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GOTICA
'ndrangheta, mafia e camorra
oltrepassano la linea
"Quale dio c'è dietro questo dio che dirige la trama del gioco?"
Jorge Luis Borges
1. Verso Nord
Il fuoco divampava nel capannone del mobilificio. Fiamme voraci cancellavano,
con insolente bramosità, il sogno di tutta una vita. Sogno che mio nonno aveva
coltivato e realizzato con la tenacia di chi è mosso dalla passione e non da interesse.
Era un puro. Ingenuo. Inventore. Uno che coi sogni ci giocava. E a volte anche con
la realtà, soprattutto quando, questa, era decisa e imposta con arroganza da uomini
che si autoproclamano d'onore in virtù del casato mafioso a cui appartengono. Quella
piccola fabbrica di mobili che mio nonno Ciccio era stato capace di avviare tra
paralizzanti difficoltà ed estenuanti attese si accartocciava, ora, sotto i miei occhi
sbarrati e sotto quelli increduli di tutta la mia famiglia. Una telefonata ci aveva
svegliato nel cuore della notte. Squilli indiscreti, prepotenti, testardi, di quelli che
non vorresti mai e poi mai sentire. Squilli che annunciano la morte di un sogno, la
fine della quiete, l'inizio della tragedia. Il principio della diaspora. Era il luglio del
1988, faceva caldo a Bovalino come in tutta la Calabria. Nella Locride, specialmente
quando soffia lo scirocco, la cappa di umidità toglie il respiro, un'afa manesca che ti
stringe in una morsa e ti prosciuga la carne. Proprio come la 'ndrangheta. Che ha
succhiato voracemente, e continua a farlo, la linfa vitale della Calabria,
prosciugandola di ogni energia e della dignità.
Ci precipitammo a Sandrechi. Una località di Bovalino, sulla via che porta a Platì,
Natile e Careri. Feudi di 'ndrine potenti, roccaforti di famiglie come i Barbaro, i
Papalia, i Sergi, e i Perre. Appena imboccammo il bivio per Platì intuimmo l'orrore,
respirammo l'odore della distruzione, del legno bruciato, dei sogni ammazzati. La
fabbrica era lì, avvinghiata dalle fiamme. Lo schioppettio dei rami d'ulivo arsi
sembravano urla di aiuto. Quasi l'ultimo grido del condannato a morte. Rumori
impercettibili, penetranti.
Due generazioni disperate assistevano alla sconfitta e alla mortificazione del loro
padre, della loro guida. La Calabria appariva come una immensa giungla. Un
avamposto di guerra dove regna la legge del più forte. Il capannone continuò a
bruciare per molte ore, nulla sembrava placare l'ardente ira delle fiamme. Né l'acqua
né il dolore, né la pietà né la compassione avrebbero fermato la loro vile missione.
Nessun dubbio. La diagnosi dell'incendio fu immediata, si trattava di un atto doloso.
Messe a tacere le fiamme, si faceva largo il travaglio interiore in ognuno di noi.
Perché? Chi? Cosa vogliono? Domande legittime, giuste. Alle quali era doveroso
rispondere. Ma che in Calabria diventano retorica. Ottenere verità e giustizia in un
luogo dove il diritto diventa privilegio è impossibile. Se non a costo della vita o della
libertà. Nei lontani anni Ottanta, che in Calabria sono quasi un secolo di storia, era
raro avere una copertura assicurativa. Mio nonno si fidava del suo lavoro e della sua
comunità. Erano tanti i bovalinesi che lavoravano da nonno ciccio. Gente onesta,
ostaggio della disoccupazione e della loro stessa terra. Nessun tipo di contratto
assicurativo proteggeva la fabbrica di mio nonno, perché mai ce ne sarebbe dovuto
essere bisogno? Anche il lavoro in Calabria è da sempre un privilegio travestito da
diritto. Un favore concesso per grazia di "capo Crimine". E Ciccio che
all'insegnamento ha affiancato la sua passione per il legno, facendone una piccola
impresa, non ha mai chiesto alcuna grazia ai boss. Il risultato umiliante porta il
marchio del fallimento. Le procedure fallimentari quando bussano alla porta non
attendono spiegazioni sulla soglia della vita del fallito. È una procedura giuridica.
Come tale è oggettiva, conforme e uguale per tutti. O quasi. Se il danno è stato
procurato, se il sacrificio di una vita è stato stuprato dalla cupidigia mafiosa e dato
alle fiamme come fossero vecchi e secchi arbusti, tutto questo non ha rilevanza. Il
fallito deve pagare i debiti, deve subire l'onta del pignoramento. E così fu. Non
riuscendo a ripartire con l'attività del mobilificio - mio nonno morirà di tumore pochi
mesi dopo l'incendio - i debiti verso i fornitori del legno e dei mobili non artigianali
rimanevano lì, come promemoria della tragedia di un'intera famiglia. Ma la furia
disgregante che si abbattè sulla nostra esistenza non si sarebbe placata quella notte di
luglio del 1988.
L'ulteriore conferma che la Locride non rappresentava il luogo ideale dove
realizzarci arrivò il 23 ottobre del 1989. L'uccisione di mio padre fu il segno
manifesto che quella terra voleva vomitarci. Espellerci come fossimo corpi estranei
in un organismo devastato da una mortale neoplasia. Un corpo adattatosi al peggiore
dei cancri. Incapace, ormai, di sentire le lancinanti fitte procurate dal male oscuro
che divora dal di dentro le speranze e i sogni. Sordo al dolore, vittima delle 'ndrine e
di se stesso. Quella di mio padre fu un'esecuzione in movimento. Tornava dalla
banca dove lavorava, ad aspettarlo a casa tutti noi. E la salsiccia con i broccoli
cucinata da mia nonna Amelia che amava prendere per la gola i suoi gioielli, i suoi
tesori. Mio padre ne era uno. Quella sera però nessun piatto prelibato lo avrebbe
deliziato. Qualche mafioso aveva deciso la sua prematura morte. Non ci sarebbero
stati mai più broccoli, né salsicce, né pane di casa, né ricotta che Peppe Tizian
avrebbe potuto assaggiare.
I pallettoni della lupara lo avevano dilaniato, in faccia, nel corpo. Codardi senza
tempo, da secoli decidono, comandano, esigono, impongono. Ancora oggi
attendiamo giustizia. Il brutale assassinio di mio padre ci seppellì vivi. Sopra la realtà
e i burattini indifferenti, sotto noi. Con la nostra disperata condizione di vittime e la
nostra inettitudine a vivere come bruti, incapaci di diventare ingranaggi del sistema
drogato. Diventai così orfano di padre, come tanti in Calabria. Entrai a far parte
dell'esubero di orfani vittime delle mafie come ci definì in maniera decisamente
infelice l'allora sottosegretario Alfredo Mantovano, in occasione dell'inaugurazione
degli stati generali dell'antimafia del 2009.
Fuoco, piombo, morte e fallimenti. Si riassume così la mia infanzia. Ricordi vaghi
di una sofferenza brutale, addolcita dalle carezze di una madre sfiancata
dall'ingiustizia. L'amore di mia madre bussava alla porta del mio cuore perché aprissi
i rubinetti del dolore. Sfogare la rabbia per riappacificarmi con la storia. Fu come se
tutta la mia famiglia, da mia madre ai miei zii, avessero creato un cerchio, in mezzo
io. Protetto e tutelato da un futuro incerto, in cui tutto sarebbe potuto accadere. Nei
tre anni a seguire mia mamma, i miei zii aiutarono mia nonna a mandare avanti ciò
che era rimasto del mobilificio: macerie, debiti, stipendi da pagare, merce da
consegnare. Tutti uniti abbiamo provato a resistere al conato che voleva trasformarci
in emigranti. Ma nel 1991 la realtà si è imposta prepotentemente maciullando la
fantasiosa idea di una Calabria solidale e migliore. Mia nonna d'accordo con mia
mamma e tutti gli altri figli scelsero la via obbligata e umiliante di dichiarare fallita
la Fonti cucine sas Umiliati dalle banche, dai fornitori, da una comunità
colpevolmente cieca di fronte alla decadenza. Un paese di vinti che con il passare dei
giorni, dei mesi e degli anni accetta l'anomalia e la introietta come regola sociale.
Una routine alla quale allinearsi è d'obbligo per sopravvivere e far parte della cerchia
clientelare alla quale sono riservati privilegi, favori, diritti. Realtà corrosa
dall'irresponsabilità collettiva, un abnorme pattumiera di desideri e diritti, un mercato
di sogni e destini, lager di vissuti futuri. A tanto ha portato l'abitudine di essere
condotti e di ricevere concessioni dal potentato di turno. Dalla 'ndrina egemone
d'accordo con la maggioranza politica di volta in volta al potere. Passiva accettazione
dello status quo mafioso, delle sue leggi e prassi. In Calabria convivono la legge
dello Stato e le regole mafiose, un corpus unico, un testo unico perfettamente
integrato. E così chi non vuole accettare la cieca obbedienza, chi rifiuta di
presenziare all'asfissiante ingorgo delle celebrazioni del potere unico è costretto a
emigrare. Gli allineati a tale potere preferiscono etichettarli come fuggitivi, scappati,
senza palle, quaquaraquà e via discorrendo. Chi invece non si è lasciato narcotizzare
dal sistema utilizza con tono malinconico il termine emigrante. Migranti di terre
afflitte dal dolore. Luoghi la cui emorragia di uomini e donne onesti, in cerca di
un'esistenza normale, ha dissanguato la cultura locale. Paesi dalle cui vene
fuoriescono anime pensanti che corrono dietro sogni eterni. Inseguono la dignità di
uomini liberi dal giogo mafioso. Certo, c'è anche chi è rimasto dopo avere subito la
prepotenza mafiosa. A Bovalino e a Locri, due esempi di una Calabria diversa,
possibile e coraggiosa, sono Deborah Cartisano e Stefania Grasso. Ad Entrambe la
'ndrangheta ha ucciso i padri. Ma loro hanno avuto il coraggio di rimanere e di
combattere l'isolamento in cui la collettività anestetizzata voleva relegare le loro
storie "fastidiose" per lo status quo mafioso. Noi abbiamo scelto una strada diversa,
né giusta, né sbagliata, semplicemente differente. L'elaborazione del lutto non segue
un percorso unico. Tra i suoi mille rivoli si annidano milioni di scelte di vita.
La necessità di un cambiamento si faceva strada. Scegliere che fare del nostro
futuro diventò motivo per sentire, ancora una volta, sulla nostra pelle, i brividi di una
vita, ingiusta e dolorosa. Ma fanculo! È pur sempre vita. E la consapevolezza di
essere padroni del nostro destino ridonava il senso di vivere. Vivere per scegliere.
Uscire dal fango insanguinato oppure rimanerci definitivamente impantanati?
Riappropriarci del nostro avvenire e ricamarlo di normalità, questo chiedevamo. Un
velo apparente di felicità sarebbe stato possibile soltanto lontano da Bovalino. Nella
provincia di Reggio Calabria, soprattutto in quegli anni bui, non saremmo mai
riusciti a recuperare la dignità necessaria. Partimmo, quindi, per l'Emilia Romagna.
Direzione Modena. Terra di motori, tortellini, tortelloni, aceto balsamico, ceramiche,
cooperative, comunisti. Terra di accoglienza e solidarietà. Lontano dalla logica
violenta che opprime il paese da cui provengo. In una regione ostaggio di pochi e
lager di molti. Una città dove finalmente avrei potuto smettere di essere scheletro e
fantasma. Un luogo dove tornare a essere ragazzo. Dove poter recuperare gli anni
perduti, annegati nell'oceano del dolore e del silenzio. Un modo per rimettere
assieme i pezzi di quel che rimaneva della mia infanzia. In arrivo dal profondo sud,
Modena appariva stranamente ordinata nella sua frenesia e dinamicità. Una città
viva, fatta di luci, traffico, casino, palazzi, semafori, cinema e chilometri di piste
ciclabili... Oggi sembra una follia un pensiero simile: la normalità. Ma negli occhi di
un bambino di undici anni che veniva da un luogo dove non esisteva nulla o quasi,
tutto era una scoperta.
E se inizialmente ho provato tristezza e malinconia per la casa in cui ero nato, per
il riflesso del sole, della luna e delle stelle sullo ionio, per la fragranza di gelsomino,
basilico e menta, per il viola delle buganville, per le aurore e i tramonti camaleontici,
dopo qualche anno diventai cosciente della possibilità offertami dalla vita. E
nonostante tutto potevo considerarmi fortunato. Sì, mi convinsi che a Modena avrei
costruito il mio futuro lontano dai cartelli stradali bucati dal piombo, dagli sguardi
che esigono asservimento, dai marciapiedi lastricati di sangue, dai boati dei
kalashnikov in piena notte esplosi contro le saracinesche. Via da tutto questo per
rimuovere e ricominciare. Già, chiedevo solo di rimuovere, di dimenticare, di
cancellare le impronte di sangue ancora caldo e il puzzo di cancrena della mia terra
impresse nei miei pensieri e nella mia anima. Una necrosi mai curata, lasciata
progredire e agevolata dalla rinuncia a (r)esistere. Invece di amputare il piede malato
ci siamo ritrovati con tutto il corpo colmo di pus. Una purulenza fatta di mazzette,
malapolitica, corruzione, pizzo, droga, violenza, morti, bombe, piombo, lusso,
ipermercati, appalti, clientele, cantieri, veleni e rifiuti. L'Emilia e la sua normalità mi
avrebbero aiutato, ne ero convinto e rimango tuttora convinto della bontà di una
scelta maturata nel caos. Una fuga per la libertà.
Potevamo scegliere di restare. Di accettare gli aiuti di Sebastiano Romeo detto "U
staccu", defunto boss di San Luca, e di riavviare l'impresa carbonizzata. In Calabria
non si muove nulla se non dopo il consenso del boss. Accettare aiuti da chi si
proponeva di risollevare le sorti aziendali e della nostra famiglia, avrebbe voluto dire
accettare le dinamiche assurde che portarono all'incendio alla morte di mio padre.
Sciacalli, creatori di bisogni indotti. Fomentano la paura creando condizioni di
insicurezza per proporti, previo pagamento, di riacquistare la tranquillità che diventa
merce. Il pizzo strumento, moneta di scambio. Ma rimane un fatto, certo,
indissolubile: la paura, in terra di mafia, la creano e la monetizzano i mafiosi. Le
vittime, come consumatori accecati dal terrore del potere, ostentato dai bravi di Don
Rodrigo, sono costrette a pagare ciò che gli spetta per diritto: la sicurezza. Eravamo
troppo soli per iniziare una battaglia antimafia a Bovalino nel 1988. E già prima di
iniziare questa ipotetica lotta piangevamo i nostri morti ammazzati. Non esistevano
ancora associazioni a difesa delle vittime, la società civile calabrese respingeva la
parola 'ndrangheta per paura di essere etichettata tutta, sommariamente, con quella
"strana" parola. Un isolamento inquietante. Pauroso. Minaccioso. Che ci ha condotto
al di là dell'Aspromonte, del Pollino e oltre gli Appennini. Se fosse accaduto oggi
tutto ciò di cui vi ho parlato? Avremmo avuto il coraggio di rimanere nella nostra
culla tra fiori e sapori mediterranei e lottare sul campo?
Ipotesi di un passato traslato all'oggi. Domande che mi pongo spesso ultimamente
e forse inutilmente. Il passato non si cancella e dopotutto è meglio che rimanga lì
immobile a segnarci la strada, a evitare gli errori già compiuti e a ricordare gli abusi
subiti. La mia strada portava a Modena. Innocente com'ero e ignaro della potenza
delle mafie pensavo di chiudere definitivamente con certe realtà e intrallazzi. A
quell'età non potevo immaginare che tanti mafiosi avessero già da tempo realizzato il
loro progetto espansionistico. Arrivai a Modena nel 1992, in tempo per iniziare le
scuole medie. Superai l'adolescenza e i conflitti con le regole imposte. Iniziai
finalmente l'università e cominciai a rendermi conto che la puzza di mafie e di morte
aveva raggiunto la tranquilla pianura padana fin da quando vivevo a Bovalino. I
bastardi sfruttano la nostra terra, ci chiedono il pizzo, trasformano le nostre strade nel
Far West dei film di Sergio Leone e in silenzio approdano, con i loro "piccioli"
insanguinati, nelle località del Nord Italia per reinvestirli, pulendoli dalle croste
insanguinate che li rendono riconoscibili, riciclandoli in attività legali. E questi si
definiscono uomini d'onore. Lasciare la loro terra morire di fame, di disoccupazione,
di veleni e di dolore per non mostrarsi padroni di tutto, per non ostentare la ricchezza
illecita, per non destare sospetti tra la popolazione che li guarda con rispetto e
riverenza.
Nella Locride e nei paesi aspromontani gli 'ndranghetisti non ostentano la
ricchezza e i patrimoni accumulati. I mammasantissima vivono in palazzotti grigi, a
più piani, ma anonimi. Al loro interno però si lasciano andare. È un pullulare di
oggetti di valore: rubinetti in oro, quadri, tecnologia di ultima generazione. A moglie
e figli bisogna mostrare quanto benessere da la 'ndrangheta. Non al popolo, però,
perché l'invidia è elemento essenziale della delazione. Celare la ricchezza è
funzionale al mantenimento del mito del capomafia vicino al bisognoso. Folklore.
Puro folklore. La realtà è una sola: investono al Nord, per non destare sospetti tra gli
investigatori, per non creare invidia tra la gente del posto e ripulire in maniera
indolore milioni e milioni di euro. E così, economie già ricche e prosperose vengono
inondate da un fiume di ricchezza sommersa, non dichiarata, invisibile, sporca,
putrida, frutto dei crimini peggiori. Economia legale ed economia illegale viaggiano
su due binari paralleli, sempre più spesso accade che s'incrociano, si uniscono fino a
formare un ibrido in cui l'illegale sfuma nel legale facendo perdere ogni traccia. Da
San Luca, Platì, Reggio Calabria, Palermo, Catania, Castelvetrano, Casal di Principe,
San Cipriano D'Aversa, Napoli partono grossi capitali illeciti che da Sud affluiscono
nell'economie già opulente del Nord e nei mercati finanziari. I capitali mafiosi nel
loro fluire da sud a nord formano una sorta di ossatura del Paese, la sua spina
dorsale. E se risulta possibile, pur con numerose difficoltà, rintracciare, sequestrare e
confiscare un immobile acquistato con soldi sporchi di un clan, è impossibile
rintracciare la provenienza del denaro se questo è stato utilizzato per l'acquisto di
titoli azionari. La tracciabilità del denaro non è più possibile perché quei soldi si
perdono tra i meandri della finanza. Diventano azioni. Si comprano, si rivendono.
Nella finanza d'avventura il capitale mafioso ha trovato accoglienza, necessaria
omertà e massima invisibilità. Milano e Francoforte centri della finanza europea ed
epicentri del riciclaggio criminale. Poli finanziari nei quali gli uomini della
'ndrangheta hanno messo radici, investito denari. Secondo alcune stime l'azienda
Mafia spa fattura 135 miliardi di euro e produce utili per 70 miliardi. Valori
discutibili, certo, ma che danno un'idea del fenomeno.
Milano, l'altra capitale della 'ndrangheta. Dopo San Luca e Platì. Luoghi distanti,
uniti dalla religione del potere. Alimentato e rinsaldato dall'oro bianco. La polvere
bianca che permette di stare al passo coi tempi moderni, così frenetici e distruttivi.
Oltre un milione, si stima, i consumatori in Italia. Una domanda in crescita
soddisfatta da un'offerta attenta a non lasciare a secco, o in scimmia, come si usa in
gergo, le narici dei tossici che tossici non pensano di esserlo. Perché la "bamba", o
"barella" come la chiamano a Milano, a differenza dell'eroina non isola, non
emargina e non esclude. Ma aggrega, sostiene, permette performance migliori nel
ring dove quotidianamente si svolge la lotta competitiva per la sopravvivenza.
Muratore, operaio, camionista, manager, avvocati, politici e medici, si affidano alla
coca nel disperato tentativo di sopravvivere ai ritmi carnivori e usuranti della vita che
scorre. La cocaina è diventata un livellatore delle classi sociali, e un farmaco per
debellare la stanchezza e l'apatia.
"Vent'anni fa non era così, la cocaina la sniffavano solo i ricconi, gli imprenditori,
gli avvocati", quando inizia il suo racconto mi guarda dritto negli occhi Giulio, un
camionista che per anni ha lavorato come operaio in una dei fiori all'occhiello
dell'industria modenese. "Per tutti gli altri c'era l'eroina, gli acidi. Roba che ti lascia
ai margini della società e non ti permette di reggere i ritmi di lavoro. Da quando i
prezzi della cocaina sono diminuiti ci siamo buttati tutti da quella parte. Con la lira
un grammo di cocaina arrivava a costare anche duecento mila lire, oggi con 50 euro
trovo un pezzo (quasi un grammo) di qualità media. Si può spendere anche 100 euro,
ma in quel caso è pura al 90 per cento, difficile da trovare, tranne che alla fonte
diretta che contratta con i calabresi, dopo quel passaggio il taglio si fa più pesante, e
si rischia di acquistare merda mortale, questa per 30 euro la si trova, ma dentro c'è di
tutto dalla manite all'aspirina. Con 40 euro, invece, si può comprare un pezzo,
tagliato con molta anfetamina, ma ottima per lavorare. Quella di qualità migliore la
cerco per le serate doc, che organizziamo in qualche, casa, villa, o nelle discoteche
del bolognese. E che feste. C'è di tutto. Pensa che una sera ho intravisto anche un
politico che vedo spesso nei tg locali, non capisco nulla di politica, e non che mi
interessi, ma quel viso lo ricordo. E poi non sai quanti medici. Come quel bolognese,
lui si che aveva ottimi agganci con i calabresi di San Luca, quelli della faida di San
Luca. Lo ripeteva sempre, diceva 'l'amica che mi da questa purezza tratta con i
Rizzata e i Marte di San Luca. Tra l'altro ho poi scoperto che li hanno arrestati, e che
hanno ancora pizzerie e bar in centro a Bologna. Ma oltre a lui, ai festini ci sono
giovani avvocati. Lo so perché uno di loro mi ha difeso quando ho avuto qualche
problema con la giustizia, mi hanno denunciato come assuntore". È nel mondo
trasversale di Giulio che non esistono più differenze di classe. A trarne profitto,
ancora una volta è la 'ndrangheta.
Le famiglie 'ndranghetiste, le 'ndrine, hanno conquistato il monopolio del traffico
di cocaina grazie alle loro alleanze con i narcos. Il mercato da soddisfare è quello del
Nord Italia. Anche al Sud è aumentato il consumo di coca a rispetto a qualche anno
fa quando i giovani tossici si buttavano principalmente sull'eroina. A Bovalino sono
tanti i giovani uccisi dalla roba. Sin dalla generazione di mia madre l'eroina portata
dagli 'ndranghetisti ha mietuto le sue innocenti vittime. Nel 1978 erano le 'ndrine di
Africo a drogare i giovani bovalinesi. Successivamente anche i mafiosi di Platì e San
Luca hanno acquisito il know-how necessario nel narcotraffico. Tra i ricordi che
tormentano i pensieri dei giovani della generazione di mia madre, la morte di un
ragazzo. Corroso e schiavo della sua dipendenza, ma ucciso, dalla cupidigia delle
cosche di Africo. Alfio, giorno dopo giorno necessitava sempre più di una dose. Dosi
sempre più massicce, più ravvicinate. Solitamente aspettava che qualcuno della
'ndrina gli portasse la roba a Bovalino, gli ultimi giorni andava direttamente lui ad
Africo. Va un giorno, ritorna un altro giorno e poi ancora. Ma quel vai e vieni da
Africo, centro di prestigio 'ndranghetista, non era ben visto dai capobastone, intenti
coi propri affari nel cuore della Lombardia, volevano evitare a tutti i costi di creare
rumore fastidioso nel loro paese. Il regno del "Tiradrittu", Giuseppe Morabito. Di suo
figlio Salvatore. Di Pansera, il medico, braccio destro del "tiradrittu". Dei Palamara e
dei Bruzzaniti. Molte famiglie per un solo padrone: Giuseppe Morabito. La vita di
Alfio come quella di tanti altri, è dipesa dal volere di questi personaggi. Dal taglio
che avevano deciso di effettuare su quella partita di eroina. Troppo pura voleva dire
morte. Ignaro che quello sarebbe stato il suo ultimo buco Alfio chiuse gli occhi
attendendo il suo viaggio. Un viaggio senza ritorno verso l'abisso disumano. Una
voragine di sogni e incubi dalla quale ogni tossico prima o poi vuole fuggire.
Sarebbe stato così anche per Alfio e tutti gli altri se l'eroina l'avessero scoperta in
un a città del Nord. Magari sarebbero stati presi dalla polizia, mandati al Sert,
avrebbero cominciato con il metadone, avrebbero provato a farli uscire da quel buco
nero. Niente di tutto questo è avvenuto per i ragazzi come Alfio nella Locride. Al
Sert si sostituisce la 'ndrina, decide lei quando sei diventato un consumatore troppo
fastidioso, perciò da eliminare. Tossici che creano casini, potrebbero parlare,
vomitare in mezzo ai passanti, infastidire la comunità anestetizzata. La paura delle
'ndrine è che si cominci a divulgare tra la gente la consapevolezza del problema
droga. E allora, meglio eliminare il drogato, solo dopo che questo ha consumato
abbondantemente. Il mercato della droga più fruttuoso, i consumatori ideali, le vene
e le narici più fedeli e indiscrete da ingolfare di roba bianca, gialla, marrone o grigia
che sia, si trovano da Roma in su. Nel ricco Centro Nord, drogare i figli di chi non si
conosce non ha ricadute negative sull'immagine del boss. Nel suo feudo si dimostra
accorto ai destini dei giovani da avviare alla carriera, ma fuori da lì la comunità non
vedrà mai i tossici sdraiati sul proprio vomito nei parchi cittadini. O adolescenti
piegati dalla carogna dell'astinenza dall'eroina. C'è questo alla base dei motivi
dell'iniziale interessamento delle mafie verso le città del Nord. I mafiosi non hanno
fatto altro che soddisfare un bisogno, una crescente domanda di sballo, di
divertimento trasgressivo. Proibito dallo Stato, venduto e garantito dai clan.
Modena, dove avevamo scelto di rinascere, non era esclusa dall'industria
dell'anestetizzazione. A sedare la coscienza ci pensavano anche qui le cosche. Prima
con le grosse partite di droga, poi con i soldi sporchi da investire nell'economia
legale. Per le mafie Modena e l'Emilia Romagna rappresentano tutt'ora un luogo
strategico per i loro interessi. Potevo forse illudermi che sarebbe bastato cambiare
regione per non sentire più parlare di boss, mafia e picciotti? Ingenuamente l'avevo
sperato. Un sogno, un'utopia che pensi realizzabile per il troppo dolore interiore
portatoti appresso per l'Italia. In realtà, in questi lunghi diciassette anni, ho maturato
la convinzione che la vita è più forte di tutto il male del mondo, che smettere di
credere nella forza dei sogni equivale a morire. Un suicidio che è una sconfitta per
noi stessi e una vittoria per i drogati del potere. Tornerei a Bovalino. In Calabria. Ora
mi sento maturo e pronto ad affrontare una lotta che anni addietro non avrei retto. Ho
imparato a resistere agli urti grazie all'amore per ciò che di bello esiste al mondo. Un
insegnamento di mia madre, uno dei tanti che mi ha trasmesso. Valori essenziali,
senza i quali sarebbe stato impossibile andare avanti in questa palude torbida e
fangosa. Non è la vita a fare schifo ma il mondo frutto delle peggiori perversioni
umane. I sogni sono il motore delle nostre azioni. E senza sogni, quindi senza azioni,
il potere mafioso e tutto ciò che gli orbita intorno non potrà mai essere schiacciato,
annientato, vinto, o semplicemente deriso. E, "una risata vi seppellirà", o li
seppellirà.
Verso Nord, dunque, in fuga dal fuoco di una terra che incenerisce sogni e
passioni. Per ritrovarsi poi, non vittima nuovamente, ma spettatore e cronista di
logiche, ahimè, già note e vissute sulla mia pelle.
2. Terra di conquista
Camminavo lungo le strette viuzze del centro di Modena, corridoi che sudano
storia antica e urlano inni alla resistenza. Era un giorno di maggio. Senza meta
girovagammo per ore, un sopralluogo per visitare la città e immergerci in quella
realtà che avevamo scelto come luogo di "rinascita", di riemersione dall'orrido che in
Calabria aveva sconvolto la nostra esistenza. Sentivo un'aria diversa, la gente
camminava a testa alta, i negozi pullulavano di gente, i tormenti del passato
sembravano dissolversi lentamente, trascinando con sé i fantasmi degli anni Ottanta.
"Così è se vi pare". Nulla è come sembra. L'ho capito molto tempo dopo. Ad inizio
anni Novanta ero ancora un ragazzino di undici anni alla ricerca della felicità. Non
avevo colto i mutamenti del sistema economico, le smagliature dei suoi tessuti. La
liquidità delle mafie era un concetto a me estraneo. Come un ingenuo pensavo che
sarebbe stato sufficiente andare via da quella terra di Calabria per non dovere più
confrontarmi con la realtà mafiosa. Che già dagli anni Settanta aveva perso i suoi
caratteri regionali per fare il grande salto, il balzo fuori dagli stretti e angusti confini
del meridione. Le mafie stavano assumendo una dimensione globale e i boss
diventavano imprenditori, capitalisti spregiudicati che nell'era del capitalismo
d'avventura, nell'era del turbo capitalismo avevano trovato campo aperto per imporre
e adattare le loro regole.
Modena era il luogo ideale per ospitare i sogni di normalità di cui avevo bisogno
per andare avanti. Ma rappresentava già da tempo la "mucca da mungere" per le
casse delle mafie. E così mi svegliai il mattino seguente, scosso da un episodio che
mi fece ripiombare indietro nel tempo, mi accorsi del doppio binario su cui
viaggiano le realtà del Nord. Il primo visibile a tutti, su cui si muovono gli imperativi
di solidarietà, produttività, assistenza, trasparenza e legalità. Il secondo, invisibile ai
più, sul quale imperversano malaffare, interessi mafiosi, capitali sporchi, illegalità
diffusa, intimidazioni e piombo.
"Sparatoria tra camorristi", questa la scritta che capeggiava sulle locandine delle
edicole di Modena. Un conflitto a fuoco scuote la quieta città emiliana. Spari che
nella notte rimbombano e fanno sussultare nel letto. Non era un sogno, due gruppi di
fuoco si erano affrontati a Modena, in via Benedetto Marcello. Quel maggio del 1991
i modenesi scoprono la camorra. O meglio il clan dei Casalesi. Una denominazione
di cui l'opinione pubblica del Nord verrà a conoscenza soltanto dopo il successo di
Gomorra, il libro di Roberto Saviano. Diversi collaboratori di giustizia descrivono la
genesi della sparatoria di via Benedetto Marcello. Un regolamento di conti
verificatosi in un contesto di dissidi interni al clan. Una spirale di violenza che ha
lasciato dietro di sé numerosi cadaveri. Una resa dei conti che ha riunito i Casalesi
sotto un unico potentato. Gli affari possono riprendere. Le due fazioni contrapposte
all'interno del clan dei Casalesi facevano capo all'ala De Falco, Sebastiano Caterino,
Maisto e l'altra a Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti. La prima era quella
dei dissidenti che in quel periodo stava incrementando il suo potere, mentre la
seconda viene identificata dai magistrati come l'ala dei "vincenti" del clan. "Modena
- si legge nei faldoni del processo Spartacus - sin dal 1989 offre ospitalità per la
presenza di una consistente fascia di conterranei - a soggetti di sicura appartenenza
associativa, come Caterino Giuseppe, Compagnone Francesco e lo stesso Vincenzo
Maisto".
Giuseppe Caterino, in soggiorno obbligato a Modena, viene tratto in arresto al
casello di Modena Nord nell'aprile del 1991 insieme a Pasquale Spierto per
detenzione d'armi. Le intercettazioni che hanno portato all'arresto di Caterino hanno
svelato inoltre la gestione di alcune bische clandestine a Modena, una delle quali era
all'interno del Circolo dello sport di via Pergolesi. Ma a Modena risiedevano anche
Francesco Compagnone, legato a Giuseppe Caterino, Vincenzo Maisto e Nicola
Nappa. Personaggi legati al clan che hanno avuto un ruolo ben preciso nella
sparatoria. Vincenzo e Alfredo Maisto componevano il gruppo di fuoco legato all'ala
De Falco mentre Nappa, Nicola Biondino e Giorgio Marano, legati a Schiavone,
Bidognetti e Giuseppe Caterino, costituivano il gruppo che tese l'agguato ai Maisto
quella notte, a Modena.
Dario De Simone, collaboratore di giustizia sentito durante le udienze del
processo Spartacus e che accusa, fino dal 1994, Nicola Cosentino, l'ex
sottosegretario all'economia, parla dei fatti avvenuti a Modena affermando di essere
stato uno dei promotori dell'agguato, di aver appreso della presenza a Modena dei
rivali da Nicola Nappa che per il clan gestiva, insieme a Giuseppe Caterino, una
bisca. De Simone nella sua deposizione afferma: "Nappa Nicola, abita a Bastiglia,
provincia di Modena, quindi conosceva bene gli elementi e conosceva bene anche la
città di Modena... Queste notizie furono portate a Giuseppe Caterino e Raffaele
Diana". I vertici decidono di agire rapidamente. Una delegazione di morte parte per
Modena portando con sé una bomba dotata di telecomando. "Mi dissero che era
molto difficile - dichiarò De Simone - piazzare questo ordigno sotto questa
macchina, la macchina era sotto il palazzo, in una strada che passavano molte
macchine, quindi per loro diventava difficile fare questa operazione. Comunque
questo ordigno noi lo rimanemmo a Modena, lo facemmo rimanere con il
telecomando e facemmo rientrare queste persone". Una catastrofe evitata per motivi
logistici. Per Modena sarebbe stato un bagno di sangue. Ma gli uomini di Francesco
Schiavone, "Sandokan", e Raffaele Diana, "Rafilotto", non demordono e decidono di
riprovarci, questa volta armati fino ai denti. Il 5 maggio del 1991 il gruppo di fuoco
parte, ad attenderli a Modena la colonna emiliana del clan, dell'ala Schiavone.
Decine e decine di colpi di pistola e mitraglietta sparati tra le due fazioni del clan
squarciarono il silenzio della notte modenese. A terra, la polizia rinvenne più di
cinquanta bossoli e raccolse i due feriti, Francesco Biondino e Vincenzo Maisto.
L'agguato a Modena era stato deciso in conseguenza del fallito assalto nei pressi di
Caserta dove il gruppo di fuoco legato a "Sandokan" e Bidognetti si scontrò per
errore con i carabinieri. La macchina che aspettavano per aprire il fuoco era partita
da Modena, l'informatore modenese avvertì la "Casa Madre" che il bersaglio aveva
imboccato l'autostrada da Modena Nord, ma gli uomini di Schiavone confusero le
auto incappando nelle forze dell'ordine.
Una scia di sangue che dall'Agro Aversano corre lungo la spina dorsale dell'Italia
e raggiunge l'ovattato benessere del Nord. Un Nord dalle alte mura di cinta che
amministratori, imprenditori, banchieri e dirigenti pensavano invalicabili dalle mafie.
Ma il risveglio, quel giorno di maggio, non poteva essere più traumatico per i
conducenti di una delle locomotive trainanti dell'economia italiana. Da quel maggio
'91, violenza e ferocia del clan si sono imposte in Emilia Romagna e utilizzate come
strumenti di espansionismo e radicamento degli interessi economici in queste terre e
in quelle città medaglie d'oro per la Resistenza. Le società mutano e con esse le
coscienze. E nel porre la massima attenzione al tema della sicurezza individuale,
spinta dal vento xenofobo leghista, al contrasto dei migranti irregolari, la politica ha
perso la bussola delle priorità e, sottovalutando il fenomeno, ha involontariamente
spalancato le porte al radicamento delle mafie. Da quel conflitto a fuoco che ha fatto
la storia criminale di Modena, sono passati molti anni. Quasi vent'anni. In questo
lasso di tempo, in Emilia, sono accaduti episodi inquietanti. Già dagli anni Novanta
nelle indagini antimafia compaiono dirigenti di banche locali, professionisti, colletti
bianchi e imprenditori. Francesco Fonti, 'ndranghetista ora collaboratore di giustizia
che ha rivelato le "storie tossiche" delle navi dei veleni, con le sue confessioni ha
tirato in ballo 'ndrangheta, servizi segreti e apparati dello Stato. Ha rivelato inoltre ai
magistrati che in quegli anni la 'ndrangheta deteneva il monopolio del traffico di
cocaina ed eroina tra Modena, Reggio Emilia e Bologna. Diverse figure e cosche di
spicco delle organizzazioni mafiose hanno attraversato il territorio modenese. Come
la 'ndrina dei Cordi, potente famiglia di 'ndrangheta che a Maranello, paese famoso
per il gioiello artigianale, la Ferrari, si era insediato per stoccare delle armi da guerra.
E quando gli investigatori, in una campagna, hanno ritrovato un vero e proprio
arsenale degno di un esercito, rimasero stupefatti da tanto materiale bellico, era il
1993. Tra gli arrestati figurava il nome di Rocco Antonio Baglio, un nome che
insieme a Fonti ha fatto la storia della 'ndrangheta emiliana. E che nel 2011 sarà di
nuovo al centro di un'indagine insieme a un sindaco dell'Appennino modenese.
Questa volta però non si tratta di armi, ma di appalti e presunte corruzioni.
E ancora, nel gennaio 1989, la guerra di 'ndrangheta da Reggio Calabria ha
bussato alle porte di Modena, svegliandola dalla sonnolenta quiete che scorre in
superficie su quel primo binario della città. Giuseppe Barbieri si era trasferito da
poco da Fiumara di Muro a Modena, nei pressi di Salice San Giuliano. Era fuggito
per paura di essere giustiziato dalle 'ndrine che in quegli anni si contendevano
Reggio Calabria in una guerra senza quartiere. Oltre seicento i morti ammazzati che
insanguinarono le strade della città dello Stretto, in poco più di cinque anni. La
vendetta della cosca Paviglianiti alleata dei De Stefano e dei legano di Reggio
Calabria non conosce confini. Già in quegli anni le 'ndrine calabresi avevano
infettato i tessuti del Paese con proprie cellule distaccate. In Lombardia i Paviglianiti
assieme ai Coco Trovato erano di casa. E da lì è partita la spedizione assassina. Dopo
un controllo all'anagrafe, Giovanni, Domenico e Pasquale Tegano, hanno scovato il
fuggitivo, accusato dalla cosca di avere attentato alla vita di un loro affiliato, e hanno
informato i "compari" milanesi, Domenico Paviglianiti e Franco Coco Trovato . Gli
'ndranghetisti trapiantati tra Milano e Lecco incaricarono due killer di fiducia alle
loro dipendenze per compiere il servizio richiesto. In una gelida notte padana del
gennaio 1989, Barbieri viene atteso per ore sotto casa, prima che riuscisse a salire
sulla sua fiat 132 due caricatori interi di revolver 7,75 lo lasciano a terra, in una
pozza di sangue, tra la neve e il fango che assorbono il calore della vendetta. Queste
sono le mafie, piombo, sangue e fango. Il potere è soltanto un'illusione, così come le
ricchezze. La vita dei boss è terribile, vivono con l'angoscia che domani potrebbero
non esserci più, che l'alba del giorno dopo non potranno neppure vederla. E i figli, gli
affetti diventano suppellettili sacrificati in nome del potere.
Facendo un balzo in avanti fino ai giorni nostri. Scorrendo le pagine del tempo, a
cambiare sono state le posizioni e l'impegno della politica locale, a rimanere
immutate le pressioni del clan dei Casalesi e della 'ndrangheta. Che dagli anni
Ottanta con i primi boss mandati in soggiorno obbligato nelle province emiliane
hanno iniziato a seminare i semi del loro futuro dominio. Ma non è solo il soggiorno
obbligato la causa di una così pervicace penetrazione mafiosa nei territori del nord. È
l'economia il motore che ha spinto verso nord le cosche e i capitali mafiosi.
L'esercito di emigranti che dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Campania, dalla
Basilicata e dalla Puglia, è partito per non sottostare alla legge delle cosche mafiose,
ben conosce il loro potere intimidatorio che ostentano in quelle terre annichilite
dall'emorragia migratoria. Cosche che fin dagli anni Settanta hanno direzionato i loro
interessi verso paradisi economici, luoghi ideali e sicuri per potere riciclare,
estorcere, trafficare, corrompere. Con l'obiettivo di lavare ricchezze sporche di
sangue e dissolverle nel benessere delle aree del nord del Paese. Camaleontici grumi
di potere che cercano l'invisibilità per perpetrare i loro affari legali e illegali. E tra
economia pulita ed economia criminale si crea un'osmosi. Si saldano, l'una vive del
respiro dell'altra.
3. Concorrenti sleali
Nella provincia di Modena sono presenti 570 imprese edili i cui proprietari
provengono da aree del Casertano ad alta densità mafiosa. Non tutte rappresentano
gli interessi dei clan, il 70-80 per cento sono imprenditori puliti, ma la restante parte
sono inquinate. Ne è convinta anche Lucia Musti, Procuratore aggiunto della Procura
di Modena e già sostituto alla Dia di Bologna. Il clan dei Casalesi per lei non ha
segreti. Ha coordinato numerose inchieste sul clan e conosce alla perfezione le sue
logiche sotterranee. Un sottobosco in cui la ferocia si mescola al fiuto per gli affari,
la spavalderia al senso di onnipotenza. Una miscela esplosiva che di tanto in tanto si
manifesta con il piombo delle pistole. Era l'8 maggio 2007, una giornata di primavera
come tante. Monotona. Il sole che fatica a scaldare le giornate della pianura padana.
Il vento morbido e fresco che soffia sui volti degli uomini d'affari che frenetici
corrono verso la meta quotidiana. Un Nord produttivo. Che quel giorno si sarebbe
scontrato con la bestia feroce che si annida e si nutre da oltre trent'anni nel suo
grasso ventre. A Riolo, una frazione di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena,
il clan su mandato di Raffaele Diana alza il tiro, come ai vecchi tempi, i rampanti
anni Novanta dei mafiosi di Casal di Principe, di San Cipriano d'Aversa e di
Casapesenna. Il boss Raffaele Diana, soprannominato anche "Rafilotto" e
condannato definitivamente all'ergastolo nel processo Spartacus, insieme ai più noti
Francesco Schiavone, Michele Zagaria e Antonio Iovine, avrebbe ordinato di
gambizzare l'imprenditore edile Giuseppe Pagano, originario di San Cipriano
d'Aversa e da anni trasferitosi nel modenese e, in attività con un socio, nel settore
delle costruzioni di edilizia privata e nella vendita degli immobili realizzati.
Un'azione eclatante eseguita in pieno giorno per diffondere senso di paura non
soltanto alla vittima ma a tutti gli altri indecisi. Il Tribunale di Bologna non ha
creduto all'accusa, assolvendo Diana dal ruolo di mandante della gambizzazione, per
insufficienza di prove. Raffaele Diana ai tempi dell'azione punitiva era latitante.
Fuggitivo inserito tra i trenta ricercati più pericolosi dell'elenco del Viminale.
Doveva scontare diverse condanne, era fuggito dal settore "alta sicurezza" del
carcere Sant'Anna di Modena. Nel 2004, ottenne un permesso di tre giorni, passato il
quale non si è più presentato, è diventato invisibile e ha fatto perdere le sue tracce.
Fino al 4 maggio 2009, esattamente due anni dopo la gambizzazione
dell'imprenditore Pagano, data del suo arresto. Gli agenti della squadra mobile di
Caserta lo scovarono in un bunker di cemento, nel sottoscala di un appartamento nel
feudo del clan, a Casal di Principe. Nel bunker l'unica distrazione per il boss erano
un libro su padre Pio e l'immagine sacra di San Nicola di Bari. Sacro e profano,
elementi imprescindibili della vita di un vero boss. Una vita passata tra denaro,
potere, sfarzo. Ma anche di fuga, paura, isolamento, codardia, violenza. Alla fine
degli anni Ottanta, Diana fu assegnato al soggiorno obbligato a Bastiglia, nelle
vicinanze di Modena, dove in seguito lo raggiungerà tutta la famiglia. Una famiglia
numerosa, totalmente assoggettata al boss. Due mesi dopo il suo arresto, sono finite
in manette la moglie e una delle figlie di "Rafilotto". La moglie avrebbe continuato a
gestire i conti del clan radicato in Emilia. Dal suo arrivo in Emilia, Diana costruisce,
mattone su mattone, la sua ascesa mafiosa. Rappresentava il referente modenese del
clan, una carica inizialmente condivisa con Giuseppe Caterino, "Peppinotto", anche
lui arrivato a Modena con il soggiorno obbligato. Nel 1991 viene arrestato una prima
volta, esce e rimane latitante fino al 2005, la sua corsa finisce sulla costa tirrenica
della Calabria. Caterino e Diana, in qualità di capozona, non si sporcavano le mani
direttamente, lasciavano a Nicola Nappa, anch'egli residente a Modena, la gestione
concreta delle bische. I boss referenti del clan, i capi, avevano un ruolo di supervisori
e di collegamento con la "Casa madre" governata da Francesco "Sandokan"
Schiavone. A Modena già dopo il primo arresto di "Peppinotto" si creò una voragine
di potere e il gran consiglio del clan incaricò Raffaele Diana di sostituirlo e di
assumere le redini della gestione degli affari in Emilia Romagna. In particolare nel
modenese, avrebbe dovuto gestire gli introiti delle numerose bische clandestine di
proprietà del clan e l'indotto dell'edilizia, dalle estorsioni ai sub appalti, passando per
l'imposizione delle forniture. Cemento, pizzo e appalti. Dopo l'arresto di Diana
"Rafilotto", lo spazio è stato occupato da Alfonso Perrone "o Pazzo" e da
Sigismondo Di Puorto, braccio destro di Antonio Iovine "o Ninno", arrestato dopo
quindici anni di latitanza e al vertice del clan. E ora, è emerso dall'indagine Staffa
della Dia di Napoli, a guidare la zona di Modena e provincia sarebbe un tale Renato.
"Lo sai con chi abbiamo avuto a che fare ed io non lo sapevo?... Con il capozona
di Modena... Renato, è il capozona dell'Emilia Romagna". Una frase intercettata e
pronunciata da Francesco Vallefuoco, a capo dell'omonimo gruppo con un piede in
Emilia Romagna e uno a San Marino, che svela nuovi assetti e misteriosi personaggi
ai vertici del clan in Emilia. Da quella intercettazione emerge che Renato sarebbe
legato a Iovine "o Ninno", cosa che rincuora il boss Vallefuoco che dopo avere
conosciuto il referente del clan esulta e confida alla compagna: "Ogni problema è
risolto, il numero del referente ce l'ho". "Renato" è un nome da spendere e da far
pesare nelle future trattative con boss, imprenditori e professionisti. A mettere in
contatto Vallefuoco con il capo del clan dei Casalesi sarebbe stato Francesco Di
Telia. Un imprenditore "stabilmente in contatto con il Vallefuoco", annotano gli
investigatori napoletani che proseguono nella loro descrizione del personaggio:
"Sempre disponibile per ogni tipo di attività (violenta o economica)", costituisce "il
tramite con il clan dei Casalesi". E infine contribuisce "alle attività di riciclaggio con
le sue società". Anche Di Telia è stato arrestato i primi di ottobre nell'operazione
Staffa, fino ad allora, si muoveva lungo l'asse Campania-Emilia.
Una seconda figura di spicco, dopo quella di Renato, affiliata ai clan si
aggirerebbe libero per la provincia modenese. È sempre Francesco Vallefuoco a
raccontarlo mentre le microspie lo registrano. Parla di un tale "Remigio". Anche in
questo caso gli indagati stanno attenti a non pronunciare il cognome. "Remigio"
sarebbe addetto alle estorsioni nel Modenese. E lavorerebbe per conto, scrivono gli
investigatori dell'indagine Staffa di Nicola Esposito, fratello di Lucia, l'amica intima
di Vallefuoco.
"Remigio" finisce al centro di un caso che crea attrito tra i clan. Finisce in un bel
guaio, al centro di un contrasto provocato da una richiesta estorsiva a un
imprenditore da non toccare, vicino ai clan. Vallefuoco muove le sue pedine e
"Remigio" accorre da lui piangendo, supplicandolo di credergli: "Non sapevo nulla"
di questa vicenda, che lui apparteneva a "Rocco ma anche a Nicola". Un
atteggiamento di "umiltà" mafiosa che convince Vallefuoco a informarsi meglio sulla
dinamica della presunta estorsione.
La figura di Francesco "Franco" Vallefuoco emerge a febbraio 2011 in seguito
all'operazione "Vulcano" coordinata dalla Dia di Bologna. Tra gli arrestati c'era
proprio "Franco" Vallefuoco. In tutto ventisei indagati, tra cui alcuni insospettabili
notabili sammarinesi che avrebbero gestito società finanziarie riconducibili a
Vallefuoco.
Gli affari dei Vallefuoco sono numerosi, dal settore immobiliare, a quello
commerciale, passando per il settore finanziario. Dietro queste attività lecite,
secondo gli investigatori di Napoli e di Bologna, si celerebbero riciclaggio, usura ed
estorsioni.
Dopo i numerosi arresti tra 2009 e 2010, ad aprile 2011 è arrivato sul territorio
modenese con tutta la famiglia Egidio Coppola, ritenuto ai vertici del clan e già
condannato per camorra, ora è un uomo libero ma sorvegliato speciale. Ha deciso
che la sua "nuova" vita, sarà a Bomporto. Alle proteste dei sindaci del comprensorio,
Coppola ha risposto che ha saldato il suo debito con la giustizia, è un uomo libero
che ha deciso di cambiare vita. Come dargli torto. Dopotutto siamo in uno Stato di
diritto.
In Emilia il settore delle costruzioni non si arresta, nonostante la crisi economica
che ha colpito il settore, agglomerati di mattoni e cemento, palazzi residenziali e
commerciali continuano a sorgere come funghi. È l'economia del mattone che da
lavoro a tanti emigrati onesti, ma che è profondamente turbata dai capitali mafiosi. In
tutta la sua filiera. Dalla costruzione alla vendita. Non è un caso che molte imprese
edili creano una società immobiliare, regolarmente registrata alla Camera di
commercio, per entrare direttamente nella vendita degli immobili. Si costruisce ma
non si vende, la domanda scende e l'offerta cresce. Quali sono le imprese che
possono permettersi il lusso, che va contro tutte le leggi dell'economia, di realizzare
un prodotto, confezionarlo e lasciarlo invenduto. È probabile che l'obiettivo di queste
imprese, che mangiano territorio emiliano con le loro colate di cemento, non sia
tanto vendere il proprio prodotto per rientrare con i costi e accumulare profitto, l'atto
finale di ogni ragionevole imprenditore. Ma riciclare il denaro sporco e trasformarlo
in mattone, in case, in opere cementizie. Una denuncia ripetuta più volte da Vito
Zincani, Procuratore capo di Modena. Il mattone diviene strumento di
cristallizzazione del denaro macchiato dai peggiori crimini mafiosi. E ne fa perdere
le tracce. È vitale questo settore per le mafie.
Il clan dei Casalesi controlla il settore edilizio con il ferro e con l'astuzia. La
gambizzazione dell'imprenditore originario di San Cipriano nel 2007, non è stato
l'unica volta che le armi del clan hanno fatto fuoco in terra di motori. Nel 2000
un'altra sparatoria aveva disturbato il sonno dei cittadini del paese di Castelfranco
Emilia, una realtà apparentemente tranquilla. Attraversata da profonde
contraddizioni. Sede di alcune bische del clan e di una società di recupero crediti
regolarmente autorizzata che fa capo al clan. E accresciuta da alcune costruzioni che
portano il marchio mafioso. Dove c'è l'invasione dei clan, il libero mercato è
un'utopia, una chimera. Viene piegato ai propri interessi, e addio concorrenza leale,
quale dovrebbe essere quella tra due imprese legali. L'impresa mafiosa si avvale di
alcuni vantaggi competitivi estranei alle altre ditte che non godono di sostegni e
appoggi dei boss. I metodi mafiosi per sbaragliare i concorrenti e la disponibilità di
grosse somme di liquidità extra contabile rappresentano due dei vantaggi. Il clan non
attende i tempi normali delle imprese, esige che si paghi subito e senza protestare. Da
questo deriva potere e denaro. E in Emilia si traduce in conquista di appalti e lavori
di edilizia privata. Nella giungla di subappalti i clan approfittano della confusione
per imporre noli, forniture varie ed eventuali e manodopera. Le vittime delle
estorsioni classiche, quelle parassitarie, e del pizzo sotto forma di imposizioni di sub
appalti erano inizialmente imprenditori del Sud.
"Condizione imprescindibile - hanno scritto i magistrati della Dia di Bologna -
per fare leva sugli imprenditori operanti nella realtà emiliana si rivela, oltre la forza
di intimidazione del vincolo associativo, la comune origine territoriale casertana e
più in generale meridionale, corredata dall'esercizio da parte della potenziale vittima
di un'attività imprenditoriale tipica, solitamente nel settore edile". La scelta di
ricattare gli imprenditori emigrati dal meridione segue una logica precisa, il vincolo
territoriale assicura ai boss una pronta arrendevolezza da parte degli operatori
economici, che convinti di essersi lasciati alle spalle certe regole imposte si ritrovano
nuovamente vittime dei clan. A Modena e nei dintorni umidi della sua provincia, il
clan dei Casalesi non risparmia l'uso del piombo, delle mazze e delle mani per
imporre la propria legge. Ma da quando il pizzo si è fatto servizio offerto alle
imprese a prezzi concorrenziali, nella trappola sono finiti anche gli imprenditori
emiliani.
Era stato avvertito l'imprenditore calabrese. Quel preventivo non avrebbe dovuto
presentarlo. La ristrutturazione del condominio era già stata decisa. I lavori sarebbero
toccati alla ditta di Vincenzo Esposito, impresario di Afragola, titolare, a Modena, dal
1991 dell'impresa Edil Prima 2. Il prezzo da pagare per avere trasgredito alle
imposizioni del concorrente è il pronto soccorso. Trauma cranico e trauma facciale,
una lezione esemplare impartita all'imprenditore calabrese. Lezione che gli era stata
promessa e che fino al 20 ottobre 2007 aveva evitato. Gli autori del pestaggio
"educativo" sarebbero stati, secondo la Dia bolognese, due dei fratelli Esposito, tra
questi "Mimi 'o boxer". L'unico dei fratelli con precedenti penali. "Perché ognuno
deve tirare l'acqua al suo mulino", avrebbe riferito l'imprenditore vessato al fratello
di "Mimi 'o boxer" che senza esitare gli avrebbe ribattuto: "Non tirare troppo l'acqua
al tuo mulino se no ti puoi affogare". Parole scandite con pesantezza che fanno da
preludio alla violenza che stava per essere scatenata contro il trasgressore delle
regole imposte. Un pestaggio esemplare, da manuale del metodo mafioso. Per
l'imprenditore che si è ribellato ad aspettarlo c'era soltanto il pronto soccorso dove
non sarebbe potuto recarsi in ambulanza. Per paura di essere denunciati i fratelli
Esposito avrebbero organizzato una spedizione per portare l'imprenditore malmenato
fino a sotto l'Ospedale di Baggiovara, una frazione di Modena. Sarebbe stato Ciro,
secondo gli investigatori, ad avere accompagnato l'impresario ribelle. E a suggerirgli
cosa avrebbe dovuto dire al medico. Ciro rassicurava che l'imprenditore non li
avrebbe denunciati e che al pronto soccorso era lui presente quando aveva dichiarato
di essere caduto accidentalmente dalla macchina. L'imprenditore non ha denunciato,
ha rispettato la regola dell'omertà nonostante le violenze subite. Ricordo quando mi
recai al bar della moglie per chiedere un'intervista rassicurandoli sull'anonimato. Non
ci fu nulla da fare, il rifiuto fu totale. L'unica frase prima di liquidarmi, mi è rimasta
impressa: "Sono bestie e abbiamo paura". Parole che non avrei mai immaginato di
riascoltare a Modena. Che a Bovalino e Casal di Principe sono la normalità. E a
Modena diventano segnali di una situazione che si sta "normalizzando".
I fratelli Esposito sono stati coinvolti nell'operazione San Cipriano, coordinata
dalla Dda di Bologna, che ha permesso di svelare le attività estorsive e gli affari del
clan dei Casalesi tra Modena e Mantova. I tre fratelli sono stati prosciolti.
