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ACHILLE DELLA RAGIONE

MOSTRA DI GEMITO AL MUSEO DI CAPODIMONTE

EDIZIONI NAPOLI ARTE

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Prefazione
Questo libro nasce in occasione della mostra su Vincenzo Gemito, che dopo
il successo riscontrato al Petit Palais di Parigi, approda a Napoli al museo di
Capodimonte, dove si potrà visitare per 3 mesi a partire dal 19 marzo.
Il volume comprende un corposo capitolo sulla vita e le opere del grande
scultore, ricco di ben 40 figure. Segue un articolo pubblicato nel 2009 in
occasione dell’ultima mostra tenutasi sull’artista a Villa Pignatelli, a cui
seguirono interessanti commenti da parte di illustri personaggi del mondo
culturale.
Vi è poi un articolo sul capolavoro di Gemito: il Pescatorello, conservato in
una celebre collezione napoletana. Si conclude in bellezza proponendo al
lettore 16 foto a colori di sculture e disegni dell’artista.
Debbo pubblicamente ringraziare l’amico fraterno Dante Caporali, che mi
ha fornito immagini e preziosa assistenza nella preparazione del pdf, senza il
suo aiuto questo libro non avrebbe mai visto la luce.
Non mi resta che augurare a tutti buona lettura.

Achille della Ragione

Napoli febbraio 2020

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Vincenzo Gemito, la vita e le opere
Vincenzo Gemito (Napoli 1852–1929) è stato uno dei più grandi scultori
italiani. Autodidatta, in gran parte, e insofferente ai canoni accademici, egli
si formò attingendo dai vicoli del centro storico di Napoli e dalle sculture
del museo archeologico. La sua prolifica attività artistica, che lo portò
all'apice del successo ai Salons di Parigi nel 1876-77, fu interrotta a causa di
un'intima crisi intellettuale, per via della quale si segregò dal mondo per
diciotto anni; riprese la vita pubblica solo nel 1909, per poi spegnersi venti
anni dopo. La sua produzione comprende vigorosi disegni, figure in
terracotta e un gran numero di sculture, tutte ritraenti con un'elevata
intensità pittorica scene popolaresche napoletane.
Egli (figg.1–2) nacque a Napoli il 16 luglio 1852 da genitori ignoti, un
classico figlio della Madonna, al quale fu assegnato il cognome Gemito per i
suoi continui lamenti, una condizione sociale della quale fu sempre fiero,
vantandosene per tutta la vita. Della sua famiglia originaria non ci sono
pervenute notizie, se non a proposito delle pressanti ristrettezze economiche
che spinsero i genitori a depositarlo, quando aveva appena un giorno, nella
ruota degli esposti dello Stabilimento dell'Annunziata, dove venivano
collocati i bambini abbandonati. Il 30 luglio dello stesso anno venne affidato
alle cure di una certa Giuseppina Baratta e del suo consorte Giuseppe Bes.
Alla morte di quest'ultimo, la Baratta sposò in seconde nozze un povero
muratore, Francesco Jadiciccio, quel «mastro Ciccio» raffigurato in vari
disegni giovanili del Gemito (fig.3). Di indole assai turbolenta e riottosa, il
giovane Gemito ebbe un'adolescenza assai irrequieta, allietata solo
dall'amicizia che lo legò con un suo coetaneo, Antonio Mancini (detto
«Totonno»), con il quale iniziò ad assaporare anche i confini di pittura e
scultura. L'iniziale formazione artistica del Gemito avvenne nell'ambito
della bottega di Emanuele Caggiano, scultore di gusto accademico, che
conobbe a nove anni mentre faceva da fattorino a un sarto; ma poco dopo,
nel 1862, il giovane Vincenzo passò sotto la guida di Stanislao Lista,
promotore dello studio del vero nella scultura. Il 23 aprile 1864 fu ammesso
a seguire i corsi del Regio Istituto di belle arti, ma cercò piuttosto
ispirazione nei vicoli del centro antico e nel circo Guillaume allogato al
teatro Bellini. Risale al 1868 il suo esordio alla mostra della Società
promotrice di belle arti di Napoli dove espose il Giocatore (fig.4). In questa
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fig.1 - Autoritratto - matita e biacca fig. 2 - Autoritratto - matita su
su carta - 45x35 - Napoli collezione pergamena - 64x51 - Napoli
Banco di Napoli collezione Banco di Napoli

fig. 3 - Masto Ciccio - matita fig. 4 - Giocatore di carte - gesso


su carta - 31x20 - Napoli patinato - Napoli museo di
collezione Banco di Napoli Capodimonte

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opera, acquistata da Vittorio Emanuele II per le collezioni di Capodimonte,
adottò il modellato pittorico e vibrante per suggerire la concretezza
dell'esperienza visiva e la spontaneità della realtà vernacola napoletana.
Gemito confermò queste novità formali nel Ritratto del pittore Petrocelli
(fig.5) (Napoli, già collezione Minozzi) un busto di terracotta, realizzato
intorno al 1869, a riprova dell'intolleranza verso la codificazione
accademica dell'arte scultorea, che si muoveva allora fra le incertezze del
romanticismo e gli ultimi esiti delle correnti canoviane e le incertezze del
Romanticismo.
Frattanto, Gemito riunì attorno a sé un folto gruppo di artisti insofferenti alla
codificazione accademica dell'arte scultorea, che contava, oltre
all'inseparabile "Totonno", anche Giovanni Battista Amendola, Achille
D'Orsi, Ettore Ximenes, Vincenzo Buonocore e Luigi Fabron; insieme a
questi ultimi si rifugiò nei sotterranei del complesso di Sant'Andrea delle
Dame, dove stabilì il proprio atelier.
Fu in quest'ambito che Gemito - tra il 1870 e il 1872 - eseguì la
pregevolissima serie di testine di terracotta, «mirabili per vivacità di sguardi
e naturalezza di atteggiamenti»; di questi anni sono Moretto (fig.6),
Scugnizzo (fig.7) e Fiociniere (fig.8), Malatiello (fig.9) e Fanciulla velata, i
primi tre nella collezione del Banco di Napoli, gli altri due nel museo
nazionale di San Martino; queste sculture vennero eseguite in terracotta,
mezzo plastico congeniale all'interpretazione realistica del soggetto, per le
libere variazioni di piani e le mobili vibrazioni luminose.
Ad esser ritratti erano trovatelli come lui, presi per le strade del centro
antico e allettati per pochi soldi. Salvatore Di Giacomo ci restituisce
un'immagine molto vivida dello studio di Gemito: “Gli adolescenti popolani
ch'egli si conduceva in quell'antro afferivano all'impasto mirabile della sua
cera e della sua creta magnifici brani di nudità, riarsa dal nostro sole ardente
e intinta come nel colore del bronzo”.
Nel 1871 vinse il primo premio del concorso indetto dall'Istituto delle Belle
Arti di Napoli, che garantiva ai vincitori una borsa di studio per un
Pensionato artistico a Roma. Le opere che portò come prova del concorso
furono l'altorilievo Giuseppe venduto dai fratelli (che gli valse le simpatie
del professore di pittura Domenico Morelli, del quale modellò uno
splendido bronzo (fig.10) e la scultura del Bruto che, raffigurando il patrizio

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fig. 5 - Ritratto del pittore fig. 6 - Moretto - terracotta cm. 36 -
Vincenzo Petrocelli - terracotta - Napoli collezione Banco di Napoli
Napoli giá collezione Minozzi

fig. 7 - Scugnizzo - terracotta - fig. 8 - Fiociniere - terracotta


cm. 36 - Napoli collezione Banco - cm. 36 - Napoli collezione
di Napoli Banco di Napoli

