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“I segreti del jazz” di Stefano Zenni: una descrizione del libro

(Stampa Alternativa, 2008)

a cura di Claudio Vedovati

Voglio raccontare alcune cose del libro – “I segreti del jazz” – non per fare una recensione, ma
per descriverlo e per dare valore ai molti aspetti di questo lavoro che possono essere
importanti al fine del nostro incontro.

Un testo vivente
Il libro è un volume di circa 300 pagine, che analizza a vari livelli una quantità soverchiante
d’incisioni di jazz: circa mille, un centinaio delle quali allegate in DVD ed altre 400 disponibili
prossimamente in formato mp3 sul sito dell’editore.
L’intera storia discografica del jazz viene usata come un testo vivente di composizione da
cui attingere. Con l’attenzione al fatto – fondamentale - che l’obiettivo del lavoro non è
introdurre all’analisi ma all’ascolto attraverso l’analisi.

Storia e pratiche delle forme del jazz


Pur senza essere una “storia del jazz”, il libro offre un’idea molto complessa di questa stessa
storia e delle pratiche e delle forme del jazz. Si dà spazio ad ogni epoca e ad ogni livello
organizzativo. Si incontrano a pari titolo improvvisatori, compositori, arrangiatori. Accanto ai
soliti noti, si ha il piacere di incontrare anche Don Redman e Alphonso Trent, Alec Wilder e Don
Ellis, Bill Dixon e la Globe Unity, assenti dai grandi palcoscenici dell’editoria jazzistica.
Si sfatano inoltre - in maniera serena e “nonviolenta” - miti imperituri sull’improvvisazione e
sullo swing, si aggirano stereotipi e luoghi comuni sugli “stili”, si sfida ogni tipo di riduzionismo,
temporale, geografico, razziale. Il jazz è definito attraverso la contraddittorietà delle cose che
è stato nella realtà e non proponendo una sua qualche “essenza”.

La struttura del libro


“I segreti del jazz” contiene dieci capitoli organizzati in due parti, con una struttura che
esprime un punto di vista innovativo sulle prassi del jazz.
La prima parte – “la materia del jazz” – si occupa di descrivere l’uso di parametri (gli aspetti
timbrici e ritmici, ad esempio) e di prassi jazzistiche (l’uso dell’armonia e dell’improvvisazione,
la composizione e l’arrangiamento, ad esempio) ma contemporaneamente fornisce alcuni
modelli interpretativi (oralità, presenza del corpo, modelli di intonazione, relazione tra
pulsazione e swing, “verticalità”, memorie armoniche africane, ecc.) senza i quali non si può
comprendere la seconda parte, che è invece dedicata a “il discorso del jazz”, ed in particolare
alle forme.

La struttura del libro è molto chiara, didatticamente lineare, ma contiene anche una
complessità da indagare, che emerge se ci si lascia stimolare dai tanti rimandi e se si accetta
la sfida proposta dall’autore di istituire nessi tra i diversi livelli del discorso. Per questo motivo
indugio – qui di seguito – in maniera elencatoria al succedersi degli argomenti.

Il primo capitolo
Il volume si apre indagando l’eterogeneità dei modelli storiografici del jazz, intesi come
forme di racconto frutto di un continuo “negoziato tra passato e presente”. In questo modo la
storia del jazz perde la sua struttura “naturalmente” lineare e si apre piuttosto anche ai
dislivelli ed alle “contraddizioni”, alle vie di fuga ed alle strade senza uscita.
L’eterogeneità della storia dei linguaggi jazzistici è tuttavia subito messa in relazione con la
centralità che il jazz dà ai propri atti performativi, la dimensione orale e corporea del fare
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musica, “con cui – sostiene il libro - possiamo imparare a riconnetterci”.
Il jazz viene dunque descritto come una musica dialogica, collaborativa, performativa, in cui
l’improvvisazione è un processo che entra in relazione con le tecnologie di produzione e
riproduzione del suono, in cui l’uso della scrittura è prevalentemente descrittivo e non
prescrittivo, in cui le modalità di apprendimento portano a dare valore all’invenzione
individuale di tecniche strumentali e sviluppano competenze per “manipolare il linguaggio”.
Tuttavia – si sottolinea “negli ultimi quarant’anni si è gradualmente imposta una didattica più
formale, basata su curricula standardizzati” che produce musicisti “tecnicamente meglio
preparati ma stilisticamente più uniformi”.

