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Corrado PesteLLi
L’Universo LeoPardiano
di sebastiano timPanaro
e altri saggi su Leopardi
e sulla famiglia
isBn 978-88-596-1180-6
Ai miei studenti, di ora e di sempre
Introduzione
Universi leopardiani
Studi di storiografia
marino Biondi
1
C. PEstElli, Occasioni leopardiane e altri studî sull’Otto e sul Novecento, introduzione di m.
Biondi, Roma, Bulzoni, 1998.
vii
timpanaro2, raccoglie una folta eredità di ricerche sull’autore d’elezione, che resta al
centro di un’indagine scrupolosa e sostenuta da una fitta analisi di letteratura critica,
di chiose, commenti, scrutini e sondaggi bibliografici. tutta la leopardistica professa di
timpanaro (Parma 5 settembre 1923 – Firenze 26 novembre 2000)3 era stata raccolta
nell’edizione critica di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (2011). l’edi-
zione si basa sull’ultima ristampa del volume (1988), rivista dall’autore, e su quattro
copie delle edizioni pisane nistri-lischi appartenute a timpanaro, acquisite, come
anche gli altri volumi, dalla Biblioteca della scuola normale superiore di Pisa.
Un’opera, che il curatore definiva a «canone aperto», un’opera che era anche altre
opere, più di un libro, ma un territorio, un campo di concentrazione tematico e disci-
plinare, uno spazio di tensioni ideologiche, un’area critica di conflitti ed incroci.
tanto era complessa la personalità dello studioso, tanto quel suo libro, il suo più noto
ed editorialmente fortunato, rifletteva quella complessità. nel libro di Pestelli, studi leo-
pardiani e studi sul leopardismo timpanariano sono fatti ruotare intorno alla sfera di
quel libro storico di timpanaro, divenuto un classico della storiografia non solo lette-
raria, ma anche, per certi aspetti, politica e ideologica nella seconda metà degli anni
sessanta4. il saggio, premesso alla nuova edizione di Classicismo e illuminismo da
Gino tellini (Un libro necessario), è una guida preziosa, lucida e funzionale, alle non
sempre facili peripezie della lettura cui quell’edizione rimanda. non solo, le pagine
introduttive di tellini fermano al principio la eccezionalità dell’autore, su cui si è
esercitato un tanto imponente, e oggettivamente arduo, lavoro di ricostruzione e di edi-
zione. offrono la sintesi indispensabile di una personalità dei nostri studi completa-
mente fuori dai ranghi consueti e, insieme alle presenti pagine di chi scrive, si affian-
cano a conferire una doppia premessa a questi saggi che in gran parte da quell’edizione
derivano. al netto dei testi, sono i paratesti e le note di curatela a costituire il volume in
una sua parte cospicua e centrale. Una monografia sul timpanaro leopardista e otto-
centista. sulla sua personalità, scrive dunque tellini: «definirla versatile e complessa
non basta, perché l’arduo connubio di scientificità e passione, di magistero non catte-
dratico e intransigente moralità, di fiducia nella cultura e abnegazione personale che
nutre la vita e la scrittura di timpanaro (lui, studioso di prestigio internazionale, che
2
s. timPanaRo, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, testo critico con aggiunta di
saggi e annotazioni autografe, a cura di C. Pestelli, introduzione di G. tellini, Firenze, le lettere, 2011
(siglato Ci). Vd. la rec. di F. arato, in «Belfagor», a. lXVii, n. 6, 30 novembre 2012, p. 747: «Un’edizione
critica di un classico della critica: quando arriva il tempo per un lavoro simile? mezzo secolo è suffi-
ciente? o si tratta di un intervallo di decantazione troppo breve? C’è il rischio di una prematura ‘musei-
ficazione’?». arato riconosce alla nuova edizione i caratteri della eccezionalità, «come eccezionale,
sotto ogni profilo, era il suo autore.»
3
Una delle testimonianze più intense, poco dopo la scomparsa, non solo sulla personalità di tim-
panaro ma anche del coté famigliare (il padre sebastiano, storico della scienza e la madre, maria Cardi-
ni, studiosa dei presocratici ed editrice del Sidereus Nuncius), fu resa da luca Baranelli, dirigente edito-
riale dell’Einaudi, in un’intervista realizzata da G. saporetti, alla quale aveva preso parte anche Fiamma
Bianchi Bandinelli: Ricordiamo Sebastiano Timpanaro, in «Una città», n. 92, febbraio 2001.
4
Vd. l’opera collettiva Sebastiano Timpanaro e la cultura del secondo Novecento, a cura di E. Ghidetti
e a. Pagnini, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2005.
5
tEllini, Introduzione, in Ci, p. Viii.
6
Vd. a. FRattini, Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento, in Leopardi e il Settecento, atti del
i° Convegno internazionale di studi leopardiani, Firenze, olschki, 1964.
7
C. PEstElli, Carlo Antici e l’ideologia della Restaurazione in Italia, con nota introduttiva di
s. mastellone, ivi, FUP (Firenze University Press), 2009. sul traduttore, vd. id., Carlo Antici traduttore di
Stolberg e di Sailer, in «Rassegna della letteratura italiana», CXVii, serie Viii, 1, gennaio-agosto 2013.
8
Il Leopardi e i filosofi antichi, in Ci, p. 151.
9
C. GEddEs da FiliCaia, Fuori di Recanati io non sogno. Temi e percorsi di Leopardi epistolo-
grafo, Firenze, le lettere, 2006.
10
l. BaldaCCi, Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, milano, Rizzoli, 1998.
11
Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Ci, p. 118.
12
V. di BEnEdEtto, La filologia di Sebastiano Timpanaro, in Il filologo materialista. Studi per
Sebastiano Timpanaro, a cura di R. di donato, Pisa, scuola normale superiore, 2003, pp. 1-89.
13
Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Ci, p. 130.
14
G. BERaRdi, Ragione e stile in Leopardi, in «Belfagor», XViii, 1963, p. 437.
15
n. BEllUCCi, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita
e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996.
16
m. a. RiGoni, Romanticismo leopardiano, in Il pensiero di Leopardi, nuova edizione accresciu-
ta, prefazione di E. m. Cioran, nota di R. Bruni, torino, nino aragno Editore, 2010, p. 131.
17
R. BonaVita, I «Paralipomeni»: storia del testo, in id., Leopardi descrizione di una battaglia, a
cura di G. Benvenuti, introduzione di m. a. Bazzocchi, ivi, 2012, p. 139 (Vicende editoriali).
18
Ci, p. 111.
19
Leopardi e la patria, in Rigoni, op. cit., pp. 195-202.
20
s. timPanaRo, Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, Firenze, la nuova italia, Firen-
ze 1974; nuova edizione, a cura di F. stok, torino, Bollati Boringhieri, 2002.
21
appendice ii, Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano (1963),
in Ci, p. 494.
22
Umberto Carpi è scomparso il 6 agosto 2013. in un commosso ricordo dello studioso, marco san-
tagata ha scritto: «leopardi non era un suo autore (qualcuno ricorderà la polemica che negli anni set-
tanta lo vide contrapposto a sebastiano timpanaro) proprio perché a leopardi, che pure guardava il
mondo con straordinaria lucidità, siccome lo guardava dall’alto, mancava il sentimento della politica, la
volontà di modificare la realtà e quindi non viveva il dramma della sconfitta (…). Gli autori e i perso-
naggi di Carpi sono degli sconfitti politici, ma non dei vinti.» (m. santaGata, Il paladino degli
sconfitti, in «il sole 24 ore», 18 agosto 2013).
23
Prefazione alla seconda edizione, in Ci, pp. lXXXVi-lXXXVii.
24
t. dE maURo, Premessa a Per Sebastiano Timpanaro. Il linguaggio, le passioni, la storia, a cura di
F. Gallo, G. iorio, P. Quintili, milano, Unicopli, 2003, p. 8.
25
tEllini, Introduzione, cit., p. Xii.
26
Nota del curatore e criteri della presente edizione, in Ci, p. Xlii.
27
C. Cases a s. timpanaro, lettera da torino, 3 febbraio 1979, in Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-
1990, a cura di l. Baranelli, Pisa, Edizioni della normale, 2004, pp. 282-283.
28
Vd. il recente saggio di esegesi poetica, con acute osservazioni sulla forma metrica (il settenario
cantato a riscontro dell’arida filosofia), e note illuminanti sull’impronta stilistica, l’allegorismo, dell’anti-
romanticismo (e antisimbolismo), nel vol. di P. V. mEnGaldo, Leopardi antiromantico, Bologna, il
mulino, 2012. Vd. anche id., Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei “Canti” di Leopardi, ivi, 2006.
29
Ci, pp. 428-471.
30
timPanaRo, presentazione a J. Fallot, Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, torino,
Einaudi, 1977, pp. iX-XXXi (a titolo Materialismo e infelicità, in id., Il verde e il rosso, Scritti militanti,
1966-2000, a cura di l. Cortesi, Roma, odradek, 2001, pp. 83-98).
31
Nota del curatore e criteri della presente edizione, in Ci, pp. lVi-lVii.
32
Ci, p. liii.
33
id., L’universo leopardiano, in Da Tortorici alla Toscana: percorsi della famiglia Timpanaro, a
cura di P. de Capua, m. Feo e V. Fera, i, atti del Convegno, tortorici, Centro di storia Patria 22-23 ago-
sto 2003, messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, mmiX.
il leopardi di citati
Con Il «Leopardi» di Pietro Citati, il volume si arricchisce di altri apporti, acco-
gliendo una delle ultime rivisitazioni saggistiche, la monografia leopardiana edita da
mondadori nel 2010. Questa inclusione, sorprendente, va compresa in quanto può
apparire in una posizione scomoda, priva com’è di requisiti filologici, accanto al
nucleo-fortezza del timpanarismo. da una parte la scienza leopardiana del filologo,
dall’altra l’alta divulgazione del nostro più popolare saggista. «dio, gli dèi, il fato, la for-
tuna, la natura», configurano, tutte entità ostili, il destino del poeta. E la biografia è
anche un destino, da raccontare come si racconta il romanzo (vero) di una vita. Fuori
dal tempo – ha detto Citati in un’intervista – leopardi ha potuto conoscere tutti i
tempi. Ed è fra i pochi grandi moderni (con nietzsche e Baudelaire), moderni e anti-
moderni, perché «altrimenti sarebbero degli sciocchi progressisti». la contraddizione
come «strada suprema per giungere alla verità». Con un duplice occhio, microscopico
(alla locke, nell’analisi delle Memorie del primo amore) e telescopico (Alla sua donna,
1823-1824). Questi, del destino e del ragionamento, sono due punti forti del saggio leo-
pardiano, una sintesi di cui c’era bisogno. Come c’era bisogno di un ritorno alla poesia
e a un tentativo di definizione compendiaria del poeta: «invece di esaltare il poeta
antico, leopardi annunciava ed esaltava il poeta moderno, forse superiore a quell’anti-
co che egli non era ancora diventato. amava il fuoco, la furia, l’estasi, l’ammirazione
contemplativa, la distanza, la naturalezza, la “sprezzatura”. i Canti sono tutti qui, in que-
sta nuda enunciazione di qualità, e dopo un anno o due sarebbero diventati alla luna,
la sera del dì di festa, la canzone ad angelo mai». la ragione per cui un’inclusione
apparentemente singolare, in un libro costruito come questo (catafratto), di un saggio
34
Vd. il vol. di P. antonEllo, Contro il materialismo. Le «due culture» in Italia: bilancio di un
secolo, torino, aragno, 2012, dove entrambi i timpanaro, dal padre al figlio, vedono riconosciuto un
ruolo significativo nella cultura scientifica e nella critica ai sofismi dell’idealismo.
35
Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Ci, p. 127.
36
t. mann, La montagna magica, a cura e con introduzione di l. Crescenzi e un saggio di m. neu-
mann, trad. di R. Colorni, milano, mondadori, “i meridiani”, 2010, pp. 144-145.
37
U. BosCo, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi e altri studi leopardiani, Roma, Bonacci,
1983 (Firenze, le monnier, 1957).
38
Ci, p. 130.
39
P. tREVEs, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, milano-napoli, Ricciardi, 1962, p. 471
sgg.
40
timPanaRo, La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze, le monnier, 1955, p. 146.
41
Il Leopardi e i filosofi antichi, in Ci, p. 151.
42
Ci, p. 136.
43
segnalo l’ultimo volume leopardiano di PalmiERi, Per Leopardi. Documenti, proposte, disattri-
buzioni, Presentazione di E. Pasquini, Ravenna, longo, 2013.
dei saggi che compongono questo volume, il terzo, Postille ed annotazioni auto-
grafe di Timpanaro («Aspetti e figure della cultura ottocentesca», «Nuovi studi sul
nostro Ottocento», «Per Giorgio Pasquali»), è inedito; il quarto, Il «Leopardi» di Pietro
Citati, anch’esso inedito, è attualmente in corso di stampa nella «Rassegna della let-
teratura italiana», CXVii, serie Viii, 2-3 (luglio-dicembre 2013); diamo qui i riferi-
menti bibliografici degli altri capitoli:
• il primo, L’universo leopardiano di Sebastiano Timpanaro, è uscito, in forma ridotta,
nell’opera collettiva Da Tortorici alla Toscana: Percorsi della famiglia Timpanaro. Atti
del Convegno di studi (tortorici, Centro di storia Patria, 22-23 agosto 2003), a cura di
Paola de Capua, michele Feo e Vincenzo Fera, messina, Centro interdipartimentale di
studi Umanistici («Biblioteca Umanistica», n. 9), 2009, pp. 197-305;
• il secondo, Leopardi protagonista nella nuova edizione di «Classicismo e illuminismo
nell’Ottocento italiano», riproduce con titolo autonomo, e con taglio delle istruzioni
tecniche finali, lo scritto Nota del curatore e criteri della presente edizione, apparso in
sEBastiano timPanaRo, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano.
nuova edizione. testo critico con aggiunta di saggi e di annotazioni autografe, a
cura di Corrado Pestelli, introduzione (Un libro necessario) di Gino tellini, Firenze,
Editrice le lettere (collana «Bibliotheca», n. 52), 2012, pp. XXXVii-lXXiii;
• il quinto, Leopardi, la famiglia e il classicismo romagnolo-marchigiano, è apparso
come nota al Pantaleo Palmieri di Leopardi. La lingua degli affetti e altri studi, in «ita-
lianistica», XXXii, 3 (settembre-dicembre 2003), pp. 487-493;
• il sesto, Carlo Antici traduttore (1815-1830). La propensione per il romanticismo reli-
gioso tedesco della Restaurazione, riproduce, con pochi interventi rielaborativi, il
secondo capitolo della tesi di dottorato, discussa nel 2007 all’Università di Firenze; ne
è stata pubblicata una versione molto ridotta, con il titolo Il periodo 1815-1830. Le
grandi traduzioni, nel mio volume Carlo Antici e l’ideologia della Restaurazione in Ita-
lia, con Nota introduttiva di salvo mastellone, Firenze, FUP (Firenze University
Press – «studi e saggi», n. 81 –), 2009, pp. 1-129.
vii
L’universo leopardiano
di Sebastiano Timpanaro
e altri saggi su Leopardi
e sulla famiglia
I. L’universo leopardiano di Sebastiano Timpanaro
in una bella relazione sulla lingua e sullo stile dei cosiddetti canti fiorentini di
leopardi e su Aspasia, Fiorenza Ceragioli individua sulla scorta d’un’importante
citazione zibaldoniana del 18201 il concetto teofrasteo di bellezza come σιωπῶσα
ἀπάτη, «tacito inganno», un concetto che si ripresenta al poeta di Aspasia offrendogli
un’efficace definizione della ricaduta, sull’amante, della visione del κάλλος, della
bellezza, che nelle righe immediatamente precedenti è detta più valida di qualsiasi let-
tera di raccomandazione2:
teofrasto definiva la bellezza σιωπῶσαν ἀπάτην (ib. [scil.: «laerz. in aristot. l. 5. seg.
18»] 19). Pur troppo bene: perché tutto quello che la bellezza promette, e par che
dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d’animo, è tutto falso. E
così la bellezza è una tacita menzogna. avverti però che il detto di teofrasto è più
ordinario, perché ἀπάτη non è propriamente menzogna, ma inganno, frode, sedu-
zione, ed è relativo all’effetto che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assoluta-
mente.
dopo che A se stesso ha scardinato il sistema concettuale e linguistico dei canti fio-
rentini, con un fato recuperato al ruolo di donatore di morte, di «brutto / poter che,
ascoso, a comun danno impera», con Aspasia inizia il primo periodo napoletano di
leopardi, segnato da un’esigenza etica dichiarativa della nuda vacuità delle illusioni,
in questo caso, ovvero in questo periodo della storia biografica e ideologica leopar-
diana, le illusioni legate all’amore per una figura reale di donna. il classicismo napo-
letano di leopardi consiste, insomma, anche nella ripresa di teofrasto, oggetto di
riflessione, insieme alla figura di Bruto, fin dagli anni giovanili, antecedenti alla ste-
sura (marzo 1822) della stessa Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teo-
frasto vicini a morte. la responsabilità dell’inganno esercitato dalla sfera della bellezza
può sempre essere fatta risalire all’uomo, il quale attribuisce al mondo morale della
donna una connotazione che è in realtà propria della sfera estetica. ma la scissione
che grazie a questo concetto si opera non è solo quella, a ben vedere scontata, fra bello
estetico e bello morale. Quello che qui si scinde è soprattutto il preteso binomio fra
bello e bellezza; ed è un punto sul quale sarà il caso d’insistere. se il primo, come più
volte ha già detto leopardi, appartiene all’ámbito in qualche modo determinabile e
padroneggiabile della convenienza, dell’adeguamento ad un canone accettato dalla
generalità dell’umana fruizione, della pertinenza, della congruità con una serie di cri-
teri magari giocabili con notevoli margini d’elasticità ma comunque assumibili in un
normativa dottrinaria passibile d’apprendimento e d’assuefazione, la bellezza invece
pertiene ad una sfera comunicativa con il soggetto fruitore e si realizza tramite il
mezzo d’una forma umana (o del suono, o del canto, se si tratta di bellezza musicale),
privata della quale essa non produce affatto la stessa impressione. Proprio dagli effet-
ti estetici della musica leopardi trae motivo di stabilire non solo un paragone, ma
anche una profonda e essenziale affinità tra l’azione della bellezza femminile e l’azio-
ne del suono sull’ascoltatore: «Raggio divino al mio pensiero apparve, / donna, la tua
beltà. simile effetto / fan la bellezza e i musicali accordi, / ch’alto mistero d’ignorati
Elisi / paion sovente rivelar» (Aspasia, 33-37); e si legga, scegliendo fra i brani dello
Zibaldone espressamente dedicati alla percezione della musica, quello del 10 settem-
bre 1821 (1663-1666, con tagli):
Ho detto altrove che bisogna distinguere nella musica l’effetto dell’armonia, da quel-
li del suono che non hanno a fare col bello, come non vi ha che fare il colore per se
stesso, non trattandosi di convenienza. Ho detto che quello che ha di singolare l’effet-
to della musica sull’animo, appartiene in massima parte al puro suono […]. Frattan-
to egli [«una persona» non altrimenti specificata, che non apprezzava troppo la musi-
ca] notava che una stessa armonia eseguita in certi tali strumenti lo toccava
vivamente, in altri niente affatto. Egli amava molto, e provava tutti gli effetti della
musica, quando udiva suoni forti, di gran voce, strumenti arditi, orchestre numerose,
e strepitose […]. Questo diletto era dunque nella sostanza dipendente dal suono, e
indipendente dall’accordo, dall’armonia, e quindi dal bello. il suono dà piacere
all’uomo, perché la natura gli ha dato, o ha dato a noi (e ad altri animali) questa pro-
prietà. Così i cibi dolci, i colori vivi ec. tutto ciò non appartiene al bello, non essendo
convenienza […] / Una notabile sorgente di piacere nella musica è pur l’espressione,
la significazione, l’imitazione. Questo neppure spetta al bello, come ho detto in pro-
posito della fisonomia umana. or questo è di tanto rilievo, che una musica non
significante non diletta se non gli intendenti, i quali si fanno mediante l’assuefazione,
de’ particolari generi e fonti di piacere […]. […] gli animi non sensibili poco son
dilettati dalla musica. tanto è vero che il di lei singolare effetto non deriva dall’armo-
nia in quanto armonia, ma da cagioni estranee alla essenza dell’armonia, e quindi alla
teoria della convenienza, e del bello3.
E questa scienza universale non fu subordinata da lui, come da Platone, alla imma-
ginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso di aristotele; e
indirizzata, non allo studio e alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è
propriamente il vero. atteso queste particolarità, non è maraviglia che teofrasto arri-
vasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza
medesima (p. 408 Ghidetti, corsivi nostri).
oltre di ciò, non che i filosofi antichi lo celebrassero per averlo veduto più di loro, anzi
per questo rispetto medesimo lo vituperarono e lo maltrattarono, e particolarmente
quelli, tanto meno sottili quanto più superbi, i quali si compiacevano d’affermare e di
sostenere che il sapiente è felice per se; volendo che la virtù e la sapienza basti alla bea-
È un passo della prosa di maria timpanaro Cardini studiosa; qui, come altrove, la
grecista non si contenta affatto dell’opinione e delle conclusioni del magnus e inter-
roga Calcidio, in quel suo Commentario al Timeo di Platone, di cui riporta ampi
passi in latino, tesi a mostrare come alcmeone risulti allineato agli altri due scienziati
della “triade”, Callistene ed Erofilo: «Fluere porro visum per oculum consentiunt
tam physici quam etiam medici, qui, exsectis capitis membris, dum scrutantur natu-
rae providam sollertiam, notaverunt ferri bivio tramite ignis liquorem» (Commenta-
rius in Timaeum Platonis, leipzig, Wrobel, 1876, § CCXlVii, p. 281). alcmeone
non ha dunque «preso per meati visivi due vasi sanguigni qualsiasi», altrimenti «Cal-
cidio non avrebbe dovuto associarlo a Callistene e ad Erofilo, anzi, o tacerlo, o oppor-
re questi a lui» (p. 65);
[…] l’interesse per Epicuro “moralista” non deve far credere che Fallot condivida
minimamente l’opinione, tuttora molto diffusa e forse prevalente, secondo la quale la
grande stagione teorica del pensiero greco sarebbe terminata con aristotele, e le
filosofie post-aristoteliche denuncerebbero un affievolirsi di rigore filosofico e
andrebbero valutate quasi esclusivamente come “psicoterapie” elargite all’indivividuo
del mondo ellenistico, un individuo ormai isolato e spoliticizzato, suddito e non più
operoso membro della polis. nel respingere questa rappresentazione del pensiero
ellenistico (che è solo parzialmente vera in ciò che afferma, ma falsa in ciò che nega),
Fallot è d’accordo con quello che rimane il maggior motivo di validità della disserta-
zione giovanile di marx. Gran parte del quarto capitolo (e precisamente le sezioni su
democrito ed Epicuro, sul piacere nella morale di aristippo e in quella di Epicuro, sul
rapporto tra Epicuro e Platone e aristotele) è dedicata a mostrare come nell’epicu-
reismo non vi sia uno stanco ritorno a democrito e ai Cirenaici, ma un loro supera-
mento, e come Epicuro non ignori Platone e aristotele, ma faccia i conti con essi […].
Fallot mette bene in luce il carattere contraddittorio che, malgrado l’apparenza di soli-
da sistematicità, presentava la filosofia aristotelica: un dualismo tra “principi” ed
esperienza, tra logica e conoscenza empirica, più sottilmente mascherato dell’ideali-
smo platonico, ma in realtà persino più grave (p. 101). Viene in mente ciò che osser-
vava il troppo presto dimenticato theodor Gomperz, il grande autore dei Pensatori
greci, sul dissidio tra il “platonico” e l’“alcmeonide” nel pensiero e nella personalità di
aristotele. «dopo aristotele – dice Fallot – diviene evidente che l’idealismo era
castrato, separato dalle sue fonti, e che soltanto una filosofia materialistica avrebbe
potuto dare sostanza al discorso» (p. 101). Questa rifondazione del materialismo è
precisamente ciò che compie Epicuro. «Era a partire dall’esperienza che si poteva tro-
vare nuovamente una certezza non soltanto relativa a certe sfere dell’essere (come
faceva Euclide). Epicuro colloca decisamente il criterio del vero nella sensazione, e
identifica nuovamente verità e certezza sensibile (…). tale è stato quest’uomo, il
cui sistema ho visto con stupore che certi storici della filosofia si chiedono come sia
potuto apparire in Grecia dopo quelli di Platone e di aristotele, rispetto ai quali
segnerebbe un incredibile regresso» (p. 105; ma tutto questo paragrafo è da leggersi
con attenzione particolare). / se, dunque, bisogna respingere ogni tentazione di
“marxistizzare” Epicuro – e abbiamo già visto che in questa tentazione Fallot non
cade mai –, si può anche, a questo punto, constatare senza forzature l’esistenza di due
punti fondamentali che rendono, a dispetto di tutte le differenze, particolarmente
interessante il pensiero epicureo per il marxista odierno. i due punti sono il mate-
si perdoni la lunga citazione; ma i brani riportati attestano una notevole, e per nostro
conto sempre determinante, possibilità di percorso dal materialismo antico al mate-
rialismo ottocentesco (il materialismo novecentesco non è un capitolo culturale
immenso; neppure, e forse men che mai, in àmbiti dichiaratamente marxisti, secon-
do una costante deplorazione critica di timpanaro). È anche in questi itinerari che si
ritrovano l’amalgama, la simbiosi (non una paratattica, periclitante sommatoria!)
del grecista e dell’ideologo marxista, del filologo antichista e del filologo materialista;
e a nostro avviso, e pur con tutte le differenze del caso (talora sono differenze, soprat-
tutto contestuali, macroscopiche), si tratta d’un percorso di richiamo a leopardi che
nella sua appropriata e peculiare definizione qualitativa, nella sua intrinseca indole
essenziale, nella sua scansione di similari acquisizioni e di omologhe conquiste iden-
tificative e di formazione lettoriale (gli illuministi, i francesi del settecento innanzi
tutto, il Boulevard des Lumières materialistico, le vie d’un’Aufklärung in buona sostan-
za non voltairiana, anche se non antivoltairiana), pone sul nostro tavolo una vera reci-
procatio autore-studioso, quasi un profilo, ma di luce e di ragione, non di ombra, che
s’allunga nell’alter ego di settecentesco lignaggio ideologico. non leopardi quale
“l’autore di timpanaro”, bensì timpanaro come “lo studioso di leopardi”, il più vici-
no, il più identificato con la temperie culturale, ma anche operativamente tecnica e
filologica, espressa da una punta avanzatissima del classicismo illuministico italiano.
