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12/12/2017 "Scritti a mano. Otto storie di capolavori italiani da Boccaccio a Eco" di Matteo Motolese - Letture.

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“SCRITTI A MANO. OTTO STORIE DI CAPOLAVORI ITALIANI DA BOCCACCIO A ECO” DI


MATTEO MOTOLESE

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Professor Motolese, la Sua ultima fatica, appena pubblicata per i tipi


di  Garzanti, si intitola  Scritti a mano. Otto storie di capolavori italiani da
Boccaccio a Eco: cosa accomuna questi autori e i loro capolavori?
Gli otto capolavori che ho scelto non
sono solo opere fondamentali per la
letteratura italiana (in molti casi,
europea) ma anche opere che hanno,
per così dire, costituito un salto di
qualità, uno scarto, rispetto a quello
che c’era prima. Anche per questo
motivo sono diventati dei classici. Ciò
che ho cercato di fare è di raccontarne
la nascita, adottando un punto di vista
molto particolare: quello dei
manoscritti su cui sono stati scritti dai
loro autori. Per questo, sono andato in
giro per biblioteche e collezioni private
a vedere ciò che sopravviveva della
fase di composizione o di correzione. Si
inizia dal codice su cui Boccaccio, ormai
anziano, copia per un’ultima volta il suo
Decameron (oggi a Berlino) e si nisce
con gli abbozzi del Nome della rosa di
Umberto Eco. Ogni capitolo è dedicato a un pezzo diverso: oltre a Boccaccio e
Eco, c’è il codice su cui Petrarca dà l’ultima mano al Canzoniere, un foglio su cui
Leon Battista Alberti annota un brano della prima grammatica italiana, le carte
su cui Ariosto compone l’Orlando furioso, gli appunti di Galileo Galilei per il
Dialogo sopra i due massimi sistemi, la prima versione delle Operette morali di
Leopardi, il taccuino su cui Montale scrive, tra l’altro, Ho sceso, dandoti il braccio
almeno un milione di scale. Alla ne, il lettore si trova ad attraversare, pezzo
dopo pezzo, sei secoli di letteratura e storia dell’italiano, dal Medioevo sino ad
oggi.

Il Suo libro rappresenta un affascinante viaggio nella quotidianità della


creazione letteraria: abituati a conoscerli nelle aule scolastiche ed
universitarie, dimentichiamo che gli scrittori sono assai più simili a noi di
quanto pensiamo.
Osservare da vicino la nascita di un capolavoro ci mette a contatto con una zona
fragile, provvisoria, incerta che è propria di ogni fase di creazione. È un aspetto
a cui dedico molte pagine nel libro: il senso di conquista, di ricerca dentro la
lingua di qualcosa di nuovo. Il manoscritto delle Operette morali di Leopardi è
forse quello, tra quelli che ho scelto, in cui questo lavoro è particolarmente
visibile: nei margini ci sono decine e decine di varianti, soluzioni alternative,
prove. Un cantiere aperto in cui si vede come la perfezione dello stile
leopardiano sia come distillato sapientissimo, frutto di uno scavo incessante
sulla lingua: per un aggettivo, Leopardi è capace di annotare nel margine cinque
o sei alternative prima di scegliere; e questo per decine e decine di volte. Anche
gli autogra di Ariosto sono impressionanti: si vede un lavoro di correzione che,
dai primi abbozzi, arriva sino alle pagine in tipogra a.

Quale, tra le vicende da Lei raccontate, la colpisce di più e perché?


Quando ho iniziato a scrivere il libro ero molto incerto se includere o meno il mio
punto di vista. Poi, mentre scrivevo, mi sono reso conto che era importante, per
il tipo di libro che avevo in mente, cercare di raccontare, nel concreto,
l’esperienza di fare ricerca, di viaggiare da una città all’altra per biblioteche e
collezioni. Tenga presente che, tranne un paio di casi, i manoscritti che descrivo
sono oggi molto dif cilmente consultabili. Ciò che volevo cercare di trasmettere
era anche l’emozione di poter osservare da vicino questi tipo di testimonianze.
Un’emozione che ho vissuto in prima persona molte volte nella mia vita e che
volevo condividere con il lettore. Poter sfogliare l’originale del Canzoniere di
Petrarca, ossia del codice da cui dipende gran parte della poesia occidentale, è
un’esperienza dif cilmente dimenticabile. Lo stesso poter tenere in mano il
foglio su cui, in pieno Quattrocento, Leon Battista Alberti, uno dei massimi
artisti del Rinascimento, ha disegnato una serie di lettere per rappresentare i
suoi della lingua toscana: l’inizio della più antica grammatica della lingua
italiana. Dif cile non pensare a tutto il futuro che si è sviluppato dopo, per la
nostra lingua.

