu anche la prima.
La vicinanza del Buddhismo zen ai Sutra del Diamante, del Cuore o del Lankavatara vuole
significare solo un riferimento per chi ne vuole chiedere e vuole vederne il legame nei confronti
dell’ampio disegno del buddhismo; darvi un’importanza fondamentale sarebbe tuttavia
ingiustificabile, come asserire che lo dzogchen si basasse dottrinalmente sulla pratica del guruyoga.

Quindi dzogchen e zen sono approcci incollocabili ma, sia chiaro, in senso storico e metodologico,
non certo nel vago senso che va per la maggiora oggi, relativo a una qualche daoistica “spontaneità”
basata su quelle convinzioni contemporanee figlie di evidenti problemi con l’autorità o pertinenti a
quell’inconscio magmatico voluto da Freud per tutta l’umanità.
La questione che posi al Maestro Norbu, peraltro sommersa in sue ed altrui problematiche umane,
rimase senza risposta: oramai il libro Dzogchen e Zen era stato stampato e le questioni suddette si
sommavano con altre certamente più importanti relative alla gestione dei numerosi Allievi che
iniziavano ad assieparsi attorno alla sua figura, gestione che il Maestro Norbu cercò di strutturare
seguendo l’esempio luminoso di Changchub Dorje, ma in un luogo e in un tempo non ben compreso
da lui né dai propri Allievi, fra cui io mi annovero anche al riguardo di una simile incomprensione.
Rinpoche, come molti orientali, nonostante la sua dedizione e ogni suo tentativo, non potè capire
determinate problematiche psicologiche presenti ovunque nelle relazioni fra occidentali, dato che
nel suo mondo vigono determinati ruoli che sono inamovibili quanto sacralizzati.

Ultima questione oramai storicamente dimostrata - sempre grazie ai rotoli rinvenuti in Dunhuang - è
che un gruppo di monaci praticanti sia dzogchen che zen fosse presente in Samye prima - e
probabilmente anche dopo - la discussione voluta da Re Trisong Detsen. Le cronache asseriscono
che quando il monarca tibetano decise per la via graduale in quanto religione di stato tibetana, gli
Oshang cinesi ritornassero in Cina, ma pare che non fu così; tanto che lignaggi dzogchen dell’area
del Kham, del Tibet orientale, contengono ancora oggi con orgoglio insegnamenti definiti
apertamente sia come dzogchen che zen ovvero questi ultimi discendenti dagli hoshang moheyan,
dai Maestri mahayana cinesi.
Anche nella pratica della parte semdé del sistema dzogchen si ritrova questa evidente
contaminazione; nel semdé si inizia a meditare, infatti, sviluppando la concentrazione su di un
bersaglio visivo rotondo costituito da una lettera “A” contornata dai colori dell’arcobaleno. La
stessa pratica è caratteristica nella scuola tientai cinese, strettamente imparentata col chán-del-nord,
come anche nel tendai giapponese e nello shingon (scuola tantrica) giapponese, entrambe derivate
dal tientai cinese.

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