Condannati invece i boss di riferimento della colonna modenese del clan: Alfonso
Perrone, conosciuto negli ambienti mafiosi come "O Pazzo", e Sigismondo Di
Puorto. "Chiedo il vostro intervento signor Presidente - sono parole che "O pazzo"
invia a Giorgio Napolitano - perché posso garantire, e possono dimostrarlo i fatti, che
sono un autentico perseguitato della giustizia e della legge. Non ho altro da
aggiungere se non che vi prendiate a cuore il mio caso e che possiate offrirmi la
possibilità di continuare per la mia retta via in pace e senza il terrore e la fobia di
essere oltraggiato e male trattato dalla polizia che opera nei miei confronti già da
molto tempo un autentico quanto arbitrario, nonché ingiusto, abuso di potere.
Ossequi".
Era il novembre del 2008 quando Alfonso Perrone scrisse al presidente della
Repubblica e al ministro dell'Interno. Si sentiva braccato, ma nonostante tutto
continuava a ostentare denaro e potere in quel piccolo e quieto paese qual è
Nonantola, in provincia di Modena, a perpetrare violenze nei confronti dei suoi
compaesani e, addirittura, a utilizzare un lampeggiante della polizia per
impressionare le vittime e far credere loro di tenere in pugno anche le forze
dell'ordine. Nella lettera al capo dello Stato, Perrone si definì "vittima della giustizia"
e spiegò di non aver mai compiuto i reati che gli venivano contestati. È stato
arrestato il 18 marzo 2010, insieme ad altre 20 persone nell'ambito dell'operazione
San Cipriano. Con l'accusa di essere il capofila della base modenese del clan dei
Casalesi. Dalle indagini che hanno portato all'arresto di Perrone, Mario Temperato e
Sigismondo Di Puorto, emergono alcuni collegamenti con i pezzi grossi del clan, da
Diana a Zagaria passando per Schiavone. Sarebbe proprio Mario Temperato, nel
2003, a incontrare Nicola Schiavone, figlio di "Sandokan", in un albergo a Bastiglia.
Un altro uomo legato al figlio del boss Schiavone e ad Antonio Iovine "O Ninno"
sarebbe Sigismondo Di Puorto. Ma i legami con i livelli alti del clan non finiscono
qui. Dal garage, al civico 82 di via Nonantolana a Modena, dove Perrone convocava
i summit, sarebbe passato anche l'allora latitante capozona di Modena, Raffaele
Diana. Gli investigatori sono quasi certi che si trattasse di lui. Era il 2008 e dal covo
di via Nonantolana le telecamere piazzate di fronte al garage hanno ripreso un
soggetto che, per caratteristiche fisiche, mostrava numerose analogie con il latitante
Diana. E anche le analisi successive del video hanno fatto emettere al consulente un
giudizio di compatibilità tra il misterioso uomo del video e "Rafilotto". Ma Perrone e
"compari" sarebbero stati in contatto pure con l'attuale vertice del clan. Alcune
intercettazioni hanno captato la voce di Michele Zagaria che in compagnia di
Alfonso Perrone "O pazzo" parlava con altri presunti affiliati, poi arrestati a Modena
nell'operazione San Cipriano. Durante una telefonata intercettata, Perrone parla con
Salvatore Buonincontri. Ad un certo punto Alfonso Perrone passa il proprio telefono
a una persona, la quale non esplicita la propria identità tanto da lasciare disorientato
l'interlocutore. Ma è lo stesso Perrone a dargli un indizio: "È o Cuoll'sstuorto
(soprannome di Zagaria, nda)". E Buonincontri sospira: "Ah...". Ancora più
significativo è quanto detto da Buonincontri una volta conclusa la telefonata con
Perrone. "N'ate capit', è Michele Zagaria" (non avete capito, è Michele Zagaria,
nda)", comunica ai presenti, tra i quali Pasquale Maisto, che gli domanda: "E 'nsieme
a iss sta? (E insieme a lui sta Perrone?)". Ulteriore conferma della vicinanza tra
Perrone e il latitante Zagaria emerge da un'altra intercettazione dell'agosto 2008,
durante la quale non viene esplicitata alcuna indicazione sull'identità del soggetto in
compagnia di Perrone. Tuttavia la voce, secondo gli investigatori, è uguale a quella
dell'intercettazione precedente. Il consulente incaricato di verificare se dietro quella
voce misteriosa si celava l'identità del "fantasma" Zagaria ha concluso che vi è
compatibilità nella misura dell'80 per cento. Ci sono alcune intercettazioni ambientali
in cui Perrone parla indirettamente del boss Zagaria. In una di queste sostiene di
avere un rapporto molto speciale con il latitante e di aver vissuto molte esperienze
insieme a lui. Una presunta amicizia che Michele Zagaria avrebbe suggellato
regalandogli una villa a Baia Domizia, e qui Perrone precisa: "La prima villa era la
sua, di Michele Zagaria, una di Pasquale, il fratello di Michele e marito della figlia
del costruttore di Parma condannato per associazione camorristica, l'altra di Antonio
-Antonio Zagaria o Antonio Iovine". E di Perrone sarebbe stata la quarta villa, ma
egli specifica ai presenti, suoi ospiti a Nonantola, di aver rifiutato il dono per motivi
legati al suo passato, quando era alle dipendenze del boss defunto Alberto Beneduce,
amico del latitante Zagaria.
La ragazza mi guarda, quasi a implorare di portarla via da quello schifo. Anche se
non è la strada, il night è pur sempre un incubo, dal quale corpo e mente ne escono
vinti, piallati come bitume da un "Bob Cat" dei lavori stradali. Era bella. Il suo
acceso accento dell'Est e il tono di voce, tenuto volutamente alto, per non venire
trascinata dal vuoto che le attanagliava lo stomaco, nascondevano i sogni che da
bambina la portavano a vedere il nostro Paese come una terra promessa. "Italia,
Italia, pensavo, bel posto. Ma solo gente persa, violenta ho incontrato".
Pronunciando queste parole mi si era seduta accanto mentre aspettavo la pizza. Si
chiama Sonia, lavora nel night sopra la pizzeria. Certo meglio che diventare carne da
macello in vendita per strada, "ma voglio finirla con questa vita di merda", sbatte il
pugno sul tavolo. Ha già un figlio, a breve ne nascerà un altro. Il padre è qualcuno
che non sa neppure di esserlo diventato. Clienti al night ne passano molti. Di tutti i
tipi. Ricconi, professionisti, medici, giovani, studenti, operai. È un mondo trasversale
che fa guadagnare bene. E dove il guadagno prospera. Arriva il clan, in questo caso
nella persona di Alfonso Perrone. I suoi uomini si recavano spesso al Big Bijou, uno
dei night alle porte del centro di Modena. All'interno si comportavano da veri boss.
Bottiglie di champagne gratis e divertimento assicurato. E quando uno dei camerieri
erroneamente chiede loro di pagare, Il comportamento di uno degli affiliati del clan è
esemplare. Contatta telefonicamente i boss, intima al titolare del locale di prendere il
telefonino e gli viene passata la telefonata. Perrone dall'altra parte del telefono inizia
a dirgli: "Lo sai con chi parli tu! Ah che cosa... te lo senti già in culo che... fai co...
che ridi con me?". Il socio del night inizia a balbettare. A quel punto tutto è
sistemato, l'intervento di "O pazzo" è risolutivo e i due sodali che si trovavano al
night possono continuare la serata con le donne in loro compagnia. "Gente orribile -
continua la ragazza che ormai deve andare di sopra, comincia lo spettacolo - ora che
ricordo bene, entravano, si sentivano padroni del locale e delle ragazze. Facevamo
spettacoli solo per loro". Le si legge in volto l'umiliazione che ha dovuto subire. Si
sentiva un giocattolo di carne per mafiosi arrapati. Pieni di sé, vinti e corrosi dal
potere che utilizzano sugli anelli deboli della società.
Alfonso Perrone era diventato il terrore degli imprenditori originari del sud Italia
che si erano trasferiti nel modenese. I suoi metodi si basavano su minacce tutt'altro
che velate: mazze da baseball e pugni. Il suo stesso avvocato Paolo Molare gli
suggerisce come comportarsi con un imprenditore che non vuole pagare il debito
contratto con una ditta dei suoi "compari": "Bisogna dire che ha avuto poco, che
doveva direttamente avere le pistolettate... nel buco del culo... che questo è un
infame che non paga e non va bene, gli doveva sparare". E incalza Perrone: "Se
hanno fatto la denuncia sono pezzi di merda e devono essere attaccati al palo dell'alta
corrente". Parole intercettate che pesano come macigni sulle sorti degli imprenditori
onesti. E che fanno emergere relazioni pericolose tra professionisti e clienti accusati
di utilizzare metodi mafiosi per estorcere denaro e recuperare crediti su commissione
di alcune ditte vicine al clan. E non mancano neppure incontri tra uomini di Perrone
e parenti molto stretti di Francesco Schiavone, "Sandokan". Sarebbe stato Mario
Temperato a incontrare "u nipuot i Cicciarello". Con lo pseudonimo vuole indicare
Francesco Schiavone, cugino di primo grado di "Sandokan". Contatti continui che
sono avvenuti nella provincia di Modena. Con tutti i vertici del clan. Diana, Zagaria,
Schiavone. Perrone per un determinato periodo di tempo ha gestito una parte degli
affari del clan. È un ordine arrivato dal Vertice. Dopo l'operazione Medusa che ha
portato all'arresto, tra gli altri, di due guardie penitenziarie del carcere di Modena, la
vecchia guardia che faceva riferimento a Diana ha subito un duro colpo. Ecco che
Perrone coglie la palla al balzo. E costruisce la squadra con la quale viene
autorizzato dai grandi capi del clan. A garantire un pezzo da novanta del clan, quel
Sigismondo Di Puorto legato a doppio filo con Antonio Iovine "O Ninno". Attorno a
"O Pazzo" uomini pronti a tutto. Imprenditori edili che si sarebbero avvalsi del
metodo mafioso, come ha ben descritto la Dda di Bologna, per accaparrarsi lavori ed
estorcere denaro. Il ritrovo del gruppo di Perrone era un garage di via Nonantolana.
Al civico 82, un piccolo covo impersonale era il regno di decisioni e strategie
mafiose che Perrone e compari hanno messo in atto per molti anni, disseminando
paura e terrore tra gli imprenditori finiti sotto le loro grinfie. Se i muri di quel garage
potessero parlare! Urlerebbero lo schifo di cui sono stati testimoni. Pestaggi,
riverenze a cognomi importanti dei vertici del clan, pianificazione di spedizioni
punitive, conteggi di denaro inzuppato del sudore degli onesti. Ma anche commenti
sulle questioni di attualità. In una delle intercettazioni ambientali che la squadra
mobile è riuscita a registrare, Perrone commenta una puntata della trasmissione Anno
zero dove tra gli ospiti era presente Roberto Saviano. E su di lui si sofferma la
discussione. Al termine della puntata, i presenti e sodali concordano sul fatto che
Saviano non è stato ucciso perché si sarebbe scatenata una guerra contro di loro,
come avvenne in seguito all'omicidio del parroco di Casal di Principe, don Peppe
Diana.
Violenza e ostentazione. Una scelta di vita che i sodali del clan manifestavano in
ogni occasione, senza badare troppo al valore dell'invisibilità in cui, sono solite,
vivere le cosche nelle aree del Nord Italia. "Una mattina uno degli arrestati - mi ha
raccontato il dipendente di un'agenzia assicurativa che preferisce rimanere anonimo -
si presentò nel mio ufficio. Iniziò con richieste assurde, fuori da ogni logica di
legalità, richieste di contratti che nulla avevano di regolare. Al rifiuto del titolare
dell'Agenzia il ragazzo, poi arrestato, ha iniziato ad usare la violenza, lo ha preso dal
collo e dopo averlo sbattuto contro il muro, siamo intervenuti per dividerli. L'uomo è
uscito inveendo 'voi non sapete chi sono'". Qualche tempo dopo il dipendente e il
titolare lo videro tra gli arrestati dell'operazione San Cipriano "'...vengo alloco e ti
tolgo la pelle di dosso... tu non hai capito niente... tu hai a che fare con gli
afragolesi... tu sei il tipo da prendere per il culo a me! ...Io... ti faccio salire il diabete
a settecento... uomo di merda! Io se vengo a Rovigo non vengo a vuoto... ma io
veramente Alfonso... io ero davvero arrabbiato... ero pronto a picchiarlo". Parola di
Giovanni Perrone, zio di Alfonso Perrone "O pazzo". Tonino è un imprenditore edile
che per lungo tempo ha svolto il proprio lavoro a Rovigo, ma che dal 1999 risulta
formalmente residente in Romania. Non è la prima volta che riceve le minacce di
Alfonso e di Giovanni Perrone. Le minacce fanno parte della sua quotidianità. È una
vittima terrorizzata dalla ferocia dimostrata dal clan Perrone. Tonino cerca in tutti i
modi di evadere la richiesta, rinviando, spostando i termini di pagamento. "Eh...
Anto'... dicesti una giornata, due giorni ...che hai fatto?". Gli ricorda Perrone "O
pazzo". Ma l'appuntamento con il destino che il clan gli aveva designato era alle
porte. Una scarica di violenza per educare al rispetto degli uomini d'onore. Punirne
uno per educarne cento, sembra il motto cucito ad hoc all'abito mafioso, come ama
definirlo Augusto Balloni, ordinario di Criminologia all'università di Bologna.
Onore, rispetto, potere e denaro. Le droghe da cui dipendono gli uomini delle cosche.
L'imprenditore emigrato in Romania alla fine pagherà il dazio richiesto dal clan. Ha
pagato per non sentire minacce di ritorsione nei confronti dei figli e della moglie,
non ha denunciato per paura di essere solo. Ma solo non era, il procuratore capo di
Bologna già da tempo implorava gli imprenditori a sporgere denuncia prima di essere
massacrati di botte e subire gravi lesioni fisiche. Il suo appello è caduto nel vuoto,
ancora oggi le denunce degli imprenditori estorti in Emilia Romagna sono rare.
Preferiscono pagare e subire in silenzio. Soltanto qualche imprenditore determinato e
stanco delle vessazioni ha scelto di bussare alla porta della giustizia.
Ad arricchire le pagine dell'ordinanza San Cipriano sono proprio le dichiarazioni
di due titolari di altrettante imprese edili. Dopo le prime minacce ricevute si sono
recati dai carabinieri e hanno raccontato la loro storia di vittime. Le loro storie sono
significative perché evidenziano un'estorsione subdola, meno diretta: attraverso il
recupero crediti per imprenditori edili vicini al clan. Ad uno degli imprenditori che
ha scelto di denunciare, Alfonso Perrone avrebbe chiesto sei mila euro per saldare il
debito nei confronti di Massimo Gugliuzza e del socio foggiano, Giuseppe Ferrante
detto "Gamberone". Ma al debitore i conti non tornano, Gugliuzza e Ferrante
avevano posato le piastrelle in un cantiere gestito da lui in precedenza, un lavoro da
duemila euro "neppure fatto a regola d'arte" ha raccontato ai carabinieri
l'imprenditore nella sua denuncia. Capisce immediatamente che la richiesta di saldo
era gonfiata dalla particella spettante alle casse del clan. Quattromila euro per il
servizio di recupero crediti fornito. Un servizio a 360 gradi, offerto alle ditte amiche.
Quando si è trattato di recuperare un credito per Mario Maggio - altro imprenditore,
attivo tra la provincia modenese e quella mantovana, che si sarebbe rivolto a Perrone
- assicurava al debitore estorto il ritiro da parte di Maggio del decreto ingiuntivo nei
suoi confronti pendente al Tribunale civile di Modena. "Tu non ti preoccupare, dagli
i soldi e io ti faccio togliere tutto subito", avrebbe promesso Perrone all'imprenditore.
Ma la crisi economica e le difficoltà quotidiane che un'impresa edile è costretta ad
affrontare al boss non interessano, alla protesta del debitore giustificata con lo stato
di difficoltà economica in cui versa la propria azienda, "O pazzo" risponde con le
minacce: "Quello che ti è successo non è niente, stai attento perché Massimo per
questa storia è stato anche picchiato", avrebbe intimato Perrone.
L'agenzia di recupero crediti Perrone e C., inscena veri e propri teatrini del terrore
per incutere paura all'imprenditore che per difficoltà economiche non riesce a saldare
i debiti con i creditori amici d'"O pazzo". Una scena, descritta da uno degli
imprenditori che denuncerà il clan Perrone, è significativa per comprendere
l'esaltazione perversa degli uomini del clan. Portato in uno degli appartamenti di cui,
gli uomini del clan, potevano disporre a Modena, Perrone e C. fanno accomodare
l'imprenditore vessato di fronte a loro. "Come fosse un tribunale", dichiarerà in
seguito ai carabinieri. È stato obbligato a consegnare le chiavi dell'auto e
schiaffeggiato, una sequenza umiliante. A questo punto Interviene il capo che lo
avverte di essere stato incaricato a ricevere dei soldi per conto della Agr snc, una
ditta edile che opera nella provincia di Modena, i cui titolare sarebbero in ottimi
rapporti con Alfonso Perrone. I soci della Agr sono Antonio Napoletano, Gaetano
Tessitore, Massimo Nazzaro e Vincenzo Monaco. Per recuperare i 13 mila e 500
euro, che l'imprenditore in difficoltà economiche doveva loro, avrebbero fatto ricorso
al metodo Perrone, ai mezzi del clan. Un metodo intimidatorio, di poche parole, che
va dritto ai nervi dell'ostaggio. L'imprenditore non sa proprio dove andarli a cercare
quei soldi, i suoi debiti verso i fornitori ammontano a 60-70 mila euro. E chiede a
tutti di attendere i tempi necessari per potere pagare, normale amministrazione in
un'economia libera. Ma se è il clan a decidere tempi e modi di pagamento il normale
corso dell'economia è distorto, la libera scelta annichilita, con buona pace della leale
concorrenza che diventa sleale.
Botte, fuoco, minacce, "ferro", furti. Segnali inquietanti che nella provincia di
Modena accadono con frequenza cadenzata. Dal 2007 al 2010, i dati della Prefettura
di Modena, hanno registrato oltre 350 incendi dolosi. Gli obiettivi degli incendi:
pizzerie, ristoranti, bar, escavatori, gru, cantieri, bancali, auto aziendali, camion.
Ricordo, quando in Calabria avvertivamo quell'odore del legno che avanzava
prepotente verso il centro del paese. Un odore acre che segnalava l'arrivo delle
disgrazie. Quanti imprenditori rovinati, quante famiglie lasciate sul lastrico. Costrette
a emigrare verso Nord. E ora eccomi qua, di nuovo a fissare, da cronista, locali
incendiati, attività stroncate dal rifiuto dei loro proprietari di piegarsi al pizzo. "Reati
spia", li definiscono i magistrati, che non sono sufficienti a svegliare le coscienze
padane, strette tra benessere e produttività. E che impongono in maniera definitiva
un'amara certezza: il potere mafioso e la sua forza intimidatrice si è diffuso nel corpo
della locomotiva d'Italia. Fare finta che siano piccoli ed estemporanei episodi di
infiltrazioni passeggere, spalanca le porte della sala comandi della regione Emilia
Romagna al virulento ospite indesiderato. Così da renderla inerme al malaffare.
Quello che sta avvenendo in Lombardia, in Liguria, in Piemonte, nel Lazio, dove
politica e mafie sono sempre in più stretto contatto, è la degenerazione di un'Italia
alla deriva. Di una politica incapace di proporre questioni politiche di lungo termine
e si affida ai voti mafiosi per tirare l'acqua al proprio mulino. Nomine, potere, scambi
e favori, hanno sostituito ideologie e programmi. La dissoluzione della politica è un
viatico eccezionale al radicamento degli interessi superpartes delle mafie, che
trovano un terreno morbido, fertile per seminare il germe della corruzione.
Corruzione e associazione mafiosa sono facce della stessa medaglia, il mafioso
per "governare", per gestire gli appalti e gli affari legali ha bisogno del sostegno
politico, del potere legittimo. Necessita della zona grigia fatta da politici asserviti,
servizi segreti deviati, magistrati e uomini delle forze dell'ordine "amici". Per
ottenere questo potere o spara o corrompe o ricatta. È l'Italia sotto scacco delle mafie
che nell'avanzata verso Nord oscilla tra violenza e finanza. Modena, e l'Emilia, è una
casella cruciale nello scacchiere mafioso. Commercialisti e geometri, avvocati-
politici, direttori di banca e d'azienda, notai, imprenditori, faccendieri. Sono i colletti
bianchi al soldo dei mafiosi trapiantati nel modenese e in Emilia. Corrono sul primo
binario della Modena eticamente impeccabile, dal vestito pulito. E parallelamente si
muovono, sul secondo binario, con destrezza tra sistema economico legale e
criminale. Rispondono alla domanda di professionalità richiesta dalle cosche. Paolo
Raviola, arrestato nell'operazione San Cipriano, è una figura particolare. Si è
guadagnato l'appellativo de "il commercialista". Ha un curriculum criminale, tutto
improntato a reati economici. Raviola è titolare di diverse quote in cinque diverse
società. Tra cui la Synergy Group srl. Oltre a dimostrare abilità nel dissolvere le
tracce del denaro sporco, frutto delle estorsioni, avrebbe permesso di aprire dei conti
correnti intestati ad alcuni imprenditori edili, coinvolti nell'inchiesta. La faccia pulita
del gruppo con contatti e conoscenze, acquisite nel tempo, tra i 40 direttori di alcune
filiali di istituti di credito locali. Non solo destrezza e abilità economiche illegali. Ma
avrebbe partecipato anche ad alcune spedizioni di "convincimento a saldare i debiti"
con Alfonso Perrone.
Questa è Modena oggi. Una città attraversata da due binari malleabili che spesso e
in maniera subdola s'incrociano. Sul primo viaggia il sistema economico pulito,
legale, che spesso viene deviato sul secondo. Una linea morta che collega la città al
baratro del compromesso mafioso.
4. Casinò clan
Una manovella a cui si affida il proprio futuro. Nel mondo della precarietà
globale sempre più donne e uomini gettano metà delle loro giornate davanti a una
slot machine. Il gioco d'azzardo è stato legalizzato. Disoccupati, operai, pensionati,
studenti. La macchinetta non rifiuta nessuno, è un aggeggio infernale e trasversale
che ha bisogno di una concessione dei monopoli di Stato per essere attivato
legalmente. Macchinette di sogni, per chi sogni non ne può più avere. Personalità
deboli, arrendevoli, che, al terzo giro di slot machine, diventano ancora più fragili e
dipendenti da quella che per loro assume la sostanza di unica e certa garanzia di un
ipotetico avvenire migliore.
Giocano senza tregua, sembrano, a tratti, posseduti da uno spirito dell'azzardo.
Perdono anche mille euro al giorno. E tornano nelle loro case in uno stato peggiore
di come ne sono usciti la mattina. Dopo dieci ore di cantiere, cinque ore di
macchinette, magari per arrotondare e comprarsi un "pezzo di bamba", la bustina di
cocaina. Li guardo mentre sorseggio la birra che il mio amico barista mi ha servito al
tavolo. "Ma quante ore passano attaccati a quelle macinatrici di soldi?- gli chiedo a
bruciapelo". Lui ride, è consapevole di quante persone rimangono incastrate tra quei
meccanismi inconsci che portano il novello giocatore a divenire in poco tempo un
player accanito. "C'è gente che passa giornate intere. Anche signore. Tante donne si
piazzano la mattina ed escono la sera. Operai che finiscono il turno, muratori, si
fermano ore e ore. E poi ci sono i furbetti che tentano con marchingegni elettronici di
mandare in tilt la slot così da farle sputare i soldi all'impazzata", mi risponde senza la
minima emozione. Mi chiedo per quale motivo abbia messo quelle slot rumorose e
fastidiose che non c'entrano neppure con l'arredamento del locale. Ma penso ad alta
voce. E lui si fa serio. È preoccupato che qualcuno possa avere udito le mie
sussurrate parole. Si avvicina al mio orecchio. "Dipendesse da me, nel mio locale
quegli affari lì, non sarebbero mai entrati", bisbiglia con un timbro che cela
insicurezza. E capisco. Quel dipendesse da me, quella passività nell'accettare le
imposizioni. Si chiama paura indotta, da chi detiene la forza e il potere intimidatorio.
Si chiama mafia.
Il mercato del gioco d'azzardo è in continuo aumento. Cinquantacinque i miliardi
spesi nel gioco nel 2009, con un aumento del 28% nel 2010. Un business che non
conosce crisi economica. Un po' come le organizzazioni mafiose. E sono loro a fare
la parte del leone in questa industria che produce speranza, da vendere a quanti la
cercano. Dal primo maggio 2004, i tradizionali videopoker sono stati messi al bando.
Ma fanno la loro comparsa sulla scena le slot machine o new slot. A cambiare sono
state soltanto le cifre della dipendenza dal gioco d'azzardo legalizzato. In costante
aumento. Molti non credono di esserlo, non è vista come patologia. Gli effetti sono
tremendi. L'industria che immette sul mercato patologie da gioco cresce. E le mafie
gonfiano i loro fatturati sulla disperata ricerca di fortuna dei nuovi miserabili.
Arrivano su camion del clan. I locali sono scelti in precedenza, il gestore è un
amico o una vittima dell'imposizione. La rete del traffico è vasta. Sicilia, Calabria,
Campania. Un'associazione temporanea d'imprese tra organizzazioni mafiose.
Restare unite, fintanto che i disperati possono essere munti. Fino all'osso, fino
all'ultimo centesimo disponibile. Risale al 1995 l'invasione dei videopoker elettronici
del clan nella provincia modenese. "I videogiochi", li chiama Domenico Bidognetti,
il collaboratore di giustizia che svelerà numerosi particolari sui movimenti del clan in
terra emiliana.
È il primo a raccontare di come le macchinette dei videopoker venivano imposte
ai gestori dei bar. E di come da Casal di Principe l'affare, formalmente legale, sia
stato esteso nella provincia modenese già quindici anni fa, nel boom del gioco
d'azzardo legalizzato. Non solo controllo delle classiche bische, dunque, ma
imposizione dei videopoker esportati direttamente dal Casertano nei bar della
provincia di Modena. Le menti del lucroso affare, gli imprenditori dei videopoker,
Bidognetti le indica in Mario Iovine - cugino di Antonio Iovine detto "O Ninno" e
latitante storico insieme a Michele Zagaria - e Alfonso Schiavone, un professore di
lettere, vicepreside di un istituto del litorale domizio. L'idea di cimentarsi nel campo
dei videopoker sarebbe stata proposta da Renato Grasso, un imprenditore napoletano
a cui fanno capo, attraverso prestanome, una miriade di società nel campo delle slot,
delle scommesse, del Bingo. "Dal 2005 Grasso, coadiuvato da familiari e sodali,
intraprende una sistematica attività di acquisto di sale Bingo prevalentemente al
Nord con lo scopo di installarvi le slot di proprietà delle sue ditte", scrive il gip del
Tribunale di Napoli nell'ordinanza datata 2009. Renato Grasso insieme al fratello
Francesco sarebbe riuscito a stringere patti con i clan egemoni in ogni singolo
quartiere di Napoli e a estendere i suoi "rapporti di lavoro" fino all'Agro Aversano
legandosi al clan dei Casalesi, "rappresentato, per quel particolare ramo d'azienda da
Mario Iovine detto Rififì". Iovine e Grasso costituiscono una vera e propria società
alla quale farebbe da schermo la Giemme Giochi di Gianfranco Maddalena,
considerato il trait d'union tra il casalese e il napoletano Grasso. Oltretutto sia Grasso
che Iovine vantano trascorsi da imprenditori in proprio. "Si crea dunque una sinergia
formidabile - si legge nell'ordinanza - grazie ad un comune patrimonio di
professionalità, ad un'elevata capacità di intimidazione, ad un consistente bagaglio di
conoscenze, ad un'inquietante cedevolezza degli interlocutori, che proietta il gruppo
verso l'affare delle scommesse online ed apre nuove frontiere di conquista in territori
extraregionali". Fino a sbarcare in Emilia, a Modena.
Qui, già dal 1995 in alcuni bar venivano imposti i videopoker dei mafiosi
campani. A dirigere l'esportazione delle macchinette da gioco ci sarebbero stati
Mario Iovine e Alfonso Schiavone, i quali, aiutati dai referenti modenesi del clan dei
Casalesi (Nappa, Compagnone e Caterino) le avrebbero piazzate nei locali di
Modena e provincia. I soci, Iovine e Grasso, hanno avuto carta bianca dai clan
camorristi di Napoli che chiedevano una percentuale in base ai paesi "occupati".
"Non hanno tradito le aspettative dei camorristi alleati, allargandosi fino a Modena,
ridotta a colonia, controllata da Iovine ed in sua assenza dall'insospettabile
professore di lettere e vicepreside Alfonso Schiavone. Un successo strepitoso reso
possibile nella cittadina emiliana, come nell'area casertana, anche dalle condizioni
con cui veniva attuata l'occupazione dei locali", scrive il gip del Tribunale di Napoli.
Grasso e Iovine imponevano i videogiochi di proprietà del primo, assicurando, ai
gestori, di supportare i costi di un eventuale sequestro e il pagamento delle multe. Il
che, fa notare il gip, induceva gli esercenti ad una "pronta arrendevolezza". Stando
alle dichiarazioni fornite da Bidognetti, dal 1995 i videopoker arrivavano a Modena
tramite Iovine. E non esclude che fino all'arresto di Mario Iovine fosse sempre lui il
tramite grazie al quale le macchinette da gioco sbarcavano nei bar modenesi. "I
videopoker che si trovano a Modena provengono da Casale?". Chiesero i pm al
collaboratore. "Sì, sono di Grasso e Iovine, adesso non lo so chi li fa, però ce li
hanno a nome di Schiavone (Alfonso, nda) a nome dei Casalesi. È andato Alfonso
Schiavone e pure Del Vecchio Antonio che aveva delle amicizie là, comunque li
hanno messi da tutte le parti questi videopoker a nome dei Casalesi", ha risposto
Bidognetti. Nel 2001-2002 il clan percepiva da Renato Grasso duecento milioni di
lire al mese ed è certo che dal 1995 la gestione dei videopoker era affidata a Iovine e
ad Alfonso Schiavone. Se siano ancora loro i responsabili della gestione o se sia
passata ad altre persone non è noto, di certo il clan non avrà abbandonato un business
così lucroso. Renato Grasso, secondo l'accusa, sarebbe il fornitore principale e il
socio con il quale, fino al suo arresto, il clan avrebbe fatto affari. I videopoker
giungevano a Casal di Principe, portati dall'imprenditore Grasso, e poi caricati sul
camion venivano spediti a Modena. Oppure li compravano a Modena dai gestori dei
bar promettendo loro di assumersi tutti i rischi. Al proprietario del bar conveniva
perché in caso di sequestro non avrebbe dovuto sborsare nulla: il clan accorreva in
suo aiuto.
Nel Casertano come nel Modenese il clan si sarebbe servito dei "Ragionieri".
Giovani soldati che si recavano nei locali per verificare quante giocate erano state
fatte e per ritirare i soldi. L'imposizione avviene proponendo al gestore del locale di
installare le macchinette. "Voi che tenete il bar senza videopoker, vengono i giovani
del clan e dicono: ti devi prendere i videopoker da Tizio e Sempronio; voi magari
dite che avete i vostri videopoker, e quello vi dice 'favorite solo i nostri', da oggi in
poi quello che si guadagna, il 40 per cento va a te e il 60 per cento a noi, se questo
scassa e cose varie, riforniamo tutto noi, io e Grasso". È l'esempio con cui il
collaboratore spiega al magistrato la dinamica dell'imposizione delle macchinette.
Mario Iovine, detto "Riffifì", conosce Modena. È certo che l'abbia frequentata e gira
per la città insieme a Sigismondo Di Puorto, il braccio destro di Alfonso Perrone "O
Pazzo", ambedue coinvolti nell'operazione San Cipriano. Di Puorto è ritenuto
l'elemento di saldatura tra la cellula modenese e la "Casa Madre" del clan. La visita,
documentata, a Modena di Mario Iovine rafforza dunque le dichiarazioni del
collaboratore Bidognetti che lo indicava come il manager, per conto del clan, dei
videopoker nel Modenese. E alimenta sospetti sulla gestione attuale del "ramo
d'azienda" del clan.
È un susseguirsi di capannoni, ampi e freddi. La zona industriale dei Torrazzi a
Modena è un'area ad alta produttività e di celate attività. Giornate lavorative che
viaggiano sul doppio binario delle realtà del Nord. Un involucro esterno che fa
sembrare tutto in regola. Imprese che nel presunto libero mercato offrono i loro
prodotti, i loro servizi. Apparentemente i concetti di domanda e offerta sono le guide
delle loro attività. Cambiando binario, abbandonando il primo visibile a tutti e
immettendosi sulla nebulosa seconda rotaia, l'economia muta forma, non ha più
sostanza, non conosce libri contabili ufficiali. Assume uno stato liquido, penetrante.
E come vasi comunicanti, economia legale e criminale si contaminano. La sostanza
liquida e putrida della bacinella dell'illegalità infetta la prima. Si mescola e
l'accerchia, stringendola in un abbraccio mortale per il progresso.
Dopo diverse e complicate manovre riesco a trovare la via che cercavo. È via
Grecia. Sono in molti ad essere entrati qui dentro domandando una cosa semplice:
"Sarei interessato a piazzare delle slot, quanto mi costa?". A rispondere il più delle
volte c'era Luigi, il figlio di Antonio Padovani, il re Mida, insieme a Renato Grasso,
del settore delle macchinette, delle sale Bingo e delle sale scommesse. Le quote di
Antonio erano state sequestrate, ma dopo pochi mesi dissequestrate sempre su ordine
del Tribunale di Napoli. Il suo è un impero fatto di società tutte attive nel noleggio
delle macchinette da gioco, nella gestione di sale scommesse e delle sale bingo. Una
delle sue società ha sede a Modena. E, secondo i magistrati, proprio questa società di
noleggio e vendita di slot sarebbe stata utilizzata, da Grasso e da Padovani, per
acquistare una sala bingo nei pressi di Milano. Una volta acquistata con la società
modenese, Padovani avrebbe girato la proprietà a Grasso. Ad una delle sue numerose
società intestate a prestanome. Le collaborazioni economiche tra i due erano, inoltre,
"strumentali all'acquisizione di Sale Bingo dove Grasso avrebbe provveduto ad
installare le sue macchinette". In un passo dell'ordinanza viene riportato un episodio
nel quale uno degli indagati invita Padovani a servirsi della società con sede a
Modena per l'acquisto delle sale bingo di Imola e Milano pur con lo scopo di cederle
successivamente a Renato Grasso. Grasso e Padovani discutono di cifre elevate e
trattano progetti ambiziosi, alcuni dei quali sarebbero ancora in corso, come un
casinò a Bucarest.
Antonio Padovani è stato condannato nel 2011, in primo grado i giudici di
Caltanissetta l'hanno ritenuto colpevole di intestazione fittizia di beni, ma non di
concorso esterno. Prima che gli sequestrassero le quote, alcune poi dissequestrate, a
lui direttamente riconducibili, era proprietario di un impero economico suddiviso,
dice l'accusa, tra numerosi prestanome pur, sottolinea il gip, "dichiarando redditi da
fame". Per lui ha lavorato, in qualità di capo area, pure il marito della figlia del boss
"Piddu" Madonia. Il genero del boss, è emerso da alcune intercettazioni presentata
dall'accusa, si sarebbe recato una volta al mese proprio nella società con sede a
Modena dove Padovani "ha la fabbrica, dove fanno queste cose", dicono due indagati
nel corso di una telefonata intercettata. Se questo è ciò che emerge dalla inchiesta
coordinata dalla Dda nissena, dalle carte firmate dal gip di Napoli emergono i
contatti tra l'imprenditore Renato Grasso, secondo l'accusa amico dei camorristi e dei
Casalesi, e Antonio Padovani, considerato vicino alle famiglie mafiose catanesi e
nissene. Secondo il gip di Napoli, Padovani sarebbe l'omologo siciliano di Grasso, i
due sono in affari e lo dimostrerebbero i consistenti investimenti dell'imprenditore
siciliano nelle società riconducibili a Grasso. Il gip di Napoli scrive di Padovani:
"Uomo di mafia, egli si presta, per il clan di appartenenza, nel medesimo settore
delle slot dove opera da tempo, garantendo anche attraverso la compiacenza di
funzionari infedeli, l'ottenimento delle necessarie concessioni e curando l'apertura di
sale intestate a terzi, ma in realtà riconducibili ad interni alla cosca". Dall'intreccio
affaristico, descritto dai gip di Napoli e Caltanissetta, emerge una stretta sinergia tra
presunti esponenti delle diverse mafie. Ci sono soggetti che tentano di darsi
un'incipriata di legalità, ma dietro i quali, secondo l'accusa, si celerebbero i tentacoli
di un sistema mafioso del terzo millennio che utilizza il piombo solo come extrema
ratio.
Occhi digitali con il loro sguardo meccanico rivolto verso l'entrata di un locale.
All'interno fumo e speranza si confondono. Urla di gioia e gesti di disperazione
sembrano mosse senza soluzione di continuità. Dai giocatori del circolo non traspare
nessuna emozione vera. Chiusi come cavie spendono, perdono, raramente vincono.
In quel luogo, basso e degradante il valore della vita è calpestato quotidianamente.
L'unica regola vigente è quella del clan. Mi avvicino alla porta d'ingresso di quella
che appare ai mie occhi una ciminiera di disperati. Consapevole delle telecamere che
fanno da vedette e mi osservano, trattengo la nausea e la rabbia che mi provoca la
vista della disperazione. E dell'industria creata attorno a essa. Uno sfruttamento della
disperazione. Varco la soglia del buio esistenziale. Mi assale un forte senso di vomito
e vorrei tornare indietro. Non posso. Facce cupe e irrigidite da alcol e sigarette,
qualcuno sembra fatto di cocaina. Mi riempio le mani di monete. Un gesto ridicolo,
da principiante o da "sbirro". Lì si gioca pesante. È uno dei circoli "ricreativi" del
clan dei Casalesi. A Carpi, cittadina a venti chilometri da Modena. Il nome è un
simbolo, Matrix 2. Anche i camorristi lo sanno, quello che offrono nella loro bisca è
una realtà parallela, che risucchia anime in pena. È una matrice della reale
quotidianità che affligge i giocatori che vedo insultare quegli aggeggi infernali.
S'instaura una sorta di rapporto perverso tra giocatore, slot e clan. La stessa sindrome
di Stoccolma che entra in gioco tra sequestrato e sequestratore. Lo stesso alternarsi di
atteggiamenti ambivalenti. Un primo momento di odio e terrore verso chi, come
sanguisuga, ti succhia l'energia vitale. Seguito da riverenza e prostrazione nei
confronti del proprio aguzzino, visto come colui che detiene il potere di vita o di
morte. E clemente con la vittima ormai spennata d'ogni barlume di dignità. Accanto a
me una donna sui cinquantanni esulta per una vincita da 10 mila euro, un altro
ragazzo straniero bestemmia per la perdita. Un tale che chiamano "Michele" ne perde
5 mila. La donna vince ma non molla l'osso elettronico dei desideri che le provoca
stati di eccitazione e momenti di agitazione misti ad afflizione. Le macchinette
creano una condizione di uguaglianza tra i giocatori, tutti accomunati dall'egoismo
competitivo che li porta a sfidare quei marchingegni. Con le mani sulla tastiera o
sulle manopole non esiste più famiglia, figli, lavoro. Spazzano via dubbi e rimorsi.
Un'altra giocata per pulirsi la coscienza, come fa il vento ponente che ripulisce le
acque del mare dalla schiuma dei liquami.
Ero entrato da appena dieci minuti in quella voragine, quando vedo entrare una
ragazza bionda, non troppo alta, ma slanciata. La osservo mentre, con fare da
direttrice d'impresa, spiega, ordina, impartisce mansioni. Sembra mettere ordine a
casa sua. Ai miei occhi, umidi dall'aria viziata di quel posto, sembra troppo giovane
per potere dirigere quella struttura illegale. Le squilla il telefonino. "Pronto?". Cerco
di origliare, di captare per capire il suo ruolo, così giovane, così persa. "Meno male...
che ti... non ti volevo rispondere guarda... meno male ho risposto... non sapevo...
non... non... non rispondo al numero privato, meno male dopo... mi sono accorta". E
chiude pronunciando un "va bene a dopo". Passa un quarto d'ora, la donna esce dal
circolo e incontra un tale Antonio. Era il suo "assistente-messaggero".
Lei è loana Ancuta Gurlui, rumena d'origine, residente a Castelfranco insieme ad
Antonio Noviello, ritenuto affiliato al clan dei Casalesi e ristretto nel carcere di
Modena. Ma quell'Antonio con cui loana s'incontrò dopo la telefonata è un altro
personaggio della storia. È Nicola Mennillo, di professione Guardia Penitenziaria
presso l'istituto Sant'Anna di Modena, lo stesso dove sono rinchiusi Noviello, Nicola
Nappa e altri sodali ritenuti organici al clan di Schiavone, Zagaria, Iovine e Diana. E
dove proprio quest'ultimo boss è stato detenuto per diverso tempo. È una storia di
corruzione quella che scoprono i magistrati della Dda di Bologna, oltre che di affari
sporchi.
Nell'operazione Medusa, coordinata dai magistrati dell'antimafia bolognese, sono
stati coinvolti numerosi personaggi del clan dei Casalesi. Che davano ordini e
passavano ambasciate dal freddo delle loro celle. Anche con i cellulari a loro
disposizione. Non è il Grand Hotel Ucciardone di Palermo, Sant'Anna. Ma quello era
l'obiettivo dei mafiosi dell'Agro Aversano. E ci stavano riuscendo. Corrompendo due
guardie penitenziarie la vita dietro le sbarre è più morbida. I magistrati della Dda
scrivono che i servitori dello Stato, Nicola Mennillo e Roberto Micillo, "si sono posti
a completa disposizione del clan, non solo rendendo meno gravosa la detenzione di
Nappa Nicola, Pagano Antonio, Ciocia Pasquale e Noviello Antonio - attraverso
l'illecita introduzione nella casa circondariale di beni di vario genere, nonché
consentendo visite di parenti altrimenti non possibili se non attraverso la
commissione di falsi documentali - ma anche rendendosi parte attiva nella gestione
delle bische di Castelfranco Emilia e Carpi, fonte di ingenti guadagni per il clan dei
Casalesi attraverso l'esercizio del giuoco d'azzardo". Parole forti utilizzate dai
magistrati e confermate da un'intercettazione telefonica durante la quale un sodale e
una donna si soffermano sulla decisione dei vertici di assegnare in gestione uno dei
circoli alle "Guardie". E ne convergono che il clan aveva dovuto "cedere" la sala di
Carpi in segno di riconoscenza per tutti i "favori" che Roberto Micillo gli aveva
riservato all'interno ed all'esterno del carcere. Quella che gli investigatori intercettano
è una lezione di vita carceraria: "Gli fa fare anche il colloquio all'aperto... dentro il
cortile... dove cazzo... tutto che ha... gli fa entrare la roba... mozzarelle cose... prende
e porta dentro... chi è che... guarda che è rischioso... lui gli fa rischiare il posto a
quello... guarda che... io glielo dissi... o ci da questo altrimenti stoppa tutto... e gli
dice io sto rischiando ho rischiato... che poi me lo hai promesso tu non l'ho chiesto
io... e lui ha scritto quello che dovevano fare... quando è così tu vieni trattato...
nessuno ti rompe il cazzo nel carcere... vieni trattato... altrimenti ti metti contro le
guardie hai finito di campare... quello ogni piccola cosa ti fanno di tutto... ti aprono ti
chiudono". Le due guardie avrebbero consentito ai detenuti del clan di ricevere lettori
mp3, profumi e messaggi scritti e orali. E colloqui non previsti. In cambio, secondo
l'accusa, Micillo insieme al cognato Carlo Di Bona avrebbero ottenuto la gestione del
circolo Matrix 2 di Carpi e la partecipazione alla spartizione dei profitti del gioco
d'azzardo.
Un gioco viziato dal taroccamento delle slot e dei giochi online. Due bolognesi,
Gianluca e Maurizio Maselli, rispettivamente padre e figlio, vengono indicati come
fornitori delle slot del circolo-bisca di Carpi. Sarebbero stati loro a modificare gli
apparecchi intervenendo con modificazioni dei software mediante appositi
telecomandi, trasformava in apparecchi a rulli virtuali proibiti. E, scrivono i pm, "per
l'effetto, si procuravano un ingiusto profitto con altrui danno per i giocatori,
inconsapevoli che la modifica apportata comportasse prevalentemente la perdita; con
l'aggravante di aver commesso il fatto in danno dello Stato ed in particolare con il
Monopolio dello Stato che, a causa dell'alterazione come sopra precisata,
interrompevano il collegamento con lo Stato che, per l'effetto, non percepiva le
percentuali sulle giocate; con l'ulteriore aggravante del fine di agevolare le attività
del clan dei Casalesi". Un ingiusto profitto lo definiscono i pm. Tutto contabilizzato
in nero, con tanto di documentazione cartacea. Un affare che portava nelle casse del
clan 100 mila euro ogni due settimane. Per gestire una mole di denaro simile, il clan
si è affidato ad una donna, loana. Viveva con Antonio Noviello, ma è, secondo fonti
investigative, molto legata a Nicola Schiavone il rampollo imprenditore della
famiglia di "Sandokan" e profondo conoscitore della provincia modenese, tanto che
nel 2005 avrebbe vissuto per un breve periodo alle porte del centro di Modena. Ora è
in carcere, ma fino allo scorso anno era incensurato e i suoi affari da imprenditore si
diramavano fino in Romania.
Soldi estorti ai giocatori che ogni tanto vincevano cifre anche consistenti. Ma la
parvenza del rispetto alle sciagure altrui, gli uomini del clan, la devono mostrare. E
quando la giovane loana, di fronte a una vincita sostanziosa di un cliente, viene presa
dal panico, è un tale "Rocco" a tranquillizzarla. La figura di "Rocco" è di rilievo per
comprendere l'estensione e la collaborazione tra organizzazioni mafiose. Quell'uomo
a cui loana chiede lumi sul da farsi è Nicola Pernia. È di Gioiosa Ionica, profonda
Locride, provincia di Reggio Calabria. I magistrati lo indicano come il fornitore dei
giochi online delle bische e delle ricariche. Pernia sarebbe il socio occulto, secondo
la Dda, della Slot Point Production con sede a Varese. Titolare ufficiale risulta essere
una sua parente, in realtà sarebbe lui il fornitore dei circoli-bisca di Carpi e
Castelfranco gestite dal clan dei Casalesi. Secondo l'accusa avrebbe fornito i giochi
attraverso i quali veniva praticato il gioco d'azzardo. E sarebbe sempre lui l'incaricato
di rifornire i gestori delle ricariche necessarie per giocare d'azzardo online. Nicola
Pernia ha numerosi precedenti e nel 1998 viene arrestato per associazione mafiosa.
Nel 2002 la Dda di Reggio Calabria emette un fermo nei suoi confronti perché lo
ritiene elemento di spicco della 'ndrangheta della Locride con un ruolo ben preciso: il
business della droga. Viene trovato nel ravennate dove aveva aperto un negozio di
noleggio videogiochi, ma i magistrati sospettano che l'attività servisse da copertura.
Nonostante la sua clientela.
Marina di Gioiosa Ionica, da dove Pernia proviene, è feudo di 'ndrine potenti:
Coluccio, Aquino, Mazzaferro. Espressioni della 'ndrangheta transnazionale. Per
comprendere la caratura di uno dei boss delle 'ndrine citate è sufficiente portare ad
esempio l'arresto del boss Giuseppe Coluccio, arrestato a Toronto. I suoi inseguitori,
che lo cercavano da diversi anni, lo hanno trovato nel suo attico canadese con vista
sul lago Ontario. Una casa di pregio, dove all'interno custodiva diamanti e contanti.
Le auto che possedeva durante la latitanza erano all'ultimo grido, di lusso sopraffino.
Nicola Pernia proviene dallo stesso luogo di Coluccio. E secondo l'accusa sarebbe
perfettamente a conoscenza di tutte le attività illecite svolte all'interno dei due circoli
privati e della struttura del clan dei Casalesi. Lo dimostrerebbero le telefonate
intercettate nelle quali chi gestisce le bische richiede il suo intervento per risolvere
problemi legati alle apparecchiature elettroniche del circolo. A colpire è la
professionalità di Pernia che di fronte alle lamentele della donna del clan preoccupata
dalle vincite dei clienti, lui risponde laconico, i soldi "Come si prendono si danno...
a... Anca qual è il problema...". È la differenza di atteggiamento tra due culture
mafiose differenti. Quella del clan dei Casalesi fatta di irruenza e talvolta di ferocia.
Quella degli uomini delle cosche calabresi che valutano ogni situazione con la
lucidità dei professionisti. Soltanto se necessario arrivano ad agire seguendo le
pulsioni ataviche, che dallo stomaco salgono agli arti e armano le mani.
Un mondo parallelo, le bische. Si alimentano sulle perdite dei clienti, sui desideri
di "arrivare" al fine senza badare ai mezzi. E nel modenese sono numerosi i "circoli"
aperti e quelli scovati. Nel luglio 2009 è stato scoperto un circolo gestito da un
modenese doc, Giuseppe Arrighi. Insieme a lui vengono fermate altre quattro
persone di Modena. Loris Pinelli, Giovanni Aversano, Luigi Biolchini, Franco
Berselli. Il vignolese Pinelli avrebbe gestito la bisca clandestina modenese. Un ruolo
per lui di amministratore del "Circolo" per conto dei boss. Più i modenesi giocavano
nella bisca, più le casse del clan si ingrossavano e riuscivano a soddisfare le esigenze
di spesa dell'organizzazione mafiosa. I soldi venivano utilizzati anche per finanziare
la latitanza del boss Diana, per mantenere la sua famiglia e quella di Giuseppe
Caterino. Il Nord che ingrassa le cosche attraverso un'economia nera, nascosta. Che
viaggia su quel secondo binario invisibile, da Modena verso l'Agro Aversano. Pinelli,
qualche tempo dopo il suo arresto, dichiarò, insieme ad altri arrestati modenesi, di
essere un semplice cliente della bisca, finita sotto la lente degli investigatori. Pinelli
sarebbe stato contattato da Francesco Caterino, il giovane rampollo del boss
Giuseppe Caterino, e dal nipote di Raffaele Diana, "Rafilotto". Il giovane Francesco
fece capire a Pinelli che al clan spettava una percentuale dei lauti guadagni della
bisca. E lui, senza esitazioni, avrebbe acconsentito. Loris capì che i guadagni
sarebbero andati a gonfie vele se uomini del clan proteggevano la sua bisca. E
quando sentiva i capi pronunciare "i pacchi, preparate i pacchi", Loris insieme ai suoi
soci si mettevano a contare i soldi da far confluire nelle casse del clan. Biolchini,
invece, oltre a procacciare giocatori da "spennare come polli", avrebbe avuto un
ruolo pure nelle estorsioni. In una intercettazione Biolchini riferisce ad un
imprenditore "richieste che non vengono da me, io parlo per altri, parlo per gente
importante". Il sospetto è che Biolchini parlasse per conto degli uomini del clan.
Biolchini e Pinelli due modenesi legati che usufruiscono della forza del clan. Pinelli
conosce molto bene "O pazzo, Alfonso Perrone e il suo avvocato, tanto che
quest'ultimo in una telefonata con Perrone gli ricorda di salutare "Loris", Pinelli
appunto.
Indagini diverse, dove i personaggi si ripropongono e si conoscono l'uno con
l'altro. Tutte le vicende, dalle bische all'edilizia, ogni forma di manifestazione del
clan sul territorio modenese ruota attorno a quel vertice invisibile. Le stelle polari del
clan, Schiavone-Zagaria-Iovine. I flussi di denaro dall'Emilia vanno nelle casse
dell'organizzazione, rientrano alla "Casa madre" per poi risalire la penisola,
ricomparire e prendere la forma dell'usura, di palazzi, di auto di lusso, società,
appartamenti, bar, ristoranti, attività commerciali, alberghi. O grandi opere
pubbliche. Di nuovo, le due economie che si incrociano, l'una inietta all'altra il
veleno mortale. Che nel lungo periodo potrebbe esserle fatale.
5. Disco 'ndrangheta
Nessuno avrebbe udito le sue urla disperate. Avevo esaurito le mie forze e le mie
gambe non mi sorreggevano più. E così decisi di avviarmi verso il parcheggio del
locale. Se le mie gambe avessero retto qualche minuto in più, neppure io avrei
sentito il lamento di quel ragazzo che chiedeva aiuto. Rantolava come un cane
bastonato. Sanguinava dal sopracciglio e dallo zigomo. Gli occhi a palla. Le sue
pupille dilatate imploravano aiuto. Un soccorso.
Milano, viale Certosa, alle quattro di notte è un via vai di macchine che sfrecciano
veloci, sfiorate dalla luce dei lampioni. Corrono rapide. Sorde ai rumori del mondo
esterno. A dicembre, il freddo nell'ex capitale morale d'Italia è di quello che ti entra
nelle ossa. Quella notte il termometro indicava dieci gradi sotto zero.
È lì davanti a me, riverso sul terriccio ghiaioso. Da quei sassi appuntiti e
ghiacciati che spingevano sul suo costato gonfio di ematomi, riceve un misero
sollievo. Passano pochi minuti. Intorno a noi il silenzio, interrotto dal ronzio delle
auto e dagli spifferi musicali che fuoriescono dalla discoteca. La mia pazienza si
esaurisce in fretta. Lo carico in spalla fino alla mia auto. Metto in moto, parto.
Direzione pronto soccorso. Quel ragazzo dagli occhi smarriti che ho soccorso si
chiama Luis. Nel tragitto comincia il racconto della violenza subita. "Ero in bagno
con una ragazza. Mi ha chiesto se avevo della 'bamba' da vendere. E ne avevo. Le ho
dato in mano due pezzi per qualche botta... due, tre al massimo, forse mezzo grammo
in tutto. A quel punto entra 'il calabrese'. Lì fa pure il buttafuori. Una montagna
d'uomo. Non pensavo che se la prendesse per mezzo grammo di coca. Mi afferra e
urla: 'Mò veni cu mia'. Ma nemmeno m'ascolta mentre mi trascina fuori dal retro e
chiedo scusa. Cazzo, mi ha dato tanti schiaffi che stavo per svenire e vomitare...
Continuo a implorarlo ma finisco a terra e non riesco più a parlare dopo un calcio in
bocca. Sputo sangue e mi rendo conto che se ne sta andando. Poi si gira, si abbassa,
mi prende per i capelli e dice: «Qua non vendi un cazzo, la prossima volta
t'ammazzo»". Non tutti possono spacciare al Madison di Viale Certosa. Quando il
locale apparteneva alla 'ndrangheta del boss Franco Trovato e ai suoi sodali, le regole
dello spaccio erano ferree. Un collaboratore di giustizia ha raccontato, ai magistrati,
che all'interno del Madison la gestione dello spaccio della "bamba", della "barella",
ossia della cocaina, e dell'hashish è stata affidata agli uomini di fiducia di Franco
Trovato. Franco Trovato è uno 'ndraghetista spietato che tra Lecco e Milano, a
cavallo degli anni Ottanta e Novanta, ha seminato il panico tra gli imprenditori. Sulle
loro spalle ha accumulato un patrimonio immenso attraverso estorsioni, usura,
acquisizioni di quote societarie e droga. Ricchezze che ha successivamente
reinvestito nell'economia legale. Trovato è un boss legato agli Arena di Isola Capo
Rizzuto e ai De Stefano-Tegano di Reggio Calabria, 'ndrine padrone della Calabria.
La storia di Trovato è legata alla Lombardia. È stato un punto di riferimento per gli
'ndranghetisti che muovevano i primi passi alla conquista dell'hinterland milanese.
La squadra di Trovato è tosta. È feroce e ha fiuto per gli affari. Sono tra i primi
mafiosi a intuire che la cocaina sarebbe diventata l'oro bianco della 'ndrangheta.
Sfruttano gli agganci con il Sud e Centro America e si appropriano di alcuni canali
privilegiati per vendere la cocaina. Comprano locali. Bar, discoteche, pizzerie. Le
stesse che sequestrano a Franco Trovato quando viene catturato. Un patrimonio
andato in fumo a cui si aggiungono auto di lusso, società finanziarie e immobiliari.