E, se è vero che il marxista-leopardista d’una fin troppo famosa e parzialmente autoi-
ronica definizione cerca in leopardi l’elemento che appare meno dichiarato nel
marxismo, la considerazione dell’individualità e della sofferenza biologico-animale
dell’uomo, e quindi l’umana ricerca della felicità, dalle pagine fallotiane di timpanaro
s’evince un marx tutt’altro che alieno dal pensiero riguardante l’uomo-natura, un
uomo che è innanzi tutto natura, natura e materia: il marx del timpanaro “presenta-
tore” di Fallot (ma anche il marx di molti altri passi di timpanaro) è un marx mate-
rialista e risolutamente antihegeliano, e il celebre “trattino” che congiunge il marxista
e il leopardista, qui, realmente si qualifica come trattino di unione. si pensi che i saggi
sul materialismo che poi comporranno l’eponimo volume (Considerazioni sul mate-
anche così, ovvero in questo quadro precisamente italiano, legato e vicino alle varie
realtà nelle quali leopardi trascorse la propria “vita culturale” e che pure egli contestò
e criticò in termini spesso memorabili, anche così si giustifica quella che talvolta è
apparsa una dedizione non si dirà eccessiva, ma forse sotto qualche aspetto iperva-
lorizzante riguardo alla figura intellettuale di Pietro Giordani; per limitarci ai contri-
buti apparsi in volume, elenchiamo i saggi che timpanaro ha in modo espresso
riservato allo scrittore piacentino: Le idee di Pietro Giordani12; Giordani, Carducci e
Chiarini13 (i due saggi dànno inizio a Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italia-
no); Il Giordani e la questione della lingua, in Aspetti e figure della cultura ottocente-
sca14; Ancora su Pietro Giordani, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra ita-
liana15; molti rinvii giordaniani sono a loro volta presenti sia nei volumi indicati, sia
in La genesi del metodo del Lachmann16 e in La filologia di Giacomo Leopardi17; e, in
Nuovi studi sul nostro Ottocento, vi sono Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro
Giordani; Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli; Pietro Gioia, Pietro Gior-
dani e i tumulti piacentini del 1846; Due cospiratori che negarono di aver cospirato
(forse Giordani, certamente Bini)18. Giordani è stato di sicuro oggetto d’insufficiente
considerazione, soprattutto in un canone letterario che ha visto prevalere le conce-
zioni di de sanctis e che ha relegato le figure dei classicisti e il loro ruolo in un
àmbito marginale, e anzi, spesso, fastidiosamente laborioso nel dovere di lettura che
Ὁ τῆς ϕύσεως πλοῦτος καὶ ὣρισται καὶ εὐπόριστός ἐστιν, ὁ δὲ τῶν κενῶν δοξῶν εἰς
ἄπειρον ἐκπίπτει.
Ὁ τὰ πέρατα τοῦ βίου κατειδὼς οἶδεν ὡς εὐπόριστόν ἐστι τὸ <τὸ> ἀλγοῦν κατ’
ἔνδειαν ἐξαιροῦν καὶ τὸ τὸν ὅλον βίον παντελῆ καϑιστάν˙ ὥστε οὐδὲν προσδεῖται
πραγμάτων ἀγώνων κεκτημένων20.
il pensait donc servir la patrie en guérissant les Romains de cette terreur chimé-
rique, et en prouvant que la mort ne menait à rien; de là ces arides théories d’athéisme
et de néant, toujours entremêlées de conseils probes, de consolations mornes et
sévères.
E si noti che il pensiero «sans larmes» non è privo d’un suo fine, che è quello di tro-
vare risposta a «toutes les questions» della cultura dell’umanità:
Certains esprits amis de l’humanité, épouvantés de ses maux et de son délire, avaient
eu recours aussi, comme le poëte romain, à cette philosophie austère et sans larmes
***
si venga all’attività propriamente e tecnicamente filologica di leopardi; in questo
campo, si devono riconoscere a timpanaro meriti in buona parte istitutivi della stes-
sa valenza disciplinare consistente nella storia della filologia e nel commento agli
scritti e alle congetture critico-testuali del leopardi studioso. il volume La filologia di
Giacomo Leopardi, fin dalla prima edizione del 1955, «si rivolge agli studiosi del
leopardi, agli storici della filologia e ai filologi classici». Questi ultimi, in particolare,
«troveranno qui, citate e valutate, molte emendazioni e interpretazioni del leopardi a
testi antichi, per la maggior parte ignorate o accolte sotto altro nome dagli editori
recenti»; «il leopardi filologo: non “leopardi e gli antichi”, non “classicismo e classi-
cità nel leopardi”» (Prefazione alla prima edizione, p. Xi). E proprio l’attività filologica
sarà qui indagata: non si tratterà d’una filologia ancillare e preparatoria rispetto alla
poesia, non sarà un laboratorio tecnico da inevitabilmente indagare in vista di ariose
e più fascinose panoramiche sugli esiti estetici e sulle suggestioni, sulle malie artisti-
che del poeta dell’Infinito; sarà, piuttosto, una filologia in sé considerata e restituita
alla propria, autonoma dignità scientifica, razionale e disciplinare, il che non è poco
per un autore, e un grecista e latinista qual è leopardi, che agisce in condizioni sin-
golarmente sfavorevoli sia sul piano storico-culturale (lo stato di scarsissimo “pregio”
in cui allora sono tenuti gli studi filologici in italia), sia sul piano personale (la serie di
pesanti limitazioni informative alle quali è vincolato e per ragioni di luogo e per
ragioni di qualità della paterna biblioteca). né, certo, timpanaro cade nel tranello di
considerare la filologia come attività “centrale” in leopardi: il poeta e il filosofo
rimangono in tutto prevalenti (e in crescente misura nel corso del suo itinerario)
come figure in cui si realizzano l’intellettuale illuminista e l’artista appartenente al
classicismo. ma la dedizione assolutamente congeniale all’esercizio filologico applicato
a testi greci e latini, la sua cifra che nel tempo si affermerà come esplicitamente tec-
nica e razionalistica, “arida” (diciamolo pure se serve), il gusto degli adversaria spe-
cifici, micrologici, mirati e puntuali, precisi, non vaghi, non fumosi e generici ma
sempre volti all’interpretazione e all’emendazione del testo, all’hic et nunc concreto dei
singoli loci linguisticamente critici, l’acutezza delle congetture (congettura è codico-
logia mentale, se indotta ad alto livello), l’intuizione del metodo filologico professio-
nistico quale si andava affermando nell’ecdotica tedesca e la relativa ammirazione
“tecnica” per la dotta Germania (non per le fantasiose “ricerche” d’affinità etnica fra
greco e tedesco, satireggiate nei Paralipomeni) depongono con attendibilità per un
leopardi filologo per virtù propria e con finalità pure e scientifiche, ossia per finalità
filologiche peculiari e perseguite iuxta propria principia. studiare leopardi filologo
Ιn generale, tutti i concetti che si riferiscono alla critica del testo appaiono nel
Giulio Africano chiariti e maturati in confronto alle opere precedenti. nel Porfirio,
per esempio, abbondavano ancora le note del tipo: «Θεόδοτος – Est qui legat:
Διόδοτος» (p. 315 del ms.), «Παρέργῳ – legunt alii: πάρεργον» (p. 317), senza
una presa di posizione tra le opinioni contrastanti e, soprattutto, senza una chiara
distinzione tra ‘variante’ (dei codici) e ‘congettura’ (degli editori); una distinzione
che nelle vecchie edizioni cum notis variorum usate dal leopardi non sempre era
esplicita, e che, del resto, riesce sempre poco chiara al principiante. nel Giulio Afri-
cano, invece, il leopardi prende quasi sempre posizione: anche verso il Boivin, che
prima di lui era stato l’unico a proporre buone congetture ai Cesti, il suo atteggia-
mento non è pedissequo: egli accetta, e con ragione, la maggior parte di quelle
congetture, che nell’edizione del meursius erano relegate in nota; ma altre ne respin-
il passo è da considerarsi puramente emblematico, e solo del testo “in alto”; altra, più
specillare prosa hanno le note, e così le appendici e gli Addenda del 1997. ma rite-
niamo che esso possa essere sufficiente a ricordare la novità del tipo di applicazione
scientifica ma anche calibratamente divulgativa che il filologo produce sul lavoro d’un
altro filologo. da tutto il volume (che già nell’edizione 1977 diviene contemporaneo di
Sul materialismo – 1975 –, anch’esso alla seconda edizione, e della seconda ristampa
– sempre 1977 – della seconda edizione di Classicismo e illuminismo) si evince il
carattere non propedeutico, non subordinato né strumentale della filologia leopar-
diana rispetto alle grandi (e tali restano) conversioni poetiche e filosofiche. timpa-
naro ha nel frattempo ricevuto importanti conferme della validità di quel volume del
1955; e già da tempo la definizione di «filologo», e in specie di «filologo formale» non
poeta, non vocato alla divinazione genialmente intuitiva ma a una logicizzazione
alla Hermann, incertante e analitica, linguistico-grammaticale, non è ascritta a
nomenclatura “riduttiva”, bensì a connotazione costitutiva, nella sua autonomia disci-
plinare, del poeta di A Silvia: non certo a caso il primo impulso allo studio dei pen-
sieri linguistici dello Zibaldone provenne da Giuseppe de Robertis, che poi accolse La
filologia nella collana lemonnieriana da lui diretta; e a domenico de Robertis si
rivolge un periodo dell’ultima parte della prefazione del 1977, con il grato accenno a
un invito, che vi era stato, alla ripubblicazione del volume ora laterziano negli stessi
«Quaderni di letteratura e d’arte». da questo libro, come da altri luoghi in cui tim-
panaro se n’è occupato, scaturiscono importanti ricognizioni su figure di filologi e
bibliotecari quali i citati angelo mai, Barthold Georg niebuhr, amedeo Peyron; si
ricordi a questo proposito Aspetti e figure della cultura ottocentesca; soprattutto, per il
mai, si rammenti il capitolo a lui dedicato, pp. 225-271, comprensivo delle appendi-
ci A (Sulle scoperte e pubblicazioni di palinsesti prima del Mai) e B (Indicazioni biblio-
Una tale realizzazione, sia per una lettura analitica e specialistica, sia per una lettura
che privilegi l’esplorazione metodologica generale, va affidata (o riaffidata), per inte-
ro o per le sezioni d’interesse, alla fruizione diretta degli studiosi. timpanaro deve
subito avvertire che «non esiste ancora una tradizione di commenti a scritti filologi-
ci» (Prefazione, p. XViii) e ribadire che in questi scritti «la filologia è soprattutto cri-
tica testuale (proposte di emendazioni o difese di lezioni tramandate) e interpreta-
zioni di singoli passi di autori greci e latini: per i testi greci, che in molte edizioni di
allora erano accompagnati dalla traduzione latina, la diversa interpretazione data
dal leopardi si configura, per lo più, come proposta di una diversa traduzione»
(p. Viii). si accampano in questo quadro, nella loro importanza, le scoperte che mai
va facendo in ambrosiana (1814) e in Vaticana (1819). Proprio al mai e al Giordani si
rivolgono le prime lettere riguardanti i lavori filologici; la struttura costante delle Let-
tere al Giordani e al mai contempla «una prima parte dedicata alla trattazione di un
Con la nostra edizione anche la parte filologica del Supplemento, finora nota solo
frammentariamente, viene ad essere tutta pubblicata; ciò non toglie che, a nostro
parere, possa essere anche utile ripubblicare in altra sede l’intero Supplemento, com-
prese, s’intende, le aggiunte agli scritti letterari (pp. Xiii-XiV).
E ancora:
le nostre note introduttive, le note alle singole osservazioni leopardiane, l’indice ana-
litico e l’indice bibliografico permetteranno di individuare, di volta in volta, l’edizio-
ne usata dal leopardi e di distinguere, cosa molto importante, ciò che il leopardi vide
direttamente e ciò che gli fu noto soltanto di seconda mano. non molti sono, in
questo campo, i punti rimasti oscuri. le nostre ricerche potranno costituire un
primo avvio per quell’indice generale ragionato delle letture compiute dal leopardi
(non solo di quelle filologiche), che sarebbe di grande utilità e che ci auguriamo
possa essere presto intrapreso con la cooperazione di vari studiosi (p. XX).
ma la ragione dice da se che chi vuole per giusto motivo mettersi a questo lavoro per
ordinario odioso e dannoso, dee prima di tutto impadronirsi affatto della materia che
ha da ristringere, poi da questa tirare il succo, e fare di dir molto con poco (non già
poco con poco), esprimere colle parole proprie i detti dell’autor suo più brevemente
che questi non fece, levar via il non necessario, correr diritto al segno, e soprattutto
aver l’occhio che dove ei tronca il superfluo non apparisca la piaga, e però questa sal-
dar subito con parole adattate che rappicchino insieme le membra dell’opera […]; e
come il traduttore dee fare ogni opera di parere originale, così anch’egli ingegnarsi a
più potere di comparire autore e non compendiatore, almeno a prima giunta, e però
sfuggir di copiare a parola a parola l’autor suo, o farlo di rarissimo, e non mai a
lungo, perché è impossibile che i pezzi dell’opera grande stieno in giusta proporzione
nella piccola, come non può chi copia un gran quadro in piccola tela, ritrarre senz’as-
surdità qualche figura della grandezza che questa è nell’originale. Così le istorie di
trogo furono compendiate da Giustino, il cui scritto chi leggesse senza sapere che
fosse un Compendio, non così di leggeri se n’avvedrebbe; così lattanzio compendiò
le sue istituzioni, non già copiandosi perpetuamente ma ristringendo le molte paro-
le in poche, e omettendo il non necessario (LETTERA, pp. 13-14).
nel Capo XXii. <Xii 16, i> μετὰ τὴν ἐυχὴν μέλλοντα τοῦ παρεσκευασμένου πρὸς
τὴν θυσίαν ἱερείου κατάρχεσθαι è tradotto dal mai: «quumque precibus persolutis
sacrificium esset inchoaturus.» Propriamente τοῦ ἱερείου κατάρχεσθαι vuol dire:
«victimam ferire» o «libare», che ambedue questi significati può avere quel verbo,
come prova il Buddeo. Vedete se non par copiato da questo luogo di dionigi que-
st’altro di arriano: (Exp. alex. [Expeditio Alexandri] lib. 2. c. 26. <§ 4>): καὶ ἐν
τοῦτο θύοντι Ἀλεξάνδρῳ και ἐστεφανωμένῴ τε καὶ ΚΑΤΑΡΧΕΣΘΑΙ ΜΕΛΛΟΝΤΙ
ΤΟΥ πρώτου ΙΕΡΕΙΟΥ κατὰ νόμον, κ. τ. λ.
dionigi e arriano sono fra gli autori greci di maggior interesse per leopardi. anzi,
arriano ricorre nell’universo citazionale di Giacomo, fin da allora e con qualche
oscillazione di giudizio, per poi figurare spesso, nello Zibaldone, come esempio di
prosa greca nel complesso limpida e scorrevole (pur se meno fluida rispetto a quella
dell’ammirato senofonte), prosa di minore e d’imitatore, non priva al momento o nel
passo opportuno di rinforzo retorico, ma pur sempre frutto di cifra linguistica atti-
sotto questo aspetto, la polemica leopardiana contro gli apologeti della divinità o della
natura presenta una reale analogia con la polemica marxista contro la pretesa degli
hegeliani (e di tutta una millenaria tradizione filosofica) di sopprimere l’alienazione
umana «nel pensiero» e non, prima di tutto, «nella realtà»: di giustificare il mondo e
non di cambiarlo. soltanto, per il pensiero marxista la realtà che è causa dell’infelicità
umana è essenzialmente una realtà economico-sociale; per il leopardi, è essenzial-
mente una realtà fisico-biologica. Per il marxista, la forza condizionatrice della natu-
ra sull’uomo si è esercitata soprattutto ai primordi dell’umanità, in una specie di pro-
logo o di antefatto preistorico: da quando l’uomo ha cominciato a lavorare e a
produrre, la natura avrebbe cominciato a ridursi (e sempre più si ridurrebbe in futu-
ro) a mero oggetto di attività umana: l’«uomo storico» metterebbe sempre più in
ombra, e alla fine assorbirebbe e supererebbe del tutto l’«uomo naturale». Per il
leopardi, la natura conserva anche di fronte all’uomo civilizzato tutta la sua formi-
dabile forza logoratrice e distruttrice: perciò la lotta dell’uomo contro la natura si con-
figura nel pensiero leopardiano come una lotta disperata, e la distruzione di tutti i
miti non dà luogo a una visione ottimistica della realtà, ma ad un pessimismo lucido
e combattivo (Il pensiero del Leopardi, p. 147)33.
ricordo appena come nella sua coeva polemica contro Karl Korsch timpanaro, filo-
soficamente severissmo col Korsch filoidealista, fosse invece politicamente assai sim-
patizzante con il Korsch estremista, che trovava esaltante per l’utopia d’una rivolu-
zione operaia spontanea e pura, senza fasi intermedie e senza capi e insieme disperato
e pessimista per la consapevolezza che d’un’utopia appunto si trattava, essendo in
realtà la classe operaia isolata e debole. la disperazione pessimistica: in lucano,
politicamente reazionario, una filosofia rivoluzionaria; in Korsch, reazionario filo-
soficamente, rivoluzionaria la politica. Rovesci della medesima medaglia, la stessa
quanto mai ‘romantica’ contraddizione: che appunto il classicista-illuminista leo-
pardi, col suo materialismo e antimoderatismo, era chiamato a comporre.
di diverso segno sono i dissensi d’àmbito leopardiano rispetto a Binni. Per que-
st’ultimo, del quale timpanaro disapprova anche la posizione riduttiva verso gli
studi di Umberto Bosco e, in altro senso, di Emilio Bigi, vi è la forte presenza in leo-
pardi di motivi romantici assolutamente distinti da quelli originati da quelle conce-
zioni e ispirazioni filosofico-culturali reazionarie o reazionario-religiose che in quan-
impressiona […] constatare come sia nel vivo dello specialistico lavoro di storico
della filologia che cresca il bisogno di filosofia e di teoria, di critica politica delle
ideologie. Certo, da sempre, la passione politica militante e, negli anni cinquanta, il
precisarsi della scelta marxista; certo, negli anni sessanta del centrosinistra e poi della
nuova sinistra, stimoli esterni fortissimi alla politicizzazione della ricerca e del lavoro
culturale: ne verranno intrisi negli anni successivi la critica del marxismo hegeliano e
dialettico da lui posto a fondamento del giustificazionismo storico e del graduali-
smo politico, la critica del freudismo e dello strutturalismo, quella asperrima contro il
dal punto di vista linguistico la inquietante centralità, fra Herder schelling e schlegel,
del romantico – postilluministico e postkantiano – concetto di organismo e la non
meno inquietante ineludibilità di Wilhelm von Humboldt per comprendere lo stesso
superamento del romanticismo schlegeliano operato da Franz Bopp. insomma, la
strada per giungere all’evoluzionismo darwiniano dal materialismo e sensismo set-
tecenteschi era stata in Europa troppo più lunga e tormentata di quanto gli italiani
capitoli antiromantici e filoclassicisti avessero lasciato intendere: rispetto ad essi non
solo i saggi materialisti (engelsiani e antihegeliani) di «Quaderni piacentini», ma
anche, anzi soprattutto questi linguistici di «Critica storica» (e lo stesso vale per gli
studi freudiani) rappresentarono un notevole sforzo, da parte di timpanaro, di apri-
re la propria riflessione filosofica e ideologica alla medesima dimensione europea che
da subito aveva caratterizzato le sue ricerche di storia della filologia classica (Timpa-
naro e il problema del romanticismo, cit., p. 157).
***
il vero e proprio dialogo critico di timpanaro avviene, in gran parte, con gli
studiosi convinti d’un leopardi materialista e “democratico”, attestato su posizioni
ideologiche avanzate, o, almeno, sempre dichiarabili come tali dall’intellettuale che
professa, del tutto o parzialmente, un’origine culturale sensistico-illuministica. se si è
potuta affermare l’idea (non immotivata, anche se bisognosa di precisazioni al suo
interno) d’una linea esegetica luporini-Binni-timpanaro-Biral, ciò è avvenuto perché
vi sono filoni interpretativi manifestamente diversi da quello materialistico, rispetto
ai quali è diverso l’atteggiamento di timpanaro. Più che oggetto di diretta polemica,
la tradizione, o le tradizioni critiche che tendono a scindere leopardi dall’illuminismo
e dalle basi settecentesche della sua cultura, e che ricercano piuttosto le «discenden-
ze novecentesche» del poeta e del pensatore, sono evocate con grandi segnali di
conoscenza degli argomenti, ma anche con perspicui indicatori di “distanza”, di lon-
tananza dello studioso da queste impostazioni. la vera polemica (anche diretta, se
così la vogliamo definire) viene condotta negli scambi critici, nei riposizionamenti
che timpanaro effettua nel suo “colloquio illuministico” con quelle sponde biblio-
grafiche che qualitativamente sono eleggibili a titolari di dialogo: è lì che il filologo
leopardista critica, polemizza, sottrae le basi alle letture irrazionalistiche, antisette-
centesche, romanticheggianti di leopardi; la pars destruens nasce e si sviluppa nei
saggi dedicati alla discussione con i materialisti, con i marxisti, anche con gli studio-
si di diversa impostazione ideologico-culturale, ma non si attua frontalmente nei
riguardi dei portatori d’una visione di leopardi del tutto aliena dalla sua. la pars
destruens si enuclea e deve enuclearsi pur sempre all’interno della pars instruens.
sarebbe dunque fuori luogo attendersi un affondo critico scritto su impostazioni
come, ad esempio, quella di Gioanola in Leopardi, la malinconia39. sia in tal senso suf-
ficiente rammentare che timpanaro ha tra i suoi più individuati bersagli polemici le
se la filologia ancora una volta reclama in leopardi la propria sfera e il proprio rango
d’attività peculiare e indipendente, non si può altrettanto dire, con speculare schema-
tismo, che la sua concezione della «letteratura» non partecipi della «filosofia», e non sul
piano della sola etica (la definizione di «moralista», come scrive timpanaro nella
citata prefazione ai Nuovi studi, appare alquanto riduttiva). leopardi rimane un intel-
lettuale, un poeta-filosofo di formazione sensistica e materialistica, un autore che
«non sacrifica il significato al significante», uno scrittore le cui espressioni artistiche
rappresentano uno «strumento conoscitivo» in quanto “poesia – o prosa – di un pen-
siero”, «di quel pensiero»; da questa prospettiva riescono ben difficili, alla luce degli svi-
luppi letterarî novecenteschi, operazioni critiche tese ad attualizzarne «alla leggera» la
lezione ideologica e creativa; leopardi non può, insomma, essere considerato un pre-
cursore dell’estetica della “poesia pura”, né «è stato mai poeta di pure immagini o di
puri suoni […]: da questo punto di vista, non è un “contemporaneo”, e va letto “stori-
camente”. Chi si sente suo contemporaneo (non solo ammiratore ma “seguace”) deve
avere la consapevolezza di trovarsi in una posizione di minoranza» (Prefazione, cit.,
p. XVii); e prima ancora timpanaro, nel citato monito sul pericolo costituito da certe
incongrue operazioni di acquisizione di leopardi al novecento, aveva scritto: «non si
dovrebbe dimenticare che la letteratura italiana del novecento si è “rifondata”, essen-
zialmente, su modelli stranieri, specialmente francesi (di una Francia antiilluministi-
ca e antimaterialistica). l’ “attualità” del leopardi è l’attualità di un classico, che durerà
«quanto il mondo lontana», se il mondo non precipiterà in un funesto miscuglio di
barbarie misticheggiante e superstiziosa nello stesso tempo» (ibidem). Poco più sotto
(p. XViii), espresse in due interrogative dirette, vi sono le ultime parole della Prefa-
zione ai Nuovi studi, propriamente dedicate a leopardi, due num d’affilato diniego d’o-
gni ispirazione non materialistica del poeta della Ginestra:
quella “fiera compiacenza”, quel “rifiuto d’ogni conforto stolto” (Amore e morte),
quell’avversione, insieme, contro la superbia umanistica e contro l’umiliazione a un
Potere superiore, quella convinzione che nessun dio abbia diritto di punire l’uomo
per presunti peccati, quella visione della specie umana costretta a difendersi perpe-
tuamente contro colei che d’Holbach chiama ironicamente la Provvidenza ma che,
già per lui, è istigatrice della natura contro l’uomo, rivelano un’affinità innegabile tra
il carattere agonistico del pessimismo leopardiano e la posizione di d’Holbach
(p. lXV).
del resto, lo stesso d’Holbach pone fine ad Il buon senso con una citazione dagli
Essays on Human Knowledge di Henry saint-John Bolingbroke: «la teologia è il vaso
di Pandora; e se è impossibile richiuderlo, è almeno utile avvertire che questo vaso
così funesto è aperto». i rapporti con leopardi sono, ricorda timpanaro, documen-
tabili. leopardi lesse Il buon senso nel 1825, alla vigilia della fase più approfondita
della sua elaborazione d’un pensiero materialistico, quella del 1826-1827: cfr. Zibal-
done, 9 marzo e 18 settembre 1827; si rilegga una parte di quest’ultima pagina (Zibal-
done, 4288):
se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi
nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene p. lo meno
uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza
nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello
che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi
in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da
quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero
ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo.