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fig. 9 - Malatiello - Napoli fig. 10 - Ritratto di Domenico Morelli -
museo e certosa di San bronzo cm. 50 - Napoli collezione
Martino Banco di Napoli

fig. 11 - Autoritratto con Matilde Duffaud - sanguigna su carta - 26x36


- Napoli collezione Banco di Napoli

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romano avvolto in un sovrabbondante panneggio, rappresenta la prima
immagine esplicitamente desunta dal mondo classico romano, che Gemito
proprio in quegli anni stava studiando al museo archeologico nazionale.
Nel 1873 conobbe Matilde Duffaud, fanciulla dal carattere docile e
sottomesso che divenne sua compagna e modella (fig.11) nel suo nuovo
atelier sulla collina del Mojarello, a Capodimonte. Allo stesso anno
risalgono i busti in terracotta raffiguranti Francesco Paolo Michetti e
Totonno l'amico mio, e quelli bronzei raffiguranti Domenico Morelli e
Giuseppe Verdi (fig.12). Dell'anno successivo è invece il Ritratto di Guido
Marvasi (fig.13), figlio di quel prefetto Diomede che sarà uno dei primi
mecenati dell'artista.
La produzione gemitiana comprende vigorosi disegni (figg.14–15–16–17–
18–19–20–21–22–23–24-25), figure in terracotta e un gran numero di
sculture, tutte ritraenti con un'elevata intensità pittorica scene popolaresche
napoletane; tra le sue opere principali si possono ricordare il Pescatorello
(fig.26), di cui parleremo più volte in seguito l'Acquaiolo (fig.27)
(l'originale fuso in argento si trova presso il museo del Cenedese di Vittorio
Veneto) , la statua di Carlo V sulla facciata del Palazzo Reale di Napoli
(fig.28), la Zingara (fig.29) ed i numerosi autoritratti (figg.30–31–32).
Nel 1876 Gemito trasferì il proprio studio presso il museo archeologico di
Napoli, onde esercitarsi nel rilievo delle famose statue di Ercolano e Pompei
che vi erano raccolte. L'anno successivo il giovane artista partenopeo
partecipò all'Esposizione nazionale di belle arti di Napoli e al Salon parigino
dove, presente per intercessione di Alphonse Goupil (figura assai influente
nel panorama artistico della Parigi di quegli anni), ottenne uno sfolgorante
successo con il Pescatorello (fig.26), (Firenze, Museo del Bargello). che
nell'opera appare in equilibrio precario su uno scoglio, nell'atto di trattenere
al petto dei pesciolini guizzanti.
Abbagliato dalla notorietà acquistata nel paese d'Oltralpe, nel 1877 Gemito
si trasferì nella villa a Poissy di Ernest Meissonier, dove venne raggiunto
dall'amico Mancini e dalla Duffaud; in Francia fu segnato dal successo e dal
prestigio professionale ma non dal benessere economico, a causa di una
cattiva amministrazione dei beni. Nel frattempo, fu espositore al Salon del
1878, dove furono notati il ritratto d'argento di Giovanni Boldini (residente
in quel periodo a Parigi) e quello di Jean-Baptiste Faure, celebre baritono e

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fig. 12 - Ritratto di Giuseppe Verdi - fig. 13 - Ritratto di Guido Marvasi -
bronzo cm. 52 - Napoli giá terracotta cm. 43 - Napoli
collezione Minozzi collezione Banco di Napoli

fig. 14 - Studio per allegoria fluviale - matita su carta - 28x38 - Napoli


collezione Banco di Napoli

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fig. 15 - Nudo della figlia fig.17 - Giovane - matita su carta
Giuseppina come sirena - - 41x26 - firmata e datata 1923 -
acquerello 42x28 - Napoli Napoli collezione Banco di Napoli
collezione Banco di Napoli

fig. 16 - Lo scorfano - disegno su manoscritto membranaceo


- 39x47 - Napoli collezione Banco di Napoli

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collezionista d'arte. Al Salon successivo presentò il Ritratto del dottor
Landolt (fig.33) e quello di Federico de Madrazo, vincendo per i meriti
artistici la medaglia di terza classe; a quello del 1880, dove ottenne la
medaglia di seconda classe, per la statuetta bronzea a figura intera ritraente
Meissonier (fig.34).
Il Pescatore napoletano, ripresentato all'Esposizione universale parigina del
1878, dove l’artista consolidò con una medaglia la notorietà presso i
Francesi, e in seguito più volte esposto in Italia e all'estero riportando
numerosi premi, appare in bilico su uno scoglio nell'atto di trattenere sul
petto dei pesciolini guizzanti e mostra un'energia sul punto di prorompere,
come attestano i segni del cesello creanti continui passaggi chiaroscurali.
Gemito scelse il fanciullo del popolo quale costante iconografica della sua
produzione grafica e plastica sin dal Giocatore (fig.4) e il corpo di
adolescente nudo al sole quale banco di prova di un'appassionata
costruzione plastica e volumetrica, negli anni più controllata ma pur sempre
dinamica e vitale.
Per gli studi sulle diverse versioni del tema del pescatore, dai primi anni
Settanta, si sa che il Gemito obbligava gli scugnizzi, pagati, a lunghe ore di
posa: rimanere, per esempio, in equilibrio su un grosso sasso insaponato allo
scopo di studiare le fasce muscolari in un momento di sforzo. Tale interesse
non si spiega certamente con semplice curiosità aneddotica, né si giustifica
appieno con qualche eco della fortuna romantica degli scugnizzi e dei
costumi popolari, né con la suggestione dell'arte dei "pastorari" napoletani e
con la lezione seicentesca di matrice caravaggesca (nel 1915 Gemito dipinse
una tempera dal Bacchino malato della Galleria Borghese), e tanto meno
risponde a moventi sociali. Di sicuro la tempra istintiva, la gioventù
parimenti diseredata e la formazione verista contribuirono (se non a
un'identificazione con i soggetti) al calore sensuale e sentimentale nel
narrare l'esperienza della realtà.
Le tante immagini di fanciulli, nella produzione tarda gli scugnizzi
divengono arcieri, risentono inoltre di un particolare vagheggiamento
dell'arte ellenistica che le porta fuori della cronaca, garantendone
l'atemporalità e fornendo un filtro tra ispirazione e forma definitiva, ben
lontana comunque dal riproporre fedelmente gli spunti antichi e da retoriche
declamazioni.

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fig. 18 - Adolescente - matita su carta 33x48 - Napoli collezione
Banco di Napoli

fig. 19 - Ritratto di Anna Gemito - matita su carta - 42x52 - Napoli


collezione Banco di Napoli

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I soggetti prediletti della produzione plastica e grafica di Gemito, che si
sostanzia di numerose copie, furono, sin dagli esordi, gli scugnizzi; nelle sue
opere, i monelli di strada napoletani sono caratterizzati da un'accentuata
freschezza fisica, da un calore sensuale e sentimentale, e sono animati
talvolta da un'energia sul punto di prorompere, talvolta da una profonda
malinconia.
I fanciulli del popolo di Gemito risentono inoltre dell'influenza esercitata dal
modello ellenistico, con il quale l'artista lavorò assiduamente a confronto
diretto nel museo Archeologico; con questi vagheggiamenti classici gli
scugnizzi acquisiscono un carattere indefinito e atemporale, senza tuttavia
ripetere meccanicamente e fiaccamente schemi già esauriti nell'antichità.
Per i disegni, che eseguì numerosi soprattutto agli scorci del Novecento,
Gemito scelse come costante iconografica le popolane, le cosiddette zingare,
ritraendole con una gestualità e vivacità quasi «pittorica» da sole, insieme a
bambini, impegnate nelle diverse attività quotidiane (Maria la zingara,
Nutrice, Carmela sono alcuni esempi di questa fase artistica gemitiana);
eseguì anche diversi disegni familiari e autoritratti, notevole l'Autoritratto
con Matilde Duffaud (fig.11). In questi anni, insomma, Gemito confermò la
propria conversione alla grafica, dove ebbe modo di abbandonarsi al proprio
estro creativo, non essendo più condizionato dal vincolo progettuale; nei
disegni padroneggiò sia la forma che la luce, resa con le tecniche più
disparate, quali la matita, la penna, il pastello, e l'acquerello.
Trasferitosi a Parigi nel 1877, riunitosi con l'amico Mancini e raggiunto
dalla Duffaud, ottenne il successo mondano ma non il benessere economico,
per un'incauta amministrazione. Eseguì il Ritratto di Cesare Correnti
commissario italiano all'Esposizione universale parigina del 1878 (la
versione in bronzo e oro, del 1880, si conserva presso la Galleria nazionale
d'arte moderna di Roma); Correnti, già ministro della Pubblica Istruzione,
gli aveva commissionato la traduzione in marmo del Bruto, mai compiuta.
Al Salon del 1878 presentò due busti in bronzo: quello ricoperto d'argento
del pittore Boldini, allora residente a Parigi, e quello di J.-B. Faure, cantante
e collezionista degli impressionisti; al Salon seguente, dove ottenne la
medaglia di terza classe, espose il Ritratto del dottor Landolt (fig.33) (gesso:
Firenze, collezione privata) e quello del pittore Federico de Madrazo
(terracotta: Venezia, Museo Fortuny); a quello del 1880 espose il ritratto in

