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MICHELANGELO PICONE

DANTE COME AUTORE/NARRATORE


DELLA COMMEDIA*

Come può avvicinare la Commedia di Dante chi (studente o cul-


tore) voglia non degustarla nei suoi episodi più celebrati o nei
suoi personaggi più famosi, bensì conoscerla nella sua integrità e
complessità? Come raggiungerà il testo senza trovare continua-
mente la strada sbarrata dalla gigantesca bibliografia critica che
si è accumulata su di esso, e che aumenta ogni anno in progres-
sione geometrica? Insomma, come possiamo leggere oggi il ca-
polavoro dantesco? Una risposta a questa formidabile ma essen-
ziale domanda esiste, ed è Dante stesso che ce la fornisce, nel
momento che include la figura del ‘lettore’ nell’ingranaggio se-
miotico della sua opera. Molto prima che i teorici della scuola di
Costanza scoprissero la funzione dell’‘implizite Leser’, molto
prima che autori come Calvino scrivessero dei romanzi il cui
protagonista è il lettore, Dante aveva già riconosciuto che ogni
processo di codificazione letteraria deve racchiudere delle indi-
cazioni che orientino la sua decodificazione, che ogni testo deve
contenere le istruzioni per la sua corretta lettura. Il modo mi-
gliore di affrontare la lettura della Commedia sarà allora quello
di ricostruire il modello comunicazionale insito nell’opera, an-
che se tale estrazione è tutt’altro che pacifica. È questo il proble-
ma che qui ci proponiamo non di risolvere, ma più modesta-
mente di impostare.
A cominciare almeno dal saggio pubblicato da Leo Spitzer
nel 1946 sull’opposizione nelle letterature romanze medievali tra
l’io empirico e l’io poetico, si è imparato a distinguere nella
Commedia di Dante l’io personaggio dall’io poeta, colui che agi-
sce da colui che lo fa agire. Mentre il primo è un individuo lega-
to ad una precisa realtà storica e perfino autobiografica, il se-

* Testo della relazione tenuta a Costanza il 15 novembre 1997 nell’ambito della “4.
Internationale Tagung des Deutschen Italianistenverbands”; ringrazio il collega e ami-
co Karlheinz Stierle dell’Università di Costanza per l’invito e la squisita ospitalità.
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condo è una figura universale, in quanto espressione di una u-


manità che cerca di esplorare la realtà sovrumana. Spitzer affer-
ma che l’unica forma di autenticazione che Dante può esibire
per il suo viaggio nell’Aldilà, altrimenti incredibile, è proprio
quella di presentarlo come l’avventura dell’anima umana alla ri-
cerca del suo principio creatore1. Con il volume Commedia: Ele-
ments of Structure di Charles S. Singleton, uscito nel 1954, l’op-
posizione spitzeriana si precisa e si complica allo stesso tempo:
da un lato l’io empirico diventa il “pellegrino”, l’homo viator che
raggiunge l’identificazione divina, un personaggio individuale
che emblematizza la condizione universale dell’Everyman; dal-
l’altro lato l’io poetico assume le vesti dello scriba Dei, di colui
che può manifestare la verità definitiva del viaggio, sia del pelle-
grino sia dell’Everyman, perché l’ha letta direttamente nel «vo-
lume» che gli si è aperto davanti al momento della finale rivela-
zione paradisiaca. Ne deriva, giusta la Lettera a Cangrande, la
prospettiva polisemica della Commedia: al senso letterale o isto-
riale che concerne l’io personaggio, si aggiungono i vari sensi
spirituali (allegorico, morale e anagogico) che riguardano l’E-
veryman2. Le indicazioni provenienti dal lavoro singletoniano
assumono una valenza fondamentale nella nostra particolare ot-
tica critica: non solo per la distinzione narratologica fra l’io per-
sonaggio e l’io poeta, ma anche per quella semantica fra la littera
e l’allegoria. Un corollario al sistema ermeneutico elaborato da
Singleton venne appeso nel 1958 da Gianfranco Contini nel suo
celebre articolo su Dante personaggio-poeta della Commedia.
L’illustre filologo vi osserva che il personaggio che dice io nel
poema sacro è soprattutto «un uomo di lettere», un personag-
gio-poeta appunto; fatto che, se non elimina l’opposizione fra