Un processo argomentativo del tutto analogo governa, quattro anni prima, un passo
che riguarda la presunta “naturale sociabilità dell’uomo”, in Zibaldone, 3804-3805 (25-
30 ottobre 1823); non soltanto la visione idealistico-positiva della genesi della società
umana, o la sua bimillenaria codificazione storico-retorica, ma la stessa tradizione
sistematico-aristotelica occidentale vedrà ribaltato il discutibile archetipo (tale ormai
esso è divenuto) del πολιτικόν ζῷον:
moltissimi, anzi la più parte degli argomenti che si adducono a provare la sociabilità
naturale dell’uomo, non hanno valore alcuno, benché sieno molto persuasivi; per-
ciocch’essi veramente non sono tirati dalla considerazione dell’uomo in natura, che noi
pochissimo conosciamo, ma dell’uomo quale noi lo conosciamo e siamo soliti di
osservarlo, cioè dell’uomo in società ed infinitamente alterato dalle assuefazioni. le
E il poeta è giunto a queste conclusioni fin dal 1821 (9 settembre); a proposito del-
l’accezione linguistico-filosofica di «natura», si vedano alcuni importanti pensieri
dello Zibaldone, incentrati sulla riprova del valore di tale termine nell’àmbito dell’arte
letteraria (3-6 ottobre 1823, 3613-3616). innanzi tutto, trattando il carattere emi-
nentemente fisico, somatico, sensibile dei personaggi omerici eroicizzanti (e si parla
dell’omero dell’Iliade), risulta chiaro a leopardi che natura vuol dire, qui come
quasi sempre, «materia», «corporalità»; ma anche come concetto di corporalità, inte-
so nelle coordinate mitologico-culturali della grecità antica, la natura incarna l’illu-
sione e fornisce illusioni; se in questo stadio del suo pensiero essa è citata come cor-
poralità, in una dittologia oppositiva con spiritualità – ragione, in séguito ragione e
illusioni scambieranno i propri ruoli, poiché l’una residuerà come unico mezzo di stu-
dio della natura, mentre le illusioni saranno inchiodate al polo negativo definito
dalla spiritualità, dalla sfera dell’inganno, dalla sfera dell’astratto: per così dire, l’oppo-
sizione del concreto all’astratto, del sensibile al razionabile, della generosa gagliardia
delle passioni all’arida ragione, assegna in quel primo tempo il termine stesso di
ragione, piuttosto che all’antichità, a una temperie culturale ravvicinabile a quella del
medioevo, e assegna invece il termine di illusione al mondo classico, alla civiltà
greca, e non è una boutade; «illusione», per il mondo classico, non può che essere un
valore dotato d’immediata traduzione in «materialità», espressa in codice artistico,
letterario, trasposta in àmbito creativo e ricreativo di queste mirabili forze; e ragione
è, allora (nel 1823 e ancora non per molto), proiettato in un modello polemico anco-
ra in parte monaldesco, sinonimo di religione, di spiritualizzazione, di civiltà, di
ordine, di razionalità, ed è altresì (e qui già non più in chiave monaldesca) sinonimo
d’artefazione, di degenerazione, d’idolatria del progresso tecnico-civile: la ragione cri-
ticamente colpita da leopardi, fin da allora, non è quella illuministica (semmai, si
tratta della sua declinazione razionalistico-gesuitica d’ascendenza sei-settecentesca),
ma è la “ragione” religiosa, spiritualizzante, moraleggiante, “astratta”42:
da tutte queste considerazioni risulta che l’iliade oltre all’essere il più perfetto poema
epico quanto al disegno, in contrario di quel che generalmente si stima, lo è anche
quanto ai caratteri principali, perché questi sono più interessanti che negli altri poemi.
E ciò perché sono più amabili. E sono più amabili perché più conformi a natura, più
si noti che «materiali» («qualità […] materiali», «pregi materiali», «Eroi […] mate-
riali») è sinonimo di illusioni (quale poeta più di omero, quali eroi più di quelli
iliadici incarnano, e non solo per leopardi, le grandi e magnanime illusioni antiche e
le forze che le stesse illusioni rappresentano e riproducono?) e che «ragione», «ragio-
nevole» sono sinonimi di qualità «spirituali, interiori, morali, proprie dell’animo, e
che dall’animo solo hanno ad esser concepite, e valutate», e così «ragione» è sinonimo
di «spiritualizzazione»; e i «cantori e i personificatori della ragione» possono trovare
nel pius Aeneas, nel religiosissimo eroe troiano, non meno che in odisseo, la loro
compiuta incarnazione artistica (a Virgilio in tal senso più volte leopardi allude,
come del resto ad altri esponenti della più “evoluta” poesia latina).
Già si è fatto cenno a quella che è, a sua volta, la propensione antimentalistica e
antispiritualistica negli sviluppi del Cicerone neoaccademico; ora, è possibile indivi-
duarne, sulla scorta di timpanaro, nella filosofia pratica, nelle regole di condotta
morale inter homines, nella considerazione della figura del saggio e della sua pretesa
autonomia non soltanto culturale, ma anche naturale e biologica, la somiglianza con
le soluzioni e con gli approdi del pensiero leopardiano, principalmente dal 1824 in
poi. Carneade, innanzi tutto; è intorno a questo apprezzabile e tutt’altro che ignoto
filosofo che ruota molta parte del pragmatico scetticismo d’un Cicerone che dal
canto suo non manca d’essere sempre impegnato nell’opera di riduzione e adatta-
mento dello stoicismo rigoristico non tanto, e banalmente, all’«empirica mentalità
romana», come una fin troppo accreditata tradizione di storiografia culturale ha rei-
teratamente sostenuto, quanto alla “propria” filosofia (non priva d’elementi di vera
notevole, in particolare, la critica rivolta agli stoici (ognuno s’avvedrà di quanti ele-
menti qui vibrino in direzione leopardiana): «sulle orme» di Carneade, Cicerone
rimprovera allo stoicismo la adrogantia (l’orgogliosa “sicurezza” nel possesso d’un cri-
terio conoscitivo ed etico), il citato concetto di provvidenza, le «troppe concessioni»
alla religiosità popolare e alle forme superstiziose, il rigorismo etico, che porta
all’individuazione della virtù come unico bene e della malvagità come unico male e
all’indifferenza riguardo alla vita fisica e ad ogni suo bene e male, per una figura di
saggio autonomo e ancora una volta tetragono e potenzialmente felice anche se sot-
toposto a tormentose pressioni esterne (basti appena ricordare l’importanza condi-
zionante e determinante degli accadimenti della vita biologica, e insomma della
natura concreta e materiale in leopardi). Pure nei riguardi degli epicurei, alla critica
ciceroniana concernente il disimpegno politico s’unisce la critica al concetto di pia-
cere come sommo bene, che, se «inteso in modo rozzo e immediato», avrebbe potu-
nell’etica, teofrasto aveva sentito, ancor più del suo maestro, un salutare bisogno di
antiascetismo, di consapevolezza della dipendenza dell’uomo dai beni e dai mali
«esterni», di assenza di boria filosofica, in contrasto con lo spirito predominante
nelle filosofie ellenistiche. specialmente nei libri ii, iV, V del De finibus C., in pole-
mica con Epicuro ma, non meno, con gli stoici, dette il giusto rilievo a questa umana
indulgenza dell’etica teofrastea: certo, la virtù rimane il bene più alto, ma vi sono feli-
cità (salute, agiatezza…) e infelicità (malattie, povertà…) che non possono essere
dichiarate inesistenti nemmeno dal saggio. la saggezza consisterà nel saper godere le
prime senza lasciarsene dominare, sopportare le seconde con animo forte, ma pagan-
do un inevitabile prezzo di sofferenza, poiché anche il saggio è un uomo e ha un
corpo (e l’anima stessa non è del tutto autonoma dal corpo). in ciò, come ben vide
Giacomo leopardi, teofrasto fu più veracemente materialista e edonista di Epicuro;
e forse, dopo millennii di speculazione filosofica, non ha ancora vinto del tutto la sua
battaglia. né C., con questa apertura all’etica teofrastea, entrava in conflitto col pro-
prio neoaccademismo (pp. XXiV-XXV).
nemmeno si può ravvisare, nel susseguirsi dei Rougon-macquart, una linea di cre-
scente psicologizzazione, come potrebbe piacere (e di fatto è piaciuto […], a proposito
dei giudizi di Flaubert e di mallarmé) a chi, forzando assai la realtà, ha ammirato in
zola certi aspetti “pre-decadenti” e ha considerato il verismo e il materialismo come
scorie da tollerare con indulgenza (questo modo di ammirare zola ha avuto il suo più
reciso, e in sostanza non condivisibile, rappresentante in d’annunzio […]) (Prefa-
zione a La conquista di Plassans, cit., p. XXXViii).
non stupisce, certo, il fatto che timpanaro abbia inteso focalizzare l’approdo al
socialismo di de amicis. il socialismo, s’intende socialismo scientifico, marxiano, è
infatti la vera ratio ideologica e politica dello studioso di leopardi e della tradizione
materialistica. socialismo è, qui (come lo era nei classici del pensiero marxista),
concetto insieme inclusivo del comunismo e ad esso prelusivo, verso la meta d’un
processo storico che dovrebbe contemplare la perfetta società ugualitaria non solo sul
piano politico e civile, ma anche sul piano sociale e su quello dei rapporti di produ-
zione. È d’uso ricordare la definizione, inevitabilmente approssimativa, che timpanaro
ha dato del proprio pensiero nella prefazione alla prima edizione (1965) di Classici-
smo e illuminismo nell’Ottocento italiano (una definizione che lo ha in séguito ripe-
tutamente obbligato a precisazioni d’ogni genere sulla natura del binomio composto
da marxismo e leopardismo):
Qui accennerò soltanto che la concezione generale a cui queste pagine si ispirano
(una concezione, spero, non aprioristicamente sovrapposta alla ricerca storica) è
una specie di marxismo-leopardismo che, mentre accetta l’analisi marxista della
società e gli obiettivi di lotta politico-sociale che sono con essa congiunti, per ciò che
riguarda invece il rapporto uomo-natura si richiama soprattutto al materialismo
vero e proprio (adialettico, «volgare», se così piace chiamarlo) del settecento e dell’ot-
tocento, all’edonismo che gli è organicamente connesso e alle conseguenze pessimi-
stiche che, con maggiore coerenza e lucidità di chiunque altro, ne ha tratto il leopardi
(pp. lXXViii).
Ciò che Engels dice […] a proposito della fine dell’umanità e del sistema solare,
costituisce proprio un tipico esempio di negazione adialettica, di quelle che vorrei
chiamare «perdite secche». Ciò non esclude affatto che processi autocontraddittorii
[…] esistano realmente […]. Quello che ho sempre tenuto a ribadire, è che non si
può porre un aut-aut esaustivo: o materialismo dialettico, o materialismo volgare o
meccanico. C’è spazio per un materialismo storico (non storicistico, non «giustifi-
cazionista» […]), che non ignori il diverso ritmo e i diversi modi della storicità della
natura (ivi compreso l’uomo in quanto animale) e della società. Certo, un tale mate-
rialismo è, in parte, ancora un desideratum: presuppone una teoria della conoscenza
che non si basi più sull’eterno discorso dell’oggetto che presuppone il soggetto et simi-
lia, ma su uno studio del pensiero come funzione degli organi di senso e del cervello
[…] (p. Xii).
naturalmente, perché due visioni della realtà possano agire l’una sull’altra, coopera-
re ad una nuova sintesi, occorre che, malgrado tutte le diversità da noi non mai
taciute, esista anche un punto in comune. Esso è rappresentato dal rifiuto della filo-
sofia come “consolazione”, dalla convinzione che i mali di cui soffre l’umanità non
devono essere “giustificati”, ma, ogni volta che è possibile, soppressi, e quando non è
possibile, denunciati come tali, senza alcun “conforto stolto”. È un punto importante
perché significa, pur movendo da formazioni culturali ed esperienze pratiche così
diverse, una rottura netta da una millenaria concezione della filosofia, che nemmeno
il secolo XViii aveva compiuto in modo così coerente. ma i climi politico-culturali di
“compromesso” a lungo termine (non i momentanei compromessi che ogni movi-
mento politico deve saper fare in caso di necessità) non sono stati mai favorevoli né
alla fortuna di marx e di Engels, né a quella di Giacomo leopardi.
i danni ecologici sono causati da “umani”, che, in linguaggio meno souple, si chia-
mano fisici nucleari e chimici asserviti al Potere e mossi da tutt’altro che da puro
amore per la scienza come conoscenza o come alleviatrice dell’infelicità: si chiamano
grandi industriali uniti in formidabili concentrazioni nazionali e multinazionali, che
nel nucleare e nella produzione chimica inquinante hanno già investito e intendono
ancora investire cifre astronomiche; si chiamano spesso anche piccoli industriali e
produttori agricoli che, quanto a spregiudicatezza inquinante, non sono secondi a
nessuno (la toscana è una tipica regione di ‘piccoli inquinatori’, adriano sofri non ne
sarà del tutto ignaro); si chiamano militaristi che, fra l’altro, sanno bene che ogni
ricerca sul ‘nucleare pacifico’ è utilizzabile per il ‘nucleare bellico’ (e lo stesso si dica
per il settore chimico). non c’è bisogno di continuare l’elenco. Esso, nella sua som-
marietà, basta già a mettere in chiaro che una politica ‘verde’ o si riduce a vaghi e
innocui appelli sullo stile della società per la protezione degli animali o dell’Esercito
della salvezza, e allora, certo, non dà fastidio a nessun “umano”, ma è una mistifica-
zione che non salva dall’inquinamento e, se serve a qualcosa, serve a distrarre la gente
dalla disumanità e iniquità di questo mondo occidentale; o si propone davvero una
E ancora:
l’itinerario (tormentato, non privo di andirivieni, ma tuttavia ben reale) che succes-
sivamente il leopardi compì fino ad approdare alla concezione della natura matrigna,
cieco meccanismo di produzione-distruzione, causa dell’infelicità umana pur senza
averne coscienza, andrebbe considerato, da un punto di vista ‘verde’, come un regres-
so (p. 166).
non, dunque, un abbraccio di fraternità interclassista, bensì la lotta delle classi, la lotta
di classe, ancora, e semmai ancor più di prima, invocabile come unica realtà e come
unica soluzione, come unico tentativo di reale salvezza dalla distruzione.
***
[…] si vedrà, credo, che il meglio degli studi classici nell’italia preunitaria non è
dovuto ai neoguelfi o ai romantici, ma ai classicisti-illuministi: monti, Giordani,
Peyron (solo dopo il ’48 passato da posizioni illuministiche e riformatrici a posizio-
ni clericali e reazionarie), leopardi, Cattaneo. l’influsso di questa corrente perdura
anche nel secondo ottocento: al Cattaneo si ricollega l’ascoli (la cui impostazione
della questione della lingua è nettamente antimanzoniana e antiromantica); lo stesso
Comparetti potè, sì, essere definito «romantico» dal Pasquali per il suo interesse per
le tradizioni popolari, ma non si deve dimenticare l’ispirazione profondamente illu-
ministica e laica del Virgilio nel medio evo, che culmina nell’esaltazione di dante
come primo umanista (molto bene su questo punto il treves, p. 1054). E se è giusto
indicare nelle tendenze razziste e colonialiste, nella propensione alle generalizza-
zioni affrettate o, viceversa, nell’angustia erudita i lati negativi di molto positivismo,
non è giusto svalutare quegli aspetti per cui il positivismo prosegue e sviluppa l’illu-
minismo: l’antimetafisica, la storicizzazione della natura, l’interesse per il rapporto
uomo-natura. Questi aspetti non furono privi di ripercussioni nemmeno nel campo
degli studi greco-latini: è un riflesso del positivismo il rinnovato interesse per Epicuro
e lucrezio, che in italia trovò espressione in Gaetano trezza e, con maggiore distac-
co storico, nel Comparetti e soprattutto nello splendido commento a lucrezio di
Carlo Giussani61.
ma in quale misura è esistita nel secolo scorso una storiografia del mondo antico che
possa dirsi neoguelfa? Questa è la domanda che si presentava spontanea già al letto-
re de L’idea di Roma e che si ripresenta al lettore del nuovo volume. il Croce, anche se
sopravvalutò la scuola neoguelfa, aveva comunque tutto il diritto di parlarne ampia-
mente, perché si riferiva agli studi di storia medievale di Balbo, troya, manzoni,
Capponi. ma nel campo della storia antica, a cui si riferisce il treves, è difficile indi-
care in tutto l’ottocento una sola opera originale di indirizzo neoguelfo. Vi sono,
sta a designare tutte quelle pratiche di vita, quelle consuetudini proprie di una comu-
nità, che il singolo rispetta e riproduce spontaneamente, senza necessità alcuna di sot-
toporle al vaglio della sua critica e della sua scelta: cioè l’insieme dei valori e dei com-
portamenti che sono pre-dati alla sua esistenza individuale e cadono, come tali,
fuori della sua possibilità di decisione, di elaborazione e di trasformazione (p. 140).
ora, in sede di storiografia del marxismo, ciò che va sottolineato è che proprio tale
connessione feticismo-reificazione-natura seconda ha costituito l’asse portante di
quel marxismo europeo del ’900 (in particolare il lukács di Storia e coscienza di
classe e il marxismo tedesco dalla scuola di Francoforte in poi), che per timpanaro
partecipa invece, tutto, di una regressione idealistica e soggettivistica. E che dunque
ciò che timpanaro condanna come marxismo fortemente gravato da una forte cur-
vatura dialettica implica all’opposto una fondamentale articolazione d’oggettivismo
sociologico che esplicita come il materialismo di marx, proprio a partire dalla realtà
dei rapporti di produzione del capitale, possa spiegare in modo né semplicistico né
meccanico la genesi delle forme di coscienza e dell’immaginario ideologico della
società contemporanea. / ma alla visione di timpanaro, anche per la forte compo-
nente scientifico-naturalistica presente nella sua ispirazione, è fatto divieto d’inten-
dere la tesi fondamentale del marxismo europeo d’origine hegeliana: e cioè che un’a-
strazione possa generare realtà. ossia che la società moderna vada compresa non a
partire da soggetti individuali e concreti, come vuole l’intera tradizione di cultura
anglosassone […], bensì da quella soggettività impersonale ed astratta che è la ric-
chezza capitalistica nel suo carattere quantitativo e accumulativo. Vietandosi così d’in-
tendere anche come la teoria hegelo-marxiana del nesso di socializzazione moderna,
quale nesso collocato esternamente ai singoli per essere simmetrico e garante della
loro presunta libertà, apra un’interpretazione della modernità istituita sull’astrazione-
reificazione (pp. 142-143).
ma appunto anche nel caso del giudizio sull’opera di Freud e della psicanalisi ciò che
timpanaro rifiuta di accogliere nel suo orizzonte mentale è l’idea di una logica terza
che non sia né quella di causa-effetto del determinismo naturalistico né quella del
pensiero logico-discorsivo, ossia di una logica ‘altra’ del comportamento umano che
non sia riconducibile né a una causalità materialistico-corporea (qual è quella co-
munque privilegiata nella spiegazione della prassi umana da timpanaro) né a uno
scegliere consapevolmente e responsabilmente motivato. invece è proprio questo
tipo di legalità che Freud ha inaugurato, scoprendo il continente fin allora scono-
sempre a Freud va accreditata una «riflessione sul linguaggio, a partire dalla distin-
zione tra Sachevorstellung (rappresentazione di cosa), e Wortvorstellung (rappresen-
tazione di parola)», che conduce
alla tesi fondamentale per la sua teorizzazione della psicanalisi, che non solo il men-
tale, o lo psichico, coincide se non in parte assai limitata con il cosciente e l’inten-
zionale, ma che la parte della mente che s’identifica inconscia in tanto è tale in
quanto non si struttura e non si organizza linguisticamente. il pensiero inconscio è un
pensiero senza linguaggio: questa l’affermazione più propria di Freud, che appunto
dedica luoghi fondamentali della sua opera, in una continuità che va al di là delle due
topiche e delle due teorie pulsionali, ad argomentare come la logica costruttiva e asso-
ciativa dell’inconscio non si serva dell’articolazione delle parole e dei fonemi lingui-
stici, bensì di una associazione-dissociazione che procede attraverso materiale rap-
presentativo concreto, fatto di immagini sensoriali (visive, auditive, olfattili, tattili,
cinestesiche) senza linguaggio. / il pensiero incoscio, com’è argomentato in modo
esemplare nella Traumdeutung attraverso l’analisi delle funzioni della ‘condensazione’,
dello ‘spostamento’, ecc., è un pensiero che associa in modo diverso dall’associare lin-
guistico-discorsivo proprio del pensiero cosciente (pp. 146-147).
E parlo di passione costante perché il suo interesse per il mondo animale ha fatto
sempre da sostrato a tutto il suo studio attorno alle vicissitudini storiche, sociali, cul-
turali dell’animale-uomo. non si comprenderebbe altrimenti l’insistere così martel-
lante sul tema della marginalità dell’uomo nell’universo, sul fatto che per lunghissimo
tempo la vita sulla terra non c’è stata, che il suo sorgere è dipeso da particolarissime
condizioni, e soprattutto che il pensiero stesso dell’uomo, lungi dall’essere, come
vogliono l’idealismo e l’attualismo, la sede e il fulcro di questi stessi contenuti scien-
tifici, è condizionato dalla sua struttura anatomica e fisiologica, ed è dunque suscet-
tibile di essere offuscato, impedito, spento, da alterazioni patologiche, da stati di
delirio, di follia, di collasso, dall’invecchiamento e dalla morte. / Condizionamento e
passività: questi sono i due cardini del materialismo biologicamente fondato, che gui-
dano timpanaro al rifiuto verso quanto di «magnifiche sorti e progressive» dell’uma-
nità possa essere espresso o anche soltanto implicito nella versione dialettica del
materialismo. […] il suo è un socialismo, si può dire, senza sole dell’avvenire […]
(p. 74).
è mancato l’artiglio del filologo per vedere in spinoza il senso antiteologico della
negazione dell’opposizione tra libertà e necessità, e della libertà come realizzazione
della natura umana; per vedere la critica serrata dei miracoli nel Trattato teologico-
politico, che attrasse l’attenzione appassionata di marx, e la distruzione del teleologi-
smo e del provvidenzialismo nell’appendice alla parte prima dell’Etica, testo che
ispirò potentemente tanta parte del pensiero libertino e illuministico del settecento
francese; sul piacere e sul dolore, basti pensare che in spinoza la superstizione con-
siste nel giudicare cattive tutte le cose che arrecano gioia e buone tutte le cose che
arrecano tristezza; mentre viene qualificata come «tristis et torva superstitio» la
rinuncia agli onesti piaceri materiali della vita (p. 83).
materialismo significa, per lui [Timpanaro], conoscenza a fondo del dolore; e per
edonismo si può soltanto intendere il precipizio interminabile del rimpianto. leo-
pardi domina tutta l’atmosfera anche filosofica, entro la quale lui si muove e pensa;
dunque il piacere è figlio d’affanno; le gioie della giovinezza sono illusioni che cado-
no all’apparir del vero; nerina or più non gode, e il suo aver goduto, se c’è stato, è irri-
mediabilmente sopraffatto dall’acerbo destino mortale. C’è un primato della soffe-
renza sulla gioia, del declino sulla crescita, in nome del quale si rintuzzano come
pseudo-religioni consolatorie e illusorie le virtù del melius vivere, proprie di quei clas-
sici, da Epicuro a spinoza, che emarginano la meditatio mortis. no, sebastiano tim-
panaro non sarebbe stato conquistato alla filosofia di spinoza nemmeno se l’avesse
studiata a fondo (ibid.).
nessun altro forse, tra i letterati e i pensatori del secolo appena trascorso, ha vissu-
to così interamente, e con argomentazione così serrata, il messaggio unico e uni-
versale di dolore che emana da leopardi. lo stesso non risolversi (né dialettica-
mente, si capisce, né in altra maniera) delle contraddizioni teoriche, fa tutt’uno
con la forza espressiva di questa disperazione. E il tutto in un clima psicologico
opposto a quello della passività o della rassegnazione, anzi, con lo scatto incessante
della ribellione (p. 84).
materialismo basato sulle scienze della natura che non sia ancora pervenuto al punto
di vista marxista […] ma svolga intanto un’azione chiarificatrice in senso laico, anti-
provvidenzialista, antiantropocentrico. in questo ambito, dice lenin, la “letteratura
militante ateistica del XViii secolo ha ancora una funzione indispensabile da adem-
piere” (timPanaRo, Sul materialismo, cit., p. 218, con i relativi rinvii testuali a
lenin).
