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Omero

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«Fanciulle, qual valente cantore tra voi s'aggira, più


soave tra tutti, e che più gaie vi rende?
È un cieco, e dimora nella pietrosa Chio.»

(Pseudo-Omero, Inno ad Apollo)

Omero (in greco antico: Ὅμηρος, Hómēros) è il nome con cui è


identificato storicamente il poeta greco autore dell'Iliade e
dell'Odissea, i due massimi poemi epici della letteratura greca.
Nell'antichità gli furono attribuite anche altre opere, tra cui il
poemetto giocoso Batracomiomachia, i cosiddetti Inni omerici, il
poemetto Margite e diversi poemi del Ciclo epico.[1]

L'effettiva paternità della sua opera fu già posta in dubbio nei tempi
antichi (dal III sec. a.C., presso la scuola filologica di Alessandria
d'Egitto). In epoca moderna, a partire dalla seconda metà del
Seicento, si iniziò a mettere in discussione l'esistenza stessa del
poeta, inaugurando la cosiddetta questione omerica. Ritratto immaginario di Omero, copia
romana del II secolo d.C. di un'opera
greca del II secolo a.C. Conservato
al Museo del Louvre di Parigi.
Indice
Etimologia del nome
Tradizione biografica
La questione omerica[7]
L'età antica
La nuova formulazione moderna della questione
Analitici e unitari
L'ipotesi oralistica
La tradizione manoscritta
L'antichità
Il Medioevo
L'età moderna e contemporanea
Religione e antropologia in Omero[8]
L'interpretazione di Steiner
Opere
"Autentiche"
"Spurie"
Il testo d'Omero come enciclopedia del mondo greco
Il mondo di Omero
Onorificenze
Note
Bibliografia
Voci correlate
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Collegamenti esterni

Etimologia del nome


Il suo nome, probabilmente greco, è stato oggetto sin dall'antichità di varie spiegazioni paretimologiche:

1. ὁ μὴ ὁρῶν (ho mè horôn) "colui che non vede" (la tradizione infatti lo vuole cieco; la cecità ha
nell'antichità connotazione sacrale e spesso era simbolo di doti profetiche e di profonda
saggezza. La mancanza della vista era colmata dall'ispirazione proveniente dalle Muse; molti
aedi erano ciechi, anche Demodoco nell'Odissea);
2. ὅμηρος (hómēros) "l'ostaggio", "pegno", ma anche "il cieco" (come "persona che si
accompagna a qualcuno", da ὁμοῦ ἔρχομαι (homû érchomai), "vado insieme");
3. ὀμηρεῖν ("omērêin") "incontrarsi"; vi erano infatti delle piccole riunioni, definibili anche
assemblee, nei gruppi di "Omerìdi" che narravano quei canti che in seguito sarebbero stati i
costituenti dei poemi più famosi dell'età greca arcaica.

Tradizione biografica
La biografia tradizionale di Omero[2] che può ricostruirsi dalle fonti antiche è probabilmente fantasiosa. I
tentativi di costruire una biografia di colui che si è sempre ritenuto il primo poeta greco sono confluiti in un
corpus di sette biografie comunemente indicate come Vite di Omero. La più estesa e dettagliata è quella
attribuita, con tutta probabilità erroneamente, ad Erodoto, e perciò definita Vita Herodotea. Un'altra
biografia molto popolare tra gli antichi autori è quella attribuita, ma erroneamente, a Plutarco. Ad esse si
può aggiungere come ottava testimonianza di simili interessi biografici l'anonimo Agone di Omero ed
Esiodo. Alcune delle genealogie mitiche di Omero tramandate da queste biografie sostenevano che fosse
figlio della ninfa Creteide, altre lo volevano discendente di Orfeo, il mitico poeta della Tracia che rendeva
mansuete le belve con il suo canto.

Una parte notevolmente importante nella tradizione biografica di Omero verteva intorno alla questione della
sua patria. Nell'antichità ben sette città si contendevano il diritto di aver dato i natali a Omero: prime tra tutte
Chio, Smirne e Colofone, poi Atene, Argo, Rodi e Salamina. La maggioranza di queste città si trova
nell'Asia minore, e precisamente nella Ionia. In effetti, la lingua di base dell'Iliade è il dialetto ionico: questo
dato attesta però soltanto che la formazione dell'epica è probabilmente da collocarsi non nella Grecia
odierna, ma nelle città ioniche della costa anatolica, e non dice nulla sulla reale esistenza di Omero, né tanto
meno sulla sua provenienza.

L'Iliade contiene anche, oltre alla base ionica, molti eolismi (termini eolici). Pindaro suggerisce perciò che
la patria di Omero potrebbe essere Smirne: una città sulla costa occidentale dell'attuale Turchia, abitata
appunto sia da Ioni che da Eoli. Quest'ipotesi è stata però privata del suo fondamento quando gli studiosi si
sono resi conto che molti di quelli che venivano considerati eolismi
erano in realtà parole achee[3].

Secondo Semonide, invece, Omero era di Chio[4]; di certo sappiamo


solo che nella stessa Chio c'era un gruppo di rapsodi che si
definivano “Omeridi”. Inoltre, in uno tra i tanti inni a divinità che
vennero attribuiti ad Omero, l'Inno ad Apollo, l'autore definisce se
stesso “uomo cieco che abita nella rocciosa Chio”. Accettando
dunque come scritto da Omero l'Inno ad Apollo, si spiegherebbero
sia la rivendicazione dei natali del cantore da parte di Chio, sia
l'origine del nome (da ὁ μὴ ὁρῶν, ho mē horōn, il cieco). Erano
queste, probabilmente, le basi della convinzione di Simonide.
Tuttavia, entrambe le affermazioni, quella di Pindaro e quella di
Semonide, mancano di prove concrete.