1. L. SPITZER, Note on the Poetic and the Empirical ‘I’ in Medieval Authors, «Tradi-
tio», IV (1946), pp. 414-22, poi raccolto in Romanische Literaturstudien 1936-1956,
Tübingen, Max Niemeyer Verlag 1959, pp. 100-12. Prima di Spitzer l’opposizione fra
personaggio e poeta era già stata abbozzata da G. Pascoli e da F. D’Ovidio nei suoi
vari volumi di Studi danteschi; si veda anche la postilla di M. Porena nel suo commen-
to al canto XXIII dell’Inferno (Bologna, Zanichelli 1956, pp. 215-6) dove però si ha il
torto di ridurre tutto al décalage temporale fra l’anno del viaggio fittizio e gli anni del-
la lunga elaborazione del poema.
2. Ch. S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna, Il Mulino
1978, pp. 16-35.
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personaggio e poeta, certo ne limita considerevolmente la porta-


ta conoscitiva e metodologica. Al fondo dell’analisi continiana
opera chiaramente il principio idealistico dell’unità dell’arte; per
cui la distanza che separa il personaggio dal poeta non può esse-
re polare ma graduale, essa anzi tenderà a ridursi fino quasi ad
annullarsi3.
Un po’ assopita dal caveat continiano, la discussione su Dante
personaggio e poeta della Commedia non è, negli ultimi decenni,
molto avanzata dal punto di vista teorico; essa si è contentata di
sondare l’applicabilità pratica dell’opposizione personaggio/poe-
ta in vista di letture di tipo soprattutto settoriale e frammentario
dell’opera. È però forse arrivato il momento di riaprire il dibatti-
to su questo punto estendendolo alla totalità dell’opera, in modo
da rendere meglio conto della sua complessità narrativa e struttu-
rale (significativamente l’analisi di Contini approda ad una netta
svalutazione della dimensione sia narrativa sia strutturale4). Per
raggiungere tale scopo dobbiamo coinvolgere nel nostro discorso
da un lato la Vita Nuova e dall’altro i modelli classici e romanzi ai
quali la Commedia si ispira. Infatti, è solo attraverso un’indagine

3. G. CONTINI, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», ora in Varianti e


altra linguistica, Torino, Einaudi 1970, pp. 335-61; la diversità di impostazione critica
del presente contributo rispetto all’articolo continiano è manifesta fin dal titolo: esso
si pone al livello dell’enunciazione narrativa (autore/narratore) piuttosto che a quello
che messaggio (personaggio-poeta), e separa le due entità piuttosto che amalgamarle
(di qui la barra al posto del trattino). Per una visione d’insieme del dibattito su questo
punto si rinvia a E.N. GIRARDI, Dante personaggio, in AA.VV., Dante nella critica d’og-
gi, a cura di U. BOSCO, Firenze, Le Monnier 1965, pp. 332-42, e all’acuta nota di E.
RAIMONDI, Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino, Einaudi 1970, pp. 66-
7. Fra gli studi più recenti si ricordano: P. RENUCCI, La rifrazione prismatica dell’io
narrante nella «Divina Commedia», in AA.VV., Letteratura e critica. Studi in onore di
Natalino Sapegno, Roma, Bulzoni 1977, vol. IV, pp. 5-15; L. BATTAGLIA RICCI, Dante e
la tradizione letteraria medievale. Una proposta per la «Commedia», Pisa, Giardini
1983, pp. 111-96; G. MEZZADROLI, Enigmi del racconto e strategia comunicativa nei
riassunti autotestuali della «Commedia» dantesca, «Lettere Italiane», XLI (1989), pp.
481-531; R. MERCURI, «Commedia» di Dante Alighieri, in AA.VV., Letteratura italiana.
Le Opere, vol. I: Dalle Origini al Cinquecento, a cura di A. ASOR ROSA, Torino, Einau-
di 1992, pp. 211-329; T. BAROLINI, The Undivine Comedy. Detheologizing Dante, Prin-
ceton, Princeton University Press 1992, passim; J. FRECCERO, Conversione e allegoria
della «Commedia», «Intersezioni», XII (1992), pp. 5-34.
4. Contini parla della «predominanza dell’esecuzione verbale sulla costruzione e lo
sviluppo narrativo» (Varianti..., p. 477), oppure del «preponderare del significante sul
significato» (ibid., p. 385), etc.
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intra- e intertestuale che i meccanismi compositivi del poema