Il secondo e il terzo capitolo


Il secondo e il terzo capitolo del libro – dedicati agli aspetti timbrici e all’organizzazione del
tempo musicale – spostano quindi l’attenzione ad aspetti del linguaggio jazzistico che
esprimono prima di tutto una cultura musicale che è anche una cultura del corpo e dell’oralità,
in cui sono fortemente radicate tecniche e visioni del suono di origine africana.

Per quanto riguarda il timbro (secondo capitolo), si analizzano:


- la centralità del suono, piuttosto che della nota, e i processi che portano alla sua
“personalizzazione”
- il valore dell’eterogeneità sonora (ad esempio, la visibilità degli armonici, dei suoni multipli,
dei “rumori”)
- il legame tra il timbro ed il corpo (con un’analisi sull’uso del soffio negli strumenti a fiati) e
diversi intrecci tra vocalità e dimensione strumentale;
- l’uso delle sordine e la tecnica del growl;
- la specificità timbrica del voicing pianistico e della scrittura orchestrale.
- la flessibilità dell’intonazione, attraverso il modello proposto da Gerhard Kubik per il blues,
perché “la concezione dell’area d’altezza flessibile è una eredità africana che, veicolata dal
blues, ha investito tutto il sistema di intonazione del jazz” (fino alla perorazione di musicisti
“stonati” come Wayne Shorter e Jackie Mclean).

Per quanto riguarda gli aspetti motori e l’organizzazione del tempo musicale (terzo capitolo),
si analizzano:
- la dimensione audio-tattile del jazz (viene ripreso il modello proposto recentemente da
Vincenzo Caporaletti);
- i legami tra la pulsazione e lo “swing”: spiegando in maniera molto chiara anche come lo
swing non abbia nulla a che fare con le sincopi e come si possano trovare, anche sovrapposti,
diversi modi di “swingare”.

Il sesto capitolo: il ritmo


Se facciamo un salto in avanti, fino al sesto capitolo (propriamente dedicato al ritmo) e
collocato al centro del libro per le connessioni con gli aspetti formali del jazz, si analizzano
anche:
- la natura contrametrica e “verticale” del jazz;
- la funzione e l’evoluzione dell’uso backbeat;
- la presenza di modelli di “time line pattern” e di cicli di origine africana (attraverso la guida
maestra dell’analisi di Keep Off the Grass di James P. Johnson);
- la rilevanza delle stratificazioni metriche (con una vivisezione dell’uso del raddoppio e del
dimezzamento del tempo, da Eddie Lang a Charles Mingus) e l’uso dei cambi di metro;
- il diffondersi di metri dispari e l’uso di metri addittivi.

Improvvisazione, armonia, composizione, forme


Il cuore del libro sono i capitoli sull’improvvisazione (quarto capitolo), l’armonia (quinto), le
condotte polifoniche (settimo), la composizione e l’arrangiamento (ottavo), le forme (nono).
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Questi capitoli, il cui significato non può prescindere dalle pagine che li precedono, possono
essere variamente legati tra loro, e dal modo in cui questo legame è esplicitato ne derivano
possibili articolazioni dell’evoluzione formale del jazz.

L’improvvisazione, ad esempio, può essere vista come una tecnica solistica che si
sovrappone a diverse possibilità formali o come pratica performativa che investe più di un
aspetto del suonare e che può diventare la forma stessa di un brano.
L’armonia può essere il materiale dell’improvvisazione e delle varie forme di arrangiamento di
altre funzioni interne ad un brano (come l’accompagnamento) e contemporaneamente il luogo
dove si giocano le tensioni della forma (ad esempio la relazione tra le strutture compositive e
l’armonia tonale o modale), o dove si manifesta una dimensione timbrica (competenze diverse
di ascolto degli armonici), verticale o a strati (comprensibile facendo riferimento alla
dimensione contrametrica) o ancora ciclica di origine africana.