Giuseppe Di Bella è un collaboratore di giustizia. Ha fatto parte della cosca di Coco
Trovato. Era un fidatissimo del boss. Con le sue dichiarazioni ha permesso di
condannare decine di mafiosi. L'anno scorso decide di vuotare di nuovo il sacco. E
questa volta parla dei padrini politici di Coco Trovato. Le sue dichiarazioni finiscono
in un libro, scritto da Gianluigi Nuzzi, dal titolo "Metastasi". La prima copia è finita
sul tavolo del procuratore capo di Roma. Di Bella indica l'ex ministro Castelli come
il cavallo su cui Coco Trovato punta per le elezioni. Indica imprenditori e cavalieri
del lavoro di Lecco che hanno contribuito a rafforzare l'impero creato dal boss
spietato. Descrive un sistema che spiega l'origine del potere della 'ndrangheta in
Lombardia. Un sistema fatto di corruzione, connivenze, collusioni, violenza e
denaro.
Arrestato il boss, entrano in scena Mario Trovato ed Emiliano Trovato, rampollo
di Franco. Prendono le redini del comando. Al loro fianco i fedelissimi del boss
ergastolano Franco Trovato: Palmerino Rigillo, Vincenzo Falzetta, Angelo e
Vincenzo Musolino. Una strada spianata, verso l'olimpo della 'ndrangheta. Una storia
criminale che il capobastone Trovato ha scritto con il sangue degli innumerevoli
omicidi cruenti. Un nome, quello di Franco Trovato, che ancora oggi fa tremare i
commercianti e gli imprenditori, a Lecco come a Milano, in Calabria come in
Lombardia. Già dagli anni Ottanta, a Lecco, Franco Coco Trovato ha avuto ordine di
costituire un Locale di 'ndrangheta in Lombardia. Che diventa un punto di
riferimento per quelli che successivamente hanno messo radici in Lombardia. E per
pianificare vendette nel nord Italia. Terra promessa della 'ndrangheta.
Il boss Trovato arriva in Lombardia nel 1967. Di sua spontanea volontà. Al
contrario dei suoi boss colleghi, Trovato non raggiunge il Nord con quella sciagurata
misura antimafia del soggiorno obbligato. Quando giunge in Lombardia lo fa da
emigrante, non da capobastone. La sua carriera è legata alla società lombarda. In
tutto e per tutto. Durante i primi anni, Franco, il boss originario del catanzarese,
lavora come muratore. Alza i muri delle case che in quegli anni contribuivano a
ingrossare la densità abitativa delle città industriali del Nord. È faticoso quel lavoro.
Tanti emigrati calabresi lo fanno. Ogni mattina sveglia alle 5. E via fino al tardo
pomeriggio. Oltre dodici ore al giorno. Per costruire le città dormitorio, i quartieri-
città. Ghetti moderni, dall'architettura funzionale, dove stipare gli emigrati
meridionali. Quella vita è, per il futuro boss, un'esistenza misera. Chiede altro,
Franco. E inizia la sua scalata verso il potere, desidera il riconoscimento e il rispetto.
Comincia con i reati minori, con le risse, i furti. Poi con gli omicidi. Attorno al suo
carisma crea un esercito di giovani e forma il consenso che gli permette di diventare
l'uomo di riferimento del quartiere. Ha inizio così l'ascesa della cosca Coco Trovato.
Un cognome che nel 1991 subirà un cambiamento anagrafico. Un riconoscimento di
paternità che muterà il cognome Coco Trovato in Trovato. Ma nella storia mafiosa
lombarda rimarrà celebre come Franco Coco Trovato. Viene arrestato nel 1992. Il 31
agosto del '92 Franco Coco Trovato è nel suo bunker quando scatta il blitz che lo
porterà in carcere a Foggia. All'interno del ristorante pizzeria Wall Street, quello è il
suo bunker, il suo regno. È il luogo dove gli affiliati programmano strategie, omicidi,
intimidazioni. Scelgono gli imprenditori da strozzare con l'usura.
Wall Street è un simbolo del potere di Franco Coco Trovato. Rappresenta il suo
casato. Le cui radici sono immerse in una cultura mafiosa che fa del piombo e del
sangue i mezzi per raggiungere il fine del loro agire. Il potere economico della cosca
fa impressione. A partire dagli anni Ottanta hanno realizzato un'accumulazione
selvaggia di capitali. Ristoranti, pizzerie, locali notturni, bar, immobiliari, società
finanziarie. L'anno successivo all'arresto del boss, scattano i sequestri preventivi dei
beni riconducibili a Coco Trovato e ai suoi sodali. Beni che sono frutto delle
violenze, della ferocia, dei morti, che Coco Trovato insieme al suo pari grado Pepe
Flachi, ha perpetrato per un ventennio. Dal '70 al '92, anno del suo arresto. Il potere
della cosca è anche finanziario. La guardia di finanza gli sequestra due società
finanziarie, Finadda e Ap Leasing. E immobiliari come la Città Arreda. Wall Street.
Una denominazione che rimanda all'alta finanza. Il locale, intestato alla moglie
Bustina Musolino, sorella di Vincenzo Musolino, legato da interessi affaristici con il
boss, è teatro di soprusi. Come quello raccontatomi da un imprenditore originario di
Lecce, trasferitosi a Milano negli anni Ottanta, per lavorare con la propria impresa
edile. Per la sua azienda è subito successo. Lavori aggiudicati, profitti che
aumentano. Il sogno dell'emigrato che si realizza. Fino a quando a sbarrargli la strada
arriva Coco Trovato. Il boss a cui non sfuggiva il minimo movimento economico che
avveniva sul territorio di sua competenza. Il boss vuole la sua azienda. E lo minaccia.
L'imprenditore non si piega. E denuncia. Sarà tra quelli che testimonieranno contro il
boss al processo Wall Street. E oggi ha realizzato un'associazione antiracket nella sua
Puglia dove è tornato a lavorare avviando un'altra impresa.
Nel suo racconto indica il ristorante Wall Street come il covo dove è stato portato
per intimidirlo e minacciarlo di morte. "Gli scagnozzi di Coco Trovato mi hanno
portato al piano inferiore della pizzeria, il regno di Coco Trovato". La storia del boss
Coco Trovato è fatta anche di legami profondi con famiglie 'ndranghetiste della
provincia di Reggio Calabria. Giuseppina Trovato ha sposato Carmine De Stefano, il
rampollo primogenito del capobastone Paolo De Stefano. Protagonista, carnefice e
vittima, della seconda guerra di 'ndrangheta. Una guerra che ha contrapposto le
cosche Imerti-Condello-Serraino ai Tegano-Libri-De Stefano. E che ha lastricato di
sangue le strade di Reggio Calabria e della sua provincia. Una città trasformata in
campo di battaglia per sei lunghi anni. Che ha visto dal 1985 al 1991 oltre seicento
morti ammazzati. Vendette che sono state esportate anche fuori dai confini regionali.
A Milano, Modena, Bologna. Un impero, quello di Franco Trovato. Retto da alleanze
che contano, da Reggio a Crotone. De Stefano e Tegano gli alleati nel reggino, gli
Arena di Isola Capo Rizzuto nel crotonese.
Tutto questo Luis non poteva saperlo. Appena ventenne e distratto dai rumori
della frenesia milanese la sua attenzione è rivolta al divertimento veloce, da
consumare in pillola o in strisce. E in questo genere di divertimento che la
'ndrangheta riesce a inserirsi. Capire l'origine della busta che ha in tasca, a Luis non
interessa. Così come non gli interessa conoscere chi sono quelli che l'hanno
malmenato perché pusher non autorizzato. È indifferente alle violenze commesse da
quelli a cui lui, ogni fine settimana, offre i propri denari. Gli interessa soltanto
portare a casa la pelle. E viaggiare fuori dai corridoi legali, percorsi durante la
settimana lavorativa. Evadere! È l'imperativo che muove le gambe di Luis. E lo
spinge nei locali della movida milanese gestiti dalle cosche della 'ndrangheta.
Cafè Solaire, Madison, Le Monde. Erano le discoteche della 'ndrangheta a
Milano. Vincenzo Falzetta, 'ndranghetista legato a Franco Coco Trovato era il socio
di maggioranza della società che gestiva la discoteca Madison. Fin dal 1994, Falzetta
possedeva il cinquanta per cento delle quote. Proprietario del locale e dipendente
della società responsabile della sicurezza del locale. Nella doppia veste di socio e
buttafuori, nel 2002, aveva chiesto al prefetto il rilascio del porto d'armi. Il fratello di
Vincenzo Falzetta detto "Banana", era socio dell'altra disco-'ndrangheta. Il Cafè
Solaire.
Il disco-bar Cafè Solaire si trovava nel Comune di Peschiera Borromeo, sulle
sponde dell'idroscalo milanese. E, come hanno messo in luce le indagini, anche il
locale dove avvenivano gli scambi di coppie era "roba di 'ndrangheta". Il club Le
Monde. Nelle intercettazioni gli 'ndranghetisti che fanno capo a Coco Trovato
parlano dei locali come "cosa loro". E si spendono per i rinnovi delle licenze. Tanto
da cercare appoggi tra gli allora amministratori della Provincia.
All'interno delle disco - 'ndrangheta ogni servizio era soggetto all'influenza
mafiosa. Dallo spaccio alla scelta delle agenzie di sicurezza. Tra gli arrestati
dell'operazione Oversize che ha portato all'arresto di Falzetta e del figlio di Trovato,
Emiliano, sono emersi numerosi riferimenti a uomini della cosca che erano addetti
alla sicurezza dei locali di proprietà degli 'ndranghetisti. Un servizio che assicura
posti di lavoro e permette di controllare lo spaccio all'interno dei locali. Spaccio che
gonfiava i profitti della cosca. L'uomo della cosca addetto alla vendita della coca, nei
locali della cosca, era Palmerino Rigillo, cugino di Vincenzo Falzetta. Un "lavoro"
che gli permetteva di guadagnare dai 25 ai 30 milioni ogni mese. Era autorizzato a
vendere anche fuori dal locale, purché la polvere bianca la comprasse dalla cosca di
Coco Trovato. Palmerino maneggiava 30-40 chili di cocaina al mese. L'oro bianco
veniva stoccato in un deposito a Lecco. E successivamente suddiviso per il mercato
lombardo e Toscano. Ma non solo. Grossi quantitativi venivano inviati alle cosche
della costa Ionica e della provincia di Reggio Calabria. Nord e Sud in presa diretta.
Il costante collegamento tra Sud e Nord è il simbolo di una 'ndrangheta che non
conosce confini. O frontiere. Che con il suo "oro bianco" invade i mercati, abbatte
muri ed erige imperi. La 'ndrangheta è considerata monopolista nel traffico di
cocaina. Un traffico che ha vari livelli. E le 'ndrine stanno nei due livelli più alti,
quello dei finanziatori e degli intermediatori, attori che lavorano nell' ombra,
invisibili. Stabiliscono contatti e forniscono capitali. Il lavoro sporco lo lasciano ad
altri. Ai grossisti e ai pusher, i cosiddetti "cavalli" che non contano nulla nella
struttura mafiosa. La cocaina è il collante che omologa l'estrema periferia nord
dell'Italia con la sua periferia Sud. Un'Italia a strisce che la 'ndrangheta fagocita e
sfrutta per accumulare denaro. Soldi dall'odore acre di "bamba", di coca, che
dall'economia criminale sgorgano nel sistema economico legale. Lo invadono, lo
inquinano, lo drogano. Due facce della stessa medaglia. La cocaina diviene negozi,
centri commerciali, supermercati, palazzi, camion, gru, sale bingo, locali. E
discoteche nelle quali il traffico ritrova linfa vitale. Giovani da anestetizzare, da
intossicare e condurre sui Dinari morti dell'indifferenza.
Come Luis. Che ritiene pesanti certi discorsi da intellettuali. Che considera
l'euforia dei fine settimana l'unica arma per sostenersi dall'incertezza. Per non
sprofondare nella precarietà che la modernità ha innalzato a sistema. Preferisce
confrontarsi con i gorilla della 'ndrangheta. Offrire i soldi ai pusher autorizzati dalle
cosche. Pronto ad offrirne altrettanti per bere le pozioni alcoliche vendute dai bar dei
locali notturni della 'ndrangheta. Un fiume di soldi che Luis ogni fine settimana
sacrifica sull'altare dei boss. In nome del delirio sensoriale per dimenticare. O più
semplicemente, per non pensare. Luis è solo un militare dell'esercito in cerca di
sballo. Che versa denaro pulito nelle casse delle cosche in cambio della loro merce
tossica. Quelli come Luis lavorano duro tutta la settimana. Ragazzi e ragazze che
guadagnano con dignità il loro stipendio. Soldi frutto del lavoro settimanale che le
cosche intercettano silenziosamente. Ragazzi e ragazze che gonfiano i profitti della
'ndrangheta senza rendersi conto delle conseguenze delle loro azioni. Debolezze
trasformate in vizi, che le cosche della 'ndrangheta sfruttano e spremono per i propri
interessi.
Interessi diffusi. Che uniscono le diverse famiglie della 'ndrangheta. E tra di loro
si danno una mano. Come è avvenuto a un uomo della famiglia Pesce di Rosarno.
Nel 2005 è Palmerino che gli concede l'autorizzazione ad aprire un baracchino per
vendere panini all'esterno della discoteca. E gli promette un posto privilegiato tra i
tanti, occupati da altri venditori. Un privilegio concesso a un affiliato di una cosca
che ha fatto la storia mafiosa della Calabria. E se nel 2005 erano i Pesce a chiedere il
permesso al gruppo egemone per non scatenare l'ira del rampollo Trovato, dal 2007
al 2011 il contesto muta. Il gruppo di Coco Trovato ha subito condanne e i Pesce
s'intromettono nella gestione del pizzo dei paninari fuori dai locali. Che insieme alla
cosca Plachi esigono le mazzette dai venditori ambulanti di panini con la salamella
milanese.
Una 'ndrina potente, quella dei Pesce. Che a Rosarno ha il suo feudo. Il boss
Peppe Pesce è stato indagato, negli anni Ottanta, per l'omicidio di Peppe Valarioti, il
segretario del Pci di Rosarno ucciso l'11 giugno 1980 dopo la festa con i compagni di
partito per la vittoria elettorale. Rosarno è anche il paese di Domenico Oppedisano. Il
capocrimine, il massimo grado della 'ndrangheta, finito nella rete degli investigatori
insieme ad altre trecento persone, nell'ambito dell'operazione Crimine. Una vasta
indagine che ha confermato dopo tanti anni l'esistenza di un organo di governo della
'ndrangheta, sfatando quella descrizione che la vedeva come un'organizzazione
fondata soltanto su una struttura orizzontale, tribale. "Questa volta c'è proprio di tutto
e di più per consacrare, in una sentenza, quello che ripetiamo da decenni", e cioè che
la 'ndrangheta è dotata di una struttura di vertice. È un passo della requisitoria di
Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, pronunciata a
ottobre 2011 durante il processo Crimine e nella quale ha chiesto la condanna di 118
imputati per un totale di quasi 1700 anni di carcere.
Gli interessi della 'ndrangheta nel mondo dei locali notturni non si arrestano a
Milano. Arrivano in Emilia Romagna. E proseguono fino a Roma. Nei dintorni di
Parma una discoteca era finita in mano ad alcuni uomini della 'ndrangheta. Non è più
roba loro, è stata ceduta. Le luci che illuminano le notti della Riviera romagnola sono
anche quelle dei locali della 'ndrangheta. A Reggio Emilia una famosa discoteca,
l'Italghisa, ha cambiato proprietà da quasi due anni. I proprietari sono i fratelli
Antonio e Cesare Muto. Nel giugno del 2009 Salvatore Grande Aracri, nipote
trentunenne di Nicolino Grande Aracri detto "Mani di gomma", capobastone della
cosca di Cutro da anni insediata nel Reggiano, è stato fermato dai carabinieri a
Brescello. Il paese di Peppone e Don Camillo, il celebre romanzo di Guareschi. Il
nipote del boss vive lì. È un imprenditore edile. Ma frequenta spesso la discoteca
reggiana. E lì che lo portano i carabinieri dopo averlo prelevato nella sua abitazione
di Brescello. Al primo piano c'è un monolocale dove custodisce cocaina e munizioni.
Secondo alcuni, Salvatore Grande Aracri sarebbe uno dei soci. Ma secondo i
proprietari e gli ex titolari, Salvatore sarebbe soltanto un dipendente. O al massimo
un pr. Nulla di più. È tornato libero, assolto dall'accusa di spaccio e detenzione di
armi. Ma fanno riflettere le parole del teste chiave, Luigi Boschetti. Il custode della
discoteca, che avrebbe dovuto avere le chiavi di quel monolocale dove furono trovati
droga e munizioni. Con parole incerte e confuse, ha sostenuto di aver ricevuto
minacce telefoniche anonime. Successivamente ha affermato che le chiavi di quel
monolocale, qualche giorno prima dell'irruzione dei carabinieri, le aveva date a
Salvatore Grande Aracri. "Poi le ha tenute lui - ha sussurrato Boschetti - e io non ne
ho più voluto sapere". E ancora il binomio divertimento-'ndrangheta che aleggia sui
desideri di evasione dei giovani. La conferma del rapporto tra i soci e il figlio del
boss, sta in una società immobiliare con sede a Reggio Emilia. Muto e Grande Aracri
sono stati soci. Non nella discoteca, è vero, ma in altri affari. Il che dimostra che i
titolari conoscono Salvatore Grande Aracri.
Luis mi guarda ancora attonito e gonfio di ematomi. Ha gli occhi lucidi e persi.
Sono già proiettati nelle prossime serate della movida milanese. Quello che gli è
successo, le botte che ha incassato le considera un incidente possibile di una serata
vissuta al massimo. "Sabato prossimo c'è Ralf al Madison, non posso mancare. È un
dj da paura!", sdrammatizza con un sottile sorriso amaro sulle labbra.
È già venerdì. È trascorsa una settimana da quando ho accompagnato Luis al
pronto soccorso. La movida notturna milanese dei fine settimana vissuti, non stop è
alle porte. Squilla il cellulare. Rispondo. È Luis. "Sei carico per stasera? Ti porto al
Cafè Solaire. Ma senza finire la serata steso a terra, promesso! La 'bamba' la porto
solo per me, non vendo nulla così i gorilla non mi sbattono fuori". Ricomincia così,
Luis. Indifferente all'umiliazione subita. Freme per la "notte bianca" che si prospetta
nel locale delle cosche. Attende quella prima striscia che lo ricondurrà nella matrice
della realtà dove tutto è possibile, anche essere felici. La coca, per i ragazzi come
Luis, diventa metafora di una vita. Di un'esistenza da consumare in un lampo. O in
una striscia. È il simbolo di una società ustionata dall'egoismo competitivo.
L'egoismo come la cocaina, pervade l'organismo, se ne impossessa, arriva dritto al
cervello. E difficilmente se ne riesce a fare a meno. Spendere, consumare, sniffare
per non crollare, è l'imperativo che muove gli arti di Luis. E che ingrassa le casse
della 'ndrangheta.
6. Sua sanità il boss
Anche Peppe aveva lasciato la Locride. Dopo il diploma però, a differenza di me.
La maturità in Calabria segna in maniera netta un solco. Scegliere di andare via da
quella terra arida di possibilità. Oppure rimanere. Barcamenarsi tra un lavoretto e una
raccomandazione. Tra un favore e un privilegio. In attesa del posto richiesto. Che
spetterebbe per diritto. Diritto che in Calabria, nel Meridione, assume le forme del
favore e del privilegio. E per la professione che Peppe ha scelto, lavorare nella sua
terra, vuol dire entrare in contatto con l'Onorata Sanità. Guardarla negli occhi e
subire la sua prepotenza. Fare il medico in Calabria può essere pericoloso. Può essere
fatale. Il rischio è di rimanere strozzati dagli interessi della 'ndrangheta vestita con il
camice bianco.
Aveva deciso, Peppe. Era partito per andare a studiare medicina a Pavia.
Terminati gli studi sono iniziati i calvari professionali. Turni estenuanti riservati ai
giovani medici, vita sociale nulla, precarietà e incertezza. Poi la svolta. Ottiene
l'assunzione. In una clinica privata, "ma meglio di niente", ripeteva con amara
soddisfazione. Un posto sicuro che fa contenti mamma e papà. Un'occupazione che
finalmente gli permette di progettare e realizzarsi. Si ritiene fortunato, tanti altri suoi
coetanei arrancano, non arrivano a fine mese. Disoccupati laureati, laureati sfruttati,
sottopagati. E quando riusciamo a incontrarci mi fa notare con la sua solita e
pungente ironia: "Vabbò, giornalista, era meglio se lavoravi a cottimo nelle
campagne di Rosarno, almeno lì 25 euro al giorno li prendono, meglio che 4 euro ad
articolo, è questo il nuovo tariffario del vostro ordine vero?". Peppe è un personaggio
a Pavia. Lo conoscono tutti. E nell'ambiente degli emigrati calabresi si fa volere
bene. Ora ha una posizione. È uno dei medici di punta del reparto neuro riabilitativo
della clinica della Fondazione Maugeri, alle porte di Pavia. Un biglietto da visita di
tutto rispetto per un giovane di appena trent'anni che si è fatto da solo, senza dovere
abbassare la testa davanti a nessun boss o politico. Vive bene a Pavia, è tranquillo. La
sua casa, il suo mondo, le sue amicizie. Amici tra gli emigrati calabresi, ma anche
tante relazioni con la gente del luogo. Sembrano lontani quei momenti avvolti dallo
sconforto. Anni vissuti in Calabria tra la puzza di morte che ha abbrutito un'intera
comunità, bagnata dalle lacrime degli orfani soli. Con la paura di non vedere l'alba
del giorno dopo, di sottostare, di pagare sgarri inventati dal potente di turno.
Ma il passato ritorna. E bussa alla porta del presente con insolenza. Non bussa
due volte la 'ndrangheta. Il tempo di intercettare con l'olfatto il suo puzzo di marcio e
udire i suoi gemiti di bestia affamata, ed è già troppo tardi. E Peppe se la ritrova sotto
gli occhi. Sotto le mani coperte dai guanti di lattice che utilizza per le visite.
Era davanti a lui. E Peppe non voleva crederci. L'ha riconosciuto, perché il
medico venuto da Bovalino continua a seguire le vicende del suo Paese. Riconosce i
volti dei saccheggiatori che ci hanno rubato sogni e futuro. Di quei macellai del
nostro avvenire, Peppe, conosce la loro natura camaleontica. Cerca di fare
l'indifferente, di non farsi riconoscere, ma l'accento di Peppe è ancora forte. La
cadenza della Locride non passa inosservata soprattutto se l'interlocutore viene dalle
terre della Magna Grecia. Non aveva mai incontrato un latitante, Peppe. Era la prima
volta. E mai si sarebbe immaginato di incontrare Francesco Pelle, detto "Ciccio
Pakistan", nella clinica di lusso dove svolgeva la professione di medico.
Francesco Pelle è ritenuto organico alla cosca Pelle-Vottari di San Luca. Dal 1991
è contrapposta alle famiglie Nirta Strangio, in una sanguinosa faida che ha avuto il
suo culmine nell'agguato di Duisburg, in Germania, il 15 agosto 2007. Una
carneficina con sei morti ammazzati della cosca Pelle-Vottari che stavano tenendo un
summit nel ristorante Da Bruno, durante il quale sarebbe stato affiliato un giovane
calabrese. Affiliazioni e riti che non conoscono limiti territoriali. Da San Luca alla
Germania, da Modena all'Australia, da Reggio Emilia a Milano, i caratteri arcaici
della 'ndrangheta vengono riproposti con meticolosa dedizione. È la forza della
'ndrangheta, la sua miscela di arcaico e moderno la rende la più potente e segreta
organizzazione mafiosa al mondo. Il 30 maggio del 2008 la Casa Bianca ha inserito,
insieme ai signori della droga afghani, venezuelani, messicani, ma anche al Pkk
curdo, la 'ndrangheta organization nel cosiddetto "Kingpin Act", un elenco di
organizzazioni malavitose straniere implicate nel traffico mondiale di droga, alte
quali gli Stati Uniti si impegnano a negare accesso al sistema finanziario e a tutte le
transazioni di mercato che coinvolgano propri cittadini o aziende. E anche la Dea,
l'agenzia federale antidroga, è preoccupata per il potere enorme accumulato
dall'organizzazione mafiosa calabrese in tutto il mondo.
Che fare, riflette Peppe. Il nome della sua cartella clinica non corrisponde alla sua
reale identità. È combattuto, Peppe. Magari, pensa, si sta sbagliando. È un abbaglio.
Deciso ormai di non chiedere nulla di specifico, per il momento, al nuovo paziente
sulla sedia a rotelle, inizia la visita di routine. Pasquale, così era scritto sulla cartella
clinica, sembrava un ragazzo a modo, come dicono a Pavia. Dopotutto, si convinceva
Peppe, se fosse latitante non avrebbe avuto facile accesso nella Clinica, fiore
all'occhiello della sanità lombarda.
È luglio e Peppe vorrebbe essere altrove. Lontano da quell'afa padana che
intossica spirito e polmoni. Vorrebbe godersi il sole "du paisi", del paese dove è
cresciuto. Bagnarsi nelle acque dello Ionio. Certo, pensa, se nella Locride ci
offrissero possibilità reali di realizzazione professionale, chi avrebbe abbandonato
quel cielo azzurro, terso, e chi avrebbe avuto il coraggio di staccare l'olfatto da quei
profumi avvolgenti di gelsomino e salsedine che ammaliano i sensi. La nostalgia
dell'emigrato è una bestia terribile e una compagna inseparabile. Trapana l'anima, la
svuota di senso. Per poi riempirla con i ricordi dell'infanzia, degli affetti, dei
pomodori appena raccolti, delle piccole olive verdi, del basilico che cresce con la
forza degli alberi, della menta dai rami robusti, degli amici con cui si condivide la
stessa sorte di viandanti. E di nuovo si sovrappongono i frammenti dolorosi del
passato. Un paese snervante nel suo immobilismo. Impassibile a osservare le sue
giovani menti partire, i suoi fiori migliori falciati dalle lupare e dai kalashnikov delle
'ndrine, i morti ammazzati sui marciapiedi, le donne e gli uomini che spariscono nel
nulla o nella voragine dell'Aspromonte.
Alla fine di ogni sua riflessione, farcita di malinconia, con la morte dentro il
cuore, Peppe è costretto ad ammettere che "la scelta di partire è stata la cosa giusta.
L'unico modo per vivere la normalità del quotidiano da uomo libero". E ha imparato
ad accontentarsi, Peppe. Alla granita sul Corso e al latte di mandorla sorseggiato di
fronte al mare ha sostituito una passeggiata sotto i portici di piazza Vittoria della
cittadina lombarda. Alle gite in Aspromonte, le escursioni sulle Alpi. Ai maccheroni
fatti in casa con il ferro, i pizzoccheri valtellinesi. Al pecorino fresco dei pastori
aspromontani, i formaggi morbidi del Pavese. Mancavano poche settimane alle ferie
estive. Ancora qualche sforzo e poi Calabria. Mare. Sole. Serate con gli amici. E falò
per non dimenticare chi siamo. E ricordare tra un accordo di chitarra e un brindisi le
nostre scorribande giovanili.
La segretaria della clinica ha comunicato a Peppe che il nuovo arrivato è stato
presentato da una lettera di raccomandazione di un noto professore di Milano. È
confuso, sbalordito da tante reverenze rivolte a "Ciccio Pakistan". Passano i giorni.
Peppe scruta, analizza, dà consigli, scherza con Pasqualino, come si fa chiamare il
nuovo degente raccomandato dal professore milanese. Peppe sente che maschera
l'accento. E avverte un senso di disagio quando un giorno origlia il paziente,
misterioso ai suoi occhi, vantarsi con gli altri degenti delle numerose proprietà a sua
disposizione. Racconta di terreni, case, auto. "Che tipo", pensa Peppe. Lo vede
sempre al computer. Comincia a insospettirsi. E i suoi dubbi diventano certezze
quando nella gamba gli trovano frammenti di proiettile. A quel punto lo assale il
terrore. Le ombre e i dubbi si rarefanno. Ottiene la conferma della reale identità del
paziente che sta curando. Francesco Pelle, detto "Ciccio Pakistan". Un rampollo della
'ndrangheta. "Uomo" che appartiene a casati importanti. Quelli dei Pelle-Vottari. Ma
anche parente della 'ndrina dei Morabito di Africo, i padrini dell'Ortofrutta milanese.
"Ciccio Pakistan" è l'autore della strage di Natale 2006, in cui perse la vita Maria
Strangio, la moglie di Giovanni Luca Nirta, un pezzo da novanta della cosca Nirta-
Strangio. Un agguato in risposta all'attentato subito il 31 luglio dello stesso anno. È
in quell'occasione che gli sparano quattro colpi di lupara. In condizioni disperate
viene trasportato all'Ospedale di Locri, poi Reggio Calabria. Le donne di casa si
disperano e intanto lavano i pavimenti, prima dell'arrivo dei carabinieri. In ospedale,
una ventina di amici e parenti occupano fisicamente la corsia, temendo che qualcuno
arrivi per terminare il lavoro. In una clinica del Nord, con il passare dei giorni e delle
analisi dei medici, prende atto che non camminerà più. Per "Ciccio Pakistan"
vendicare la paralisi inflitta è necessario a dimostrare l'onore di cui si è imbottito la
testa, di cui ormai è succube. Paralizzato dalla cosca avversaria nel giorno della
nascita del suo primo figlio, è un affronto che merita una risposta spietata, da vero
boss 'ndanghetista. Decide così, nonostante la cosca di riferimento fosse in
disaccordo, di riunire alcuni sodali e bagnare con il sangue il Natale 2006 di San
Luca, il cuore pulsante delle tradizioni arcaiche della 'ndrangheta.
Muore Maria Strangio e viene ferita una bambina. Quella di Ciccio Pakistan è
un'azione forte. Francesco Pelle non ha la caratura di capo, è un soldato irrequieto
con tanta voglia di emergere. Ad Africo, nella Locride, dopo la cattura del boss
Peppe "Tiradritto" (Giuseppe Morabito) pensava di fare carriera destabilizzando la
cricca del governo 'ndranghetista. La sua ambizione di ascesa della piramide
'ndranghetista si è spenta su quella sedia a rotelle. E con la feroce risposta dei Nirta-
Strangio. Con l'agguato di Duisburg, sei morti ammazzati nella notte del ferragosto
2007. Un massacro compiuto in una terra straniera che la 'ndrangheta conosce a
meraviglia. Dove le cosche calabresi da decenni trafficano cocaina e reinvestono
ricchezze illecite nella ristorazione e nella finanza. È pensieroso, Peppe. Respira a
pochi centimetri dallo 'ndranghetista. Il suo istinto gli dice di andare dalla polizia.
Ma qualcosa lo blocca. Pensa alla Locride. Ai tempi bui. Al fatto che se Francesco
Pelle è lì, in quella rinomata clinica, gode di una rete di appoggi di primo piano.
Come può un latitante sulla sedia a rotelle passare inosservato, si chiede.
Passano i giorni. Arriva agosto. E torna nella sua casa di Bovalino. Non vuole
pensare. Tace. Non racconta nulla. Soltanto pochi giorni prima di partire decide di
sfogarsi con me. Era una delle ultime serate. Trascorse tra birra sui lungomari dei
paesi della Locride e granite assaporate nella storica piazzetta di Ardore superiore.
Tornati a casa, come d'abitudine, aspettammo l'aurora sulla spiaggia. Ancora
discussioni interminabili su cosa siamo diventati, quali le nostre mete, i perché del
nostro presente. Dialoghi che macinavano minuti, ore. Fino a che non compariva
quel caleidoscopio di colori tenui. Accennati. Che il cielo ci regalava. L'aurora è la
notte che si fa giorno. È quel momento in cui il nuovo dì si fa spazio nel blu stellato
d'agosto. Notte e giorno convivono. E lasciano spazio alle nostre ingenue
immaginazioni. Fatte di futuri vissuti nelle terre dove siamo nati. Di memorie che si
fanno lotta. Di battaglie che urlano giustizia.
Con il cielo che dal blu sfumava al rosa, Peppe mi guarda e scoppia in lacrime. Si
sente un codardo. E racconta del suo paziente paralizzato. Il suo malessere m'invade
e comprendo i suoi dubbi, i suoi timori. Ma si è convinto, vuole raccontare di "Ciccio
Pakistan" alla polizia.
Neppure il tempo di indossare il camice che due medici mai visti prima d'ora lo
chiamano in disparte e gli comunicano che stanno per fare un'irruzione mascherati da
dottori della Clinica. L'obiettivo è "Ciccio Pakistan". Il latitante ha i minuti contati.
Quando i finti medici entrano nella camera, il latitante ha un sobbalzo. Teme per la
sua incolumità. Più che del carcere lo intimoriscono i nemici di cosca. Peppe
osserva. Gli fa rabbia quel ragazzo sulla sedia a rotelle. Ha devastato famiglie. Ma
gli fa anche pena. Ha sacrificato la sua esistenza, la sua unica vita, inseguendo la
chimera del potere, del dominio assoluto. Ubriacato dai codici della 'ndrangheta si è
illuso che il "crimine" paga. E l'ha ripagato, paralizzandolo a vita.
Ai carabinieri nega di essere Francesco Pelle. Stacca gli occhi e le mani dal
computer. I carabinieri lo arrestano. Invece di guardare la tv, "Ciccio" era intento a
navigare sui siti di intelligence. Microspie, tecnologia al servizio della sicurezza. E
su Skype. Uno strumento che utilizzava durante la degenza per dialogare con amici e
parenti. Nella 'ndrangheta dei riti arcaici e tribali, i pizzini di carta sono stati
affiancati, ma non sostituiti, dai messaggi istantanei delle chat.
Peppe guarda la macchina dei carabinieri portare via il latitante sulla sedia a
rotelle. Ora può respirare a pieni polmoni. Quella presenza lo inquietava. E lo
rendeva consapevole di come la 'ndrangheta abbia ormai raggiunto la meta Nord
della sua mappa di conquista. Di come non si tratti di banali infiltrazioni di qualche
cosca calabrese. Ma di un sistema pervasivo e radicato che gode di sostegni politici,
imprenditoriali, professionali. Si rende conto, Peppe, che in Lombardia la
'ndrangheta ha saputo ricreare il suo habitat naturale riuscendo a dialogare con la
zona grigia. Con la borghesia mafiosa che tiene in vita da più di 150 anni
'ndrangheta, camorra e mafia. La presenza di "Ciccio Pakistan" nella Clinica di Pavia
ne è un segnale chiaro.
"Inquietanti sono i rapporti del sodalizio con esponenti del mondo istituzionale:
forze dell'ordine, candidati a elezioni, appartenenti alla pubblica amministrazione: la
'ndrangheta non è solo una rete criminale, ma un vero e proprio sistema di potere che
entra in rapporto con altri poteri (economico, politico, imprenditoriale) e con gli
stessi instaura rapporti e relazioni stabili non solo di carattere corruttivo ma anche di
vicinanza e contiguità". È la valutazione del gip relativa all'operazione Infinito, una
parte della più vasta indagine "Crimine", coordinata dalle Dda di Milano e Reggio
Calabria, conclusa con 304 ordini di custodia cautelare in carcere. Una operazione
storica che ha descritto la struttura verticistica, già descritta dal collaboratore Scriva
alla fine degli anni Ottanta e sottovalutata, adottata dalla 'ndrangheta a partire dagli
anni del suo salto imprenditoriale. Dagli anni Settanta la struttura orizzontale ha
subito un processo di verticalizzazione. Per meglio spartirsi gli appalti, gli affari. Per
valutare le azioni da intraprendere, gli omicidi da commettere e quelli che era meglio
evitare.
La 'ndrangheta si è trasformata. Pur mantenendo delle 'ndrine autonome, i
mammasantissima della 'ndrangheta hanno creato una camera di compensazione.
Una sorta di livello superiore per coordinare strategie vitali all'organizzazione. La
struttura organizzativa della 'ndrangheta in terra calabrese è costituita da un
organismo direttivo, denominato "Provincia" e in alcuni casi "Crimine", diviso in tre
sotto strutture aventi competenza su alcune aree calabresi, i mandamenti: Ionico,
Tirrenico e Città (di Reggio). Il "Crimine", o "Provincia", è articolato in numerose
Locali che si spartiscono il territorio, composte a loro volta da una o più famiglie, le
'ndrine. Una realtà ben definita, quella della 'ndrangheta in Calabria. E che in
Lombardia lo è altrettanto. Anche sul territorio lombardo fin dagli anni Ottanta esiste
una struttura di livello intermedio, denominata dagli stessi affiliati "Lombardia".
L'esistenza de "La Lombardia" emerge già nell'indagine, dei primi anni Novanta,
"Nord-Sud". È il collaboratore Saverio Morabito che racconta delle vicende della sua
Locale di appartenenza, quella di Buccinasco e degli uomini di vertice, tra i quali il
boss ergastolano di Platì, Antonio Papalia, che sarebbe stato il responsabile, fino al
suo arresto, di tutte le "locali" presenti in Lombardia, con la funzione di dirimere i
contrasti tra i vari gruppi. Oggi a capo della struttura lombarda ci sarebbe il figlio
Antonio. Da padre in figlio, nel segno dell'onore.
Anche nelle indagini delle distrettuali calabresi emergevano già negli anni
Novanta riscontri all'esistenza della struttura di collegamento tra le "locali"
lombarde. Nell'indagine "Armonia", anni Novanta, si dà conto di una lunga
conflittualità tra "La Lombardia" e la "casa madre". Esponenti di vertice delle cosche
calabresi si sarebbero rifiutati per lungo tempo di riconoscere identico valore alle
doti degli affiliati delle "locali" originarie rispetto a quelle di cui venivano insigniti
gli affiliati lombardi. La Calabria avrebbe per lungo tempo tenuto in soggezione "La
Lombardia", considerata al pari di una "colonia". L'astio e l'insofferenza avrebbero
trovato soluzione all'esito di un importantissimo summit tenutosi in Aspromonte, a
Montalto, che avrebbe sancito l'unificazione tra il Nord e il Sud.
Peppe lavora nella clinica della Fondazione Maugeri. Una Clinica che fa parte
della galassia di strutture sanitarie gestite, direttamente o indirettamente, dall'Asl di
Pavia. Il direttore sanitario dell'Asl di Pavia è Carlo Chiriaco. Considerato dai
magistrati un uomo della 'ndrangheta, un professionista della struttura "La
Lombardia". Rappresenta l'uomo cerniera tra il sottobosco mafioso e il livello
istituzionale, la zona grigia su cui prospera la 'ndrangheta in Lombardia. Sessant'enne
di Reggio Calabria, Chiriaco, ha lasciato presto la Calabria per studiare. Dopo essersi
laureato in medicina e chirurgia all'Università di Pavia ha intrapreso la carriera
sanitaria dal gradino di ispettore sanitario al Policlinico San Matteo di Pavia. La sua
è una carriera rapida e nel 2008 diventa direttore sanitario dell'Asl di Pavia. Il bacino
d'utenza dell'Asl di Pavia è di 530.000 assistiti e ha un budget annuo che nel 2008 è
stato di 780 milioni di euro. Numeri che fanno gola alla 'ndrangheta. E potere
controllare una struttura con questi numeri significa disporre di un potere enorme. Da
utilizzare anche come merce di scambio con politica, imprenditoria e affiliati. La
sanità è sempre stata un cruccio della 'ndrangheta. È un settore da cui trae il massimo
profitto. Sia con gli accreditamenti di proprie cliniche. Sia con assunzioni, appalti,
visite e operazioni gratuite, certificazioni per evitare il carcere, luoghi sicuri per
nascondere i latitanti malandati o disabili. Come lo era "Ciccio Pakistan". Che ha
passato alcuni mesi della sua latitanza nelle lussuose stanze della clinica privata della
Fondazione Maugeri alle porte di Pavia, al sicuro da occhi indiscreti. Chiriaco sa di
essere uno degli indiziati per avere coperto la latitanza di Francesco Pelle. Alla sua
commercialista confida di avere il telefono sotto controllo perché lo considerano
"quello che fa ricoverare i mafiosi". Il direttore Chiriaco ha avuto una soffiata da
"coso", un investigatore colluso. È il jolly della 'ndrangheta lombarda, Chiriaco. Una
figura come la sua permette alle cosche calabresi di entrare in contatto con la politica
che conta. Con l'elite della governance locale. Professionisti, forze dell'ordine,
politici, imprenditori, massoni. Sono le relazioni che Chiriaco è in grado di
assicurare alla 'ndrangheta lombarda. Appalti, assunzioni per i parenti degli
'ndranghetisti, commesse, ingresso nel mondo della politica. È la "merce" che il
direttore dell'Asl riesce a fornire all'associazione. Il dottore Chiriaco è riuscito a farsi
promettere due assunzioni. Il nome da inserire nell'organigramma della struttura
sanitaria è di quelli che fanno tremare le gambe. Che evocano i fantasmi della guerra
di 'ndrangheta combattuta a Reggio Calabria fino al 1991. Chiriaco promette un
posto da dirigente a Sonia Suraci, moglie di Pasquale Libri, funzionario settore
appalti dell'Ospedale San Paolo di Milano, morto pochi giorni dopo la notizia del suo
coinvolgimento nell'operazione "Crimine" in cui era indagato. L'altro posto da
coadiutore amministrativo il direttore lo tiene per sé, non specifica alcun nome
quando si reca a parlare con il direttore amministrativo dell'Asl. Dopo una piccola
trattativa riesce a ottenere il beneplacito del direttore amministrativo. Affare fatto. La
moglie di Libri e i suoi prescelti, secondo le indicazioni di Chiriaco, saranno i
prossimi a lavorare per la sanità lombarda.
Di Chiriaco i magistrati scrivono che "per la 'ndrangheta, costituisce una risorsa
preziosissima: posti di lavoro per parenti, commesse, appalti, ingresso nel mondo
della politica anche ad alti livelli (addirittura in gangli di livello regionale), apertura
ad altre relazioni, (essendo Chiriaco dotato di un rilevantissimo capitale di relazioni
che mette a disposizione del sodalizio mafioso: sul punto la vicenda Filippi è
emblematica), opportunità di investimento di denaro accumulato illecitamente. In
buona sostanza una risorsa ampiamente spendibile e in grado di costituire una sorta
di 'prezioso avviamento' per l'associazione, una sorta di cambiale da spendere nelle
più disparate occasioni".
A Pavia il nome di Chiriaco è noto. Si fidano di lui. È un medico, è il direttore
dell'Asl. È anche un procacciatore di voti per il suo punto di riferimento politico,
Giancarlo Abelli, esponente politico del Pdl. Abelli è un politico che proviene dalla
cultura democristiana. Nel 1974 è stato presidente del Policlinico San Matteo di
Pavia. Viene arrestato per peculato, processato e assolto. Dopo la dissoluzione della
Dc, si lega a Roberto Formigoni, di cui diventa il plenipotenziario per la sanità. Nel
2008 diventa deputato della Repubblica. Nel 2009 scoppia il caso del re delle
bonifiche Giuseppe Grossi. I magistrati contestano a Grossi il reato di riciclaggio e i
22 milioni di euro di fondi neri costituiti dall'imprenditore. Ma l'inchiesta non si
ferma. E porta dritti alla moglie di Abelli, Rosanna Gariboldi. Alla quale Grossi ha
lasciato 1,2 milioni di euro, per la gestione, dicono i magistrati, del suo denaro sul
conto "Associati" a Montecarlo. Un conto di cui lo stesso Abelli è procuratore.
Rosanna a gennaio 2010 sceglie il patteggiamento. E torna libera. Ma è in questa
storia che ritorna il nome di Chiriaco, il direttore dell'Asl di Pavia. È il 20 ottobre
2010, l'arresto di Rosanna Gariboldi crea apprensione nell'entourage di Chiriaco.
L'idea del direttore dell'Asl è produrre un certificato che diagnosticasse a Rosanna
una depressione. Un motivo che la tirerebbe fuori da San Vittore. Ha pianificato
tutto, Chiriaco. Ordina alla segretaria di Rosanna Gariboldi di recuperare l'agenda
della moglie di Abelli e inserire un appuntamento nella data dell'11 agosto. Una
visita con un medico di sua conoscenza, con cui Chiriaco era già d'accordo. La
disponibilità, a detta di Chiriaco, era stata confermata dal direttore generale del
Policlinico San Matteo di Pavia. Contatti che Chiriaco riesce a fare fruttare al
meglio, nel momento del bisogno la macchina del medico originario di Reggio
Calabria funziona a meraviglia, per gli amici.
Il suo ruolo di direttore lo fa pesare. E basta una parola per bloccare e
ammorbidire i normali controlli di routine che l'Asl compie nei locali commerciali.
Succede anche questo, a Pavia. E Chiriaco ne è protagonista. Un noto esponente
politico di Pavia, Ettore Filippi già vicesindaco di Pavia, chiama alterato il direttore
dell'Asl: "Mi hai rotto i coglioni! Tutti i giorni mi mandi l'Asl nei locali...", si adira
Filippi. Ma Chiriaco interviene subito e chiama chi di dovere. E con la tranquillità di
chi sa come muoversi nei meandri del potere, di chi conosce le mosse da compiere
per ottenere ciò che si desidera e mantenere gli equilibri stabiliti, suggerisce al
collega: "Gigi ascolta... oggi quelli devono andare lì no... gli dici di andare con...
molta benevolenza... il problema è anche di carattere politico... nei limiti della...
decenza". Il potere Chiriaco lo sa gestire. E quando afferma "il problema è anche di
carattere politico", è ben consapevole di quanto sta dicendo. Lui con la politica ci
lavora. E la sanità è politica, equilibri, favori. Si spende per fare ottenere appalti a
ditte a lui vicine, come quella del cugino Rodolfo Morabito. Crea un sistema,
Chiriaco. Di questo sistema "gelatinoso" lui è il terminale. Decisioni, scelte, consigli,
passano dalle sue mani, dal suo ufficio.
Asl di Locri e Asl di Pavia. Sembrerebbero due mondi distanti. Due strutture
lontane anni luce. In parte è così. A Pavia il sistema sanitario funziona, è efficiente.
Le strutture sono nuove. Moderne. Gente da tutta Italia arriva a Pavia per curarsi. È
l'emigrazione sanitaria che vede come protagonisti ancora una volta la gente del Sud.
Nella Locride si diffida dell'Asl di Locri. Gli sprechi hanno abbassato la qualità.
Milioni che vengono dirottati verso cliniche private accreditate in odore di
'ndrangheta. A uno spreco del genere non corrisponde una qualità delle cure di pari
grado. Si parte, dunque. Direzione Nord, Pavia, Milano, Modena, Bologna. In cerca
di strutture che possano assicurare un'accoglienza, una degenza, dignitosa. Senza,
come avviene a Locri, dovere camminare per i corridoi e trovare un contesto
totalmente desolante: mozziconi sui davanzali, fili elettrici scoperti, sporcizia,
finestre che non funzionano. Chiriaco un'Asl così non l'avrebbe mai gestita. La sua
forza è proprio quella di garantire standard elevati per distrarre successivamente
risorse a lui necessarie, barattarle con altri favori e concessioni. Un posto o un
favore, Chiriaco, poteva chiederli perché si era conquistato la fiducia dell'ambiente
circostante. Non ha ridotto l'Asl di Pavia ad un organismo scarnificato, com'è l'Asl di
Locri sciolta per condizionamenti mafiosi nel 2006, in seguito all'omicidio di Franco
Fortugno. Quando gli hanno sparato a Locri, davanti al seggio delle primarie, era
vicepresidente della Regione in quota margherita ed ex primario del pronto soccorso
nell'Asl della 'ndrangheta. Dopo l'omicidio si è levato un polverone mediatico, che ha
portato al commissariamento dell'Asl e all'approfondita relazione Basitone. Una
dettagliata analisi degli sprechi e degli accreditamenti concessi a cliniche private in
odor di 'ndrangheta.
Rimane ancora oggi ignoto il nome del luminare della medicina che avrebbe
favorito la latitanza di "Pakistan" raccomandandolo alla Clinica Maugeri. A metà
luglio 2011, durante la quarta udienza del processo Infinito, in cui sono imputate 38
persone, tra le quali Carlo Chiriaco, è emerso un dettaglio che ha fatto molto
discutere e ha creato non pochi dubbi di legittimità. Sulla relazione che riguarda l'Asl
di Pavia, redatta dalla commissione prefettizia, insediatasi dopo l'arresto del direttore
sanitario, è stato apposto il segreto di Stato. Una relazione corposa frutto dell'ascolto
di 6 mila persone, tra dipendenti e destinatari di appalti, e dell'esame di centinaia di
documenti. "È gravissimo che lo Stato italiano da un lato accusi Chiriaco e dall'altro
nasconde le prove che possono servire alla sua innocenza - contestò l'avvocato
Mazza, legale di Chiriaco, durante quell'udienza - Chiediamo che il tribunale
intervenga direttamente presso il ministero per chiedere copia di quegli atti".
L'indagine è durata sei mesi, e a dire dell'ex prefetto Buffoni, in carica fino a giugno
2011: "Le conclusioni dell'indagine sono rassicuranti". E inoltre, "possono farci
sentire orgogliosi del nostro sistema sanitario". Ma allora perché secretare la
relazione e il parere del Ministero dell'Interno? La prefettura ha risposto così alla
richiesta dei legali di Chiriaco: "Al documento è stata attribuita una classifica di
segretezza ai sensi della legge 124/2007 (che regola il segreto di Stato)". Ci
sarebbero, inoltre, motivi, non meglio precisati, "di ordine e sicurezza pubblica e
riservatezza di terzi" che ne ostacolano la divulgazione.
L'avvocato Mazza contesta proprio il richiamo alla normativa che regola il
segreto di Stato. "Quella norma - ha spiegato alla stampa - vieta l'applicazione del
segreto su documenti che riguardano reati di 416 bis, questo è uno dei motivi per cui
contestiamo la decisione del ministero e del prefetto che riteniamo illegittima. È un
caso unico, basti pensare che non si è mai verificato per i casi di Comuni sciolti per
mafia". Che in Italia sono un numero esagerato, circa 200, a cui si aggiungono tre
Asl sciolte per infiltrazioni mafiose. Secondo Mazza la relazione, che non rileva
nulla di torbido, scagionerebbe l'ex direttore dell'Asl perché smentirebbe l'ipotesi dei
pm. "In quella relazione c'è la prova dell'innocenza di Chiriaco". Il Tribunale ha
chiesto al Ministro di fornire la relazione. Se alla richiesta Maroni opporrà di nuovo
il segreto di Stato, i giudici potranno ricorrere al presidente del Consiglio, e se
quest'ultimo non darà il via libera affinchè la relazione diventi atto processuale,
l'ultima chance è la Corte di cassazione. L'ex direttore dell'Asl di Pavia era stato
iscritto nel registro degli indagati per un fatto specifico: il ricovero del latitante
Francesco Pelle, detto "Ciccio Pakistan". Favoreggiamento, dunque. "Per quella
notizia di reato c'è una richiesta di archiviazione", ha denunciato l'avvocato Mazza.
Non ci sarebbero indizi certi che Chiriaco abbia favorito la latitanza e il ricovero di
Pelle. "Lo ha dichiarato anche Farres, comandante dei carabinieri, davanti ai giudici
del Tribunale di Pavia (dove si è svolto l'altro processo che ha visto l'assoluzione di
Chiriaco e dell'ex assessore pavese Pietro Trivi per corruzione elettorale), sostenendo
che l'ipotesi investigativa è stata smentita".
E quindi chi favorì la latitanza del paziente Pelle? "Sarebbe sufficiente indagare a
partire dalle cartelle cliniche. Ma perché indagare Chiriaco, che come direttore
sanitario non può decidere chi ricoverare e chi no, e non partire da chi ha firmato il
ricovero?". Si chiede il legale di Chiriaco. Ma non è da escludersi che la risposta si
trovi nella relazione secretata. "Sappiamo che la vicenda è stata trattata dai
commissari", è lapidario Mazza.
"Pakistan" fa parte di un cartello di 'ndrine, quelle dei Pelle, dei Vottari e dei
Romeo, detti "Stacchi" in onore al vecchio padrino Sebastiano Romeo detto,
appunto, "U Staccu". Tutte famiglie di San Luca che hanno allargato i loro orizzonti
economici prima nella vicina Locride, poi in Lombardia e in Europa. Proprio la
cosca Romeo ha forti interessi nella sanità privata. Nella relazione che ha portato allo
scioglimento dell'Asl di Locri nel 2006 si indica la clinica Cooley di Filippo Romeo
(appartenente alla omonima cosca) con sede a Bovalino come una di quelle strutture
accreditate gestite dalla 'ndrangheta.
Tra i soci di quella clinica un luminare della chirurgia cardiovascolare
proveniente dal Policlinico di Monza spa. Si tratta del professore Salvatore Spagnolo
(mai sfiorato da alcuna indagine è bene precisarlo), socio negli anni Novanta della
clinica dei Romeo. Successivamente (quando la condanna per Filippo Romeo è
diventata definitiva ed è uscito dalla compagine societaria), è rimasto socio della
clinica che negli anni ha mutato intestazione, passando da Cooley di Filippo Romeo,
a Cooley di Antonio Sciarrone, fino ad arrivare, nel 2007, a Cooley di Salvatore
Spagnolo. E così libera da quel cognome ingombrante, la Cooley, l'anno successivo
allo scioglimento dell'Asl, ha riconquistato l'accreditamento.
Dal 2009 tra i soci della Clinica di Bovalino (che fu di Romeo) compare il
Policlinico di Monza spa, che ha aperto una sede distaccata proprio a Bovalino
(accreditata presso l'Asl di Locri) e dove una volta al mese opera il luminare
conosciuto in tutto il mondo.
Rispetto agli anni Novanta all'interno della Cooley è stata fatta piazza pulita di
quasi tutti i personaggi che venivano elencati nella relazione dell'Asl di Locri, ma è
rimasta identica la sede, che si trova nel complesso residenziale dei Romeo. Un
palazzotto di cemento armato, di quattro piani, suddivisi tra fratelli e sorelle. Oggi
gravato da alcuni provvedimenti di confisca. Mentre la sede distaccata a Bovalino
del Policlinico di Monza è in viale Calabria, a due passi dalla sede legale della
Cooley.
Che gli 'ndranghetisti conoscano diversi medici della sanità lombarda lo si
intuisce pure da un passaggio dell'ordinanza 81 di custodia dell'operazione Infinito.
Si parla di un medico che Antonio Chiarella, "caposocietà del locale di Milano",
presentò ad Antonino Lamarmore, già "Mastro generale" de "La Lombardia", la
struttura verticistica e di coordinamento delle varie cosche. E spunta un cognome,
Spagnolo. Descritto come medico dell'Ospedale di Monza.
Dall'arresto di Chiriaco alla morte di Libri, passando per le relazioni societarie
che si snodano lungo l'asse Calabria-Lombardia, le ombre e i sospetti si moltiplicano
con la decisione di secretare la relazione sull'Asl di Pavia. E renderla pubblica, come
vorrebbe la difesa di Chiriaco, potrebbe diradare i sospetti attorno alla sanità
lombarda. Intanto il maxi processo alle 'ndrine lombarde e ai complici proseguirà,
con o senza relazione.
Dall'estremo Sud al profondo Nord dell'Italia la 'ndrangheta corteggia il sistema
sanitario e le sue menti più illuminate. Alla 'ndrangheta è sufficiente un personaggio
del calibro di Chiriaco per divorare un'intera regione. Dopotutto è lui stesso in una
intercettazione a fare outing: "Io, lui e Rizzata eravamo i capi della 'ndrangheta di
Pavia...". E continua a dialogare con Pasquale Libri dicendogli: "A fare il direttore
amministrativo ci siamo ridotti!". Stare con quelli come Chiriaco, dialogare con la
zona grigia dei professionisti, per la 'ndrangheta lombarda è di vitale importanza.
Sostenere gli uomini cerniera come Chiriaco vuol dire ottenere garanzie politiche.
Con la politica si possono investire i milioni. Piani regolatori, cambi di destinazione
d'uso, permessi di costruire. È materia della politica che in cambio di voti può
ammorbidire la corazza delle procedure burocratiche. Così si crea un sistema. Una
macchina infernale e silenziosa i cui ingranaggi sono sanità-politica-
impresa-'ndrangheta. Un apparato che si autoalimenta, duro a morire. E un sistema
che in Lombardia ha permesso alle cosche della 'ndrangheta di ricreare le condizioni
ideali per rigenerare le strutture mafiose identiche a quelle che si ritrovano in
Calabria. Strutture che a oltre mille chilometri di distanza dialogano costantemente.
E grazie alla morbidezza etica in cui sprofonda la Lombardia che la locomotiva
economica del Paese è diventata la capitale del Nord Italia della 'ndrangheta.