dantesco si manifesteranno con più chiarezza e precisione.

Nel libello giovanile la situazione comunicativa di base si pre-


senta in maniera già abbastanza articolata. Oltre all’io personag-
gio e all’io poeta, il primo rimatore apprendista e il secondo
poeta affermato, troviamo una serie di altre figure intermedie
che è bene considerare nella prospettiva del grande libro della
maturità. Leggiamo a questo proposito il «proemio»:
In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si po-
trebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto
la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’as-
semplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia5.

Chi parla qui è l’autore della Vita Nuova, non l’autore reale ma
la sua immagine proiettata nel testo, cioè l’autore implicito al
quale sono affidate le sezioni liminari del libello (il proemio e
l’epilogo) e le tre digressioni, una per ogni parte in cui si divide
l’opera (quella del cap. XI sul significato del «saluto» di Beatri-
ce, quella del cap. XXV sull’uso della personificazione di Amo-
re, e quella infine del cap. XXIX sul valore simbolico del nume-
ro «nove»). Questa figura autoriale, istanza primaria che mette
in movimento l’intera macchina compositiva, e che scandisce le
tappe fondamentali della narrazione (inizio/fine e partizioni in-
terne), rappresenta la risultante di varie azioni scrittorie indicate
per mezzo della metafora del libro6: essa è il punto di approdo
delle istanze secondarie del polo emittente.
Se la Vita Nuova è la conseguenza dell’atto di «assemplare»,
di trascrivere il «libro de la memoria» nel «libello», e se l’auctor
del libello è la proiezione dell’Auctor del «libro de la memoria»,
cioè di Dio che scrive la vita dell’io, una tale trascrizione si svol-
ge secondo modalità diverse (può essere più fedele alla littera o

5. D. ALIGHIERI, Vita Nuova, a cura di D. DE ROBERTIS, Milano-Napoli, Ricciardi


1980, pp. 27-8; si veda anche la nuova edizione con accurato commento di G. GORNI,
Torino, Einaudi 1996, pp. 3-4.
6. Questa metafora governa non solo il proemio ma l’intero libello; chi ha letto la
Vita Nuova applicando scrupolosamente i termini della metafora del libro è stato Ch.
S. SINGLETON, Saggi sulla «Vita Nuova», trad. it., Bologna, Il Mulino 1968, pp. 39-75.
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più attenta al sensus dell’originale), e prevede livelli differenziati