La Sua è anche una ri essione sulle modalità di produzione del testo: la


rivoluzione digitale, così come fu per l’introduzione della stampa, è
destinata a cambiare le nostre abitudini?
Il titolo del libro è stato scelto per questo: oggi la scrittura a mano è
un’eccezione; solo trent’anni fa lo stesso titolo avrebbe avuto molta meno forza.
Il passaggio al digitale è una innovazione radicale che cambia il modo di scrivere
in modo profondo. Non è solo la progressiva diminuzione di una pratica

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millenaria: con il digitale, per la prima volta, la scrittura si è slegata da una
dimensione sica, materiale, per diventare immateriale. Incidere su una
tavoletta cerata o scrivere con la biro su un taccuino, per quanto siano due
pratiche molto diverse, sono entrambe collegate a una dimensione sica. Non
così scrivere un testo al computer.
Tutto questo avrà una ricaduta su più livelli. È verosimile che ad essere ripensato
debba essere, ad esempio, anche il ruolo delle biblioteche. Ora che non solo i
testi possono avere anche una vita solamente elettronica ma la loro accessibilità
è molto cambiata qual è la funzione che questi enormi archivi di testimonianze
siche debbono avere?
Per questo, nel libro, ho voluto descrivere gli ambienti che oggi conservano i
vari manoscritti: le sale lettura delle biblioteche, il contatto con i bibliotecari, le
abitudini di chi fa ricerca, compreso il piacere di nire la giornata di lavoro
passeggiando per le vie di una città che comincia ad animarsi per la sera.

Nel Suo libro ha incluso, tra il  Decameron  di Boccaccio ed


il  Canzoniere  Petrarca, i padri della lingua italiana, anche Umberto Eco,
recentemente scomparso, con  Il nome della rosa: una consacrazione
uf ciale nel pantheon letterario nazionale?
Non credo, francamente, che Eco abbia bisogno del mio libro per essere
consacrato nel pantheon nazionale. Ammetto però che da quando è uscito il
libro mi è arrivata da più parti la stessa domanda, segno che una qualche
sorpresa c’è. Per me, l’idea di chiudere con Eco era abbastanza naturale:
considerando opere che hanno, come dicevo all’inizio, costituito dei salti, delle
innovazioni, un rischio creativo da parte dei loro autori, è innegabile che Il nome
della rosa sia stato un libro del tutto nuovo per la letteratura italiana. Non solo
per il successo internazionale che ha avuto ma anche per il modo in cui è stato
scritto: puntando su un genere poco blasonato da noi come il romanzo di
investigazione, utilizzando un tipo di scrittura distantissima da quella
tradizionale, con una rete complessa di rimandi culturali strati cati, con un
ri uto della bella pagina a favore dell’ef cacia dell’azione. Per questo avevo
scritto a Eco illustrando il mio progetto quando il libro era ancora all’inizio,
nell’ottobre del 2015. Devo alla generosità della famiglia il fatto di aver avuto
accesso, nel settembre dell’anno scorso, al suo materiale di composizione, che –
a quanto ne so – non era stato mai studiato prima. Questo mi ha permesso di
chiudere il libro così come era stato progettato, con una struttura ad anello. Non
bisogna dimenticare che Il nome della rosa è scritto in modo tale da simulare un
manoscritto medievale e racconta una storia avvenuta anni prima del
Decameron: come ricorderà, frate Guglielmo  muore nella peste nera del 1348.
Quale modo migliore per chiudere un libro che parla di manoscritti e si apre con
Boccaccio?

Tags: letteratura, Matteo Motolese

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