Secondo Erodoto[5] Omero sarebbe vissuto quattrocento anni prima


della sua epoca, quindi verso la metà del IX secolo a.C.; in altre
biografie Omero risulta invece nato in epoca posteriore, perlopiù
Omero e la Sua Guida, di William- verso l'VIII secolo a.C.. La contraddittorietà di queste notizie non
Adolphe Bouguereau (1825–1905) aveva incrinato nei Greci la convinzione che il poeta fosse
veramente esistito, anzi aveva contribuito a farne una figura mitica,
il poeta per eccellenza. Anche sul significato del nome di Omero si
sviluppò la discussione. Nelle Vite, si dice che il vero nome di Omero sarebbe stato Melesigene, cioè
(secondo l'interpretazione contenuta nella Vita Herodotea) “nato presso il fiume Meleto”. Il nome Omero
sarebbe quindi un soprannome: tradizionalmente lo si faceva derivare o da ὁ μὴ ὁρῶν (il cieco), oppure da
ὅμηρος (homēros, che significherebbe ostaggio).

Inevitabilmente un'ulteriore discussione si accese sul rapporto cronologico esistente tra Omero e l'altro
cardine della poesia greca, Esiodo. Come si può vedere dalle Vite[6], c'era sia chi pensava che Omero fosse
vissuto in età anteriore ad Esiodo, sia chi riteneva che fosse invece più giovane, e anche chi li voleva
contemporanei. Nel già citato Agone si racconta di una gara poetica tra Omero e Esiodo, indetta in occasione
dei funerali di Anfidamante, re dell'isola di Eubea. Al termine della gara, Esiodo lesse un passo delle Opere
e Giorni dedicato alla pace e all'agricoltura, Omero uno dell'Iliade consistente in una scena di guerra.

Per questo il re Panede, fratello del morto Anfidamante, assegnò la vittoria ad Esiodo. Sicuramente, in ogni
caso, questa leggenda è del tutto priva di fondamento. Sostanzialmente, in conclusione, nessuno dei dati
fornitici dalla tradizione biografica antica consente affermazioni anche solo possibili per stabilire la reale
esistenza storica di Omero. Anche per queste ragioni, oltre che sulla base di considerazioni approfondite
sulla probabile composizione orale dei poemi (cfr. più sotto), la critica ha ormai da tempo quasi
generalmente concluso che non sia mai esistito un distinto autore di nome Omero a cui ricondurre nella loro
integrità i due poemi maggiori della letteratura greca.

La questione omerica[7]

L'età antica

I numerosi problemi relativi alla reale esistenza storica di Omero e alla composizione dei due poemi diedero
origine a quella che si è soliti definire "questione omerica", che per secoli ha cercato di stabilire se fosse mai
realmente esistito un poeta di nome Omero e quali opere, tra tutte quelle legate alla sua figura, gli si
potessero eventualmente attribuire; o, in alternativa, quale sia stato il processo di composizione dell'Iliade e
dell'Odissea. La paternità della questione viene tradizionalmente attribuita a tre studiosi: François Hédelin
abate d'Aubignac (1604-1676), Giambattista Vico (1668-1744) e
soprattutto Friedrich August Wolf (1759-1824).

I dubbi intorno ad Omero e alla reale entità della sua produzione


sono però ben più antichi. Già Erodoto, in un passo della sua storia
delle guerre persiane (2, 116-7), dedica una breve digressione alla
questione della paternità omerica dei Cypria, concludendo, in base a
incongruenze narrative con l'Iliade, che essi non possano essere
opera di Omero, ma debbano essere attribuiti ad un altro poeta.

La prima testimonianza relativa a una redazione complessiva, nella


forma dei due poemi, dei vari canti prima diffusi separatamente
risale fino al VI secolo a.C., ed è legata al nome di Pisistrato, tiranno
di Atene tra il 561 e il 527 a.C. Dice infatti Cicerone nel suo De
Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse
dicitur, ut nunc habemus” (Si dice che Pisistrato per primo avesse
ordinato i libri di Omero, prima confusi, così come ora li abbiamo).
Scultura del 1812 raffigurante
È stata così sostenuta un'ipotesi secondo cui nella biblioteca che,
Omero, oggi esposta al museo
stando ad alcune fonti, Pisistrato avrebbe organizzato ad Atene fosse Louvre di Parigi
contenuta l'Iliade di Omero, fatta realizzare dal figlio Ipparco.
Tuttavia, la tesi della cosiddetta "redazione pisistratea" è stata
screditata, così come l'esistenza stessa di una biblioteca ad Atene nel VI secolo a.C.: il filologo italiano
Giorgio Pasquali affermava che, supponendo l'esistenza di una biblioteca ad Atene in quel periodo, non si
vede cosa avrebbe potuto contenere, per il numero ancora relativamente ridotto di opere prodotte e per l'uso
non ancora preminente della scrittura a cui affidarle.

Una parte dei critici antichi, rappresentata soprattutto dai due grammatici Xenone ed Ellanico, noti come i
χωρίζοντες (chorizontes, ovvero "separatisti"), confermavano invece l'esistenza di Omero, ma ritenevano
che non tutti e due i poemi fossero da ricondurre a lui, e perciò gli attribuivano unicamente l'Iliade, mentre
ritenevano l'Odissea composta oltre cent'anni dopo da un ignoto aedo.

Nell'antichità furono soprattutto Aristotele e i grammatici alessandrini a occuparsi della questione. Il primo
affermava l'esistenza di Omero, ma, tra tutte le opere legate al suo nome, gli attribuiva la composizione
soltanto di Iliade, Odissea e Margite. Fra gli alessandrini, i grammatici Aristofane di Bisanzio e Aristarco di
Samotracia formularono l'ipotesi destinata a restare la più diffusa fino all'avvento dei filologi oralisti. Essi
sostenevano l'esistenza di Omero e gli attribuivano soltanto l'Iliade e l'Odissea; inoltre, sistemarono le due
opere nella versione che possediamo oggi e ne espunsero i passi a loro dire corrotti e integrarono alcuni
versi.

Una precisazione della tesi di Aristarco si può considerare la conclusione, dovuta a ragioni stilistiche, a cui
giunge l'anonimo del Sublime, secondo cui Omero avrebbe composto l'Iliade in giovane età e l'Odissea da
anziano.