Volendo sintetizzare il percorso che porta dall’analisi dell’improvvisazione a quella


dell’arrangiamento, si può dire, per prima cosa, che considerando che nel jazz
l’improvvisazione non è solo fare “l’assolo”, qui si tende a smontare l’opposizione
concettuale tra improvvisazione e composizione (“non sufficiente a spiegare fenomeni più
complessi”) e a ridistribuire “l’improvvisazione” – a questo punto divenuta altra cosa - ad ogni
livello della prassi jazzistica. Questo contribuisce in maniera salutare a ridimensionare il mito
dell’improvvisazione jazzistica (che può essere ora ricondotta a relazioni tra materiali e modelli
di organizzazione) e a riportare il “suonare il jazz” ad un più ampio modo di stare in relazione e
di manipolare ciò che si ha a disposizione.

Per questo prima si parla:


- di estemporizzazione dell’esecuzione (per spiegare tanto la realizzazione del tessuto armonico
da parte della “sezione ritmica” quanto alle pratiche di lettura e alle tecniche di esecuzione del
tema);
- di gesti sonori – pratiche motorie – che producono il linguaggio improvvisativo;
- dei diversi usi che si possono fare di materiali “codificati” da dentro il sistema musicale che si
utilizza e di uso di temi e motivi;
- di improvvisazione pianificata e scrittura (addio mito della spontaneità…);
- di rapporti tra improvvisazione e oralità “secondaria”;
- delle varie forme di improvvisazione “collettiva”…
…e soprattutto di improvvisazione come interazione, che è il cuore della questione.
E poi – anche se nel testo gli argomenti sono complessamente intrecciati – si approda:
- alla descrizione raffinata dei rapporti tra improvvisazione e armonia (secondo il modello
proposto già da George Russell, ma portando anche l’attenzione dove di solito non va: ad
esempio, la possibile sfasatura tra i due flussi);
- alle esperienze di improvvisazione che prescindono dall’armonia;
- al valore compositivo che hanno le sostituzioni armoniche e l’uso di pedali e vamp;
- della complessa vicenda all’armonia modale nel jazz, degli esempi di politonalità e di
dodecafonia;
- delle diverse forme di improvvisazione e composizione collettiva, di pratiche
contrappuntistiche e di regolazione della polifonia;
- di composizioni senza improvvisazione; di tecniche di controllo compositivo del materiale (ad
esempio, il tema);
- della figura dell’arrangiatore come compositore.
La sintesi che viene fatta – alla fine dal capitolo sull’armonia - delle proposte di Kubik sulla
dimensione africana dell’armonia jazzistica apre un baratro sotto i più consolidati luoghi
comuni sul jazz e ci interroga sul come ci siamo abituati ad ascoltare e a significare il jazz.

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Il nono capitolo: le forme jazzistiche
Il nono capitolo – il più esteso del libro, circa un terzo del totale - è dedicata al diverso
articolarsi delle forme jazzistiche, anche se alcuni aspetti sono inevitabilmente anticipati nei
capitoli precedenti (l’analisi di vamp e pedali, affiancabile per certi aspetti all’uso dei
turnaround, è ad esempio fatta nel capitolo sull’armonia; in quel capitolo vi sono ugualmente
anticipati aspetti delle forme modali).
Il capitolo raccoglie, ripropone e sviluppa in maniera originale il lavoro impostato già molti anni
fa da Marcello Piras, di cui Stefano è – a mio giudizio – colui che ha colto meglio l’eredità (il
lavoro di Marcello ha preso nel frattempo strade diverse).

Il percorso del capitolo non segue una logica storica quanto una sequenza – giustificabile con
l’origine didattica di questo modello di articolazione delle forme - che va dal semplice al
complesso. Si inizia con la forma chorus derivata dalla canzone americana (descrivendo
anche le tecniche con cui è possibile manipolare questa forma) per approdare al grande
universo delle strutture multitematiche (con cui si apre la storia del jazz) e delle più complesse
costruzioni compositive del jazz (dalle suite di Ellington alla Third Stream Music, dalle fughe di
John Lewis alle “forme estese” di Mingus, dalle composizioni polimodali di Coltrane fino a
Nonaah di Roscoe Mitchell).

È qui che emerge – nel miglior modo e suffragata da una vera e propria montagna di esempi -
la complessità e la molteplicità delle prassi jazzistiche, spesso sacrificata da modelli
storiografici riduttivi e “progressivi”. Una complessità che la didattica del jazz – lascia
intendere l’autore – dovrebbe tenere più in conto.