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fig. 20 - Una madre che allatta fig. 21 - Ragazza di
il figlio - matita. acquerello e Genazzano - matita e
biacca su carta - 63x74 - Napoli inchiostro su carta -
collezione Banco di Napoli 38x26 - Napoli collezione
Banco di Napoli

fig. 22 - Ritratto di giovane


fig. 23 - Profeta - matita ed
donna - matita su carta
acquerello - 33x26 - Napoli
52x39 - Napoli collezione
collezione Banco di Napoli
Banco di Napoli
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fig. 24 - Ritratto della marchesa Giulia Albani

fig. 25 - Donna popputa a cavallo

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bronzo di Paul Dubois, scultore e direttore dell'École des beaux-arts, e
meritò la medaglia di seconda classe per la statuetta bronzea a figura intera
Ritratto di G.L. Ernesto Meissonier (fig.34). Quest'ultimo ritratto segnala
particolarmente l'indirizzo stilistico parigino sotto l'influenza del modello di
Meissonier, pittore ufficiale di costume e di storia, che fu per il Gemito
precettore, mecenate e ospite nella villa di Poissy e nello studio di Parigi: la
predilezione della rifinitura formale che il bronzo consente per l'elegante
minuzia descrittiva del cesello. Il Ritratto di Meissonier fu nuovamente
esposto nel 1880 a Torino alla IV Esposizione nazionale di belle arti
insieme con il busto bronzeo di Amedeo d'Aosta, duca di Genova,
commissionatogli dalla colonia italiana a Parigi e conservato nel palazzo
Reale di Napoli.
Tornato a Napoli, all'inizio del 1880, Gemito lavorò alacremente per più di
un anno sull'Acquaiolo, raffigurante un giovane venditore di acqua fresca,
dalla postura oscillante; la statua, chiaramente ispirata al Satiro danzante,
rinvenuto nella pompeiana casa del Fauno, venne destinata a Francesco II
delle Due Sicilie, ex re di Napoli, in esilio nella capitale francese.
In seguito alla precoce morte dell'amata Matilde per tisi, avvenuta nell'aprile
del 1881, Gemito sopraffatto dal dolore si ritirò a Capri, cercando nella
quiete idilliaca e agreste di quelle terre un ristoro e un oblio; sull'isola, dove
rimase per alcuni mesi, eseguì numerosi disegni, principalmente ritratti.
L'anno successivo s'invaghì della modella di Domenico Morelli, a tal punto
da farla sua sposa: era costei Anna Cutolo (figg.19-36), detta Nannina, e da
quest'unione, che si rivelerà ispiratrice di molte opere del Gemito, nacque
nel 1885 la figlia Giuseppina (fig.15). Il successivo periodo, che vide
l'esecuzione de Il filosofo, un presunto ritratto di mastro Ciccio (l'amato
patrigno), culminò nel 1883, quando avviò una fonderia privata a
Mergellina, grazie ad un finanziamento particolarmente generoso del barone
belga Oscar de Mesnil. L'eco della fama del Gemito raggiunse anche la
Corona sabauda, tanto che Umberto I subito gli offrì un incarico assai
onorevole. Sul prospetto principale del palazzo Reale di Napoli, infatti,
erano state ricavate otto nicchie, dove il monarca volle collocare altrettante
statue raffiguranti i più illustri sovrani delle varie dinastie ascese al trono
partenopeo: all'artista venne affidata pertanto l'esecuzione di una statua
effigiante Carlo V d'Asburgo.

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fig. 26 - Pescatorello - bronzo - Firenze museo del Bargello

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fig. 27 - Acquaiolo - bronzo - Torino Galleria di arte moderna

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Disorientato dall'insolita tematica storica (per la quale nel 1885 ripartì per
Parigi, dove si consultò con Meissonier), l'artista poté realizzare solo il
modello in gesso e il bozzetto bronzeo (fig.28) del Carlo V, non riuscendo a
tradurla in marmo: la travagliata realizzazione dell'opera, che era concepita
accademicamente all'antica ed era totalmente avulsa dalla sua poetica,
concorse nel provocare un grave esaurimento nervoso che lo portò al
ricovero nella casa di cura Fleuret.
Nel 1883 fu esposto alla Promotrice napoletana il bronzo Il filosofo con la
dicitura "Nec plus ultra": se l'opera appare una scultura antica ispirata alla
Testa dello Pseudo-Seneca del Museo archeologico napoletano, le
sembianze ricordano quelle di Mastro Ciccio, l'amato anziano patrigno,
valido collaboratore insieme con Tommaso Celentano e Pietro Renna nella
fonderia di via Mergellina, avviata proprio in quell'anno grazie al
finanziamento del barone belga Oscar de Mesnil e attiva sino al 1886.
Nel 1883 ad Anversa furono tributati a Gemito due diplomi d'onore
accompagnati rispettivamente dalla medaglia d'argento e da quella di prima
classe; due anni dopo, nella stessa città, all'Esposizione universale lo
scultore ottenne la medaglia di prima classe con una rappresentativa
selezione di opere, tra cui la prima copia del Narciso rinvenuto a Pompei
(Napoli, Palazzo reale: del 1886 è la replica per Diego Pignatelli d'Aragona
Cortes conservata nell'omonimo museo napoletano).
Nel contempo il successo internazionale dell'artista era ormai solido e
accompagnato da riconoscimenti ufficiali: a Parigi, nel 1889 e nel 1890, il
Grand prix per la scultura; ad Anversa, il diploma d'onore nel 1892; a Parigi,
nuovamente il Grand prix nel 1900. Gabriele D'Annunzio ne esaltò la
potente vitalità di eco ellenica: «Egli aveva nome Vincenzo Gemito. Era
povero, nato dal popolo; e all'implacabile fame dei suoi occhi veggenti,
aperti sulle forme, si aggiungeva talora la fame bruta che torce le viscere.
Ma egli, come un Elleno, poteva nutrirsi con tre olive e con un sorso
d’acqua».
In occasione della V Esposizione internazionale biennale di Venezia del
1903, Gemito ebbe l'onore di esporre nella sala del Mezzogiorno insieme
con Morelli. Inoltre, Achille Minozzi, amico e appassionato collezionista
dell'opera gemitiana, volle consacrare la sua raccolta pubblicando nel 1905
una monografia lussuosa scritta da Salvatore Di Giacomo.

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fig. 28 - Statua di Carlo V d'Asburgo - Napoli Palazzo Reale

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fig. 29 - La zingara - matita ed fig. 30 - Autoritratto - creta cruda -
acquerello su carta - Napoli cm. 12 - Napoli collezione Banco di
collezione Banco di Napoli Napoli

fig. 31 - Autoritratto - Italia fig. 32 - Autoritratto - Italia


collezione privata collezione privata

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Morte la madre e la moglie, Gemito riprese la vita pubblica nel 1909: per
consegnare il Pescatorello, richiestogli per la regina Margherita da Elena
d'Orléans, duchessa d'Aosta, e per esporre, su incitamento di questa, alla
VIII Biennale di Venezia i disegni di ambiente popolare napoletano che ne
riconfermarono il successo mondiale.
Allo scorcio del secolo appartiene la produzione incentrata sulla figura
femminile: ritratti di popolane, le "zingare", riprese da sole o con bambini
nelle attitudini quotidiane e nella vitale gestualità (Maria la zingara, Nutrice,
Carmela: Napoli, collezione Minozzi). Inoltre eseguì numerosi disegni
famigliari e autoritratti di grande potenza simbolica e passionale Autoritratto
con Matilde Duffaud, 1880-81, (fig.11) sanguigna acquerellata: collezione
del Banco di Napoli), cui seguiranno quelli più tardi con la barba fluente e
l'aspetto da profeta michelangiolesco, sia grafici sia plastici (Autoritratto,
del 1921, in bronzo: Milano, Civica Galleria d'arte moderna).
Ormai i disegni non sono più solo studi preparatori, ma autentici punti
d'arrivo e Gemito, proprio perché liberato dal vincolo progettuale, appare
vigoroso e fertilissimo. Negli anni, infatti, il talento dell'artista, nutrito dal
tormento quotidiano per raggiungere la pienezza dell'espressione, trova nel
disegno il personale appagamento creativo, dimostrando non solo la
padronanza della forma, ma anche la comprensione del fenomeno luminoso,
la sapienza del gioco dei valori e dei toni perseguita con le tecniche più
varie (matita, penna, acquerello, pastello). Stupiscono la varietà di intenti e
di attuazione e la conoscenza delle risorse più efficaci a esaltare il
movimento, l'energia e il senso della materia e dell'epidermide.
La produzione plastica del secondo decennio appare caratterizzata da
iconografie storicizzanti o allegoriche (o comunque astratte dai temi sociali
e quotidiani) e da studi decorativi che mostrano maestria nell'orientarsi tra i
soggetti antichi per riproporli alla maniera moderna. All'immediatezza
giovanile si sostituisce l'elaborazione ricercata con preziosistico gusto da
orafo, aiutato dal discepolo Salvatore Pavone nello sbalzo e nel cesello.
Del 1910 sono le opere Sorgente e Giovinezza di Nettuno; del 1911, in
occasione dell'Esposizione internazionale di belle arti di Roma, Medusa
(argento cesellato e dorato a fuoco: Malibu, CA, The J. Paul Getty
Museum), revival ellenistico per cui trasse spunto dal fondo esterno della
Tazza Farnese del Museo nazionale napoletano; al 1914 e al 1918 risalgono