La nuova formulazione moderna della questione

«La poesia viva, quella che dà vita a tutto ciò che tocca, è di tutti i tempi e di tutti i paesi, e
per questa qualità divina il poeta più moderno di tutti i tempi è Omero»

(Mario Rapisardi)
Simili discussioni ricevettero uno scossone con la composizione dell'opera dell'abate d'Aubignac
Conjectures académiques ou dissertation sur l'Iliade (1664, ma pubblicata postuma nel 1715), in cui si
sosteneva che Omero non fosse mai esistito, e che i poemi come noi li leggiamo siano il frutto di
un'operazione redazionale che avrebbe riunito in un unico testo episodi epici originariamente isolati.

In questa nuova fase della critica omerica, la posizione di Giambattista Vico, che solo in epoca recente è
entrata a far parte della storia della “questione omerica”, riveste in realtà un ruolo importantissimo. Proprio
nel capitolo della Scienza Nuova (ultima edizione del 1744) dedicato a “la discoverta del vero Omero” si ha
infatti la prima formulazione dell'oralità originaria della composizione e della trasmissione dei poemi. In
Omero, secondo Vico (come già aveva affermato d'Aubignac, che Vico non conosceva), non bisogna
riconoscere una reale figura storica di poeta, ma "il popolo greco poetante", ossia una personificazione della
facoltà poetica del popolo greco.

Nel 1788 vengono infine pubblicati da Jean-Baptiste-Gaspard d'Ansse de Villoison gli scolii omerici
contenuti a margine del più importante manoscritto dell'Iliade, il Veneto Marciano A, che costituiscono una
fonte fondamentale di conoscenze sull'attività critica compiuta sui poemi in età ellenistica. Lavorando su
questi scolii, Friedrich August Wolf nei celebri Prolegomena ad Homerum (1795) tracciò per la prima volta
la storia del testo omerico qual è ricostruibile per il periodo che va da Pisistrato fino all'epoca alessandrina.
Spingendosi poi ancora più indietro, Wolf avanzò nuovamente l'ipotesi che già era stata di Vico e di
d'Aubignac, sostenendo l'originaria composizione orale dei poemi, che poi sarebbero stati trasmessi sempre
oralmente almeno fino al V secolo a.C.

Analitici e unitari

Le conclusioni di Wolf secondo cui i poemi omerici non sarebbero opera di un singolo poeta, ma di più
autori che operavano oralmente, portarono la critica a orientarsi in due schieramenti. La prima a svilupparsi
fu la cosiddetta critica analitica o separatista: sottoponendo i poemi ad una capillare indagine linguistica e
stilistica, gli analitici si proponevano di individuare tutte le eventuali cesure interne ai due poemi con lo
scopo di riconoscere le personalità dei diversi autori di ogni episodio. I principali analitici (chorizontes)
furono: Gottfried Hermann (1772-1848), secondo cui i due poemi omerici deriverebbero da due nuclei
originali ("Ur-Ilias", intorno all'ira di Achille, e "Ur-Odyssee", incentrata sul ritorno di Odisseo), a cui
sarebbero state fatte aggiunte ed ampliamenti; Karl Lachmann (1793-1851), le cui teorie trovano una certa
analogia con quelle di Hédelin d'Aubignac, secondo cui la Iliade sarebbe composta da 16 canti popolari
riuniti e poi trascritti per ordine di Pisistrato (Kleinliedertheorie); Adolf Kirchoff, che, studiando l'Odissea,
teorizzò che fosse composta da tre poemi indipendenti (la Telemachia, il νόστος o viaggio di ritorno di
Ulisse e l'arrivo in patria); Ulrich von Wilamowitz Moellendorff (1848-1931), il quale sosteneva che Omero
avesse raccolto e rielaborato dei canti tradizionali, organizzandoli attorno ad un unico tema.

A questo indirizzo della critica si opposero naturalmente le posizioni di quegli studiosi che, come Wolfgang
Schadewaldt, credevano di poter trovare nei vari rimandi interni ai poemi, nei procedimenti di anticipazione
di episodi non ancora avvenuti, nella distribuzione dei tempi e nella struttura dell'azione le prove di un'unità
d'origine nella concezione delle due opere. I due poemi sarebbero stati composti fin dall'inizio in modo
unitario, con una struttura ben congegnata e una serie di episodi appositamente predisposti in vista di un
fine, senza con ciò negare eventuali inserzioni avvenute in seguito, nel corso dei secoli e col procedere delle
recitazioni. È senz'altro significativo che proprio Schadewaldt, uno degli esponenti principali della corrente
unitaria, abbia anche dato fede al nucleo centrale, se non ai singoli dettagli narrativi, delle Vite omeriche,
cercando di estrapolare la verità dalla leggenda e di ricostruire una figura di Omero storicamente verosimile.

L'ipotesi oralistica
Almeno nei termini in cui era tradizionalmente formulata, la
questione omerica è lontana dall'essere risolta, perché in realtà è
probabilmente insolubile. Nel secolo scorso, le domande ormai
classiche intorno a cui si era fino allora imperniata la questione
omerica cominciarono in effetti a perdere di senso di fronte a una
nuova impostazione del problema resa possibile dagli studi sui
processi di composizione dell'epica nelle culture pre-letterarie
effettuati sul campo da alcuni studiosi statunitensi.