Per cercare una conclusiva focalizzazione del leopardi di timpanaro non è forse
necessario un diretto appello al pensiero, né è necessaria un’importazione di questo
pensiero nella poesia leopardiana; basta mirare alla poesia stessa, alla quale timpa-
naro è stato spesso accusato di aver fatto torto in nome della filosofia; si può tornare
al nostro inizio, alla σιωπῶσα ἀπάτη, all’agguato illusionistico della bellezza, ma qui
non di Aspasia, bensì di A Silvia e in genere degli idilli recanatesi 1828-1830; è pro-
prio questa fase di lettura diretta, di fruizione testuale del dettato lirico-poetico che è
tanto mancata ai lettori di timpanaro, ed è proprio qui che a nostro avviso va inne-
stata la lezione del leopardista: qui, per dire che anche, e si dica precipuamente questo
polo di gravitazione della maggior parte della leopardistica non solo italiana, ma
internazionale, questo polo che sembra essere in qualche modo “non centrale” nel-
l’applicazione critica di timpanaro, beneficia in realtà, più di altre sponde di riferi-
mento, della nuova lettura dell’opera del Recanatese promossa dall’abnegazione dello
studioso. si può giungere all’affermazione che è esattamente la visione liricocentrica
ad avvantaggiarsi di novità interpretativa, a lumeggiarsi, anziché oscurarsi a causa
della presenza indispensabile del pensiero leopardiano, ivi più che mai compresa la
filosofia «amara e trista», e tutt’altro che sopravvenuta e superfetata, espressasi negli
anni ’30. se anche la lirica degli idilli pisani e post-pisani affabula in termini indi-
menticabili il chiarimento del meccanismo dell’inganno, essa va vista e attraversata, sì,
nella stessa direzione nella quale siamo abituati a leggerla, ma percorrendo tale dire-
zione nel verso e nel senso concettualmente opposti: non dall’illusione all’«apparir del
vero», dall’inganno al disinganno, dalla vibratilità sentimentale alla «tomba ignuda»,
ma dalla lucida e amarissima ragione, dalla ragione disillusa e attivamente capace di
dominare la propria materia (una ragione che ormai presiede incontrastata all’ispi-
razione del canto), alla formazione – tramite l’effetto seducente, si dica pure l’esca
della bellezza e dell’illusione – dell’immagine vaga e indefinita della giovinezza, di
quell’attesa inconsapevole e speranzosa del futuro che appare più che mai conse-
guenza e frutto dell’azione di forze ancora intatte dal tocco sconsolante ma veritiero
di ragione. E un valore non consolante, bensì lucidamente chiarificatorio è rivestito
dall’apparente à rebours di questi idilli; il volgersi indietro, infatti, non mira a banal-
mente riprodurre la cronologia diaristica del percorso illusioni-«apparir del vero»,
giovinezza-maturità, ma investe, alla luce delle Operette (la vera fonte letteraria di
questa estrema produzione recanatese), il cuore del problema “genetico” dell’illu-
sione: e tale constatazione può valere per tutti questi idilli, dal vago delle sensazioni a
suo tempo vissute in A Silvia al mare memoriale delle Ricordanze, dall’uscita da un
pericolo nella Quiete al tempo dell’attesa o dell’autoillusione retrospettiva nel Sabato
(la «donzelletta» e la «vecchiarella»; la prima inventa sul futuro, e ripete l’operazione
ogni sabato; la seconda «novellando vien del suo buon tempo», ovvero inventa sul
passato una felicità da donzelletta, racconta e si racconta che sarebbe stata felice,
retrospettivamente crea, recita il Sabato, un idillio, senza esser passata, lei perso-
naggio, dalle Operette morali); così più avanti, nel Passero solitario (ma non entriamo
il numero dei prigionieri aumenta. nuovi gruppi fanno irruzione. non è sempre faci-
le rendersi conto di chi si arrenda e venga disarmato. il cannone spara ininterrotta-
mente. / tranne che nella zona adiacente al palazzo d’inverno, la vita nelle strade
continuò sino a tarda sera. i teatri e i cinema erano aperti. sembrava che la gente
ricca e istruita della capitale non si preoccupasse molto della notizia che il loro
governo era sotto il fuoco del cannone. Redemeister osservò alcuni passanti che se ne
stavano tranquillamente presso il ponte troitsky, visto che i marinai non li avevano
lasciati procedere oltre. «non c’era niente di straordinario da vedere». dalla parte
della casa del popolo Redemeister incontrò alcuni conoscenti che, mentre tuonava il
cannone, gli comunicarono che Šaljapin era stato impareggiabile nel Don Carlos 76.
genesi del metodo del Lachmann, un’edizione critica come tradizione intende (il pro-
getto, dilatato a tempo biografico, d’un’edizione di Ennio, ipotizzato fin dai tardi
anni Quaranta sulla scia delle sollecitazioni seminariali pasqualiane, non si realizza e
non può realizzarsi, data l’estrema cautela e altresì l’estrema ritrosia dello studioso a
una diretta esposizione sul piano della dichiarata edizione critica). oserei dire che
questa è una fortuna per l’autore e per noi, dato che la serie di apporti filologici e cri-
tici, storici e metrici, che l’acribia di timpanaro ha recato nel tempo, lungo tutto l’ar-
co della sua carriera di studioso, alla testualità e all’interpretazione di passi, di centrali
snodi di concetto, di addipanate situazioni di difficoltà documentaria e ideologica
nello studio dei testi dell’antichità greca e latina, ha a nostro avviso grandemente pro-
fittato di questa specifica modestia programmatica e “soggettiva” che, così diremo, è
e si risolve in valentia oggettiva nel perlustratore d’opere letterarie e di scolii esegeti-
ci. latita, nel suo curriculum d’eccezione, l’edizione critica una e autosufficiente, con
eponima copertina di protocollare e istituzionale richiamo al “genere” scientifico: ma
vi è, in compenso, e in linea di leopardiana tradizione (leopardi nella sua prevalente
connotazione di filologo, non solo giovanile, è conquista critica eminentemente tim-
panariana), una nutritissima serie d’adversaria, d’annotazioni puntuali, precise, di
motivate ripartenze contro assetti linguistici non persuasivi (si tratta spesso d’adver-
saria di sontuosa consistenza qualitativa, oltre che quantitativa), volte appunto all’e-
mendazione testuale, alla concretezza del luogo critico e alla fondatezza della con-
gettura. Proprio in questa tipologia d’intervento filologico, a preferenza che in altre,
s’esprimono massimamente la competenza e la capacità di timpanaro. non penso che
oggi avremmo ereditato certi severi gioielli di profondità, di specillarità ecdotica
implacabilmente pertinace e razionalista, se la curva di destino (espressione cara a
Giacomo debenedetti) dell’attività filologica timpanariana fosse risultata convessa sul
pretto opus confectum di compiuta definizione testuale e editoriale: ipotetico esempio,
Ennio, o Virgilio, edizione critica proposta come definitiva nel tale anno, sulla base
dei dati documentari e codicologici a quella data disponibili. È, questa, una notevole
differenza (fra tante predominanti affinità) che separa la ratio filologica timpanaria-
na da quella dell’altrettanto pasqualiano lanfranco Caretti, per molti anni direttore
della benemerita collana dei «saggi di varia umanità» di nistri-lischi (sede di pub-
blicazione ’65 e ’69 del volume), e come timpanaro operante nell’àmbito della cultu-
ra fiorentina. Un laboratorio ininterrotto di studi testuali e di focalizzazioni conte-
stuali, per sua natura dinamico e instancabilmente flessibile, com’era il costume
umano e colloquiale di timpanaro, un’officina d’indagini e di ricerca in fieri vissuta
non quale fattore di contraddizione o d’interna incoerenza, ma come genesi di vera e
propria congruenza e rigore di pensiero: questa la caratterizzazione qualificante
dell’“edizione” timpanariana, non solo di Classicismo e illuminismo, ma anche, a ben
vedere, di tutte le altre sue opere. Ed è esattamente per questo motivo che risulta quasi
impossibile concepire un volume di timpanaro in unica edizione: dal citato La gene-
si del metodo del Lachmann a La filologia di Giacomo Leopardi, da Sul materialismo ad
Il lapsus freudiano, alla stessa, incompiuta ventura della volontà di rieditare Classici-
smo e illuminismo, non vi è testo che non abbia incontrato una revisione almeno uffi-
Certo, i «partiti culturali» sono sempre più fluidi dei partiti politici, e gli stessi parti-
ti politici erano nel secolo scorso ben lontani dalla rigida struttura di quelli odierni;
ma tale fluidità non dev’essere esagerata a proprio piacimento dallo storico, fino a tra-
sformare i classicisti in romantici, i giacobini in neoguelfi. / Una volta ristabilite
queste distinzioni, si vedrà, credo, che il meglio degli studi classici nell’italia preuni-
taria non è dovuto ai neoguelfi o ai romantici, ma ai classicisti-illuministi: monti,
Giordani, Peyron (solo dopo il ’48 passato da posizioni illuministiche e riformatrici a
posizioni clericali e reazionarie), leopardi, Cattaneo. l’influsso di questa corrente per-
dura anche nel secondo ottocento: al Cattaneo si ricollega l’ascoli (la cui imposta-
zione della questione della lingua è nettamente antimanzoniana e antiromantica); lo
stesso Comparetti poté, sì, essere definito «romantico» dal Pasquali per il suo inte-
resse per le tradizioni popolari, ma non si deve dimenticare l’ispirazione profonda-
mente illuministica e laica del Virgilio nel medio evo, che culmina nell’esaltazione di
dante come primo umanista (molto bene su questo punto il treves, p. 1054). E se è
giusto indicare nelle tendenze razziste e colonialiste, nella propensione alle genera-
lizzazioni affrettate o, viceversa, nell’angustia erudita i lati negativi di molto positivi-
smo, non è giusto svalutare quegli aspetti per cui il positivismo prosegue e sviluppa
nella prefazione ad Aspetti e figure (pp. X-Xi), che accoglie in volume la recensione al
treves, timpanaro spiega le ragioni della nuova pubblicazione del contributo, forte-
mente legate, ancora una volta, all’impatto-ricezione, anche presso il pubblico più
cólto, di Classicismo e illuminismo:
sarebbe bastata anche soltanto una lettura non troppo distratta dell’introduzione a
Classicismo e illuminismo, per accorgersi come io sia sempre stato del tutto alieno da
«equazioni» così rozze ed erronee, e come mi abbia mosso sempre, al contrario,
un’esigenza di ‘distinguere’ le varie posizioni politiche, ideologiche, letterarie, tenen-
domi lontano sia da caratterizzazioni «epocali» che tutto abbracciano e nulla strin-
gono […], sia da concezioni storiografiche esasperatamente individualizzanti e altret-
tanto astratte […]. la lettura della recensione all’opera di Piero treves, ripubblicata
nel presente volume (p. 371 sgg.) {«Aspetti e figure»} ma anteriore a Classicismo e illu-
minismo, dovrebbe far comprendere ancor meglio perché io abbia sentito questa
esigenza.
il classicismo dell’età augustea salvò, accanto alla raffinatezza stilistica, quella che era
la più importante conquista dei neoteroi: la capacità di esprimere l’individualità pas-
sionale, ma seppe depurarla da morbosità e sottigliezze (pp. 166-170); dette, con la
dottrina del miscere utile dulci, una spinta verso il realismo (pp. 170-175); non rove-
sciò la tendenza antiscientifica, antiepicurea, che si era ormai affermata nella cultura
greco-latina, e tuttavia, riaffermando l’ideale aristotelico di un’arte equilibrata e
razionale, costituì un argine contro concezioni irrazionalistiche della poesia (pp. 175-
178). tutte queste considerazioni – e altre non meno interessanti che siamo costretti
a tralasciare – non solo permettono di valutare molto meglio di quanto si sia fatto
finora il classicismo augusteo, ma contribuiscono anche a spiegare la funzione pro-
gressista che il classicismo ha avuto in molti momenti della storia della cultura euro-
pea, e specialmente quel nesso tra classicismo e illuminismo che appare con parti-
colare evidenza nella letteratura del settecento e del primo ottocento, e che è stato
oggetto di interesse e di discussioni in questi ultimi anni (vedi a questo proposito
anche le appendici del libro del la Penna, p. 231 sgg.). Perfino il cànone dell’imita-
zione dei classici, accanto agli influssi negativi che ognuno conosce, ha avuto talvol-
ta una sua fecondità in quanto è stato interpretato, per esempio dal leopardi, come
una forma di «ritorno alla natura» (p. 181 sgg.). tuttora, l’esigenza dell’unità della cul-
tura contro il settorialismo tecnicistico e contro nuove forme d’irrazionalismo ha, sto-
ricamente, un suo debito con la tradizione di quel classicismo che trovò la sua prima
espressione compiuta nell’età augustea. / Credo che questo resoconto, necessaria-
mente sommario, possa almeno dare una prima idea del valore e della ricchezza di un
libro che non si rivolge solo agli studiosi dell’antichità, ma anche a italianisti (spe-
cialmente per le pagine su Parini e Carducci), a francesisti (vedi l’appendice su
agrippa d’aubigné, p. 229 sg.), a uomini di cultura militante.
non è questa la sede per discutere, com’è stato fatto (ad esempio, nel citato saggio di
Vincenzo di Benedetto), sulla persuasività o meno del concetto di classicismo pro-
gressista, sulla sua reale estensibilità agli ultimi decenni del settecento ed ai primi
decenni del successivo secolo, sulla proponibilità del nesso classicismo-illuminismo
in un’epoca in cui tutti i letterati erano improntati da una formazione classicistica che
non poteva in tal senso costituire qualificante segno di differenziazione rispetto ad
altri scrittori. Basti cogliere, oltre alla conclamata occorrenza terminologica, i cenni
la Nota è già in sé eloquente, sia sulla vicenda di Epicuro, Lucrezio e Leopardi, pub-
blicato in «Critica storica», XXV, 1988, pp. 359-409 e poi appunto nei Nuovi studi, sia
nel richiamo ai «meno fortunati» volumi, non sufficientemente presenti alla critica, in
un processo di “sfortuna” lettoriale legato a doppio filo alla “fortuna” di Classicismo e
illuminismo, la cui fruizione sembra aver esonerato alcuni studiosi, per “appagata”
curiosità, dalla lettura d’altre opere ottocentistiche di timpanaro; la «parziale modi-
fica e integrazione» si riferisce al iV capitolo, Il Leopardi e i filosofi antichi. Fra questo
capitolo, e in particolare quelle pagine, ed Epicuro, Lucrezio e Leopardi, il lettore
della presente edizione, tenendo conto anche delle postille al saggio presenti nelle
Annotazioni finali, potrà condurre utili confronti e trarre spunti di riflessione. da
parte sua, anche il contributo su leopardi e la Rivoluzione francese rientra nell’area
cronologica della fine degli anni ’80: pubblicato nel volume collettivo La storia della
storiografia europea sulla Rivoluzione francese (Relazioni tenute al Congresso dell’as-
sociazione degli storici europei, maggio 1989), Roma, 1990, pp. 367-381, quindi nei
Nuovi studi, esso è in tutto contiguo all’Epicuro dell’’88 e conclude la serie di saggi
leopardiani della “triade” nistri-lischi Classicismo-Aspetti-Nuovi studi. in questa
edizione è infatti prevalso il criterio di riunione del “centro”, del cuore leopardiano
della saggistica letteraria nistri-lischi; non propriamente ed elettivamente leopar-
diano appare porsi De Amicis di fronte a Manzoni e a Leopardi, nei Nuovi studi, in cui,
a differenza che in Epicuro, Lucrezio e Leopardi, solo gli ultimi paragrafi, nn. 8-13,
sono indirettamente dedicati al Recanatese, grazie alla sua fortuna linguistica e lette-
raria presso lo scrittore d’oneglia.
infine, si consideri che l’eventuale ricostituzione in uno stesso volume d’un nucleo
giordaniano prima di quello leopardiano, oltre a produrre, in sé, ipertrofici effetti edi-
toriali non consueti nella volontà di timpanaro, non sarebbe realmente giustificata
dal comportamento e dalle dichiarazioni dello stesso autore, che nella citata pre-
messa dell’ ’88 si limita a indicare in modo esplicito il solo Epicuro, Lucrezio e Leopardi
(e si ricordi che due dei quattro contributi giordaniani dei Nuovi studi, Pietro Gioia,
Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846 e Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di
Pietro Giordani, rispettivamente del 1981 e del 1987, erano appunto già usciti all’epoca
sulla vicenda di Epicuro, Lucrezio e Leopardi gioverà riprodurre due lettere, scritte da
timpanaro al filologo classico, e leopardista, sergio sconocchia, studioso più volte
citato nel saggio per i suoi importanti e preziosi contributi. ambedue le lettere sono
indirizzate da Firenze ad ancona. nella prima, del 21 novembre 1988, timpanaro si
riferisce alla relazione di sconocchia intitolata Ancora su Leopardi e Lucrezio, desti-
nata al convegno nazionale su Leopardi e noi in prospettiva 2000, organizzato dal-
l’accademia marchigiana di scienze, lettere ed arti e tenutosi ad ancona dal 23 al 25
ottobre 1987; tale relazione viene inviata in anteprima a timpanaro, ancora nello stato
di dattiloscritto, nel luglio 1988, quando è quasi finita la stesura di Epicuro, Lucrezio e
Leopardi, che dovrà uscire nello stesso anno in «Critica storica» (timpanaro è co-
munque in tempo a fruire del lavoro inviatogli da sconocchia); poi il saggio di sco-
nocchia esce autonomamente in volume, e in anticipo sugli atti del convegno (anco-
na, la lucerna, ottobre 1988), e vi è un nuovo invio a timpanaro, che, ringraziando
l’amico studioso con questa prima lettera, gli comunica che non potrà segnalare il
volume, perché ha appena licenziato le ultime bozze dell’articolo per «Critica storica»,
non ancora uscito; il volume sarà citato nella redazione pubblicata nei Nuovi studi,
mentre il fascicolo del 1988 di «Critica storica» (prima redazione del saggio di tim-
panaro) sarà successivamente inviato ad ancona: sulla copertina, la dedica autografa:
«Con amicizia e gratitudine (e in attesa di critiche!) / s. t.» (la copertina reca la
seguente intestazione: «estratto da / CRitiCa stoRiCa / BollEttino a.s.E. /
i. due facciate
50123 Firenze,
Via Ginori, 38,
21. Xi.1988
Caro sconocchia,
grazie del tuo saggio leopardiano-lucreziano, che già così gentilmente mi avevi fatto
leggere in anteprima. Hai fatto benissimo a pubblicarlo a parte, senza aspettare gli atti
del Convegno. il mio articolo non è ancora uscito in «Critica storica»: dovrebbe
uscire presto, ho già licenziato le ultime bozze. non faccio più in tempo, perciò, a
segnalare questa tua pubblicazione ‘separata’: ho citato gli atti marchigiani in un Post-
scriptum e ho esplicitamente menzionato la ‘scoperta’ della derivazione delle citazioni
lucreziane dalla Collectio Pisaurensis; quanto al resto, ho accennato nel P. s. che i
nostri due studi, anche se in notevole misura divergenti, possono essere considerati
complementari.
i lettori giudicheranno; e, naturalmente, appena sarà uscito il mio articolo tu
avrai il pieno diritto di discutere quei punti che ti sembreranno errati o inadeguati.
Grazie ancora, un saluto affettuoso dal tuo
sebastiano timpanaro
Carissimo sconocchia,
molte grazie per tutto ciò che mi hai mandato: sei un lavoratore instancabile, e ti
muovi con eguale sicurezza nel campo leopardiano e in quello della medicina antica!
Proprio in questi giorni torridi (sto per andare in ferie, ma per poco tempo) correggo
le seconde bozze di un ultimo volumetto di cose otto-novecentesche, alcune nuove,
altre rivedute e corrette.* {richiamo con asterisco a fine pagina} * Uscirà a Pisa presso
nistri-lischi. tra queste, ripubblico anche, con varie aggiunte e modifiche, quel mio
articolo del 1988 su Epicuro, lucrezio e leopardi. mi fosse arrivato prima il tuo arti-
colo! avrei potuto menzionare e utilizzare più ampiamente i risultati a cui sei giunto.
ora devo limitarmi a un accenno un po’ troppo sintetico, perché ho già fatto sulle
prime bozze tante correzioni straordinarie che, se butto all’aria anche le seconde, l’e-
ditore mi fucila! il volumetto {canc.: «arriv», cioè «arriverà»} uscirà poi in autunno.
anche le tue cose di storia della medicina mi hanno molto interessato.
Vorrei farti avere un mio volume, Nuovi contributi di filol. e storia della lingua
latina, in cui mi è accaduto (col prezioso aiuto di Boscherini) di occuparmi {canc.:
«di»}, en passant, di tonsillae e cose del genere. ma la casa Pàtron è stata avarissima di
copie in omaggio; anche a me ne ha mandato un numero irrisorio, e sono sparite
sùbito. Vedrò, comunque, di fartene avere una copia. Grazie ancora di tutto e buona
estate (qui a Firenze 40 gradi!). tuo
sebastiano timpanaro.
P.s. Rallegramenti vivissimi per la vittoria nel concorso! {prima facciata in alto a sini-
stra, graficamente isolato e segnalato}.
si riassumono, a questo punto, a beneficio del lettore, gli esiti di materiale alle-
stimento prodotti dai criteri di questa rinnovata edizione. si sono innanzi tutto
ricondotti i due Addenda della seconda edizione nel corpus dell’indice “curricolare”,
riallineando date alla mano Natura, dèi e fato agli altri saggi e incorporando le
postille a stampa del ’69, con richiamo d’asterisco nella stessa pagina, alle parti di
testo cui si riferiscono. si sono quindi inseriti nell’indice (sempre rispettando la
successione cronologica degli autori trattati e, nell’àmbito d’ogni autore, la cronologia
di composizione di timpanaro) sei contributi, di cui quattro da Aspetti e figure della
cultura ottocentesca (a formare rispettivamente i capp. V, Vii, Xi e l’Appendice II) e
due da Nuovi studi sul nostro Ottocento (a formare i capp. Viii e iX); totale undici
capitoli più due Appendici, rispetto ai cinque con Appendice della prima edizione, e
rispetto ai cinque con Appendice e Addenda della seconda. la vecchia Appendice,
mantenuta nella sua istituzionale collocazione ma concettualmente accorpabile fin
dal ’65 al capitolo cattaneano-ascoliano, si ordina come I rispetto a quella trevesiana
(II), già ripubblicata, quest’ultima, nel 1980, con l’espresso fine d’un chiarimento
***
Quanto finora detto riguarda l’allestimento del volume sotto il profilo dei testi già
stampati, sia di quelli che appartenevano alle originarie due edizioni degli anni ’60,
sia di quelli inclusi dagli altri due libri, a questo omogenei per argomenti e per pro-
tocollo editoriale. le Annotazioni autografe che concludono l’edizione accolgono le
integrazioni, le modifiche, le revisioni di giudizio, le correzioni terminologiche, e in
qualche caso gli interventi di rimedio a singoli refusi da parte dell’autore: dopo il
1969, come ampiamente chiariscono le successive Note alle ristampe, non v’è più
stata alcuna possibilità per timpanaro di operare sul testo, o sui testi. lasciamo per
intero alla fruizione del lettore il giudizio critico-interpretativo, la valutazione, la con-
siderazione qualitativa e quantitativa del materiale d’annotazione manoscritta (a bi-
ro o a lapis) che abbiamo qui riportato e riprodotto, avendo per parte nostra come
criterio la restituzione della realtà grafica degli originali timpanariani, dove è possi-
bile, fino al singolo tratto di penna, o al segno orizzontale o verticale di richiamo, o
alla singola sottolineatura senza ulteriore parola esplicita dell’autore; le sottolineatu-
re di parola o parole, o d’intere frasi, che non costituiscano titolo di opera, anziché
essere riprodotte con il corsivo sono riprodotte con il carattere sottolineato: esatta-
mente come nell’originale; altrettanto si è fatto per le parole cancellate, riprodotte con
lo stile barrato. E così si è proceduto per ogni aspetto d’una serie d’annotazioni fitta e
ricca di significati culturali, segno d’un processo d’inesauribile riflessione, di continuo
ripensamento, di costante aggiornamento bibliografico, di assidua ricerca di riferi-
menti e di rinforzi, di conferme e di aggiunte sul piano della visione critica, dell’e-
diamo conto, qui, di una serie di note autografe apposte da sebastiano timpa-
naro a tre volumi nistri-lischiani, di cui uno, com’è ben noto, è costituito da una rac-
colta di studi e testimonianze del 1972 in ricordo e in onore di Giorgio Pasquali
(timpanaro, oltre a parteciparvi con il saggio intitolato Storicismo di Pasquali,
pp. 120-146, vi collabora come accurato revisore della bibliografia). l’elaborazione
critica e gli approfondimenti di studio retrostanti a queste note richiederanno, certo,
ulteriori verifiche ed indagini mirate. Qui si intende fornire notizia testuale della pre-
senza e dell’entità di tali aggiunte e rettifiche autografe ad alcuni saggi, a scopo di
segnalazione di questo materiale agli studiosi. Rimane vero che la figura di timpa-
naro junior è stata oggetto di molta attenzione negli ultimi anni. ma – e credo non
soltanto a nostro parere – risultano comunque degne di rilievo le annotazioni che egli
è venuto facendo ad importanti suoi contributi di Aspetti e figure e dei Nuovi studi; si
tratta di annotazioni che abbracciano una varietà di tipologie integrative e correttorie,
dal refuso maligno («storica» > «stoica» – Asp. e f, p. 34 r. 34 –) al refuso evidente
(«un accenno stile» > «un accenno ostile» – p. 35 r. 24 –), dalla vera e propria auto-
correzione (si veda l’epigramma Caesar ad Rubiconem) alla parziale rettifica (si veda
in tal senso la citazione di un’espressione elogiativa di Pietro Giordani per Cicerone,
nel capitolo intitolato Il Giordani e la questione della lingua, a dimostrazione della
posizione non sempre categoricamente ostile del Piacentino verso l’antico oratore).
nel nostro prospetto, provvisto di note esplicative qui ridotte all’indispensabile, indi-
chiamo, sotto il titolo di ogni saggio, la pagina e il rigo che contengono il testo e la
relativa annotazione (i volumi di riferimento – oltre al citato Per Giorgio Pasquali –,
entrambi in unica edizione, sono ovviamente Aspetti e figure della cultura ottocentesca,
Pisa, nistri-lischi, 1980, e Nuovi studi sul nostro Ottocento, ivi, 1994; a proposito di
quest’ultimo volume, le annotazioni autografe sono apposte in due copie del libro, cia-
scuna con note proprie; le segnaliamo regolarmente con c1 e c2; cr significa correzione
[di] refuso).
annotazioni aUtoGRaFE in ASPETTI E FIGURE DELLA CULTURA OTTO-
CENTESCA
p. 35 r. 24: «un accenno stile» > «un accenno ostile» [cr]; a lapis colorato, margine
destro.
p. 53 r. 2: «cfr. Bruto minore ecc. (Velli ap.{ud?} la Penna). / zumbini «grave ospite
addetta» in Ultimo canto di Saffo, 24, cfr. luc.{ano} Viii 157 (Blasucci, Berardi scuo-
la normale 1987, 837 n. {)}»; a lapis, margine destro; come si vede, «Berardi» è can-
cellato2.
p. 65 r. 4: «Xi, 103 «“non mi degnerei parlare a chi preponesse la vita alle degne
cagioni di vivere” (cfr. propter vitam vivendi perdere causas)» (ancora Giordani); a
lapis, intestazione pagina e margine destro5.
in questo saggio segnaliamo noi un altro refuso, a p. 52, n. 75, rigo 6, nella cita-
zione goethiana dalla Klassische Walpurgisnacht del Faust, ii: «vv. 7007-1009» va
corretto in «vv. 7007-7009».
p. 89 r. 19: «il 25 giugno 1822 il Perticari, da tempo ammalato, moriva» > «26: cfr. i.