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Inverno, Tempo, Vasaio, Fanciulla greca, Sibilla Cumana, Sirena, opere con
cui porta una nota di prezioso estetismo nel nuovo clima simbolista.
Nel 1911 si trasferì al Parco Grifeo di Napoli. Nel 1913 e nel 1915 partecipò
rispettivamente alla XI Esposizione di belle arti di Monaco e all'Esposizione
universale di San Francisco. Tra 1915 e 1917 fu spesso a Roma e dintorni
(ritrasse figure di ciociare); scolpì la Madonnina del Grappa; concepì il
progetto grafico per un monumento a Pio X raffigurante la Fede (Roma,
Galleria comunale d'arte moderna e contemporanea). Nel 1919 Matteo
Marangoni, allora deputato, ottenne dal Parlamento una "pensione d'onore"
(mai consegnata a causa di disguidi burocratici) per lo scultore, che si
trovava in pessime condizioni finanziarie.
L'anno seguente avvenne l'incontro a Napoli, dopo quarant'anni, con
Mancini, cui altri ne seguirono a Roma, dove Gemito si recò spesso,
impaziente di ottenere l'alloggio desiderato a Castel Sant'Angelo come
l'invidiato Benvenuto Cellini. Nel 1922 nella capitale venne organizzata
dalla rivista La Fiamma un'esposizione dell'opera gemitiana, che si
sostanziava in quegli anni di raffinate opere di cesello in oro e argento,
prevalentemente in piccole dimensioni e di fattura classicheggiante. Nel
1924 l'artista fece l'ultimo, deludente, viaggio a Parigi.
Negli anni 1920-26 lavorò assiduamente intorno al tema di Alessandro
Magno (fig.35), protagonista di tante sue visioni, proponendo l'immagine
ideale dell'eroe mitico in busti e medaglie, meditando sui prototipi antichi e
concependo persino una scultura equestre. Al 1926 risalgono le sue ultime
opere: Sibilla, in argento, esposta alla Promotrice napoletana, e Ritratto
dell'attore Raffaele Viviani (terracotta: Napoli, Museo di Capodimonte), in
cui sottile è la resa psicologica al di là del realismo fisiognomico conseguito
grazie alla tecnica esperta. Lo Stato italiano, nel 1927, gli assegnò per
volontà di B. Mussolini un premio in denaro di 100.000 lire. Esposizioni
antologiche vennero allestite nel 1927 alla galleria di Lino Pesaro a Milano
e, l'anno seguente, in Castelnuovo a Napoli.
Gemito morì a Napoli il 1° marzo 1929, ma gli ultimi anni della sua vita e il
suo ricordo tra i posteri meritano di essere trattati in maniera esaustiva.

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fig. 33 - Ritratto del dottor Landolt - fig. 34 - Ritratto di Ernest
bronzo cm. 41 - Napoli collezione Meissonier - bronzo - Milano
Banco di Napoli Galleria di arte moderna

fig. 35 - Medaglione con il volto di fig. 36 - Anna Gemito -


Alessandro Magno Roma Galleria d'arte
moderna

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Gli ultimi anni e la morte
Gemito guarì dalle allucinazioni solo nel 1909 all'età di cinquantasette anni,
quando, morte la madre e la moglie, emerse dal suo «crepuscolo tragico»
(come lo definì Di Giacomo) per consegnare il Pescatorello a Margherita da
Elena d'Orléans, duchessa d'Aosta; quest'ultima lo persuaderà a partecipare
alla VIII Biennale di Venezia con diversi disegni sulla realtà vernacola
napoletana, che lo resero poi universalmente celebre. In questo periodo
ritrasse principalmente figure femminili, quali zingare o popolane, in
disegni che ormai non erano più semplici bozzetti preparatori, ma veri e
propri punti d'arrivo: degna di menzione anche la fitta produzione di
autoritratti, dove Gemito ci appare con una barba fluente e l'aspetto da
profeta michelangiolesco, e le diverse sculture, delle quali si segnalano
Sorgente e Giovinezza di Nettuno (1910), Medusa (1911), e varie opere
ascrivibili al quadriennio 1914-18 (Inverno, Tempo, Vasaio, Fanciulla
greca, Sibilla Cumana, Sirena), dove Gemito si presenta convertito al nuovo
gusto simbolista.
Furono questi anni assai intensi: scolpì la Madonnina del Grappa, stese un
disegno per una Fede, da collocare nel monumento funebre di Pio X
(scomparso nel 1914) e infine fu espositore, nel 1913 e nel 1915, alla XI
Esposizione di belle arti di Monaco e all'Esposizione universale di San
Francisco. Visitò assiduamente Roma, dove ritrasse numerose ciociare e
ritrovò l'amico Mancini, dal quale si era separato trent'anni prima, a causa di
un aspro litigio; espose pure alcune opere a una mostra organizzata dalla
rivista La Fiamma, incentrata proprio sulla produzione plastica gemitiana. In
questi anni fu spinto dal desiderio di ottenere un'abitazione e una fucina
presso Castel Sant'Angelo, costruzione indissolubilmente legata al nome
dell'invidiato Benvenuto Cellini; sebbene si confrontasse con diversi
parlamentari del tempo (arrivando pure a chiedere un'udienza al Re),
Gemito non ottenne mai il sospirato alloggio a causa di varie lungaggini
burocratiche che dilazionarono la vicenda. Ormai rassegnato a non ottenere
il castello, l'artista fece quindi ritorno a Napoli, per non fare più ritorno
nell'Urbe.
Dopo un ultimo, inappagante, viaggio a Parigi (1924) Gemito vide le
proprie energie creative lentamente esaurirsi: la sua fama, tuttavia, era
ancora viva, tanto che lo Stato Italiano (su volontà di Benito Mussolini) gli
27
assegnò un premio di centomila lire, e mostre antologiche sulla sua
produzione si tennero nella galleria di Lino Pesaro a Milano (1927) e nel
Maschio Angioino di Napoli (1928).
Uno degli ultimi ammiratori, patrono e collezionista di Gemito fu Edgardo
Pinto (morto nel 1933) che nel 1919 venne nominato Direttore della sede di
Napoli della Banca Italiana di Sconto, che continuò la sua attività come
Banca Nazionale di Credito. Il Pinto rimase a Napoli, come Direttore della
Filiale fino al 1923, quando fu nominato Consigliere della Banca Nazionale
di Credito e si trasferì a Milano. Tra il 1919 ed il 1923 (ma forse anche
dopo) fu mecenate di Vincenzo Gemito negli ultimi anni di vita di
quest'ultimo ed ebbe molte sue importanti opere originali. Esiste una
vecchia foto sbiadita del suo studio che mostra la sua collezione di bronzi e
di disegni di Gemito, tra i quali un busto di Verdi, una testina dell'acquaiolo,
un Busto di fanciulla napoletana ed altre opere non identificabili, tra le quali
una grande testa baffuta inclinata a sinistra. Diverse opere furono acquistate
da Edgardo, per la Sede del Banco a Napoli (in particolare uno splendido
grande Sole d'oro e d'argento).
Vincenzo Gemito, infine, morì a Napoli il 1º marzo 1929. Il suo funerale ci
viene narrato da Alberto Savinio, che ne esaltò il versante ellenico: «Dal
Parco Grifeo il corteo scese lentamente tra gli eucaliptus. Il mare brillava
sotto il sole, i negozi avevano chiuse le porte e accesi i lumi. Arrivati
davanti alla marina, i becchini d’un tratto sentirono la bara più leggera sulle
spalle. Corse un po’ di scompiglio tra i personaggi ufficiali. Un signore in
tuba levò la mano a indicare il golfo: scortato da due delfini, Gemito
navigava verso i mari della Grecia»
La produzione di Gemito, frutto della sua formazione da autodidatta, si
impone con accenti di schietto realismo, con uno stile che trascese dalle
mode del momento. L'artista, infatti, si distinse in quanto autore di una
scultura «palpitante», impreziosita da libere variazioni di piani e da vivide
vibrazioni luminose. La fortuna critica che la produzione artistica gemitiana
ha avuto in Italia e nel resto del mondo ha subito fasi alterne di
apprezzamento e di oblio da parte dei critici e del pubblico. Al successo
mondano ottenuto ai Salons di Parigi nel 1876-77 seguì infatti il terribile
tracollo psicologico che colpì l'artista nel 1887, per via del quale si alienò
nella sua abitazione al Vomero; quando riprese a partecipare alla vita