di comprensione, dunque gradi progressivi di auctoritas. Il gra-
do più basso è quello dell’amanuense, dello scriptor che copia
meccanicamente nel «libello» le parole contenute nel «libro de
la memoria»: parole poetiche (le 31 poesie composte dall’io per-
sonaggio nell’arco dei nove anni dedicati all’amore per Beatri-
ce), e anche parole prosastiche (i ricordi collegati con tali poe-
sie). Questa prima attività di copista e di narratore della propria
gioventù amorosa e poetica dimostra una totale aderenza, dal
punto di vista sia psicologico che ideologico, all’azione dell’io
personaggio: si riscrivono infatti le poesie e si raccontano gli
eventi esattamente come si trovano registrati nell’archivio me-
moriale. Il grado superiore di riproduzione del «libro de la me-
moria» nel «libello» è rappresentato dal ritrovamento della
«sentenzia», espressa anch’essa in linguaggio prosastico: in effet-
ti, lo scopo dell’estensore del libello non è quello di «assemplare
tutte le parole», ma quello di ritrovare il loro significato ultimo e
definitivo («almeno la loro sentenzia»). Ciò implica anzitutto un
lavoro di selezione e ordinamento dei materiali poetici e narrati-
vi, e in secondo luogo un lavoro di scavo semantico e invera-
mento allegorico di quegli stessi materiali. Lo scriptor diventa di
conseguenza compilator e commentator di se stesso. La Vita Nuo-
va realizza in tal modo un esemplare itinerario formativo, simile
a quello che troviamo tante volte descritto dai teorici medievali
dell’auctoritas, e in maniera più dettagliata da Bonaventura da
Bagnoregio7: un itinerario che permette allo scriptor, e quindi al-
l’io personaggio, di affermarsi come auctor, cioè come il poeta in
lingua volgare che ha raggiunto la stessa altezza artistica dei poe-
ti classici, il cui canone non a caso è presentato nel cap. XXV; e
questo perché ha saputo essere scriba, antologista e glossatore
della sua propria esperienza esistenziale e letteraria8.

7. Fondamentale a questo proposito A.J. MINNIS, Medieval Theory of Authorship,


London, Scolar Press 1984; per le idee dantesche sull’auctoritas si veda ora A.R.
ASCOLI, The Unfinished Author. Dante’s Rhetoric of Authority in «Convivio» and «De
vulgari eloquentia», in AA.VV., The Cambridge Companion to Dante, a cura di R. JA-
COFF, Cambridge, Cambridge University Press 1993, pp. 45-66.
8. Si rinvia a M. PICONE, La «Vita Nuova» fra autobiografia e tipologia, in AA.VV.,
Dante e le forme dell’allegoresi, a cura di M. PICONE, Ravenna, Longo 1987, pp. 59-
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La Vita Nuova e la Commedia sono le due opere che segnano


il punto iniziale e il punto terminale della carriera artistica di
Dante; non è quindi un caso che esse non solo si richiamino a vi-
cenda (ci sono, come noto, citazioni del libello in punti cruciali
del poema sacro), non solo si implichino («lo bello stilo» dimo-
strato nel libello costituisce la giustificazione del privilegio del-
l’io personaggio a compiere il viaggio nell’Aldilà), ma anche ri-
petano con opportune variazioni la stessa situazione comunicati-
va. Chiaramente il fatto che il loro codice culturale venga dato
da due generi diversi, rispettivamente la lirica e l’epica/romanzo,
determina da una parte un’azione diegetica e soprattutto mime-
tica disuguale nella sostanza e nelle proporzioni (il viaggio me-
taforico lungo la via Amoris vs il viaggio istoriale se non storico
nell’Oltretomba; i brevi e stilizzati dialoghi con ipostasi o figure
emblematiche vs i lunghi e corposi dialoghi con i personaggi in-
contrati nei luoghi eterni), e dall’altra parte una diversificazione
del pubblico: più elitario nell’un caso (i «fedeli d’Amore»), più
generico nell’altro (l’umanità itinerante).

Anche nella Commedia persiste la metafora del libro come


fattore di coesione macrostrutturale9: le «parole» di cui però
questo libro metaforico si compone non sono, come nel libello
giovanile, le poesie accompagnate dai relativi ricordi, bensì l’av-
ventura ultraterrena, gli incontri e i dialoghi verificatisi durante
l’attraversamento dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso.
Per trascrivere nel poema tali materiali memoriali, così numerosi
e dissonanti fra di loro (il cui raggio d’azione è l’universo aperto
dell’esperienza umana e non il chiuso mondo interiore dell’espe-
rienza amorosa), non possono più bastare le tipizzate figure del-
lo scriptorium medievale (il copista, il compilatore e il commen-
tatore), è bensì necessario coinvolgere una figura che esce fuori
dalla grande tradizione narrativa occidentale, classica e roman-
za: quella del narratore. È a questa figura che l’autore della
Commedia delega l’arduo compito di affabulare gli infiniti inci-
69; e ID., Dante e il canone degli “Auctores”, «Rassegna europea di letteratura italia-
na», 1 (1993), pp. 9-26.
9. Si veda A. BATTISTINI, L’universo che si squaderna: cosmo e simbologia del libro, in
AA.VV., Letture classensi 15, a cura di E. RAIMONDI, Ravenna, Longo 1986, pp. 61-78.
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denti occorsi all’io personaggio durante il suo viaggio ultraterre-