Pascucci, st. oliv. Xi, 1963, e lettera qui acclusa»; «25» è sottolineato; timpanaro si
pp. 102-103: «sive quis infesto cognata in pectora ferro / ibit seu nullum violarit vul-
nere pignus, / ignoti iugulum tamquam scelus inputet hostis. / lucano Vii, 323-5»
(«sia che leviate il ferro per colpire il petto dei congiunti, / sia che non violiate con
ferita nessuna persona cara, / il nemico v’imputerà a delitto l’avere sgozzato un igno-
to» – tr. di luca Canali –); biglietto inserito nel volume (la scrittura, sebbene non si
offra a facile attribuzione perché calligraficamente impostata, non appare di mano di
timpanaro).
segnaliamo noi un altro refuso, a p. 85: «luigi Cristostomo Ferrucci» > «luigi
Crisostomo Ferrucci».
p. 128 n. 32: «Cfr. Cic. Div., Nat. d.?» (ovviamente, De divinatione e De natura deo-
rum); a lapis.
p. 190 n. 69: «tuttavia cfr. anche Xi, 21 “l’abbondanza elegante di Cicerone, e l’armo-
nia ch’egli solo ha saputo creare e donare a una lingua così dura e aspra, sono degnis-
sime di considerazione”. E poi ibid. il paragone Cic. – livio»; a lapis, margine sinistro
e intestazione9.
ibid.: «per Cicerone, Vii 166, a Gussalli con ripetizione: “Poiché Cicerone ti piace
molto hai, secondo Quintiliano, fatto grande profitto” (3 luglio 1846). Cfr. anche
tutto il giudizio su Cicerone; e i passi cit. oltre» a penna, margine destro11.
p. 197: «F. Quintil. 10, 1, 102 (da Pindaro)??» («F.» prima di «Quintil.» sta per
«Fabio», Quintiliano appunto); a lapis, margine destro.
p. 211 n. 99: «cfr. lett. – Gigli in Forlini» (si tratta d’ottavio Gigli, altre volte oggetto
d’attenzione da parte di Giordani e di timpanaro: cfr. GioVanni FoRlini-Vit-
toRio anElli, Problemi filologici nelle lettere di Pietro Giordani a Ottavio Gigli, in
«archivio storico delle provincie parmensi», serie iV, XXViii, 1976, p. 143 sgg.; cit. in
Nuovi studi sul nostro Ottocento – Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopo-
li –, p. 63); a lapis, margine destro nota12.
ibid.: «“que’ perpetui avversarî d’ogni bene; de’ quali sì propriamente ed efficace-
mente disse il Gesuita Bartoli che tanto ingrassano quanto ingannano, e tanto ardi-
scono quanto non temono”» (naturalmente, i gesuiti stessi); a lapis, piè pagina13.
p. 213 n. 104: «Viglio ecc.» (si tratta di Patrizia Viglio, studiosa dei cui lavori timpa-
naro si è occupato: cfr. Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846, in
Nuovi studi, pp. 69-101, dedicato al commento critico – in gran parte segnato dal
consenso – all’articolo della stessa PatRizia ViGlio, La nascita degli asili infantili
a Piacenza, in «Bollettino storico piacentino», lXXiV, 1979, pp. 107-134; inutile
ricordare il grande interesse per gli asili d’infanzia, professato in chiave d’ideologia
pedagogica democratica, dalla madre di timpanaro, maria Cardini); a lapis, margine
destro nota.
p. 215: «ivi gli raccomanda di leggere il Dict. philos., le Quest. sur l’Encycl. (mentre
“nelle opere storiche non val molto”) e tra i romanzi brevi L’Huron ou l’Ingénu)»;
notevole – si tratta solamente di aggiunta nostra – la netta propensione di Giordani
per le opere filosofiche di Voltaire rispetto alle opere storiche; a lapis, intestazione14.
p. 233 r. 6: «in quel tempo» > «in quel tempo, pur», poi cancellato; a pennarello a
colore, margine destro.
ibid. r. 25: «dei mai» > «del mai» [cr]; a lapis, margine destro.
p. 261 r. 3: «müter» > «münter» [cr]; a lapis, margine destro (lo studioso Frederick
münter).
p. 266 r. 35: «(con introd. non firmata) Il Colombo dell’Ambrosiana: lettere di A. Mai a
G. Andres, in “Civiltà cattolica” 85 (1934), vol. i, 55 ss., 154 ss., 277 ss.; p. 158 su
mustoxidi; p. 288 sull’Eusebio e rapp. con zohrab»; queste annotazioni integrano le
pagine della bibliografia sul mai: cfr. Appendice B. Indicazioni bibliografiche sul Mai,
complessivamente pp. 262-271; sulla vicenda della Cronaca di Eusebio fra zohrab e le
annotazioni leopardiane cfr. ora PantalEo PalmiERi, Leopardi. La lingua degli
affetti e altri studi, Cesena, società Editrice «il Ponte Vecchio», 2001, pp. 65 e n., 130-
132; sull’importanza di Bartolomeo Borghesi come figura di filologo, ivi, pp. 88-89, 94
n., 95 n., 99, 101, 102, 105 n., 124-133, 137, 139, 141, 149, 151; / Giovanni andres è
Juan andrés; a penna, margine sinistro e intestazione.
p. 358 r. 21: «i, 226-228; si noti che C. stesso teme di lasciarsi indurre da “prevenzio-
ni” patriottiche; e il giudizio, negativo, è tuttavia molto oscillante»; l’autore sottolinea
il fatto che «il forte anticlericalismo risorgimentale e positivista del Comparetti»
non ha come conseguenza «un’incomprensione storica del cristianesimo e del medio
evo»; nel testo di pagina, «medio evo» è sottolineato a mano; fa séguito, nel testo di
timpanaro, «i capitoli del Virgilio nel medio evo […]»; a penna, margine sinistro.
segnaliamo noi, qui, un altro refuso: p. 365 r. 23: «Coomparetti» > «Comparetti».
PREFAZIONE
p. XVii rr. 19-20: «barbarie misticheggiante e superstiziosa» > «tecnocratica»; a
lapis, c1 margine destro.
ibid.: «barbarie misticheggiante e superstiziosa» > «superstiziosa e tecnocratica»; a
lapis, c2 margine destro.
p. 7 rr. 13-24: «: Ediz. naz., Epist., p. 137 sg., lett. al Pindemonte del 26 luglio 1806;» >
«(Ediz. naz. etc.);» eliminati i “due punti” iniziali; il riferimento è all’epistolario del
Foscolo; a penna, c2 margine destro.
p. 9 n. 7: «e la loro lingua non fiorentina» > «e la loro lingua parlata non fiorentina»
(l’autore si riferisce alla volontà del Cesari di non esporre al biasimo, ma anzi di
accomunare in una generale legittimità d’elogio, scrittori toscani non fiorentini come
il pisano domenico Cavalca, l’aretino Petrarca, il certaldese Boccaccio); a penna, c2
margine destro nota.
p. 23 n. 18: «p. 453 n. 1» > «p. 453 n. 1)» [cr]; chiusura di parentesi; a penna, c2 mar-
gine destro nota.
p. 119 r. 6: «1976» > «1876» [cr]; l’autore corregge la data d’edizione di GioVanni
la CECilia, Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876, Roma, artero, appunto
1876-1878; a penna, c1 margine destro.
p. 124 r. 19: «Cfr. anche F. orsini, Memorie politiche, p. 168»; l’indicazione si aggiun-
ge al Giuseppe montanelli di Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal
1814 al 1850, naturalmente riguardo al Bini (e al suo progressivo distacco dal modus
cogitandi e dal modus operandi di mazzini); a lapis, c2 margine sinistro.
indiCE dEi nomi E dEllE CosE PRinCiPali (NUOVI STUDI SUL NOSTRO
OTTOCENTO)
p. 237: «aporti, Ferrante, 69 n. 1, 71 n. 4» > «aporti, etc., 77 n. 13» a penna, c2.
p. 238: «Brambilla, P., 25» dopo la voce «Brambilla, alberto» con relative pagine
d’occorrenza (si tratta di Pietro Brambilla); a penna, c1 margine sinistro.
aggiungiamo noi che altrettanto va fatto per R. Bonghi e G. sforza, citt. come P.
Brambilla a p. 25 r. 29, e per Vittorio anelli, cit. a p. 63 r. 30 (Le lettere di Pietro Gior-
dani ad Antonio Papadopoli): «anelli, Vittorio, XViii, 56-57, 101 e n. 35» > «anelli,
Vittorio, XViii, 56-57, 63, 101 e n. 35».
p. 131 r. 18: «cf. traina Gandiglio, p. 27 n. 42»; cfr. annotazione precedente (alFon-
so tRaina, A. Gandiglio: un grammatico tra due mondi, Bologna, Pàtron, 1985); a
penna, margine destro.
p. 138 n. 20: «Che su questo problema Pasquali rischi di esagerare in senso opposto»
> «[…] rischiasse […]»; contro il mito della poesia popolare collettiva; a penna,
margine destro.
ibid.: «tuttavia a poesia popolare non ‘calata dall’alto’ Pasquali credeva per le leggen-
de slave, finniche, greche moderne: cfr. il necrologio di Pavolini (ma con una picco-
la riserva), Scr. filol. ii p. 77815.»; a penna, piè pagina.
141 r. 6: «26»; cancellata la nota 26, che era pura ripresa della n. 25, citazione del-
l’arnaldo momigliano di G. De Sanctis e A. Rostagni; a penna, nel testo.
ivi, r. 21: «(» cr; inserzione di apertura parentesi; a penna, nel testo.
p. 142 rr. 7-8: «caratteritiche» > «caratteristiche», cr; a penna margine sinistro.
ivi, rr. 8-11: «i diritti della ricerca filologica, per esempio, non furono mai contestati
dalle varie tendenze “antipositivistiche” della cultura tedesca» > «[…] apertamente
contestati […]»; a penna, margine sinistro.
p. 145 r. 2: «rec. non det.»; «Recentiores non deteriores»: viene richiamato in maniera
abbreviata il titolo pasqualiano, in un contesto che sottolinea come Paul maas, nelle
edizioni della Textkritik successive alla prima, non abbia imparato nulla da Pasquali,
a differenza del filologo italiano, che seppe invece trarre alcuni elementi dallo stesso
maas; a penna, intestazione pagina.
p. 170 (Bibliografia, 1936, n. 315): «non firmato»; riferito alla voce «Rostagno, Enri-
co, Ei [Enciclopedia Italiana] XXX, 159».
p. 177 (Bibliografia, 1948, n. 432): «432 bis – Rec. a: E. Howald, Der Dichter von Kal-
limachos von Kyrene, Erlenbach – zürich [1943]. Belf iii, 125 (rist. in Belf 1970,
marzo, p. iV fuori testo)»; Ernst Howald pubblicò il suo scritto presso l’editore E.
Rentsch, appunto nel 1943.
in un’intervista di molti anni fa, mario luzi indicava nella prosa di Cesare Garboli
e in quella di Pietro Citati gli esempi più proponibili, in italia, di quella che è defini-
ta «scrittura saggistica»; nella stessa misura, benché applicata a esperienza critica
diversissima, vale la messa a punto di mario lavagetto sulla figura di studioso rap-
presentata da Giacomo debenedetti (si veda l’introduzione ai Saggi critici. terza
serie, marsilio 1994), alla sua libera e insieme rigorosa dottrina di avvicinamento ai
testi: una linea di saggistica perspicace, interdisciplinare, e non accademica nella
sua curva di destino. l’ennesima fatica di Citati1 non sembra sfuggire a questa pur
dinamica, e certo lusinghiera, definizione; la libertà di ricerca e d’escussione delle fonti
si traduce – è sigillo critico di Citati – in un ritmo scrittorio segnato da cadenze sti-
listiche internamente mimetiche di determinati caratteri espressivi del biografato (si
tratta d’un mimetismo non negato dallo stesso saggista) e la costruzione dei capitoli si
apre ad intere pagine d’illustrazione, o di narrazione, dei tratti psicologici, degli stili di
vita, del contesto umano, e naturalmente delle letture via via documentabili o indo-
vinabili in leopardi; tali pagine spesso precedono la vera e propria trattazione del
focus oggettivo del capitolo, o la accompagnano significativamente, sebbene un
opportuno spazio tipografico le mantenga quasi sempre distinte dalla diretta rassegna
ricognitiva sull’argomento stesso. Più che biografia, un’affabulazione scrittoria, quel-
la di Citati (si pensi, fra i tanti volumi dello scrittore, al Tolstoj), che procede tra
fondamentale adesione al tracciato cronologico dell’autore studiato e il “taglio”, appun-
to, di monografia-saggio, concepita e attuata – in una difficile esplorazione, in un’in-
sidiosa e laboriosa immersione nel mondo leopardiano – sfruttando lo spazio di
resoconto riguardo a fonti, classiche o non classiche, che non sempre sono state
prese in sufficiente considerazione nella storia critica del Recanatese. se si volessero
sinteticamente anticipare alcune delle proposte critiche della monografia, si dovreb-
bero indicare l’individuazione delle malattie determinanti per la storia, non solo
personale, di leopardi (il morbo di Pott, o tubercolosi ossea, la patologia metamorfica
che tormenta il poeta per quasi tutta l’esistenza – non si tratterebbe dunque del
rachitismo prodotto dallo «studio matto e disperatissimo» con la conseguente auto-
colpevolizzazione di Giacomo –; una forma di psicosi maniaco-depressiva che, a
dire di Citati, si segnalerebbe già da alcune lettere al Giordani, del 30 aprile, dell’8 ago-
sto, del 26 settembre e del 21 novembre 1817), la presenza, ora più ora meno esplici-
ta, di fondali di cultura che permangono in varie “epoche” della vita dell’autore
(Rousseau, innanzi tutto, e non quello “politico”, nel contesto d’un primo ottocento
che ne adora le rêveries e le espressioni d’amore ideale; i miti della luna e del magnus
annus nell’antichità classica; il pesarese Rossini, amato dalla famiglia leopardi), aper-
ture critiche sugli spazi di città importanti per il contino di Recanati (gli esempi
concernono Roma, Pisa, napoli, con richiamo al rapporto contraddittorio che unisce
leopardi a ciascuno di questi “luoghi”), gli elementi nuovi che possono scaturire dalle
letture di opere leopardiane (da alcuni Canti, dalle Memorie del primo amore, dallo
Zibaldone, da alcune Operette morali). ma valga dire che è tutta l’opera, tutta l’affa-
bulazione di Citati a costituire un testo segnato dalla personale e talvolta originale
fruizione della figura umana e letteraria di leopardi; un testo cui sarebbe fuor di
luogo chiedere un protocollo d’impostazione storico-scientifica (pregi e difetti annes-
si) che programmaticamente esula dalla strategia ricostruttiva e interpretativa del sag-
gista. altrimenti, come si giustificherebbe l’assenza (pur potendosene indovinare i
richiami) della Quiete, del Sabato, del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
(eccettuato un passaggio – pp. 118-120 – sulla tematica della «luna»), dei Paralipo-
meni in una biografia umana e intellettuale di leopardi? assenza che è frutto di
scelta e di consapevolezza finché lo si desidera, ma è un’assenza, anche ove si consideri
la possibilità d’una campionatura emblematica – non si dice “antologica” – in una
monografia che veicola e sostiene la personale lettura del saggista assumendo i testi
che meglio vi corrispondono e che meglio la rappresentano. Forniamo intanto l’e-
lenco dei capitoli: i. Monaldo e Adelaide Leopardi; ii. L’infanzia e l’adolescenza; iii. La
mente di Leopardi; iV. Le lettere a Pietro Giordani; V. La fuga; Vi. La luna e il sole; Vii.
L’amore; Viii. Il «Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica»; iX. Lo «Zibal-
done»; X. La Natura, la Ragione, la Felicità; Xi. L’infinito; Xii. Le «Canzoni»; Xiii. Un
viaggio a Roma; XiV. Le «Operette morali»; XV. Bologna ed Epitteto; XVi. Paolina e il
teatro d’opera; XVii. Da Firenze a Pisa; XViii. Recanati e Firenze; XiX. L’albero dei
ricordi; XX. Il risorgimento, A Silvia, Il passero solitario; XXi. Le ricordanze; XXii. Il
pensiero dominante; XXiii. Napoli.
appare quindi opportuno, per il fruitore del Leopardi di Citati, condurre a sua
volta una lettura calibrata proprio sulla consapevolezza di tale cifra d’affabulazione
saggistica, non scientifica, appunto, e d’affabulazione interpretativa nel senso sog-
gettivo-ermeneutico, non storico-filologico; una lettura scandita da lampi e illumi-
nazioni critiche che indubbiamente sono propri di Citati, in una cifra compositiva e
scrittoria peculiarmente orientata a restituire un’immagine “possibile” di leopardi,
quasi a caglio d’una linea di visione del poeta a forte angolazione individuale, con
alcune finestre critiche sui personaggi che lo accompagnano, nella loro manifesta
inferiorità: tali, con caratteri fra loro opposti, i genitori; tali, in buona fede, i fratelli;
tale lo zio antici; tali alcuni amici e alcune figure femminili conosciute, o amate da
Giacomo. s’intende: il protagonista non si trova “da solo”, nel testo di Citati, e le
possibilità di ricostruire il contesto umano (assai meno quello culturale) che lo cir-
conda vi sono pur sempre, e sono condotte con quel signorile brio rappresentativo e
con quel piglio d’ariosa eleganza scrittoria che è abituale nel saggista. ma tutto sembra
convergere sul binario dello spicco individuale, dell’opportunità di far svettare soli-
tariamente la straordinaria genialità di Giacomo: parola di miele per i leopardisti
il cognato Carlo antici avrebbe voluto trasferirlo a macerata o tanto meglio a Roma,
dove poteva abitare nel palazzo antici-mattei e sfiorare la chiesa del Gesù e Piazza
navona e san Pietro, vivendo all’ombra del Vaticano. ma monaldo non voleva. anda-
re a Roma era un peccato, una violenza alla natura; e Giacomo avrebbe corso il
rischio di guastarsi, di traviarsi e il suo spirito di morire.
nello stesso modo, alle pp. 223-224, a proposito del soggiorno romano proprio nella
casa degli antici (criticata dal nipote nelle pronunce epistolari), il saggista riconosce,
senza quasi nominare il cognome dei marchesi e men che mai citare lo zio Carlo, che
a Roma leopardi lesse molto. numerosissimi dialoghi di Platone (un editore desi-
derava che egli li traducesse), luciano, Cicerone, Epitteto, Atala e René di Chateau-
briand, Il Cortegiano del Castiglione, Calderón, una vita di Rousseau, libanio, Paul et
Virginie di Bernardin de saint-Pierre, una parte dei Moralia di Plutarco, Byron in
francese, l’Iliade nella traduzione del monti, la versione dell’Asino d’oro del Firen-
zuola. Come sempre, la sua curiosità era insaziabile. trovò in casa antici il Voyage du
jeune Anacharsis en Grèce dans le milieu du quatrième siècle avant l’ère vulgaire di
Jean-Jacques Barthélemy, che aveva già letto in parte a Recanati. ne trasse notizie sul-
l’antichità classica; e sullo Zibaldone trascrisse alcune famose massime del pessimismo
antico, che fino allora aveva soltanto sfiorato.
ancora, si ricorda che nel gennaio ’23, insieme agli antici, Giacomo poté assistere al
teatro argentina a La donna del lago dell’amatissimo Rossini, e si ricorda, ovvia-
mente, la famosa visita al sepolcro del tasso. insomma, come si scrive (p. 225) in fine
di capitolo, «le lettere di leopardi da Roma non sono sempre veritiere: la malinconia,
che le avvolge, è più folta di quella che lo opprimeva mentre leggeva o passeggiava per
le strade della città. Era stato fuori di casa: si era mosso e distratto: aveva conosciuto
persone intelligenti, colte, divertenti, che lo amavano e lo stimavano; e la sua scrittu-
ra era diventata più lieta. il 3 maggio 1823 non tornò volentieri a Recanati, il suo
“sepolcro”, la sua “isola di Pasqua”. la salute peggiorò»; e lo Zibaldone, da lì a sette
mesi, conobbe l’incremento di milletrecentodiciannove pagine. il soggiorno a Roma,
anche visto in controluce recanatese, ha avuto comunque molti effetti positivi. E,
senza volervi a tutti i costi vedere meriti, se non “oggettivi”, dello zio antici, promo-
tore pur con i suoi difetti della prima uscita di leopardi nel mondo, non si può non
È questa, forse, la ricognizione più densa di novità effettuata da Citati riguardo al con-
cetto-visione della luna come muta interlocutrice del poeta; leopardi, da parte sua,
consapevole dei suddetti miti, esercita in tal senso l’arte dell’occultamento e dell’o-
missione. dalla riflessione di Citati può provenire una prospettiva di ricaduta delle
Credo che sia l’unica cosa banale che leopardi abbia mai scritto. Qualsiasi lotta degli
uomini contro la natura produce soltanto quello che Goethe racconta, negli stessi anni,
nel V atto del Faust II: spirito di possesso, avidità, violenza, tecnica magica, fuoco
demoniaco – e la distruzione di ciò che, nella natura, è naturale: Filemone e Bauci, la
piccola chiesa, i rintocchi serali della campana, il giardino paradisiaco, il vecchio
dio, i tigli oscuri, e il loro profumo, forse simile a quello dell’odorata ginestra (ibid.).
Quei vecchi là devono andarsene, desidero per mia sede i tigli. Quei pochi alberi non
miei mi guastano il dominio del mondo. Voglio costruire là, di ramo in ramo, impal-
cature per guardare tutto all’intorno, per aprire, allo sguardo, ampio orizzonte, per
vedere tutto quello che ho fatto, per abbracciare, con un solo colpo d’occhio, questo
capolavoro dello spirito umano che, operando con abile ingegno, ha creato, per i
popoli, un’ampia regione abitabile6.
ma «la natura crudel, fanciullo invitto, / il suo capriccio adempie, e senza posa /
distruggendo e formando si trastulla», piccolo Hermes ludico e letale, divertito e
indifferente:
E indarno a preservar se stesso ed altro
dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il mortal seme accorre
mille virtudi oprando in mille guise
Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
la natura crudel, fanciullo invitto,
il suo capriccio adempie, e senza posa
distruggendo e formando si trastulla.
indi varia, infinita una famiglia
di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
irreparabilmente: indi una forza
ostil, distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
Essa indefatigata; insin ch’ei giace
alfin dall’empia madre oppresso e spento (165-181).
contributo può provenire proprio dall’individuazione precisa della sua appartenenza
a quel mondo, e diciamo pure a quelle persone: la sua scelta biografico-esistenziale, e
soprattutto la sua filosofia, risulteranno, se non ci inganniamo, incertate, e meglio
definite, da quello che si configura come un vero e complesso e contraddittorio lega-
me con un ambiente reale in cui, nei modi ad esso peculiari, gli si voleva bene: non
un’ottica di denegazione e d’annullamento dell’“antagonista”, del nemico, dell’avver-
sario o del competitore, ma un’ottica che quello stesso antagonista recupera al suo
effettivo ruolo, di padre (di questo spesso ci si scorda) e appunto d’esponente d’un
mondo ideologicamente avverso a leopardi figlio, di padre che ha opinioni e con-
vinzioni radicalmente differenti da Giacomo, di padre che, in un certo senso, non ha
previsto una simile e geniale evoluzione della sua progenie (e come avrebbe potuto,
tanto più muovendo, o meglio non muovendosi affatto da quelle coordinate di marca
pontificia, classicistica in accezione tradizionalista e insieme clericalissima?).