Tutto questo, Peppe, non poteva immaginarlo quando con la sua valigia ha
lasciato la Calabria per andare a studiare a Pavia. E si ritrova di nuovo davanti a una
scelta importante. Abbassare lo sguardo quando incontra i boss in salsa pavese, tirare
dritto. L'indifferenza non crea problemi, pensa Peppe. Oppure reagire, denudarli con
le denunce di chi conosce i loro segreti marci, isolarli con il coraggio di chi ricorda e
s'impegna. Peppe non sceglie. E continua a vivere a metà. A offrire soldi ai ristoranti
della 'ndrangheta. A riverire i boss perché non si sa mai, può sempre servire.
"Benvenuti in Lombardia", recita il cartello che sovrasta la strada su cui viaggio.
Ma dai racconti di Peppe e dagli atti investigativi, tutto riconduce al "sistema
Calabria", ai suoi riti, ai suoi segreti inconfessabili, alle sue logiche di 'ndrangheta.
Una differenza esiste. Che in Calabria qualche imprenditore sta rialzando la testa. E
denuncia.
7. Malapolitica lùmbard
È assalito dai fantasmi, Pasquale. Passa ore intere a riflettere. Il passato, il futuro.
Le amicizie. Chiriaco è stato arrestato e su di lui indaga l'antimafia. Sono giorni
opprimenti per Pasquale Libri, i magistrati lo ritengono uno della 'ndrangheta
lombarda. E di certo non lo aiuta essere sposato con la nipote del boss della
montagna. Il capobastone, ultraottantenne, della 'ndrangheta aspro montana, Rocco
Musolino, zio di Sonia Suraci, moglie di Pasquale Libri.
Rocco è considerato uno dei capi carismatici della 'ndrangheta. Legato alla cosca
Serraino di Reggio Calabria. E proprio il suo carisma criminale ha permesso che
nella zona sotto la sua influenza non ci siano mai stati segnali di contrasto o di
ribellione. Fino al 23 luglio 2008. Quel giorno Rocco Musolino è vittima di un
agguato mafioso. E sono Carlo Chiriaco e Pasquale Libri, durante una conversazione
intercettata nell'ambito dell'inchiesta Crimine, a commentare da mille chilometri di
distanza l'accaduto. "Ma gli hanno sparato?". Chiede Chiriaco a Libri. "L'hanno
sparato sì, nel braccio, l'hanno sparato... era sulla macchina che camminava così,
no... lo hanno sparato nel naso", risponde Pasquale. "Minchia l'hanno sparato a
pallettoni?". Deduce il direttore sanitario dell'Asl di Pavia. E il nipote acquisito di
Rocco Musolino conferma: "A lupara... eh... ma pare che siano stati... e gli hanno
sparato lì a Santo Stefano... quindi il problema qual era? Che i Serraino lo sapevano".
"Ma lui era legato ai Serraino?". S'informa Chiriaco. "Puttana... è legato, penso, ora
poi", aggiunge Libri. "E non ci sono state ripercussioni, non hanno arrestato nessuno
per questo, non hanno ammazzato nessun altro?". Incalza il medico. Libri spiega
all'amico direttore che la risposta mafiosa non c'è stata, ma "poi la magistratura si è
comportata malissimo e gli hanno fatto il sequestro di tutti i beni... preventivo ed è
una cosa che non fanno mai... ma lui con la magistratura non...". Dinamiche che
soltanto chi è dentro il sistema 'ndrangheta può conoscere e che emergono a distanza
di centinaia di chilometri dalla Calabria. Da Santo Stefano d'Aspromonte a Pavia la
notizia di sangue corre rapida sui fili del potere magnetico della 'ndrangheta.
È una parentela importante quella di Pasquale. Lui, dirigente del settore appalti
dell'Ospedale San Paolo di Milano, di 'ndrangheta ne parla con il suo amico e collega
Chiriaco. Tra di loro ricordano i tempi passati, quando erano una potenza. E
scherzano, "ci siamo ridotti a fare i direttori sanitari". È una coppia affiatata. Si
vedono spesso. Pavia è una piccola città. Calma, silenziosa. Che cela un potere
occulto che si manifesta in maniera subdola nel potere legale. Nell'economia, nella
politica, nella sanità. La 'ndrangheta accumula silente, accerchia la preda in punta di
piedi. Poi chiede il conto. E dalle fognature dei palazzi del potere emergono uomini
"incaricati", dal volto pulito. Uomini cerniera che saldano due mondi. 'Ndrangheta e
istituzioni si fanno "sistema".
Pasquale e Carlo. Sono amici e ricoprono incarichi di spessore all'interno di
strutture sanitarie lombarde. E Pasquale pensa all'amico in carcere. Alle cene
elettorali. Agli affari che hanno in cantiere, come quello che gli aveva accennato
appena l'anno scorso. Rocco Musolino aveva necessità di investire un sacco di soldi.
E Pasquale ne parla a Chiriaco che gli consiglia di costruire e poi vendere. Il mattone
come assicurazione per la vita. "Il capitale c'è l'ha, una casa a Roma, una a Milano,
una New York, una a Parigi". Le intenzioni dello zio acquisito, Libri le comunica a
Chiriaco che gli consiglia: "È molto meglio fare un investimento unico di 15 milioni
di euro. Di comprare interi caseggiati concentrati in un posto". Libri ascolta il
consiglio, riferirà. Ma dopo l'arresto dell'amico Carlo, l'angoscia lo assale. Con i
segreti di cui è custode potrebbe riempire intere pagine. Di confessare non se ne
parla. Oh sì. È confuso. L'ortodossia 'ndranghetista punisce i cedimenti, parlare è
devastante. O ti ammazzano. O ti portano al suicidio. Come è successo a Bruno
Piccolo, pensa. E poi se parla tradirebbe la moglie. La vergogna la assalirebbe. Lo
abbandonerebbe e si vestirebbe a lutto? Troppe le controindicazioni a collaborare per
un uomo che è cresciuto assorbendo la liturgia simbolica dell'onorata società. Anche
se non si è affiliati, la cultura 'ndranghetista è pervasiva. E quando penetra nelle vene
è dura liberarsene. Un brivido e nulla più. Le reazioni future saranno mediate dal
sistema valoriale di riferimento. Per Pasquale, non c'è scampo. La polizia, i
magistrati. Ma non solo, forse. Sente che dopo il maxi blitz di luglio, la fine è vicina.
Dopo quei 304 arresti tra Lombardia e Calabria, la sua storia volge al termine. E
l'idea del suo amico Carlo, dietro le sbarre fredde della prigione, non gli permette di
dormire tranquillo la notte. Non è tanto la consapevolezza di avere la Dda dietro le
calcagna. Ma è la cognizione di sentirsi esposto. Quando conosci le maglie del potere
cucite da 'ndrangheta e zona grigia e rimani solo, pensa Pasquale, la tua vita è appesa
a un filo. Non sono soltanto storie di 'ndrangheta. Si tratta di equilibri. E Pasquale
mal sopporta il ruolo dell'equilibrista. È una parte che lo uccide lentamente.
Come ogni mattina, Pasquale arriva nell'Ospedale San Paolo di Milano, dove
lavora. E dove lo conoscono tutti. È un dirigente. Non passa inosservato. Alle undici
ha una riunione importante con il gruppo dirigente dell'ospedale. Finito l'incontro,
esce. E pensa a ciò che è stata la sua vita. Ricorda quando era socio di una ditta di
carburanti, al fallimento di quel progetto. Poi l'ospedale. La Calabria. L'aria di
'ndrangheta che respira fin da giovane. I frammenti di memoria si accavallano
confusi. Ripensa a Chiriaco. Ai boss. A Cosimo Barranca, il reggente della Locale di
Milano. E a quell'incontro in via Pirelli a Milano. In occasione della campagna
elettorale. Quando con Chiriaco e Barranca si recarono al comitato elettorale di
Angelo Giammario. Il consigliere regionale in quota Pdl nella quarta legislatura
targata Formigoni. E ricorda le discussioni con Chiriaco su 'ndrangheta, appalti
pubblici e spartizione di poltrone nella sanità lombarda. Rievoca nella sua mente
ormai paralizzata dal terrore il posto di lavoro promesso alla moglie Sonia. Trame
che si incrociano. Pressioni che opprimono. Gli ultimi momenti nei pensieri di
Pasquale hanno il colore corvino del potere torbido. Poi il vuoto.
Lo ritrovano ai piedi delle scale che portano all'ottavo piano. Un tonfo di 25 metri
e niente più. Cade in uno spazio di un metro, sbatte la testa ripetutamente prima di
schiantarsi sul marmo. Che diventa rosso del suo sangue. Nessuno ha visto nulla.
Suicidio, dicono gli esperti. E gli investigatori inizialmente seguono questa pista. Ma
poi cambiano rotta. Qualcuno cambia idea, c'è chi racconta di avere visto Pasquale
poco prima di morire insieme a due sconosciuti. E poi l'incognita della maglietta che
avvolge la testa del morto. E ancora, perché Pasquale si sarebbe lanciato dalla
tromba delle scale quando poteva farlo più agevolmente da una delle tante finestre a
disposizione. Diventa un giallo. I magistrati lasciano aperte altre possibilità. Ucciso
perché conosceva trame di potere compromettenti per la politica e la sanità? O
suicidio? Sonia è disperata, "non ha lasciato neppure un biglietto", si rammarica
chiusa nel suo silenzio e avvinghiata nei suoi segreti familiari. "Pasquale non aveva
paura. Certo - ripete Sonia - in casa si parlava di quello che era successo, degli arresti
che c'erano stati. Solo a momenti, in questi giorni, sembrava diverso, forse un po'
nervoso. Ma non aveva nessun motivo per uccidersi. I medici, colleghi di Pasquale,
evitano di commentare, sono attoniti. "È un momento difficile", sussurrano tra di
loro. Al San Paolo rimane una parte di Pasquale. Un pezzo di vita professionale che
potrebbe essere il nodo da sciogliere per risolvere l'enigma dalle sfumature colore
della 'ndrangheta lombarda. Nel suo ufficio gli articoli di giornale sugli arresti del 13
luglio e i documenti dei principali appalti del San Paolo, tra i quali molte pratiche
trattate dallo stesso Libri: la procedura d'affidamento del servizio Pet-Ct di Medicina
nucleare, l'appalto per la manutenzione del verde, la gara per la ristorazione,
l'adeguamento della mensa.
"Sotto la lente della Procura è finito anche il legame tra Libri, Chiriaco e il
direttore generale del San Paolo, Giuseppe Catarisano. Un rapporto che si è
sviluppato a partire dal 2003, quando i tre hanno lavorato fianco a fianco nella
Dental Building (Il palazzo dei denti), una società mista (fallita nel 2005) partecipata
al 60 per cento dall'ospedale San Paolo e al 40% per cento da investitori privati
raggruppati nella Fondazione Ge.si.s. Il progetto di pseudo-privatizzazione delle cure
odontoiatriche, è considerato il più fallimentare della sanità lombarda negli ultimi 10
anni. Le indagini, anche se l'ipotesi del suicidio fosse confermata, resteranno nelle
mani dell'Antimafia e continueranno a puntare anche su altri appalti della sanità. Un
business che può far gola alla malavita visto che, solo negli ultimi dieci anni, in
Lombardia ci sono stati investimenti per 4 miliardi di euro, suddivisi in 589
interventi pubblici d'edilizia sanitaria. La convinzione degli investigatori è che dal
San Paolo possa aprirsi una pista destinata a portare altrove. Là, in altri ospedali
della Lombardia", (dal Corriere della Sera, Cesare Giuzzi).
Dalla sanità l'architettura del potere affonda i pilastri nella politica. Sanità e
politica, in Italia, sono facce della stessa medaglia. La politica regionale sceglie i
dirigenti. Mette veti, offre posti di lavoro e appalti. E cure. Che si trasformano in
business. In oro per le mafie. La sanità come cavallo di troia utilizzato dalle cosche
per assumere un peso politico maggiore. Dalla sanità alla politica il passo è breve. Il
medico boss rappresenta l'allegoria delle mafie moderne. Dal volto pulito e dalle
mani lerce di affari criminali. Al medico come al capobastone il cittadino affida il
proprio futuro. La speranza di una vita senza preoccupazioni. Il padrino è descritto
dalle leggende tinte dal folklore come un uomo d'onore, capace di redimere i conflitti
interni ed esterni alla comunità. In grado di assicurare un futuro sereno a chi gli porta
rispetto e onori. La 'ndrangheta "sanitaria" è una questione anche di simboli. Che
hanno l'obiettivo di rafforzare l'aurea del capobastone. A Locri, l'Asl è tuttora un
distributore di poltrone, di assunzioni, di favori, di appalti. Potere politico e
criminale convivono nella sanità. L'egemonia 'ndranghetista in quella struttura
sanitaria permette alle cosche di entrare nella vita quotidiana dei calabresi. Di
visitarli, di diventare loro consiglieri. Al Nord i camici bianchi delle cosche
assicurano l'ingresso degli interessi egoistici della 'ndrangheta nell'agone politico
locale della Lombardia. Dai Comuni alla Regione, passando per la Provincia.
Interessi che la 'ndrangheta ha tenuto nel tessuto economico e sociale lombardo
sottopelle, per lungo tempo. E al momento opportuno ha iniettato, in un organismo
corroso dalla corruzione, il suo veleno letale che ha iniziato a maciullare le ultime
pareti dell'etica di una classe politica morbida con l'espressione raffinata della
'ndrangheta e dura con i migranti, con i miserabili, con i venditori di Kebab. Di quei
politici che deformano l'interesse collettivo per renderlo penetrabile agli interessi
delle cosche, in Lombardia ce ne sono a sufficienza. Quanto basta a rendere
consapevoli gli 'ndranghetisti lombardi di avere a disposizione, in Lombardia, una
fortezza che sta in piedi grazie a insospettabili, e a volte inconsapevoli, appoggi
esterni. Concorrenti esterni, capitale sociale dell'organizzazione li definiscono i
magistrati. Come il medico e direttore sanitario dell'Asl di Pavia, Carlo Chiriaco.
Ritenuto il dominus delle 'ndrine nella sanità lombarda.
Gli investigatori lo filmano mentre entra nello studio di Abelli. I due si
conoscono, è lo stesso Abelli ad ammetterlo davanti ai microfoni. Può darsi che il
deputato non conosca il passato burrascoso di Chiriaco e il presente immacolato,
funzionale agli interessi de "La Lombardia", ma è un personaggio ingombrante
Chiriaco.
Nell'ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Milano, i magistrati così
raccontano il passato di Carlo Antonio Chiriaco: "Chiriaco è stato condannato in
primo e secondo grado per estorsione commessa in Pavia il 26 settembre 1991, come
mandante in concorso con Ferrari Renato, Pellicano Fortunato e Valle Fortunato. I
complici sono stati separatamente giudicati e condannati in via definitiva mentre
egli, dopo due annullamenti con rinvio da parte della Corte di Cassazione, è riuscito
a lucrare un proscioglimento per prescrizione.
Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali emerge oggi quale sia stata la realtà
dei fatti. Risulta che nel 1991, quando Chiriaco era già Vice Direttore Sanitario e
Direttore di Presidio presso l'Irccs Policlinico San Matteo di Pavia nonché Presidente
delle Istituzioni assistenziali riunite si è reso concorrente in un grave episodio
estorsivo e che durante il processo penale ha adottato stratagemmi e (penalmente
lecite) menzogne per uscire indenne da processo per un reato compiuto con modalità
tipicamente mafiose a cui si era prestato".
Non è l'unica macchia nel passato del direttore. Nel 2007, un anno prima di
assumere il rilevante ruolo di direttore sanitario, ha ottenuto una condanna
irrevocabile per esercizio abusivo della professione sanitaria. La Corte ha accertato
che Chiriaco ha lasciato che, nel suo studio professionale, Sergio Daffra svolgesse
prestazioni dentistiche senza avere la prescritta abilitazione professionale ma solo il
titolo di odontotecnico. Incidenti con la giustizia che non hanno arrestato la sua
ascesa professionale. È un medico. Con qualche segreto. È lui stesso ad ammettere,
durante una conversazione intercettata dalle microspie, la sua partecipazione ad un
tentato omicidio. "Il primo processo l'ho avuto a 19 anni per tentato omicidio...
comunque la legge è incredibile... quando tu fai una cosa... puoi star certo che ti
assolvono. Se invece la cosa non la commetti... rischi di essere condannato, quella
roba lì è vero che gli abbiamo sparato (bestemmia)... è vero che gli abbiamo
sparato... non per ammazzarlo... però è anche vero che l'abbiamo mandato in
ospedale... assolto per non aver commesso il fatto...". E si lamenta di avere patito sei
mesi di carcerazione preventiva. Come è strana la legge, pensa Chiriaco. Non lo è da
meno il sistema sanitario. Pregno di interessi. Un'arteria occlusa dai diffusi e latenti
grumi di potere dove l'interesse della collettività è subordinato all'interesse
individuale di cosche e politica.
Il voto è potere. E può diventare merce di scambio. Diritto da barattare con favori
e privilegi garantiti. La mentalità mafiosa del voto ha preso piede in tutto il nostro
asfissiato Paese. Ancora oggi la maggioranza degli italiani lega il fenomeno mafioso
ai territori del Meridione, sarebbe una questione da "terroni", da meridionali. Ma la
cronaca, le indagini, le denunce dei magistrati e degli investigatori raccontano
un'altra storia. La democrazia è un'idea ancora da raggiungere. Le mafie si
frappongono nel cammino verso l'affermazione di una democrazia sostanziale. La
'ndrangheta anche in Lombardia sfrutta il diritto di voto altrui per il proprio
tornaconto. Paga, corrompe, minaccia, isola. Governa silente e per interposta
persona. Incarica personaggi inseriti nei palazzi di governo. Professionisti
insospettabili dalla doppia etica. In ufficio o negli studi sono irreprensibili lavoratori.
E macchinatori. Nelle auto tappezzate di microspie e nei summit si definiscono
'ndranghetisti. Potenti boss.
Scrivono i pm della Dda di Milano: "Si può affermare che Barranca Cosimo e
Pino Neri hanno promesso di convogliare un certo numero di voti a favore di due
candidati alle elezioni regionali lombarde (Giancarlo Abelli e Angelo Giammario) e
ciò è avvenuto attraverso la "mediazione" di Carlo Chiriaco, esponente di rilievo
della sanità lombarda". Non solo a parole. I magistrati rilevano presunti giri di
denaro. "50-60 fotocopie" forse 50-60 mila euro, da consegnare all'avvocato
Sciarrone, indicato come uomo di Giammario, in prospettiva delle elezioni Regionali
2010". L'interessamento della famiglia Barranca alle elezioni di Angelo Giammario
pare essere confermata in una conversazione tra pasquale Barranca (fratello del boss
Cosimo) e Carlo Chiriaco. In questa circostanza Barranca dice che sua figlia "sta
rispondendo al telefono lì, in viale Monza per Giammario".
'Ndrangheta e politica non collidono soltanto sul deputato Abelli e sul consigliere
regionale Giammario. Nelle intercettazioni del filone milanese dell'operazione
"Crimine" spuntano i nomi di Antonio Oliverio, indagato, ex assessore della Giunta
provinciale guidata da Penati, il leader del centrosinistra lombardo. E sarebbe stato
Proprio Oliverio ad avere appoggiato la candidatura di Leonardo Valle, rampollo del
boss Francesco, alle Comunali del 2009 a Cologno Monzese. Oliverio non è
personaggio "scelto" a caso. Sua moglie è figlia di Antonia Mancuso, sorella dei
fratelli Pantaleone, Antonio e Cosmo Mancuso, vertici della omonima 'ndrina, il cui
feudo è la provincia di Vibo Valentia.
Dagli atti dell'indagine Tenacia della Direzione distrettuale antimafia di Milano si
legge di "rapporti di cointeressenza" con la mafia che vengono attribuiti anche all'ex
assessore regionale Pdl Massimo Ponzoni, che non risulta però indagato. E anche
all'esponente dell'LIdc, prima in An, Emilio Santomauro, coinvolto in una sparatoria
fuori dal suo studio il 25 gennaio 2000, Indagato e prosciolto dalle accuse di essere
un prestanome del clan cammoristico Guida.
La Lega Nord, che della xenofobia ne ha fatto un punto cardine del suo
programma, non è estranea ai flirt tra 'ndrangheta e politica lombarda. Angelo
Ciocca, leghista, neo consigliere regionale lumbard eletto con 18 mila preferenze,
compare negli atti della Dda per i suoi rapporti con Pino Neri, arrestato con Chiriaco
e ritenuto il capobastone delle cosche lombarde. Neri avrebbe contattato Ciocca
perché sostenesse un "suo uomo di fiducia" alle elezioni comunali. Ad immortalare il
consigliere leghista con Pino Neri, una foto.
Non solo. Nelle intercettazioni Neri dice che "Ciocca lo ha coinvolto in belle
operazioni immobiliari". A oggi il consigliere leghista, che all'epoca dell'incontro
filmato dagli investigatori in piazza Petrarca a Pavia era assessore provinciale alla
Formazione, non risulta indagato. Ciocca come Castelli, accusato dal collaboratore
Di Bella, prende le distanze, anche dalla foto.
Sono rapporti torbidi, quelli tra politica e 'ndrangheta in Lombardia. Sono storie
di ras della sanità. Di politici confusi che cercano voti anche dove non dovrebbero.
Di imprenditori spregiudicati che vivono a lusso e cocaina. Divorano gli utili
noleggiando bolidi e spargendo regalie per ottenere appalti, assunzioni, cure
mediche. Diritti che spetterebbero a chi merita. E che assumono, come in Meridione,
i contorni opachi del privilegio, del favore.
Attività istituzionali e fini particolari in grado di deviare il corso del libero
mercato. Un'osmosi perversa, brutale per la democrazia. Che cade a pezzi sotto i
colpi ripetuti di un'alleanza spregiudicata con politica e imprenditoria che da 150
anni permette a 'ndrangheta e cosa nostra di essere soggetti economici attivi, parte
integrante del sistema economico produttivo del Paese.
È passato da poco mezzogiorno. Il luglio 2010 a Milano è di quelli cruenti. Un
cadavere che parla, quello di Pasquale Libri. In tanti sperano che il tempo riprenda il
suo frenetico ritmo meneghino. E quella sagoma bianca, tracciata ai piedi delle scale
dell'Ospedale, venga cancellata presto dallo scorrere dei giorni. Evoca intrecci
pericolosi, i tratti del fantasma del funzionario. Da fastidio. È l'impronta di un
sistema 'ndrangheta lombardo liquido. Che trae la sua forza dal cuore della
'ndrangheta in Calabria. E si protrae verso l'Europa, il mondo. Come una sanguisuga
succhia la linfa vitale della democrazia, occlude i vasi della libertà di scelta. Sovverte
le regole del mercato. Corrode l'etica con l'acido del suo potere. Pasquale è una
vittima di questo sistema. Indagato, coinvolto. Amico e compare degli 'ndranghetisti.
Ma muore. Ucciso o suicidato. In ogni caso testimone di storie perverse e infamanti.
E con Chiriaco, nelle telefonate intercettate, Libri aveva parlato di 'ndrangheta,
appalti pubblici e della spartizione di poltrone nella sanità lombarda. Libri è stato
uno spettatore e un attore delle dinamiche e delle strategie della 'ndrangheta in
Lombardia. Ha visto la 'ndrangheta con i propri occhi, l'ha vista crescere e
avviluppare in una morsa virulenta la regione dell'ex capitale morale d'Italia.
"Di sicuro c'è solo che è morto", come scrisse, nel 1950, Tommaso Besozzi su
l'Europeo, in un suo articolo su Salvatore Giuliano. Il verminaio che l'eccellente
sanità lombarda cova in grembo è, per il momento, fuori pericolo. E le sue trame al
sicuro.
8. "Calabrotti"
"Con i calabrotti che lavorano nei nostri cantieri siamo tranquilli. Nessuno ci darà
fastidio". Ivano è consapevole che gli uomini della 'ndrangheta è meglio farseli
amici. Che grazie alla loro partecipazione è possibile lavorare senza problemi nei
cantieri della Lombardia. Una regione in dolce attesa di speculazioni d'oro. E capitali
fumanti in attesa di spegnersi nei progetti dell'Expo 2015.
Con il termine "calabrotti" l'entourage imprenditoriale di Ivano identifica i
calabresi che lavorano in subappalto nei cantieri della Perego General Contractor.
Una realtà di successo, la Perego. Per la 'ndrangheta è una preda da azzannare e
scarnificare. Una delle tante in Lombardia. Ivano non è l'unico ad essersi illuso della
presunta forza propulsiva dei capitali degli 'ndranghetisti in doppio petto. Più simili a
manager meneghini che a figli di terre desolate dell'entroterra calabrese. Ivano sogna
e vuole che la Perego diventi la prima realtà imprenditoriale nella movimentazione
terra.
I desideri di Ivano innescano un meccanismo perverso. Vede, giorno dopo giorno,
la sua azienda cadere a pezzi. Ma nonostante i bilanci aziendali sprofondino in un
buco nero, Ivano, continua a cercare l'appoggio della 'ndrangheta. L'attrazione verso
il potere è come una droga, peggio della cocaina, per l'imprenditore lombardo. La
sua vita scorre veloce. Perde consistenza nelle mani dei soci di cui si è attorniato.
Con cui ha stretto rapporti di fiducia. Di Andrea Pavone e Salvatore Strangio, Ivano,
si fida ciecamente. Gli apre la porta principale quando si presentano come risolutori
della crisi in cui versa l'affermata azienda di Lecco.
Di Salvatore Strangio i magistrati di Milano delineano il profilo: "Pistole,
mitragliatrici, granate, transazioni con la sorella di Pablo Escobar, denaro falso. Il
tutto condito da commenti su quel compare in galera, quell'altro agli arresti e
quell'altro ancora liberato. Questo campionario di conversazioni dimostra la
dimensione integralmente delinquenziale di Strangio, il quale non solo è membro
dichiarato della comunità 'ndranghetista, ma è soggetto che frequenta e tratta con
delinquenti abituali e trafficanti di ogni genere". (Indagine Tenacia luglio 2010, Dda
Milano).
Ivano con i "Calabrotti" ci lavora da tanti anni. Nella catena di subappalti l'ultima
parola spetta alla 'ndrangheta. È risaputo tra gli imprenditori lombardi. Ogni grammo
di terra, dall'Est all'Ovest e dal Nord al Sud della Lombardia, è movimentata dai
camion delle 'ndrine lombarde. La legge delle cosche va rispettata. Chi sbaglia paga
con minacce e intimidazioni.
Gli 'ndranghetisti che dagli anni Ottanta hanno creato proprie creature
imprenditoriali rimangono privi delle necessarie qualifiche. Le loro condotte
aziendali sono spinte unicamente dall'interesse privato. Nell'interesse della cosca e
dei loro committenti si cementifica e si sotterrano scorie. Materiale di risulta nocivo,
seppellito dalla terra movimentata dalla 'ndrangheta. Rifiuti tossici e fondamenta di
cemento armato. Così lavorano le cosche della 'ndrangheta lombarda. Negli anni
successivi ai sequestri di persona, quando i capitali delle cosche sono lievitati a
dismisura, l'interesse della 'ndrangheta oltre la linea gotica, è stato quello di mettere
le mani nella gestione diretta di alcuni settori imprenditoriali del Nord. La
'ndrangheta vuole comandare e gestire i processi produttivi dall'interno. Creare un
meccanismo a flusso continuo tra Sud e Nord del Paese. Economie molto diverse tra
loro.
Che la 'ndrangheta riesce a omogeneizzare con l'inquinamento dall'interno. Le
imprese a partecipazione mafiosa accomunano le due periferie del Sistema Italia. Il
caso dell'azienda Perego, azienda leader in Lombardia, è identico alle tante gestioni
mafiose di grosse realtà aziendali calabresi. Il caso Perego, non è un caso isolato. In
Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna, oltre la Linea Gotica, sfondata dai capitali
mafiosi, i boss si fanno dirigenti d'azienda. Soci occulti che decidono sulla
sopravvivenza o meno di quell'azienda. In un primo momento, l'uomo a cui Ivano ha
affidato il futuro della Perego aveva promesso di risanare i conti disastrati della sua
azienda. Salvatore Strangio è uno 'ndranghetista, Ivano lo intuisce. Ma non se ne
cura. Sono tranquillo, nessuno mi tocca con Salvatore il "calabrotto", pensa.
Lo aveva fatto assumere come dipendente, addetto alla sicurezza nei cantieri. Una
sicurezza per Ivano, appunto. Era novembre 2008 quando Ivano fa firmare il
contratto a Strangio. Ivano ne aveva conosciuti parecchi di calabresi. La Perego da
molti anni affida i subappalti alle loro aziende. È un progressivo processo di
colonizzazione della sua azienda, quello a cui assiste Ivano. Rimane inerme, è
annebbiato dalla sostanza bianca che gli brucia e asfalta le sue narici. Anche Strangio
conosce le debolezze di Ivano. Lo ripete ai suoi sodali che è un "drogato pazzo". Che
la cocaina rappresenta il decadimento del suo impero. Strangio promette a Ivano di
risollevare le sorti dell'azienda candidata a fare la parte del leone nei cantieri per la
realizzazione delle opere dell'Expo 2015. L'esposizione universale è per le 'ndrine
l'obiettivo finale, il mezzo con cui raggiungerlo è la Perego General Contractor.
L'onnipotenza 'ndranghetista è visibile. Assume la forma di palazzi, di strade, ponti,
stazioni, centri congressi. Il movimento terra come esternazione di un potere che
affonda le sue radici nella culla Aspromontana della 'ndrangheta, la "mamma"
Calabria. Il cuore pulsante della società del disonore. E da San Luca che Strangio
prende ordini sulla gestione occulta della Perego. Era il defunto capo crimine
Antonio Pelle, "'Ntoni Gambazza", a pianificare le politiche imprenditoriali
dell'azienda di Ivano.
Dietro l'apparente conduzione legale di Ivano Perego, la 'ndrangheta aveva scelto
da che parte stare. Un summit a Bovalino, in provincia di Reggio Calabria, ha
stabilito le sorti della Perego.
"Quello che accade tra metà 2008 e inizi 2009, attorno al gruppo Perego, è
emblematico per comprendere le strategie di controllo economico messe in campo
dai mafiosi calabresi.
Deve essere chiaro che un'azienda come la Perego rappresenta, per la criminalità
di stampo mafioso, un capitale di enorme valore. Il controllo di una società del
genere presenta, almeno, tre vantaggi: gestire in modo diretto l'indotto del
movimento terra, da sempre terreno imprenditoriale elettivo della 'ndrangheta
lombarda; conferire appalti e subappalti a società collaterali, come ad esempio la Sad
di Salvatore Strangio (Pavone e Morabito) e, sopra ogni cosa, disporre, per interposta
persona, di un soggetto imprenditoriale capace di accaparrarsi rilevanti appalti
pubblici, a partire da Expo 2015, grazie ad un'apparenza assolutamente insospettabile
e regolare". La Dda di Milano non lesina giudizi pesanti, e continua nella
descrizione: "Qui ci sono dei signori, totalmente privi di qualsiasi qualifica
professionale che possa giustificare il loro atteggiamento, che si arrogano il diritto di
decidere chi deve amministrare una certa società di capitali, chi deve essere
eliminato, chi deve lasciare il posto a chi, come devono essere distribuiti i lavori e lo
fanno compiendo un'instancabile spola con lontane località calabresi ove altri
signori, come il defunto capo crimine Antonio Pelle 'Ntoni Gambazza", residenti in
quel di San Luca o di Rosarno, sono chiamati a dirimere le controversie con un
autorevolezza che viene loro riconosciuta senza discussioni e senza dubbi da tutti gli
interessati. (...) Tutto questo conferma la impressionante capacità di controllo della
criminalità calabrese ed il suo livello di strutturazione interno". (Inchiesta Tenacia,
Dda Milano luglio 2010).
Salvatore Strangio, l'uomo di cui si fidano Ivano e l'allora capo crimine Antonio
Pelle, interviene con una missione precisa: salvare l'azienda in crisi. Ingozzandola,
fino a farle esplodere il ventre, di denaro 'ndranghetista. La società Perego General
Contractor è una delle compagini create da Ivano e i suoi soci storici. Le altre
ramificazioni sono ormai rami secchi, una di queste, la Perego Strade, ha 18 milioni
di passività e sta trattando un concordato. E nell'arbusto ancora non completamente
piegato che la 'ndrangheta sceglie di stare. E Ivano affida all'uomo di Strangio i
progetti di crescita. Andrea Pavone con l'assenso di Strangio stila un piano di
rinascita della Perego. Ivano è stupefatto. Scorge dietro quei piani, drogati dalla
corruzione e viziati nella forma, lo scoglio a cui aggrapparsi. Fusioni e
incorporazioni con società concorrenti sono i piani manageriali degli 'ndranghetisti.
Dalle aspre montagne calabresi al capitalismo finanziario il passo è stato breve.
La 'ndrangheta ha plasmato le sue credenze e i suoi caratteri arcaici sul sistema
deregolato del capitalismo del terzo millennio. Un turbo capitalismo. Un agone
mondiale in cui a vincere è la spregiudicatezza nel fare imprese e finanza. A perdere
è l'etica che perisce sotto i colpi mortali dell'egoismo competitivo e del profitto
criminale. Trionfa il più furbo, che seppellisce la lungimiranza imprenditoriale e
politica insita nei comportamenti orientati dall'etica.
'Ndrine che hanno fatto sistema al Nord e scempio al Sud. A tenere unito il Paese
sotto le spinte autonomistiche provenienti da ogni angolo del territorio nazionale
sono le mafie. Capaci di tessere una rete unificante fatta di corruzione, imposizioni e
favori. Sangue, piombo e intimidazioni, fanno da collante alle trame tessute dalle
mafie durante le loro secolari esistenze. È l'idea del collante mafioso che lega e
unisce l'Italia dalla sua unificazione è stata presa dall'associazione daSud che per i
150 anni dell'unità d'Italia ha lanciato la campagna provocatoria "Le mafie ci
uniscono". Provocatoria, ma realista. Un paradosso tutto italiano, quello del secolare
dominio del sistema mafioso che governa la quotidianità del Meridione e gestisce
quella del nord del Paese.
Ivano non è consapevole del perché è stata scelta la sua azienda. E neppure del
perché le 'ndrine lombarde abbiano puntato gli occhi sulla sua creatura
imprenditoriale. Può immaginare. Ma è distratto dal lusso di cui si attornia, dalle
regalie che distribuisce a 'ndranghetisti e politici. Già, perché Ivano è amico dei
politici. In Lombardia, uno degli elementi di saldatura politica e 'ndrangheta è Ivano
Perego. Ne è consapevole, Ivano. E gioca con il futuro della sua azienda. Si schiera
con ambedue. Da una parte potrebbero arrivare appalti e favori, dall'altra protezione
e propulsione a sbaragliare la concorrenza. Si illude di avere tutto sotto il suo
controllo. Ma non è più direttore di nulla. Gestisce un nome, un'insegna. La
macchina gestionale della 'ndrangheta, messa in funzione da Salvatore Strangio
tramite Andrea Pavone, ha raggiunto l'obiettivo. Il timone aziendale è manovrato
dalla 'ndrangheta. Che esige da Ivano, assunzioni, distribuzione equa dei subappalti
tra i padroncini "calabrotti" orbitanti intorno alla struttura mafiosa "La Lombardia",
contatti politici, appalti pubblici e commesse private. Ivano ha fatto ingresso
nell'anticamera dell'inferno, ma non se ne accorge. Continua a mostrarsi sicuro e
impeccabile, a partecipare agli incontri della politica che conta. A insinuarsi nei
meeting della Compagnia delle Opere Lombarda, accompagnato dal suo amico e
politico Antonio Oliverio.
Ivano ostenta il suo legame con Antonio il politico. E gli regala anche un bolide
tedesco, un Audi M6. "Mi vuole bene l'Antonio", ripete spesso a conoscenti e amici.
Ivano prosegue la sua corsa verso il baratro. I convegni politici insieme a Oliverio, il
telefono che squilla in continuazione, le promesse del politico sulla crescita aziendale
e di farlo diventare membro della Compagnia delle Opere, l'orizzonte dell'accesso al
credito nelle banche della Compagnia. È affascinato da tutto questo, Ivano. E lo
scarica dalle responsabilità che un imprenditore dovrebbe assumersi per risanare
l'azienda allo sfascio. Preferisce apparire. È soddisfatto nel vedersi in televisione, in
prima fila accanto alla politica che conta, "c'erano tutti, c'era Lupi, Formigoni. io in
pole position accanto a Oliverio, in pole position", ripete in maniera convulsa agli
amici. La bussola di Ivano indica la "n" di 'ndrangheta. È la dissoluzione della
leggenda razzista, qualunquista, leghista, che narra di mafie come fenomeni
meridionali. Affrontati tramite misure repressive antimeridionaliste, con slogan
bossiani che recitano "che lavorino al nord solo le imprese padane". È la teoria del
Nimby applicata alle politiche di contrasto alle cosche mafiose. Che prosperi pure,
ma fuori dal mio cortile. La Lega vorrebbe combatterle così le organizzazioni
mafiose, negando i caratteri padani assunti dalle 100 mafie. Relega a "una roba da
terun" un fenomeno criminale, politico ed economico, che dialoga con pezzi di classe
dirigente che amministra l'operoso Nord. Il virus famelico si è divorato i tanto
propagandati anticorpi sociali di cui continuano ad andare fieri i politici emiliani,
lombardi e liguri. I valori e gli ideali che hanno ispirato la Resistenza contro il
Nazifascismo sono un lontano ricordo. L'esperienza di quell'esaltante periodo di lotta
per i diritti ha lasciato il passo all'arrivismo, ha ceduto alla pressione del percolato
invasivo, infettivo e corrosivo che le cosche mafiose sversano su quegli ideali.
Seppellendoli. Quei valori vivono nelle idee e nelle azioni della società responsabile
che ricorda. Ma non è un ricordo retorico. È un ricordo dinamico. Progettuale. È la
base del progresso societario libero, staccato dal compromesso mafioso. L'antimafia
dal basso nelle regioni oltre la Linea Gotica lotta, denuncia, lavora per un progresso
libero dai denari delle mafie.
Il compromesso, con la più potente e segreta organizzazione mafiosa al mondo,
l'ha scelta, invece, il lombardo Ivano Perego, che con i suoi amici politici e i tanti
altri imprenditori padani, morbidi di fronte ai servizi offerti dalle cosche, hanno un
ruolo centrale nell'affermazione della 'ndrangheta lombarda.
Due modi di fare impresa che convergono, quelli di Strangio e Perego. Salvatore
Strangio, nato a Natile di Careri, è titolare della Sad Ivano del colosso locale Perego.
Il primo ottiene commesse dal secondo e gestisce di fatto l'azienda che gli
commissiona i lavori. Subappalti e commesse che distribuisce tra le venti Locali di
'ndrangheta presenti in Lombardia. Una cabina di regia governata dallo
'ndranghetista Strangio. Attento ad assegnare gli incarichi basandosi sugli spazi vitali
di ogni singola Locale. Il territorio lombardo è diviso in sfere d'influenza
'ndranghetista. Se l'appalto della Perego è a Rho, il subappalto del subappalto deve
essere assegnato alle 'ndrine di Rho. Se è a Bollate, la terra la caricano i camion dei
boss di Bollate. E così via. Un mercato viziato e distorto dai compromessi tra sistema
imprenditoriale locale e imprenditoria 'ndranghetista. Non è l'anticamera del
monopolio. È già il trust fatto sistema e organizzato dalla 'ndrangheta lombarda.
Non è uno scatto di orgoglio imprenditoriale, quello che spinge Ivano a liberarsi
di Salvatore Strangio. È convenienza. Rafforzata dalla consapevolezza di avere dalla
sua parte altri 'ndranghetisti. Ivano non sopporta le lezioni che Strangio gli riserva
sul metodo di gestione dell'azienda. Sa bene che Strangio non lo ritiene adatto. Le
voci girano. Infastidiscono e impauriscono Ivano. "Mi vorrebbe sostituire", pensa tra
sé. Riflette sul da farsi. Gli hanno riferito che il "calabrotto" Strangio vorrebbe
sostituirlo con un commercialista vero. Uno che amministri la sua azienda. Per Ivano
è una situazione surreale. "Sì, la situazione delle casse aziendali è pessima", ammette
a se stesso. "L'azienda sta crollando a picco". E Strangio la vuole salvare a tutti i
costi. "Perché?". Si domanda Ivano. "Qual è la ragione che spinge Salvatore a volere
inserire un amministratore di professione nella mia creatura dai bilanci prosciugati?".
La risposta è banale e allo stesso tempo esplicativa di un raffinato metodo
mafioso, da 'ndranghetista del terzo millennio. Salvatore Strangio è al corrente dei
bilanci disastrati dell'azienda di Ivano Perego. Insiste nel suo progetto di inserire
nell'organico un commercialista che possa risolvere i problemi amministrativi. Ci
tiene alla Perego, Strangio. È il suo cavallo di troia per l'Expo e per tutti gli appalti
della Lombardia. Ritiene Ivano Perego un incompetente, capace soltanto di
sperperare denari. E non ha neppure fiducia in Andrea Pavone. Più adatto, secondo
Strangio, a mantenere i rapporti istituzionali. Ha una certezza lo 'ndranghetista
Strangio. Che se continua così la Perego affonda e sarà una disgrazia per tutta la
Società 'ndranghetista.
"L'azienda non deve saltare va boh... perché ci sono dei motivi ben... ben validi...
per non farla saltare...", avverte Strangio. Quei motivi sono di opportunità per il
futuro. Hanno il sapore acidulo della terra metropolitana, dei rifiuti speciali, del
cemento armato da sagomare in edifici che certifichino al mondo la Milano
Universale.
Ivano non ha intenzione di farsi da parte. È d'accordo con Andrea Pavone, socio
della Perego e "creatura" che Strangio ha scelto di inserire nell'azienda di Ivano.
Pavone conosce bene il mondo da cui proviene Strangio. Non si intimorisce
facilmente. Neppure quando davanti alla sua villetta gli uomini di Strangio gli fanno
trovare una croce di un metro e ottanta. Un'intimidazione che Pavone ricollega ad
altri possibili creditori della Perego. Un gesto che passerà inosservato tanto da
lasciare increduli Strangio e i suoi picciotti d'onore.
"Poi ci mettiamo una testa di capretto, di cane, qualcosa gliela mettiamo là che
sputa sangue, davanti alla porta, vedete che domani gli si drizzano i capelli...
cominciamo con la croce, prepariamo una croce e la mettiamo la davanti alla porta".
Questo il piano, intercettato dalle microspie, che Salvatore Strangio e Pasquale
Nocera avrebbero voluto mettere in campo per avvertire i soci e ricordargli che il
ruolo di Strangio è immutabile.
Le manovre di Ivano e il socio Pavone tendono a estromettere Strangio. Alla ditta
di Salvatore Strangio non arrivano più i pagamenti da parte di Perego Generale
Contractor e rimane all'oscuro di numerosi lavori di movimento terra assegnati ad
altri "calabrotti". A suggellare il raggiro a danno di Strangio una notizia apparsa sul
Corriere della Sera. "Gli Strangio di San Luca nei lavori dell'Expo", titola il Corriere
della Sera. Strangio è assalito dal panico. Nonostante il Corriere confonda il ceppo
familiare, infatti Salvatore Strangio appartiene alla 'ndrina di Natile di Careri, sente
che il vento sta cambiando e vuole mettersi al riparo. Tensioni alimentate dalle voci
messe in giro dai soci, Ivano Perego e Andrea Pavone. Alimentano una paranoia tale
in Salvatore Strangio che da solo si allontana senza chiedere più nulla. Fuori
Strangio, negli uffici della Perego entra di scena un altro 'ndranghetista. Rocco
Cristello della Locale di Mariano Comense. È lui il successore di Strangio alla
Perego. E mentre vaga in cerca di fonti confidenziali per sapere se è reale il suo
prossimo arresto, Rocco protegge i cantieri della Perego, gestisce la distribuzione
delle commesse, diventa socio occulto del duo Perego-Pavone. Cristello fa il suo
lavoro di 'ndranghetista. Ma esige anche il saldo del debito che la Perego gli deve.
Un credito enorme accumulato dalla Perego che con le imprese degli 'ndranghetisti
ha fatto affari per lunghi anni. Né Pavone né Perego sanno come restituirgli il denaro
e gli propongono la società. Cristello accetta e punta in alto.
I pm di Milano scrivono: "Cristello diviene socio, sempre tramite la fiduciaria
Comitalia e sempre tramite il mandatario Brusadelli (insieme a Coruzzi Alessandra e
Bayati Hasan), di Pharaon Group. Si ricordi che a fine 2009 è ancora in piedi
l'operazione Cosbau (colosso delle costruzioni con 21 milioni di euro di commesse
solo nella ricostruzione de L'Aquila) e l'obiettivo finale di Cristello è quello di
entrare nella compagine sociale del nuovo grande gruppo che sarebbe dovuto nascere
dall'ingresso dei nuovi asseriti capitali portati da Pavone e dalla successiva fusione
con quel che rimaneva di buono in Perego. Il 16 novembre 2009 cominciano i
movimenti per rendere effettivo il passaggio delle quote e prosegue fino ai primi di
dicembre; passaggio che avrebbe portato il signor Rocco Cristello e il Locale di
Mariano Comense ad essere soci di Cosbau". Tramite Pavone la fusione riesce, gli
uomini delle 'ndrine per un brevissimo periodo riescono a entrare nel cda di Cosbau.
Ma poi i piani subiscono un collasso e l'operazione Cosbau fallisce.
Pavone e Ivano sono accerchiati. L'impresa Perego soffocata. Quello che Ivano ha
sempre visto come vantaggi competitivi gli si ritorce contro. Ora Strangio e Cristello
vogliono i soldi e meditano vendetta. Il primo a reagire è Strangio che rapisce
Pavone. Un rapimento lampo. Risolto grazie all'intervento di un altro 'ndranghetista,
il fratello di Rocco Cristello.
Ha visto la morte in faccia, Andrea. Davanti ai suoi occhi tutta la vita. Di qualcosa
si è pentito, o forse no. Ma ha paura e cerca conforto. Piange, si dispera. È
consapevole che il Tribunale della 'ndrangheta esegue le sue sentenze senza
esitazione. Lui è sopravvissuto. Vaga disorientato per Lecco e affonda i pensieri nella
melma del suo presente, nei fantasmi del suo passato e nelle trappole del suo futuro.
La storia di Andrea Pavone e Ivano Perego rievoca nei miei pensieri il racconto di
un imprenditore brianzolo che la 'ndrangheta l'ha vista da vicino. Da vittima. "Hanno
conquistato il Nord. In Lombardia sono arrivati in silenzio, mimetizzati hanno saputo
mantenere un basso profilo. E sono riusciti a intrecciare una fitta trama di relazioni
con imprenditori spregiudicati e politica locale. Rapporti fatti di scambi di favori, di
corruzione. Diritti che si tramutano in favori. Questo humus ha permesso alla
'ndrangheta di emergere successivamente in tutta la sua mafiosità. Di entrare da capi
d'azienda nelle aziende altrui, di entrare nei cantieri armati per piegare chi non
concede lavori o assume manodopera. Il vero volto è emerso successivamente al
consenso ottenuto dalla base sociale deviata della comunità Lombarda".
Sono macigni, le parole dell'imprenditore. Sotto i loro colpi si sgretolano le
convinzioni di chi ha negato e continua a declassare l'impero 'ndrangheta a questione
di ordine pubblico. Non si tratta di ordine pubblico quando in una larga fetta di
economia Lombardia i diritti vengono barattati con i favori. È il segnale più
inquietante della presenza radicata di un'organizzazione mafiosa su un territorio.
Come in Calabria. Campania. Sicilia. Puglia. Così in Lombardia. Una 'ndrangheta
dalle dinamiche prepotenti, già espansa e divenuta parte del sistema. E non più in
fase embrionale come lo zoccolo duro della politica nordista vorrebbe fare credere. Il
governo dà i numeri sulla lotta alle mafie. Si prende i meriti di risultati ottenuti
grazie all'abnegazione di servitori dello Stato in prima linea, salvo poi offenderli
chiamandoli "cancro" (la stessa Ilda Bocassini è stata lodata dopo l'operazione
Crimine e insultata dopo il caso Ruby). E rimane indifferente all'impegno delle
resistenti sacche di società civile che alle mafie negano il consenso con sistematicità
quotidiana, con atti concreti. Organizzando serate, parlando, raccontando storie di chi
resiste e si oppone, denunciando le sopraffazioni, consumando in maniera critica,
evitando stili di vita che ingrassano le tasche dei boss. E il governo? Festeggia ad
Arcore con le minori non accompagnate e con quel Lele Mora, imputato nel processo
Ruby e ad oggi (ottobre 2011 ) ancora in "galera preventiva" per bancarotta, dal
passato discutibile e intercettato con Paolo Martino, boss della 'ndrangheta. E si
serve del diritto di replica per elencare in prima serata agli attenti telespettatori
l'elenco dei latitanti arrestati. Riducendo, appunto, la questione mafiosa a storie di
latitanti, di guardie e ladri, di criminalità avulsa dal potere. Negando così il carattere
proteiforme delle cosche e la loro essenza economica e politica. Che il governo ha
aiutato con misure come lo scudo fiscale. E con leggi non approvate come
l'autoriciclaggio.
9. L'autonomista lombardo
È più di un anno che Antonio si sveglia nel cuore della notte per i rumori dei
camion. Cosa diavolo fanno a quest'ora tarda della notte, pensa. È indiavolato,
Antonio. Non ne può più. Lavora tutto il giorno, e non torna a casa prima delle otto
di sera. Cena con la moglie e i figli, che vede con il contagocce. Quando il sonno non
lo travolge completamente riesce a guardare qualche film in televisione. Ma è una
rarità per Antonio. Dopo una giornata a girare per le strade della Lombardia, a
convincere i clienti a comprare le piastrelle della società per cui fa il rappresentante,
il letto diventa una meta e non solo un luogo fisico dove riposarsi.
Rumori meccanici, voci lontane, risate in sottofondo. Ascolta tutto, Antonio.
Una volta sveglio, quantomeno, riflette Antonio, vuole sapere, conoscere chi sta
armeggiando con quei grossi camion per il movimento terra. Di cose strane ne ha
viste parecchie. Le strade della Lombardia stanno cambiando volto. Nuovi cantieri
sorgono. E sono il presagio che la Lombardia tra qualche anno avrà un vestito nuovo.
In quei cantieri, Antonio sa bene come vanno le cose. Sa ascoltare i commenti dei
colleghi, dei clienti, della gente che incontra al bar per il caffè di metà giornata. Sa
bene, Antonio, che dove c'è terra da muovere per preparare il terreno a nuove
costruzioni, i "calabrotti" sono in agguato. D'altronde anche amici suoi, imprenditori
edili di successo, gli confermano le voci. Il monopolio del movimento terra
appartiene alla 'ndrangheta. Così come quello della cocaina proveniente dal Sud-
Centro America. Quando è pura al 90 per cento, gli hanno detto ad Antonio, stai
tranquillo che e "roba loro". Dall'oro bianco traggono la sterminata liquidità Per
investire nell'economia legale. Tanti i settori scelti dalle cosche. Non disdegnano il
commercio e la ristorazione, ma prediligono l'edilizia. L'indotto dell'edilizia: dalle
imprese di movimento terra alle ditte di materiali attraverso le quali imporre le
forniture, fino alle società immobiliari. È capitato anche che 'ndranghetisti
riuscissero a entrare in cda di importanti società di costruzioni del Nord. Un cantiere
per il boss non è solo un pezzo di terra recintato. È molto di più. Rappresenta un
osservatorio privilegiato sulla realtà. Una volta entrati nei cantieri con i propri mezzi,
uomini e ditte, la cosca riesce a tessere trame tanto essenziali e invisibili quanto vitali
alla riproduzione dell'Organizzazione. Dal cantiere "conquistato" inizia il percorso di
legittimazione sociale di cui le 'ndrine hanno bisogno disperato per sopravvivere
nelle realtà ricche e produttive. Inizia la mimetizzazione. La seconda fase è quella
del controllo e dell'acquisizione di informazioni sulle imprese concorrenti.
L'assegnazione di appalti, le clientele, i poteri forti, i punti deboli e i nervi scoperti
degli imprenditori concorrenti. L'acquisizione delle informazioni su terzi e la
tessitura delle trame politico-istituzionali-imprenditoriali, permette alla 'ndrangheta
di progettare il piano economico futuro. Una complessa opera manageriale dove
vengono suddivisi compiti e ruoli "lavorativi". Il boss impartirà ordini ai picciotti
sulle vittime da usurare, quella a cui chiedere un favore, una mazzetta, un sub
appalto. Tutte azioni impossibili senza essere dentro al sistema e parte del tessuto
economico sociale del "succulento" Nord. Tra le cosche strutturate nel Nord del
paese non c'è competizione, come è avvenuto un tempo. Ora si accordano. Si siedono
attorno a un tavolo e tagliano a fette il boccone per poi masticarlo lentamente,
assaporandone gli aromi. È un'azione lenta, ma ugualmente distruttiva dei tessuti
ricchi del Paese. Piuttosto, com'è accaduto, trasformano le strade della Calabria in
teatri di guerra ma non al Nord! Guai a sparare all'impazzata per regolari i conti
interni alla consorteria o tra differenti organizzazioni mafiose. Certo, si spara e si
ammazza anche in Emilia, Lombardia, Piemonte e Liguria. Ma con azioni
chirurgiche, mirate. Il Nord serve ad altro, altri progetti, altre trame.
La "presa" di un cantiere produce effetti a cascata. È il primo passo della scalata
ai vertici delle società e delle comunità locali. La 'ndrangheta lombarda ed emiliana
l'ha capito. E gli effetti si vedono.
Antonio scorge in lontananza delle ombre. Uomini, ne è certo. Si abbassa, cerca
di nascondersi sotto il muretto. La sua curiosità l'ha portato, alle 3 di notte, al confine
del campo dove quei camion stanno scaricando la terra di risulta. "Che puzza!",
esclama Antonio, attento a non farsi sentire. Vuole capire chi è che lo sveglia ogni
notte, da un anno. Davanti a lui tre camion. Sei persone, tre alla guida e altrettanti
forniscono le indicazioni sul punto esatto dove scaricare i rifiuti. Riesce appena a
sentire le voci, confuse. Distorte dai rumori dei motori e dagli ingranaggi che
muovono i cassoni dei camion. Ma sente un puzzo infernale. Chimico. Le narici gli
bruciano. Trattiene il respiro, soffoca il conato di vomito, opprime la tosse. È assalito
da una sensazione di profondo disgusto. Vorrebbe tornare a casa, nel suo letto caldo.
Ma vuole ancora capire una cosa. Preleva una manciata di terra. La ripone in un
pezzo di cartoncino e fugge da quello scorcio di inferno della profonda Brianza.
Un'altra notte è andata, la mattina bussa già alla finestra. E Antonio osserva, davanti
a una tazza colma di caffè caldo, il campione di terra rubato alla 'ndrangheta. Un suo
amico è dipendente di una società di analisi chimiche. Lo consegnerà a lui per
analizzare la mista e capire cosa nascondono quei figuri che lavorano di notte per
evitare controlli.
In Lombardia le 'ndrine, tra i tanti servizi offerti alle imprese, si occupano pure di
smaltimento illecito dei rifiuti. È del settembre 2008 l'arresto di otto persone che si
occupavano di smaltire i rifiuti seppellendoli nei terreni della Brianza. Gli uomini del
Nucleo operativo della polizia provinciale di Milano hanno sequestrato 65 mila metri
quadrati di terreno dov'erano stati disseminati 178 mila metri cubi di rifiuti tossici e
nocivi provenienti soprattutto dalla zona di Bergamo. Su altri 235 mila metri quadrati
di terreno sono tuttora in corso accertamenti. Tra i venti indagati ci sono anche
imprenditori e industriali che si sono affidati alla 'ndrangheta per lo smaltimento dei
rifiuti. Nelle mani degli agenti sono finiti tir e attrezzature utilizzate nelle cave, per
un valore di 2 milioni e 500 mila euro. Fortunato Stellittano, già sottoposto al regime
del 41 bis, sotto la copertura delle aziende di Giovanni Stellittano e Ivan Tenca,
l'Impresa Edile Stellitano Giovanni e la Fratelli Tenca, che solo formalmente si
occupavano di edilizia e rottamazione, e grazie all'appoggio degli altri arrestati,
individuava campi abbandonati e li acquistava, per poi contattare altre aziende e
provvedere allo smaltimento abusivo dei rifiuti nelle fosse. Anche Ivan Tenca, come
Fortunato Stellittano, era conosciuto dalle forze dell'ordine per aver sparato contro il
boss della 'ndrangheta Domenico Quartuccio.