Il pioniere di questi studi, e il principale tra quelli che vengono


definiti "filologi oralisti", fu Milman Parry, studioso statunitense,
che formulò la prima versione della sua teoria in L'epithète
traditionelle dans Homère. Essai sur un problème de style
homérique (1928). Nella teoria di Parry (che non era specificamente
un omerista), auralità e oralità sono la chiave di lettura: gli aedi
avrebbero cantato improvvisando, o meglio impostato elementi via
via innovativi su una matrice standard; oppure avrebbero declamato
al pubblico dopo aver composto in forma scritta. Ebbene Parry
Busto di Omero nel museo di
ipotizzò un primo momento in cui i due testi dovettero circolare di Ercolano
bocca in bocca, da padre in figlio, esclusivamente in forma orale;
successivamente per esigenze pratiche ed evolutive intervenne
qualcuno ad unificare, quasi "cucendoli", i vari tessuti dell'epos omerico, e questo qualcuno potrebbe essere
un Omero realmente vissuto o un'équipe rapsodica specializzata sotto il nome "Omero". Il centro della
ricerca di Parry riguarda, come dichiara il titolo del suo saggio, l'epiteto tradizionale epico, cioè l'attributo
che accompagna il nome nei testi omerici (“piè veloce Achille”, per esempio), che viene studiato nel
contesto del nesso formulare che l'insieme nome-epiteto determina. Le conclusioni cardine della teoria di
Parry si possono così riassumere:

l'epiteto è fisso ed il suo utilizzo è determinato non dal suo significato, ma dal valore metrico
che la coppia nome-epiteto viene ad assumere nel verso;
l'epiteto ha funzione esclusivamente ornamentale: non aggiunge cioè al nome che
accompagna una specificazione necessaria, e spesso nemmeno coerente con le
caratteristiche del personaggio che qualifica (Menelao, ad esempio, è costantemente definito
nell'Iliade “forte nel grido” anche se non grida mai, e allo stesso modo personaggi moralmente
negativi possono essere qualificati con l'aggettivo “valoroso”);
l'epiteto è tradizionale, gli epiteti, cioè, fanno parte di un repertorio d'uso a disposizione dei
poeti, che non hanno perciò bisogno di crearne di nuovi, ma attingono a una preesistente
tradizione di aedi.

I principi così costituiti della tradizionalità e formularità della dizione epica portano Parry a pronunciarsi
sulla questione omerica, distruggendone i presupposti in nome dell'unica certezza che un simile studio
formulare dei poemi consente di raggiungere: nella loro struttura, l'Iliade e l'Odissea sono assolutamente
arcaici, ma questo permette solo di affermare che essi rispecchiano una tradizione consolidata di aedi.
Questo giustifica la somiglianza stilistica esistente tra i due poemi. Non consente però di dire nulla di certo
sul loro autore, né su quanti possano esserne stati gli autori.

Subito le tesi di Parry vennero estese su un campo più ampio della coppia nome-epiteto. Walter Arend, in un
celebre libro del 1933 (Die typischen Szenen bei Homer), riproponendo le tesi di Parry, notava che non
solamente ci sono delle ripetizioni di segmenti metrici, ma anche scene fisse o tipiche (discesa dalla nave,
descrizione dell'armatura, morte dell'eroe, etc.), vale a dire scene che si ripetono letteralmente ogni volta che
si ripresenta un identico contesto nella narrazione. Individuò quindi dei canoni compositivi globali, che
avrebbero organizzato l'intera narrazione: il catalogo, la ring composition e lo schidione.
Infine, Eric Havelock ipotizzò che l'opera omerica fosse in realtà un'enciclopedia tribale: i racconti
sarebbero serviti ad insegnare la morale o trasmettere la conoscenza e quindi l'opera avrebbe dovuto essere
costruita secondo una struttura educativa.

La tradizione manoscritta

L'antichità

L'Iliade e l'Odissea vennero fissate per iscritto nella Ionia di Asia,


intorno all'VIII secolo a.C.: la scrittura venne introdotta nel 750 a.C.
circa; si è supposto che trent'anni dopo, nel 720 a.C., gli aedi
(cantori professionisti) potessero già utilizzarla. È probabile che più
aedi abbiano cominciato ad usare la scrittura per fissare testi che
affidavano completamente alla memoria; la scrittura era null'altro
che un nuovo mezzo per agevolare il proprio lavoro, sia per poter
lavorare più facilmente sui testi, sia per non dover affidare tutto alla
memoria.
Moneta da 50 Dracme raffigurante
Nell'epoca dell'auralità il magma epico cominciò a sedimentarsi Omero
nella sua struttura, pur mantenendo una certa fluidità.

È probabile che inizialmente ci fossero un grandissimo numero di episodi e sezioni rapsodiche legati al
Ciclo Troiano; vari autori, nell'epoca dell'auralità (cioè intorno al 750 a.C. circa) operarono una cernita,
scegliendo da questa ingente mole di racconti un numero sempre più esiguo di sezioni, numero che se per
Omero fu 24, per altri autori poteva essere 20, o 18, o 26, o anche 50. Quel che è certo è che la versione di
Omero si impose sulle altre; benché dopo di lui altri aedi avessero continuato a selezionare continuamente
episodi per creare la “loro” Iliade, essi tennero conto che la versione dell'Iliade più in voga era quella di
Omero. In sostanza, non tutti gli aedi cantavano la stessa Iliade, e non si arrivò mai ad avere un testo
standard per tutti; c'erano una miriade di testi simili tra loro, ma con leggere differenze.

Durante l'auralità, Il poema non ha ancora una struttura definitivamente chiusa.

Non possediamo l'originale più antico dell'opera, ma è probabile che già nel VI secolo a.C. ne circolassero
degli esemplari.

L'auralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. Dagli scolii omerici abbiamo notizia di edizioni
dei poemi preparate dalle singole città e dette perciò κατὰ πόλεις (kata poleis): Creta, Cipro, Argo e
Marsiglia avevano ciascuna la sua versione locale dei poemi di Omero. Le varie edizioni κατὰ πόλεις non
erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Abbiamo anche notizia di edizioni precedenti
all'ellenismo, dette πολυστικός, “con molti versi”; queste edizioni si caratterizzavano per un numero di versi
maggiore di sezioni rapsodiche rispetto alla vulgata alessandrina; varie fonti ce ne parlano, ma non ne
conosciamo l'origine.

Oltre a queste edizioni approntate dalle diverse città, sappiamo anche dell'esistenza di edizioni κατ'ἄνδρα
(kat'andra), cioè preparate da singoli individui per personaggi illustri che desideravano avere delle edizioni
proprie. Un esempio celebre è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell' Odissea
per farla leggere ad Alessandro Magno, suo discepolo, intorno alla fine del IV secolo a.C.