Una lingua presente ovunque


Il libro si chiude tornando ad un livello interpretativo esplicitando in particolare un punto di
vista culturale che permette di guardare al jazz come una prassi di significazione
tipicamente afroamericana (il signifying trasportato da Samuel A. Floyd in ambito musicale).
Questo permette di ricondurre il jazz alla complessa vicenda della diaspora africana nel Nuovo
Mondo, senza smettere di essere anche una musica disponibile a tutti, che è stata ed è uno
degli strumenti con cui europei e ad euroamericani hanno potuto recuperare una “memoria
espressiva rimasta sepolta per secoli”
Il jazz – è la conclusione – come “dono trionfante di figli e nipoti di milioni di schiavi”, oggi
anche con altri nomi, è “una lingua presente ovunque” che “ha messo in moto una rinascita
della corporeità da cui non si è tornati indietro”.

Ancora qualche considerazione


Senza entrare nel merito della grandissima quantità di cose trattate nel libro, io vorrei dare
valore ad alcune di esse.

Questo è un libro importante, che sintetizza anni di lavoro, senza per questo diventare
troppo ingombrante per chi lo legge. Esso rende sempre visibile la vasta rete di persone che
hanno contribuito ad arricchire le idee e le competenze di chi lo ha scritto.

È un libro da cui ci si sente “nutriti”, non solo per la poderosa quantità di stimoli e
d’informazioni che contiene, spesso di prima mano, e per l’intelligenza con cui le organizza, ma
anche perché si sente l’amore ed il rispetto per i suoni di cui si parla e per chi li ha prodotti.
Meglio: perché è frutto di una qualità dell’ascolto che viene prima dell’analisi e che non è mai
competitiva con la musica ed il suono.

Rispetto a molta tradizione pubblicistica sul jazz, questo è un libro che fa piazza pulita del
tipico “risentimento” dell’esperto del settore, che deve per forza affermare il jazz “contro”
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qualcos’altro e che usa il jazz come un oggetto su cui proiettarsi, per legittimarsi, per
configgere con la cultura a cui crede di non appartenere o con altri fantasmi. Questo è un
antico nodo della critica jazz che qui appare finalmente sciolto.

Chi legge il libro, inoltre, non incappa mai in un uso esibito e pretenzioso del linguaggio,
soprattutto quello tecnico musicale, cosa che evidentemente corrisponde anche alla qualità
umana di chi lo ha scritto.

Ma forse il punto è un altro: il libro propone al lettore l’ascolto come un terreno di


condivisione. Come uno spazio comune, in cui si possono incontrare chi ha scritto il libro, chi
lo legge e il mondo dei suoni del jazz.
In questo modo Stefano ci propone un modo di guardare al jazz che non mette al centro
dell’attenzione il solo proprio sguardo. Questo libro, per intenderci, non è un esercizio di
potenza analitica e di controllo che fa a pezzi un repertorio e che lascia sulla scena solo il
narcisismo e il delirio d’onnipotenza dell’autore. Non ci vincola seduttivamente al potere che
esibisce sul proprio oggetto. Al contrario, ci lascia liberi nell’ascolto, proprio nel momento in
cui ci fornisce strumenti.
E infatti il jazz non ne esce a “pezzi” ma moltiplicato.

Ma, aggiungo, è anche un libro da leggere e rileggere, da studiare, smontare e rimontare,


come avrà fatto senz’altro l’autore nello scriverlo. È un libro con cui confrontarsi, che ci chiede
di andare oltre, di pensare altro. Un libro che ci chiama a discutere. A mettere insieme le idee
e le pratiche. A confrontarci su metodi ed esperienze.

Ci tengo che questo avvenga anche a Scuola e tra noi. Non vedo occasione migliore del libro di
Stefano

Claudio Vedovati

Bibliografia minima di riferimento

Stefano Zenni, I segreti del jazz. Una guida all’ascolto, Roma, Stampa Alternativa 2008
Gerhard Kubik, L’africa e il blues, Subbiaco, Fogli volanti, 2007 (traduzione a cura di G.
Adamo)
Vincenzo Caporaletti, I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale,
Lucca, Libreria Musicale Italiana 2005
Samuel A. Floyd, The Power of Black Music: Interpreting Its History from Africa to
United States, New York, Oxford University Press, 1995 (di prossima traduzione italiana)

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