Le buche scoperte per lo smaltimento dei rifiuti erano profonde 9 metri e lunghe
50. L'area maggiormente estesa era quella di Desio con 30 mila metri quadrati
imputriditi da piombo, cromo e materie plastiche. Il metodo era ben collaudato:
scavavano, vendevano la terra alle imprese edili e saturavano la fossa coi rifiuti
tossici. L'ultimo atto non riuscito consisteva nel mettere in atto una denuncia di
inquinamento contro ignoti per ottenere dal Comune il cambio della destinazione
d'uso del terreno da agricola a residenziale, potenziandone il valore e speculando così
altro denaro aggirando le leggi e inquinando l'economia legale. Un raggiro quasi
riuscito dai fratelli Stellitano, che sono ritenuti dagli inquirenti vicini alla 'ndrina dei
Lamonte di Melito Porto Salvo. Il boss Natale lamonte, arrestato nel 1993, fu uno dei
primi mammasantissima a entrare nella massoneria. E nell'opulenta Brianza, proprio
a Desio, nel 1988 fu spedito in soggiorno obbligato. Nefaste conseguenze di quella
misura cautelare, basata sulla convinzione pregiudiziale che allontanare un mafioso
dal suo luogo di origine fosse sufficiente per debellare il fenomeno mafioso. Una
delle numerose sottovalutazioni in tema di lotta alle mafie, che oggi continuiamo a
pagare duramente. Non è la sola, anche perché i mafiosi arrivati con il soggiorno
obbligato sono ormai tutti in carcere. Indicare nella misura del soggiorno obbligato la
sola causa della colonizzazione del Nord da parte delle mafie, è strumentale, e
fuorviante. È un'argomentazione che i leghisti utilizzano spesso. Semplificare la
realtà fa parte del loro agire politico. Il retro pensiero alla base della condanna
assoluta del soggiorno obbligato si può sintetizzare nella frase: "È colpa dei
meridionali". Cavallo di battaglia della Lega Lombarda anni Ottanta-Novanta. I fatti
smentiscono la propaganda xenofoba della Lega. E anno dopo anno sono aumentati
gli arresti tra i padani. Imprenditori, professionisti, politici, che hanno stretto accordi
con potenti boss meridionali. Gli affari sono il comune denominatore che lega i poli
estremi del Paese. È attraverso i rapporti economici che le organizzazioni mafiose
impongono la propria presenza nelle regioni del Nord, che negli anni è diventato
radicamento.
In quelle terre brianzole dove i camion della 'ndrangheta hanno scaricato per anni
terra tossica, dovrebbe sorgere un parco fotovoltaico. Un progetto inserito e
approvato nel piano di opere dell'Expo 2015. La bonifica dei terreni è da risolvere.
Un problema non indifferente per l'area sotto sequestro. Il Comune di Desio nel 2009
aveva annunciato che si sarebbe costituito parte civile, per ottenere un primo
risarcimento di 50 mila euro con i quali avviare la bonifica dell'area. Entro il 2012 il
parco dovrebbe entrare in funzione. Ma 50 mila euro per la bonifica non sembrano
sufficienti. E per questo il Comune ha chiesto al proprietario dell'area utilizzata come
discarica per le scorie della 'ndrangheta, di partecipare alla bonifica. Dopo tre anni
non è partito alcun lavoro di bonifica. Secondo il consulente incaricato dall'ex
sindaco Mariani, l'ingegnere Giuseppe Farina, la bonifica (da eternit, idrocarburi,
forse cromo, di certo materiali inerti, macerie, scarti edilizi) costerebbe almeno 2
milioni di euro. "Ma le indagini sono state fatte solo fino a 6 metri di profondità - ha
spiegato durante una seduta del Consiglio comunale il sindaco Roberto Corti - e dalle
immagini si ipotizza che lo scavo sia stato fatto ben oltre: il timore è che Più sotto ci
siano i rifiuti più inquinanti e pericolosi. Per questo i costi potrebbero essere anche
maggiori. Noi abbiamo detto agli uffici di contattare delle aziende specializzate per
avere dei preventivi".
Una situazione complicata, a cui si aggiunge l'impossibilità di recuperare qualche
fondo regionale. "A quanto pare - ha aggiunto il sindaco - attualmente non può
rientrare nella lista regionale dei siti da bonificare con urgenza, quindi non possiamo
accedere a finanziamenti regionali. Ovviamente, con l'avvocato Anna Galli che segue
il caso per noi, stiamo vedendo come rivalerci su chi ha causato il danno". Ma molti
degli arrestati si sono dichiarati nullatenenti. Qualcuno ha avanzato l'idea di chiedere
a Pedemontana, che dovrà passare vicino quel sito, di sostenere i costi della bonifica.
Una trattative in corso, secondo la stampa locale.
Dagli annunci del 2009 è passato molto tempo. La Lombardia e Desio, in
particolare, sono stati travolti da un ciclone giudiziario senza precedenti.
L'operazione Crimine di luglio 2010 ha minato alla base la politica locale brianzola.
Il Comune di Desio, è stato sciolto. Non per mafia, ma per dimissioni dei consiglieri.
Anche se la 'ndrangheta nel Comune di Desio ha tentato di entrare dalla porta
principale. Tentando di sfruttare le amicizie coltivate negli anni. Come quella con
Natale Marrone, eletto consigliere comunale con oltre 400 preferenze e presidente
del circolo territoriale di Alleanza nazionale a Desio. È lui che si rivolge a Pio
Candelora, ritenuto dai magistrati caposocietà del Locale di Desio, per un favore.
Vorrebbe organizzare un'azione violenta nei confronti di Rosario Perri, all'epoca capo
area tecnica del settore edilizia privata del Comune di Desio. Proposta che Il boss Pio
Candelora rifiuta. E non per umanità. Ma perché Perri sarebbe "appoggiato",
scrivono i magistrati, da "persone di rispetto".
In questo contesto di padronanza dei luoghi e delle istituzioni, per la 'ndrangheta
avvelenare un terreno non è mai stato così semplice. Le promesse fatte dall'Assessore
nel 2009 sulla bonifica saranno rispettate? Al Comune di Desio i consiglieri si sono
dimessi per evitare il commissariamento per mafia, sarebbe stato il primo caso in
Lombardia. Dopo le dimissioni ci sono state nuove elezioni, vinte dal democratico
Roberto Corti che guida una giunta di centrosinistra.
L'oro che puzza fa gola anche a Cosa Nostra palermitana che per anni ha gestito
lo smaltimento di rifiuti nel settentrione. Luigi Abbate, 53 anni, ritenuto "uomo
d'onore" del mandamento mafioso di Porta Nuova a Palermo aveva affari in corso un
po' in tutta Italia. In Sicilia ma anche al Nord: in Lombardia, in Liguria e in Emilia
Romagna. In un'operazione ribattezzata Città pulite, dell'aprile 2011, il Tribunale di
Palermo ha sequestrato a "Gino 'u mitra" beni per 22 milioni di euro. Tra questi, le
proprietà di diverse società operanti nell'attività di raccolta e smaltimento rifiuti.
Settore nel quale lavorava anche Italia 90, l'azienda punta di diamante
dell'organizzazione, con sede a Palermo ma unità operativa al Nord, ad Ospedaletto
Lodigiano ed impegnata a prendere appalti in diverse piazze del settentrione. "Ginu
'u mitra", soprannome che deriva dall'abilità nell'utilizzo delle armi, è stato
scarcerato nel 2010 e oggi è sottoposto a un provvedimento di sorveglianza speciale
in Sicilia. Prima del sequestro controllava i suoi affari attraverso una serie di
prestanome, che di solito erano persone con lui imparentate. Italia 90, per esempio,
divenne a partire dal 2005 ufficialmente di proprietà di Claudio Demma, il marito di
Maria Abbate, la sorella del boss, entrambi in carcere. Il gruppo andava alla ricerca
di appalti, preferendo la raccolta e il conferimento in discarica dei rifiuti di piccoli
comuni del Nord Italia. Fino al 2009 si contano 40 gare aggiudicate a Italia 90. La
maggior parte nelle provincie della bassa Lombardia, tra Lodi e Cremona. Gli
uomini di Abbate non si risparmiavano dall'intimidire le ditte concorrenti. Ottenere il
monopolio è l'obiettivo che si pongono le cosche quando scendono in campo. "Gente
che è capace di metterti la testa di un cavallo morto nel letto", confida un funzionario
dell'ufficio tecnico di Sant'Angelo Lodigiano.
Scenari inquietanti su cui proseguono le indagini. Già nel 2009, la Procura di
Lodi ha scoperto che Demma, in combutta coi due funzionari, aveva falsificato le
carte relative ad un appalto da 5 milioni di euro, per aggiudicarselo ed escludere un
altro concorrente. Un ruolo di primo piano nella gestione delle aziende di famiglia è
quello ricoperto da Antonino Abbate, nipote del boss "Mitra". Secondo gli
investigatori è lui ad accreditare gli interessi della famiglia mafiosa presso le
pubbliche amministrazioni, al Sud come al Nord.
Terra, rifiuti, cemento, calcestruzzo e bitume. I punti cardinali che indicano alle
cosche il percorso da seguire. Una strada che i mafiosi percorrono insieme a
condottieri del luogo. Esperti del settore. Impresari del cemento e del movimento
terra, dei rifiuti. Maurizio Luraghi è uno di questi. Impresario di lunga data.
Lombardo verace. Le sue imprese fanno affari d'oro. E grazie all'amicizia con Rocco
Papalia e Domenico Barbaro nessuno può frenare la corsa della sua Lavori Stradali
srl. Il legame con Rocco Papalia, boss ergastolano della 'ndrina Papalia di Platì, è
stretto. Si protrae da lungo tempo. Da prima che Rocco Papalia finisse in carcere. Il
vuoto lasciato da Papalia è stato occupato da Domenico Barbaro "l'Australiano", un
altro pezzo da novanta della 'ndrangheta di Platì da anni residente in Lombardia. A
Buccinasco. La Platì del Nord dove le vedette in motorino avvertono chi entra e chi
esce dal paese. Come del resto avviene in tutti i quartieri o paesi governati dalle
cosche, dalla Sicilia alla Lombardia. E Buccinasco è il regno della cosca Barbaro-
Papalia, alla quale sono organiche le 'ndrine Perre, Agresta e Trimboli. Che fin dagli
anni Ottanta hanno messo le mani sui business che contano in terra lombarda. Dalla
droga ai sequestri, dal movimento terra alle immobiliari. E hanno stabilito un
contatto con la politica locale.
Nelle sue rivelazioni, il collaboratore di giustizia Saverio Morabito, che con le sue
dichiarazioni ha fatto condannare decine di boss nel processo Nord-Sud, ha parlato
anche delle frequentazioni tra politici e capicosca della 'ndrangheta. Nelle sue parole
gli investigatori rileggono la storia di una foto, scattata nella primavera del 1990
davanti al ristorante San Marino di Buccinasco, dopo un meeting organizzato dagli
imprenditori locali durante la campagna elettorale per le amministrative. Al centro
del gruppo c'era il boss Rocco Papalia. E accanto a lui, secondo quanto scrivono i
magistrati, il consigliere regionale socialista Massimo Guarischi, il proprietario del
ristorante e consigliere comunale del Psi di Buccinasco, Giuseppe Borrello, il
vicesindaco, anche lui socialista, Alberto Fontana e il consigliere comunale del
Partito socialista a Corsico, Francesco Verderosa. Racconta Morabito: "Con i sistemi
di intimidazione la famiglia Papalia si è imposta nei comuni di Corsico e
Buccinasco, anche in ambienti politici. Hanno sostenuto diverse candidature
elettorali, di corrente socialista, per accaparrarsi ogni sorta di vantaggio. Qualora
questi candidati da loro sostenuti fossero stati eletti, avrebbero dovuto sottomettersi
in tutto e per tutto ai voleri dei loro sostenitori". Era il 1990, quando la 'ndrangheta
veniva descritta come associazione dedita ai sequestri, una banda di pastori ignoranti
e violenti. Un errore non analizzare l'altra faccia delle 'ndrine che già in quegli anni
decidevano le sorti politiche dell'hinterland milanese. E forse i sequestri di persona,
oltre che una forma di accumulazione primitiva, e selvaggia, di capitale, non erano
altro che delle armi di distrazione di massa. Utilizzate dai boss per depistare verso
Sud le attenzioni investigative e dello Stato. Un trucco brutale per confondere e per
celare il loro impero in costruzione nel settentrione d'Italia. In quegli anni la
'ndrangheta aspromontana e reggina cresce, accumula, corrompe. S'innesta nelle
nervature del sistema economico del Nord. Porta denaro sporco, crea ricchezza e fa
guadagnare gli imprenditori che cercano servizi a basso costo. Vent'anni dopo, il
romanzo criminale ha gli stessi personaggi, stessi cognomi, identiche prassi. Tranne
che i sequestri. Il business ha il colore bianco della cocaina e marrone della terra di
cantiere.
Uno dei tanti imprenditori che dialogano con i boss è Maurizio Luraghi. Con
l'Australiano parla un giorno sì e l'altro pure. Con lui critica il comportamento del
rampollo Salvatore Barbaro, indicato da Papalia quale suo degno successore, che
ostenta ricchezze e potere. "Si è costruito una villa da quattro miliardi", si sfoga
Luraghi con un suo collega. Non è una critica al modus operandi del giovane boss,
anzi se potesse se la costruirebbe anche lui. Ma teme che l'ostentazione del rampollo
possa attirare le attenzioni degli investigatori.
A Domenico Barbaro, Luraghi, confessa anche le sue delusioni per essere messo,
a suo dire, nei momenti di frizione all'interno del sodalizio, sullo stesso piano delle
vittime delle estorsioni, cui Salvatore chiede il pizzo, nonostante i rapporti di
"collaborazione" pregressi, risalenti ai tempi del suocero Rocco. Ma la delusione si
fa ammirazione e stima non appena avverte che dietro il rampollo dei Barbaro-
Papalia si cela la lunga mano del boss ergastolano Rocco.
"Salvatore Barbaro, eseguendo gli ordini emanati da Rocco Papalia dal carcere,
ha assunto pienamente il controllo della cosca dedita all'acquisizione illecita con
metodi mafiosi, dei lavori edili insistenti sul noto contesto territoriale dell'hinterland
Sud Ovest milanese, ove esercita, in qualità di capo, insieme agli altri sodali, una
sorta di 'quasi monopolio' nel menzionato settore... La posizione di ogni singolo
membro all'interno della 'famiglia' viene severamente disciplinata e regolata da un
ferreo codice per gli appartenenti, che devono sottostare agli ordini impartiti dal
vertice decisionale, che così riesce ad esercitare il quasi assoluto dominio sui lavori
di scavo, movimento terra e di urbanizzazione nell'area di Buccinasco". (Indagine
Cerberus-Gico e Oda di Milano, 2008).
Il metodo di spartizione degli appalti e sub appalti del movimento terra segue una
logica definita. Prima di ogni appalto l'imprenditore Luraghi incontra Domenico e
Salvatore Barbaro. Si confrontano per stabilire le situazioni a monte e determinare le
linee guida da seguire. Successivamente si passa agli incontri con persone vicine
all'Amministrazione pubblica. Che Luraghi ha l'obbligo di riferire parola per parola a
Domenico e Salvatore Barbaro.
Il giovane Salvatore è il boss della cosca. È il genero di Rocco Papalia, ne ha
sposato la figlia Serafina. La cosca Barbaro-Papalia è un marchio doc in Lombardia.
Non c'è lavoro di scavo a cui i camion delle ditte da loro imposte non abbiano
partecipato. È un monopolio. Tra gli imprenditori del settore è un fatto noto. Ma
nessuno denuncia i metodi mafiosi con cui impongono le proprie ditte o quelle dei
padroncini calabresi orbitanti intorno alla galassia della 'ndrina. Il movimento terra è
roba loro. Già negli anni Ottanta il capobastone Rocco Papalia aveva avviato proprie
imprese di movimento terra. E con lui Luraghi aveva iniziato la "proficua"
collaborazione. Con Salvatore Barbaro i rapporti sono più complicati. Il figlio
dell'Australiano ha ereditato da Rocco lo scettro del potere. Attorno a lui, un esercito
di giovani emigrati calabresi. Nel boss vedono il condottiero. Il supremo, capace di
gestire il loro futuro. Di spartire i lavori in maniera equa per i "cagnolini", come li
chiama Luraghi in una conversazione intercettata, che gli stanno attorno. Quei
"cagnolini" che dalla Calabria hanno raggiunto la Lombardia sognando ricchezza, e
dove invece hanno trovato sottomissione a un capo mafioso.
"L'espressione '...tutti i suoi... cagnolini che ci girano intorno...", denota inoltre la
grande disponibilità di giovani leve che dalla Calabria ancora oggi migrano al Nord,
in particolar modo a Buccinasco. Tutti questi 'cagnolini' hanno sicuramente come
punto di riferimento Salvatore Barbaro, che avendo preso il posto di Rocco Papalia,
riesce bene a gestire gli affari della 'famiglia', avvalendosi della 'inesauribile'
manodopera calabrese". (Cerberus-Gico e Dda Milano).
Il controllo del territorio esercitato dalla cosca nei dintorni di Buccinasco è di
quelli asfissianti. Esiste una rigida spartizione del territorio. Ogni Locale di
'ndrangheta che opera in Lombardia agisce nel suo territorio di competenza. Una
sorta di giurisdizione criminale. Come avviene in Calabria. Nei cantieri della zona di
Rho, lavorano i camion della 'ndrangheta di Rho, guidata da Stefano Sanfilippo. A
Buccinasco quelli dei Barbaro -Papalia. Gli scavi a Legnano li fanno gli
'ndranghetisti del Locale di Legnano, al cui vertice c'è Vincenzo Rispoli. Regole a
cui è necessario sottomettersi per il quieto vivere e per guadagnare bene, e tutti.
E tutti fanno affari con le ditte delle 'ndrine lombarde. Un lungo elenco contenuto
negli atti dell'indagine "Redux-Caposaldo" indica con precisione i cantieri in cui
sono stati chiamati i camion della ditta Al.Ma., il cui socio occulto è Giuseppe
Romeo, della cosca Morabito di Africo. Milano, via Stephenson. Milano, Viale Zara.
Milano, via Adda, SS 36 tra Monza e Cinisello Balsamo. Milano Portello, Monza via
Mauri. Basiano, via Roma. Milano, via Tortona. Milano, piazza XXV Aprile. Milano,
via Comasina. Milano, via Boiardo. Milano Lambrate, via Scarsellini. Paderno
Zugnano, Milano, via Pirelli. Milano, via Segantini. Milano, via Valtellina. A
muovere la terra nei cantieri della Milano che cresce e fagocita territorio, sono i
camion degli africoti, legati alla cosca Plachi, un tempo padrona di Milano insieme al
boss Coco Trovato. Lavori di ogni tipo, si va dalla realizzazione della linea 3 e 5
della metropolitana di Milano, alla ristrutturazione delle cliniche private, passando
per l'edilizia residenziale. E in ogni caso l'Ai.Ma. è riuscita ad aggirare la normativa
antimafia attraverso il sub appalto del sub appalto. Solo in un caso ha ottenuto la
certificazione antimafia, non si comprende come sia potuto accadere, visto che la
titolare è la moglie di Giuseppe Romeo. Un pezzo da novanta della 'ndrangheta di
Africo, riconosciuto tale anche a Milano.
E come se esistessero due tavoli decisionali, uno in Lombardia, l'altro in Calabria.
Al tavolo siedono i rappresentanti della 'ndrangheta che conta. Il dirigente della
spartizione, in Lombardia, è stato per lungo tempo Pasquale Barbaro. Alla sua morte
è subentrato Salvatore Strangio, il "calabrotto" d'onore della Perego, che ha svolto un
ruolo fondamentale nella suddivisione dei subappalti. Il coordinamento con la
"Provincia" è un elemento fisso delle pratiche economiche della 'ndrangheta. Chi,
come Nunzio Novella, ha tentato di mutare i codici di funzionamento interni
dell'Organizzazione, è stato ammazzato brutalmente e sotto gli occhi di una
Lombardia ancora incredula della serpe che ha covato in grembo.
Una serpe maligna, velenosa. Che con il suo veleno corrosivo ha imputridito
l'ambiente lombardo. Terreni inquinati e materiali nocivi sotterrati. Sono le
conseguenze del monopolio 'ndranghetistico nel movimento terra. L'obiettivo della
'ndrangheta non è la qualità. Il lavoro viene imposto, a prezzi maggiorati, a volte,
altre a prezzi concorrenziali. Ma oltre ad assicurare la sicurezza del cantiere, il
silenzio dei lavoratori presenti nei cantieri, offre un servizio al risparmio sul
trattamento dei rifiuti, anche pericolosi. La storia dei fratelli Stellitano, legati alla
cosca lamonte di Melito Porto Salvo e con un Locale attivo a Desio, non è la sola. A
raccontarci che la 'ndrangheta avvelena il Sud tanto quanto il Nord, sono altre
inchieste. Altre consulenze e perizie. Altri processi. Perché i processi alla 'ndrangheta
ormai, si fanno al Nord.
Nell'indagine Cerberus che ha portato a processo l'imprenditore Luraghi, i boss
Barbaro e Papalia, il pm ha chiesto la verifica dei terreni di Buccinasco dove hanno
lavorato e costruito Luraghi e la cosca Barbaro-Papalia. Le palazzine sono state
ultimate. Consegnate. Sono abitate. Gli acquirenti, ignari, non potevano immaginare
che la 'ndrangheta avesse preso parte alla realizzazione delle loro residenze. "Il
problema alla fine resta quello dei poveretti che hanno comprato casa a Buccinasco
più". Così il pm Dolci durante la sua requisitoria del primo grado del processo
Cerberus. Una constatazione che lascia aperti molti punti interrogativi. Cosa è stato
sepolto sotto ai palazzi di via Guido Rossa. Per il pubblico ministero, nel terreno è
stato trovato di tutto: "Tracce di idrocarburi, eternit, terra mista a gasolio, cinghie di
trasmissione, rifiuti, blocchi di cemento". Inquinanti già noti, almeno dalla scorsa
primavera quando fu la stessa amministrazione comunale di Buccinasco a parlare di
"terreno contaminato da idrocarburi, in particolare". Dalle intercettazioni contenute
negli atti dell'inchiesta, però, è chiaro che i lavori dei camion della cosca Barbaro
sono proseguiti, almeno fino a tutto il 2005. Metri cubi di terreno inquinato e
contaminato utilizzato per i riempimenti di via Guido Rossa e anche per l'area giochi
per i bimbi dell'insediamento Spina Verde. A costruire il grande progetto di
"Buccinasco più" le imprese legate alle cooperative. Il terreno però era stato
acquistato e poi diviso in vari lotti dal gruppo immobiliare Pecchia che a sua volta lo
aveva rilevato dai Cantoni. I lavori di movimento terra sarebbero stati portati a
termine dal gruppo Barbaro. Piombo, amianto, idrocarburi. Veleni che sarebbero stati
occultati nel sottosuolo di quella che, secondo le parole degli agenti immobiliari,
doveva diventare la piazzetta in cui i bambini di Buccinasco Più avrebbero potuto
giocare in tutta sicurezza, come in un cortile d'altri tempi. Di parere opposto la
Procura di Milano che a metà ottobre 2010 ha notificato sei avvisi di garanzia nei
confronti di chi avrebbe dovuto controllare e non l'ha fatto. Tra i controllori
"distratti" c'è anche Loris Cereda. Che solo una settimana prima di ricevere l'avviso
di garanzia è stato rinviato a giudizio per avere intascato tangenti e benefit per
favorire alcuni imprenditori, un'altra storia di malaffare ambientata a Buccinasco e
dintorni. Per la vicenda dei rifiuti tossici Cereda è accusato, in concorso con Mario e
Adriano Pecchia, rispettivamente presidente e consigliere del cda della Finman spa,
il gruppo immobiliare proprietario dell'area sulla quale lavorarono numerose
imprese, e Renato Pintus, rappresentante incaricato dalla stessa società. I quattro
sono accusati, si legge nell'ordinanza, "in concorso fra loro... per avere realizzato
illecitamente e senza autorizzazione una discarica di rifiuti speciali pericolosi e non
pericolosi, attraverso ripetute operazioni di riempimento con innalzamento del piano
campagna da 3 a 5 metri, tombamento, compattazione e comunque movimentazione
di ingenti quantitativi di rifiuti (stimati in circa 150.000 metri cubi) costituiti da
residui di demolizioni civili e industriali e rifiuti industriali, mescolati con terre da
scavo di ignota provenienza, contenenti anche amianto nonché idrocarburi e piombo
superiori ai limiti consentiti per l'uso residenziale o verde pubblico".
Avviso di garanzia anche per Barbara Luraghi, legale rappresentante della
Luraghi Strade, la società che secondo il pm smaltiva illecitamente i rifiuti "in sito
non autorizzato" per conto della Finman, e a Eugenio Ceroni, collaudatore delle
opere di urbanizzazione di via Guido Rossa tra le quali rientravano anche i
movimenti terra. E qui ritorna lo spettro delle cosche di Buccinasco che grazie
all'imprenditore Luraghi muovevano la terra dell'hinterland. Nel 2009, dopo i
collaudi e i primi carotaggi nell'area destinata al progetto Buccinasco più, il Comune
emette un'ordinanza con cui obbliga i costruttori di bonificare il terreno. Un anno
dopo, la stessa Procura ha posto sotto sequestro l'area. Il presidente della
Commissione bicamerale d'inchiesta sull'illegalità nel ciclo dei rifiuti, Gaetano
Pecorella, ha dichiarato che l'80 per cento delle aziende di movimento terra della
Lombardia sono in mano alla 'ndrangheta. Queste gestiscono l'affare delle aree da
bonificare, numerosissime attorno a Milano, risultato di passate attività industriali.
Che oggi si vorrebbe riconsegnare a nuove iniziative di speculazione immobiliare.
Le zone inquinate attorno a Milano sono numerose, Un imprenditore del
movimento terra al quotidiano Terra ha dichiarato di avere lavorato nei cantieri della
Fiera. Di avere visto con i propri occhi un buco riempito del materiale più disparato.
"Un buco dove oggi sorge l'ingresso principale della Fiera con in bella vista la Vela
dell'architetto Massimiliano Fuksas. Dentro è finito di tutto, dai fanghi mischiati ai
laterizi, amianto, fanghi e terre contaminate". Altro cimitero di veleni è Santa Giulia.
Nella parte sud orientale di Milano. Qui occorreva ripulire dalla precedente attività di
un impianto di produzione di Ddt Montedison. Ma secondo la Procura di Milano i
veleni potrebbero essere ancora sotto gli appartamenti già realizzati e consegnati ai
loro proprietari, o sullo scheletro degli altri ancora in costruzione.
Camion carichi di veleni, fanghi, materiale di risulta di pessima qualità. A guidarli
la 'ndrangheta imprenditrice lombarda. Le conferme arrivano anche dalle
dichiarazioni di alcuni dipendenti della Perego Strade, l'azienda in cui il boss
Salvatore Strangio, originario di Natile, l'ha fatta da padrone. Un vero e proprio socio
occulto. Una scalata da manuale, quella messa in atto da Strangio. "Posso dire - ha
raccontato l'operaio ai magistrati della Dda di Milano - che nel corso degli anni sono
stati utilizzati per le opere di riempimento materiali fortemente inquinanti, come
eternit, amianto e in genere materiali provenienti da demolizioni indifferenziate e
quindi contenenti materiali di risulta di origine non controllata, quindi anche
pericolosa". Il dipendente di Perego si spiega meglio con un esempio: "Nel corso dei
lavori per il rifacimento del tratto ferroviario Arluno-Usmate, nello smantellare la
vecchia ferrovia sono stati estratti i traversini dei binari, che venivano accantonati
perché dovevano essere frantumati. Cosa che non è stata fatta, ma prelevati e portati
in un altro luogo, sempre sul tratto della ferrovia, e lì sotterrati. È ovvio che questo
materiale era fortemente inquinante perché conteneva amianto che derivava dai freni
del treno". "Con lo stesso formulario - ha raccontato un altro dipendente - venivano
fatti più viaggi durante il giorno, circa 4-5. C'erano giorni che il trasporto delle
macerie veniva fatto senza formulario ma solo con le bolle non numerate per uso
interno. Le disposizioni non erano fisse ma variavano di giorno in giorno e ci
venivano impartite , la mattina presto, cinque e cinque e mezza, quando ci riunivamo
tutti nell'officina della Perego. Ci veniva detto che in caso venissimo fermati dalla
Polizia dovevamo completare il formulario con l'ora di partenza senza farci scorgere
dagli agenti. Per i viaggi di macerie da effettuarsi senza formulario veniva usata la
strategia di coprirle con uno strato di terra e in caso di controllo degli organi di
polizia lungo il tragitto dovevamo dire che stavamo trasportando terra di scavo. Per i
viaggi di macerie effettuati senza formulario o con l'uso dello stesso formulario dei
viaggi precedenti durante il giorno, Ivano Perego lo giustificava con il fatto che non
si perdeva tempo nella compilazione in cantiere e che sarebbe stata cura dell'ufficio
compilarli in un secondo momento. Ricordo che una volta sono stato chiamato in
ufficio da Chiara Pisano per presentarmi dal geometra Paolo Sala il quale mi ha fatto
firmare circa 10 formulari non compilati in ogni sua parte e, come riferitomi dallo
stesso geometra Sala, relativi a cantieri terminati alcuni mesi prima. Chiesi
spiegazioni del perché dovevo firmarli e mi fu risposto di non preoccuparmi e che
scaturivano dal conteggio dei viaggi effettuati. Questo accadde anche ad altri autisti,
sicuramente Giancarlo Tiseo e Alberto Ravasi. Ci veniva imposto di caricare il più
possibile il mezzo anche oltre la portata massima consentita e se qualcuno si
lamentava la mattina successiva Ivano Perego inveiva contro tutti invitandoci ad
andare via se non rispettavamo le sue disposizioni perché era lui che ci pagava. Per le
multe non dovevamo preoccuparci perché le avrebbe pagate la ditta e per i punti
decurtati sulle patenti venivano organizzati corsi di recupero collettivi".
Professionisti al servizio del malaffare e il bisogno degli operai di ricevere lo
stipendio permettono alle mafie di realizzare i propri scopi. L'organizzazione mafiosa
mette alla porta gli operai che non osservano le regole interne. Assiste e valorizza i
dipendenti che rispettano il codice parallelo della 'ndrangheta.
Nell'indagine relativa alla bonifica di Santa Giulia sono rimasti coinvolti nomi
importanti dell'imprenditoria lombarda. Per loro le ipotesi di reato vanno
dall'avvelenamento di acque a discarica abusiva e smaltimento illecito di rifiuti. Tra i
nomi coinvolti compare Giuseppe Grossi, il "Re delle bonifiche". Arrestato insieme
alla moglie di Giancarlo Abelli, Rosanna Garimboldi, è morto a ottobre 2010. Da
quell'indagine è scaturito un secondo filone. Tra gli indagati anche l'ex presidente
della Provincia di Milano Penati. L'uomo forte del Pd in Lombardia. Si parla di
tangenti, finanziamento illecito ai partiti. Ipotesi di reato tutte da verificare. Ma che
nell'ex Stalingrado d'Italia fanno tornare le ombre di Tangentopoli.
Le mafie non si fanno scrupoli ad avvelenare le terre dove vivono i parenti, i figli,
e i nipoti, figuriamoci se riflettono sui danni che potrebbero provocare in una regione
dove sono emigrati e che vedono come un osso da spolpare. I magistrati di Milano
nell'operazione Tenacia, quella relativa al connubio Perego-'ndrangheta, descrivono il
meccanismo, puramente economico, che spinge la 'ndrangheta ad agire avvelenando
l'ambiente. Gli 'ndranghetisti non impongono prezzi fuori mercato, troppo alti e non
concorrenziali. Le cosche sanno stare nel mercato. Sanno bene che proponendo
tariffe alte affosserebbero la ditta che hanno preso di mira, che vogliono acquisire di
fatto. Se dovessero affossare l'azienda, non ci sarebbero neppure sub appalti da
spartire. Il sistema salterebbe. Lo stesso Strangio, una volta dentro Perego, più volte
sostiene con gli altri 'ndranghetisti che il suo ruolo era quello di salvaguardare gli
interessi della società. La soluzione che regolarmente viene escogitata per rendere
più remunerativo l'affare si chiama violazione di tutte le norme relative al recupero e
allo smaltimento dei rifiuti. I materiali di demolizione, invece di essere selezionati e
smaltiti secondo legge, vengono triturati alla rinfusa e abbandonati in luoghi abusivi.
Insomma, quando lavorano i camion della 'ndrangheta "reati ambientali e controllo
del movimento terra vanno sempre di pari passo", scrivono i magistrati della Dda di
Milano.
"Nel caso Perego le cose non sono differenti, tanto che pende un procedimento
relativo a reati ambientali. In estrema sintesi, in quella sede si contesta l'illecita
gestione di ben 2.025.336 chili di rifiuti, con una frequenza nei viaggi largamente
superiore alla media (alcuni autisti risultavano aver effettuato fino a 4 viaggi al
giorno con una percorrenza di 85 km ciascuno con destinazione ignota). Inoltre,
presso il cantiere di Bellinzona, le indagini hanno rilevato la presenza di amianto".
(Inchiesta Tenacia, luglio 2010 Dda Milano).
Il "Sistema 'ndrangheta" ha funzionato anche per gli appalti pubblici. Quarta
corsia dell'autostrada A4 e l'Alta velocità Milano-Venezia, hanno attratto le ruspe,
voraci, della 'ndrangheta. Sub appalti, smaltimento illecito di rifiuti, intimidazioni.
Le variabili non cambiano. Il risultato è lo stesso, già emerso dalle indagini sul
sistema imposto dalla cosca Barbaro-Papalia. È il marchio di fabbrica della
'ndrangheta lombarda, di cui la cosca Paparo è parte integrante. Una spartizione delle
"Grandi Opere" tra le cosche di 'ndrangheta che compongono la struttura de "La
Lombardia". Agirare la normativa antimafia per i mafiosi non è un problema. Se
aiutati dai professionisti e dagli imprenditori che ricevono l'appalto, diventa una
formalità l'argine della normativa antimafia. Collusioni che fanno dei lavori di
movimento terra appannaggio esclusivo della 'ndrangheta. Nei contratti, nei progetti
esecutivi dell'opera, nei cantieri, nella filiera del cemento, l'esecuzione dei lavori di
movimento terra sono i lavori meno documentati. A volte invisibili. E' come se non
avessero sostanza, sulla carta. Ma le targhe dei mezzi raccontano una realtà
differente. Raccontano di ditte della 'ndrangheta. I sub appalti del movimento terra
rappresentano una sorta di zona d'ombra in cui la 'ndrangheta detta regole ferree, a
cominciare da quelle sulla distribuzione del lavoro. La regolazione del mercato per
direttiva di 'ndrangheta comporta la disapplicazione delle regole del libero mercato e
della libera concorrenza. Nel "sistema 'ndrangheta" i lavori sono assegnati per
"chiamata diretta". Chiamata che si plasma sul rigoroso rispetto delle logiche di
potere de "La Lombardia". Anche contro la volontà dell'imprenditore, appaltatore dei
lavori. È un'egemonia tenuta in vita dall'acquiescenza e dell'assoggettamento al
"sistema". Una pressione ambientale che poco ha di diverso dai cantieri della
Salerno-Reggio Calabria. Dove le imprese che arrivano dal Nord accettano silenti la
"tassa ambientale", partecipano e rendono partecipi le cosche. Per amore della
tranquillità.
Dalle numerose indagini è emerso che "Il sistema per chiamata diretta", per
l'esecuzione dei lavori di movimento terra nei cantieri dell'Alta Velocità, nella zona
di Cassano d'Adda, di Melzo e nell'hinterland milanese, è stato egemonizzato dalle
cosche calabresi dei Nicoscia, dei Paparo e degli Arena di Isola Capo Rizzuto, dei
Perre e dei Barbaro di Platì. La regia è quella della cosca Barbaro, i platioti di
Buccinasco. A dirigere la spartizione e le chiamate era Pasquale Barbaro. Una "regia
unica", la chiamano gli investigatori. Una presenza nei cantieri a volte rumorosa, dal
sapore di polvere da sparo. Ma il più delle volte è una presenza indiscreta.
Silenziosa, invisibile. Come quella di Romualdo e Marcello Paparo, condannati, in
primo grado, a quattro e sei anni, colpevoli di lesioni e detenzioni di armi, ma non di
associazione mafiosa.
La cosca Paparo ha effettuato il movimento terra nei cantieri Tav e dell'A4. I
fratelli Paparo, Marcello e Romualdo, hanno lavorato nel "sistema 'ndrangheta". Per
conto di importanti imprese di costruzione, come la Locatelli e la Casiraghi. Come
Barbaro riconosce che prende "i soldi grazie a Maurizio". Parlando con Maurizio
Luraghi, così i Paparo lavorano grazie a "Locatelli, Casiraghi, e alle altre imprese
che consentono che i lavori vengano effettuati in subappalto da ditte mafiose per
garantirsi una gestione tranquilla del lavoro". E per lavorare tranquille permettono
alla 'ndrangheta di entrare dal cancello principale del cantiere. Questione di
opportunità. L'imprenditore ha la possibilità di scegliere. Alcuni isolano le imprese
mafiose, resistono, denunciano. Altre, di ogni parte d'Italia, preferiscono chiudere gli
occhi, tapparsi il naso, cercare escamotage alle norme antimafia, pur di evitare
esplosioni e minacce nei cantieri. Ma finché esisteranno, e sono un esercito,
imprenditori acquiescenti, le cosche controlleranno in maniera capillare i sub appalti.
Fino a fare soffocare le imprese pulite, che non otterranno più commesse. Cosa che
sta già avvenendo. A salvare la faccia alle imprese pulite che utilizzano le imprese
mafiose per ottenere vantaggi arriva la prescrizione del reato fiscale, contestato a
Nicola Scipione e Roberto Tadolti della Locatelli, che aveva subappaltato alla P&P
gestita da Romualdo Paparo una parte dei lavori nel cantiere per le Ferrovie dello
Stato.
Dall'indagine Isola, è emerso che i Barbaro hanno ottenuto lavori a prezzi anche
superiori a quelli della concorrenza. Ma Barbaro e i Paparo garantiscono che i mezzi
non verranno toccati. Nei costi maggiorati c'è la tassa per la sicurezza. I
danneggiamenti, con la 'ndrangheta nel cantiere, non avvengono. Pur non disponendo
della struttura tecnica per eseguire opere che richiedono competenza specializzata, le
ditte fanno il pieno di commesse. Marcello Paparo è costretto a rivolgersi a geometri
di altre ditte, come tale Agliati della ditta Casiraghi, per presentare se stesso e il
fratello come dotati di sufficiente competenza per svolgere lavori di appalto. Sub
appalti che pretendono con ogni mezzo, che esigono con prepotenza mafiosa. Come
per la Perego Strade, in mano di Strangio e picciotti, e la Lavori stradali del
lombardo Luraghi, la dinamica economica-criminale si ripete. Al centro, gli interessi
della 'ndrangheta. Il suo potere criminale, politico, imprenditoriale. Attorno gli altri
soggetti economici che sfruttano, consapevoli, inconsapevoli, distratti, omertosi, la
forza dei boss de "La Lombardia".
15. Sorelle d'omertà
Il carcere erode il potere del boss. Non il prestigio. I boss che devono scontare gli
ergastoli e pene detentive di lungo periodo si affidano ai fratelli, ai figli, ai nipoti,
alle mogli e alle figlie. Affidano a loro i patrimoni, le società, parte della gestione
operativa e "intellettuale" della cosca. Il passaggio di testimone avviene nei feudi
meridionali dei clan, ma anche nelle colonie nordiche delle organizzazioni. I padrini
si fidano dell'omertà dimostrata dalle mogli durante tutto l'arco della vita. Non a caso
nel lessico e nella costellazione simbolica 'ndranghetista il termine "Sorelle
d'omertà" indica le donne che assistono i mafiosi nella buona e nella cattiva sorte. È
un atto di fedeltà estrema, quello delle donne di mafia. Fedeltà al capo, al patriarca,
al boss. Ai figli che seguono le orme dei padri. Al "sistema" immutabile. Assuefatte
da riti arcaici e dal potere mafioso, abbandonano il ruolo classico di educatrici.
Educano i figli al culto del potere, alla riverenza nei confronti del padrino. Alcune si
ribellano, collaborano per salvare i figli dalle disgrazie dei padri. Il sogno di una vita
onesta per i figli, diventa lo strumento per abbandonare l'obbligo morale dell'omertà,
al quale sono state legate dal vincolo di sangue.
Storie di donne che subiscono il dominio della cultura mafiosa. Che da vittime
diventano carnefici. Ordinano spedizioni, contabilizzano affari sporchi, creano
business illegale per farlo sfociare nell'economia legale. Dirigenti d'azienda. Messe a
capo di aziende mafiose per produrre utili, necessari a dissimulare il denaro sporco.
Le mafie rispettano le quote rosa più delle aziende e delle istituzioni italiane. Il loro
ruolo da incensurate è funzionale all'insabbiamento degli affari di "famiglia". È un
ruolo, quello delle donne di mafia, vitale alle organizzazioni mafiose che cavalcano
la modernità e il toro del turbocapitalismo. Secondo dati recenti pubblicati da Sos
Impresa, una costola di Confesercenti nata per difendere gli imprenditori che
denunciano pizzo e usura, le donne detenute per violazione dell'art. 416 bis del
codice penale sono 84, ma in realtà le detenute collegate in qualche modo al
fenomeno mafioso superano le cento unità.
Luis Vuitton, Dolce&Gabbana, oro a perdere. Per Luana il griffato è un segno del
potere accumulato nella ricca terra lombarda. Da quando il padre l'ha messa a capo
dell'azienda di famiglia, sente il brivido del potere scorrerle tra le dita. Ha
dimestichezza anche con le armi. Le è capitato di doverle occultare, per ordini
superiori. Il Consorzio di cooperative che gestisce ha in ballo appalti milionari.
Esselunga, Coca Cola. Con il facchinaggio si fanno affari d'oro da quando
l'esternalizzazione dei servizi si è fatta selvaggia, senza regole. Luana conosce ogni
segreto della famiglia di cui fa parte. Accetta il metodo, non protesta, anzi partecipa.
Sa bene di chi può fidarsi e chi sono i nemici. È tempo di guerra a Isola Capo
Rizzuto, le 'ndrine Arena e Nicoscia si fanno la guerra. Anche se in Emilia e
Lombardia propendono al silenzio e all'affarismo, il piombo lo utilizzano per le
strade della Calabria. Ma non si sa mai, pensa Luana. Meglio essere vigili. Nei
contesti di mafia la parola fiducia perde di senso. Luana sa che la sua famiglia è
indicata dai rapporti di polizia e dai giornali come legata alla 'ndrina dei Nicoscia.
Conosce i codici di comportamento. È impassibile di fronte a un'estorsione, non
condanna il profitto che ne deriva. Soldi che utilizza con il suo ragazzo, Michele, per
viaggiare.
Assiste il padre nei momenti difficili. Quando tentano di ucciderlo, lo rassicura.
"Non ti tocca nessuno a te", lo tranquillizza Luana. "Sono quattro rincoglioniti,
possono organizzare quanto vogliono, ma la gente contro di te non si mette questo lo
sai. A quest'ora se dovevano farti qualcosa tu non eri neanche qui, ricordatelo. Da ora
che ti avevano... da ora... da ora... se era come dicevano loro! Da ora, eri qua? ...e tu
lo sai meglio di me, che se uno è segnato è segnato, non lo fanno passare un mese
due, o no? E non eri neanche qua", insiste Luana l'amministratrice della ditta di
famiglia. Il potere assuefa. Rende insensibili. Non fa una grinza, Luana, quando la
arrestano insieme al padre e allo zio. Davanti alle telecamere, mentre esce
accompagnata dai poliziotti, la classe non la perde. È sicura di sé. Cammina sicura
verso l'automobile della polizia, portando con sé la valigia Vuitton. Nel carcere il
potere va comunque mostrato. Rimane poco in carcere, Luana. Il processo la vedrà
uscire dalla vicenda pulita e con tutti i beni restituiti. Ma dall'ordinanza firmata dal
gip di Milano, il suo ruolo, se pur il Tribunale non abbia rilevato risvolti penali,
emerge chiaro. È una donna, una sorella, una dirigente, che per salvare l'onore della
famiglia tace. Preferisce non diventare una collaboratrice. Ma tornare al vertice
dell'azienda di famiglia.
Angela Diana la camorra la respira ogni giorno. Anche se non vive più a San
Cipriano d'Aversa, ma a Bastiglia, in provincia di Modena, non ha mai abbandonato
le logiche del clan. Ha scelto da che parte stare. Con il padre e padrino Raffaele
Diana, "Rafilotto". Vere e proprie manager, Angela e sua madre Maria, capaci di
gestire le entrate del clan destinate sia al sostegno dei detenuti sia per mandare avanti
gli affari leciti e illeciti. Donne imprenditrici. Mogli e figlie dei boss delle mafie
moderne. Non è la prima volta che le signore dei boss vengono arrestate, non è
nemmeno un caso che nella rete degli investigatori siano finite la moglie e la figlia di
Raffaele Diana, uno dei reggenti del clan casertano arrestato a maggio 2010, dopo sei
anni di latitanza. Il clan dei Casalesi ha il suo nucleo forte nella famiglia, ecco perché
non è raro ritrovare nelle diverse operazioni di polizia i figli dei boss arrestati anni
addietro o le loro mogli, i loro cugini o i parenti stretti. Il vincolo familiare è una
caratteristica importante dei Casalesi, così come lo è fondamentale per la
'ndrangheta, per la mafia e in misura minore per la camorra napoletana. Madri, figlie
e figli che prendono il posto dei padri e portano avanti la loro aura di potere sul
territorio, riscuotono i "tributi" e gestiscono la ricchezza del clan. Accanto al ruolo
del manager, la donna di mafia è legata fortemente alla tradizione e all'osservazione
delle regole mafiose. Il ruolo femminile nei meccanismi mafiosi si pone quindi a
metà strada tra il rispetto delle tradizioni arcaiche e la capacità di gestione del
patrimonio mafioso. Le donne che meglio riescono a sintetizzare questa dicotomia
riescono a ottenere prestigio, potere e rispetto. O meglio avranno la possibilità di
cristallizzare e potenziare l'impero costruito dai loro mariti prima di finire in celle
fredde e isolate. Le donne del clan possono scegliere di investire in interi settori
economici, ma non possono assolutamente truccarsi e curare l'aspetto esteriore
quando i mariti sono in carcere. Il loro aspetto esteriore rispecchia la posizione di
potere del proprio marito: quando il boss è libero, vicino e comanda, la donna si
cura, si veste bene e ostenta le marche. Diventano invisibili e trasandate quando i
mariti finiscono in carcere, ma allo stesso tempo acquisiscono le redini del comando
facendo le veci del capofamiglia in carcere. Le tre donne arrestate nell'ultima
operazione, Maria Capone e Angela Diana, rispettivamente moglie e figlia del boss
"Rafilotto" Diana, insieme a Barbara Crisci, moglie di Giuseppe Caterino (capozona
nel modenese per conto del clan prima di essere arrestato, al quale è subentrato
Diana), avevano in comune la capacità gestionale e l'abnegazione alle regole del clan
che impone loro il sacrificio, la sottomissione e la subalternità al ruolo del boss
mafioso. Una capacità imprenditoriale dimostrata anche da loana Gurlui, compagna
di un camorrista e vicina a Nicola Schiavone, il figlio di "Sandokan", arrestata a
Modena nella penultima operazione insieme a due guardie penitenziarie. Un ruolo
centrale, il suo. Gestire i proventi delle bische e mantenere i contatti con la casa
madre. Per un affare che portava nelle casse del clan 100 mila euro ogni due
settimane era necessaria una persona di fiducia e non sono rari i casi di donne, mogli
e fidanzate di boss, accusate di associazione mafiosa e incaricate di gestire gli affari
del clan. Poco piombo e molti affari, questa la politica d'infiltrazione nel tessuto
economico modenese decisa dai vertici dei Casalesi alla quale partecipano
attivamente anche le donne.
Donne che possono diventare strumenti di saldatura tra imprenditori del Nord e
boss mafiosi. Pasquale Zagaria, fratello del latitante Michele, ha sposato la figlia di
Aldo Bazzini, un noto e potente costruttore parmense condannato per associazione
camorristica. Secondo i giudici era diventato il prestanome ufficiale di Pasquale "Bin
Laden" Zagaria.
Mogli, sorelle, compagne, figlie di boss e picciotti, che possono diventare
prestanome. Offrire la loro identità per intestarsi quote societarie, immobili, schede
telefoniche. Ricchezze da spartire in famiglia e tra affiliati. E nel vortice di
intestazioni fittizie possono finire in mezzo anche i fidanzati delle figlie e delle
sorelle dei boss. La tattica di dissimulazione della reale proprietà tramite le figure
femminili è ormai prassi tra le politiche mafiose delle organizzazioni mafiose.
Sorelle che danno consigli. Sorelle votate a dio che suggeriscono ai fratelli, capi
bastone, come comportarsi, da chi guardarsi.
Rosa Alba Maria ha preso i voti. Fa parte dell'ordine Paolino. È vicedirettrice
sanitario dell'Ospedale Regina Apostolorum di Albano Laziale ed è sorella di Paolo
Martino, boss della 'ndrangheta milanese che si muove tra facchinaggio, slot
machine, editoria, locali notturni, mondo dello spettacolo e politica. Rosa Alba e
Paolo sono legati, la distanza non ha raffreddato il loro rapporto. Fiducia e interessi
sono alla base dei loro dialoghi. Il boss si rivolge a lei e alle sue conoscenze per
recuperare informazioni su possibili indagini a suo carico. La posizione di prestigio
della sorella-vicedirettrice assicura a Paolo Martino di conoscere la verità. Rosa Alba
s'informa da una terza persona, una consorella, che a quanto risulta dagli atti, è molto
in alto nella gerarchia ecclesiastica. Dopo qualche giorno fratello e sorella
riprendono il discorso. E Rosa Alba gli dice che i suoi timori sono fondati. La sua
amica le ha riferito che un collaboratore "Sta a canta'".
Nelle parole di Rosa Alba si legge il disprezzo per chi fornisce ai magistrati piste
nuove da investigare. Utilizza il verbo "cantare" e non "collaborare". Ma la
disponibilità di Rosa Alba ad aiutare il fratello 'ndranghetista si spinge oltre. È
disponibile a presentargli la consorella che ha fornito le informazioni sulle indagini
in corso. Precisando che la "sorella informatrice" è disponibile a conoscerlo.
Rosa Alba diventa custode di segreti inconfessabili. Segreti spartiti tra religione e
'ndrangheta. Un rapporto perverso, quello tra pezzi di chiesa e sistema mafioso.
Denunciato più volte da Don Luigi Ciotti, l'animatore e presidente dell'associazione
Libera. Nei suoi discorsi passionali ricorda spesso che prima di essere credenti
bisogna essere credibili. Che la fede non si dimostra riempiendo di baci i crocifissi.
Ma inseguendo la Giustizia. Praticandola e diffondendola.
16. Lea e Denise
Non tutte le donne accettano la legge della 'ndrangheta o del clan. Si ribellano. E
le storie di riscossa riguardano il Meridione come il Settentrione. Storie di madri,
mogli, figlie, che hanno pagato con la vita la loro ribellione contro il marito-boss.
Lea aveva deciso di svestirsi di quel suo ruolo di madrina mafiosa, di sorella
d'omertà. Sorella di un boss di Petilia Policastro e moglie di un boss della
'ndrangheta lombarda. La sua esistenza era segnata. Ma qualcosa le diceva che le
cose potevano cambiare, le regole della 'ndrangheta che incatenano da secoli uomini,
donne e territorio possono essere spezzate. Basta volerlo, si ripeteva. La forza di
questi pensieri le venivano guardando sua figlia. Le guardava negli occhi e si
convinceva che uscire da quel tunnel era l'unica soluzione di rinascita. Lea e Denise.
Madre e figlia unite nella lotta e nella rivendicazione di una vita diversa da quella
vissuta fino a quel momento. Cercavano un futuro libero dal ricatto, non più ostaggio
della 'ndrangheta.
Nel 2002 Lea decide di collaborare con la giustizia. Abbandonare quella vita
legata al suo cognome che, a Petilia Policastro e a Milano, suo fratello Floriano
aveva portato in alto nella gerarchia mafiosa. Floriano Garofalo è il capo indiscusso
della frazione di Pagliarello a Petilia Policastro, provincia di Crotone. Un boss
seguito da tanti giovani gregari, giovani che sognano di scalare il massiccio del
"Crimine". Tra i picciotti dell'esercito il più determinato è Carlo Cosco. Un signor
nessuno per i boss calabresi e lombardi. Carne da macello, come tutti gli altri
giovani. Ma Carlo Cosco sa il fatto suo. Il piano di scalata gli naviga in testa da un
po'. Sposare la sorella di Floriano gli avrebbe assicurato un ruolo di vertice nella
cosca. La giovane Lea diventa preda ambita, strumento di affermazione, pass per
diventare 'ndranghetista rispettato. Lea sa bene lo schifo che le gira attorno. Accetta.
Subisce. Partecipa. Non denuncia. È una "sorella d'omertà" modello. Il silenzio è la
prima regola. Lea aveva assorbito il precetto 'ndranghetista senza fiatare. Di lei i boss
potevano fidarsi.
Nei primi anni Novanta in Lea avviene un cambiamento radicale. Dopo
l'ennesima retata e l'ennesimo arresto del marito, scatta la molla del cambiamento.
Lea è stufa di dovere accettare quella vita incerta, tra carcere e avvocati. Poi è nata la
loro Denise. Che sente più sua. E che vorrebbe allontanare da quell'ambiente.
L'istinto materno le suggerisce di mollare Carlo Cosco. Di abbandonarlo al suo
destino per offrire a Denise un futuro stabile e normale. Aveva provato, Lea, a farsi
promettere da Carlo che avrebbe tagliato con quella vita. Sa benissimo che uscire
dalla 'ndrangheta vuol dire morire. Sa anche che suo marito è fedele alla cosca, costi
quel che costi.
Lea prende la decisione da sola, per il bene di sua figlia Denise. Stacca la spina a
quel mostro agonizzante che è il suo matrimonio d'onore. Aveva già tentato di dirlo a
Carlo. Gli aveva detto chiaro e tondo che lei l'avrebbe lasciato. Che avrebbe preso
Denise e se ne sarebbe andata. Parole che avevano fatto infuriare Carlo. È stata
aggredita, Lea. Durante una visita in carcere gli aveva comunicato le sue intenzioni,
Carlo le è saltato addosso. Carlo è scosso dall'insolenza della moglie. Quella presa di
posizione di Lea è un affronto tremendo per un "uomo d'onore". Non portargli più la
bambina durante le visite è un atto che indebolisce lo 'ndranghetista. Teme che nel
carcere la voce possa girare e infangare il suo nome. La vergogna di Carlo, in linea
con l'ortodossia culturale e mafiosa, avrebbe portato l'uomo a chiedere di essere
trasferito per non dover sopportare i commenti degli altri detenuti.
A Lea non rimaneva altra soluzione che andarsene senza dire nulla. In silenzio.
Così come ha accettato per anni la regola dell'omertà, decide in solitudine e nel
silenzio di recidere le radici della malapianta aggrovigliate attorno al destino suo e di
Denise. Per amore della figlia, decide di collaborare. Dichiarazioni che da Catanzaro
a Milano indicano delitti, omicidi, traffici. Lea e Denise, nel 2002, entrano nel
sistema di protezione. Cambiano identità. E iniziano una nuova vita, nelle località
segrete di volta in volta selezionate per loro. È un'esistenza impossibile per Lea, che
cercava una vita normale per Denise. Solitudine e angoscia sono le variabili sempre
presenti nella vita di Lea. Della vita da collaboratrice Lea si stanca, pensava, forse,
che lo Stato potesse garantirle realmente una vita migliore, e magari considerarla una
testimone di giustizia, dopotutto lei non aveva commesso alcun reato, perché
etichettarla come collaboratrice di giustizia. È opprimente. Lea riflette sul senso del
suo gesto. Si lacera dentro. Sensi di colpa, paure, smarrimento, le tolgono il sonno.