E veniamo direttamente al Leopardi di Palmieri. il volume pubblicato dalla
società Editrice cesenate «il Ponte Vecchio» raccoglie contributi editi e inediti; que-
sto l’indice: i. La lingua degli affetti, articolato in tre paragrafi (Parole al padre; Lo scin-
tillio del riso nella scrittura epistolare di Giacomo Leopardi; Affetti familiari nello spec-
chio dello «Zibaldone»); ii. Altri studi, a sua volta articolato in tre paragrafi («Non
m’arrischio di scrivergli il primo»: Leopardi, Cassi, Perticari e la Scuola classica roma-
gnola; Leopardi e Monti: la dedicatoria delle Canzoni del 1818; Le inchieste leopardia-
ne di Augusto Campana); seguono l’Appendice (Monaldo Leopardi e l’intellettualità
romagnola) e l’Indice dei nomi; la Premessa dell’autore è alle pp. 9-10. tutti i contributi
sono nati da partecipazione a convegni quali, nell’ordine, Lingua e stile di Giacomo
Leopardi (i), Il Riso leopardiano. Comico, satira, parodia (ii), Lo Zibaldone cento anni
dopo. Composizione, edizione, temi (iii), Le vie dorate e gli orti. Le Marche di Giacomo
Leopardi (iV), la forlivese giornata di studi per l’uscita del secondo volume dell’edi-
zione critica a cura di arnaldo Bruni dell’Iliade montiana (V), le giornate cesenati in
memoria di augusto Campana (Vi), Monaldo Leopardi politico e scrittore anti-
conformista (il saggio che compare nell’Appendice). la collana «lyceum» («saggi e
studi di filosofia, storia e critica letteraria»), giunta qui al ventiseiesimo volume,
accoglie finalmente un’opera del suo direttore.
subito appare il “timbro” di Palmieri nei primi saggi, nei quali il recupero ad
un’almeno parziale positività della figura di monaldo (e, in diversa chiave, dei fratel-
li) si impone, con tenace garbo di documentaria fondatezza, fino a reclamare una
novità di posizione critico-storiografica che dovrà, a nostro avviso, essere sempre più
considerata dalla comunità degli italianisti-leopardisti. Più che di antagonismo criti-
co fra monaldisti e antimonaldisti, si tratterà di esaminare una vicenda complessa e
composita di sentimenti intrecciati e talvolta altalenanti, differenziati, non unitarî, e
men che mai monocordi. ma certo non si potrà d’ora in avanti focalizzare l’attenzio-
ne sulla sola lettera della “fuga”; scaturisce infatti da queste pagine un quadro della
famiglia leopardi un po’ meno fosco e aggelante, sicuramente meno oppressivo e
anomalo di quanto sostenuto da una lunghissima tradizione interpretativa e biogra-
fica. Pur essendo pochi e in sé ristretti, gli spiragli di luce si intravedono anche in casa
tale [sempre modellato su opinioni e umori del padre] sono stato io, anche in età
ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito
per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di
aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l’opinione e il giudizio che egli portava
della cosa; né più né meno come s’io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo o vera-
mente o nell’apparenza non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d’animo
sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia
nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime
volte un sensibile, benché non riflettuto, desiderio di tal rifugio.
l’aver reperito, nel Fondo Piancastelli della Biblioteca Comunale di Forlì, l’auto-
grafo di questa lettera ha consentito di correggere nell’edizione Flora, tra l’altro,
«soglio sempre aspettare che mi torni un altro momento» in «soglio sempre aspetta-
re che mi torni un altro momento di vena»: un restauro che mostra come leopardi
annettesse all’ambito dell’ispirazione anche il momento della rielaborazione stilistico-
linguistica. F. d’intino, Poesia e grammatica. Di alcune sviste leopardiane, su «studi e
problemi di critica testuale», 50, aprile 1995, pp. 53-61, trova qui la prova provata
della sua felice intuizione che la rielaborazione di un testo è per leopardi un «secon-
do, tormentoso momento della creazione» (p. 45, n. 22).
Felicissimi sono poi i ritratti, meritatamente famosi, del Cancellieri e di altri perso-
naggi (soprattutto cardinali della curia romana) che hanno segnato, negativamente, la
prima esperienza d’un leopardi lontano dal paterno ostello, e anzi proiettato (ma a
poco dire in chiave fortemente e consciamente critica) in una dimensione romana, in
una metropoli non industriale ma pretesca, curiale, ecclesiastica, che porge tratti
E l’indicazione, data dallo stesso Campana, del timpanaro degli Appunti per il futuro
editore dello Zibaldone e dell’Epistolario (in «Giornale storico della letteratura italiana»,
135, 1958, pp. 607-626), si flette nella priorità, per così dire, acquisita dallo stesso
Campana nel reperimento nella biblioteca Vaticana di nove autografi delle lettere sulle
quali ha lavorato timpanaro; e se Campana esclude una conoscenza diretta leo-
pardi-Borghesi, così come esclude in modo forse un po’ troppo reciso una reale
conoscenza da parte di Giacomo, negli anni 1817-1818, degli studi dell’erudito roma-
gnolo, timpanaro, a sua volta, ha a lungo sottovalutato lo stesso Borghesi come filo-
logo, salvo rivedere il proprio giudizio anche alla luce della conoscenza dei «rappor-
ti Borghesi-niebuhr». il protocollo romagnolo-marchigiano di questo ambiente di
studiosi si amplia, com’è possibile vedere, al suo naturale àmbito romano (e a Roma,
e sempre all’ambiente degli eruditi antiquarî, sono dedicate le pagine campaniane
sulle «Effemeridi letterarie», con mai e niebuhr quali collaboratori, e sul «Giornale
arcadico», che annovera l’amati, il Borghesi, il Betti).
Campana sottolineava, proprio in direzione degli interessi romagnoli, l’impor-
tanza d’un saggio quale Leopardi e Bologna, di Carlo dionisotti, raccolto nel celebre
Appunti sui moderni del 1988 (Bologna, il mulino, pp. 129-155); nello stesso modo,
Palmieri intende giustamente riconoscere lo statuto di fondamentali a saggi campa-
niani come Duecento anni di fama del Borghesi, in Bartolomeo Borghesi. Scienza e
libertà, Bologna, Pàtron, 1982 e Leopardi e Borghesi, nell’opera collettiva Critica e sto-
ria letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova, liviana, 1970, pp. 700-727 (ma il
contributo di Palmieri concerne anche il campaniano Perticari e Leopardi. «Giornale
arcadico» e «Effemeridi letterarie», apparso negli atti del convegno Leopardi e Roma,
– 7-8-9 novembre 1988 – Roma, Ed. Carlo Colombo, 1991, pp. 29-41). in questa
costellazione di studiosi e di eruditi, il lettore può seguire la vicenda delle lettere del
conte Filippo de sanctis a Bartolomeo Borghesi (appartenute al conte Giacomo
manzoni, nipote di Borghesi, furono acquisite nel 1894 dal Comune di Recanati e
sono ora conservate, insieme ad altri autografi, in una sala della Pinacoteca); furono
scritte il 16 ottobre 1858 e il 30 settembre 1859 (a quest’ultima si ha la risposta del
Borghesi, il 22 ottobre); la prima di esse formulava quesiti su tre punti, dei quali
(sostanzialmente eluso il primo) il secondo (soprattutto) ed il terzo saranno oggetto
di stimolante risposta da parte del destinatario. il disegno editoriale di Filippo de
sanctis non si realizzerà; riguardava
Cattolico», imola, dalla tipografia Galeati, a spese della società de’ Calobibliofili,
1829. il lavoro di Bonnet su cui fa base antici è l’Essai sur l’art de rendre les revolutions
utiles, tome premier-second, à Paris, chez Claude François maradan (libraire, rue
Pavée saint andré des arcs, n. 16), 18013. la dedica del marchese è «all’Emo E
Rmo [Eminentissimo e Reverendissimo] il siGnoR CaRdinal alEssandRo dÈ
dUCHi mattEi dECano dEl saCRo CollEGio, VEsCoVo E GoVERna-
toRE PERPEtUo di ostia, E VEllEtRi PRo-dataRio di nostRo siGno-
RE PaPa Pio Vii»; si tratta di quello zio paterno di marianna mattei, moglie di anti-
ci, la cui prigionia nella città di Brescia è oggetto d’una significativa narrazione di
sebastiano lazzarini. mattei, chiamato a trentatre anni da Pio Vi alla cattedra arci-
vescovile di Ferrara, dà prova in questo incarico di saggezza e di cristiana modera-
zione, quasi incarnando un modello cristologico di personale calvario, di pastore per-
seguitato, sulla scia delle celebri vicende e dei forzati pellegrinaggi di prigionia dei due
ultimi pontefici, Pio Vi e Pio Vii. «direi, che invasa la sua diocesi dalle armi del
direttorio Francese, Ella restò fermo al suo posto in guardia del proprio gregge […].
di fatti, mentre l’E. V., predicando cristiana sottomissione alle autorità politiche
qualunque esse fossero, fu accusata di fomentare rivolte, e dal Conquistatore intima-
to di recarsi a Brescia […]» (p. V): è l’inizio d’un brano di antici, che prosegue elo-
giando la tetragona continuità d’impegno pastorale di mattei mediante l’enfatizza-
zione retorica delle difficoltà affrontate, a magnificazione della figura eroicizzata,
ed esaltandone la tempra d’incrollabile fedeltà alla religione e alle strutture ecclesia-
stiche secondo modalità stilistiche e concettuali che saranno adottate anche in altri
passaggi di prosa biografica dello scrittore (dal discorso commemorativo del princi-
pe altieri, letto nell’accademia tiberina il 9 marzo 1834 – cfr. «la Voce della Ragio-
ne», iX, 1834, 49, pp. 46-56; poi, per estratto, Pesaro, nobili, 1834, pp. 3-16 –, al
discorso d’encomio del marchigiano monsignor de Cuppis, intitolato Elogio storico di
Monsignor Giacomo conte De Cuppis, in «memorie di Religione, di morale e di let-
teratura», modena, t. Vi, nn. 16-17, 1837, pp. 5-24, ai parziali, ma importanti tratti
biografico-laudativi che intessono il discorso su don Giuseppe sambuga, precettore
di principi reali, sugli stessi stolberg e sailer, per non soffermarsi su quelle che sono
addirittura figure di monarchi, quali maximilian e ludwig di Baviera; e altrettanto si
può dire su Hurter e sul tedesco barone di aretin)4. dopo quarantacinque giorni in
ostaggio, il capitano francese che presidia la città si persuade a liberarlo e gli permette
di partire per Roma; nel 1800 il cardinale mattei ottiene il vescovato suburbicario di
Palestrina, e si occupa attivamente di sinodi episcopali. a p. Vi si ha il culmine dell’e-
logio del prelato da parte di antici: «nel turbine che (pochi anni sono) svelse dal
trono il successore di Pietro, e balzò con lui prigionieri in estranea terra i Principi
della Romana Chiesa, e tanti illustri Prelati, e sacerdoti, Ella nelle più spinose circo-
stanze, si mostrò sempre degno di essere il primo nel Collegio apostolico». antici
data, quindi, il suo lavoro, compreso il breve pezzo introduttivo, in «Roma 15 luglio
1815», un passaggio storico quasi ufficiale in vista dell’inizio della Restaurazione5.
non a caso, secondo l’indice che più sotto forniamo, l’opera termina (cap. XXiV) con
la trattazione delle fasi e delle caratteristiche socio-politiche del pontificato di Pio Vii,
la nota 5, che conclude il periodo, indica, come autore delle ultime parole, il Rous-
seau dell’Essai sur l’inégalité des hommes, nella citata Préface; l’articolo prosegue così:
l’autore dovea quì aggiungere quanto era necessario per mostrarsi istruito (come un
uomo dei suoi principi dev’esserlo) che qualunque siano in apparenza gl’incidenti, che
concorrono all’elezzione [sic] del sovrano Pontefice, son pur tutti diretti da Chi,
tenendo come una stilla di rugiada l’Universo nel pugno, ha promessa alla sua Chie-
sa perpetua assistenza23.
Chiunque a questi brevi tratti, ed a quelli, che seguono si rammenta, che furono
scritti nel 1801., trovarà nuovi motivi per encomiare lo sguardo felice del nostro
autore, con cui fin d’allora penetrò il carattere ammirabile del nostro adorato sovra-
no. se Egli ancor vive sarebbe degno di scrivere la storia dei decorsi tre lustri del suo
pontificato, che esiggono la penna di un livio, o di un sallustio. in Pio Vii. vediamo
riunite l’intrepidezza di s. leone magno, l’umiltà di s. Pio V., lo spirito protettore delle
belle arti di leone X, l’amore per le salutari riforme di sisto V. Egli segnarà nei fasti
della Chiesa, e degli imperi un’epoca eternamente gloriosa.
l’opera di Pio Vii e del cardinale Consalvi viene difesa quando, secondo il tradutto-
re, Bonnet non ne ha pienamente focalizzato la complessità e l’ampiezza d’azione
(nota 50, pp. 91-94):
non potean chiudersi queste pagine con verità più consolante, e l’egregio nostro
autore, che tanto sagacemente ha meditate, ed esposte le basi fondamentali del Gover-
no Pontificio, non potea trarne che questo risultato. ma se egli seppe così ben cono-
scere i pregj di questo Governo, non seppe prevedere i felici progressi delle meditate
riforme, e cadde in grave errore supponendo, che l’ammirabile energìa del sig. Cardi-
nal Consalvi nell’eseguirle, fosse resa vana da indoverose opposizioni dei Governanti
Primarj. nò; Questi anzi cooperarono nobilmente ai benefici disegni del commun
Padre, e sovrano; e Pio Vii. non solo soppresse gli abusi annonarj divenuti in Roma la
voragine dell’Erario, e nelle Provincie un tessuto di spergiuri, di monopolj, di frodi, ed
il flagello dei Proprietarj: Pio Vii non solo emanò un sistema daziale acclamatissimo,
e proclamò la tanto bramata libertà del commercio, ma fece eseguire la complicatissi-
ma, e tanto salutare equiparazione della moneta senza scossa, e senza il minimo
non si può negare che antici, certo interpretando i sentimenti comuni derivanti
dall’ideologia conservatrice rinfrancatasi in tutta l’Europa, colga nel segno nell’indi-
viduare nella data del 1815 l’inizio d’una nuova era per il mondo occidentale: l’era
Quegli che vi scrive, miei fratelli, allevato come voi nel seno del protestantismo, e
incaricato anzi per più anni di insegnarvelo, vi ha cercato invano quella quieta pace
della coscienza, che non si può più trovare fuori della via della salute. Convinto,
che l’indifferenza per la vera fede non è in fondo, se non il disprezzo di dio medesi-
mo, non si poteva calmare a pace fin che era incerto di possederla: ma quanto più
vivo sentiva il bisogno di conoscerla, tanto più gli era amaro il non trovare nel pro-
testantismo, che delle sole incertezze. interrogava la sua ragione, e la ragione, abban-
donata a se stessa, errava di dubbio in dubbio: interrogava la Bibbia, ma né anche
questo divin libro, sendone per lui unico interprete la debole e incerta sua ragione,
non poteva punto meglio rassodare la sua fede. se, afflitto di non trovare nel suo pro-
prio giudizio una regola certa di fede, la cercava altronde, il protestantismo non gli
rispondeva da tutte le parti, che con un’orrida confusione di opinioni contraddittorie,
che lo sprofondavano in sempre più oscure incertezze: ciò stesso avealo avvertito in
Francia, in svizzera, in alemagna, in inghilterra, e ovunque avea veduto i protestan-
ti, e spezialmente i ministri, ondeggianti ad ogni vento di dottrina, sempre irresolu-
ti, né mai sopra verun punto d’accordo, che nel dubitare. tal era lo stato crudele, cui
era condannato nel protestantismo: entro se stesso non trovava, che incertezze, e al di
fuori incertezze ancora più grandi (pp. 1-2).
Voi scoprite un tal domma nella Bibbia, e sulla vostra ragione voi lo credete; ma se la
mia ragione non ve lo scorge, o vi scorge anzi il contrario, io lo debbo rigettare in
forza di quel principio medesimo, per cui voi lo ammettete. Così il luterano ammet-
te la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, perché la sua ragione lo vede chia-
ro nella Bibbia; ma siccome non ve lo vede la ragione del calvinista, il quale non ha
verun obbligo di cedere a quella del luterano, da lui non si può esigere questa cre-
denza, né asserire, che sia necessaria. Ugualmente la ragione del luterano, e del cal-
vinista è convinta, che v’ha chiaramente espressa nella Bibbia la divinità di Gesù Cri-
sto: ma come il sociniano, interpretando anch’egli colla sola sua ragione la santa
scrittura, crede trovarvi il fondamento di un’opinione contraria, non solo non ponno
asserir necessaria la fede della divinità di Gesù Cristo, ma deggiono di più ricono-
scere, che in forza del comune principio de’ protestanti, il sociniano la deve rigettare.
alla p. 36, n. 2, compare, non a caso, e a chiusura del circolo storico e logico, proprio
la figura, già celebre, del conte Friedrich leopold von stolberg: «lorché [francese:
«Lorsque»] il conte di stolberg, celebre scrittore di alemagna si fu convertito alla reli-
gione cattolica, un principe protestante gli disse: “io non amo chi cangia Religione. –
neppur io, gli rispose il signor di stolberg; perocché, se i nostri avi non l’avessero
cambiata, già tre secoli, non sarei stato obbligato a cangiarla io oggidì”»; e a p. 37:
«[…] abbandonare il protestantismo per rientrare nella Chiesa cattolica, questo è pas-
sare dalle variazioni alla credenza invariabile, dalle divisioni all’unità, dall’errore che
è nato sol jeri alla verità che è di tutti i tempi; questo è passare dal dubbio alla fede,
sfuggir dalla morte per ricuperare la vita».
la letizia per le conversioni può giungere al ribaltamento storiografico vero e pro-
prio della visione culturale dei decenni a cavallo tra settecento ed ottocento, un
ribaltamento che interessa persino la sfera terminologica: «secolo de’ lumi» finisce per
essere, anziché il XViii (il siècle des Lumières per antonomasia), quello delle conver-
sioni, in quanto esse sono, nell’ottica cristiana, insieme frutto e fonte di luce, di illu-
minazione spirituale e religiosa per le anime. È quanto si rileva nelle «memorie di
Religione, di morale e di letteratura», di modena, i serie, vol. Xii, anno 1827, pp. 184-
Risultano evidenti, da questa dedica, alcuni dati che convalidano i concetti, fin qui
constatati, di legame con la Baviera (un legame evocato anche a livello personale dal
traduttore tramite la figura di tommaso antici, il cardinale zio che lo introdusse negli
ambienti delle corti di spessore internazionale), di riproduzione dell’itinerario uni-
versità-ritorno a corte-viaggio a Roma (nel caso del Re di Baviera, Göttingen-mona-
co-Città eterna), la citazione della Gliptoteca con i busti dei famosi alemanni a iden-
tificazione delle glorie della Germania, il raffronto comparativo con alessandro
magno, risolto con un non eccessivo sforzo di retorica a vantaggio del Re che all’e-
roismo iliadico della conquista preferisce l’unione della propria corona al pastorale
della guida cristiana («altra guida non vuò, che il Vangelo»). segue il Discorso del Tra-
duttore, pp. iX-Xl, che reca ad esergo interno all’opera, a significativa ripresa del
Rousseau iniziale, il Voltaire de La Henriade, ch. X: «[…] la vérité si long-temps
attendue, / toujours chére aux humains, mais souvent inconnue, / soudain elle se
montre à ses yeux satisfaits, / Brillante d’un éclat qui n’eblouit jamais», in un primo
così tutti i rinomati suoi scrittori, resistendo al contagio del tempo, e fedeli serbandosi
all’avito carattere schietto, coscienzioso, severo della propria nazione, si fosser tenu-
ti lontani dalla manìa di desolanti sistemi, e di lubriche produzioni! sarebbe rimasto
senza rimorso il loro cuore, senza macchia la loro fama, ed i loro scritti avrebbero
consolidato l’impero delle morali virtù. in pregiudizio di queste, ognun conosce ad
evidenza esser l’urbanità peggiore della rozzezza, la scienza più funesta dell’ignoran-
za, e quel che chiamasi progresso di lumi un raffinamento di corruzione, i cui pesti-
feri vapori non da monti, non da mari rattenuti spandonsi da clima a clima, da
secolo a secolo per ammorbare le più separate popolazioni, e la più remota posterità.
il prefatore passa quindi, risolutamente, all’elogio del conte di stolberg e della sua
morale, della sua concezione letteraria non desiderosa d’immediata gloria; alla p.
XiX vengono ricordati quattro volumi di viaggio, sulla Germania, sulla svizzera,
sull’italia continentale e sulla sicilia, nei quali è lodata da antici la gentilezza, la
benevola disposizione verso i popoli visitati45. Fa séguito la delineazione della vicen-
da dello studio della sacra scrittura e dei santi Padri, e della conversione nel 1800,
con citazione della lettera del 10 ottobre 1800 al conte di schmettau, fratello della
principessa Gallitzin (compagna di conversione di stolberg), prussiano altolocato e
luterano, con breve spiegazione, richiestagli, della conversione stessa46. alle pp. XX-
XXi si sottolineano con serietà da parte di antici la saldezza, l’inalterabilità, la mira-
colosità storica della prosecuzione del messaggio e della vocazione martiriale della
Chiesa anche al passaggio di secolo di fronte all’empietà e al trionfo (pur temporaneo)
delle tendenze rivoluzionarie e antireligiose; antici condivide pienamente il concet-
to stolberghiano che sostiene l’impossibilità di allontanarsi dall’unitarietà dottrinale;
il cattolicesimo, infatti, non ammette allontanamenti, ed è in realtà, come viene aper-
tamente detto anche ai protestanti, una dottrina rigorosa, con uomini fedeli e disci-
plinati; il cattolicesimo, se corrisponde ad una fede reale e sincera, non può che
essere vissuto seriamente, mentre le altre comunioni cristiane avevano, disgiunte
dalla Chiesa di Roma, «il germe della propria distruzione» (p. XX); in nota 1 a p. XX
il dotto marchese ricorda che l’esempio fu imitato da Werner, luterano, «uno dei più
famosi poeti tragici, ed epici di Germania»; e ancora l’esempio di stolberg fu imitato,
scrive antici, «nel 1820, da un Calvinista senatore della Repubblica di Berna signor
Conoscendo peraltro, che i testi scritturali possono pur troppo servire d’inciampo,
lasciandone al giudizio privato, l’interpretazione, per cui tanti attinsero a larghi sorsi
l’errore a quella fonte perenne di verità, e trovaron morte tra quelle parole di vita, mi
son creduto nell’indispensabile dovere corredarli di note illustrative. né ho titubato
un momento nella scelta, applicandomi a quelle, con cui il tanto benemerito monsi-
gnor martini accompagnò la sua traduzione italiana dell’intiera Bibbia, come appun-
to a quella traduzione mi sono strettamente attenuto per tutt’i testi scritturali.
ma scortasi da lui quella luce, che illumina chiunque lealmente la cerca, entrò quel-
l’uomo egregio nell’ovile di Pietro, e tutto il restante del viver suo non fu, che un can-
tico di lode, un permanente omaggio alla vera, e perciò all’unica Religione. le più
belle pagine dei tanti volumi da lui scritti, dopo che si spogliò dell’uomo vecchio, spi-
rano quella religiosa sentimentalità, alla quale debbono i santi Padri e i nostri sacri
oratori come e dante, e tasso, e Corneille e Racine i più sublimi loro versi. spiacque
oltremodo ai seguaci del protestantismo la conversione di stolberg […], e la celebre
madame di staël nella sua opera Sur l’Allemagne mentre rende giustizia ai talenti, e
alle virtù di stolberg, non sa nascondere, che per quella risoluzione ei divenne inviso
ai suoi antichi correligionari, e perdette financo la tenera amicizia di Clopfstock, di
Voss, di Jacobi, uomini di sommi talenti, di non minor fama, e strettamente con lui
uniti sin dalla più verde età. Grave certo deve essere stata all’animo del nostro stol-
berg la perdita di così cari amici, e debbono averlo assai commosso gli acerbi assalti
dei tanti, da cui si divise. ma ancor Egli al pari di quell’antico Romano, (benché in
cosa assai più importante) non ponebat rumores ante salutem; che anzi unicamente
inteso a conseguirne il possesso, stimò di assicurarlo sempre meglio mostrandone ad
altri la via, non col di lui esempio soltanto, ma più ancora colla famosa sua opera, di
cui ho tradotta una qualche parte. di fatti molti imitatori Egli ebbe tra i più lumino-
si ingegni delle sette protestanti, e Werner, starke, schlegel, müller, Haller in Ger-
mania, i due Calvinisti laval, e de Joux in Francia, senza annoverare tanti altri
meno celebri nomi, abbandonarono i vessilli dei sedicenti Riformatori, ed abbrac-
ciarono la Fede professata per quindici secoli dai loro antenati. in tal guisa la Chiesa
di Gesù Cristo mentre piange il pervertimento di tanti suoi figli strappati dal suo
seno per una iniqua filosofia, si consola altresì dell’acquisto di tanti illustri Convertiti
/ nota del traduttore.