In questo stato di cose, i poemi omerici furono inevitabilmente soggetti ad alterazioni e interpolazioni per
quasi quattro secoli prima dell'età alessandrina. I rapsodi, recitando il testo trasmesso per via orale, e quindi
non fissato stabilmente, vi potevano inserire o sottrarre parti, invertire l'ordine di certi episodi, accorciarne o
ampliarne certi altri. Inoltre, poiché l'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare
(generalmente i piccoli greci imparavano a leggere esercitandosi sui poemi di Omero) non è improbabile che
i maestri semplificassero i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini, anche se la
critica recente tende a minimizzare la portata di questi interventi scolastici.

Probabilmente più estesi furono gli interventi mirati a correggere alcuni particolari scabrosi appartenenti a
usanze e credenze non più in accordo con la mentalità più moderna, specialmente per quanto riguarda
l'atteggiamento nei confronti delle divinità. In effetti, fin dall'inizio la rappresentazione eccessivamente
terrena degli dèi omerici (litigiosi, lussuriosi e sostanzialmente non estranei ai vari vizi degli uomini) turbò i
destinatari più attenti (celebre è soprattutto la critica rivolta alle divinità omeriche da Senofane di Colofone).
Gli scolii attestano un certo numero di interventi, anche piuttosto cospicui (a volte potevano venire
soppresse anche decine di versi consecutivi) intesi proprio a smussare questi aspetti non più compresi o
condivisi.

Alcuni studiosi ritengono che, col tempo, si sia arrivati a una sorta di testo base attico, una vulgata attica (la
parola vulgata viene usata dagli studiosi in riferimento alla Vulgata di San Girolamo, che all'inizio dell'era
cristiana analizzò le varie versioni latine della Bibbia esistenti e le unificò in un testo latino definitivo, che
chiamò appunto vulgata – per il volgo, da divulgare).

Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del
testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché egli era universalmente
riconosciuto come il padre della letteratura greca. Il lavoro degli alessandrini viene in genere indicato col
termine emendatio, versione latina del greco διὼρθωσις, che consisteva nell'eliminare le varie interpolazioni
e nel ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme.
Si arrivò dunque ad un testo definitivo. Il contributo principale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la
metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso forse elaborò la numerazione alfabetica dei
libri e quasi sicuramente inventò un segno critico, l'obelos, per indicare i versi a suo parere interpolati;
Aristofane di Bisanzio, di cui non resta nulla, ma pare fosse stato un gran commentatore, inserì il prosodio, i
segni critici (come la crux) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia operò un'ampia (e oggi considerata
eccessiva) atticizzazione, dal momento che egli era convinto che Omero fosse di Atene, e si occupò di
scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi anche di mettere un obelos con le altre lezioni
scartate; non è ancora chiaro in quale misura si sia basato sul proprio giudizio e in quale invece sulla
comparazione delle varie copie a sua disposizione.

Il testo di Aristarco finì con l'imporsi su quello dei suoi predecessori, ma il testo dell'Iliade oggi a nostra
disposizione è piuttosto diverso da quello di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare
lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; la vulgata alexandrina corrisponde quindi alla nostra solo per il
10%. Questo dimostra che il testo della vulgata alessandrina non era definitivo; è probabile che nella stessa
biblioteca d'Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni
dell'Iliade. I motivi per cui il testo alessandrino di Aristarco non riuscì a influenzare fortemente la tradizione
sono spiegate dal grecista Raffaele Cantarella: per quanto elaborato a livello critico, il testo aristarcheo era
stato realizzato in un ambiente culturalmente elitario di una zona periferica del mondo greco com'era
Alessandria; è quindi inevitabile che anche in età ellenistica circolassero più versioni del testo omerico,
probabilmente influenzate dalle varie tradizioni orali e rapsodiche.

Secondo l'interpretazione più probabile, i grammatici alessandrini spiegavano le loro scelte testuali in
commenti separati, a cui rimandavano i vari segni critici apposti al testo vero e proprio. Questi commenti si
definivano con il termine ὑπομνήματα (commentarii), nessuno dei quali si è conservato. Da essi derivano
però le osservazioni marginali tramandate insieme al testo dei poemi nei codici medievali, gli scolii
(σχόλια), che rappresentano per noi dei ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Il
nucleo fondamentale di questi scolii si formò probabilmente nei primi secoli dell'era cristiana: quattro
grammatici (Didimo, Aristonico, Nicanore e Erodiano), vissuti tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi
alessandrini, dedicarono ai poemi omerici (soprattutto l'Iliade), dei commenti linguistici e filologici che si
rifacevano alle osservazioni critiche dei grammatici alessandrini. Gli studi di questi quattro grammatici
vennero poi compendiati da uno scoliasta successivo (forse di epoca bizantina) nell'opera comunemente nota
come Commento dei Quattro.

Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, circolavano quindi il testo alessandrino e
residui di altre versioni. Di certo gli alessandrini stabilirono il numero di versi e la suddivisione dei libri.

Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da
quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto
quanto.

Il Medioevo

Nel Medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o
Petrarca; uno dei pochi a conoscerlo era Boccaccio, che ne apprese i primi rudimenti a Napoli dal monaco
calabrese Barlaam e ne consolidò in seguito la conoscenza grazie alla collaborazione con il grecista Leonzio
Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana.

Prima del lavoro dei grammatici Alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di
esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla κοινὴ omerica bisogna aspettare il 150
a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea.

Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì in modo significativo a questi studi.

L'età moderna e contemporanea

Nel 1920 ci si rese conto che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quell'anno,
escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e perché non si riesce a risalire ad un
archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo d.C., quando a Costantinopoli il
patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in
minuscolo; quelli che non furono traslitterati, sono andati persi. Per Omero tuttavia non esiste un solo
archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente.

Il nostro più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454a, conservato nella
Biblioteca Marciana di Venezia, che risale al X secolo d.C.: nel corso del XV secolo fu portato in Occidente
da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo d.C.

L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni
veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben tre volte, nel 1504, 1517,
1521, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.