Le inaridiscono l'esistenza. Denise cresce. La scuola, gli amici, l'adolescenza. Come
può garantirle la "normalità" in una vita da reclusi, isolati, pentiti. Ripensa al
matrimonio, Lea. A quel Carlo che tanto l'ha fatta soffrire. Ma che dopotutto è il
padre di sua figlia. Non è affatto semplice tagliare col passato. Le giornate di Lea
passano così, tra indecisioni, timori, angosce, immobilità. E' il momento di ridare
senso all'esistenza di Denise, si convince Lea.
Decide di abbandonare il programma di protezione. "Proviamo a vivere tutti
insieme", si ripete Lea. È l'ultima chance. Fallita questa, pensa Lea, non permetterò
più a Carlo di vedere Denise. Tentare è l'unico modo per ridare a Denise una vita
simile a quella dei suoi compagni di scuola. Fugge in cerca di "normalità", ricuce per
ridare "normalità" a Denise. La vita di Lea e Denise è una corsa cieca alla ricerca di
un quotidiano normale. Fuori dalle logiche, dalle imposizioni, dai codici della
'ndrangheta. "Andremo a vivere tutti insieme a Campobasso". Lea pensa che sia la
soluzione migliore. Accettata da Carlo che dimostra la sua disponibilità mettendo a
disposizione i soldi per l'affitto della casa in Molise.
Carlo Cosco è un duro. È arrivato grazie al cognome della moglie dove
desiderava. Non sono fesso, riflette. Una volta conquistato il mio pezzo di mercato,
si agita, perché mai dovrei abbandonarlo. Quella vita a Carlo piace. Ha cominciato
con la droga, lo spaccio, il traffico più raffinato. È arrivato nei cantieri della M5, la
linea 5 della metropolitana milanese in costruzione. Lì lavorano i camion della sua
ditta. Muovono la terra, come le innumerevoli ditte degli altri compari della
'ndrangheta lombarda. Una presenza, quella della 'ndrangheta in Lombardia, radicata.
Che agita e corrode le fondamenta della moralità lombarda.
A Lea ha detto che avrebbe dedicato la sua vita alla famiglia. Che con i traffici
avrebbe smesso. Lea, pur sapendo che si trattava di false promesse, ha necessità di
illudersi. Di credere in un domani diverso, stabile, certo. A Campobasso la vita non è
frenetica. Piuttosto noiosa. Rispetto a Milano, poi, è un altro mondo. Ma la gente è
cordiale, non ti guarda male se hai la cadenza calabrese. Non è ipocrita, non è
sospettosa verso i calabresi. In Lombardia, ricorda nel suo intimo Lea, tanti
professionisti, politici, imprenditori, alla luce del sole offendono i meridionali,
trattandoli tutti come mafiosi. La sera, al riparo da occhi indiscreti tranne che da
quelli degli investigatori, con quelli che incarnano i loro stereotipi di calabresi fanno
affari, scambiano favori e appalti in cambio di voti.
Trascorrono all'insegna della tranquillità i primi giorni a Campobasso. Carlo a
casa c'è raramente, una presenza che Lea avverte come ingombrante. Lea e Denise
dopo tanto tempo tornano ad essere una madre e una figlia come tante. Lea intuisce
che il marito non si è pentito, che non ha scelto di stare dalla loro parte. Si convince
di stargli affianco comunque. Lea conosce anche un segreto di Carlo. È a conoscenza
delle ricerche organizzate dal marito per trovare le due donne considerate dal boss di
sua proprietà. Lea lo dice a Carlo. Gli fa notare che non era il caso di spendere tutti
quei soldi per cercarle. "Arrivavi sempre quando ci spostavano in un'altra località",
gli fa notare Lea. Non sfugge nulla a Lea. O forse qualcosa sì. Quelle ricerche
spasmodiche messe in campo dal marito, quell'immediata accettazione di
riavvicinarsi nascondono qualcosa di terribile, che Lea non riesce a leggere in
profondità. Passano le settimane. E Lea nota in Carlo la solita rabbia e violenza.
Prepotenza mafiosa che lo farà tornare dietro le sbarre, mentre Lea e Denise
invecchiano. Che padre potrà essere? Si chiede Lea, ricomincia il tormento. Dopo un
mese è di nuovo rottura. Lea mette alla porta Carlo e parenti. Le due ribelli decidono
di vivere sole. Madre e figlia ricominciano da capo, ancora una volta alla ricerca
della "normalità". Quella "cacciata" a Carlo non è andata giù. La seconda ribellione è
insopportabile per un "uomo d'onore" come lui. Medita la vendetta, la pianifica.
È maggio 2009. Il sole primaverile molisano riscalda Lea e Denise. Sole, ma
accerchiate. Lea aspetta la ritorsione del marito. Conosce i meccanismi mafiosi. Non
la passerà liscia. Ogni trillo del campanello della porta sobbalza. I soffi del vento che
s'insinuano tra le fessure delle persiane, le porte che sbattono, i cigolii del legno,
rendono Lea nervosa. "Mamma suonano alla porta!". Esclama Denise. Lea chiede chi
è. È il tecnico della lavatrice. Strano, pensa Lea, non l'ho chiamato. Però la lavatrice
è rotta e Carlo prima di essere buttato fuori aveva detto a Lea che avrebbe chiamato
un tecnico. Lea fa accomodare il tecnico. Dopo qualche minuto che osserva il tecnico
al lavoro, capisce che è un impostore. Non sa dove mettere le mani. Capisce e corre a
prendere un coltello da cucina. A quel punto il tecnico aggredisce Lea, tenta di
strangolarla. Ma Lea reagisce a calci nelle parti basse, si oppone come può. Utilizza
quel che sa delle arti marziali. Lotta disperatamente per la libertà e per sua figlia. Le
urla svegliano Denise. Che corre in soccorso della madre. Madre e figlia contro la
morte. Sistemano il tecnico che scappa appena riesce a divincolarsi. Scampato
pericolo. Lea è salva.
"Mia madre mi ha allora detto che l'uomo le si è scagliato contro tentando di
strangolarla. Mia madre, che nel frattempo aveva preso un coltello dalla cucina ed
inoltre è pratica di qualche mossa di arti marziali, ha reagito colpendolo ai genitali. I
rumori della colluttazione mi hanno fatto svegliare e uscendo dalla mia camera ho
visto mia madre lottare con l'uomo. Ho aiutato mia madre picchiando l'uomo con
forza fino a quando questo è riuscito a divincolarsi fuggendo. L'uomo però aveva
abbandonato la cassetta degli attrezzi dentro la quale i carabinieri del posto hanno
rinvenuto una pallina di gomma, dello spago, del nastro adesivo, delle forbici, un
apparato per provocare delle scosse elettriche e dei cacciaviti", racconta Denise. Il
materiale ritrovato all'interno della cassetta del sedicente tecnico sarebbe servito per
torturare Lea e farle confessare il contenuto delle sue deposizioni da collaboratrice di
giustizia. Confessioni che tengono i Cosco sulle spine. Dichiarazioni pesanti che
fanno ritrovare agli investigatori il bandolo di una matassa intrigata di delitti.
Uccidere Lea è il secondo obiettivo per Carlo Cosco e fratelli. Prima di ucciderla
vogliono conoscere le notizie in mano agli investigatori.
Da quel maggio 2009 è un inseguimento continuo. Lea è la preda ambita. Denise
il trofeo da conquistare. Il machismo di Carlo Cosco emerge in tutta la sua mafiosità.
È il 25 novembre 2009. Lea è scomparsa. Nessuna traccia di lei a Milano. Gli ultimi
a vederla sono stati Denise e Carlo Cosco. "Maledetta Milano", pensa Denise. Non
doveva neppure venirci. Era a Firenze con Lea. Il padre le ha chiamate per
incontrarsi a Milano. Lea non lascia Denise da sola. Decide di accompagnarla. Ad
una condizione che a cena con i familiari di Carlo Lea non ci sarebbe andata. Lea si
fa lasciare nei pressi dell'Arco della Pace a Milano. Utilizza tutte le precauzioni
possibili, Lea. Non vuole che i fratelli di suo marito sappiano della sua presenza a
Milano. Teme ritorsioni da parte loro per le dichiarazioni fatte ai magistrati. Tanto
che aveva deciso di dormire in albergo. Due giorni passano in fretta, pensa Lea. Si
sarebbero rivisti la sera del 24 per riprendere il treno che le avrebbe riportate in
Calabria. "Ciao ma', a dopo". Sono le ultime parole che Lea sente provenire da sua
figlia. Non la rivedrà mai più. Scompare nel nulla. Scompare per sempre tra la
nebbia della Brianza. Un salto nel vuoto. Risucchiata dalla vendetta della
'ndrangheta.
"Quello che si verifica a Milano, in una tranquilla ed elegante zona centrale, è un
caso di lupara bianca che ci riporta a situazioni e contesti sovente (ed erroneamente)
creduti ben lontani dalla realtà cittadina. Sotto gli occhi di ignari passanti, si scorge
una donna minuta, ripresa negli ultimi istanti della sua vita dalle telecamere di
sicurezza poste ai margini della strada, salire fiduciosa sul veicolo dell'ex convivente,
padre di sua figlia e pregiudicato Cosco Carlo. Questa è l'ultima volta in cui si sente
parlare di Lea Garofalo ancora in vita". (Ordinanza di arresto fratelli Cosco, 2010).
Di Lea non si hanno notizie da quel 24 novembre 2009. Scomparsa nel nulla.
Denise è sola. Torna a Petilia Policastro. In Calabria con i parenti della madre. La
mancanza di Lea per Denise è forte. Nella sua testa si aggrovigliano pensieri torbidi.
Passato, presente e futuro, si mescolano in un unico e straziante incubo. 'Ndrangheta
e codici atavici della cultura mafiosa diventano la chiave di lettura per la giovane, ma
già matura, Denise. È in quel binomio mortale si annida la verità e la spiegazione
della scomparsa di sua madre. Leso onore. Onore macchiato dalla collaborazione.
Onore che va lavato con il sangue. Con l'anima lacerata dalle sue deduzioni, Denise
sente il peso della verità, che diventa un tritacarne. La verità può fare molto male.
Ma Denise la insegue a tutti i costi. Insegue e fugge da Petilia. Ad aprile lascia la
Calabria. I fratelli Cosco temono che Denise possa seguire le orme della madre,
temono che inizi a collaborare con la giustizia. Iniziano le minacce per farla tornare a
Petilia. Denise, impaurita, obbedisce.
Nel frattempo gli investigatori trovano il bandolo della matassa. Aiutati anche da
alcuni collaboratori di giustizia. Primo fra tutti Angelo Cortese, ex braccio destro del
boss cutrese Nicolino Grande Aracri, detto "Manuzza". È il primo a raccontare ai
magistrati di quanto ha appreso nel 2003 nel carcere di Catanzaro dove ha trascorso
parte della sua permanenza insieme al gotha della 'ndrangheta crotonese. Lì incontra
anche Carlo Cosco. E lui che chiede aiuto e consiglio agli altri boss, tra cui Cortese
che ha ricordato l'insistenza di Carlo Cosco sulla Pianificazione dell'omicidio di Lea
Garofalo. "Motivi d'onore", spiega ai magistrati il collaboratore. Aggiunge un
importante Particolare, Cortese. Dichiara che Cosco aveva intenzione di sciogliere il
corpo nell'acido per potere imputare la scomparsa ad una fuga d'amore della donna.
Acido per cancellare ogni traccia dell'"infame". Acido perché non resti nulla della
Lea che si è ribellata alla "famiglia", alla 'ndrina. Acido per disintegrare corpo e
germi del cambiamento presenti nell'azione rivoluzionaria di Lea. Lea che voleva un
futuro dignitoso per la sua Denise. L'acido come metafora della forza distruttrice
della 'ndrangheta. Denise racconta ai magistrati particolari agghiaccianti. "Poco
rassicuranti", scrive il gip nell'ordinanza che ha portato all'arresto i fratelli Cosco.
"Io, seduta dietro continuavo a piangere, ricordo che loro, parlando e chiacchierando,
ridevano a voce alta", sono le parole di Denise Cosco. Il racconto del suo viaggio di
ritorno a Petilia. Ad accompagnarla il padre-assassino Carlo, il fratello di Carlo e una
terza persona di nome Diego.
Denise piange ininterrottamente. Sono giorni terribili. Solo per lei, però. Padri,
padrini, fratelli di sangue, continuano la loro vita, tra videopoker, riunioni, risate,
offese alla dignità umana. Continuano a vivere di 'ndrangheta. Denise è inorridita,
disgustata. È stremata. Cerca conforto nei ricordi. Nel sogno di un futuro normale.
A ottobre 2010 finiscono in carcere i fratelli Cosco. Omicidio di Lea Garofalo e
occultamento di cadavere, tramite il barbaro rito dello scioglimento del corpo
nell'acido. Gli investigatori trovano il barile da 50 litri. Ma l'acido non lascia tracce.
Il pm ricostruisce il quadro: Lea viene rapita in Corso Sempione, caricata in un
furgone all'interno del quale si trovava già il barile da 50 litri di acido, e infine viene
portata in un capannone alla periferia di Milano, nei pressi della superstrada Milano-
Meda. Ad attendere il furgone c'erano Sergio e Giuseppe "Smith", entrambi fratelli di
Carlo Cosco, i quali hanno preso in consegna il furgone, su cui si trovava Lea legata
e imbavagliata. "Da Carlo Cosco ha saputo che la Garofalo è stata torturata, in
quanto da lei volevano sapere che cosa aveva dichiarato in ordine all'omicidio di un
fratello di qualcuno legato a loro e che poi era stata sciolta nell'acido, così come era
stato previsto nel piano concordato insieme", le parole sono di Salvatore Sorrentino,
un detenuto in confidenza con Massimo Sabatino, uno degli esecutori del sequestro
di Lea e il finto tecnico della lavatrice che ha tentato di strangolare Lea a
Campobasso. Un testimone chiave nell'indagine che ha portato all'arresto dei fratelli
Cosco, i re del traffico di cocaina a Quarto Oggiaro, padroni del racket delle case
popolari che affittano in maniera abusiva, anche ai negozianti cinesi di via Paolo
Sarpi a Milano, e in affari nel movimento terra.
Denise, dopo l'arresto del padre, è stata inserita nel programma di protezione, è
una testimone di giustizia. Segue le orme della madre. Vive in una località segreta,
protetta. Ha preso parte al processo che si svolge a Milano, è una vittima della
'ndrangheta. Accusa il padre senza paura. E rischia la vita. Dovrebbe essere un
esempio per tutti, ma il ministro Maroni e il guardasigilli non hanno speso troppe
parole. È un Paese dalla memoria corta. Solo l'associazione Libera le è affianco.
L'assiste durante il processo iniziato a settembre 2011, e che vede Denise la
principale testimone. Ma non ha paura. "Ho sempre temuto mio padre". Non si tira
indietro Denise. Risponde alle domande dell'avvocato del padre. E non accetta
quanto vorrebbero far passare i legali dei Cosco. È scappata all'estero. "Come vi
permettete, è due anni che non vedo mia madre", tiene duro la ventenne e non si
lascia intimorire dalle congetture degli avvocati dei Cosco. Resiste perché vuole
giustizia. È sola Denise, ma con tutta la vita davanti. Una vita libera da ogni
compromesso, ne ha già pagati di terribili.
Ma il fetore di quella cultura mafiosa in cui Denise è cresciuta e dalla quale è
stata vinta, non la abbandona. È una persecuzione. Per tutta la vita quel fantasma di
nome 'ndrangheta avvolgerà i suoi sogni. Possiamo correre, scappare, nasconderci,
rivoluzionare sistemi e società, ma chi la 'ndrangheta l'ha vissuta sulla propria pelle,
chi dalla 'ndrangheta è stato travolto, porterà con sé disgusto e malinconia. Si può
ricominciare. Certo. Anch'io ho ricominciato da Modena. Mentirei, però, se dicessi
che il dolore per gli affetti mutilati, la rabbia per i giorni rubati, fosse svanita con le
realizzazioni e le conquiste recenti. Di 'ndrangheta, e di mafie, il Paese vive. È un
Belpaese fondato Sull'economia criminale e mafiosa. "Le mafie ci uniscono", non a
caso, è il nome della campagna lanciata a marzo 2011 dall'associazione daSud. Un
modo per ricordare i centocinquanta anni in maniera critica. Riflettere sul perché il
potere mafioso in tutti questi anni di unità piuttosto che ridursi e svanire si è
consolidato al Sud, si è radicato e potenziato al Nord e nel mondo. È un paese civile
quello in cui per vendette d'onore si sciolgono madri nell'acido? È un Nord civile
quello che rimane in silenzio di fronte a un tale gesto? È civile che una ragazza come
Denise sia costretta a non esistere a causa del coraggio di sua madre Lea? È facile
immaginare cosa risponderebbe Denise a quanti continuano a sostenere che la
'ndrangheta a Milano non è un problema, che è una questione marginale.
17. Holly 'ndrangheta
"Ahrt Gianni 'ndai i mi crii, con mio cugino all'Hollywood entravamo gratis,
abbiamo saltato file, burdelli, quando passava lui, le porte si spalancavano. Mi sono
chiesto come mai. Sarà conosciuto, pensavo. Dopo qualche mese, 'nto giornali (era
arrestato con nun sacciu quanti chili i cocaina. Era cuginima, parola d'onore". Questa
ingenua confessione, mi è stata fatta tre anni fa, mentre rilassavo i miei muscoli e
riscaldavo le mie ossa, stanche da mesi e mesi di umido padano, sulla bollente
spiaggia sabbiosa di Bovalino. Il mio paese d'origine, stritolato dalle contraddizioni e
dalle regole d'onore, ma pur sempre la mia culla natale. Nell'abbraccio dolce e salato
del mare Ionio ritrovo, ogni estate, i profumi e i colori della mia infanzia. Ripesco i
ricordi dolorosi e li annego con un sasso arcobaleno. Stempero la rabbia che quella
terra, la Locride e Bovalino, mi provoca. L'immobilità passiva e colpevole. "Odio chi
non parteggia", insegna Antonio Gramsci, per la giustizia in tutte le sue declinazioni.
In quelle acque, per qualche istante rilasso i nervi, tesi da un anno di lavoro precario
e decenni di ingiustizie mafiose e clientelari.
Quella confessione ingenua, superficiale, di un ragazzo dell'entroterra
aspromontano, mi ha dato un input che le successive indagini coordinate dalla Dda di
Milano hanno rafforzato e confermato. È risaputo che il giornalista non riposa,
neppure a riposo. Un gioco di parole, ma descrive alla perfezione la passione che
nutro per questa magnifica e schiaffeggiata professione. Quel cugino, raccontato dal
conoscente incontrato sulla spiaggia di Bovalino, al cui passaggio si spalancano le
porte del divertimento meneghino è un pezzo grosso delle cosche di Platì che dal
feudo aspromontano hanno trasferito gran parte del loro patrimonio economico-
finanziario tra Buccinasco e Corsico. cocaina, movimento terra, politica, sicurezza
negli harem del divertimento, i loro ambiti d'azione. Una politica economica, quella
delle cosche di Platì, imposta sussurrando i cognomi Barbaro, Sergi, Trimboli,
Papalia. Sub appalti e favori che alimentano il potere dei platioti e del suo capo
attuale, Salvatore Barbaro. Un potere accresciuto grazie al traffico dell'oro bianco.
Consolidato con il riciclaggio. Immanente al sistema economico lombardo grazie
agli appoggi di alto livello. Alle cosche di Platì non si può dire nulla, neppure quando
sotterrano quintali di materiale nocivo nei terreni destinati alla costruzione di
palazzine residenziali. Buccinasco e Corsico rappresentano gli ultimi feudi di un
potere che arriva fino in Australia. Tutto è iniziato in Aspromonte. Paese sperduto
delle montagne del Reggino. Da Platì all'Hollywood il salto è stato fulmineo.
È il tempio del divertimento. La cattedrale dell'apparenza. Il fulcro della movida
fashion meneghina. L'Hollywood è la discoteca per eccellenza di Milano. Attrici,
agenti dello spettacolo, calciatori, starlette, imprenditori, Tronisti e troniste di
"Uomini e Donne", ragazzi e ragazze con un pensiero fisso: agganciare la persona
giusta, per entrare nel mondo dello spettacolo. Si ritrovano tutti insieme
all'Hollywood. Non tutti però hanno accesso al privé. Il vero luogo di elite della
discoteca. Dentro l'Hollywood non sono tutti uguali. Esistono marcate differenze. Al
privé si entra soltanto per conoscenza. Conoscere i buttafuori è già un buon biglietto
da visita. Le porte si aprono anche per i rampolli dei mammasantissima. La sicurezza
dei locali milanesi alla moda è in mano alla 'ndrangheta. È la realtà, non sono
"drogato" come direbbe il governatore della Lombardia Formigoni a chi osa
denunciare la presenza forte, radicata, della 'ndrangheta nei templi dell'efficienza
lombarda. Sanità o locali notturni, poco importa. L'obiettivo dei reggenti della
governance lombarda è minimizzare il fenomeno. Insabbiare l'evidenza dei fatti.
"Non si può continuare a minimizzare", ha gridato più volte il procuratore capo
della Dda di Bologna. "Troppa omertà tra gli imprenditori lombardi", gli fanno eco i
magistrati della Dda di Milano. La politica locale lombarda, emiliana, ligure-
piemontese, toscana, fatica a leggere il fenomeno in tutto il suo complesso
radicamento.
All'Hollywood uomini legati alla 'ndrangheta, affiliati o contigui, si occupano del
servizio security. Buttafuori di Platì fanno da guardiani al gregge di sballati in cerca
di notorietà. Ai vip tutto è concesso. Il compito dei buttafuori non è vigilare sui vip.
Ma sulle api che ronzano attorno al miele dello star system. Che la gestione della
sicurezza è un affare delle cosche lo dice un boss di primo piano, Francesco Pesce "U
Nanu". Durante una conversazione intercettata dal Ros, "U Nanu" ammette che in
suo aiuto sono accorsi i buttafuori dell'Hollywood e altra gente di Platì. Il riferimento
è a una rissa avvenuta in un altro locale milanese. Un locale di scambisti, dove
Francesco Pesce e Andrea Fortugno hanno trascorso una serata. Una nottata finita
male, soprattutto per il rampollo dei Pesce. Il suo sodale "irresponsabile" aveva
rubato 380 euro dalla borsa di una ragazza. Il ragazzo, un culturista possente,
accorgendosi del furto, li ha richiamati. Ha pestato a sangue il mafioso, gli ha preso il
portafoglio e recuperato la somma sottratta alla ragazza. È un affronto, quello subito
da "U Nanu". È stata lesa l'auctoritas mafiosa. I veri boss non si mettono a rubare
nelle borsette, ripete tra sé e sé Francesco, ma la questione andava oltre il furto e la
borsetta. Era diventata una questione d'onore. Di gerarchie, di mafiosità. Pane per i
denti del rampollo di 'ndrangheta. Inizia così la ricerca di quello sconosciuto alto un
metro e novanta. Minacciano il proprietario del locale, intimandolo di consegnare
loro l'elenco delle persone presenti. Il titolare obbedisce ed è costretto, anche, a
rimborsare i due mafiosi con 400 euro. Venti euro in più rispetto a quanto perso dal
picchiatore di Francesco Pesce. Nel frattempo sul posto arrivano altri calabresi, il
proprietario li indica come persone dall'accento calabrese. Ma Pesce "U Nanu" è più
preciso, "Buttafuori dell'Hollywood e gente di Platì", "u Nanu" chiama, Platì
soccorre. Tra uomini della stessa "fede" il mutuo soccorso è un elemento
imprescindibi-eU mutuo soccorso crea coesione. Rafforza l'organizzazione, insalda
le strutture.
Ciccio Pesce, "U Nanu", vuole vendicarsi del pestaggio subito davanti al locale
milanese. È un affronto. Anche se la colpa è del suo compare Fortugno, a meditare
vendetta è il rampollo della cosca Pesce di Rosarno. Si mette alla ricerca di un'arma.
Ha solidi legami Ciccio Pesce in Lombardia. La sua cosca controlla ampie fette di
territorio milanese. Controllano il traffico di droga, realizzano estorsioni, non
lasciano lavorare in pace neppure i paninari fuori dalle discoteche, a cui chiedono i
soldi. Pagano tutti, tranne i paninari che dipendono dalla cosca. Le altre devono
sottostare alle richieste dei Pesce. Le relazioni criminali di Ciccio Pesce gli
permettono di recuperare armi in breve tempo. Basta chiedere. E così ha fatto quando
gli serviva una pistola per eseguire la vendetta contro quel ragazzo che l'ha umiliato.
L'arma la trova da un "collega". Ma è pur sempre uno della famiglia Pesce, e non è
consigliato per un boss girare per Milano con armi addosso. "Dove lasciarla", riflette
il giovane boss. "Andrea non può rifiutare", si risponde. Andrea è un dipendente
dell'Hollywood. Uno dei tanti buttafuori addetti alla sicurezza dei locali milanesi. A
disposizione della 'ndrangheta. Quando Ciccio Pesce ordina, il picciotto risponde.
Mette l'arma al sicuro, la nasconde. Il boss lo raggiunge all'Hollywood per
consegnargli la pistola. Succede anche questo nel locale fashion della Milano da
sniffare.
La gestione della sicurezza nei locali notturni della Lombardia rientra a pieno
titolo negli affari gestiti dalla 'ndrangheta. A gestire una fetta importante del mercato
"sicurezza" è la famiglia Plachi. Lo storico capobastone è Pepe Plachi. Giuseppe
detto "Pepe" inizia la sua carriera criminale come rapinatore, collaborando anche con
Renato Vallanzasca, il "bel René". Poi se ne sgancia per orientarsi verso il più
remunerativo traffico di stupefacenti. Nell'estate del 1986 nasce l'alleanza con Franco
Coco Trovato. Insieme realizzano un'unica un'organizzazione criminale che
estendeva la propria influenza, oltre che su gran parte dell'area urbana di Milano, su
Busto Arsizio, sulla Brianza e sulle province di Como, Lecco e Varese. Estorsioni,
usura, furti, ricettazioni, traffico di stupefacenti ed armi. Le attività della cosca
Flachi-Trovato sono state le più svariate. Nel periodo della loro egemonia sono stati
numerosi anche gli omicidi di affiliati a gruppi contrapposti per acquisire il controllo
di attività economiche. Franco Coco Trovato aveva il suo feudo a Lecco. Stesso
feudo elettorale di Roberto Castelli, il leader leghista, ex ministro della Giustizia. Un
collaboratore di giustizia, Giuseppe Di Bella, ha messo in relazione i due nomi. Di
Bella, braccio destro di Franco Coco Trovato, racconta di averli visti assieme alcune
volte. E che Franco il boss gli avrebbe detto di votare Castelli, "un cavallo vincente"
ha confessato Di Bella ai giornalisti Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, autori del
libro inchiesta "Metastasi". Vicende e intrecci che Di Bella ha raccontato per la
prima volta agli autori del libro. Dopo l'arresto di Coco Trovato è toccato al figlio
Emanuele sostituirlo. Sulla testa di Franco Coco Trovato pende un eterno "fine pena
mai". Giuseppe, "Pepe", Plachi invece nel 2015 tornerà libero. Nel frattempo il figlio
Davide ha gestito attività e traffici. Davide si è legato a Paolo Martino. Figura
emblema di una 'ndrangheta post moderna. Che fonda il suo potere sul controllo
dell'economia e della finanza. E rinsalda il suo potere con agganci nella politica
locale. Penetrandola con delicatezza, attraverso la fiocina della corruzione. Un'arma
che seduce il potere legale. Lo piega alle volontà dei mafiosi, incaricati di mediare
con il livello istituzionale. Mafiosi profumati di legalità. Un profumo superficiale che
nasconde il fetore e il volto putrido e purulento delle organizzazioni mafiose.
'Ndranghetisti lombardi che incontrano pezzi da novanta della politica calabrese.
Paolo Martino come annota il Ros, avrebbe incontrato più volte Giuseppe Scopelliti,
attuale presidente della Regione Calabria ed ex sindaco di Reggio Calabria. Un
incontro avvenuto non a Reggio Calabria ma in Lombardia. Episodi di cui ha scritto
Calabria Ora, prima dell'epurazione della storica redazione: "Al centro delle indagini,
il vorticoso giro di appalti che alcune imprese reggine vicino ai clan avrebbero
ottenuto in Lombardia grazie all'intermediazione di grossi esponenti politici lombardi
del centrodestra attivati dai loro colleghi reggini". Scopelliti non è mai stato
coinvolto in alcuna indagine. Ma semplicemente citato nelle informative redatte dai
Ros. Non è la prima volta che gli capita a Peppe Scopelliti, l'ex sindaco di Reggio
amatissimo dai reggini per avere regalato ai reggini la movida in stile milanese. Del
sindaco e attuale governatore della Calabria si parla anche in un'altra nota del Ros. Il
15 ottobre del 2006 il presidente partecipò, assieme a 'ndranghetisti del calibro di
Cosimo Alvaro, alle nozze d'oro dei genitori di compare Mimmo Barbieri,
imprenditore arricchitosi con gli appalti pubblici, arrestato per mafia il 23 giugno
2010.
Paolo Martino è uno degli 'ndranghetisti presentabili, "frequentabili". Ben vestito,
imprenditore di successo, gentile, affabile, amico dei vip della Milano "fashion",
editore. Insomma, per chi, come ancora molti cittadini del Paese, immagina di
riconoscere il mafioso perché armato fino ai denti, o perché fuggitivo e quindi
trascurato nello stile, Paolo Martino rappresenta l'esempio palese del grado evolutivo
raggiunto dalla 'ndrangheta e dei suoi "personaggi tipo". Una categorìa sociologica.
Da utilizzare come strumento di analisi. La rete di Martino è quella de "La
Lombardia", la struttura, in collegamento con "La Provincia" calabrese, che indirizza
le scelte strategiche dell'Organizzazione in Lombardia. La famiglia Valle fa parte di
questa rete. Sono tra i più fedeli collaboratori di Paolo Martino. Francesco, Angela,
Fortunato e Carmine Valle, sono stati arrestati a luglio 2010. I Valle si muovono tra
Cisliano, Bareggio e Milano. Non disprezzano altre province lombarde, ma è in
quelle aree che i loro cognomi fanno paura. Fanno tremare imprenditori e
commercianti. Tengono in ostaggio il loro futuro, ma in silenzio. Senza clamore. Da
professionisti del crimine. Agli occhi delle persone appaiono come imprenditori, con
buone relazioni politiche. Bagnati di questa presunta santità, prestano soldi, a usura.
L'elenco degli imprenditori che si rivolgono ai Valle e lungo. Dopotutto è facile per
la cosca Valle agganciare aziende in difficoltà. Capi e gregari del clan hanno
numerose società. Almeno 13, ne contano gli investigatori. Attive in diversi campi.
Dall'immobiliare al gioco, dalle finanziarie ai ristoranti. Alcune direttamente
riconducibili ai boss, altre intestate fittiziamente a parenti, amici, uomini di fiducia.
La magistratura milanese ha chiesto e ottenuto il sequestro preventivo. La cosca
Valle è ritenuta espressione diretta dei De Stefano di Reggio Calabria. Una cosca
potente, quella dei De Stefano. Vicina ad ambienti dell'estrema destra, della
massoneria, e radicata nelle istituzioni calabresi. E non solo. Perché i Valle, che
risiedono in Lombardia da anni, hanno agganciato la politica locale della Padania.
A Cernobbio, nella romantica cornice di Villa d'Este, Maria Valle ha sposato
Francesco Lampada. La prima è la figlia di Fortunato Valle. Classe '86, è nata a
Vigevano. Suo padre è stato arrestato nel luglio scorso per associazione mafiosa. Con
lui, anche il nonno, Francesco Valle, 'ndranghetista legato alla potente cosca De
Stefano. I carabinieri di Milano in un rapporto del 2008 scrivono che "Francesco
Valle detto don Ciccio, risulta essere il capo del clan Valle". Da una perquisizione
domiciliare effettuata dalla polizia di Pavia il 26 gennaio 1984 vengono sequestrati
presso l'abitazione del Valle brani dei rituali di affiliazione alla 'ndrangheta.
Dall'operazione di luglio 2010, Maria non ne esce indenne. È indagata per
associazione mafiosa "per aver contribuito al rafforzamento economico del sodalizio
criminoso rendendosi intestatario fittizio delle quote di Gestione delle Immobiliari
Marilena srl". La stessa accusa è toccata anche al marito. Francesco Lampada, classe
'77, originario di Reggio Calabria, è indagato "per aver contribuito al rafforzamento
economico del sodalizio criminoso entrando in società con la famiglia Valle e con
soggetti a loro vicini". Lui, assieme al fratello Giulio, non coinvolto nell'operazione
di luglio, sono ritenuti dal Ros di Reggio Calabria il braccio finanziario della cosca
capeggiata da Pasquale Condello. In quella sera di luglio del 2006, prima e dopo le
celebrazioni dell'unione tra Maria e Francesco, nessuno sospetta di loro. La stessa
polizia verrà a conoscenza del matrimonio soltanto nel 2009, per bocca di un
testimone. Presente all'evento. Il racconto è di Carlo Alberto Bertoni. Inizia così: "La
cerimonia si svolse presso la chiesa di Sant'Angelo. Di fronte vi erano parcheggiate
due o tre autovetture con autista. Gli ospiti potevano essere 300, alcuni provenienti
da fuori Milano".
La chiesa si trova in corso di Porta Nuova, pieno centro di Milano, esattamente a
poco più di cento metri dalla Questura di via Fatebenefratelli e dalla caserma dei
carabinieri. Il ricevimento si è svolto presso Villa d'Este a Cernobbio. Lo stesso
testimone racconta di aver accompagnato pochi giorni prima Maria Valle, assieme
alla zia Angela "per lasciare un anticipo". Il banchetto di nozze costerà in tutto
60mila euro e verrà pagato con assegno intestato alla società Zemagi service srl.
L'impresa che si occupa di consulenze chiude i battenti nell'ottobre 2010. Tra i primi
soci c'è Giulio Lampada che passerà le quote al padre. Giulio nel maggio di quel
2006, assieme al consigliere comunale del Pdl, Armando Vagliati, parteciperà alla
festa di fine campagna elettorale dell'allora candidato sindaco Letizia Moratti. Si
tratta dello stesso Lampada che il Ros di Reggio Calabria definiscono "una tipica
figura criminale che si innesta pienamente nel substrato mafioso, con compiti e ruoli
connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso riconducibile a
Pasquale Condello". Al matrimonio, sulla riva del lago di Como, partecipano anche
Giovanni Barillà, genero di Pasquale Condello e lo stesso figlio del superboss
Domenico Francesco Condello. Al banchetto ci sono altri personaggi di spicco
della'ndrangheta: Paolo Martino, parente del defunto boss Paolino De Stefano e
presunto manovratore degli affari mafiosi sotto il Duomo. Con lui, anche due
esponenti del potente clan Papalia. Racconta Bertoni: "Martino, mentre stava salendo
in auto con me, vedendo arrivare una Bmw serie 5 di colore scuro, decideva di
andare su quell'auto sulla quale affermava esserci due componenti della famiglia
Papalia". All'epoca in giro ci sono i due figli di Antonio Papalia, Pasquale e
Domenico. Il primo oggi è in carcere, il secondo è latitante. Dall'elenco spunta anche
il nome di Mauro Russo, originario di Casoria, già legato al cartello criminale della
Nuova camorra organizzata capeggiata da Raffaele Cutolo. Russo è ritenuto il
fiancheggiatore d' Pasquale Scotti, nella lista dei trenta latitanti. La festa per i
rampolli uniti in matrimonio si conclude con un concerto di 45 minuti con una
cantante napoletana, con i fuochi d'artificio sul lago e con fontane e giochi di luce
barocche nei giardini.
Matrimoni che rinsaldano alleanze come se ne vedono tanti nella Locride. E che
avvengono anche in Lombardia. I riti sono essenziali, sono un elemento da
riprodurre ovunque. Dalla Calabria all'Australia, passando per la Lombardia. Il
valore del matrimonio per la 'ndrangheta va oltre al significato comune che noi
conferiamo a quell'atto. Trascende il significato classico del termine, è il perno
attorno a cui la 'ndrangheta rigenera le proprie strutture.
Paolo Martino è tra gli ospiti d'onore al matrimonio tra Maria Valle e Francesco
Lampada. È una presenza significativa, quella di Martino. Per gli investigatori è la
prova del valore di quel matrimonio e del peso della cosca Valle nel sistema
'ndrangheta. Paolo Martino è ritenuto una figura di spicco della cosca De Stefano di
Reggio Calabria. Per Paolo la Lombardia è come Reggio Calabria. Come casa sua. È
dentro il sistema economico. Ha conoscenze importanti nel tessuto socio economico
lombardo. Reggio e Milano, vertici di una struttura potente e segreta, arcaica e
moderna. Calabria e Lombardia, centri del potere 'ndranghetista.
Tra le relazioni intrattenute da Paolo Martino, quella con Lele Mora. Il
faccendiere dello spettacolo, il reclutatore di ragazze da invitare ai bunga bunga di
Arcore, nella sontuosa villa San Martino di Silvio Berlusconi. Ospiti del premier, un
esercito di ragazze più o meno famose. Più o meno agguerrite. Escort alla ribalta. In
cerca di celebrità e ruoli nel mondo dello spettacolo. Il passaggio dalla villa del self
made man Berlusconi è d'obbligo. Lele Mora è accusato, insieme a Emilio Fede e
Nicole Minetti, di sfruttamento della prostituzione. Al centro dell'indagine coordinata
dai magistrati di Milano, le serate di Villa San Martino. Berlusconi è invece accusato
di concussione e prostituzione minorile. È un'altra storia. Ma che paradossalmente,
ha molte cose in comune con il sottobosco della 'ndrangheta milanese. Una
'ndrangheta mondana, che non dimentica i riti del passato. Mora e Martino sono in
contatto. Così come l'ex tronista di "Uomini e Donne", Costantino Vitagliano è in
contatto con Paolo Martino. Il reggino, già condannato per mafia, è conosciuto tra gli
imprenditori della movida milanese. Come Vito Cardinale, socio della discoteca
Hollywood e del Lolapalosa, un noto locale alla moda della Milano da "sniffare". Tra
i soci anche Domenico Testino. E la Black Submariner Ladunia. Una srl tra i cui soci
ancora oggi compare lo storico terzino del Milan Paolo Maldini. Come ha scritto
Davide Milosa su Il Fatto quotidiano, l'investimento di Maldini "risale al 1995.
All'epoca il calciatore commentò così la notizia: 'Ho partecipato per l'amicizia che mi
lega ai proprietari della discoteca Hollywood'. E infatti del Loolapalosa è socio
Alberto Baldaccini, titolare della Vimar srl alla quale fa riferimento l'Hollywood, per
anni covo prediletto da Lele Mora. Visura dopo visura spunta il nome di Vito
Cardinale, altra storica anima dell'Hollywood, ma anche socio di Testino e Maldini
nel Loolapalosa".
Domenico Testino è attualmente latitante. Dal 1999 al 2008 ha gestito il locale di
cui è socio anche il campione del mondo. Nell'indagine che ha riguardato Paolo
Martino, di Testino gli investigatori annotano numerosi contatti con un uomo di
fiducia della famiglia Plachi, incaricato dai vertici della cosca di gestire il traffico di
cocaina. E proprio di cocaina Mimmo Testino ha bisogno, quando chiama Cesare
Colombo, lombardo di Seregno ma bene inserito nei traffici di oro bianco gestiti
dalla 'ndrangheta. Si danno spesso appuntamento nei pressi del Lolapalosa. Il socio
di Maldini è così descritto dal gip di Milano: "Gestore di locali pubblici con piccoli
precedenti legati a tale attività, ha un rapporto fidelizzato con gli uomini della
famiglia Plachi e quindi è a stretto contatto con contesti criminali di elevato livello.
Favorisce i Plachi nella gestione della sicurezza dei locali. Acquista quantitativi
significativi di droga, del quale appare essere un consumatore cronico. Tutto ciò
costituisce un quadro di personalità che consente di affermare il pericolo di
reiterazione". Insomma, se il buon senso avesse ancora un valore e a dominare non
fosse soltanto il dio denaro, non sarebbe proprio un soggetto con cui aprirsi un
locale. Non è un reato ignorare le abitudini e gli stili di vita dei soci in affari. È
superficialità dettata dal bene supremo del profitto, che non sazia mai.
La storia del faccendiere 'ndranghetista Paolo Martino s'incrocia con quella delle
feste ad Arcore. Non soltanto per i contatti telefonici tra il boss e Lele Mora. A
dialogare con il cugino dei fratelli De Stefano, è anche l'avvocato di Lele Mora, Luca
Giuliante, non coinvolto nella vicenda, che è stato il legale, per un breve periodo,
della sedicente nipotina di Mubarak, la Ruby "rubacuori" di Papi Silvio. Martino e
Giuliante si sentono per telefono. Rapporti che "non sembrano essere occasionali e
passano per interessi economici e imprenditoriali comuni", scrive il gip del Tribunale
di Milano. In una telefonata Martino esordisce entusiasta: "Sono l'amico di Lele". Al
centro delle conversazioni ci sono interessi milionari. Martino vuole ottenere qualche
anticipazione sull'esito della gara d'appalto alla quale partecipa una ditta amica.
L'avvocato di Mora è la persona giusta, fa anche parte, per sua stessa ammissione, di
una commissione che si occupa del programma di Guido Podestà, presidente della
Provincia di Milano. Le informazioni le ottiene. La "nostra" ditta, come la chiama
Giuliante, non vince, perché la cooperativa Ravennate ha proposto un'offerta
anomala e si è aggiudicata la gara. Saputo ciò, Martino tenta di contattare l'impresa
che si è aggiudicata il lavoro. Presumibilmente per entrare nei sub appalti. Il cugino
dei De Stefano ha fiuto per gli affari.
È anche un editore, Martino. Occulto, ma pur sempre editore. Promuove la rivista
Macao. Di proprietà della società Alan Pubblishing Group. La stessa società edita
altre riviste quali New York Magazine, dedicata al settore dei viaggi, e la rivista ^'
Life, dedicata al settore dell'imprenditoria. Pur non figurando in alcuna carica sociale
nella società Alan Publishing, Paolo Martino si impegna attivamente, organizzando
anche interviste con noti giocatori di poker, tra i quali il campione Salvatore
Bonavena. Martino si presenta agli interlocutori come il responsabile commerciale
del giornale Macao e si sta occupando di pubblicizzare le aziende che producono
slot, biliardi e poker texano. Si adopera anche a cercare pubblicità. Contatta anche un
collaboratore del suo amico Vito Cardinale dell'Hollywood. Il tempio della movida e
della Mora filosofia torna spesso nella storia di Paolo Martino.
E torna il legame con la Calabria, con Reggio. Martino è amico di Gioacchino
Campolo. Il "Re dei Videopoker" arrestato nel 2008 a Reggio Calabria. Proprio di
videopoker e videoslot Martino se ne intende. Di quello si occupa la rivista. Contatta
diversi imprenditori del settore, tra questi uno è di Gioia Tauro, che confessa
all'editore occulto, di gestire venti sale da biliardo e di essere proprietario di duemila
macchine per video giochi. "Ho sostituito Campolo", sostiene l'imprenditore.
"Non sono certo trascurabili le svariate offerte di investimento che costantemente
pervengono a Paolo Martino il quale, oltre a manifestarvi grande interesse, si riserva
di analizzarle nel dettaglio. In tal senso allo stesso è stato proposto l'acquisto di quote
di partecipazioni societarie estere, relative alla gestione di case di vacanze dislocate
in alcune note località turistiche europee della Bulgaria, della Francia e del
Montenegro. Dalla sicurezza ostentata da Martino nel vagliare le proposte
summenzionate, emerge in tutta evidenza come quest'ultimo sembri avere una
sostanziosa disponibilità economica da riversare nei vari progetti che intende
avviare". Così il gip di Milano descrive Paolo Martino. L'imprenditore, boss,
faccendiere. 'Ndranghetista modello del terzo millennio. Con un piede nel tempio
sacro della Società, con l'altro nella cattedrale della finanza mondiale.
18. 'Ndrangheta (in)Comune
"Ti scanno, so dove abiti, ti vengo a prendere quando voglio!". Rocco è abituato
ad eseguire ordinanze di arresto. Fa il poliziotto a Bordighera, ne ha vista di
violenza, di scene del crimine. Fa il suo lavoro, nulla di più. Ma questa volta, quelle
minacce e quello schiaffone lo scuotono, penetrano a fondo nella sua coscienza, la
trapanano. Anche perché a pronunciarle e a schiaffeggiarlo è Roberto Pellegrino.
Uno dei fratelli Pellegrino. Famiglia chiacchierata, indagata, su cui l'antimafia ha gli
occhi puntati da tempo.
"Originaria di Seminara (Re), ritenuta collegata, attraverso rapporti parentali, con
elementi di spicco della criminalità del ponente ligure e con la cosca calabrese
Santaiti- Gioffrè. Dopo un primo periodo in cui operavano nel campo del traffico di
stupefacenti armi ed esplosivi i loro interessi si sono concentrati sull'edilizia
(movimento terra ed escavazioni). In brevissimo tempo hanno costituito diverse
società edili, partecipando a pubblici appalti". (Relazione Dia, 2010).
Quelle parole pronunciate con veemenza e prepotenza riecheggiano nella testa di
Rocco, violano la sua intimità. Era convinto che in Liguria certe cose non gli
sarebbero accadute. "Non indosso la divisa in Calabria, o in Campania", ripeteva agli
amici. Ma la 'ndrangheta non ha più confini, questo Rocco lo sa, lo ha appreso dai
giornali e dalla televisione. Mai, però, avrebbe immaginato di trovarsela davanti a
promettergli vendetta Per avere eseguito un ordine firmato dal giudice.
L'ansia cresce in Rocco, giorno dopo giorno. Sa che in libertà ci sono i fratelli di
Roberto Pellegrino. La famiglia non abbandona i suoi figli. E i tremori lo assalgono
quando sente squillare il telefono. Sono passate poche ore dall'arresto di Pellegrino.
E suo zio Gianni: "Pronto...", risponde Rocco. "Oh, vedi che mi ha chiamato il
fratello di quello che hai arrestato oggi. Mi ha minacciato, mi ha insultato, mi ha
detto di dirti che se a suo fratello gli toccate un capello, ti ammazza con le sue mani,
che è disposto a prendersi l'ergastolo, ma lo difenderà costi quel che costi". Il
tremore di Rocco si trasforma in angoscia e sudori freddi. Riflette sul da farsi,
chiamare Giovanni Pellegrino, come gli ha suggerito lo zio, o fare finta di niente.
Ricominciare l'attività come se non avesse mai ricevuto minacce? Riflette
scorticandosi, come non faceva da anni, le unghie. Prende il cellulare e digita il
numero che lo zio gli ha dato. Dopotutto "qui non siamo in Calabria", cerca di
convincersi, vuole calmarsi, e placare quella bestia vorace che gli sta divorando lo
stomaco. "Pronto, parlo con Giovanni Pellegrino?". La flebile voce del poliziotto è
subissata dalla valanga rabbiosa dell'imprenditore Pellegrino che gli ripete il monito
riferito nella telefonata precedente allo zio di Rocco. È una telefonata breve, ma
sufficiente per mostrare a Rocco, il poliziotto, il volto mafioso della sua amata e
ovattata Bordighera.
È giugno 2010. È passato quasi un anno dall'arresto di Roberto Pellegrino per
detenzione illegali di armi e da quella minaccia rivolta a Rocco. Le prime luci
dell'alba riaccendono le vite di Bordighera. La città si sveglia lentamente, un
risveglio lento come le onde del mare estivo che accarezzano le coste liguri. La
Francia dista qualche chilometro. A un'ora c'è la Provenza, con i suoi profumi, le sue
spezie, i suoi odori, la sua lavanda, la sua dolce vita. Marsiglia. Cannes. Nizza.
Bordighera è un po' Liguria, un po' Provenza. A Bordighera la stagione estiva è un
caleidoscopio di colori. Così come la primavera. Qui il Nord Italia perde le sue
caratteristiche stereotipate. Profumi, odori, salsedine, suoni, accoglienza. Tutto
rimanda ai paesi del mediterraneo.
Quella, però, è una mattina strana per Bordighera. Il rumore degli elicotteri turba
la serenità di chi ancora dorme e di quanti stanno facendo colazione prima di salire in
sella alla bicicletta o di mettersi al volante per recarsi negli uffici, negli studi, nelle
botteghe, nelle fabbriche. La routine meccanica è minata dalla pervasività della
'ndrangheta. Il 2009 e il 2010 sono stati anni incandescenti per la riviera del Ponente
ligure. Numerosi atti incendiari che hanno allarmato i cittadini, e soprattutto gli
investigatori. Reati spia sintomo di una presenza radicata delle cosche mafiose che
utilizzano l'intimidazione per piegare imprenditori, commercianti e politici. È il caso
di Franco Colacito, assessore di Bordighera fino allo scioglimento deciso dal
Ministero. La sua attività è stata data alle fiamme, un episodio avvenuto nel 2009 che
trova una spiegazione nella successione di eventi che scuotono la tranquilla realtà di
Bordighera. Qualche ingranaggio era saltato da tempo. L'escalation di fuochi
appiccati nei bar, nei cantieri, le intimidazioni. Segnali dell'avanzamento
inarrestabile della "Linea della palma" profetizzata dallo scrittore siciliano Leonardo
Sciascia.
A Bordighera ricorderanno quel 13 giugno come un punto di non ritorno, dopo il
quale nessuno potrà continuare a fare finta di niente. Gli elicotteri e le sirene per
scovare gli uomini del gruppo Pellegrino producono un rumore assordante, quasi
volessero dare la sveglia ai cittadini. A Bordighera scoprono la 'ndrangheta. Ma
soprattutto le sue ambizioni politiche, imprenditoriali, la sua matrice violenta e
corruttrice.
I segugi dell'antimafia cercano Roberto, Giovanni e Maurizio Pellegrino,
Francesco Barillaro, suocero di Giovanni Pellegrino, e alcuni sodali, indagati per
avere preso parte agli affari, leciti e non, del gruppo che secondo gli investigatori è
una cosca di 'ndrangheta. Estorsione, sfruttamento della prostituzione, minaccia a
pubblico ufficiale e a un politico locale di Bordighera. Roberto otterrà la
scarcerazione dopo qualche settimana, per lui i giudici ritengono che non ci siano
elementi che possano giustificare la misura cautelare.
La dinastia Pellegrino vive tra Ventimiglia e Bordighera. E Proprio a Ventimiglia i
collaboratori di giustizia indicano la presenza di un Locale di 'ndrangheta, con la
funzione di cerniera tra i "Locali" di 'ndrangheta presenti in costa Azzurra e quelli
attivi nel territorio ligure. La chiamano "Camera di controllo", organismo decisionale
inserito nelle strutture della 'ndrantransnazionale.
La villa della famiglia Pellegrino è sulle colline di Bordighera. Terreni e immobili
rappresentano il tesoro accumulato dai fratelli che con l'omonima impresa di
movimento terra sono conosciuti in tutta la Liguria. È una ditta accreditata, quella dei
Pellegrino. Che ha effettuato anche i lavori di sbancamento della spiaggia di
Bordighera. Appalti pubblici a valanga. Fanno girare l'economia del ponente ligure.
Frequentano alcuni esponenti della politica locale. Amministratori. Assessori che
promettono di impegnarsi per agevolare alcuni progetti promossi e finanziati dalla
famiglia Pellegrino, indiziata dalla Direzione nazionale antimafia di appartenere alla
'ndrangheta di Seminara.
Da quella riunione di Giunta non sarebbe dovuto trapelare nulla. Una seduta
privata, riservata. Quella sera sarebbero state prese decisioni importanti. Gli
amministratori di Bordighera stavano valutando alcune domande per l'apertura di una
sala slot, quei moderni casinò sempre più diffusi nelle città. Dove non ci sono
croupier, ma soltanto videogiochi d'azzardo "legalizzato". Per aprirne una ci vuole
l'autorizzazione del Comune. La 'ndrangheta cuoce a fuoco lento le sue prede.
Quando punta l'attenzione su un territorio, la tattica di insabbiamento è metodica.
Qualche sussulto violento, certo, lo provoca, per condizionare l'economia, per
assoggettare i ribelli del Nord. Ma sono poca cosa rispetto alla meticolosa opera di
tessitura delle trame invisibili con esponenti dell'imprenditoria e della politica locale.
Penetrare nel tessuto in maniera indolore è il modus operandi della 'ndrangheta di
riviera. Tra Imperia, Bordighera e Ventimiglia, le cosche della provincia di Reggio
Calabria, hanno assestato il colpo finale. Silenzioso. Quello definitivo che ha
permesso loro di raggiungere la stanza locale dei bottoni: il Comune. La sala giochi
con le slot machine s'ha da aprire, sostengono i Pellegrino. L'amministrazione non è
compatta, qualche assessore rivela ai Pellegrino i colleghi che si sono opposti
all'apertura. La cittadinanza è convinta e non vuole per nulla al mondo una sala
giochi dove pulluleranno macchinette mangiasoldi. La richiesta delle consorti dei
Pellegrino per ottenere la licenza delle sale giochi scatena un putiferio: per il no
opposto dalla consigliera di minoranza del Pd Donatella Albano sono fioccate
minacce gravissime, tanto che la donna è stata messa sotto tutela e qualche assessore
s'è trovato la macchina incenerita. Marco Sferrazza è un assessore del Comune di
Bordighera, fa parte della maggioranza di centro destra che governa la città
dell'Imperiese. La mattina che il maresciallo dei carabinieri lo convoca in caserma, è
titubante. Non ne capisce il motivo, oppure fa finta. Il maresciallo è diretto, vuole
che Sferrazza racconti delle minacce subite. E dopo qualche attimo di indecisione
l'assessore inizia il racconto. Dopo aver espresso la sua contrarietà all'apertura della
sala giochi durante la riunione di Giunta, aveva ricevuto a casa la visita di Giovanni
Pellegrino e del suocero Francesco Barillaro che, senza esplicite minacce, gli
avevano chiesto conto di quel suo atteggiamento contrario, salutandolo con una frase
che ha sconvolto l'assessore: "Però quando avete avuto bisogno dei nostri voti noi vi
abbiamo aiutato, vi abbiamo dato una mano".
È un primo tassello utile agli investigatori, che iniziano alcuni approfondimenti.
Raccolgono indizi e materiale, documenti, confessioni. Sferrazza davanti al
maresciallo sostiene anche altro. Alla base della fuga di notizie, secondo l'assessore,
ci sarebbero Rocco Fonti, assessore di Bordighera, e Franco Colacito. E che tra i
sostenitori della sala giochi ci sarebbe anche il sindaco, "perché aveva dei favori da
rendere", confessa Sferrazza al maresciallo. Riceve la visita del suocero di Pellegrino
anche l'altro assessore contrario all'apertura della sala giochi intestata alla moglie di
Giovanni Pellegrino. Questa volta il suocero di Pellegrino vuole informarsi se il
diniego opposto fosse un rifiuto personale contro la famiglia. Episodi che verranno
riconfermati davanti al pm. I carabinieri di Imperia redigono una relazione,
successiva all'ordinanza di arresto dei fratelli Pellegrino, in cui descrivono la
sostanza dei rapporti tra 'ndrangheta e politica locale. Nella relazione si parla di
documenti "interessanti" ritrovati in seguito alla perquisizione della villa dei
Pellegrino e di voto di scambio. Gli investigatori annotano anche una cifra, 200 mila
euro. Un finanziamento indiretto versato a un politico del ponente ligure. I contorni
torbidi della vicenda non terminano qui. Nel giugno 2009 le forze dell'ordine
avevano chiesto al sindaco la chiusura del locale notturno frequentato da pregiudicati
e dove la 'ndrangheta del ponente ligure faceva affari con la prostituzione. La
decisione del sindaco arriva soltanto un anno dopo, e nei giorni successivi
all'ordinanza di arresto che ha portato in carcere i fratelli Pellegrino, indagati per
sfruttamento della prostituzione in alcuni locali notturni, tra cui quello segnalato
l'anno prima dagli agenti al sindaco.
La relazione i carabinieri la inviano al prefetto di Imperia che ad agosto invia la
commissione di accesso. A marzo scorso il consiglio comunale è stato sciolto per
mafia. "Chiuso per mafia" hanno titolato molti quotidiani locali e nazionali. È il terzo
Comune non meridionale sciolto per ingerenze della criminalità organizzata. In tutto
sono 202 i comuni sciolti per mafia dal 1991, anno in cui è entrata in vigore la legge
che ha introdotto lo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose.