3. l’altra grande traduzione di antici, in quegli anni, è costituita dalla versione ita-
liana delle Omelìe di monsignor Johann michael anton sailer61, vescovo e teologo
tedesco, nato ad aresing, in Baviera, nel 1751, e morto a Ratisbona nel 1832, entrato
nel clero secolare in séguito alla soppressione della Compagnia di Gesù della quale ha
fatto parte per tre anni, dal 1770 al 1773; professore di dogmatica a ingolstadt (1780-
1781) e a dillingen (1784-1794), viene destituito perché sospetto di eccessive con-
cessioni all’illuminismo; tornato ad insegnare a landshut nel 1800, diventa, nel 1822,
coadiutore del vescovo di Regensburg (Ratisbona), cui succede nel 182962. nell’àmbito
delle funzioni pastorali, si impegna con zelo e rigore nello sforzo di sollevare il livel-
lo intellettuale ed etico del clero diocesano, ed assume atteggiamenti concilianti
verso il protestantesimo e verso le nuove correnti culturali, ponendosi come fautore
del romanticismo religioso, dato, quest’ultimo, che si inserisce con coerenza nel qua-
dro delle preferenze intellettuali e dei riferimenti contestuali del suo traduttore ita-
liano, antici. tra le sue opere principali, e fra le più ricordate, il Manuale di morale
cristiana in tre volumi, del 1817. Quella di sailer è una concezione dinamica della
Chiesa come regola vivente della fede e corpo mistico di Cristo; e il suo pensiero non
a caso è stato messo in relazione con quello di Johann adam möhler (1796-1838)63,
uno dei teologi che dànno un indirizzo fondante alla scuola di tübingen, insieme a
Herbst, ad Hirscher e a drey. ma a sailer si deve anche la chiamata a monaco di ignaz
döllinger figlio64, come pure un contributo di impulso al rinnovamento degli studi
biblici65. antici si occupa direttamente delle Omelie, non a caso inviategli dal princi-
pe ereditario di Baviera in una linea di continuità con l’opera di stolberg, da poco
tempo tradotta in alcune delle sue parti essenziali; il titolo reca OMELÌE DI MONSI-
GNORE GIO. MICHELE SAILER VESCOVO COADIUTORE DI RATISBONA SCEL-
TE, E TRADOTTE DAL MARCHESE CARLO ANTICI, con la citazione del principe
e di una sua frase: «delle cose tutte la più eccellente, e la più essenziale è sempre la
Religione / lodoViCo / PRinCiPE EREditaRio di BaViERa / Roma
mdCCCXXV / dalla stamPERia salViUCCi Con approvazione». Poi la dedi-
ca: «a sUa altEzza REalE lodoViCo CaRlo aUGUsto PRinCiPE ERE-
ditaRio di BaViERa»; a p. XiV la dedica appare del 28 dicembre 1824. nel corso
dello stesso 1825 ludwig diverrà re. nella prefazione, antici allude (pp. iii-XiV) al
dono fattogli il 6 marzo del 1824 delle Omelìe di monsignor sailer in due volumi; il
principe ereditario gli mostrava con questo regalo «l’alto suo gradimento» per la
Quante volte dagli anni miei primi, le tue occhiate, le tue azioni, le tue sofferenze, il
tuo tacere, il tuo non mai interrotto pregare, i tuoi amorevoli avvertimenti io rimi-
ravo, e ascoltavo, sempre più cresceva in me l’affetto alla religione; e questo senti-
mento non restò mai in seguito depresso né da errori, né da dubbi, né da vicende, né
dagli stessi peccati (p. XVii; antici traduce il brano dalla seconda edizione di Sulla
educazione, per gli Educatori).
dopo gli studi al ginnasio di monaco, sailer entra novizio nel 1770 novizio dai gesui-
ti (tre anni prima della soppressione dell’ordine), e nel 1775 è ordinato sacerdote;
antici non manca, a p. XiX, di ricordare i «detestabili arcani» della «filosofia» sette-
centesca al potere, magnificata da «d’alambert» [sic]; il giovane religioso studia ad
ingolstadt (la stessa università dove insegnerà adam Weishaupt); in quell’università
diviene pubblico ripetitore di filosofia e di teologia nel 1777; nel 1780 la cattedra di
teologia dogmatica, quattro anni dopo la cattedra di Filosofia morale e di teologia
all’università di dillingen, con l’incarico di fare sermoni agli accademici, incarico
svolto per dieci anni e in séguito abbandonato, fino al punto di congedarsi dalla
stessa università nel 1794 e di lasciare l’insegnamento (all’origine dell’abbandono vi
sono stati gelosie e dissensi ideologici); nel 1799 è richiamato ad ingolstadt, sempre
come espositore di sacra scrittura e autore di discorsi da recitare sulla religione. nel
1801 l’università viene trasferita a landshut, dove, come si è detto, rimane fino al
1822. in una lettera del 1 agosto 1817 ricorda di essere simultaneamente accusato di
oscurantismo (perché nei suoi discorsi egli svelerebbe le trame dell’empietà) e di
“illuminismo” (come preteso membro della società degli illuminati, della quale, in
realtà, sailer non fece parte), e insieme di misticismo perché avrebbe parlato spie-
gando i misteri con il linguaggio del cuore, anziché ricorrere alle dimostrazioni
razionalmente argomentate; dai protestanti, in particolare, egli veniva accusato di
astuzia “cattolica”, messa in atto allo scopo di ricondurli al seno della Chiesa madre.
alle pp. XXV-XXViii, nota 2, l’elenco, per categorie, delle opere di sailer: i. Opere per
l’edificazione del Popolo Cristiano; ii. Opere per la coltura più elevata dell’uomo, e del
Cristiano; iii. Opere per formare quei, che si destinano alla cura delle anime; iV. Pre-
diche, e Sermoni; V; Opere per destare, ed avvivare sentimenti cristiani negli animi
istruiti, ed abituati a meditare; Vi. Opere pedagogiche; Vii. Biografie; Viii. Opere lati-
ne (nel terzo raggruppamento sono comprese le famose Lezioni sulla Teologia pasto-
rale). Forniamo, a titolo d’esempio, l’elenco completo delle opere comprese sotto la
abborrano essi [i “credenti” nel «progresso dei lumi»] gl’incensi prostituiti da una
generazione vaneggiatrice ai Voltaire, ai Rousseau, agli Elvezi. Corrano alla vera glo-
ria sul cammino di Chateaubriand, di maistre, di la mennais, di Bonald.
non già al laboratorio del chimico, né allo studio dello statuario, né all’opificio del tes-
sitore si costruiscono i freni per imbrigliare le passioni, che non domate, sconvolgo-
no da capo a fondo la società. Vuolsi la voce, vuolsi la penna dei valorosi, che sulle
la «virtude / Rugginosa dell’itala natura» (Ad Angelo Mai, vv. 24-25) è la virtù delle
memorie culturali classiche, non certo la virtù veicolata dalla tradizione cristiana e
dalla funzione storica del Papato in italia e in Europa; e la «patria» del v. 30 è defini-
ta, o meglio “compianta” come «codarda» perché, sulla base di così elevate e valide e
illustri tradizioni, essa non si risolleva e non si riafferma come entità geoculturale e
politica indipendente e autonoma (e non è, quindi, definita «codarda» per eccesso di
epigonato ricettivo del pensiero laico e sovvertitore, come metternichianamente
mostra di pensare lo zio antici); e il «tedio che n’affoga» del v. 72 comprende ancora,
pur come componente ormai tutt’altro che unica, il «tedio» della Restaurazione, i cui
autori e maîtres-à-penser (Chateaubriand, de maistre, de Bonald, il primo lamen-
nais) antici esalta come antidoto frontale al rovinoso pensiero illuministico (anche al
di là di sfumature di concezione, e di patrimoni di personale cultura, che il marchese
mostra ampiamente d’avere, e che gli permettono comunque di superare, sul piano
della fruizione individuale delle letture, le contrapposizioni categoriali o manichee tra
“fronti” culturali); il «nulla» del v. 75 e del v. 100 («solo il nulla s’accresce»), un nulla
tale da resistere alle nuove conoscenze derivate dalla scoperta dell’america, rivela, cer-
tamente, la profonda distanza che separa leopardi dal puro esprit de géométrie, dalla
valorizzazione d’una conoscenza strettamente fisico-scientifica e razionale, in una
parola “oggettiva”, che deriverebbe dall’ampliamento della «carta» geografica: altri ele-
menti, altre considerazioni e sollecitazioni culturali ed emotive (se pure ve ne saran-
no), potranno contrassegnare l’affondo di conoscenza sul mondo, sulla natura e sugli
uomini nell’evoluzione del pensiero di leopardi; ma le espressioni della canzone al
mai (come, per altro verso, quelle dell’Inno ai Patriarchi) sono a loro volta ben lontane
dalle celebrazioni dell’america, e in generale delle scoperte geografiche, come meta
dell’espansione missionaria, della conquista di nuove terre alla cristianità, dell’am-
pliamento degli orizzonti gesuitici di colonizzazione del nuovo mondo, come quelle
che si ritrovano in antici e negli scrittori appartenenti alla pubblicistica della quale
egli condivide i valori. Questa differenza di impostazione non impedisce a Giacomo
di ragguagliare via lettera lo zio Carlo antici sulle prose di traduzione che egli viene
compiendo proprio nel 1825, dalle «operette» greche alle prose che si precisano
miratamente come versioni da isocrate, ad un nuovo progetto platonico riguardo ai
Pensieri (progetto non direttamente annunciato in queste lettere, ma appartenente allo
stesso 1825, ad un’area cronologica, insomma, contigua alle suddette missive): «io
vengo presentemente ingannando il tempo e la noia con una traduzione di operette
morali scelte da autori greci dei più classici, fatta in un italiano che spero non pecchi
omElia iX
discorso per la stessa domenica di settuagesima
Sulla maledizione, cui soggiace, e che merita la vita oziosa
Perché state voi qui tutto il giorno in ozio? (s. matteo XX. 6.)
omElia Xiii
Discorso per la Pasqua di Risurrezione
Sulle più grandi speranze del genere umano
afferra la vita eterna (s. Paolo a timoteo lettera 1. Vi. 12) 13a
Quando gli apostoli del signore promulgano per tutta la terra: il signore è risor-
to, afferrate la vita eterna; risponde in ciascuno delle sue membra la Chiesa Cristiana:
noi crediamo alla Risurrezione della carne, noi crediamo alla vita eterna.
E se la Fede della Cristiana Chiesa alla vita eterna in ogni domenica dell’anno si
manifesta, ella è, sopra tutte, la solennità Pasquale, che si estende dalla domenica di
Pasqua. alla domenica di Pentecoste – la quale ringiovanisce in noi la fede alla vita
eterna, e con questa fede forza, e conforto nei nostri cuori infonde. imperrocché la
fede nella Risurrezione di Gesù Cristo altro non è, che la fede nella risurrezione dell’u-
mana carne, la quale, in Cristo risorse da morte, ed in noi risorgerà; ella è una fede
nella vita eterna, non solo dell’anima umana, ma dell’uomo tutto intero. L’uomo vive
eternamente; questa è la dottrina dell’infallibile vangelo. E questa dottrina appunto
vorrei quest’oggi nel fatto, cioè nella risurrezione di Gesù Cristo, che è divenuta la
credenza del mondo, evidentemente dimostrare.
Voi, miei cari, mi ascolterete adesso sicuramente con ispeciale interesse, poiché io
vi parlo delle più grandi speranze del genere umano.
Vedendosi da noi ogni giorno morire i corpi umani, che noi stessi tante volte
accompagniamo al sepolcro, è molto naturale la domanda: muojono soltanto i corpi,
o omuojono ancora le anime degli uomini, muore l’uomo tutto intero? in qual modo
omElia XV
discorso per la sesta domenica dopo Pasqua
Intorno all’essenziale connessione tra l’ignoranza delle cose Divine,
e il disordine morale
Verrà tempo che chi vi ucciderà si creda di rendere onore a dio. E vi tratteranno
così, perché non hanno conosciuto né il Padre, né me. (Vang. di S. Giov. XVI. 1. 2.).
ii
Causa della malattia
ogni disordine morale del mondo dall’ignoranza deriva dalle cose divine. Qui
cova la causa del male. Fintantoché i nostri progenitori portarono in cuore dio, e il suo
comando, il pomo vietato non poteva avere attrattive per loro, o non poteva averle che
deboli. l’occhio volgevasi a dio, il cuore non gioiva che in dio; il serpente non trovò
accoglienza, e molto meno ascolto, il comando di dio non fu trasgredito. ma appena
la cognizione viva di dio, il rispetto pel suo comando s’illanguidì; l’occhio si volse al
seducente pomo, il serpente trovò accoglienza e docile orecchio – e gl’illusi, di dio
immemori, mangiarono il frutto vietato. Perduta fu l’innocenza, perduto il Paradiso.
Questa storia del Paradiso perduto, questa storia del primo disordine è la storia
di ogni morale disordine nel mondo.
sinché la cognizione viva delle cose divine governa il cuore, chiuso resta tenace-
mente l’ingresso al peccato. appena però quella cognizione vacilla, infiacchisce, s’il-
iii
Guarigione della malattia
se dunque, coll’illanguidirsi ed estinguersi, che fa la cognizione delle cose divi-
ne, s’illanguidisce, e si estingue la vera vita dell’uomo; deve necessariamente col
ristabilimento, colla conservazione, e propagazione di quella, ristabilirsi, conservar-
si, propagarsi ancor questa, che è il perfetto ordine morale.
Gettate, sì gettate, miei cari uno sguardo sui bei giorni del nascente cristianesimo!
non fu egli per la vita apostolica, che in parole, in opere, in miracoli, in sacrifizi di
ogni specie si manifestò la cognizione delle cose divine, indi la cognizione beatifi-
cante di Gesù Cristo; e che per questa cognizione la vita vera, l’ordine morale, la salu-
te del mondo venne fondata, propagata, conservata – da principio in alcuni uomini,
in alcune adunanze, finalmente in tutta la Chiesa?
nello stesso modo pertanto si può ai giorni nostri togliere il disordine, ristabili-
re l’ordine, ricondurre la vera vita, ove regna la morte morale.
Ella è dunque la vita Apostolica, che può ristabilire la viva cognizione delle cose
divine, che può ristabilire l’ordine vero. Ciò peraltro che potentemente ristabilisce la
vita Apostolica, e l’ordine morale, ella è appunto la ristaurazione della santa Chiesa
tanto nei suoi antistiti, quanto nelle particolari diocesi.
spirito divino, che già incominciasti così grand’opera col tuo soffio vivificante, pro-
teggila con questo soffio vitale, e compila per Gesu Cristo signor nostro! Così sia. –
Una nota a p. 132, certamente scritta dal traduttore antici, ascrive l’ultima omelia qui
riprodotta al periodo iniziale della Restaurazione: «da queste ultime linee ognuno
può conoscere, che il presente discorso fu pronunziato, allorché, cessato quel violen-
tissimo turbine che Chiesa, e stati metteva a soqquadro, i sovrani si occupavano
colla s. sede della ristaurazione della Chiesa Cattolica nei loro dominj».
Uno degli obiettivi miratamente colpiti è il pensiero di mirabeau, che aveva sostenu-
to doversi scattolicizzare la Francia, e che è indicato come un parto mostruoso della
riflessione settecentesca. le qualifiche elogiative di «illuminati scrittori», di «providi
Per renderne ancor più palese l’oggetto stimò Egli bene di premettere al primo volu-
me un rame allusivo – Vi si scorge smarrita sul sentiero della frivolezza una donna
(l’umanità) vestita in foggia bizzarra, che fra orride boscaglie della corruttela, ove l’a-
veano condotta stoltezza, e seduzione, crede ancora di carolare tra gigli, e rose. Ben-
dati i suoi occhi dallo spirito del secolo, ella s’immagina di essere illuminata, e di cam-
minar nella luce. Con la verga della stoltezza in mano progredisce vacillante nel suo
viaggio, sinché al ciglio giunge di una voragine entro di cui il turbine aveva già rove-
sciate quercie annose. in quell’istante slanciasi verso di lei dal profondo con spalan-
cate fauci un orribile drago, che sbrama la sua ingordigia con le vittime dell’errore.
Essa ne sente il velenoso sibilo, che il sussurro del mondano senno sospende – strap-
pa allora dagli occhi la benda; mira il mostro verso lei rivolto; scorge lo spaventoso
abisso, in cui stava per gettarla la seduzione. tremante ne ritira il piede già sollevato
per la precipitosa caduta, e la verga della stoltezza le sfugge di mano. in quel momen-
to il Genio della Religione la scuote, e quale suo proprio simbolo le addita il tempio
di dio, ove spira l’aura di vita, ed ove l’uomo, che a dio appartiene, dio trova, e se
stesso. Quel Genio sembra indirizzarle queste parole: Conosci il tuo terribile ingan-
no! – Colà soltanto trovi iddio, e in lui la verità. Colà trovi con loro quella vita beata,
che tu male accorta altrove cercavi.
trovò molti «leggitori» nonostante si opponesse, come ricorda antici, allo spirito dei
tempi. sailer s’era basato su manoscritti e lettere, e quindi su fonti di prima mano;
antici scorcia e sintetizza, riuscendo, in fondo, entro certi limiti e come in buona
parte era avvenuto riguardo alle opere di Bonnet, di stolberg, dello stesso sailer, di
Pflister, ad affabulare un’opera originale; si veda la tipica modalità operativa di anti-
ci traduttore-sunteggiatore (pp. 19-20): «Cospicua parte della biografia di sambuga
racchiude un tesoro di varj pensieri che il sagace Biografo [Sailer, appunto] trascelse
dai manoscritti, e principalmente da alcune sue lettere, distribuendoli in diversi capi-
toli. Ho creduto, che sarebbe pregio di questo tenue lavoro estrarne, e collegarne
taluni di più importante, e vasto argomento».
il primo elemento da sottolineare da parte dell’intellettuale cristiano (e qui sam-
buga, sailer e antici ragionano più che mai all’unisono, a differenza di quanto invece
avviene quando si tratta di Pflister) è certamente costituito dalla necessità della rive-
lazione, riferendosi alla quale, ed in eventuale attesa di essa, il dubbio metodologico,
per definirlo così, è rivolto non già al dogma o all’affermazione indimostrata e non
scientificamente argomentabile, bensì, con speculare inversione, esso è rivolto alla
stessa scienza umana, ove la si concepisca deprivata di quella rivelazione divina che
viene addirittura recuperata a base ineliminabile della scienza e della conoscenza
nissuno s’illuda nel credere, che l’uomo perché dotato di ragione possegga intendi-
mento bastante per conoscere positivamente, senza le manifestazioni divine, quanto
concerne i suoi doveri verso dio, verso il prossimo, verso se stesso, quale è il suo ulti-
mo fine, quali i mezzi per conseguirlo. Volgiamo lo sguardo ai filosofi dell’antichità,
molti dei quali incanutirono nella ricerca del vero. Poterono essi trovar mai soddi-
sfacenti spiegazioni su quello, che unicamente interessa lo spirito umano? – il dubbio
formò la miglior sapienza del maggior numero; e quei pochi, che con Pitagora socra-
te Platone qualche cosa ne presentirono, furono sufficientemente sinceri e modesti
per dichiarare doni di dio le loro nozioni, e per porre tra i fonti più limpidi delle
loro scoperte le sacre primitive tradizioni75.
dio gli è tutto; consiglio, sapienza e luce – misura, ordine, e meta – ricchezza, onore,
e fortuna – gioja, conforto, premio, ed ultimo fine. il suo cuore è sempre con dio,
poiché come potrebbe egli ad altro oggetto attaccarsi? Cosa mai sarebbe degno di
lui? dio è il suo esemplare, e in chi potrebbe il figlio specchiarsi, se non nel padre? in
chi saprebbe la mente umana trovare il suo modello che nella mEntE sUPREma?
ad una sola meta tende il suo spirito; al VolERE di dio, alla lEGGE di dio.
la propria sua volontà è tutta trasfusa nell’amore di dio. Ei non conosce che una
verità santa, che un fine interamente puro, e l’una, e l’altro gli è di dio. Giacché dio è
il tutto per lui, e tutto può in lui, ha Egli, in confronto di altri, un pieno dominio
sopra se stesso. Eppure non gli costano sforzi le abnegazioni, perché la sua vita è dio
e quanto dio non è, mai eragli divenuto così proprio, che gli sia difficile di astener-
sene per amor di dio – maturo per la vita spirituale, abbandona ai fanciulli le fan-
or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
l’italia di Giacomo, ossia del nipote del traduttore di Bonnet e di stolberg, di sai-
ler e di Pflister, di sambuga e di Hurter, è un’italia che «piange» (e sempre più lo farà
nel tempo successivo, da quando si sarà compiutamente sostituita in leopardi l’ini-
ziale francofobia con l’ostilità all’austria) proprio perché la santa alleanza e i suoi
valori sono in pieno vigore, e non certo, quindi, per il timore d’un attacco agli stessi
valori e agli stessi assetti: un attacco di cui, anzi, egli criptatamente rimprovera la
mancanza agli italiani. Giacomo, in quel periodo già molto avanzato nella fase com-
positiva delle Operette morali, attraversa uno stadio di relativo disimpegno quanto al
coinvolgimento politico esplicito, ma ha, in ogni caso, già espresso in modo perspi-
cuo, fin dalle Canzoni appunto, la propria netta opzione di schieramento; se lo zio
antici, pur dotato d’un’ampiezza di visione culturale maggiore rispetto a quella di
monaldo, disapprova le prime canzoni sotto il profilo della loro ideologia, ma anche
del loro “genere” letterario, in nome d’una realistica coscienza del “mercato” vigente
nello stato pontificio, dove si privilegiano i libri “utili” nel senso dell’apologia della
fede, dello studio dei santi padri, delle edizioni di filosofi, anche pagani (come Pla-
tone), d’impostazione spiritualistica, di pensiero antimaterialistico (o, almeno, fruibile
in tale direzione da parte dei lettori cattolici moderni), sarà altrettanto scontento, lo
stesso zio antici, dell’apparente disimpegno che di lì a poco caglierà nella prima
edizione delle Operette, dove la mirabile prosa del nipote esprimerà, riguardo ad
ogni concezione antropocentrica, provvidenzialistica, ma anche scientistica, da laico
eudemonismo, una sfiducia ed un pessimismo così efficaci e nel contempo così
spiazzanti sul pubblico dell’epoca, da scontentare non solo il cólto funzionario pon-
tificio, ma anche la ricezione che di fatto ne avranno molte altre sponde dell’utenza
dei lettori, ivi comprese molte sponde laiche. tanto maggiore deve essere la distanza
che separa il filosofo e il cantore del pessimismo dalla posizione d’uno zio che si
appresta ad approfondire, con le traduzioni, e più ancora con la saggistica disseminata
su riviste negli anni trenta e negli anni Quaranta, l’insostituibilità della cultura cat-
tolica per tutto il mondo occidentale, e la necessità d’una difesa della struttura politica
pontificia, del suo patriziato e delle sue basi gentilizie, anche da parte delle monarchie
laiche, e che, quindi, si appresta ad approfondire il concetto d’una fondamentale
fiducia nell’importanza, determinante per il mondo, per la storia e per la società, della
cultura di marca spiritualistica, eudemonistica, romanocentrica, missionaria. altre, e
più propriamente tecniche, saranno le sollecitazioni e le indicazioni d’una certa effi-
cacia che da Carlo antici proverranno a leopardi, come si potrebbe constatare in un
paragrafo dedicato al significato dei rapporti epistolari intrattenuti con i familiari dal
marchese di Recanati. si tratterà d’indicazioni mirate – non potrebbe essere altri-
menti – alla preparazione, sul piano intellettuale e su un potenziale (e auspicato)
Una demenza figlia di quella rivolta, che nel secolo sestodecimo si tramò dal senso
privato contro il Senso comune, dalla opinione individuale contro la Fede universale,
invase da circa ottant’anni in poi, anche in seno della vera Chiesa, le teste di molti
scrittori, non che di molti uomini di stato, e dichiarò pertinacissima guerra ai mini-
stri dell’altare […]. Questa demenza, tanto umiliante per l’umana ragione, quanto
perniciosa all’umana società, vuol chiamarsi a tutta possa Filosofia!
tale siam pronti di chiamarla ancor noi, purché schiettamente convengasi esser
dessa la filosofia del gregge epicureo, che nega Provvidenza e vita futura, e nel fango
dei sensuali piaceri il sommo bene ripone; o di diogene, e dei cinici suoi seguaci, che
segnalarsi voleano per grossolane maniere, per mordace insolenza, per turpe invere-
condo vivere; o di Pirrone, che nell’immondo animale tranquillamente rugumante
entro nave sbattuta dalla tempesta l’immagine del saggio additava.
Rex igitur urbium, regionum, tam multarum gentium praefecturam gerit, praetores,
propraetores, exercitus, populos, senatum suo unius nutu agens: at vero qui sei-
psum totum deo dedit, solitariamque vitam elegit, irae, invidiae, avaritiae, voluptati,
caeterisque animi morbi imperat assidue speculans, ac meditans, quemnam in
modum non committat, ut suum animum obscoenis affectibus non subjiciat, neu
amarae tyrannidi ratio inserviat, sed super res humanas omnem cogitationem
semper erectam habeat, dei timorem animi morbis preaeficiens. Huiusmodi igitur
imperium Rex, huiusmodi item Principatum monachus adeptus est; ut justius qui-
dem hunc Regem voces, quam eum, qui purpura indutus, ac corona ornatus splen-
descit, throno in aureo sessitans. nam is demum vere Rex est, qui iram, qui invi-
diam, qui voluptatem cohibens, omnia sub dei lege agit, mentem liberam servans,
neque patiens voluptatum dominationem animo suo imperitare. talem equidem
Regem libens viderem et populis, et terrae, et mari, et civitatibus, exercitibusque
jura dantem».
che Voltaire, il quale pei suoi talenti poteva essere un angelo di luce, e fù per il suo
odio implacabile contro il Cristianesimo un angelo di tenebre, abbia data la più
gagliarda spinta alla persecuzione dei Claustrali, ne fanno fede i suoi scritti, ed il suo
divulgato carteggio. Egli, che davasi il nome di Patriarca degl’increduli, troppo bene
scorgeva la resistenza invincibile, che i Corpi Religiosi avrebbero costantemente, ed
ovunque opposta ai disastrosi suoi piani. Erano dunque in coerenza di essi i ripetuti
colpi, coi quali in mille maniere li assaliva. Per lo ché, quando la Rivoluzione mise la
scure alla radice dell’albero, il marchese di Condorcet suo seguace, e ammiratore gli
tributò un doveroso omaggio esclamando tutto estatico nella vita di lui pubblicata
«Voltaire non ha veduto tutto ciò, che ha fatto, ma ha fatto tutto ciò, che vediamo».
infelice Panegirista! Ei, che in quel tempo con tanta gioja vedeva tutte le belle cose
prodotte dalle lezioni del suo Protagonista, non vedeva però, che pochi anni appres-
so alcuni più perfetti alunni di quella scuola dannato lo avrebbero a morte. Discite
justitiam moniti.