28
artistica italiana, nel 1909, Gemito era ormai considerato un uomo folle e
perturbato. Ma se da un lato sembrava essere travagliato da un'irreversibile
crisi, dall'altro Gemito era venerato come un vecchio patriarca: nel 1905
Salvatore di Giacomo ne scrisse una corposa biografia, e il suo nome lo
ritroviamo anche nelle commedie di Raffaele Viviani. L'Acquaiolo, inoltre,
è stato un imprescindibile riferimento iconografico per Giulio Aristide
Sartorio per il suo film muto Il mistero di Galatea, realizzato nel 1918
mentre l'artista si allontanava da Roma; la pellicola, che non fece che
confermare l'influenza culturale della produzione gemitiana, impiega la
scultura come chiave risolutiva del mistero di Galatea, depositaria dei
segreti della bellezza e delle arti. Cospicua è stata anche la mole di articoli,
scritti, recensioni su riviste, e quotidiani del tempo che hanno contribuito ad
alimentare la fama dell'artista. Gemito fu particolarmente apprezzato da
Giorgio de Chirico, che riconobbe la modernità della sua prassi artistica:
“Ci vorrebbe un museo speciale per simili artisti, altroché trovare i loro
capolavori in vendita nelle vetrine dei camiciai. Ma per Gemito, come per
qualche altro, veniet felicior aetas [...]. In Gemito si riconosce quella
capacità eminentemente classica di rivelare il lato spettrale e occulto di una
apparizione, mostrando quello che è e, nel tempo stesso, quello che forse è
stato”. L'arte gemitiana fu altamente lodata anche da Giacomo Manzù, che
nel 1979 ribadì: «Sono contento di poter dire qualcosa su Vincenzo Gemito
scultore possente a cui i libri, la critica dedicarono scarsa attenzione. Sono
bastati pochi anni per sommergerlo nella nebbia dell’oblio. Gemito era uno
scultore appassionato delle cose sublimi e che, in un certo senso, si adattava
alle cose più semplici, in apparenza semplici, in realtà profondamente vere.
A mio giudizio Vincenzo Gemito è il più grande scultore dell’Ottocento.
Superiore, sotto certi aspetti a Medardo Rosso. Sono convinto, e in questo
sta la grandezza di Gemito, che alla scultura non serve il romanticismo. Alla
scultura servono tre cose: la forma, il mestiere e il genio. Il resto è inutile
contorno, esercitazione sterile, inessenziale / Gemito è stato un genio
solitario». Ciò malgrado, manca tuttora un'ampia revisione critica dell'arte di
Gemito, che risulta essere poco compresa e valorizzata. Sono rare le mostre
monografiche dedicate all'artista, se si eccettuano quella del 1953 al Palazzo
Reale di Napoli, quella del 1989 tenutasi a Spoleto, e quella del 2009 nella
napoletana villa Pignatelli. I motivi di questa mancata ricognizione dell'arte

29
gemitiana sono ascrivibili alla fragilità delle sue opere in terracotta, che
pertanto risultano essere difficili da trasportare, e al cospicuo numero di
multipli delle sue sculture originali, che rendono difficoltosa una corretta
disamina della sua produzione.
La sua produzione è concentrata tra il museo di Capodimonte, che da poco
ha acquistato gran parte della collezione Minozzi e Palazzo Zevalos, che
raccoglie quella che fu la celebre raccolta del Banco di Napoli (fig.37-38).
La grande mostra tenutasi a Parigi (fig.39) da poco terminata, a giorni si
trasferirà al museo di Capodimonte, dove sarà visitabile per 3 mesi.

figg. 37, 38 - Gallerie di Palazzo Zevallos di Stigliano

30
fig. 39 - Manifesto mostra su Gemito al Petit Palais di Parigi

31
Bibliografia
M. Della Rocca, L'arte moderna in Italia, Milano 1883, pp. 341-349
S. Di Giacomo, V. G. La vita, l'opera, Napoli 1905
E. Giannelli, Artisti napoletani viventi, Napoli 1916, pp. 592-600
V. Pica, I disegni di tre scultori moderni (G., Meunier, Rodin), in
Emporium, XLIII (1916), 258, pp. 402-425
U. Ojetti, L'arte di V. G. e sette ritratti inediti, in Dedalo, V (1924-25), 2,
pp. 315-332
A. Consiglio, V. G., Roma 1932
S. Vigezzi, La scultura italiana dell'Ottocento, Milano 1932, pp. 63-66
V. G. (catal.), a cura di C. Siviero, Milano 1933
O. Morisani, Vita di G., Napoli 1936
A. Savinio, Seconda vita di G., Milano 1938
H.O. Giglioli, I disegni di G. (catal.), Firenze 1944
V. G. I disegni, a cura di U. Galetti, Milano 1944
A. Schettini, V. G., Milano 1944; Disegni di G. (catal.), Roma 1948
G. Consolazio, V. G., Firenze 1951
F. Bellonzi, Appunti sull'arte di V. G., Roma 1952
Mostra di opere di V. G. (catal.), a cura di G. Consolazio, Montecatini 1952
G. Guida, G., Roma 1952
C. Siviero, G., Napoli 1953
C. Maltese, La formazione culturale di V. G. e i suoi rapporti con il
Caravaggio, in Colloqui del Sodalizio, II (1951-54), pp. 41-45
R. Causa, V. G., Milano 1966
Da Antonio Canova a Medardo Rosso. Disegni degli scultori italiani del
XIX secolo (catal.), a cura di G. Piantoni, Roma 1982, pp. 8-10, 75-92
Temi di V. G. (catal.), a cura di B. Mantura, Roma 1989
M.S. De Marinis, G., L'Aquila-Roma 1993 (con bibl.)
U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIII, p. 377.

32
L’ultima mostra su Gemito a Napoli
Nel 2009 a Villa Pignatelli si tenne una importante mostra su Vincenzo
Gemito, per la quale, oltre a condurre numerose visite guidate, approntai un
breve articolo che venne pubblicato sulle principali testate cartacee e
telematiche dell’epoca. In particolare su Napoli.com, che in quegli anni
contava circa 15.000 lettori al giorno, vi furono lusinghieri giudizi da parte
di importanti personalità della cultura, che vogliamo proporre ai lettori,
dopo aver dato uno sguardo all’articolo, corredato da una decina di foto.

Vincenzo Gemito in mostra a Napoli


26/3/2009
Napoli - Dal 29 marzo al 5 luglio presso il museo Pignatelli a Napoli
finalmente una grande retrospettiva rende giustizia a Vincenzo Gemito
(01), uno dei protagonisti della scultura europea tra Ottocento e Novecento.
Saranno esposti settanta lavori ed ottanta opere su carta, dalle terracotte
giovanili alle figurette di mendicanti fino ai superbi bronzi della maturità,
nei quali l’artista percorreva una personale rilettura della statuaria antica
senza cadere come molti contemporanei nella retorica.
Numerosi i disegni (02-03), realizzati con tecniche diverse quali penna,
matita, carboncino, seppia e acquerello, provenienti da raccolte pubbliche e
private, italiane e straniere.
Particolare attenzione è riservata alla selezione di opere appartenenti alla
celebre raccolta di Achille Minozzi, (oggi Cosenza), che quest'ultimo, in
stretti rapporti con Gemito, assemblò con passione e competenza, tra fine
Ottocento e inizio Novecento.
L’esposizione documenta anche aspetti poco noti della sua attività, come le
piccole sculture cesellate, con ossessiva precisione, in metalli preziosi (oro
in particolare), secondo metodi originali di grande modernità ma, al tempo
stesso, eredi di una lunga e fortunata tradizione locale che affondava le sue
radici fin nell'età ellenistico romana.
Si può affermare senza ombra di dubbio che se Napoli ai tempi della Belle
Epoque fu la Parigi d’Italia, Gemito fu il suo Rodin. Imbevuto di spirito
verista egli seppe evocare nei suoi scugnizzi nudi e sornioni dalla pelle
combusta dal sole un mondo arcadico e pagano, sensuale e mediterraneo.
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01