"Incomprensibile è definito dalla commissione d'accesso l'atteggiamento
dell'amministrazione che non si è costituita in giudizio nei procedimenti promossi
dalla famiglia Pellegrino contro provvedimenti adottati dall'amministrazione per
reprimere alcuni abusi edilizi, e di non verificarne l'esito. Un atteggiamento che ha
prodotto il notevole ritardo con cui è stata adottata l'ordinanza di demolizione delle
opere abusive. 'L'azzeramento' della giunta, intervenuto dopo i citati provvedimenti
dell'autorità giudiziaria, non appare significativo di un'effettiva inversione di
tendenza dell'amministrazione comunale, considerato che alcuni degli ex assessori
partecipano a vario titolo anche all'attuale gestione dell'ente. Tale condizionamento
risulta confermato dalle frequentazioni dell'assessore da ultimo citato (Rocco Fonti,
nda), che intrattiene da tempo rapporti con elementi della criminalità organizzata
calabrese e con le suddette 'famiglie' di Bordighera, nonché del vicesindaco
(lacobucci, nda), la cui presenza era stata notata, unitamente a quella di numerosi
pregiudicati, all'inaugurazione di un bar intestato alla moglie di un componente delle
'famiglie' medesime". In un'intervista sotto il sole d'agosto, lacobucci ha dichiarato
che "quando una persona si candida consegna per strada i suoi santini a tutti anche a
personaggi scomodi perché sono cittadini che vanno a votare. Diverso e più grave è
quando i voti si vanno a cercare dai mafiosi e si stringono patti attraverso pranzi o
nei locali pubblici. In una zona piccola come la nostra è facile incontrare per strada
mafiosi, non si può evitare. È una convivenza con loro ma non deve trasformarsi in
una connivenza". È un tipo tosto lacobucci, rimpiange la destra seria. "Ho chiuso con
Fini anni or sono quando lui non rappresentava al meglio la Destra", ha dichiarato
nella stessa intervista.
La relazione della commissione d'indagine rileva infatti che la "famiglia" in
questione ha goduto di un certo "favore", soprattutto nel periodo 2003-2007 e in
particolare a cavallo delle elezioni comunali del maggio 2007, caratterizzato da
omissione di controlli nella "esecuzione di lavori pubblici alla medesima affidati in
appalto o in subappalto". "Particolarmente grave appare l'omessa richiesta del
certificato del casellario giudiziario dal quale sarebbe risultato che la società facente
capo alla medesima 'famiglia' non poteva essere destinataria di affidamenti, di
subappalti, né stipulare contratti con la pubblica amministrazione. La disparità di
trattamento appare ancora più evidente e significativa operando un raffronto con altri
appalti, aggiudicati a soggetti diversi, in cui non risultano le stesse anomalie ed
omissioni. Benché la maggior parte delle procedure di appalto in questione
riguardino la precedente consiliatura, le parzialità compiute vanno comunque
ricondotte alla responsabilità dell'attuale amministrazione, in virtù dei profili di
continuità rappresentati dal sindaco, al suo secondo mandato, nonché dai componenti
dei precedenti organi di governo presenti anche nell'attuale consiliatura".
Parole pesanti come macigni che si abbattono come un tornado sulla roccaforte
del centrodestra ligure. La conclusione della relazione del ministro dell'Interno è
ancora più amara, è sintomatica della libertà vigilata in cui determinati settori
economici sono costretti dall'avanzare delle organizzazioni mafiose. "L'insieme dei
suesposti elementi appare idoneo a suffragare le rilevate forme di condizionamento
del procedimento di formazione della volontà degli organi, essendo questo inciso dai
collegamenti che compromettono il buon andamento e l'imparzialità
dell'amministrazione comunale, determinando deviazioni nella conduzione di settori
cruciali dell'ente, come quello degli appalti pubblici".
Rischia lo scioglimento anche Ventimiglia dove si è insediata la commissione di
accesso che valuterà se sciogliere per mafia il Comune. Quando andrà in stampa
questo libro sarà nota probabilmente la decisione del ministro. I carabinieri di
Imperia hanno presentato un dossier. Nella relazione si fa riferimento ad alcuni
episodi specifici, intimidazioni non denunciate, voto di scambio e accordi
sottobanco. In quel dossier si fa riferimento anche alle ultime regionali liguri, per le
quali è stata candidata Fortunata Moio, figlia di Vincenzo, ex vicesindaco di
Ventimiglia, nella lista Bertone-Federazione pensionati che appoggiava lo
schieramento di Claudio Burlando. I magistrati sostengono che avrebbe ricevuto un
pacchetto di voti pilotato da Domenico Belcastro. "Stiamo appoggiando ad uno, voi
sapete chi è questo che lui veniva sempre a Siderno e vi conosce... quel Moio ve lo
ricordate voi? Che è un amico che si impegna... e adesso sta candidando la figlia e
l'appoggiamo noi... La stiamo appoggiando noialtri... ci impegniamo noi, contro la
volontà di compare Mimmo Gangemi che abbiamo avuto una discussione...". Parole
d'onore pronunciate da Belcastro e captate dal Ros, che mostrano una 'ndrangheta
votata alla politica locale anche in Liguria. La discussione tra i due referenti della
'ndrangheta ligure è dovuta alla volontà di appoggiare due candidati differenti.
Gangemi vorrebbe sostenere l'elezione di Monteleone, un ex finanziere, che a detta
del boss, avrebbe fatto promesse lavorative. Mentre Belcastro è deciso, il cavallo dei
Locali liguri deve essere Fortunata Moio, la figlia dell'ex sindaco di Ventimiglia» che
per ammissione di Belcastro sarebbe un affiliato, tanto che a giugno 2011 il pm ne ha
richiesto l'arresto rigettato dal gip. Moio si è dimesso da vicesindaco nel 2009 a
causa di divergenze con il sindaco Scullino, che a sua volta si è dimesso alla fine di
giugno 2011. Nel Comune di Ventimiglia il vento di scioglimento per mafia spira
sempre più forte, già dopo l'operazione Crimine, le voci, le intercettazioni e le foto,
avevano messo in imbarazzo la politica locale. L'insediamento di una commissione
di accesso, accanto al commissario che andrà a sostituire il sindaco, sembra alle
porte. Intanto tra un anno si vota, e Moio ha già iniziato la campagna elettorale
insieme ad un altro ex assessore "licenziato" dal sindaco dimissionario. Fortunata
Moio non è stata eletta, i voti dei boss sono andati altrove, e gli investigatori
ritengono di sapere dove. Dalle carte dell'operazione Crimine spuntano i nomi di
Alessio Saso, consigliere Pdl in Regione Liguria, e Aldo Praticò, consigliere
comunale a Genova. Entrambi sono indagati nell'indagine Maglio 3 della Dda di
Genova. I boss parlano di loro in alcune intercettazioni e il Ros documenta una serie
di incontri. Praticò in una conferenza stampa ha parlato di complotto mediatico nei
suoi confronti e aveva anche delineato la sua filosofia politica: "Io quando vado a
chiedere il voto, quando distribuisco i santini parlo con tutti e a nessuno chiedo la
fedina penale... Forse ci sarà pure un problema di 'ndrangheta in Liguria ma io non
mi pongo questo problema". Nulla da eccepire, neppure nel suo partito visto che da
quelle fila nessuno ha osato dire nulla. Anche perché è il fratello del vice capo di
gabinetto del presidente della Regione Calabria Scopelliti. "Non hanno forza però se
un domani noi gli diamo le forze può essere che si comporta paesano del tipo che è...
almeno a lui possiamo andare a prenderlo dalle orecchie per mandarlo a fanculo
come a Lardo".
Un candidato come Praticò, convengono i due boss Calabrese e Gangemi, è
quello che serve all'organizzazione. "Tanto a posta di un cane, di un cane qualsiasi
glielo diamo a un cane dei nostri il voto che cosa dite voi...?". Candidati paragonati a
cani. E offese a chi ha tradito la fiducia dei boss: "Lardo deve andare ad
ammazzarsi". Con il soprannome "Lardo" i due boss, secondo gli investigatori,
intendono il presidente del Consiglio regionale della Liguria, l'Udc ed ex finanziere
Rosario Monteleone. Che, come emerge dai discorsi dei boss, avrebbe promesso
favori e poi una volta eletto sarebbe scomparso. Un motivo di rottura, i boss la
chiamano "trascuranza", vietata dal loro codice di ferro. A catturare la fiducia dei
boss è invece Aldo Praticò. "Questo Aldo che è venuto anche un amico di Reggio
un'occhiata gliel'abbiamo data". Gangemi spiega a Moio che il candidato prescelto è
Praticò. E gli fa notare che sono intervenuti anche da Reggio Calabria per
caldeggiare la candidatura. Il gip parla di "interventi di personaggi reggini inseriti,
come più volte ripetuto, in tessuti criminali di rilievo". Un accordo sostenuto da più
parti. Per la figlia di Moio non sembra esserci spazio. "L'importante è che scrivono
accanto per il Popolo della Libertà Praticò punto". È il consigliere a spiegare a
Mimmo Gangemi come istruire i suoi sodali a votare. "È meglio abbondare a fare
una ics perché ci sono i presidenti comunisti", prosegue nelle istruzioni. "Allora gli
dico mi sbarrano Popolo della Libertà e mi scrivono Praticò", ha afferrato il concetto
il capo, che riceve i complimenti dal candidato: "Bravissimo... questo devi dire... ti
portassero dentro l'urna".
Praticò non sarà eletto alla Regione. Qualcosa è andato storto. E il gip osserva che
non è un caso che durante gli scrutini su 2228 schede nulle, 500 sono state annullate
per lo stesso errore: accanto al nome del candidato presidente alcuni elettori hanno
scritto il nome di Praticò. Secondo il gip si sarebbe verificato un disturbo nella
comunicazione delle istruzioni di voto. A cristallizzare la vicinanza d'intenti c'è una
foto, che ritrae il consigliere comunale affianco a Domenico Gangemi durante la
Festa Mediterranea, evento patrocinato dai Comuni di Genova e di Reggio Calabria,
a cui erano presenti Domenico Gangemi, Aldo Praticò, Rocco Bruzzaniti, Cosimo
Gorizia e Arcangelo Condidorio. I primi contatti registrati tra Gangemi e il
consigliere comunale avrebbero riguardato proprio l'organizzazione della Festa
Mediterranea. "Ho visto Domenico Gangemi quattro volte comprando frutta e
verdura nel suo negozio. Ho preso con lui solo due caffè per organizzare la festa dei
calabresi", si giustificò Praticò dopo l'operazione Crimine dalla quale erano emersi i
primi contatti. E dopo l'operazione genovese in cui è indagato, non si scoraggia.
"Sono sereno, ma moralmente distrutto, vogliono farmi fuori. Ho chiesto ai
magistrati di essere interrogato immediatamente. Penso di ricandidarmi nel 2012". Il
consigliere regionale Saso ha, invece, spiegato di non aver tratto alcun beneficio
elettorale né di averlo chiesto, e ha aggiunto di aver interrotto i rapporti con Gangemi
dopo il secondo colloquio, perché il personaggio non lo convinceva. Secondo gli
investigatori che stanno indagando su Saso, Praticò e Moio, la storia sarebbe ben
diversa. Tra i due ci sarebbe una "conoscenza pregressa". Gangemi incarica Michele
Ciricosta del locale di Ventimiglia di "assistere" il candidato, "Io a Michele gli ho
detto, se voi avete qualche impegno ditemelo che io non mi offendo, però voglio
saperlo gli dissi io! Allora mi ha detto... Mimmo, disse, anche se non me lo dicevate
voi, dice è un amico mio, è un bravo ragazzo e comunque avrei avuto il pensiero lo
stesso". È il boss a tranquillizzare il candidato che gli ha fatto visita nel "Regno
dell'ortofrutta". E aggiunge: "Alessio, io quello che posso fare lo faccio". "E lo vedo,
lo stai già facendo altro che! Lo vedo, lo vedo", mostra soddisfazione Saso. "Se
saresti qui a Genova era un po' diverso, perché qui sai... mi muovo un po' meglio,
diciamo, se lì posso fare dieci a Genova potrei fare venti capisci?". "Certo! E beh,
certo!", risponde il politico. "Che ce li ho tutti sotto mano qui! Anche lì e'ho tanti
paesani, qualche parente, qualcosa penso che faremo anche lì, penso, la dobbiamo
fare", ci tiene a sottolineare la sua influenza il boss. Nel dialogo i due parlano anche
di un altro candidato dell'area Ventimiglia-Bordighera, appoggiato da tale Nunzio
Rindo originario di Seminara, residente a Ventimiglia e pregiudicato per associazione
mafiosa. Una conferma alle intercettazioni sarebbe arrivata dalle prime perquisizioni
a casa di Ciricosta. Gli investigatori hanno trovato alcuni biglietti da visita e i numeri
di telefono di Alessio Saso, ma anche del sindaco dimissionario di Viglia Scullino.
Inoltre, avrebbero scoperto un biglietto dello stesso Saso, indirizzato a Ciricosta, con
scritto a mano: "Grazie di tutto, è andata bene". Gli investigatori vogliono vederci
chiaro su un altro episodio, una presunta riunione riservata tra Giuseppe Marciano,
del locale di Ventimiglia e parente di Gangemi, e Saso. Un incontro che "lasciava
adito a particolari interpretazioni su eventuali negoziazioni del consigliere con la
componente calabrese", osserva il gip. Do ut des, forse. Soprattutto "in virtù di un
contenzioso aperto dalla locale agenzia delle entrate contro l'attività commerciale di
Gangemi, in ordine al quale Alessio Saso aveva garantito, come di fatto è avvenuto,
un suo interessamento a seguito dell'applicazione di una pesante sanzione
pecuniaria". Parole pesanti quelle del gip che descrivono una Liguria del
compromesso. "No, pubblicamente no", Saso è consapevole del peso dei due
personaggi che hanno deciso di sostenere la sua candidatura, ma li vuole incontrare.
Si chiamano Vincenzo La Rosa e Massimo Gangemi, nipote del "padrino" genovese
Mimmo Gangemi. "Nomi tipici della... della nostra Calabria insomma", trae le
conclusioni Saso. Che incontra i due qualche giorno dopo nel point elettorale di
Arma di Taggia, nei pressi di Imperia. La proposta è netta, gli 'ndranghetisti di Arma
di Taggia avrebbero messo sul piatto mille voti, "frutto di una collaudata gestione", a
detta di La Rosa, "già vincente con l'elezione alla Camera di Eugenio Minasse". Quel
Minasse, "pupillo" del figlio di Scajola e vice coordinatore regionale Pdl, fotografato
durante i festeggiamenti elettorali insieme a Michele Pellegrino (i fratelli di Michele
sono stati arrestati ad agosto 2010 insieme ad alcuni affiliati del locale di
Ventimiglia) e Giovanni Ingrasciotta (l'imprenditore che ha ammesso di conoscere
Matteo Messina Denaro). Minasse ammise di essere stato aiutato dai Pellegrino, ma
senza aver ricevuto alcun finanziamento. Esclude quindi di essere lui il politico
dell'estremo ponente ligure che, secondo fonti investigative, avrebbe ricevuto "200
mila euro" dai Pellegrino come finanziamento indiretto.
A Saso, il nipote di Gangemi e La Rosa, avrebbero promesso un interessamento a
"largo raggio", che La Rosa distingue dal sostegno "semplice", ossia dal raccogliere
voti solo nel comune di competenza. Saso sarà eletto, secondo solo al figlio dell'ex
ministro Scajola, e con 1300 voti in più rispetto al primo dei non eletti. Un divario
che mostrerebbe, secondo il gip, "il teorizzato appoggio di 1000 voti garantito al
limone" dalla 'ndrangheta ligure.
La rete stesa dalle 'ndrine avvolge altri politici. Non sono indagati come Saso,
Praticò e Moio, ma la facilità con cui politica e 'ndrine riescono a entrare in relazioni,
a incontrarsi, è un aspetto altrettanto inquietante. Sono persone ricercate, in tutti i
sensi, i boss liguri. Numerosi politici chiedono loro un sostegno elettorale. Qualcuno
trae giovamento dal sostegno, altri no. Altri ancora sono legati ai capi liguri da
rapporti societari. Come Pietro Marano, candidato Udc alle regionali e non indagato.
È stato socio per qualche tempo di Garcea, in una società finanziaria. Prima che fosse
arrestato il boss, Marano ha lasciato la società. Gli investigatori hanno scoperto che
Garcea tramite quella attività di intermediazione creditizia, praticava usura. Rapporti
che tra Garcea e Marano proseguono fino alle elezioni. "Sviluppava un'importante
propaganda a favore di Pietro Marano". Avrebbe messo sul piatto quaranta voti della
famiglia Garcea. Salvo poi obbedire alle direttive dell'associazione impartite da
Gangemi: "Votate Praticò" nel collegio di Genova. "Votate Saso" in quello di
Imperia. Il boss Garcea si interessò anche alla candidatura di Cinzia Damonte,
assessore all'urbanistica di Arenzano, provincia di Genova, e candidata Idv alle
Regionali 2010. Una foto la ritrae in pizzeria durante una cena della comunità
calabrese accanto al boss Garcea. E insieme a lui avrebbe distribuito santini
elettorali. Ma l'ordine di Gangemi non si discute. A detta del padrino, un altro
politico di spessore del Pdl, gli avrebbe fatto visita: Nicola Abbundo, attuale
vicepresidente Commissione regionale bilancio in quota pd "Abundo... che
mandava l'imbasciata per il 'monecheddu' non lo voleva (omissis) che lui voleva
parlare ...dice... ma "di qualche mese e mezzo fa eh". L'incontro non ci fu. si sarebbe
fatto vivo forse perché a conoscenza del fatto che Gangemi appoggiasse già Aldo
Praticò", è l'osservazione del gip. Bordighera, Bardonecchia, Nettuno. Sono i tre
Comuni del Centro-Nord sciolti per infiltrazioni mafiose, a penetrarli è stata la
'ndrangheta. In tutti e tre i casi.
All'inizio degli anni Sessanta viene mandato in Val di Susa il boss di Gioiosa
Jonica Francesco Mazzaferro. Dal nulla, in poco tempo, crea una ditta di escavazioni
e autotrasporto conquistando in brevissimo tempo il monopolio nella valle. Dopo
qualche tempo i sospetti si fanno insistenti e Mazzaferro rimane coinvolto in una
storia di riciclaggio di capitali mafiosi. L'edilizia non è l'unico affare in ballo. Infatti
il sostituto procuratore di Torino Francesco Saluzzo nel 1984 ordina l'arresto di
Mazzaferro per traffico di eroina e cocaina organizzato sulla linea ferroviaria Torino-
Modane. L'inchiesta si estende pure agli appalti pubblici in Alta Val di Susa e nel
1987 la corte di assise lo condanna a oltre 18 anni di reclusione. Nel 1993 esce
definitivamente fuori di scena quando sempre a Bardonecchia scattano nuovamente
le manette per il boss di nuovo per traffico di droga. All'ombra di Mazzaferro cresce
uno 'ndranghetista di nome Rocco Lopresti anch'egli di Gioiosa Jonica. Lopresti
raccoglie l'eredità del Locale di 'ndrangheta dimostrando grande intraprendenza.
Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Fonti, il Locale di Bardonecchia è
una ramificazione della 'ndrangheta ed esisteva fin dagli anni Settanta. Costituire un
Locale non è roba da poco. Innanzitutto ci vogliono 48 affiliati. Poi ci vogliono i
quadri secondo le diverse gerarchie, dai semplici picciotti ai più qualificati "sgarri di
sangue", "santisti" sino al vertice "il vangelo". Tutti devono essere rigorosamente
patentati dalla 'ndrina di San Luca, la "Mamma".
"Il Locale di Bardonecchia - continua Fonti - posso dire che nacque insieme a
quello di Torino, capobastone era Francesco Mazzaferro". Poi nel 1992 cominciò il
declino e arriva Lopresti che vanta contatti istituzionali di grande spessore tra i quali
il maresciallo dei carabinieri di Bardonecchia, Leonardo Fontana, il sindaco di allora
Gibelli e altri dipendenti comunali. Grazie a queste amicizie Lopresti riuscì a
conquistare gli appalti della zona, monopolizzando l'offerta dei sub appalti e della
manodopera importata esclusivamente dalla Calabria. Gli investigatori troveranno a
casa Lopresti alcuni documenti riservati sul suo conto, molti preventivi di subappalto
che invece di finire alle ditte appaltatrici erano lì sul suo tavolo. L'affare più grosso è
la costruzione del complesso alberghiero Campo Smith del quale, nel 1939, fu
costruito il primo impianto di risalita realizzato sulle Alpi piemontesi. L'appalto per i
lavori è stato vinto da una società con capitale sociale di appena venti milioni di lire
denominata "la marina di Alessandro" di un tale Bruno Aguì. Inoltre la cessione del
terreno edificabile da parte del Comune ad Aguì risultò poco chiara suscitando le
attenzioni investigative. Dalla cessione risultava che il Comune ci avrebbe rimesso
una notevole somma. La perizia che valutava tre miliardi e seicento milioni il terreno
venduto ad Aguì per due miliardi, viene contestata dal sindaco Gibello. Le indagini
rivelano che tutta la procedura amministrativa è viziata da gravi violazioni della
normativa ambientale e urbanistica e che le decisioni sono state deliberate in sedute
lampo del consiglio comunale.
Il 30 settembre 1994 il Gico della guardia di finanza arresta il sindaco Gibello,
Aguì e altri dipendenti comunali. Gibello è accusato di abuso d'ufficio. Il 28 aprile
1995 il Consiglio dei ministri su proposta della prefettura scioglie il Consiglio
comunale di Bardonecchia. È il primo caso nel Nord Italia. Vengono scoperte altre
imprese il cui socio occulto è Lopresti e comincia il processo. Vengono condannati il
sindaco, il commissario governativo per i mondiali di sci del 1997 a Sestriere,
l'oscuro imprenditore Aguì se la cava con una contravvenzione. La sentenza dispone
la distruzione del complesso Campo Smith edificato su un'area destinata a verde
pubblico. In secondo grado la sentenza è ribaltata, ma il sindaco non è stato rieletto.
Il secondo Processo, quello contro Lopresti e altri, che doveva verificare l'esistenza
di un Locale di 'ndrangheta a Bardonecchia arriva a dibattimento nel 2000, anno in
cui verrà condannato.
La sentenza conferma: "Viene primariamente in evidenza la condizione di omertà
e assoggettamento in cui versavano i cittadini e i lavoratori. Molteplici sono le
ragioni che ci inducono a ritenere radicata nel territorio di Bardonecchia sin dagli
anni Settanta un'associazione mafiosa di origine calabrese facente capo inizialmente
a Francesco Mazzaferro e in seguito a Lopresti Rocco. È stata riscontrata una netta
ingerenza degli associati nelle vicende politiche ed elettorali delle persone gradite
alla cosca, culminante nel fattivo procacciamento di voti in occasione delle elezioni
amministrative di Grugliasco nel 1994".
Il ricordo del primo Comune sciolto per mafia nel Nord Italia è stato relegato
nell'oblio da un paese a volte insensibile e cieco alle disfunzioni reali del suo
organismo. Nel Paese dalla memoria corta, il caso Bardonecchia è stato accantonato
nei bassifondi della coscienza collettiva. Salvo poi riproporsi con forza 15 anni dopo.
A giugno 2011 il "Minotauro" piemontese finisce sulle prima pagine dei giornali.
Metà uomo e metà belva feroce. La 'ndrangheta all'ombra delle Alpi è un Minotauro,
appunto. È il nome che gli investigatori di Torino danno alla lunga indagine che ha
portato all'arresto di 150 tra affiliati e "concorrenti esterni". Un'indagine che richiama
alla memoria l'operazione Crimine del luglio 2010. Attorno al "Minotauro", una fitta
rete di complici. Una trama che la 'ndrangheta ha saputo tessere in oltre trent'anni di
presenza a Torino e provincia. Ha divorato il territorio, ha corrotto politici e
imprenditori. E quando necessario ha sparato. Nel 1983 la cosca Belfiore uccise il
giudice Bruno Caccia.
Sotto la Mole, nulla è mutato rispetto agli anni Ottanta-Novanta. La 'ndrangheta
ha continuato a puntare in alto, raggiungendo mete politiche di alto profilo. È il caso
di Claudia Porchietto, assessore regionale al Lavoro e alla formazione professionale,
ed ex presidente dell'Api Piemonte, l'associazione delle piccole e medie imprese.
Nell'inchiesta Minotauro il suo nome compare più volte. Pur non essendo indagata,
le sue frequentazioni insospettiscono gli investigatori. Tanto che la fotografano al bar
Italia di proprietà di Giuseppe Catalano, capo del Locale di Siderno a Torino,
responsabile per la città e per l'hinterland, con "dote superiore a «Padrino»", scrivono
gli investigatori.
È il 23 maggio 2009. Intorno alle 14, una Fiat Brava parcheggia di fronte al bar
del "padrino". Scendono in due. Luca Catalano, nipote del boss, e Claudia
Porchietto, ai tempi candidata alla presidenza della Provincia in quota Pdl. Si
conoscono da tempo i due. Il nipote del boss è stato eletto, nelle consultazioni
amministrative del 2008, consigliere comunale di Orbassano, lista Pdl. E con il
Sindaco pro tempore Eugenio Gambetta, lista Pdl, faceva parte del comitato
elettorale della lista. È ora, la cui candidata per l'elezione alla presidenza della
Provincia di Torino era Claudia Porchietto. Perderà. Ma alle regionali del 2010 fa il
botto: prima per consensi ricevuti con 11 mila e 850 voti.
"Le belle donne si fanno attendere - esordisce Don Peppe - No, e che guardi
stiamo girando da stamattina", si scusa Porchietto. Dopo i convenevoli, entrano nel
bar. La futura assessore della giunta Cota si trattiene pochi minuti. Fa ritorno verso la
macchina accompagnata dal suo autista-accompagnatore, Luca Catalano. Mezz'ora
dopo il "padrino" Peppe, telefona al nipote: vuole incontrare di nuovo la candidata.
"Ha l'agenda piena di impegni", risponde laconico Luca. Che aggiunge: "È
impegnata con l'onorevole Bossi a Torino". Ma don Peppe non molla l'osso. "È
interesse della donna e non suo partecipare ad un nuovo incontro", osserva. E saluta
il nipote affermando che alla riunione avrebbe potuto far venire più di quaranta
persone. Ma non è mancanza di rispetto, vorrebbe fargli capire il nipote, ma gli
impegni sono numerosi: "Stamattina siamo stati a Michelino". Una visita elettorale
inutile, risponde il boss, che gli fa notare "a Michelino conosce a tutti Franco
(D'Onofrio, nda)".
Alla riunione elettorale partecipa anche Franco D'Onofrio, che "ha il controllo
delle zone di Moncalieri, Vinovo, Michelino e del luogo in cui ha la casa di cura".
D'Onofrio un anno dopo quella riunione sarà arrestato nell'operazione "Infinito". Fa
parte del "Crimine" di Torino e della costituenda "Camera di controllo". Secondo gli
investigatori è un pezzo da novanta della 'ndrangheta piemontese, con una dote di
"padrino", al pari di Catalano, decide strategie e impartisce direttive, anche dal
carcere dove gli è stata recapitata la seconda ordinanza di custodia. Franco il padrino
è un imprenditore che si muove nell'illegalità ma anche nel sistema economico
legale. I suoi interessi affondano le radici nella sanità. Fino al suo arresto è stato
amministratore unico dell'Ariete srl. Una società con sede a Torino, in via Colli, che
ha per oggetto sociale un lungo elenco di attività. Si passa dal commercio di pellami,
al trasporto di merci su strada, fino ad arrivare alla gestione di case di riposo ed
"affini, istituti per l'assistenza a persone anziane o comunque bisognose di assistenza,
servizi alle persone con inabilità psichica-fisica-sociale". La società che ora è
amministrata da Andrea D'Onofrio, classe '81, gestisce la residenza per anziani
"Madonna delle Grazie" a Cintano, provincia di Torino. Una struttura accreditata fino
al 2011 presso l'Asl 4 di Torino. Un aspetto non irrilevante, visto che alla vigilia
dell'incontro con Porchietto, Luca Catalano chiede allo zio Peppe, di convocare
anche Franco D'Onofrio così, se vorrà, potrà chiedere alla Porchietto "quella cosa lì".
L'oggetto della richiesta è ancora ignoto. Ma come ha rivelato il procuratore Caselli,
durante la conferenza stampa, le indagini proseguono, e potrebbero seriamente
intaccare la politica piemontese.
A scuotere i palazzi del potere piemontese anche l'indagine sulla sanità in cui è
coinvolta Caterina Ferrero, ex assessore regionale alla Sanità. Due inchieste distinte.
Ma che sembrano sfiorarsi giorno dopo giorno. Secondo i magistrati che indagano
sulla sanità, la Ferrero "avrebbe concesso favori in cambio del sostegno elettorale".
Evidenze dei rapporti tra la Ferrero e le 'ndrine non ce ne sono al momento. "Miss
preferenze" alle passate regionali, è la nuora di Nevio Coral. L'ex sindaco di Leinì e
imprenditore di successo, indagato per concorso esterno nell'indagine sulle 'ndrine
piemontesi, ha curato personalmente la campagna elettorale della nuora. A mettere in
relazione la Ferrero con le cosche non solo il nome di Coral. Anche quello di Piero
Gambarino, suo braccio destro, che, secondo la procura, avrebbe avuto contatti con
Achille Berardi e Valerio leardi. Entrambi indagati e soci della Sport nel Canavese srl
di cui Gambarino controlla una grossa fetta. E pesano pure altri intrecci societari. Il
ristorante del complesso sportivo, di proprietà della Sport nel Canavese, è stato
affidato alla Lancia Ristorazione, controllata da Gambarino e da una giovane donna
di origine rumena, socia del pregiudicato Renato Spanò nella Sigma Costruzioni.
Spanò, non indagato, è il compare di Nino Occhiuto, boss della cosiddetta "Bastarda"
piemontese, una filiale di 'ndrangheta autonoma e non autorizzata dal "Crimine". E
per conto della "Bastarda", come emerge dall'ordinanza, tenta di convincere un
imprenditore a non denunciare l'estorsione subita.
Già da tempo Caterina Ferrero attirava gli interessi delle 'ndrine. "Da qui a dieci
giorni decidono bene se candidare o come candidarla Dopodiché dobbiamo fare un
salto insieme io e te, facciamo un discorso chiaro". È Vittorio Bartesaghi a dare
delucidazioni ad Adolfo Crea, esponente del "Crimine" Torinese. L'intercettazione
risale al 2003, il soggetto di cui parlano è la Ferrero, ai tempi assessore regionale ai
Lavori Pubblici e candidata alla Provincia. Nel corso di quel dialogo, Crea e
Batesaghi, architetto "di fiducia", discutono delle possibili infiltrazioni "anche nei
lavori edilizi per opere pubbliche, grazie all'appoggio di politici, fra i quali, a loro
dire, Caterina Ferrero".
Ma è Nevio Coral il più attivo con gli 'ndranghetisti. Si mobilita per favorire
l'elezione del figlio, sindaco di Leinì, e ai tempi candidato alle provinciali.
"Possiamo eventualmente trovarci un attimino perché io ho Ivano mio figlio che fa il
sindaco lì a Leinì che adesso è candidato alle Provinciali". Una richiesta di aiuto che
Coral, l'ex sindaco di Leinì, rivolge direttamente a Vincenzo Argirò, membro del
"Crimine" di Torino con la dote di "Quartino". Che risponde: "Mi sono documentato,
dottore". Sa già tutto il boss. La cena è durata quasi tre ore. A tenere banco Nevio
Coral che racconta del periodo in cui è stato sindaco e "lascia intendere agli astanti
(che chiama con l'appellativo di 'imprenditori'), che si aprirebbero molteplici
prospettive di lavoro". Vincenzo Argirò ha i piedi per terra, e di fronte alle promesse
di grandi progetti risponde che "se al posto di un piatto di pasta mi mangiavo un
panino era uguale". Una frase per dire che le 'ndrine non si fanno abbindolare,
preferiscono le offerte modeste ma concrete. "Da chi sono andato, sanno che noi
siamo qua con voi e saremo felici come lo siamo stati... anni fa... se voi vi ricordate
bene", Argirò mostra stima verso la politica di Nevio Coral. "Prendiamo uno lo
mettiamo in Comune, l'altro lo mettiamo nel consiglio, l'altro lo mettiamo in una
proloco, l'altro lo mettiamo in tutta altra cosa, magari arriviamo che ci ritroviamo
persone nostre che... e diventiamo un gruppo forte". È un comitato di affari quello
prospettato da Coral agli "ndranghetisti durante la cena elettorale.
A quella riunione ne segue un'altra con i Coral, padre e figlio, in cui si discute di
argomenti più concreti. "Noi dobbiamo dire: votate Coral... per un futuro sicuro". È
Todarello a spiegarlo alla figlia di Argirò. E aggiunge: "Francesca ci ha dato 24 mila
euro... dodici ce li ho oggi... bisogna andare a prendere la cosa delle fatture".
Secondo gli investigatori è la cifra che Coral ha promesso alla 'ndrangheta, soldi
camuffati attraverso regolare fattura. Ipotesi che troverebbe conferma in una
telefonata: "Dovrei venire lì a fare una fattura... e verso che ora posso venire?".
Chiede Todarello alla segretaria di Coral. La rete elettorale della 'ndrangheta ha
prodotto i suoi effetti, l'esito della consultazione elettorale del 6 e 7 giugno 2009 per
il consiglio provinciale è sbalorditivo. Ivano ottiene 1797 voti a Borgaro Torinese,
2836 voti a Leinì e 1937 voti a Volpiano. "Noi gli abbiamo dato i risultati". "L'ho in
pugno, te lo consegno". Questi i commenti degli affiliati che hanno, secondo gli
investigatori, sostenuto il figlio dell'ex sindaco. Punti di contatto tra politica
regionale e 'ndrangheta su cui i magistrati tenteranno di fare luce cercando di
diradare ombre e sospetti. Che avvolgono anche altre personalità politiche.
"C'è un paesano un amico... viene da Genova... non lo conosci tu... tu vieni verso
le tre, così te lo presento pure e e un politico là di Roma". S'infervora Benvenuto
Praticò detto "Paolo", esponente del "Crimine" di Torino, che insieme a un sodale ha
organizzato un convegno "politico-finanziario" presso l'hotel Atlantic a cui
parteciperà un senatore calabrese, Gino Trematerra. Ai tempi dell'incontro con i boss
era senatore, nel 2010 diventa sindaco di Acri, coordinatore regionale Udc e vola a
Bruxelles a occupare la poltrona di europarlamentare. Il figlio, Michele è assessore
regionale all'Agricoltura e tra i più fidati collaboratori di Scopelliti. Tanto che a pochi
giorni dall'elezione a Presidente, Scopelliti si recò ad Acri per sostenere la
candidatura a sindaco di Gino Trematerra, promettendo che l'Ospedale di Acri non
sarebbe stato chiuso. "Mi sto impegnando per un amico che viene dalla Liguria che
avrebbe portato un politico da Roma", ripete agli invitati il boss con la dote di
"Quartino". "Non era facile trovare tanta gente se non hanno interessi specifici anche
perché non sapevano neanche a che corrente politica apparteneva", è la riflessione di
"Pino" Mangone, lo "sgarrista" coorganizzatore del convegno. Non ricorda il partito,
Praticò: "Udc, Udr". Per i boss poco importa. L'aspetto che conta è che viene da
Roma ed è un senatore. "Questo può fare e quello che dicono lo fanno...", è concreto
"Paolo" Praticò. Il 19 gennaio 2008, è il giorno del convegno. Nei pressi dell'hotel
Atlantic gli investigatori vedono arrivare una Maserati, alla guida uno "sgarrista"
della 'ndrangheta ligure, Onofrio Garcea ritenuto "uomo" della 'ndrina Bonavota di
Sant'Onofrio e elemento di vertice del Locale di Genova. Non proprio un sant'uomo.
Il vibonese d'origine ha già sul groppone precedenti per associazione mafiosa, e non
solo. Il passeggero che ha viaggiato con lui da Genova a Torino è Gino Trematerra.
Un senatore a vita per gli acresi, che nonostante sia sindaco ed europarlamentare, per
loro rimane "il senatore" Trematerra. Un incontro che "non può non allarmare,
indipendentemente dalla connivenza o meno del candidato politico", si legge
nell'ordinanza. Non è la prima volta che i Trematerra vengono citati nei discorsi dei
boss. Due boss di Africo e Roghudi parlano delle elezioni europee 2009. "Caridi è
uno di Reggio che poi Trematerra è cosentino non c'entra... se ne frega di loro
Trematerra", riflette Pietro Zavettieri. "Però loro portano a Trematerra", gli fa eco
Pietro Romeo. "Certo, il candidato è Trematerra", concorda il primo. "Quello che ci
fa una cortesia a Caridi", secondo il boss di Africo. "Esatto", conclude il fratello del
boss di Roghudi.
Per le elezioni europee la 'ndrangheta lavora a gran ritmo. Dal Sud al Nord. Le
cosche piemontesi si dimostrano interessate alla candidatura di Fabrizio Bertot,
all'epoca, e tuttora, sindaco del Comune di Rivarolo Canavese. È impressionante la
macchina elettorale messa in piedi dal "Padrino" Giuseppe Catalano. Con il fine di
"presentare Bertot ad alcuni degli affiliati alla 'ndrangheta più rappresentativi della
provincia di Torino". Il secondo atto di don Peppe è stato "concretizzare" il patto, e
"ha iniziato personalmente una trattativa finalizzata al voto di scambio: come
contropartita all'appoggio elettorale era prevista la dazione di euro 20.000", osserva
il gip. La contropartita in denaro emerge per bocca degli stessi indagati. "Noi non
siamo potuti venire pronti... per un semplice motivo... non abbiamo capito niente...
nel senso che... nel qui prò quo... -' abbiamo sentito amici calabresi disponibili a
darci una mano senza cacciare una lira", chiede venia Battaglia che insieme a
Giovanni Macrì avevano incontrato, prima di Catalano, Giovanni laria, il quale li
aveva rassicurati sull'appoggio elettorale a titolo gratuito. Ma il boss Catalano non è
dello stesso parere. E i due sono pronti a pagare: "Ventimila euro, ne parliamo con il
sindaco, in un modo o nell'altro li tira fuori, se non li tira fuori il sindaco li tiro fuori
io, di tasca mia", non usa mezzi termini Battaglia, braccio destro di Bertot. I tre
parlano anche di guadagni e favori futuri. Come quel cambiamento di destinazione
d'uso di un terreno agricolo di proprietà di Franco D'Onofrio, che vorrebbe ampliare
la clinica. Favore "disinteressato", che però ha un prezzo, monetizzato da Battaglia in
50 mila euro, da spartire 30 e 20.
L'incontro di presentazione del "cavallo vincente, de Varenne di turno" avviene
sempre al bar Italia, una sorta di comitato elettorale attraversato da politici e
criminali.
"E' un vero piacere che oggi abbiamo accanto il signor sindaco... il suo
segretario... e per noi è un grande orgoglio... poi vi tengo presente che il sindaco è
candidato alle europee", esordisce don Peppe alla presenza di Bertot e del suo
segretario Antonio Battaglia, il calabrese di Capo Sparavento, figura chiave nel voto
di scambio e personaggio ben inserito nel tessuto politico ed economico del Torinese.
Fino al 2004 è stato direttore del Consorzio intercomunale Reti e impianti sud
Canavese, e fino al 2009 sindaco effettivo di Asa Acque srl. Strutture pubbliche per
la gestione dell'acqua, nei cui cda siedono i sindaci dei territori interessati.
Battaglia e Catalano condurranno "una vera e propria trattativa economica per
accaparrarsi i voti dei calabresi". Che Battaglia e Macrì conoscano la caratura
criminale di don Peppe, secondo il gip è fuori di dubbio. Ma conoscono anche i
candidati politici che l'organizzazione ha deciso di appoggiare, tanto che legano il
nome del nipote del "Padrino" Catalano alla Porchietto. "Dici a tuo nipote chiama
Claudia (Porchietto, nda) e chiedi chi è Fabrizio (Bertot, nda)".
"Grandi cantieri... grandi opere... e tutte queste cose passano dal Parlamento
Europeo... poi un'altra cosa che non ha detto il mio segretario che mi conosce da tanti
anni, continuerò a fare il sindaco di Rivarolo". È il discorso elettorale che Bertot
tiene di fronte alla platea di boss del bar Italia. "Questo significa che comunque sono
contattabile... qui... a parte i due Giovanni (laria del Locale di Cuorgnè, nda),.. e
Nino (Bataglia, nda) che... sanno bene come rintracciarmi... ma il fatto che io
rimanga a fare il sindaco di Rivarolo significa che io voglio andare là... per avere un
ufficio là... avere i contatti che servono là... per avere anche tutte quelle cose
comunque che si vogliono e si possono fare". Al termine del comizio i gestori della
"rete dei calabresi" applaudono. Un'ovazione.
Alla fine Bertot risulterà il primo dei non eletti. E commenta con il direttore del
quotidiano Cronaca Qui quanto comunicatogli da un altro politico del Nuovo Psi tale
Salvatore Sino: "Non c'è calabrese in cintura di Torino che non sappia che deve
votare per te". Il giornalista commenta: "Questi lavori trasversali... che hai fatto...
fortunatamente hai fatto... non li conosco bene". Due episodi che "dimostrano come
gli affiliati alla 'ndrangheta siano in grado di pilotare consenso elettorale e ciò solo in
funzione della forza di intimidazione e della condizione di assoggettamento e omertà
derivante dal vincolo associativo, in assenza di titoli o posizioni in ambito
professionale o economico che possano giustificare altrimenti una capacità di
influenza di tal fatta". La 'ndrangheta piemontese, osserva il gip, è "in grado di
acquisire un controllo pressoché totale di un determinato territorio".
Tra la fine di gennaio e la fine di febbraio 2011, Salvatore Demasi, detto
"Giorgio", capo locale della Locale di Rivoli con la dote di "Padrino" e membro della
costituenda "Camera di Controllo", incontra, anche tramite intermediari, diversi
esponenti politici. Don "Giorgio" è sposato con Antonia Romeo, figlia del defunto
Sebastiano "'u Staccu", cognato del latitante Giuseppe Giorgi '"u Capra". Tra gli
incontri politici di Demasi figurano il deputato Gaetano Porcino e l'assessore
all'Istruzione del Comune di Alpignano Carmelo Tromby, entrambi dell'Idv, il
consigliere regionale del Piemonte Antonino Boeti e il Deputato Domenico Lucà in
quota Pd. Proprio Lucà ha dichiarato di conoscere da trent'anni Demasi, ma che mai
ha sospettato essere un boss come descritto dalle cronache giudiziarie.
"Tu sai che a Torino abbiamo le primarie?", chiede il parlamentare al boss.
"Certo! Tu dimmi qualcosa che io mi interesso", è la risposta di Demasi. "Ecco... che
io sto sostenendo Fassino", fa sapere Lucà che aggiunge: "Volevo chiederti se
magari... perché la partita è molto dura con Gariglio (sfidante di Fassino, ride)". Il
giorno delle primarie democratiche, il capo Locale chiama Lucà. I due sono fiduciosi
sull'esito positivo per Fassino nonostante "l'altro si è dato molto da fare anche!", "mi
hanno detto che l'altro anche ha lavorato anche molto sui calabresi!", e "c'era
Mangone (Pino, nota) che ha lavorato".
Demasi viene scomodato anche per l'elezione del sindaco di Ciriè. Gli chiedono
aiuto per la campagna elettorale del sindaco uscente Francesco Brizio Falletti,
presidente della società Gruppo Torinese Trasporti". "Sto predisponendo questa cena
per il sindaco di Ciriè... che è Francesco Brizio che è un mio amico, gli ho detto: ti
faccio una cena di amici paesani... qualche calabrese c'è". A comunicarlo a Demasi è
Vincenzo Pernia, presidente e consigliere d'amministrazione della "Car City Club
srl" di Torino (società che si occupa della gestione di servizi per la mobilità
complementari al trasporto pubblico locale e partecipata dalla Gtt). Demasi accetta di
aiutarlo e lo indirizza da Domenico Marando che vive a Ciriè. La cintura di Torino
come la profonda Locride. Boss ricercatissimi per convogliare voti verso i "cavalli"
giusti. Tutta l'Italia è paese.
Neppure la politica della cittadina di Alessandria è rimasta immune al
compromesso delirante con la 'ndrangheta. Una 'ndrangheta di basso profilo. E di
Basso Piemonte. Che affilia picciotti, selezionandoli tra la politica locale. Il
consigliere comunale "picciotto d'onore" è l'emblema delle 'ndrine piemontesi e del
settentrione che desiderano l'invisibilità. E Giuseppe Caridi, secondo la Dda di
Torino, sarebbe un consigliere e 'ndranghetista. Eletto nel 2007 in quota Pdl, ha
assunto la carica di presidente della commissione Territorio e Ambiente. E fino al suo
arresto ha ricoperto la carica di segretario organizzativo del partito Alleanza
democratica, il movimento politico di ispirazione democristiana, fondato da
Giancarlo Travagin, attuale presidente. È uno degli spaccati emersi dall'operazione
Maglio, coordinata dalla Dda di Torino, che ha portato all'arresto di 19 persone,
indagate per associazione mafiosa. Secondo i pm sarebbero affiliate alla 'ndrangheta,
e farebbero parte del locale denominato "basso Piemonte". Un tempo nella
'ndrangheta politici, "sbirri" e chiunque avesse giurato fedeltà ad altro "Ordine" non
poteva essere affiliato, al massimo poteva essere un "contrasto onorato", un
fiancheggiatore, un concorrente esterno. Ma i tempi cambiano. E alcune regole
obsolete, secondo i boss liguri e piemontesi, dovrebbero essere rimodulate al mutato
contesto. "Dobbiamo fare le nuove riforme - osserva il boss del locale di Genova - è
cambiata l'Italia è cambiato il mondo... dobbiamo cambiare anche noi tante
cosettine... tutto è cambiato il mondo... dobbiamo fare le riforme noi". Una
'ndrangheta riformista, quella ligure. Ma sempre in sintonia con il blocco
conservatore della "Provincia" reggina. "È cambiato il mondo... da diverse parti
hanno il sindaco... in tanti locali... a me mi sta bene pure", insiste il capo locale
genovese. L'esempio di Figliomeni, il sindaco "santista" di Siderno, provincia di
Reggio Calabria, arrestato nell'operazione "Bene Comune", è il caso più eclatante.
Oppure Tony Vallelunga, il calabro-australiano che è stato eletto per molti anni primo
cittadino della cittadina di Spirling, in Australia, e a febbraio 2011 è stato arrestato
con l'accusa di essere un "uomo" di 'ndrangheta. Dalle parole dei boss liguri la piaga
sembrerebbe ben più estesa. "Ai tempi miei quando io ero al paese c'era, non so se
voi l'avete conosciuto, buonanima di Pasquale Napoli, dopo tanto tempo... che lui si
portò nell'assessorato comunale... vi parlo di 40 anni fa... 45 anni fa". "Sentite qua
compare Pino, vi posso dire una cosa - risponde Gangemi - se uno non è politico e si
comporta male, si comporta male; se non è politico e si comporta buono, si comporta
buono; se è politico e pure se è politico si comporta buono è sempre un buono
cristiano perché si comporta buono... e quindi si può restare". Dialoghi tra due capi
bastone sui massimi sistemi dell'organizzazione 'ndranghetista. Affiliare politici o
lasciarli esterni alla "Società". Interrogativi che raccontano di un rapporto organico
tra cosche e politici. Relazioni che da 150 anni fanno dell'Italia un'anomalia europea
del crimine organizzato.
19. Mammasantissima, sindaci e consiglieri
Davanti alla gran curii non si parrà, pochi parali e cull'occhiuzzi 'riterrà, l'omu chi
parrà assai sempre la sgarra! Culla sua stessa lingua s'assutterra "Formiamo il
cerchio!", esclama don Rocco, il padrino-imprenditore della 'ndrangheta torinese. E
aggiunge: "Dal più piccolo al più grande". Con lo sguardo, il capobastone cerca il
battezzando. Colui che si appresta al "taglio della coda", a entrare nella 'ndrangheta
dal gradino più basso, "linde u picciottu?". Gli affiliati lo indicano. Il giovane
rampollo fa due passi avanti, scortato da due boss di rispetto, don Totò e don Micu.
Sono i suoi demoni custodi. Rappresentano la "copiata". Ovvero la garanzia della sua
onestà mafiosa. "Ragazzo di cosa vai in cerca?". È la frase pronunciata da don
Rocco, che segna l'inizio del rito di affiliazione. "Onore e sangue", risponde
emozionato Manuele. Da questo momento non ci possono essere ripensamenti. Si
esce solo da morti dalla Società. "Qual è il comportamento e il dovere di un picciotto
con i saggi mastri?", domanda il caposocietà. "Il picciotto è un servo di umiltà e il
dovere lo chiama. Deve essere pronto ad ogni chiamata, deve essere umile e saggio
nei comportamenti", è la risposta decisa di chi ha studiato, forse perché obbligato o
perché ci crede, e ha tanto atteso quella domanda. "Quante strade ci ha la società?".
"Nella società ci sono tre strade". "Come sono composte?". "A piede di gallina". "E
voi quale strada avete preso per essere un Picciotto?". L'aspirante picciotto sa già la
risposta: "La destra, Perché vedevo i miei saggi maestri camminare così". Bravo
picciotto. "Nella strada sinistra sono presenti solo sbirri, infami e tragediatori". A
questo punto la copiata prende il santino con la figura dell'Arcangelo, che viene fatta
bruciare, lentamente.
Contemporaneamente il "padrino" prende il polso del giovane, e all'interno incide
un minuscolo taglio, da cui iniziano a sgorgare lente alcune gocce di sangue, che
vengono versate sull'immagine sacra che intanto arde a consumare il volto del santo.
"Se fino adesso lo conoscevo come un contrasto onorato da questo momento in poi
lo conosco per picciotto d'onore. Adesso fai parte di questa famiglia e dell'onorata
Società". È una lezione d'onore quella del padrino, che prosegue spiegando al nuovo
battezzato alcune regole essenziali. "La Società è una famiglia e quindi tutti i
componenti sono fratelli e si devono rispettare per tali... devono essere uno per tutti e
tutti per uno, che quando muore uno della società o ad essa vicini si deve andare al
funerale e non si devono vergognare a prendere le corone o i fiori in mano in quanto
questo vuole significare rispetto e che quando si arriva al funerale deve andare a
presentarsi e mettersi a disposizione dei familiari... non devono avere paura di chi li
guarda di traverso ma di chi gli fa la bella faccia". Manuele è ora un picciotto
d'onore. A 17 anni, è già un "Uomo", "nu Cristianu". Il codice delle 'ndrine permette
l'affiliazione solo dopo i 18 anni, ma per lui i mammasantissima hanno fatto
un'eccezione. Il padre è un affiliato con la dote di "quartino", un grado elevato, e poi
è anche caposocietà della Locale di Torino.
La storia di Manuele s'intreccia con quella di un altro giovane affiliato. Arcangelo
Gioffrè che a soli 17 anni pure lui è già "uomo". Anche per Arcangelo ha contato la
referenza. È il figlio di Peppe Gioffrè, caposocietà della Locale di Torino. Un'ottima
referenza per Arcangelo che non ancora maggiorenne può accedere nella Società. Ha
sempre respirato quell'aria. Ricorda i tanti moniti e racconti del padre. Uno in
particolare gli torna in mente quella sera, dopo avere ricevuto la dote. "Tu devi essere
Angelo Gioffrè non il figlio di Peppe Gioffrè... se neccessita sei il figlio di Peppe
Gioffrè... però devi essere tu per i cazzi tuoi, autonomo... mi fa piacere se... se le
persone ti rispettano dico... mizzica il figlio di Peppe Gioffrè... vivere uscire... non
stare li al circoletto... il circoletto figlio mio ha quei quattro cinque di compagnia che
sono limitati". Per il giovane Arcangelo è una lezione di vita. "Non rimanere nel
cerchio stretto dei calabresi, è questo l'insegnamento di mio padre", si convince il
rampollo. Il suo destino è segnato, indietro non può più tornare. Il futuro sarà fatto di
segreti inconfessabili, riunioni segrete, violenza, imposizioni.
La 'ndrangheta come strumento di ascesa e di affermazione sociale è la grande
illusione che raggira numerosi giovani e imprenditori. Decidono di salire sul
carrozzone guidato dai boss. Come se fosse una scala mobile in grado di agevolare la
conquista di un alto status sociale. Ma i meccanismi su cui si fonda la trasmissione
del potere nella 'ndrangheta, al pari della società italiana, non sono di certo
meritocratici. A dirigere il vertice dell'organizzazione saranno soltanto i rampolli dei
casati potenti. Un semplice affiliato esterno è destinato a servire il boss in eterno. Il
suo destino è il carcere, da scontare al posto del capo, o la morte, patita per salvare
gli affiliati di primo ordine o per "colpa di infamità". Infame è chi denuncia il
sistema di cui è vittima, la Società di cui è rimasto prigioniero per anni. I pentiti sono
"infami" secondo i codici della 'ndrangheta. Al pari degli "sbirri", un termine
utilizzato anche per i commercianti e gli imprenditori che denunciano. Per la
'ndrangheta gli "amici" sono gli omertosi della società civile e del tessuto produttivo.
"Amici" sono anche i traditori dello Stato, magistrati, politici e investigatori collusi. I
boss suddividono la società in "infami" e "amici". Tutto il resto non ha rilevanza. La
'ndrangheta è post-ideologica. Chi garantisce favori è ben accolto tra le fila dei
concorrenti esterni dell'associazione. Gli altri sono nemici da eliminare o avversari
da evitare, a seconda del grado di militarizzazione di un territorio.
E con questo approccio scevro da ogni dogma ideologico che la 'ndrangheta ha
conquistato il Piemonte. E Torino. "Torino è nostra". "Abbiamo Torino in mano,
noi!... Chi ha Torino in mano è uno della mia età, mio compare... e ha Torino in
mano". Sotto la Mole comanda la 'ndrangheta, secondo Giacomo Lo Surdo, affiliato
della 'ndrangheta piemontese. Inquadrato nel "Crimine" di Torino, la struttura di
vertice "diversa dai vari locali, formata da individui appartenenti alla 'ndrangheta e
preposta allo svolgimento di azioni violente". Così la definiscono gli investigatori
che hanno coordinato l'indagine Minotauro. In provincia di Torino sarebbero presenti
9 locali di 'ndrangheta, oltre 400 affiliati.
È un Minotauro, la 'ndrangheta che bagna i propri denari nelle acque del Po. Fatta
da uomini d'onore insospettabili e da concorrenti esterni al di sopra di ogni sospetto,
ma capace anche di scagliarsi contro i disobbedienti come una belva feroce affamata
di potere. Che si sfama con gli affari: indotto dell'edilizia (autotrasporto incluso) e
movida quelli legali; droga, estorsioni e gioco d'azzardo, i business illegali.
"Credo che qui siamo tutti imprenditori ognuno nella sua misura, non è vero che
siamo dei disonesti, abbiamo solo bisogno di lavorare". Nevio Coral è un noto
impresario piemontese, in grado di offrire subappalti alle 'ndrine. "Abbiamo
l'aggancio del Sindaco..., stamattina m'ha chiesto che vuole l'intestazione della ditta
che vuole crearmi un lavoro di 2 milioni e mezzo di euro... capisci che il 25 per cento
a uno, il 25 per cento a un altro, ci rimane niente a noi". Da un accordo elettorale
possono arrivare lauti guadagni, ne è consapevole Vincenzo Todarello, indagato
nell'indagine torinese, che illustra a Francesca Argirò la proposta ricevuta, a suo dire,
da Nevio Coral. Un appalto che non vuole spartire con troppe persone.
Torino città misteriosa, capitale europea, forse è l'unica città italiana con l'animo
europeo. Il lavoro certo non manca. Nella cintura di Torino, poi, è un susseguirsi di
cantieri. Nuovi palazzi crescono. E tanti realizzati dalle braccia oneste degli emigrati
calabresi, siciliani e campani. Quanti operai hanno sacrificato la propria esistenza
prima nelle industrie tessili, poi negli stabilimenti della Fiat. Torino è cresciuta con il
lavoro degli emigranti. Ha accresciuto il suo spirito europeo anche grazie ai flussi
migratori. Torino città accogliente. E nell'accoglienza hanno trovato spazio i semi
della "Malapianta". Avvinghiata e celata dietro gli onesti, ha atteso il momento giusto
per sfruttare le ricchezze offerte dal territorio piemontese. Non ha incontrato molte
resistenze. Anzi imprenditori piemontesi hanno scelto la via del compromesso con
gli 'ndranghetisti.