“o voi, che siete stati avvisati, apprendete quali sono i veri riequilibri storici opera-
ti dalla giustizia”: così sembra dire antici ai suoi contemporanei, ai quali realmente
è rivolto il monito; e, sempre alla p. 7, contro Voltaire, si additano, nell’ottica del mar-
chese e del suo uditorio, “ben altri” maîtres-à-penser, primo dei quali «l’incompara-
bile Conte di maistre», sul quale il marchese di Recanati si sofferma ancora, alle
pp. 7-8, n. 4:
(Veglie di Pietroburgo Vol. ii tratten. iii. in 8. imola 1824). Questo grande italiano,
che per la sua maggiore familiarità colla lingua francese, scrisse in quell’idioma le
tante, e sublimi sue opere, forma in oggi con il Visconte di Bonald, e l’abate di la
mennais un immortale triumvirato di pubblico magistero, con cui si riducono in pol-
vere le mostruose dottrine della falsa filosofia. Un ingegno profondo, un immenso
sapere, una distinta cognizione del male, un’ardente brama del bene, una vittoriosa
dialettica della Religione nutrite, e collegate formano dei loro scritti un ampio tesoro
di verità tanto più evidenti, quantoche esposte coi colori più splendidi, e vivaci. a noi
già invecchiati tra le tempeste rivoluzionarie non toccherà in sorte di gustarne in tutta
l’estensione i benefici effetti; ma possiamo a buon diritto presagirne il godimento alla
nostra posterità. meditiamo intanto e nelle diuturne, e nelle notturne ore i volumi di
nella seconda edizione (1863), una «nota degli Editori», la n. 1, esprime il bisogno di
giustificare la citazione di lamennais, una citazione che nel 1826 era pienamente
capace di veicolarsi da sola: «Quando il chiarissimo autore scriveva queste cose,
mostravasi il la mennais tutto intento a promuovere le sacre dottrine; ma poi fattosi
inventore di rovinosi sistemi e sdegnando ogni freno di sacra e civile autorità, cadde
in quel precipizio, che noi tutti con orrore abbiamo veduto» (p. 11 ii ed.)82. Un’altra
«nota degli Editori 1.», alla p. 13 della seconda edizione, esprime a sua volta la
necessità d’affiancare l’autore nell’usare parole esplicite in difesa dell’ordine dei gesui-
ti: «sono queste le medesime ciance, che più secoli addietro contra i venerabili ordi-
ni di s. domenico e di s. Francesco si dicevano da Guglielmo del santo amore; e sono
le medesime che pochi anni fa si ripetevano dal Gioberti contra i Gesuiti, e che si
ripetono ai dì nostri contra tutti i Religiosi dai moderni persecutori: i quali però non
hanno né pure il merito dell’invenzione».
l’esigenza di difendere le corporazioni religiose (p. 9, i edizione) è giustificata con
una rapida panoramica che elencativamente enumera la Grecia, Pitagora, Roma, le
Vestali, gli Egizi, i Persiani, i Galli, i teutoni: tutti hanno un senso religioso e quindi,
ciò che realmente interessa antici, hanno rispettato ed onorato, e materialmente
sostenuto, la classe sacerdotale, gli “ordini” d’ogni religione. E la difesa si dispiega ulte-
riormente alle pp. 10-11, con il capovolgimento delle accuse giacobino-illuministiche
alla Chiesa; essa, infatti, ritarderebbe le scienze, le arti, l’agricoltura, il commercio; ma
la realtà storica lancia, secondo antici, un messaggio contrario. la storia dimostra
infatti con ampia facoltà di prova che i «pubblici disastri» risalgono «all’epoca delle
soppressioni monastiche»; la Chiesa ha grandemente aiutato, ed è anzi stata decisiva
nel favorire lo sviluppo delle scienze, delle arti, del commercio, delle pubbliche utilità:
si ribalta, in tal modo, il cliché storiografico del pensiero laico, ma anche napoleonico.
Queste appaiono pagine realmente scritte contro il Codice napoleone, dal marchese,
ex funzionario napoleonico83. E il favore divino è essenziale per qualunque potere
politico, come, secondo le coordinate dell’epoca pagana, lo era, a pena di lutti e di
rovine se non venerato, e con prospettive di nemesi sui discendenti, anche incolpevoli,
nell’orazio di Carmina, iii, Vi, 1-8, citato per esteso, con i relativi capoversi84.
la funzione di civilizzazione esplicata dal Cristianesimo trova uno spazio di
celebrazione più ampio alle pp. 12 ss., dedicate a «questo recinto sacro alle cattoliche
verità», nelle quali antici disegna un’intelligente e funzionale apologia della religio-
ne, una storia “panoramica” del Cristianesimo con la sua funzione di salvaguardia
della civiltà, della cultura e dei costumi, come fosse il Carme Alle Grazie del Fosco-
lo, “dedotto”, per usare ancora termini oraziani, nella lyra cristiana: si tratta del
viaggio sociale e antropologico del Cristianesimo (anche nell’àmbito dello stesso ter-
ritorio) alla ricerca, alla difesa ed all’incremento del progresso umano; insomma, un
ulteriore brano ispirato al canone storiografico del cattolicesimo, un canone ad
il brano va, a nostro avviso, letto con attenzione specifica alle prime ed alle ultime
frasi, ad illustrazione del segmento centrale del testo (da «Quando» a «vincitori)»;
come, infatti, si legge nelle pagine immediatamente successive, il significato di que-
ste pp. 14-15 si attiva contro le invasioni barbariche perché esse avrebbero potuto
distruggere il patrimonio della pietà, il patrimonio cristiano, che già si era accumu-
lato, prima che essi stessi si convertissero. Ed all’inizio e alla fine del brano prende
corpo, in realtà, quella che sarà l’immagine della Germania di antici: un’immagine
che nel residuo ventennio della sua vita si accamperà, non sul solo piano culturale,
nei vari contributi, orientati sulla misura del saggio, o della recensione, o della
breve traduzione in fascicoli di rivista, riguardanti personalità e scritti che si siano
soffermati sul valore della civiltà medioevale, sulla funzione del cristianesimo, sulla
celebrazione della stessa religione nella sua “versione” unita e unificante (quindi
anteriore alla disastrosa introduzione del razionalismo e dell’individualismo lutera-
ni: non sono le altre sétte protestanti ad essere oggetto di polemica da parte di anti-
ci). il cristianesimo come religione europea, come fattore di unità; il cristianesimo e
la Germania saranno i due elementi assiali del percorso culturale attraversato dal
marchese, nella loro virtualità di fusione armonica, di abbinamento intimamente
coeso dell’asse ecclesiastico-religioso e dell’asse laico, monarchico-regale; lo svolgi-
mento della storia preciserà, anche contro gli intenti e la visione dello stesso antici,
l’area della Germania sulla quale si orienteranno maggiormente i suoi interessi, ov-
viamente l’area cattolica.
ancora, a p. 16, i «Claustrali» sono indicati quali rifugio e fonte di civiltà, e
come sua custodia:
non v’ha dubbio; i Claustrali furono i primi educatori, i primi precettori di tutte le
nazioni moderne, che hanno abbracciato il Vangelo; e dal seno di que’ barbari stessi
da loro educati, ed istruiti uscì dipoi quella immensa schiera di Claustrali intenti ad
educare, ed istruire tante altre barbare genti. ovunque dopo la caduta del Romano
impero è penetrata la civiltà, essa vi giunse al seguito del Vangelo, e sempre furono i
Claustrali, che assunsero, e compirono così ardua, così sublime impresa.
il P. d. Gioacchino Ventura, già tanto chiaro per molti suoi scritti offre nel suo gran-
dioso – Discorso sulle influenze dello zelo di S. Gaetano Tiene Fondatore de’ CC. RR.
Teatini nella universale rinnovazione religiosa del secolo XVI. – un succinto elenco dei
principali banditori della Fede Cristiana in diverse regioni. i Galli furono conquista-
ti alla Fede da s. Remigio; gli svevi da s. martino; i tessandri da s. lamberto; gl’in-
glesi da s. agostino; gl’irlandesi da s. Patrizio, gli scozzesi da s. Palladio. s. Walfrido
piantò la insegna della Croce, e sottomise alla Religione la Frisia; s. Bonifacio, e s.
lugdero la Germania, s. amando la Fiandra, la Carinzia e la schiavonia; s. Kiliano la
Franconia; i ss. switberto, e Willebrordo la sassonia; s. otone la Pomerania; s. Vic-
clino la Vandalia; s. ascanio la svezia; finalmente i ss. Cirillo, metardo, e Ramberto
convertirono i Bulgari, i Boemi, i Chzari, i moravi, e la numerosa famiglia degli
slavi – ora tutti questi santi furono Claustrali. / i figliuoli del gran Francesco, e del
gran domenico, non paghi del bene immenso fatto alla Chiesa in Europa, dopo di
averle conquistata quella parte, che tuttavia le rimane nella Persia, e nella tarteria,
come nel secolo XV, estesero anche negli altri continenti le loro conquiste missiona-
rie e di fede. il genio ardito dei navigatori parve colle sue scoperte dilatare i confini
del Globo, si avviarono dietro le traccie dei conquistatori politici, per fare anch’essi
alla Fede le loro conquiste religiose; e fecero tanti sudditi di G. C. quanti il Potere
politico avea fatti sudditi delle Corone europee. Ed il Cristianesimo fu da loro intro-
dotto nel messico, nel Perù, nel Chili, nel Brasile, nel Canadà, in tutte le coste dell’a-
frica. delle conquiste religiose fatte dai CC. RR. di tutti gli ordini, caderà in acconcio
di parlarne più innanzi; e più innanzi ancora osserveremo, che l’essersi servito mai
sempre dei Regolari il Potere religioso per dilatare la Fede, non ridonda affatto in
menomo disfavore del Clero secolare85.
alla n. 7 (pp. 17-18) la celebrazione dei claustrali ha un suo importante passaggio nel-
l’indicazione di uno dei maestri della reazione antilluministica e antirazionalistica:
«Chi vuol deliziarsi all’aspetto dei prodigi inspirati dal zelo dei Claustrali per la con-
versione delle indie, legga il commovente quadro tracciatone dalla maestra penna del
Visconte di Chateaubriand nel “Genio del Cristianesimo” ultimo volume all’articolo
Missioni».
dalla p. 18 l’elogio dedicato al monachesimo si amplia fino a comprendere il rico-
noscimento dei meriti degli “ordini” riguardo a tutta la storia della religione cristiana
e a tutta la storia culturale dell’occidente; innanzi tutto, la stessa religione cristiana si
adatta a tutti i climi e a tutti i governi ed è la sola che possa «introdurre, e conservare
tra gli uomini la concordia, la subordinazione, gli affetti magnanimi». E se noi leg-
giamo orazio, Virgilio, livio, tacito, Cicerone grazie agli amanuensi (p. 19), tale
constatazione si pone in una scia di ribaltamento dello sprezzo e dell’accusa umani-
stici verso il medioevo: il monachesimo è tramite e accesso imprescindibile agli studi
classici e alla stessa cultura classica. solo gli amanuensi compilavano gli annali
(p. 20): «Essi soli possedeano la volontà e la capacità, essi soli aveano il tempo di scri-
verli; tutte le altre classi occupate o negli amoreggiamenti, o nelle battaglie, o negli
affari, o ne’ traffici, o ne’ campestri lavori, a tutt’altro pensavano, che a registrare i fatti
o Roma, che nelle cose alla divinità, e ai sommi destini dell’uomo spettanti, sei la
maestra di color, che sanno! Gloriati pure, che ne hai ben d’onde, gloriati non tanto
delle eccelse moli, e dei prodigi di ogni arte, quanto dei Chiostri e de’ Claustrali, che
nel tuo seno racchiudi. Felice come sei sotto pacifico Principato, non invidiare altrui
la sanguinosa gloria delle armi, le azzardose imprese di commercio, gl’interminabili
raffinamenti del lusso. Prosegui placidamente a governar la terra col soave scettro
della Religione. serbati cari al grand’uopo gl’instancabili banditori, e difensori delle
sante tue leggi. Riguarda i Claustrali con occhio tanto più affettuoso, quanto più i
nemici della tua spirituale sovranità ne agognano l’eccidio. Quelli saranno sempre
gl’impavidi precettori della sapienza Evange[li]ca: e forse un giorno avverrà, che
per opera loro, come già tanti popoli abrutiti[sic] dalla barbarie al colmo giunsero
della civiltà, così tanti popoli dalla incredulità traviati, sul retto sentiero ritornino.
non riuscirà certamente inopportuno il riprodurre, che noi facciamo con le stam-
pe questo erudito e franco ragionamento, che il marchese Carlo antici, uomo di
sempre cara ed onorata memoria, leggeva qui in Roma il dì 22 di giugno del 1826,
e indi a poco pubblicava in imola coi tipi del Galeati, ad onore e difesa di tutti insie-
me gli ordini Religiosi. Fornito egli a dovizia dalla natura di sagace ingegno per
iscoprire i mali dalle loro cagioni, e di squisitissimo senno per giudicare retta-
mente delle persone e delle cose, avvisò, essere stato sempre invariabil costume dei
nemici della Chiesa e dello stato il fare ogni opera per abbattere e sperdere gl’istituti
Religiosi, che dell’una e dell’altro sono i più validi aiuti e sostegni. E già ne avea
veduto i funesti effetti nelle prime orribili rivolture, che cominciate sul finire del
secolo scorso nella Francia, di là poi si propagarono in italia e in molte regioni di
Europa (p. 3).
ancora (pp. 3-4): «non si tenne alle mosse il marchese antici; e zelantissimo,
com’egli era, del pubblico bene, levò alto la voce con questa sua orazione recitata
nell’accademia di religione, mostrando essere intollerabile ingratitudine il pigliar-
sela contro una numerosa eletta di uomini, che considerati anche nei soli riguardi
civili, sono in ogni aspetto proficui alle scienze, alle arti, all’agricoltura, alla pubblica
istruzione, al sollievo della miseria e della infermità […]»; e alla p. 5 si allude allo
zelo, di cui sempre [Antici] arse in vita per il bene della Religione e dello stato.
Quindi mentre noi intendiamo con questa nuova ristampa di fornire una breve sì, ma
valida difesa alla buona causa, che in questi dì si vuol far tacere ed opprimere, ci gode
alla p. 5 della seconda edizione, a conferma della fervida attività che già dal 1827 con-
trassegnava le associazioni culturali, editoriali e librarie dello stato pontificio (al di là
del cliché storiografico invalso, che ne indicherebbe la “stagnazione” intellettuale in
ogni campo del sapere), vi è un annuncio editoriale di Galeati:
Venuta ormai meno l’Edizione dell’opera intitolata L’Anno Santificato, ossia Raccolta
di Pratiche Cristiane per tutto il corso dell’Anno e seguitando tuttavia le domande di
molti, questi tipografi Galeati e Comp. si sono determinati di darne una ristampa,
aumentandola e migliorandola in molti luoghi. Per facilitarne sempre più l’esito se ne
darà un volume ogni trimestre, pubblicandone il primo li 15. dicembre prossimo
venturo; il secondo li 15. marzo, il terzo li 15. Giugno, e l’ultimo li 15. settembre 1827.
il prezzo d’ogni volume tascabile, legato alla Bodoniana, non minore di pp. 33o sarà
di Paoli 4/2. franco di porto per tutto lo stato Pontificio. tutto[=a] l’opera stampata in
buona carta e nitidi caratteri conterrà oltre a sessanta fra novene e tridui, ornati di
circa settanta rami allusivi, di buona incisione, e divisi per trimestri. Vi saranno
inseriti 365 ristretti delle Vite de’ santi, e cioè una al giorno: più le analoghe orazio-
ni, e riflessioni morali. ogni tomo conterrà molte altre orazioni solite praticarsi fre-
quentemente, e specialmente l’Esercizio del Cristiano; il modo di ascoltar la santa
messa, di Confessarsi, e Comunicarsi, meditazioni per tutti i giorni, i salmi per
lodare i ss. nomi di Gesù e maria, i misteri del Rosario, Via Crucis ecc. orazioni,
inni ecc. / le associazioni si ricevono in imola dagli stessi Galeati e Comp. tipogra-
fi della società de’ Calobibliofili.
Consigliere Ecclesiastico nel Regno di Baviera, Educatore del Principe ereditario, e del
Principe Ottone; Precettore di Religione di tutta la Prole Reale. Questo egregio soggetto,
allievo di monsignor sailer (intorno al quale pubblicai alcune notizie nel tradurre una
parte delle sue omelie) esercita in oggi presso i Giovanetti Reali di Baviera quell’im-
portantissimo ufficio, che già esercitò presso gli attuali Regnanti il venerando d.
Giuseppe sambuga, fatto da me conoscere con un opuscolo l’anno scaduto. ma
sambuga fu chiamato a Corte in età provetta, e soltanto come Precettore di Religione;
il sig. abate oettl in più giovane età assunse oltre a questo incarico, l’altro ancora di
Educatore dei due Principi. Con qual felice modo Ei lo sostenga, ne fa bella mostra
questa sua stampa.
ivi non si assegna come norma delle leggi la supposta volontà generale, ma l’eterna
giustizia; ivi il potere si fa discendere da dio, non conferire dagli uomini; ivi non si sot-
topone il Principe al giudizio dei sudditi, ma al dominatore dei dominanti [«Rex
regum et Dominus dominantium», secondo la già citata espressione di S. PAOLO, I
Tim., VI, 15]; si vuole ivi il sovrano tutto intento al pubblico bene, non già come
primo servitore dello Stato, ma come padre e Rettore supremo del popolo. Ei non
parla al suo erede dei diritti dell’uomo, ma gli parla dei doveri che ha verso dio, e
verso i sudditi, giacché grande rischio si corre, troppo cicalando dei loro diritti con gli
uomini, che ciascuno calpesti (come pur troppo orribilmente già avvenne) quelli di
altrui; mentre parlando ad essi dei loro doveri, e su questi insistendo nel nome di Chi
i trasgressori severamente punisce, si pongono in salvo i diritti di tutti.
ancora (pp. 12-13): «Ei non separò quel che da dio si congiunse, come o con iniquo,
o con stolto, e sempre con funesto consiglio macchinarono alcuni fabbri di costitu-
zioni. Ei riconobbe che Chiesa, e stato sono le due indivisibili molle del Regno di dio
in terra […]. Perciò presti lo stato il suo appoggio al magistero della Chiesa, che la
Chiesa col suo magistero manterrà in fiore quanto conserva lo stato». Esempio pre-
stigioso di questa impostazione politica è l’opera di massimiliano per la moralizzazio-
ne dei costumi, per la disciplina cristiana, per l’inviolabilità del sacramento matrimo-
niale, né meno elogiabile è la censura esercitata contro i libri nuovi: «Ben lungi dal
reprimere per essa lo sviluppo dello spirito umano, volle anzi impedire che nol soffo-
gasse un diluvio di errori. non nuoce nò [sic] al vero progresso dei lumi una ben rego-
lata Censura; ma nuoce la libertà illimitata di stampa» (p. 14): affermazione, questa,
particolarmente significativa da parte di un antici che sarà, negli anni Quaranta,
addetto alla censura nello stato pontificio. E le benemerenze di politica estera vanno di
pari passo con quelle di politica interna; alle pp. 16-17, massimiliano è ricordato
quale «condottiero supremo della lega Cattolica», come baluardo contro gli svedesi e
contro la Riforma: grazie alla sua abnegazione religiosa e politico-militare, egli riesce
a far sì che metà della Germania rimanga cattolica. la moralizzazione è attuata, inol-
tre, nei riguardi della vita di corte; ma anche al di fuori di essa, massimiliano si ado-
pera in favore della difesa della morale e della fede, delle quali, con grande compiaci-
mento storico di antici, egli ha una concezione che li rende fattori tra loro abbinati e
reciprocamente indistricabili; egli, addirittura, promuove in cinque città la costru-
zione di collegi per accogliere e per sostenere i discepoli di sant’ignazio e per fian-
cheggiare la diffusione della loro fede e del loro apostolato, in una linea di scoperto
appoggio ai gesuiti, e sollecita con «efficacissime lettere» (p. 20, n. 4) a Gregorio XV
l’approvazione del culto dello stesso sant’ignazio; si può in tal senso parlare di un vero
filogesuitismo da parte di massimiliano. il marchese traduttore cita a questo proposi-
to, sempre in quella nota, le Opere complete del «gigantesco Bartoli» presso marietti, a
torino (cfr. soprattutto «tom. ii, libro 3, p. 184»). E due celebri contemporanei di mas-
similiano, «benché Protestanti», «la intendevano come lui intorno la società di Gesù»
con queste premesse, l’imperativo etico consiste nell’essere pio e virtuoso, e non certo
nel limitarsi ad apparirlo (non sfuggirà il senso della tradizione antimachiavelliana
che opportunamente antici ha richiamato a proposito dell’opera, ben successiva a
quella di massimiliano, redatta da Federico ii il Grande di Prussia). nel cap. 4, inti-
tolato Rispetto alle Persone, e Sostanze Ecclesiastiche, l’invito è rivolto a lasciare intat-
ti i beni della Chiesa, legittima depositaria di possessi materiali che le permettono di
gestire con moderazione e con senso del controllo i costumi e le inclinazioni antro-
pologiche che possono insorgere nel suo gregge; e l’indicazione si traduce in una pro-
nuncia moralistica contro la crapula ed il lusso. Gli svolgimenti precedenti introdu-
cono con coerenza il motivo del Dominio sulle passioni (p. 10), intriso di
considerazioni certo non nuove nella tradizione culturale europea, tali da situarsi a
metà strada tra le declinazioni più scontate dello stoicismo latino e la gnomica cri-
stiana; non privi d’interesse sono i rilievi da condurre sullo stile del traduttore ger-
manista, uno stile simile a quello che sarà proprio della resa italiana dei Cenni di
ludwig, con il gruppo del predicato in fondo, in linea con i dettami e con le caratte-
ristiche dell’ordo verborum d’una lingua flessiva; ad esempio: «sinché la virtù coi
crudi assalti delle riluttanti passioni contrasta, aspra e faticosa ci appare; depresse e
sconfitte che le abbia, facile diviene ella, e gioconda». Questa, in netta prevalenza, l’a-
bitudine di antici quando egli traduce dal tedesco dei sovrani, dalla prosa delle teste
coronate, operazione nella quale si rende necessario un registro linguistico, sintattico-
espressivo e stilistico-tonale solenne; ma non è questa la caratteristica di antici quan-
do traduce dal tedesco di Hurter, che si esprime – nei moduli ampi e distesi, e in più
tratti accattivanti, d’un autobiografismo scrittoriamente generoso – in un linguaggio
più spigliato (non è fuor di luogo pensare ad alcune facilitazioni che deve in tal
senso procurare la riduzione del testo operata dallo stesso antici).
antici Baviera, Eleonora, marchesa, «atti e memorie della deputazione di
antici leopardi, adelaide, contessa, storia Patria per le marche»,
antici, Carlo teodoro, marchese, auchér, Giovanni Battista, mechitarista
antici, Filippo, marchese, armeno a Venezia,
antici,tommaso, cardinale, marchese di augusta amalie, principessa di Baviera,
Pescia, viceregina d’italia,
antici-mattei, famiglia patrizia augusto, imperatore (Gaius iulius Caesar
marchigiano-romana, octavianus),
antipatro, azara, J. n., marchese di nibbiano,
antonelli, leonardo, ambasciatore del re di spagna,
antonello, Pierpaolo,
antonino il Pio (titus aurelius Fulvius Baader, Benedikt Franz Xaver von,
Boionius antoninus Pius), imperatore, Babini, Ellero,
antonino, santo, Bacone, Francesco (Francis Bacon),
antonio d’Egitto, anacoreta, Baglioni, silvestro,
antonio, santo, Baglivi (Baglivo), Giorgio, medico,
aporti, Ferrante, Baines, Peter augustine,
appiani, andrea, Balan, Pietro,
appiano, Balbo, Cesare,
apuleio, lucio (lucius apuleius), Baldacci, luigi,
arato, Franco, Balzac, Honoré de,
arcadia, Bandini, Pietro,
arcesilao, Baraldi, Giuseppe,
«archivio storico delle province parmensi», Baranelli, luca,
aretin, Karl maria von, barone, Barbarisi, Gennaro,
ariès, Philippe, Bárberi squarotti, Giorgio,
ariosto, ludovico, Barbier, antoine-alexandre,
aristide, Elio (Publius aelius aristides Barilari, Paolo,
eodorus Eudemon), Barola, Paolo,
aristippo di Cirene, Baronio, Cesare,
aristotele, Barruel, augustin de la Beaume,
arosio, Paola, Barsi, amerigo,
arriano, Flavio (Flavius arrianus), 29, 30 Barthélemy, Jean-Jacques,
arteaga, Esteban de, Bartoli, daniello,
arzeni, Bruno, Bartolomeo di san Concordio,
ascanio, santo, Basilio (santo),
ascoli, allegra, Basso, lelio,
ascoli, duca di, Bassville, Hugon de,
ascoli, Graziadio isaia, Battini, annalisa,
ascoli, Prospero (luigi Ricotti), Baudelaire, Charles,
ascoli, salomon Vita (Pier luigi Ricotti), Bausola, adriano,
ascoli, salomone (michele Ricotti), Baviera, alessandro, marchese,
asor Rosa, alberto, Baviera, anna Beatrice, marchesa,
association de la sainte-Famille, Baviera, Carlotta, marchesa,
«atene e Roma», Baviera, dorotea, marchesa,
ateneo, Baviera, Giacomo Giuseppe, marchese,