Un'edizione critica dell'Iliade fu pubblicata nel 1909 a Oxford a cura di David Binning Monro e Thomas
William Allen. L'Odissea fu edita nel 1917 da Allen.

Religione e antropologia in Omero[8]


La religione greca era fortemente ancorata al mito e infatti in Omero si dispiega tutta la religione olimpica
(carattere panellenico).

Secondo alcuni, la religione omerica ha forti caratteri primitivi e recessivi:


antropomorfismo: gli dei hanno, oltre all'aspetto, anche le
passioni in comune con gli uomini
zoomorfismo: alcuni dei greci conservano tracce di antichi
dei totemici, zoomorfi, nei loro epiteti ferini.
insufficienza escatologica e mistica: non c'è una cultura
dell'aldilà e un contatto diretto con la divinità, fatta
eccezione per i culti misterici (ad esempio il dionisismo)
insufficienza etica: manca la punizione divina

Secondo Walter F. Otto, la religione omerica è il modello più Jean-Auguste-Dominique Ingres,


avanzato che la mente umana abbia mai concepito, perché scinde L'Apoteosi di Omero
l'essere dall'essere stato.

L'uomo omerico è particolaristico, perché è la somma di parti diverse:

σῶμα (sòma): il corpo


ψυχή (psyché): il soffio vitale
θυμός (thymòs): il centro affettivo
φρήν (fren): il centro razionale
νοῦς (nùs): l'intelligenza

L'eroe omerico basa il riconoscimento del proprio valore sulla considerazione che la società ha di lui. Questa
affermazione è vera a tal punto che alcuni studiosi, in particolare E. Dodds, definiscono tale società come
"società della vergogna". Infatti non è tanto la colpa oppure il peccato, ma la vergogna a sancire il
decadimento dell'eccellenza dell'eroe, la perdita della sua condizione di esemplarità. Quindi un eroe diviene
modello per la propria società nella misura in cui gli vengono riconosciute azioni eroiche, mentre in caso
queste non gli vengano più attribuite, decade da essere modello e sprofonda nella vergogna.

L'eroe aspira dunque alla gloria (κλέος) e possiede tutte le qualità per conquistarla: vigore fisico, coraggio,
forza di sopportazione. Egli non è solamente forte, ma anche bello (καλός καὶ ἀγαθός, bello, valoroso e
virtuoso; kalokagathia) e solo altri eroi possono affrontarlo e vincerlo. I grandi guerrieri sono anche
eloquenti, tengono lunghi discorsi nell'assemblea prima e durante il combattimento. Siamo in una società
dominata dall'aristocrazia guerriera in cui la nobiltà di stirpe è sottolineata dalla menzione del padre, della
madre e spesso anche degli antenati. L'eroe ha o desidera avere discendenza maschile per perpetuare il
prestigio della famiglia in quanto la società è essenzialmente una società di uomini, perché l'uomo
rappresenta la continuità della stirpe: è lui che viene ucciso, mentre le donne sopravvivono come preda di
guerra e diventano le schiave o concubine dei vincitori. Il premio del valore, oltre che la vittoria sul nemico,
è rappresentato anche dalla preda, perciò gli eroi omerici sono ricchi e avidi di ricchezza ed in patria
possiedono terre, bestiame, oggetti preziosi.

Agamennone deve accompagnare con regali l'ambasceria che invia ad Achille; questi restituisce il cadavere
di Ettore, perché così vogliono gli dei, ma nel contempo accetta i preziosi pepli, i talenti d'oro e gli altri
oggetti che gli offre Priamo. Le discordie tra eroi sono inevitabili dato che essi sono molto gelosi del loro
onore (τιμή), come appare ad esempio nello scontro tra Agamennone ed Achille in cui ciascuno si sentirebbe
sminuito nel proprio onore se cedesse (Agamennone esercita i diritti di un re, ad Achille è stato tolto quello
che gli spettava come al più forte dei guerrieri). Sconosciuta è la pietà per i vinti, a maggior ragione se si
tratta di vendetta: Telemaco impicca di sua mano le ancelle infedeli; Ettore non riesce ad ottenere da Achille
neanche l'impegno di restituire il suo corpo. Ma egli aveva ucciso Patroclo, e l'amicizia è un tratto essenziale
del mondo eroico. La morte viene sempre accettata con naturalezza e in battaglia essa è l'unica alternativa
alla vittoria: così vuole l'onore(anche se in realtà molti eroi si volgono alla fuga, e sono rampognati o
criticati per essere fuggiti, sia tra i greci, inclusi Odisseo e Diomede, sia tra i troiani, come Enea). E la
narrazione omerica è dignitosa e pacata anche nel descrivere gli orrori della battaglia, le ferite, le uccisioni.
Nessuna ricompensa attende l'eroe nell'aldilà: egli riceve gli onori funebri dovuti al proprio rango. Quanto
alle figure femminili esse sono complesse ed il loro ruolo è prevalentemente passivo, di sofferenza e di
attesa, sono le vittime eterne della guerra (Andromaca, Penelope).[9] Comunque, a differenza di altri poeti
successivi, vi è una certa di neutralità verso la figura di Elena, vista come portatrice di un proprio fato, e non
traditrice o ingannatrice.