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05

02

03

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Si sa che Gemito allo scopo di ottenere la migliore ispirazione possibile
teneva a lungo il modello in piedi su di un sasso cosparso di sapone per
cogliere meglio l’energia potenziale e poterla poi immortalare nel bronzo
(04); anche nelle repliche lavorava a lungo di cesello per creare una
continua vibrazione della luce sulla superficie bronzea. Si rifiutò sempre di
lavorare il marmo, mentre fu abile orafo, avendo come cliente la stessa casa
reale con opere ancora inedite.
Egli nacque da genitori ignoti, un classico figlio della Madonna, al quale fu
assegnato il cognome Gemito per i suoi continui lamenti, una condizione
sociale della quale fu sempre fiero, vantandosene per tutta la vita.
Adottato, studiò in varie botteghe, prima lo scultore Caggiano, poi Mastro
Ciccio, immortalato in numerosi disegni ed infine da Lista. Quindi
insofferente delle eccessive esercitazioni scolastiche e dei convenzionalismi
accademici si rifugiò nei sotterranei di Sant’Andrea delle Dame in uno
studio dove nacquero le famose testine di terracotta (05) ed altre famose
opere come il Malatiello ed il Giocatore (06).
Durante questi anni si dedicò all’acquerello ritraendo più volte Matilde
Duffaud sua modella ed amante. Si trasferì poi a Parigi per un periodo e
morta la sua compagna si ritirò a Capri ove plasmò numerose famose opere
come il Filosofo e la Zingara.
Sposò poi Anna Cutolo, donna bellissima, esaltata anche nelle rime di
Salvatore Di Giacomo, la quale in passato era stata modella ed amante di
famosi artisti, che ne avevano dipinto con estrema poesia e realismo le
splendide forme. Ciò scatenò in Gemito un’accesa gelosia ed un feroce
rancore verso tutti i colleghi che l’avevano ritratta nature, tra cui anche
Domenico Morelli (07-08). Da allora la sua vita fu a lungo segnata dalla
follia, fu ricoverato in una casa di cura, da cui fuggì per ritirarsi a vivere
come un eremita nella sua casa di via Tasso, alternando momenti di crisi a
giornate di lucidità. Alla fine riuscì a guarire ed a ritornare con accresciuta
lena a forgiare piccole sculture in materiali preziosi ed opere anche di un
certo impegno (09). Visse fino al 1929 apprezzato da una clientela vasta che
faceva a gara per avere nel proprio salotto almeno una statuetta da esporre
con orgoglio.

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06

07

08 09
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Grande personaggio
È stato Alberto Savinio che, pur non avendo tutti i documenti e le opere di
cui possiamo disporre oggi, ha scritto uno dei testi più giusti ed emozionanti
su Vincenzo Gemito.
In Narrate, uomini, la vostra storia, «Seconda vita di Gemito», egli fa
innanzi tutto vedere il suo genio, parlando di alcune delle sue opere in
rapporto all’arte e agli artisti del suo tempo, lui che «visse in un mondo di
mummie e di pappagalli imbalsamati».
Più che alle sculture, Savinio, per gusto, si concentra sui disegni: «I disegni
di Gemito ci trasportano in un mondo superiore, il solo accettabile».
E in quel «superiore» niente di aristocratico, beninteso, bensì il semplice
dato di un genio che, al 99 per cento, non ha rappresentato, in tutta la sua
opera, che persone della più semplice e bassa umanità: plebe e creta si
sposano a meraviglia nelle sue mani…
E poi Savinio racconta la vita di Gemito, dalla nascita di bambino
abbandonato nella ruota dell’Annunziata, quartiere Mercato, piazza
Mercato, proprio là dove Masaniello aveva vissuto, s’era ribellato per dieci
giorni perché aveva fame, come tutto il popolo di Napoli, ed era stato
trucidato dai suoi stessi compagni di sommossa (...).
Talvolta, raramente, si dava a Napoli il nome di Genito, vale a dire
«generato», sottinteso «dallo Spirito Santo» come Gesù, ai figli della
Madonna, che si chiamano piuttosto col nome più napoletano che ci sia:
Esposito (Esposto: un atto improntato non alla vergogna ma alla fierezza: si
espone ciò che è bello, si nasconde ciò che è brutto, fino a gettarlo in una
pattumiera…). Molto napoletano, questo capovolgimento, questa
metamorfosi della disgrazia di nascere e di essere subito abbandonato, in un
miracolo che si espone e si applaude…
Come la lava omicida che diventa il più fertile dei terreni e la più solida tra
le pietre per costruire, Napoli ha sempre saputo rovesciare le sue storiche
disgrazie e schiodarsi dalle sue croci, con humour e riso, come per dire:
inchiodati lassù, si ha davvero una bella vista…
Perché, a Napoli, la felicità, che si sa friabile come il tufo, non è «essere o
non essere?», questione sempliciotta in fondo e comunque troppo primitiva
per i Partenopei; ma «apparire o non apparire?»: e questa questione non è
così semplice come appare, guardate le cose più da vicino, occorre, per
37
rispondervi nella vita, in tutta una vita, un grande coraggio, un grande tatto e
una potente civiltà creatrice.
Un napoletano che non appare è un napoletano morto.
E il ben vivente neonato Genito diventò, per un errore di trascrizione - nato
il 16, fu abbandonato il 17, registrato alla parrocchia contigua il 18 - Gemito
(e per un artista che avrebbe creato maneggiando la creta, la fusione del
bronzo e il fuoco fino alla follia, il lapsus calami di cui si sarebbe volentieri
impadronito Roland Barthes, era un altro segnale dello Spirito Santo).
Curioso segno d’elezione - e di attenzione amorosa e di strazio per colei che
ha dovuto metterlo nella ruota, voltargli le spalle e andarsene sola nella
notte - il neonato ha l’orecchio destro macchiato da una goccia di sangue e
bucato da un anello d’oro. Ciò che gli procurerà più tardi furiosi litigi con
altri bambini che gli affibbiavano nomi di ragazza.
Ed egli rientrava ben conciato dai genitori adottivi: una napoletana che
aveva perduto il suo bambino divenne la sua nutrice e una delle sue modelle
favorite, Giuseppina Baratta, moglie di un imbianchino, il francese ex
monaco Joseph Bes, che non tardò a morire per lasciare il suo posto al
nuovo sposo di Giuseppina, fedele agli imbrattatori di muri, il barbuto
Francesco Jadicicco, imbianchino lui pure e altro modello subito trovato per
il ragazzo prodigio che cominciò a modellare il proprio orecchio bucato,
prima di realizzare, in piena adolescenza, un autoritratto quasi a grandezza
naturale, una terracotta a patina di bronzo ossidato verderame, che lo
raffigura come giocatore di carte. È già un capolavoro, nel cui solco va tutta
l’opera. Lo si può ammirare a Capodimonte - mentre altre sculture di
Gemito, tra le più belle, sono esposte a San Martino, barocca grotta d’Ali
Baba in cui l’occhio s’impadronisce di molti secoli di creazione napoletana.
Il «Giocatore di carte» è un guaglione, quasi a grandezza naturale, sedute su
delle lastre di lava, torso nudo e pantaloni rimboccati fino a metà polpaccio,
gambe piegate, la sinistra coricata sul suolo, il tallone sulle chiappe, la
destra dal ginocchio alzato verso il volto, la testa piegata, gli occhi bassi,
l’espressione tesa per una scelta non facile, la mano destra che gratta la
zazzera, la mano sinistra piegata su delle carte, con il pollice e l’indice -
modellando il destino come la cera rossa degli scultori - fanno appena
scivolare i colori, nascondendoli, a noi, gli altri giocatori o spettatori del
gioco.

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È più bello, più fragile, più forte, più filosofico e più umano, e pensa di più,
insomma, più vicino e più lontano, tra Diogene e Pascal, del «Pensatore
troneggiante» di Rodin. Gemito l’ha realizzato quando aveva sedici anni.
Tra i sedici e i trentacinque anni, realizza la quasi totalità della sua opera, e
consuma, comunque, il suo genio. (...)
Tutti i bambini che egli scolpisce o disegna sono bambini esposti, come lui,
suoi fratelli nella Madonna.
Tutte le donne del popolo sono sua madre nutrice.
Lo stesso occhio aperto nello stesso tempo verso l’esterno e sulle profondità
delle viscere, stessa bocca semiaperta per dare e darsi fino all'esaurimento,
le stesse labbra carnose, lo stesso illuminarsi delle carni che si ritrova nel
Caravaggio, nella nutrice che dà il seno al vecchio prigioniero barbuto delle
Opere di Misericordia… Tutte le giovani donne hanno i tratti
dell’acquaiuolo…
Quando scolpisce un filosofo dell’antichità, è Francesco, il secondo marito
di Giuseppina, che posa.
I suoi autoritratti permettono di seguirlo per tutta la sua vita, e quando è alla
vigilia della morte si fa fotografare tutto nudo, la barba bianca fluente sul
petto di vecchio, come un fiume in secca.
Egli si mostra, si espone, come, neonato, è stato esposto, come in un ultimo
atto che gli permetterebbe di raggiungere colei che l’ha generato, quella che
l’ha «genito», la sua vera genitrice di carne, di latte, di sangue e di respiro…
E come non pensare a Masaniello che, sul pulpito, nella chiesa del Carmine,
si espone lui pure, davanti al popolo e alla corte vicereale e al cardinale
Filomarino, nudo come un verme e chiede, qualche minuto prima di essere
assassinato, di lasciare ogni potere per andare di nuovo a vendere il suo
pesce?... Il corpo parla, a Napoli, senza intralci, e la verità non è essa stessa
nuda?... 1929: la foto per l’uno. 1647: la folla per l’altro.
Savinio: «Ricevette nel 1886 la commissione di una statua di Carlo V.
Si trattava di completare, sulla facciata di palazzo reale, la serie di quelle
otto grandi statue che, allineate in attitudini dementi, sembrano voler
discendere dalle loro nicchie per seminare la confusione in città, incendiare
le navi del porto e riaprire le porte dell’Averno.
Gemito eseguì il bozzetto a Parigi, durante il suo secondo soggiorno nella
città, e lo riportò in Italia avvolto di stracci come una mummia di bambino,