no, riservando per sé l’altrettanto difficile operazione di dare la
più nobile forma artistica al racconto del narratore.
Analizziamo ora questi modelli ai quali Dante si ispira per da-
re voce all’istanza narratoriale che si affianca a quella autoriale;
modelli che fra l’altro impongono la sostituzione del prosime-
trum con l’unità poematica. Il primo modello che si fa avanti è
l’Eneide di Virgilio, il riconosciuto paradigma classico della
Commedia. In quest’opera Virgilio narratore, appena distinguibi-
le da Virgilio autore, racconta il viaggio di Enea che, dopo aver
abbandonato Troia, fonda sulle rive del Tevere la città di Roma.
Tale netta distinzione dei ruoli fra l’autore-narratore Virgilio che
affabula e compone la storia, e il personaggio Enea che la vive,
sembra però annullarsi quando il personaggio Enea si mette a
raccontare a Didone la parte iniziale di quella storia (l’incendio
di Troia e le successive peregrinazioni per il Mediterraneo fino
all’approdo in Sicilia). Come già Ulisse nell’Odissea, anche Enea
diventa in questo modo personaggio-narratore, proiezione intra-
diegetica del narratore extradiegetico che gestisce il resto della
storia. Il Dante della Commedia rappresenta manifestamente lo
sviluppo e il superamento dell’Enea virgiliano: egli infatti è il
nuovo Enea (cfr. Inf. II, 32) che, dopo aver vissuto il suo viaggio
verso la Roma celeste, lo racconta (non più parzialmente, come
Enea, ma nella sua interezza), e al tempo stesso compone il rela-
tivo poema. Dante assume pertanto nella sua persona i ruoli di
personaggio, narratore e autore; ruoli che comunque vanno di-
stinti da un punto di vista testuale e strutturale.
L’altro capitale modello che informa l’immagine del narratore
nella Commedia di Dante è il romanzo oitanico, nelle sue due di-
ramazioni principali: il romanzo cortese di Chrétien de Troyes e
affini, e il romanzo allegorico di Guillaume de Lorris e Jean de
Meun10. L’eroe classico è, come abbiamo appena visto, un narra-

10. Per la presenza del romanzo cortese nella Commedia si veda M. PICONE, Dante e
la tradizione arturiana, «Romanische Forschungen», 94 (1982), pp. 1-18; A. PIOLETTI,
Il romanzo nella «Commedia», in AA.VV., Letture classensi 17, a cura di N. MINEO,
Ravenna, Longo 1988, pp. 87-111; D. DELCORNO BRANCA, Il «Roman de Lancelot» fra
Dante e Petrarca, ora in Tristano e Lancillotto in Italia. Studi di letteratura arturiana,
Ravenna, Longo 1998, pp. 143-54. Per i rapporti con la Rose la bibliografia è molto
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tore incompleto: Ulisse e Enea non possono raccontare l’intera