La concezione degli dei in Omero è, come già accennato, antropomorfa. Le alterne vicende della guerra
vengono decise sull'Olimpo. Gli dei parlano ed agiscono come mortali. Hanno qualità umane in misura
incomparabilmente superiore. Il loro riso è inestinguibile (Ἄσβεστος γέλος, ásbestos gélos, "riso
inestinguibile"[10]), la loro vita trascorre in mezzo a festosi banchetti: è ciò che l'uomo sogna. I loro
sentimenti, i moti dell'animo sono umani: si provocano a vicenda, sono sensibili all'adulazione, iracondi e
vendicativi, cedono alle seduzioni, se commettono una colpa possono anche essere puniti. Marito e moglie si
tradiscono a vicenda, di preferenza con esseri mortali, senza che questi episodici amori mettano in pericolo
le istituzioni divine. Sugli uomini hanno un potere assoluto, talvolta capriccioso, e ne fanno un uso anche
crudele. Era acconsentirebbe che Zeus distruggesse Argo, Sparta, Micene, le tre città a lei care, purché
appaghi il suo desiderio e faccia rompere la tregua tra Greci e Troiani. Gli dei assistono i mortali nei
pericoli, spesso sono teneri, ma possono anche essere spietati. Atena attira Ettore nel duello mortale
presentandosi a lui sotto forma del fratello Deifobo e l'eroe, ignaro, la segue; intanto Apollo è fuggito
davanti ad Achille e ha abbandonato al suo destino il proprio guerriero prediletto. Esiste poi, al di sopra
degli dei, la Moira (Μοῖρα), il Fato.[11][12] Gli dei sono immortali, ma non invulnerabili, Diomede, nel V
libro dell'Iliade, ferì consecutivamente Afrodite e Ares.

Gli dei citati da Omero sono sia molti di quelli presenti anche nella mitologia micenea, sia quelli che si
aggiunsero successivamente, a capo degli Olimpi è posto Zeus, e non Poseidone come pare all'epoca dei
palazzi micenei, la maggior parte delle divinità post-micenee (come Apollo) parteggia per i Troiani.

L'interpretazione di Steiner

Secondo Rudolf Steiner la poesia epica come quella di Omero trae un’ispirazione divina. Nell’incipit
dell’Iliade troviamo: «Cantami, o diva, del pelide Achille…», così come nell’Odissea: «Musa, quell’uom di
multiforme ingegno…» In entrambi i casi si fa riferimento alla divinità come fonte ispirativa, come
“pensiero” che guidi la mano affinché possa esprimere ciò che la divinità vuole trasmettere agli umani.[13]

Opere

"Autentiche"
Iliade (ca. IX secolo-VIII secolo a.C.), poema epico che narra le vicende dell'ultimo anno della
guerra di Troia.
Odissea (ca. IX secolo-VIII secolo a.C.), poema che narra le vicende del viaggio di ritorno di
Odisseo (Ulisse) ad Itaca.

"Spurie"
Inni omerici, vari inni ai maggiori dodici Dei dell'Olimpo.
Batracomiomachia, poema eroicomico che narra le vicende di una guerra tra il Regno dei Topi
e il Regno dei Ranocchi.
Margite, poema parodistico che narra in maniera comica i viaggi di Margite, che sarebbe
l'opposto di Odisseo dell'Odissea.
Il testo d'Omero come enciclopedia del
mondo greco
Per secoli nel mondo greco il testo di Omero era considerato come
fonte di ogni insegnamento e anche nei secoli successivi i poemi
omerici oltre che prodigiose creazioni poetiche, sono altresì
straordinarie fonti per la comprensione delle consuetudini politiche,
delle tecniche metallurgiche, edilizie, dei consumi alimentari delle
popolazioni mediterranee in età protostorica.

I versi di Omero hanno assicurato agli archeologi mille fili per


l'interpretazione dei reperti di scavo nelle sfere più lontane della vita
civile. Se, peraltro, l'Iliade non propone elementi significativi per lo
studio della prima agricoltura e dell'allevamento nel mondo egeo,
l'Odissea fornisce alcuni elementi di rilievo assolutamente singolare:
ospite del re dei Feaci, Odisseo ne visita gli orti, vero prodigio di
agricoltura irrigua, sbarcato a Itaca si arrampica tra i boschi e giunge
alla porcilaia costruita dal proprio servo Eumeo, un autentico
"impianto di allevamento" per 600 scrofe, quindi migliaia di Frontespizio di un'edizione
maialetti: autentico precorrimento degli allevamenti moderni. Due cinquecentesca dell' Iliade
cultori autorevoli dell'agricoltura primitiva, Antonio Saltini, docente
di storia dell'agricoltura, e Giovanni Ballarini, docente di patologia
veterinaria, hanno proposto, in base ai versi di Omero, due stime contrapposte della quantità di ghiande che
potevano produrre i querceti di Itaca, e del numero di suini che l'Isola fosse, quindi, in grado di
mantenere.[14]

Incontrando il padre, Odisseo gli ricorda, quindi, le piante diverse che il vecchio gli aveva donato per il suo
primo giardino, menzionando 13 varietà di pero, 10 di melo, 40 di fico e 50 di uve diverse, la prova
dell'intensità della selezione cui l'uomo aveva già sottoposto le specie fruttifere all'alba del primo millennio
a.C.

Il mondo di Omero

Il mondo viene descritto da Omero come un disco del diametro di quattromila chilometri: Delfi, e quindi la
Grecia, è il centro del disco. Questo disco, anch'esso divino e indicato con il nome di Gaia(Γαῖα, anche Γῆ,
Gea), è a sua volta circondato da un largo fiume (e dio) indicato con il nome di Oceano(Ὠκεανός, Ōkeanós)
le cui acque corrispondono all'oceano Atlantico, al mar Baltico, al mar Caspio, alle coste settentrionali
dell'oceano Indiano e al confine meridionale della Nubia. Il Sole (divino anch'esso e indicato con il nome di
Helios, Ἥλιος) attraversa nella sua rotazione questo disco, ma il suo volto lucente illumina solo esso, ne
consegue che il mondo al di là del disco e quindi della rotazione del sole, ovvero ciò che è oltre il fiume
Oceano risulti privo di luce. Da Oceano hanno origine le altre acque, anche quelle infere come lo Stige
attraverso connessioni sotterranee[15]. Quando i corpi celesti tramontano si bagnano nell'Oceano[16], così lo
stesso Sole, dopo essere tramontato, lo attraversa per mezzo di una coppa d'oro per risorgere da Oriente il
mattino seguente[17]. Al di là del fiume Oceano, c'è il buio, vi sono le aperture all'Erebo, il mondo
sotterraneo. Lì, presso queste aperture, vivono i Cimmeri.