39
con la tenerezza materna che dispiegava nel trasporto delle sue opere,
pressandole contro il petto e coprendole col mantello perché non
prendessero freddo».
Come «una mummia»?
O piuttosto come un neonato che si deposita nella ruota?
Un anno più tardi, la realizzazione, in marmo, del suo bozzetto, egli va a
vederla, solo, dopo l’inaugurazione ufficiale che ha evitato.
Il braccio dal dito teso in un gesto imperioso non gli sembra fedele alla sua
opera.
Urla e si mette a lanciare pietrame contro Carlo V.
Lo arrestano. Lo portano in un ospedale psichiatrico.
Evade facendo una corda con le sue lenzuola…
Aveva orrore del marmo, della sua immobilità e della sua bianchezza
tombale…
Il movimento! Il movimento!
E non sopportò di vedere il piccolo, fragile gesso uscito dalle sue mani
trasformato in un così pesante mostro di marmo.
Da allora, il dito puntato di Carlo V ha difficoltà a innestarsi nel resto della
mano. La cicatrice non si richiude.
Tra il 1887 e il 1909, Gemito sparisce dalla circolazione, dal sole stesso di
Napoli, è dunque divenuto pazzo e si rinchiude per più di vent’anni in uno
scantinato di via Tasso che taglia ad angolo dritto la calata san Francesco,
dove ho abitato per dieci anni.
E ogni giorno, passando, vedevo l’ombra di Gemito dietro le sbarre, al
livello del marciapiede, che una targa di marmo affumicata ricorda, parlando
di «sofferenza», non di «follia».
E nessuno s’accorgeva che qui due follie s’incrociavano: quella dello
«scultore pazzo» (così lo chiamano ancora, a Napoli) e quella dello scrittore
pazzo, Torquato Tasso (nato a Sorrento, rinchiuso a Roma)…
Tutti e due avendo fatto la loro opera immortale, metamorfosando grazie ad
essa il nostro sguardo sul mondo, affinando, grazie ad essa, la percezione di
tutti i nostri sensi, facendo, grazie ad essa, proliferare in noi alcuni istanti di
suprema bellezza… Tutti e due metamorfosizzandosi allora all’interno di se
stessi, poiché non avevano più niente, o quasi, da liberare (Gerusalemme…),
da esporre all’esterno…

40
Così si dice a Napoli di un folle: «È uscito pazzo» oppure «è partito con
l’immaginazione».
Gemito fuori di sé, fuori dalle sue sanguigne, dalla sua creta, dal suo bronzo,
demoltiplicato nella sua follia come ha demoltiplicato la sua anima e la sua
vita nell’opera.
2009-04-18 19:22:59 - Jean Noel Schifano

Un duraturo rapporto
Radici profonde ci legano da 40 anni, le parole non possono definire un tale
rapporto ma noi sappiamo che esso continuerà a vivere nel tempo.
Ciao Duccio e Lia
2009-04-03 13:50:11 - Duccio e Lia Tarallo

Personaggio leonardesco
Ciao Achille. mi sembra di parlare con un fantasma, non so nemmeno se
leggi le mie risposte visto che rispondi come un messaggio preregistrato tipo
segreteria telefonica, comunque sono andato sul link da te indicato e
naturalmente l'ho trovato interessantissimo come sempre quando riguarda te.
Tu hai molti nemici e detrattori ma io sono iscritto nell'elenco dei tuoi ancor
più numerosi agiografi.
Ti ho sempre considerato la reincarnazione di Leonardo, quello che più mi
colpisce di te è la fame insaziabile di conoscenza e la mancanza assoluta di
pregiudizi e preconcetti.
In una mail precedente ti ho detto che mi fai ricordare gli illuministi.
In provincia di Salerno, qualche anno fa, diciamo 8, una persona fu arrestata
con un vero e proprio blitz militare. Il reato commesso: rapporto sessuale
con nuora consenziente. Per il nostro cod penale (codice Rocco del 1942 ) è
un reato punito con l'arresto. Questo reato è definito dal c.p.: "incesto" in
violazione del significato offerto da tutti i dizionari del mondo.
Se ne parlò poco allora ma a me parve la spia di un profondo ritardo
culturale rispetto, non dico alla Svezia, ma alla grande maggioranza dei
paesi europei, diciamo che la distanza che ci separa dall'Egitto è minore da
quella che ci separa dalla Svizzera.

41
Ciao. A proposito oggi è il mio ultimo giorno che ti scrivo dalla mia vecchia
casa dove ho trascorso gli ultimi 26 anni della mia vita. Mi trasferisco
domani ai Camaldoli.
Non avrò per un po’ il telefono avrò una crisi d'astinenza.
Ciao Giacomo
2009-04-01 14:03:19 - Giacomo Vallifuoco

Chi è Gemito?
Chi è, per noi, Vincenzo Gemito, cui è dedicata la retrospettiva, curata da
Denise Pagano, che si è inaugurata ieri al Museo Pignatelli di Napoli (fino
al 5 luglio, catalogo Electa Napoli)?
Cosa ha ancora da dire?
Qual è la modernità dello «scultore pazzo», il cui itinerario è stato spesso
appesantito da letture di tipo biografico-aneddotico?
Per rispondere, potremmo muovere da due prospettive opposte.
Inizi del secolo scorso. Aprile 1910. Umberto Boccioni è a Napoli per la
serata-happening che si tiene al teatro Mercadante.
In quei giorni ha l’opportunità di conoscere l’ambiguo Scarfoglio, il
prudente Croce. E, appunto, Gemito.
Uno strano personaggio, rimasto «per vent’anni chiuso in un silenzio
infecondo e impenetrabile».
È canuto, invecchiato. Appartiene a una stagione irrimediabilmente
trascorsa.
Anni dopo. È il 1941 quando Giorgio de Chirico pubblica un articolo che è
un elogio appassionato.
Ci troviamo dinanzi a una personalità che è stata ingiustamente sottovalutata
in Italia. Un maestro, inventore di «misteriosi processi».
I suoi disegni potrebbero «rivaleggiare con le migliori cose di Dürer». È
«scultore, poeta, narratore, filosofo, moralista, disegnatore, pittore e
artigiano nel senso più alto della parola». Qualche mese dopo ritroviamo il
medesimo entusiasmo nelle parole di Alberto Savinio, il quale sottolinea
l’originalità dello stile di Gemito. Lontano dalle modalità impressioniste,
egli è una voce in qualche modo definitiva. Conduce verso i confini di un
mondo metafisico: squarcia le apparenze, per toccare «i valori di prima e di