loro avventura umana perché non l’hanno ancora portata a ter-
mine, non hanno cioè raggiunto il punto dal quale poterla consi-
derare come una storia finita (è proprio da qui che scaturisce la
tragedia dell’Ulisse dantesco). L’eroe medievale invece, il cava-
liere arturiano o l’amante allegorico, deve aver concluso la sua
avventura umana (e talvolta sovrumana) affinché essa possa es-
sere raccontata. È infatti solo dalla fine che l’avventura cavalle-
resca e il sogno cortese possono essere compresi nel loro signifi-
cato più profondo, e quindi possono essere riferiti, narrati, im-
messi prima nel circuito interno della corte e poi in quello ester-
no della lettura pubblica. La sintonia del protagonista della
Commedia con l’eroe romanzesco medievale non potrebbe esse-
re più evidente: anche l’avventura cosmica della Commedia può
essere raccontata dopo che l’io ha terminato la sua peregrinatio
verso Dio11. È la visio Dei che svela all’io personaggio la verità
ultima del suo viaggio, consentendogli così di trasmetterla sotto
forma di racconto e di poema, nelle vesti di narratore e di auto-
re, al suo pubblico. Naturalmente fra il personaggio dei romanzi
arturiani e quello del Roman de la Rose ci sono anche delle dif-
ferenze che è bene indicare nella prospettiva della ricezione dan-
tesca. Mentre il cavaliere de la Charrete o quello au Lion vivono
la loro avventura cortese in una cornice reale e storica (anche se
circondati da persone o eventi eccezionali e meravigliosi), l’a-
mante della Rose vive invece la sua avventura cortese in una cor-
nice onirica, a contatto con fantasmi e personificazioni. Inoltre,
il cavaliere arturiano non compare come il narratore della sua
storia (anche se il racconto delle sue avventure da lui fatto a cor-
te ne costituisce la fonte originaria), l’amante della Rose invece
racconta la sua esperienza onirica dopo averla conclusa, e ne
spiega anche il significato recondito. Appare chiaro come Dante
nel suo poema sacro combini la prospettiva romanzesca arturia-
na (l’io personaggio diventa il nuovo Perceval alla ricerca del-

vasta, ma tocca principalmente il problema del Fiore e molto meno quello della Com-
media; si rinvia al recente The «Fiore» in Context: Dante, France, Tuscany, a cura di
Z.G. BARANSKI e P. BOYDE, Notre Dame, University of Notre Dame Press 1996.
11. Decisivo a questo proposito l’intervento di Ch. S. SINGLETON, Visuali retrospetti-
ve, in La poesia della Divina Commedia..., pp. 463-94.
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l’Essere divino di cui il Graal è solo una pallida immagine) con


quella allegorica della Rose (l’io autore/narratore rivela al suo
lettore il significato definitivo della sua visione).

Il dato che emerge dalla precedente analisi intra- e interte-


stuale è la diffrazione dell’io della Commedia secondo i tre ruoli
da esso ricoperti. C’è anzitutto l’io che agisce, l’agens come vie-
ne chiamato nella Lettera a Cangrande, il pellegrino che osserva
la realtà eterna e i personaggi che vi operano; troviamo poi l’io
che racconta, il narratore che riferisce in modo chiaro e coerente
gli eventi accaduti al personaggio, le persone viste e le parole
dette e udite; abbiamo infine l’io che ‘mette in opera’ il racconto
del narratore, l’autore che appone a questo racconto, già provvi-
sto di un suo senso narrativo, il sigillo dell’allegoria, della verità
poetica finale.
Vediamo ora come queste tre figure dell’io si presentano nella
concretezza del dettato poetico. Esemplifichiamo a tale proposi-
to con l’inizio del II canto dell’Inferno che, dopo il prologo ge-
nerale all’intera Commedia contenuto nel I canto, costituisce il
prologo particolare alla prima cantica:
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate12. (vv. 1-9)

Il primo io che compare al v. 3 (con enfasi non solo retorica ma


anche ideologica: «e io sol uno») è l’io dell’agens, del personag-
gio-pellegrino che si prepara, in sublime solitudine, ad iniziare la
sua difficile e angosciosa avventura infernale. Il secondo io allu-
so nel v. 6 (anche qui in modo estremamente enfatico: «che ri-
trarrà la mente che non erra») è l’io che ricorda l’avventura in-