È una risorsa inesauribile, l'imprenditore Nevio Coral. "Ambasciatore della Costa
d'Avorio", secondo alcuni affiliati. In realtà il Comune di Leinì, dove Coral è stato
sindaco e ora primo cittadino è il figlio Ivano, ha siglato un accordo di "cooperazione
e gemellaggio" con lo stato africano. Un patto che ingolosisce gli 'ndranghetisti. "Sai
cosa significa essere... ambasciatore della Costa d'Avorio?... Questo qui non sta
scherzando! Importazione di frutta, ananas, pesche". Importazioni milionarie a cui i
boss vogliono partecipare. E poi ci sono "i metalli", fa notare la figlia del boss.
"Quelli vengono dopo! Fammi entrare piano piano... a un prezzo politico", risponde
Todarello che a Francesca Argirò fa confidenze preziose e che gli investigatori
ascoltano. Come quando le confessa che suo padre "ha una potenzialità che me la sta
passando... specialmente col sindaco... noi stiamo formando un gruppo... le persone
di stasera sono veramente brave persone".
Un rapporto, quello tra Coral e gli esponenti delle 'ndrine piemontesi, che secondo
il gip evidenzia "l'interesse degli affiliati nei confronti di Coral e della sua famiglia,
sia per ottenere attività economiche a condizioni privilegiate, sia per potersi
presentare avendo come "biglietto da visita" la conoscenza di persone inserite nel
mondo dell'economia e della politica ad elevati livelli". Coral è per le 'ndrine un
biglietto da visita. "Come si presenta nelle banche, se uno sta bene allora danno
fiducia", se si presentassero gli affiliati "ci salta la Magistratura addosso",
convengono i due 'ndranghetisti. L'imprenditore-politico garantisce lavori, e i boss ci
mettono i voti. Il cerchio è chiuso. I rapporti di lavoro tra Coral e i boss risalgono a
molti anni addietro. Hanno preso forma nei cantieri. Dove la 'ndrangheta fornisce il
servizio di guardiania, i mezzi, le forniture e i servizi.
Nevio Coral e Vincenzo Argirò trattano in confidenza. "In un clima di profonda
collusione tra l'indagato e la consorteria malavitosa", scrive il gip. Una tesi rafforzata
dalle frequentazioni, imbarazzanti, dell'imprenditore di Leinì. È in ottimi rapporti
con Giovanni laria, attivo nella politica locale( è stato consigliere ed assessore al
Comune di Cuorgnè) e zio di Bruno, il quale eredita l'amicizia privilegiata con Coral.
Un testimone che Bruno laria accetta ben volentieri. Coral intrattiene rapporti di
lavoro anche con Giuseppe Gioffrè, il boss da anni residente a Torino, ucciso a
dicembre 2008 a Bovalino. "Si presentava come uno degli associati più attivi
nell'assicurare ai cantieri di Coral la "guardiania", in modo da poter partecipare a sua
volta, con le ditte a lui facenti capo, alla distribuzione dei lavori assegnati in
subappalto o alle forniture". È un sistema collaudato, quello messo in piedi dal duo
Coral-'ndrine. Tanto che lo stesso Gioffrè esclama: "Nevio l'ho fatto io... lo sto
crescendo io a Nevio... lui... se sapeva che c'ero io davanti... era contento... diceva
minchia qui non mi toccano". E in un'altra intercettazione sempre Gioffrè confessa
che Nevio Coral "mi dava il cinquanta per cento".
È una macchina da soldi, Nevio. Lo sanno bene gli 'ndranghetisti che gli ronzano
attorno. Secondo il gip è un "'giocattolo', che dà e produce soldi, del quale ogni
'famiglia' vorrebbe appropriarsi, tanto da creare effettivamente una situazione
conflittuale fra i vari membri dell'associazione". Uno scontro latente, frutto della
competizione per accaparrarsi i sub appalti relativi alla costruzione dei nuovi
stabilimenti della società Coral spa. "Vado la da lui... e lo scanno come un capretto",
è lo sfogo di Gioffrè riferito a un potenziale concorrente. Tensioni che creano
conflitti anche intrafamiliari. Diverbi tra zio e nipote che discutono per una somma
proveniente dai cantieri Coral. Bruno laria inveisce contro lo zio Giovanni,
sospettato di avere rubato dei soldi dalla cassa comune. Un gesto che a dire di Bruno
lo avrebbe messo in cattiva luce agli occhi degli altri "Locali", con i quali "ha stretto
degli accordi preliminari sulla spartizione dei subappalti, come previsto da una delle
regole basilari del sodalizio". La sintonia tra Giovanni laria e Nevio Coral emerge
dai loro dialoghi. "Mi piacerebbe parlare un attimino con te... e fare una riflessione
su tutto quello che abbiamo fatto in questo periodo per... insomma far un
ragionamento e poi faccio anche un piccolo siparietto a parte... della politica", è il
desiderio che Coral rivolge a Giovanni laria. L'edilizia privata è il campo che le
'ndrine piemontesi prediligono. Meno controlli, e una giungla di subappalti.
Coral "promette la distribuzione di posti di lavoro e cariche amministrative per
favorire la creazione di un gruppo di lavoro asservito ad interessi privatistici; è colui
che consente ad un esponente malavitoso del calibro di Giuseppe Gioffrè di insediare
la sede di un impresa da lui gestita (la ditta Misiti) nei capannoni della Coral spa,
senza naturalmente il pagamento di alcun corrispettivo". Favori dietro cui si
celerebbe un vero e proprio patto. Così definito dallo stesso boss Gioffrè. Nei
cantieri della Coral spa oltre alla guardiania, la 'ndrangheta è presente con propri
camion, escavatori, carpentieri. Dalla Coral ci guadagnano tutti i Locali. Da
Volpiano, a Cuorgnè, passando per Torino città. Sono presenti nella costruzione del
centro direzionale Coral e nella realizzazione degli uffici dell'Altair (Gruppo Coral).
"Grandi cantieri" da spolpare. Senza troppi sotterfugi. Impresa esecutrice degli
appalti commissionati da Coral spa è intestata alla moglie di Valter Macrina,
pregiudicato ed esponente storico del Locale di Volpiano (area dove i cantieri sono
installati). E in uno dei cantieri, alla voce "Direttore lavori" compare sempre il nome
di Macrina. Tutto alla luce del sole, anche i rapporti societari. Macrina è socio di
Coral nella Edil Ma.Co. srl. I sub appalti sono affidati alle restanti "famiglie". Per il
Locale di Cuorgnè lavora Bruno laria, per quello di Torino Gioffrè, D'Agostino e
Giuseppe Zucco. Un imprenditore, Zucco, che in pochi anni ha creato un impero
aziendale. Zucco ha ricoperto la carica di capo Locale fino alla sua morte. E ha
creato un gruppo immobiliare con a capo la Canavesana costruzioni, una delle più
importanti società edili del Canavese. Che nel settore privato ha fatto fortuna. Negli
assetti societari di Zucco compaiono Alberto Balagna, Giampiero Bertolino e
Maurilio Bena, soci di Coral nella Provana spa: una società pubblica di servizi
Intercomunali, la cui maggioranza è detenuta dal Comune di Leinì.
Le 'ndrine in Piemonte succhiano il sangue degli imprenditori anche con il
tradizionale metodo parassitario. Cento euro mensili. È la cifra che alcuni
imprenditori della provincia di Torino devono versare alle 'ndrine per dormire sonni
tranquilli. Il metodo porta le firme di Vincenzo Argirò del "Crimine" torinese e di
Antonino Occhiuto, esponente della "Bastarda". Ognuno per le proprie zone di
competenza. Un metodo che non piace agli 'ndranghetisti del Locale Torino. "Lo sto
aspettando a Rivarolo compà... ve lo giuro che succede una guerra", Bruno laria non
utilizza mezzi termini. Se Occhiuto si dovesse presentare sui cantieri dove lavorano i
"suoi" sarà guerra. I boss di Careri trapiantati a Torino ritengono quella tassa un
retaggio del passato. Il futuro è fatto di forniture, servizi, sub appalti. Tutto
apparentemente legale. In cambio i favori che ricevono dal loro benefattore Coral
sono immensi. A detta dei capi clan l'imprenditore avrebbe anche versato denaro per
il mantenimento dei detenuti.
Se le 'ndrine non riescono a infiltrarsi nei cantieri con le proprie ditte, avanzano le
richieste estorsive. È successo a un onesto imprenditore che si è opposto
all'imposizione dei sub appalti. Antonio Sinisgalli ha vinto un appalto con il Comune
di Noie. Il gruppo di Argirò, venuto a conoscenza della gara di appalto, richiede a
Sinisgalli, tramite l'architetto Bartesaghi, un sub appalto. Precisamente l'escavazione
dell'alveo del torrente Stura. Ma Sinisgalli non si fida. I lavori li affida ad un'altra
impresa. Uno sgarro per i boss, che convocano l'imprenditore nell'officina di un
sodale. E gli prospettano due vie d'uscita: l'affidamento di un sub appalto, oppure il
pagamento di una cifra tra i 50 e i 20 mila euro. Sinisgalli dopo l'incontro corre dai
carabinieri, denuncia e riconosce nelle foto i suoi estortori. Coraggioso, Sinisgalli.
Controcorrente rispetto a tanti suoi colleghi che accettano il compromesso delle
'ndrine padane.
È una 'ndrangheta che occupa ogni settore affaristico, legale e non. Dall'edilizia
alle bische. Circoli privati aperti con semplice denuncia di inizio attività al Comune,
senza necessità di particolari licenze o autorizzazioni. In realtà sale da gioco, bische
clandestine. Luoghi in cui spennare giovani e meno giovani. Il Pivello sportivo di
Leinì e Giuseppe Cesare Abba di Torino in Via Maddalena sono i nomi dei circoli-
bisca della 'ndrangheta piemontese. Il metodo imprenditoriale, di ripartizione dei
ruoli è rispettato anche nel gioco d'azzardo. A gestire i circoli sono gli affiliati alla
'ndrangheta dei diversi Locali. Nessuno escluso. I profitti vengono ripartiti tra i
Locali interessati. Oltre al Locale che intende svolgere l'attività, è necessaria la
compartecipazione agli utili del Locale sul cui territorio è situato il circolo. E del
"Crimine", che sovrintende agli affari. Parte dei proventi vengono destinati ad aiutare
affiliati in quel momento detenuti, indipendentemente dal Locale di appartenenza.
Si gioca pesante nei circoli dei boss, in particolare "poker texano". È una delle
caratteristiche delle bische 'ndranghetiste. "Attività ricreative senza finalità di lucro...
la finalità è quella di praticare e propagandare attività sportiva dilettantistica (tornei,
gare, campionati) e istituire corsi interni di formazione e addestramento". Si legge
nello statuto de Il Pivello.
Il poker texano è un'attività ideata e gestita dai Crea di Torino. E Gioffrè per
praticarla nella bisca di Leinì deve chiedere il consenso del boss Crea con il quale
vanno spartiti gli introiti. "Gli ho detto... Compà che facciamo... ci mangiamo tutti...
e chiudiamo la partita... Compà ci siamo presi il 50 per cento di qua... con altri...
compresi loro... e il 50 per cento glielo hanno lasciato a loro", è il sunto dell'accordo.
E dato che Leinì è sotto la giurisdizione mafiosa del Locale di Volpiano, parte dei
proventi andranno anche agli Agresta, competenti su quel territorio. Ma l'avidità crea
conflitti. I guadagni mensili superano i 50 mila euro al netto delle spese per ogni
bisca attiva. Un boccone che fa gola a molti. "Ora noi siamo qua, e senza offesa non
dobbiamo dare conto quasi a nessuno a casa nostra", avrebbero intimato gli Agresta a
Gioffrè. Tensione che sale anche con i Crea. Esigono di partecipare ai guadagni del
circolo di Gioffrè, ma non spartiscono i loro. Una bomba pronta ad esplodere.
Probabilmente alla base dell'omicidio di Giuseppe Gioffrè nel dicembre 2008. La
situazione incandescente ha portato Gioffrè a chiedere consiglio a due boss di primo
piano della 'ndrangheta. Pasquale Barbaro e Giuseppe Pelle. Barbaro, preoccupato
della situazione, ne discute con il boss Antonio Papalia che ordina di sanare i conflitti
perché le bische rappresentano una forma di sostentamento per i detenuti. Il figlio del
"Gambazza" è più equilibrato: "Pe' ti raccomando di andare d'accordo con Cosimo
(Crea, rida)". Poi arrivano gli arresti che distendono il clima, almeno per poco.
Nell'aprile 2008 vengono arrestati i fratelli Crea per la gestione di altre due bische
clandestine. Gioffrè preoccupato chiude la bisca di Leinì per riaprirne, qualche mese
dopo, un'altra a Torino. "La gestione è caratterizzata da una sinergia di esponenti di
diversi «Locali»". Ai guadagni del Circolo Giuseppe Cesare Abba partecipano tutti.
"Nella bisca c'è più di centomila euro di guadagno". Secondo Franco D'Onofrio,
esponente del "Crimine", i conti non tornano. È il 4 novembre e i sospetti cadono su
Gioffrè. E quando la struttura di vertice inizia a dubitare degli affiliati, la sentenza
non tarda ad arrivare. Due mesi più tardi, il Tribunale delle 'ndrine ha fatto eseguire
la sentenza: don Peppe Gioffrè muore a Bovalino in un agguato mortale.
Per le 'ndrine piemontesi l'affare dell'azzardo non è soltanto bische. Anche le slot
machine elettroniche sono un affare che gestiscono secondo competenza territoriale.
C'è "un accordo ai massimi livelli della 'ndrangheta piemontese in cui si era
verosimilmente consentita agli Agresta una sorta di gestione monopolista delle
macchinette". Videogiochi forniti dalle società di Dario Corsini e Donato Cerrone.
Con i quali "la cosca Marando-Agresta ha rapporti commerciali e suddividono con
loro i guadagni". I proventi vengono destinati al mantenimento dei familiari dei
carcerati. Il guadagno mensile per la cosca si aggira attorno ai mille euro ogni tre
giorni. Il meccanismo è semplice: la 'ndrangheta impone le macchinette ai bar. Con i
gestori dei locali e i fornitori delle macchinette si suddividono gli introiti.
Dai videogiochi ai "Locali" da bere. Sono le 'ndrine della dolce vita torinese, della
bella vita, che gestiscono bar e i night della provincia torinese. Bar Italia, bar
Alexander. Sono due dei locali "battezzati" e gestiti da boss di primo piano del
panorama mafioso torinese. Servono da copertura, ma anche da luogo di ritrovo e da
comitati elettorali. O per celebrare riti di affiliazione.
I locali notturni invece sono i luoghi dove le 'ndrine concludono affari e
"rilassano" i propri affiliati. Il Kiss One di Bor-gallo è un locale gestito da Antonino
Perito. Tutto inizia con la richiesta di denaro da parte di Bruno laria. In un anno,
hanno calcolato gli investigatori, la cifra estorta ammonterebbe a 20 mila euro. Ma le
estorsioni della 'ndrangheta hanno spesso un secondo fine, un po' come l'usura.
L'acquisizione del locale, di fatto gestito da laria che per assoggettare il reale
proprietario gli ha imposto un prestito, da restituire con cadenza fissa. Nel locale il
boss si comporta come un vero mafioso: champagne di marca gratis, intrattenimento
delle ragazze del locale a cui offre consumazioni senza pagarle, intervento sulle
scelte organizzative, litigi con altri avventori, di solito calabresi, "in modo da
sottolineare la sua posizione di dominio". Prepotenza che dimostra anche con le
ragazze che "le utilizza per soddisfare i propri desideri nonché quelli dei suoi amici
calabresi", laria passa i numeri di telefono delle ragazze ad amici e conoscenti. Un
atteggiamento che irrita numerose ragazze del Kiss One. L'amore per le ragazze
dell'Est non fa parte soltanto del gruppo laria. Anche Giuseppe Barbaro era solito
portare donne russe in un locale di Torino, La Mansarda. A raccontarlo è il
collaboratore di giustizia Rocco Varacalli. "Barbaro portava presso il locale delle
donne di nazionalità rumena e russa che entravano in Italia da Bovalino (provincia di
Reggio Calabria) e le portava a lavorare come intrattenitrici presso il locale La
Mansarda. Tale attività era disonorevole per un appartenente alla 'ndrangheta e non
era condivisa da Natino che aveva paura dei controlli cui potevano essere sottoposte
le donne prive di permesso di soggiorno. Tuttavia Natino non diceva nulla a Barbaro
e lasciava che questi continuasse a portare le donne presso il locale, per non mancare
di rispetto ad un appartenente alla 'ndrangheta e per evitare che il Barbaro potesse
riferire ad Agresta Antonio che Natino non si prestava ad effettuare delle cortesie o
dei favori". Che le ragazze arrivassero da Bovalino è confermato anche dalle parole
del defunto boss Gioffrè. "Compare Pe'... mi ha detto... ho due femmine a Bovalino...
che erano la sotto Rumene... potete parlare con compare Natino (Fortunato laria detto
"Natino", nda) se le fa lavorare qua con me... ho preso a compare Natino infilatemi
queste due femmine a lavorare qua... le ha prese e le ha messe lì... ora... ora sono
arrivate 'ste due femmine... non poteva avvicinarsi qualcuno che era geloso... non
poteva avvicinarsi un altro che era geloso... compare Natino che gli paga lo stipendio
si può permettere il lusso di compare Peppe?".
Affari piemontesi che hanno il sapore acido della cocaina. "Andiamo a correre
insieme..perché ho preso qualche chilo in più... devo smaltirlo!". I chili non sono di
pancia. Ma di cocaina. Parole d'ordine, nomi in codice, silenzi che valgono più di
mille parole. È il basso profilo dei trafficanti delle 'ndrine. Pasquale De Carolis
insieme al fratello Costantino, titolari di un bar a Torino, è la voce di Giuseppe Nirta,
il boss che vive nell'invisibilità tra la Valle d'Aosta e la Spagna, a Loret de Mar.
Secondo gli investigatori è lui la mente del traffico. E a lui, tramite i De Carolis,
Gioffrè, laria, Agresta, Praticò e Mangono, chiedono le partite di cocaina. "Che mi
prendo il capocollo e la soppressata". È una frase in codice, in realtà i boss parlano di
"Oro bianco". "Sai quanto costa?... un milione mezzo di euro costa". È Gioffrè che
spiega al figlio Arcangelo, i progetti d'importazione. Il flusso di cocaina invade
l'Italia. Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia. Un fiume bianco che risale la
penisola. Gli investigatori annotano spedizioni a Platì, a Bovalino. E a Roma. Oltre
che in Spagna, Belgio e Francia. Da qui la coca caricata sui camion di fiducia arriva
in Emilia e Piemonte. Uno dei personaggi che si occupava di organizzare i viaggi è
Antonio Pagliuso che "supporta logisticamente il «Crimine» nel trasporto delle
sostanze". È fratello di Fortunato, arrestato l'anno scorso, vicino ad alcuni
imprenditori delle cosche crotonesi, attive nel reggiano. Entrambi sono soci della
Bazzoni Autotrasporti srl di Gualtieri di Reggio Emilia. Alle "dipendenze" di
Pagliuso diversi corrieri stranieri residenti nel modenese. E sempre sull'asse
Piemonte-Emilia prende forma un'iniziativa commerciale. L'obiettivo delle cosche è
far confluire nei locali notturni a "disposizione" la cocaina. Un binomio lucroso.
Confermato dai riferimenti a un locale di Bologna gestito da un parente di Antonino
Occhiuto. "Andiamo giù a trovare questo mio cugino che ha una discoteca... se noi
gliela portiamo come Dio comanda si può fare". Il cugino di cui parlano gli indagati
è Natale Surace, titolare di un locale di grido in centro a Bologna. Finirà nella rete
dell'operazione Marte, coordinata dalla Dda di Bologna, contro le 'ndrine Romeo
"Staccu" e Giampaolo "Russello" di San Luca. Medici, avvocati, professionisti,
imprenditori. I clienti della cosca di San Luca era la Bologna "bene". Sotto le due
torri le 'ndrine di San Luca hanno messo radici. Gestiscono pizzerie, bar e trafficano
chili e chili di cocaina. Hanno a disposizione basi logistiche come alberghi e garage.
Insomma non sembrano arrivati da poco nel capoluogo emiliano. E i clienti
cocainomani mostrano rispetto e gratitudine. I boss offrono un prodotto di buona
qualità e sono considerati "i migliori" per quel che riguarda la capacità di non
lasciare tracce che possano insospettire gli investigatori. "Me ne portavano tanta a
chili, calabresi sono spariti, gli hanno arrestato i suoi boss, sono quelli di San Luca...
quel paese dove ci sta la mafia... sono pezzi grossi quelli lì". Uno dei clienti
ingenuamente ritiene che la mafia esista solo a San Luca, ignorando o facendo finta
di non sapere che a Bologna interloquisce quotidianamente con la 'ndrangheta. Coca
e pizza è una specialità degli 'ndranghetisti di San Luca. Come in Germania anche a
Bologna si muovono lungo questa direttrice economica. Tra gli spostamenti di
Pizzata e Marte documentati dai carabinieri di Bologna ci sono quei viaggi in Valle
d'Aosta. Viaggi di piacere o di lavoro per contrattare partite di cocaina con Giuseppe
Nirta di San Luca che vive tra le valli alpine, la Spagna e la Francia? Un
interrogativo a cui né l'indagine "Minotauro" né l'operazione "Marte" hanno dato
risposta.
Una sola pizzeria non è sufficiente però ai sanlucoti di Bologna. Antonio e
Pasquale Marte di San Luca ne vogliono una tutta loro e decidono di aprirla. Fuori
Bologna, a San Lazzaro di Savena. Per avviare l'attività si consultano con la
commercialista "amica" di Bologna. È una rete fitta di complicità quella che gli
'ndranghetisti hanno tessuto negli anni a Bologna. E sempre i Marte sarebbero stati
"interessati" all'acquisto di una tabaccheria del centro di Bologna i cui proprietari
sono due clienti affezionati. Cosche di San Luca che sotto le due Torri hanno
investito. Soprattutto in attività commerciali e di ristorazione. Come il bar di
Giuseppe Giampaolo, ritenuto dagli investigatori bolognesi "appartenente
all'omonima cosca mafiosa della 'ndrangheta", dove Antonio Marte si recava spesso.
Locali e bar delle 'ndrine di San Luca che a Bologna si mimetizzano nella movida
universitaria che offre una clientela vasta, colta, avida, benestante. Una clientela di
insospettabili, trasversale, quella che si riforniva dalla costola bolognese delle 'ndrine
Romeo e Giampaolo. Studenti, operai, commessi, impiegati, professionisti. E medici
chirurghi, un primario, cabarettisti, attori e soci di alcuni dei locali notturni più
fashion di Bologna. La Dda aveva richiesto l'arresto anche per Raffaele Giunta, un
medico che lavora all'ospedale Sant'Orsola nel reparto chirurgia generale e trapianti.
Il gip ha rigettato la richiesta, ma dall'ordinanza emerge un quadro inquietante. "Mi
fai sto favore che devo operare tutta la notte", sarebbe la richiesta di coca che Giunta
rivolge ad Alessandra Barretta, cliente di Pizzata e Marte. "Sono stanco morto è da
stamattina che sono qui... e mò dobbiamo operare tutta la notte ci sono 200 urgenze
in coda hai capito", insiste il medico. Ancora più eloquente della dipendenza del
chirurgo è l'episodio raccontato, e intercettato, da un amico della Barretta:
"Ultimamente hanno beccato uno che veniva dalla Colombia (un corriere, nda) che si
è rotto qualche ovulo". E aggiunge: "Hanno operato loro (Giunta, nda) ...hanno
rubato due ovuli uno lui e uno il suo primario". Un furto inutile, a detta dei due
indagati, perché la coca era di pessima qualità, un "pacco" nonostante arrivasse
direttamente dalla Colombia. C'è anche un medico legale consulente della Procura
tra i consumatori della cocaina venduta dagli 'ndranghetisti. E un impiegato
dell'Alma Mater Studiorum di Bologna, il celebre Ateneo bolognese. Il suo nome
riporta la memoria al Piemonte e alla "Bastarda": Natale Surace di Bagnara Calabra,
da anni vive in Emilia, lavora come referente tecnico-logistico sulla cessione degli
spazi universitari. Dal numero fisso della Facoltà di via San Giovanni in Monte
telefonava alla pizzeria San Donato delle sorelle Pedullà, le figlie di Maria Strangio.
'Ndrangheta in città, qualche quotidiano ha titolato. Non proprio uno scoop.
Emilia e Piemonte. Due regioni unite dalla "bamba". Che con la Lombardia
formano il triangolo "bianco". Un tempo quello che era il triangolo "rosso" si è
trasformato in una grande piazza del traffico di cocaina. Una merce richiestissima
per stare al passo dei ritmi moderni. Sniffata da insospettabili professionisti e da
giovani in cerca di trasgressioni. È trasversale. E la 'ndrangheta approfitta dei vizi del
popolo per accumulare ricchezza e potere, che diventano moneta di scambio con il
sistema politico ed economico delle aree dove agiscono le cosche.
Eppure qualcuno ancora pensa che "la 'ndrangheta è un'invenzione giornalistica".
Non sono pochi a pensarlo. "Ma che è la mafia?". "È cosa che si mangia?". "Ma
dov'è 'sta 'ndrangheta?". Il defunto boss Gioffrè è una furia quando legge il suo nome
sul quotidiano la Stampa. Un collaboratore di giustizia parla della sua presenza a
Torino. Svela affari e omicidi. "Cornuto di collaboratore", lo insulta Gioffrè. Come il
boss sono ancora in tanti a pensarla così. Che la 'ndrangheta sia una costruzione
mediatica, un'opinione di alcuni. I fatti, quelli, non contano. Forse l'errore sta
nell'avere dipinto una 'ndrangheta disarmata. Senza più armi. Cosa non vera in
effetti. Perché proprio il boss Gioffrè che afferma di non sapere che cosa sia la mafia,
la 'ndrangheta, muore a Bovalino, trivellato di colpi. Alle radici dell'agguato ci sono
gli affari. Le interferenze nella gestione di affari milionari. Ma è il Tribunale della
'ndrangheta ad avere deciso la sua sorte, su questo gli investigatori non hanno dubbi.
L'aspetto violento delle cosche è stato trascurato in questi anni. L'attenzione è stata
concentrata sulla ricchezza, sul potere. Ma a Torino, a Milano, a Modena, a
Bordighera, si spara. E le notti sono illuminate dai fuochi appiccati per piegare gli
imprenditori. E ci sono omicidi compiuti alla periferia sud del Paese che riguardano
e si ripercuotono sulle dinamiche mafiose del Settentrione. Il Minotauro rappresenta
la doppia natura delle mafie. Silenti e violente. Torbide e insospettabili. Ammalianti e
feroci. Oltre la Linea Gotica la belva, nonostante l'impegno civile, giudiziario e
investigativo, è salva. Al riparo, sotto una spessa coltre di indifferenza.
21. "Il Re dell'ortofrutta"
All'alba la nebbia non lascia spazio ad alcuna immaginazione. Una bruma grigia
nasconde la vita all'interno del porto di Genova, uno dei più importanti d'Europa.
Solo i rumori ripetitivi dei motori delle gru che spostano, scaricano e caricano i
container interrompono la monotonia cromatica. Qui l'inverno è duro. Anche se la
salsedine e i profumi che richiamano le essenze del Mediterraneo lo rendono meno
insopportabile. Di container ne arrivano a milioni ogni anno. Sbarca ogni tipo di
merce. Abbigliamento, pesce surgelato, generi alimentari, materie prime, sostanze
nocive, droga, esseri umani. Tutto approda in questo porto per niente indagato. Una
ferita aperta nella penisola attraverso cui approda l'oro bianco della 'ndrangheta. Qui
la coca arriva a fiumi dopo un viaggio che può durare mesi. Sud America, Guinea
Bissau, Spagna, Italia, Genova. Questa è una delle direttrici seguite dai trafficanti
della cocaina. E anche quelle indicata dai broker delle 'ndrine reggine e vibonesi.
Che in Liguria hanno messo radici, o meglio "Locali". Da La Spezia a Ventimiglia la
Dda di Genova ha contato quattro locali: Genova, Sarzana, Lavagna, Ventimiglia.
Quattro locali e una "Camera di controllo" che serve da raccordo tra le varie
organizzazioni territoriali e mantiene i rapporti con la "casa madre", la "Provincia"
calabrese. Storie, racconti, leggende, invenzioni. Per molti genovesi la 'ndrangheta in
città è assente. Non rappresenta una questione criminale, "qui il problema sono gli
immigrati che bivaccano, litigano, si accoltellano". Non sono rare risposte di questo
tenore, quando passeggiando per i carruggi si chiede alla gente, ai commercianti, se i
boss calabresi dall'accento ligure rappresentano un pericolo per le loro attività, per la
loro città. Le stesse risposte che si ricevono in Lombardia. A Varese dopo la maxi
condanna dei "bad boys" di Calabria, alcuni intervistati sostenevano che i marocchini
sono il vero pericolo, e non il boss Rispoli. Anche se quel processo ha accertato la
violenza della 'ndrangheta nel varesotto, le minacce, le percosse con cui si piegavano
gli imprenditori del luogo a pagare il pizzo, la questione dei magrebini, mai sfiorati
da processi simili, alimenta la paura della gente. Gli 'ndranghetisti che impongono
regole e violentano l'economia lombarda non allarma, non desta preoccupazione.
Perché in fondo, gli 'ndranghetisti sono ben vestiti, frequentano i cantieri, offrono
lavoro, sono titolari d'azienda. Si mescolano alla massa indistinta dell'economia
lombarda. Se gli 'ndranghetisti diventano commercianti e imprenditori, non fanno più
paura. Sono colleghi, sono lavoratori. E Domenico Gangemi è questo per i genovesi.
Come Carmelo lo era per i bolognesi che lavorano al Caab, il mercato ortofrutticolo
di Bologna. Carmelo Bellocco è uno dei capi della cosca di Rosarno, i Bellocco
appunto. Alleati dei Pesce, quelli che riciclano nel calcio dilettantistico. Rosarno è
loro. E Bologna ha rischiato di finire nelle mani dei mafiosi rosarnesi, che hanno
tentato il colpo al cuore dell'economia agricola emiliana, il Caab. Sono le indagini
Rosarno è nostro e Rosarno è nostro 2 del 2010 che hanno svelato le dinamiche
mafiose in movimento sotto le due torri. Il boss Bellocco, una volta scarcerato, si era
trasferito nell'abitazione di Rocco Gallo, imprenditore rosarnese, residente a
Granarolo dell'Emilia, titolare della Veneta Frutta srl attiva all'interno del Caab.
Rocco Gallo è anche il titolare della ditta individuale "Rocco Gaetano Gallo" con
sede a Rosarno che si occupa di coltivazione di agrumi. Dalla produzione alla
commercializzazione, è la cosca a scandire i passaggi. E Come per Gangemi il
genovese, l'amore per l'ortofrutta è un caposaldo dei boss di rispetto. Carmelo
Bellocco aveva così iniziato a lavorare alle dipendenze di Gallo. Ogni mattina con la
sua mini car Ligier raggiungeva l'ortofrutta e indossava i panni del facchino ligio al
dovere. Era però un dipendente particolare, l'unico che impartisse ordini al proprio
capo: Rocco Gallo era infatti inviato in Calabria come suo emissario. Cominciò così
un via vai di 'ndranghetisti che da Rosarno giungevano a Granarolo per far visita al
"grande capo". Nella tranquilla Granarolo Carmelo Bellocco progettava una faida
contro gli Amato, gli zingari della 'ndrangheta di Rosarno residenti nel Reggiano. La
squadra mobile di Bologna è intervenuta quando ha capito che la situazione stava
precipitando. Ha evitato così una guerra sull'asse Bologna-Reggio Emilia-Rosarno.
Tra gli indagati oltre al boss Bellocco, alla moglie, all'imprenditore Gallo, c'era
anche Antonio Bellocco, nipote del capo, già detenuto presso la casa circondariale di
Reggio Calabria a seguito degli scontri di gennaio tra rosarnesi e immigrati. Era stato
uno dei tanti improvvisati capi popolo dei rosarnesi che reclamavano legalità e
inseguivano i migranti per le campagne della piana di Gioia Tauro. Qualche mese
dopo sono arrivate una pioggia di condanne. La frutta e la verdura legano le storie
dei capi bastone del Nord Italia. Genova, Bologna, e Milano con Salvatore Morabito
il figlio del mammasantissima Peppe Morabito "U Tiradrittu" che all'interno
dell'ortomercato milanese entrava con la sua Ferrari e il pass della Società di gestione
del mercato. E già, il rampollo dei Morabito di Africo ufficialmente facchino, in
realtà era un broker della cocaina sud americana. E utilizzava i box del mercato, dove
avevano sede alcune cooperative riconducibili alla 'ndrina, per stoccare e ordinare
l'oro bianco. La 'ndrangheta non dimentica le origini agricole, e sull'agricoltura
investe, e impone monopoli.
Nel quartiere di San Fruttoso di Genova è conosciuto come Mimmo, il "re
dell'ortofrutta". Perché Mimmo Gangemi è titolare del "Regno dell'ortofrutta". Un
commerciante insospettabile. Dal suo negozio passano tutte le classi sociali.
Imprenditori, impiegati, operai, politici. Lo considerano un buon commerciante.
Certo, le voci sul suo conto lo dipingono come un personaggio potente, influente, in
grado di decidere strategie e indirizzare voti a questo o quel candidato. Ma nessuno
pensava a lui come a un boss: "Un capomafia è un'altra cosa, non parla così bene, è
rude, non lavora". La figura di Mimmo Gangemi esula dai canoni imposti dai
telefilm, dai romanzi e dai canti di mafia che propongono delle organizzazioni
fondate sul folklore. Esula dall'immaginario collettivo che la maggioranza dei
cittadini del Nord ha del fenomeno mafioso. Ma di pittoresco le 'ndrine del Nord
hanno ben poco. Assomigliano più ad aziende. Gestiscono interi settori economici,
traffici legali e illegali. È un organismo strutturato e articolato, la 'ndrangheta ligure.
I "dirigenti" del locale di Genova sarebbero, secondo la Dda di Genova, Domenico
Gangemi, Antonio Belcastro, Onofrio Garcea (lo stesso che accompagnò il senatore
Trematerra al convegno di Torino), Lorenzo Nucera e Arcangelo Condidorio.
Gangemi e Belcastro erano già stati arrestati nell'operazione Crimine. Il capo locale
di Sarzana sarebbe Antonio Romeo. A Lavagna comanderebbe Paolo Nucera, un boss
imprenditore, titolare di un albergo-ristorante, dove il gotha della 'ndrangheta ligure
si sarebbe riunito in più di un'occasione. A Ventimiglia il governo mafioso sarebbe
stato affidato a Giuseppe Marciano, Michele Ciricosta, Benito Pepe, a Fortunato e
Francesco Barillaro. Alle loro dipendenze, secondo il pm, anche un politico:
Vincenzo Moio, vicesindaco, fino al 2009, della cittadina di confine.
Come in Piemonte e in Lombardia, esiste una struttura parallela, che governa
stringendo alleanze tra cosche e con gli "esterni", i politici, gli imprenditori del
luogo. Potere, accumulazione, riciclaggio, onore, rispetto. Affari, politica e tradizione
sono i termini che orientano l'agire dei mafiosi calabresi. E tra Genova e Ventimiglia
hanno trovato una seconda casa. Incontrano consiglieri comunali e regionali,
assessori, imprenditori politici, entrano nelle amministrazioni comunali, le
influenzano, si aggiudicano appalti, sparano, incendiano, minacciano, trafficano.
"Non l'avrei mai detto che potesse essere un boss della 'ndrangheta". Invisibili,
mimetizzati e travestiti da commercianti, impresari, albergatori, sindaci, assessori.
Certo non è semplice distinguere gli 'ndranghetisti al "Pesto". "Vende ottima frutta e
verdura, è un gran lavoratore", Mimmo Gangemi è questo per i genovesi. Non lo
immaginano un boss della "Camera di Controllo" in grado di interloquire
direttamente con il capo crimine don Mico Oppedisano di Rosarno. Per i genovesi
Gangemi è un commerciante di ortofrutta, è "Il re dell'ortofrutta", come recita
l'insegna del suo negozio genovese. "Compare quello che amministriamo lì, lo
amministriamo per la nostra terra... non è che lì amministrano loro... li
amministriamo sempre noi calabresi". Il re dell'ortofrutta sa bene che un locale senza
appoggio della "Provincia" è una struttura azzoppata, monca, senza forza. E lo ripete
a Domenico Oppedisano, a cui mostra tutta la devozione dei locali liguri alla
perversa "causa" 'ndranghetista. "Siamo tutti una cosa, pare che la Liguria è
'ndranghetista... noi siamo calabresi... quello che c'era qui lo abbiamo portato lì...
quello che abbiamo lì è una cosa che l'abbiamo... noi siamo in collaborazione con la
Calabria... noi con la Calabria e io personalmente ci riteniamo... tutti una cosa... tutti
calabresi". Liguria e Calabria, Sud e Nord. Per la 'ndrangheta la penisola è un
immenso campo d'affari. Attività commerciali, imprese edili, ristoranti e alberghi.
Sono le attività lecite della 'ndrangheta. Accanto c'è una 'ndrangheta usuraia. Che
camuffata da società finanziaria strozza i clienti, e fagocita le imprese. Onofrio
Garcea è un imprenditore-usuraio. Gestiva la finanziaria Effegi Direct. Attraverso la
società praticava l'usura. Quando è scattata l'operazione, nel luglio scorso, ha fatto
perdere le tracce. È stato latitante fino al dicembre 2010. Dalla sua doppia attività
traeva lauti profitti. Soldi che avrebbe inviato anche in Calabria: "Sto andando da
una persona per mandarci un po' di soldi in Calabria... sto andando su a mandarci un
po' di soldi in Calabria".
Boss liguri che trattano con politici locali. Dal sostegno politico al candidato di
turno, le 'ndrine si aspettano una contropartita: appalti, concessioni, favori. E quando
i candidati sono numerosi anche i boss entrano in confusione, disorientati dalle
promesse. Nel caso di Nucera del locale di Lavagna, Gangemi non ha dubbi,
vorrebbe riservare alcuni voti per la figlia di Moio perché ha ottenuto lavori in quel
comune. "Fanno lavori con i Comuni i suoi fratelli", sostiene Gangemi riferendosi
alla ditta dei fratelli di Paolo Nucera, aggiudicataria di un appalto per i servizi di
nettezza urbana nel comune di Rapallo, provincia di Genova.
E poi c'è il divertimento, una merce che le 'ndrine di ponente trattano a modo loro.
In riviera il divertimento è d'obbligo. E le cosche offrono i loro prodotti. Locali
notturni, prostituzione e gioco d'azzardo "legalizzato" con video slot. Non emerge
dall'indagine Maglio 3, ma dall'inchiesta che poi ha portato allo scioglimento per
mafia del comune ligure di Bordighera. La cosca Pellegrino, del locale di
Ventimiglia, radicata a Bordighera, avrebbe fatto pressioni su alcuni assessori del
Comune per ottenere la licenza ad aprire una sala slot, una sorta di mini casinò
elettronico. La Dda di Genova scoprì anche che due dei fratelli Pellegrino gestivano
un locale notturno, all'interno del quale alcune ragazze dell'Est si prostituivano. Era
la punta dell'iceberg. Tanto che la commissione di accesso da poco insediatasi a
Bordighera sta scavando tra le carte relativa agli appalti.
Una presenza prepotente e silente. Bestiale e incendiaria quando serve. Negli
ultimi anni i fuochi appiccati dalle 'ndrine non si contano. E le intimidazioni neppure.
Ma sulla riviera ligure l'impronta delle cosche della 'ndrangheta è evidente ancora
per pochi. Tra questi c'è il magistrato Anna Canepa, per lungo tempo alla Dda di
Genova e ora alla Dna, ha parlato espressamente di "Questione settentrionale". Il
danno all'economia è incalcolabile: si stima che una cifra pari a 120 miliardi all'anno
necessita di essere ripulita attraverso operazioni di riciclaggio che assumono forme
sempre diverse, come nel caso della Perego in Lombardia dove la 'ndrangheta era
riuscita ad assumere il controllo totale dell'azienda. Lo sa bene la Canepa, che nei
numerosi incontri con i cittadini insiste su un punto: stimolare la società civile a
reagire. "È necessario che gli imprenditori non si isolino, che abbiano la forza di
spezzare il legame che le mafie tentano di imporre attraverso l'uso della violenza o il
prospetto di vantaggi economici. La strada non può che essere una: affiancare
all'attività della magistratura il lavoro di una società civile responsabile vigile e parte
attiva della costruzione di una comunità alternativa alle mafie". Insomma, tacere e
nascondere i fantasmi sotto i container del porto, relegarli a una questione di
criminalità marginale, è il meccanismo da cui il Nord del Paese deve sganciarsi, se
non vuole affondare nell'abisso della sudditanza mafiosa. I vantaggi economici, la
capacità di reggere il mercato, la competitività di un'impresa, si ottengono soltanto
azzerando i costi, evadendo i contributi, cercando scorciatoie al limite della legalità
dove le mafie espongono i propri servizi a basso costo? Oppure esiste un modello di
sviluppo legato al progresso civile e sociale che possa recidere la rete affaristica e
politica dei mafiosi d'Italia? Se è possibile allora "se non lo facciamo noi chi deve
farlo?", urlava negli anni Ottanta Peppe Valarioti, segretario del Pci di Rosarno,
ammazzato dalle cosche della Piana.
22. "Franco" da San Marino, oppure il boss che "Adora
San Marino"
Per esigenze di spazio e di tempi sono rimaste fuori da Gotica numerose storie
che rappresentano l'espressione del potere mafioso nel nord del Paese. Perché di
questo si tratta. Di organizzazioni mafiose che hanno stabilito le loro sedi distaccate
nel Settentrione d'Italia e qui gestiscono fette di economia, e quindi di potere. Sono
arrivate in Lombardia, Emilia, Liguria, Piemonte, Veneto, Valle d'Aosta, non per
prelevare contanti e tornare da dove sono venute. Oltre la Linea Gotica, i boss
vogliono viverci, e bene, non facendosi mancare nulla. Protetti dai loro uomini, con
cui installano cellule dipendenti della "casa madre", o da questa autonome. Dipende
dai casi e dalle organizzazioni. Ma in ogni caso mirano ad aprirsi spazi tra le maglie
del tessuto economico e sociale della periferia nord del Paese. Dialogano
direttamente con le istituzioni, con il sistema imprenditoriale, giudiziario. Tra le tante
vicende rimaste fuori da queste pagine, c'è l'indagine sul Presidente del Tribunale di
Imperia. Avrebbe favorito alcuni mafiosi in cambio di soldi. E per motivi di spazio
ho potuto solo sfiorare il sistema delle cooperative spurie. Coop fasulle che di
cooperativistico hanno solo la denominazione. Ho dedicato diverse inchieste
giornalistiche pubblicate sulla Gazzetta di Modena a questo tema. Ho intervistato
lavoratori, sindacalisti, ho letto carte recenti e datate. Quello che emerge è un
modello di azienda che dietro la dicitura di cooperativa nasconde i peggiori abusi e
interessi mafiosi milionari. Sfruttamento e intermediazione illegale della
manodopera, riciclaggio, stoccaggio della cocaina. Un sistema che si alimenta con la
richiesta di servizi, con i sub appalti che le grandi marche di ogni settore concedono
alle piccole realtà criminali che si fanno chiamare cooperative, ma che in realtà sono
società in cui i soci lavoratori non conoscono neppure i propri diritti, né lo statuto, né
partecipano agli utili della cooperativa.
Pensiamo ai grandi nomi della logistica. A Milano la Tnt ha fatto lavorare alcune
cooperative di facchinaggio della 'nrangheta. E a Bologna, a Modena e a Lucca il
discorso non cambia, a mutare è soltanto il casato di 'ndrangheta. A Milano è la cosca
Plachi, in Emilia e Toscana si chiamano Farao-Marincola. È l'esternalizzazione,
bellezza! Una manna dal cielo per le mafie padane e un modo per abbattere i costi
del lavoro per gli imprenditori locali. E dal Nord si concertano strategie economiche
da attuare in Calabria. Emblematica la frase pronunciata da Francesco Ventrici,
ritenuto uomo della cosca Mancuso di Vibo Valentia e residente nel bolognese: "In
Calabria la guerra con noi non la vince nemmeno il Papa". La minaccia, più o meno
velata, era rivolta a due dirigenti di Lidi Italia, durante un incontro avvenuto a Massa
Lombarda. Le imprese di Ventrici per anni hanno lavorato per Lidi, avevano
l'esclusiva dei trasporti in Calabria. Ma quando l'azienda decide di accostare altri
vettori alle ditte del boss, ecco scattare le minacce e la violenza contro i camion delle
ditte "non autorizzate". La forza intimidatrice riuscirà a fare cambiare idea ai
dirigenti che riassegnarono l'esclusiva alle ditte di Ventrici.
Da marzo 2010 a luglio 2011, tra Emilia, Lombardia, Piemonte, Liguria, le
operazioni antimafia sono state circa 50. Gli arrestati oltre 400. Beni per centinaia di
milioni di euro sequestrati. Numeri impressionanti che disegnano la mappa del
potere delle mafie al nord. Organizzazioni che trovano terreno fertile in un sistema di
regole sempre più morbide e che attraverso la corruzione giocano un ruolo da
protagoniste nella scena economica della penisola. Un altro dato che da l'idea della
mutazione mafiosa è quello relativo alle rogatorie richieste dalle Dda locali e dalla
Direzione nazionale antimafia. Le prime dal 2009 al 2010 hanno richiesto 199
rogatorie, la seconda 452. Da Napoli e Reggio Calabria le richieste maggiori.
Germania, Spagna, Olanda, i paesi destinatari delle rogatorie. Ma anche Colombia,
Bosnia, Svizzera, San Marino.
Rogatorie e beni confiscati o sequestrati mappano le mafie, al Sud come al Nord.
Al primo novembre 2010 sono 11.152 i beni confiscati definitivamente, con una
distribuzione geografica che è del 44,57% in Sicilia, 15,06% in Campania, 13,85% in
Calabria, l'8,58% in Lombardia, l'8,12% in Puglia, il 4,32% nel Lazio e, al di sotto
del 2%, le altre Regioni. La Lombardia è la prima regione del Nord. Ma è anche
quella dove c'è più cultura giuridica antimafia. Dove i magistrati ragionano in
maniera sistematica sulle organizzazioni mafiose, e le vedono, le analizzano come un
corpo unico. E non come bande di delinquenti comuni. In Emilia, i dati non
supportano la realtà effettiva. 'Ndrangheta e clan dei Casalesi hanno un impero che
va da Rimini a Piacenza. Eppure i sequestri e le confische sono episodi rari. Da
quando a capo della Procura si è seduto Roberto Alfonso, proveniente dalla Dna, il
cambio di passo è stato ben visibile. E sul fronte patrimoniale qualcosa si sta
smuovendo.
A luglio 2011 un episodio racconta, ancora una volta, di una Modena sempre più
al centro degli interessi miliardari della 'ndrangheta, oltre che, come ormai è stato
ampiamente dimostrato, del clan dei Casalesi. Un investimento miliardario passato
da Modena. Al centro della vicenda un promotore finanziario e un'avvocatessa
modenese "a disposizione del gruppo criminale" che voleva riciclare un titolo di
credito appartenuto all'ex dittatore indonesiano del valore attuale di 39 miliardi di
dollari. Tra gli arrestati anche Nino Napoli, "vicino al pregiudicato Rocco Baglio" e
parente di altri soggetti legati alle cosche della piana di Gioia Tauro. È un
imprenditore nel settore del trasporto su gomma, i suoi camion sulle strade modenesi
e reggiane si vedono spesso. È ritenuto vicino a Rocco Antonio Baglio, attualmente
indagato insieme al sindaco di Serramazzoni. Nino Napoli vive a Rubiera, ma
frequenta Modena, conosce professionisti del luogo e sa come muoversi. È un
calabrese di Polistena. Viene dalla profonda piana di Gioia Tauro, in provincia di
Reggio Calabria. E da Polistena viene anche Baglio, inviato in Emilia a fine anni
Settanta in soggiorno obbligato. Dai camion all'alta finanza, è questa la parabola
ascendente di Napoli. Baccarini è uno degli insospettabili modenesi che con
l'autotrasportatore votato alla finanza intrattiene un rapporto oltre che professionale
di amicizia. Baccarini che nella vita fa il promotore finanziario, è "perfettamente a
suo agio all'interno dell'organizzazione", ha scritto il gip di Reggio Calabria. E la sua
funzione non si sarebbe limitata alla prestazione delle sue competenze tecniche per
singole operazioni, ma "vi collabora pienamente in modo organico al gruppo".
Attraverso Baccarini gli investigatori delle Fiamme gialle sono risaliti a un
avvocatessa di Modena, Daniela Rozzi. "Destinataria di una procura da utilizzare
nella trattazione dell'affare miliardario in corso", osserva il gip. Dalle intercettazioni
il suo è sicuramente un ruolo marginale, ma indispensabile. Di lei e delle sue
capacità tecniche l'organizzazione aveva bisogno per concludere l'affare . E lei
all'amico Paolo, come emerge dai dialoghi, chiede più di una volta se da quel lavoro
avrebbero guadagnato qualcosa. "Una valanga", la tranquillizzava Baccarini.
Malaffare, corruzione, mafia. Tre aspetti che si incontrano nella ricerca affannosa
e avida del potere. E da quando ho iniziato a scrivere Gotica, una sequenza infinita di
fatti si sono susseguiti. Fatti che hanno aggiunto, purtroppo, solide conferme a quello
che per molti continua a essere una teoria di pochi o una questione marginale e
meridionale. E chiudere Gotica non è stata impresa semplice. Ho apportato numerose
integrazioni, episodi inseriti all'ultimo minuto. Insomma ho tentato di fornire un
quadro, a tratti romanzato, il più recente ed esaustivo possibile. Quello che non sono
riuscito a inserire, perché non è accaduto, è la descrizione di un contrasto deciso e
fuori dai soliti schemi di demagogia da parte della politica del nord alle
organizzazioni mafiose padane. A parte le parole di apprezzamento dopo gli arresti,
le congratulazioni, le condanne fredde e distaccate dei dirigenti politici locali, le lodi
a Maroni e Berlusconi per quanto fatto in tema di contrasto alle mafie (un'azione
macchiata dai personaggi indagati che orbitano attorno al governo o all'interno dello
stesso), sono mancate azioni forti e complesse per tenere fuori le cosche dall'edilizia,
dal gioco d'azzardo, dalle attività commerciali, dal sistema politico-elettorale. Oltre
la repressione e l'azione penale ci sarebbe il vuoto se non fosse per il mondo
dell'associazionismo. Solo l'Assemblea regionale dell'Emilia Romagna ha varato una
legge antimafia, la prima, in cui sono state inserite alcune indicazioni sugli appalti e
risorse per la diffusione della cultura della legalità. Certo è un segnale, ma per
vincere la battaglia servono strumenti più duri e radicali sul piano economico, del
lavoro e della giustizia. E poi sempre in Emilia, a gennaio 2011 i professionisti di
Modena hanno varato una Carta etica del professionista. Undici articoli che
stabiliscono tra le altre cose la sospensione dall'Ordine del professionista colluso e
poi in caso di condanna definitiva per fatti di mafia l'espulsione e la confisca dei
beni. È un percorso che indica la via da seguire ai professionisti delle altre regioni. E
rappresenta uno strumento che potrebbe fare paura ai corrotti. Oltretutto sempre i
professionisti modenesi hanno messo a disposizione le loro competenze per la
sistemazione della Valle del Marro, la cooperativa di Libera della Piana di Gioia
Tauro, dopo che è stata distrutta dall'ennesimo vile attentato. Una cultura
dell'antimafia che supera i confini e si fa solidale con le realtà oppresse dalle mafie.
È un antimafia che agisce reclamando diritti. Perché le mafie vincono dove latitano i
diritti, dove la cultura è assente perché fa comodo così. Dove un diritto diviene
privilegio. Concesso dal padrone di turno. E se vi pare ancora una questione di soli
meridionali, beh, prendete la vostra auto, andate a Buccinasco, a Corsico, nell'ex
Stalingrado d'Italia, nella cintura di Torino, nella riviera ligure, nella bassa
modenese, sull'Appennino modenese, o sotto le due Torri. Girate e chiedete, non
troverete forse i bidoni della spazzatura tempestati di piombo, come a San Luca, ma
troverete povera gente che chiede come favore ciò che gli spetta per diritto. A Sud
come a Nord. È l'Italia unita, sotto l'insegna "Mafia Spa".
Ringraziamenti
Gotica è dedicato a tutte le vittime delle mafie, nessuna esclusa, e a chi ogni
giorno lotta per un futuro libero dal potere mafioso.
A Peppe che non c'è più, ma nella stesura del libro le sue idee mi hanno
accompagnato giorno dopo giorno, pagina dopo pagina.
E a nonno Ciccio, quell'instancabile fabbricatore di sogni che insieme a papà
passava ore a giocare a scacchi. Sono stati i primi a lasciarci, ma ci hanno dato la
forza per ricominciare.
È dedicato ai giovani che credono in una società diversa e più giusta. Alla giovane
Francesca che se ci crede veramente, tra qualche anno, non troppo lontano, potrà
gridare a gran voce "C'erano una volta le mafie".
Grazie ai ragazzi e compagni di viaggio di daSud, con i quali ancora tante
battaglie si prospettano all'orizzonte. In particolare Alessio Magro e Danilo Chirico, i
primi a volere ricordare dopo vent'anni mio padre sulle pagine del Manifesto e del
Quotidiano, una commovente sorpresa che mi accompagnerà sempre.
A Libera, in particolare a Enza Rando e Don Luigi Ciotti che ci trasmettono con il
loro impegno forza e tenacia.
A Giovanni Gualmini, il mio primo caposervizio, che mi ha concesso sempre
tanto spazio, fiducia e consigli per il futuro professionale.
A Manuela Mareso per la libertà concessami su Narcomafie.
A tutti i colleghi impegnati che mi hanno aiutato a recuperare materiale prezioso.
In primis Cesare Giuzzi del Corriere della Sera, un eccellente conoscitore delle
dinamiche mafiose in Lombardia, e Marilena Natale, cronista della Gazzetta di
Caserta, coraggiosa e determinata. Ma senza l'amore di Laura, compagna di vita e
dolce battagliera, che ha sopportato i miei sbalzi d'umore e le mie ansie, forse non
avrei mai terminato di scrivere Gotica.
E grazie a Mara, mia madre, che con il suo amore e la sua lucida determinazione
mi ha incoraggiato fin dal primo momento in questo percorso.
A Pasquale che c'è sempre.
A Bibi che con le sue buone pratiche etiche professionali mi ha insegnato a essere
meno pessimista e ottuso.
A nonna Amelia, al suo coraggio per averci preso e portato via, per averci
continuamente incoraggiato a seguire i sogni, nonostante tutto.
A Fefi e Chico, da sempre ottimi dispensatori di consigli.
A Chica e Zia Finetta che fin da piccolo mi hanno coccolato.
A Ralph, Miki e Jonny, amici modenesi e insostituibili compagni di risate e
peripezie.
A Peppe, amico fin dai primi mesi di vita, perché questa è anche la sua storia.
A Teresa e Donato, perché preziosi amici e custodi di segreti.
Indice
1. Verso Nord, Pag. 7
2. Terra di conquista, Pag. 19
3. Concorrenti sleali, Pag. 25
4. Casinò clan, Pag. 43
5. Disco 'ndrangheta, Pag. 57
6. Sua sanità il boss, Pag. 67
7. Malapolitica lùmbard, Pag. 85
8. "Calabrotti", Pag. 95
9. L'autonomista lombardo, Pag. 107
10. Arena d'Emilia, Pag. 115
11. Edil 'ndrina, Pag. 127
12. Buonanotte rossa Emilia, Pag. 141
13. "Bit" e "Silviuccio", Pag. 155
14. 'Ndrangheta scavi srl, Pag. 161
15. Sorelle d'omertà, Pag. 181
16. Lea e Denise, Pag. 187
17. Holly 'ndrangheta, Pag. 197
18. 'Ndrangheta (in)Comune, Pag. 209
19. Mammasantissima, sindaci e consiglieri, Pag. 235
20."Torino è nostra", Pag. 253
21. "Il Re dell'ortofrutta", Pag. 269
22. "Franco" da San Marino, oppure il boss che "Adora San Marino", Pag. 277
Epilogo, Pag. 287
Ringraziamenti, Pag. 301