42
sempre». Ha una «levatura superiore», che gli consente di trasfigurare la
cronaca: trasforma le zingare in icone tragiche, le contadine in divinità, le
creature mortali in esseri immortali.
Dov’è la verità? Nell’oscillazione tra il conservatorismo stigmatizzato da
Boccioni e l’intemporalità colta da de Chirico e da Savinio.
La mostra di Villa Pignatelli documenta con efficacia questi passaggi,
disegnando un itinerario ricco: più di duecento opere, dalle terracotte
giovanili ai bronzi della maturità, dagli oggetti preziosi a un vasto corpus di
fogli eseguiti a penna, matita, carboncino, seppia, acquerello.
Una rassegna di notevole importanza, che va a riempire un grave vuoto
storiografico: si ricordi che finora a Gemito erano state dedicate solo due
esposizioni monografiche (nel 1953 a Napoli, a Palazzo Reale; nel 1989 a
Spoleto, nell’ambito del Festival dei Due Mondi).
L’itinerario delineato - purtroppo caratterizzato da un allestimento poco
divulgativo - segue un criterio tematico.
L’avventura poetica gemitiana è stata scomposta in vari capitoli: i fanciulli, i
pescatori, gli acquaioli, i ritratti, gli autoritratti, le meduse, le sibille, gli
omaggi a miti come Alessandro Magno e Carlo V.
E poi: il centrotavola realizzato per Umberto I, il Narciso e l’Oscar du
Mesnil.
Una catalogazione ragionata, accompagnata anche da una selezione di
significativi momenti dell’arte del secondo Ottocento e da una piccola
galleria di fotografie d'epoca (in larga parte dell’Archivio Parisio).
Ciò che colpisce è il continuo transitare tra bozzettismo e classicità.
Gemito mira a saldare territori non contigui: urgenze realiste e fascinazioni
antiche, tensioni scapigliate e controllo aureo.
Influenzato della tradizione del verismo meridionale, vuole aderire alla
fenomenologia del mondo. Scolpisce eventi plastici che accolgono echi
dissonanti, rivelando un gusto immediato ed efficace, nel cogliere tipi umani
e sociali.
In ogni sua annotazione - in terracotta e in bronzo -, si percepisce un’accesa
sensibilità per il vero. Ciascuna scultura rispecchia aderenza alle cose e
rifiuto di ogni idealizzazione.
L’opera è il riflesso di un’attenta indagine socio-antropologica, che, talvolta,
sfocia in un descrittivismo lezioso e di maniera.

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Questi abbandoni vengono riscattati nei bronzi, dove assistiamo alla
scoperta della grazia.
I valori naturalistici sono filtrati, rimodulati. La prosa si fa aristocratica, più
controllata. Costanti i richiami alla statuaria ellenistica, ercolanese e
pompeiana. Stringenti i riferimenti barocchi.
Simile a un «Canova moderno di fine Ottocento e di primo Novecento» (per
riprendere una definizione di Nicola Spinosa), Gemito attua un «ritorno al
museo».
Nobilita le forme, impreziosendole. Sembra comportarsi come un
alessandrino del XIX secolo, che sceglie di rifugiarsi in una bellezza
d’epoca, modellando pescatori le cui mosse raffinate e veloci potrebbero far
pensare alle sagome di Benvenuto Cellini o di Giambologna.
Eppure, in diversi episodi, Gremito appare come un profeta delle
sperimentazioni primonovecentesche.
Si osservino alcuni dettagli: i contorni, gli abiti, le patine, le
compenetrazioni tra figure e sfondi.
In particolare, le cere rosse e le maschere, dense di consonanze con le
investigazioni liquide di Medardo Rosso.
E i disegni: che esibiscono sgrammaticature audaci e deformazioni
impreviste.
I dati anatomici deflagrano, le epidermidi si piegano, le linee si spezzano. Si
toccano le vette del non-finito. L’unità esplode tra rapidi cenni e tocchi
incompiuti.
Dunque, chi è per noi «’o scultore pazzo»? Un classicista d’avanguardia.
Ecco il profilo che ne offre Gabriele d’Annunzio nel 1901: «Era povero,
nato dal popolo; e all’implacabile fame dei suoi occhi veggenti, aperti sulle
forme, si aggiungeva la fame bruta che torce le viscere.
Ma egli, come un Elleno, poteva nutrirsi con tre olive e con un sorso
d’acqua».
2009-03-30 13:12:03 - Vincenzo Trione

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Il Pescatorello, il capolavoro di Vincenzo Gemito
Il bronzo del Pescatorello ottenne un grande successo di pubblico e di critica
quando fu presentato nel 1877 al Saloon di Parigi nel 1877 ove fu effigiato
dalla menzione d’onore. Della scultura esistono alcune repliche, le più belle
sono tre: una conservata nel museo del Bargello a Firenze, una,
ufficialmente nella stanza del sindaco di Napoli, ma spesso errante tra
mostre e musei e la terza, di cui parleremo in questo articolo, conservata
nella collezione della Ragione a Posillipo.
Le tre repliche autografe derivano da un gesso preliminare (fig. 1),
conservato nel museo di Capodimonte, che fece da guida all’artista per
realizzare le repliche in bronzo, alle quali egli lavorava a lungo di cesello
sulla superficie per realizzare una continua vibrazione della luce.
L’opera (fig. 2) di cui intendiamo parlare in questo breve contributo, alta
cm. 135 e firmata sulla base V. Gemito, venne acquistata dal noto
professionista nel corso di un’asta Semenzato tenutasi a Roma il 25
novembre 1991; in precedenza apparteneva al famoso imprenditore
Eugenio Buontempo.
In questa scultura è molto curata la pelle increspata, naturalisticamente
ottenuta con un paziente lavoro di scalpello, mentre risaltano i tratti del
volto (fig. 3) ed è molto curata la vivace correlazione delle membra di
questo scugnizzo in equilibrio precario sullo scoglio e nell’atto di trattenere
i pesciolini appena staccati dall’amo. Si sa che Gemito allo scopo di
ottenere la migliore ispirazione possibile teneva a lungo il modello in piedi
su un sasso cosparso di sapone per cogliere meglio l’energia potenziale e
poterla poi immortalare nel bronzo.
Gemito per meglio rendere le opere che creava dal bronzo predisponeva
numerosi disegni preparatori per studiare l’evoluzione della forma. La gran
parte di questi disegni erano nella collezione Minozzi (fig. 4) ed oggi si
possono ammirare nelle sale del museo di Capodimonte. Attraverso il loro
esame è possibile verificare la ricerca formale eseguita dall’autore per
stabilire la posizione definitiva del pescatore sullo scoglio: in alcuni disegni
lo scugnizzo ha i piedi ben piantati sul sasso con il busto flesso in avanti; in
altri la figura vista di prospetto o di spalle si sposta verso la definitiva posa
accovacciata sugli scogli, in altri ancora si osservano altre posizioni, segno
evidente di una accuratissima ricerca spaziale eseguita dall’artista.
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Il soggetto iconografico, per via del grande successo di critica e pubblico, è
stato replicato più volte in formato ridotto e con significative varianti dallo
stesso Gemito, come nel caso del Piccolo pescatorello (fig. 5) che qui
rendiamo noto.
E concludiamo in bellezza l’articolo fornendo ai lettori la visione di una
parte del salotto (fig. 6) che ospita l’opera di cui abbiamo parlato e l’autore
con il catalogo della sua raccolta in compagnia dell’adorata moglie Elvira
(fig. 7).
Achille della Ragione

fig. 1 - Pescatore - gesso - Napoli fig. 2 - Pescatorello - bronzo cm. 135


- museo di Capodimonte - firmato - Napoli collezione della
Ragione

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fig. 3 - Pescatorello - bronzo cm. fig. 5 - Piccolo pescatore - Roma
135 - firmato - (particolare del collezione privata
volto) - Napoli collezione della
Ragione

fig. 4 - Minozzi in un disegno di Gemito

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fig. 6 - Salotto di villa
della Ragione

fig. 7 - L'autore con il


libro della sua
collezione e consorte

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TAVOLE A COLORI

tav. 1 - Pescatorello - bronzo cm. 135 - firmato - Napoli collezione della Ragione

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tav. 2 - La zingara - matita ed acquerello su carta - Napoli
collezione Banco di Napoli

50
tav. 3 - La strega - cera - Napoli collezione Pagano

51
tav. 4 - Ritratto di Mariano Fortuny - bronzo cm. 52 - Napoli collezione Banco
di Napoli

52
tav. 5 - Scugnizzo - terracotta cm. 36 - Napoli collezione
Banco di Napoli

53
tav. 6 - Ritratto di Carlo V - bronzo cm. 68 -
Napoli museo di Capodimonte

54
tav. 7 - Zingara - matita ed acquerello - 47x30 - Napoli museo
di Capodimonte

55
tav. 8 - Testa di bambino - bronzo dorato cm. 35 - Napoli
collezione Banco di Napoli

56
tav. 9 - Ritratto d'uomo - bronzo cm. 52 - Napoli
collezione Banco di Napoli

57
tav. 10 - Ritratto di Raffaele Viviani - terracotta cm . 48 - Napoli museo di San
Martino

58
tav. 11 - Busto di Giuseppe Verdi - bronzo - Milano museo della
Scala, collezione Sambo

59
tav. 12 - Ritratto di Domenico Morelli - terracotta - Napoli museo di San
Martino

60
tav. 13 - Ritratto di Alessandro Magno - terracotta cm. 35 - Roma galleria di
arte moderna

61
tav. 14 - La nutrice - bronzo - Napoli già collezione Minozzi

62
tav. 15 - Ritratto di Raffaele Viviani - terracotta - museo di San
Martino

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tav. 16 - Sala Minozzi nel museo di Capodimonte

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