Il disco terrestre circondato dal dio-fiume Oceano è suddiviso in tre parti: nord-ovest abitato dagli
Iperborei[18]; il meridione, dopo l'Egitto, è abitato dai devoti Etiopi, uomini dal volto bruciato dal Sole, oltre
le terre nelle quali vivono i nani Pigmei (Πυγμαῖοι); tra queste due estremità vi è la zona temperata del
Mediterraneo nel cui centro si colloca la Grecia. Dal punto di vista verticale, il mondo omerico ha come
tetto il Cielo (divino anch'esso con il nome di Urano, Οὐρανός Ouranós), costituito di bronzo, il quale
delimita il percorso del Sole. Ai limiti del Cielo volteggiano gli dèi che amano sedersi sulle cime dei monti e
da lì contemplare le vicende del mondo. Dimora degli dèi è uno di questi, il monte Olimpo. Sotto la Terra si
situa il Tartaro (Τάϱταϱος, Tártaros; divinità anch'essa), luogo buio, dove sono incatenati i Titani (Τιτάνες
Titánes), divinità sconfitte dagli Dei, luogo circondato da mura di bronzo e chiuso da porte fabbricato da
Poseidone. La distanza posta tra la sommità di Urano e la Terra, dice Esiodo nella Teogonia[19], è
percorribile da un'incudine lasciata da lì cadere che raggiungerà la superficie della Terra all'alba del decimo
giorno; medesima distanza oppone la Terra dalla base del Tartaro. Tra l'Urano e il Tartaro si situa dunque
quel "mondo di mezzo" abitato da Dei celesti e sotterranei, semidei, uomini e animali, dai vivi e dai morti.

Onorificenze
Ad Omero sono stati intitolati il cratere Homer, sulla superficie di Mercurio, e un asteroide, 5700 Homerus.

Note
1. ^ Omero (http://www.emsf.rai.it/biografie/anagrafico.asp?d=552) Archiviato (https://web.archiv
e.org/web/20140110201628/http://www.emsf.rai.it/biografie/anagrafico.asp?d=552) il 10
gennaio 2014 in Internet Archive..
2. ^ Cfr. il classico U. Wilamowitz, Homerische Untersuchungen, Berlino 1884, pp. 392 ss.
3. ^ Cfr. G. Pasquali, Omero (http://www.treccani.it/enciclopedia/omero_(Enciclopedia-Italiana)/),
in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1929.
4. ^ Fr. 29 W. = M. L. West (a cura di), Iambi et Elegi Graeci Ante Alexandrum Cantati, Oxford
University Press 1989.
5. ^ Storie II 53.
6. ^ G. Bonfanti, Vita di Omero, Milano, Eredi Moroni, 1823, passim.
7. ^ Per quanto segue, cfr. E. Bethe, Homer, Lipsia 1914-27, in tre volumi.
8. ^ Su cui cfr. W. Burkert, La religione di epoca arcaica e classica, Milano, Jaca Book, 2003, pp.
251-260.
9. ^ U. Albini-F. Bornmann-M. Naldini, Manuale storico della Letteratura greca, Milano, Le
Monnier, 1977, pp. 31-35.
10. ^ locuzioni greche
11. ^ Mòira in Vocabolario – Treccani (http://www.treccani.it/vocabolario/moira/)
12. ^ U. Albini-F. Bornmann-M. Naldini, Manuale storico della Letteratura greca, Milano, Le
Monnier, 1977, pp. 37-38.
13. ^ Rudolf Steiner, La missione universale dell’arte, Editrice Antroposofica, 2011, p. 134,
ISBN 978-88-7787-469-6.
14. ^ Antonio Saltini, Storia delle scienze agrarie, 2010, ISBN 978-88-96459-09-6
15. ^ George M.A. Hanffman. Oceano in Oxford Classical Dictionary 1970; trad. it. Dizionario di
antichità classiche. Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1995, p. 1489
16. ^ Iliade XVIII, 489
17. ^ Mimnermo, in Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti - i dotti a banchetto, XI 470 a-b
18. ^ La menzione più antica del popolo degli Iperborei è negli Inni omerici A Dioniso VII,29. E
comunque è un popolo adoratore di Apollo, come specificato in Erodoto IV, 33.
19. ^ Teogonia vv. 720 e sgg.

Bibliografia
Joachim Latacz, Homer. Der erste Dichter des Abendlands, Artemis Verlag Munchen und
Zurich 1989. Omero il primo poeta dell'occidente, traduzione a cura di Mauro Tosti-Croce.
Laterza, Roma-Bari 1990.ISBN 88-420-3592-0
Walter J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 2011. ISBN 978-88-15-00964-7.
(EL) Omero, Ilias, vol. 1, Londini, Impensis J. Duncan, 1838.
(EL) Omero, Ilias, vol. 2, Edinburgi, Robert Martin, 1845.
(EN) Omero, Ilias, vol. 3, London, printed for A. Horace, P. Virgil, & T. Cicero, 1759.
(EN) Omero, Ilias, vol. 4, London, printed for A. Horace, P. Virgil, & T. Cicero, 1759.
(EL) Omero, Odissea, Halis Sax, In Orphanotropheo, 1794.

Voci correlate
Uomo dei poemi omerici
Questione omerica
Teoria dell'oralità
Epiteto omerico
Dialetto omerico
Legge di Zieliński

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Collegamenti esterni

Omero, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.


Omero, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Omero, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.
(EN) Omero, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
(EN) Omero, su The Encyclopedia of Science Fiction.
Opere di Omero, su Liber Liber.
Opere di Omero / Omero (altra versione) / Omero (altra versione) / Omero (altra versione) /
Omero (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
(EN) Opere di Omero, su Open Library, Internet Archive.
(EN) Audiolibri di Omero, su LibriVox.
(EN) Bibliografia di Omero, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.
(EN) Omero, su Goodreads.
(EN) Omero, su MobyGames, Blue Flame Labs.
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(EN) Omero, su TV.com, CBS Interactive Inc.
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(EN) Omero, su BFI Film & TV Database, British Film Institute.
(EN) Omero, su Internet Broadway Database, The Broadway League.
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