12. Le citazioni sono tratte dall’edizione critica curata da G. PETROCCHI: D. ALI-


GHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, Firenze, Le Lettere 19942, 4 voll.
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fernale del personaggio, il narratore che si accinge a raccontarla


in modo veritiero e completo. Il terzo io che si prospetta nell’ul-
tima terzina attraverso l’invocazione alle «Muse» è l’io che vuole
dimostrare il suo «alto ingegno» poetico e la sua «nobilitate», la
sua perfezione artistica, dando espressione piena e definitiva al
racconto del narratore: è l’autore che codifica dal punto di vista
letterario il messaggio poetico da trasmettere al pubblico dei let-
tori presenti e futuri. Pertanto nella scrittura dell’autore si inve-
rano sia il cammino in avanti del personaggio, sia il viaggio a ri-
troso della «mente che non erra», del narratore. L’autore può es-
sere considerato insomma il punto di arrivo del personaggio
proiettato verso la gloria poetica futura, e il punto di partenza
del narratore impegnato nel difficile recupero memoriale del
proprio travagliato passato.
Abbiamo già osservato prima come la metafora del libro si
continui dalla Vita Nuova alla Commedia con lo scopo di dare
coesione macrostrutturale all’opera; ma anche, possiamo aggiun-
gere ora, per dare unità alla molteplicità dell’io. In effetti questa
metafora, che si applica più specificamente al narratore (alla
mente che ha scritto ciò che il pellegrino ha visto), e viene attua-
lizzata dall’autore del libro che abbiamo davanti (la Commedia
scritta dall’«alto ingegno» del poeta ad imitazione del «volume»
divino contenente «ciò che per l’universo si squaderna» [cfr.
Par. XXXIII, 85-87]), si trova applicata pure al personaggio, che
vediamo talvolta intento a segnare nel suo taccuino mentale fatti
e detti connessi col viaggio ultraterreno. È quello che succede,
ad esempio, nel canto XV dell’Inferno, in occasione della profe-
zia dell’esilio fatta da Brunetto Latini:
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo. (vv. 88-90)

Il futuro scriba Dei, l’enunciatore delle verità finali relative alle


cose e agli uomini, si presenta qui come scriba sui, è il semplice
amanuense di un evento personale, e al momento indecifrabile,
che pensa gli verrà spiegato successivamente. La verità sull’esilio,
inaccessibile al personaggio, verrà infatti rivelata da «donna che
saprà», da Beatrice: è lei che apporrà la «chiosa» definitiva su
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quell’evento (come noto, sarà invece Cacciaguida a farlo nel can-


to XVII del Paradiso). Il ricorso alla tecnica dell’episodio paral-
lelo13 mette così in evidenza il processo del progressivo svela-
mento della verità sul viaggio, e quindi il cammino di formazione
che porta l’agens a diventare auctor, passando attraverso la fase
della memorizzazione (fase che è di fondamentale importanza
per il narrator). A ragione dunque la Commedia è stata definita,
fra le altre cose, un Bildungsroman; il poema sacro può contene-
re il senso ultimo dell’avventura esemplare vissuta dal personag-
gio, perché questo senso, rivelato nella sua folgorante unità al
momento della visio Dei, viene anche conquistato progressiva-
mente nel corso dell’avventura dal futuro narratore e autore.
Il ruolo del narratore della Commedia è dunque quello di rac-
contare la storia del pellegrino, registrata nel libro della sua me-
moria, dall’inizio alla fine. Ma quali sono le modalità di realizza-
zione di questo compito affabulatorio attribuito al narratore? In
questa sede non possiamo naturalmente che svolgere alcune
sommarie considerazioni a questo proposito14. La costruzione
narrativa del poema sacro evidenzia subito la presenza di due te-
matiche di fondo: quella del viaggio fatto dal pellegrino attraver-
so i regni dell’Oltretomba per raggiungere la propria integrazio-
ne con Dio, e quella della visione della realtà ultraterrena; da
una parte l’itinerario salvifico e dall’altra l’esperienza diretta del
peccato, del pentimento e della grazia. Ciò determina una dop-
pia prospettiva del racconto: abbiamo il racconto primario del
viaggio nell’Aldilà, che possiamo chiamare ‘cornice viatoria’; e i
racconti secondari, o inseriti nel racconto primario: gli incontri
con gli spiriti dannati, purganti e beati. Mentre gli incontri con
le anime sono episodici (ogni anima ha una sua storia particolare
da raccontare al pellegrino), la cornice rappresenta invece il filo
che tiene uniti tutti questi episodi: i primi appartengono alla
struttura microtestuale, la seconda rinvia all’ordine macrotestua-

13. Si rinvia a A. IANNUCCI, Autoesegesi dantesca: la tecnica dell’episodio parallelo, in


ID., Forma e evento nella «Divina Commedia», Roma, Bulzoni 1984, pp. 85-114.
14. Suggestiva l’analisi proposta da E. SANGUINETI, Dante, «praesens historicum», ora
in Dante reazionario, Roma, Editori Riuniti 1992, pp. 43-72; di impostazione più tra-
dizionale lo studio di T. WLASSICS, Dante narratore. Saggio sullo stile della «Comme-
dia», Firenze, Olschki 1975.
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le. Pertanto, se i racconti inseriti sono statici (nel senso che av-
vengono durante una pausa del viaggio) e discontinui, il raccon-
to portante sviluppato dalla cornice viatoria è dinamico e conti-
nuo, segue una sua linearità che unisce l’inizio alla fine, al di là
delle spezzature rappresentate dagli incontri con le anime.
Un’altra distinzione importante da fare per quanto riguarda le
strategie narratoriali è quella fra racconto diegetico e rappresen-
tazione mimetica: il primo include il resoconto del viaggio e del-
la visione, oltre alle didascalie che accompagnano gli scambi dia-
logici, la seconda comprende invece i dialoghi con i personaggi
del racconto portante (Virgilio, ma anche Stazio, e poi Beatrice e
San Bernardo) e con le anime incontrate. Se la parte mimetica
richiama il genere teatrale (fornendo così una ragione formale
per la scelta del titolo Commedia), la parte diegetica richiama in-
vece il genere epico e quello romanzesco. Sul polo della ricezio-
ne l’impiego massiccio della mimesi sortisce l’effetto di avvicina-
re la fictio narrativa alla prospettiva del lettore, o meglio del nar-
ratario; è come se al narratario fosse concesso di assistere all’in-
contro del pellegrino con le anime. L’effetto di presenzialità, il
passato che rivive nel presente, è uno dei tratti più caratterizzan-
ti della narrazione della Commedia, e vien ottenuto con vari
mezzi retorici e stilistici, ad esempio con le descrizioni (il cui
tempo è il presente, contrapposto al passato e l’imperfetto della
diegesi pura) o con le comparazioni (che rendono familiari con-
tenuti lontani e strani).
Ben distinto dal ruolo del narratore che guarda verso il passa-
to della storia, è il ruolo dell’autore che si situa nel presente del-
la scrittura. Il primo è preoccupato del senso da attribuire al
racconto, il secondo invece del senso da elargire al discorso che
traghetta quel racconto. Dalla verità istoriale ricercata dal narra-
tore si passa alla verità allegorica e tipologica ricercata dall’auto-
re15. Il compito infatti dell’autore è quello di proiettare la fictio
narrativa, sviluppata dal narratore, sullo sfondo della veritas di-
vina, assorbita attraverso la visione facie ad faciem di Dio. I luo-
ghi testuali dove risuonerà la voce autoriale saranno soprattutto
quelli consueti della tradizione classica e romanza fino alla Vita

15. Si veda il volume miscellaneo Dante e le forme dell’allegoresi...


DANTE COME AUTORE/NARRATORE DELLA COMMEDIA 21

Nuova: i prologhi e gli epiloghi, le invocazioni, le digressioni e


gli appelli al lettore. Ai fini della nostra analisi basterà soffer-
marsi brevemente su quest’ultima modalità di svelamento della
voce autoriale, anche perché essa ci consente di identificare il ri-
cevente del messaggio poetico dantesco, più precisamente di di-
stinguere il pubblico a cui si rivolge il narratore da quello a cui
si indirizza l’autore16. In generale possiamo affermare che, men-
tre il narratore cerca di mettere il narratario sul suo stesso piano,
l’autore invece consegna il lettore ad una posizione subalterna.
È come se l’autore parlasse ex cathedra e il narratore raccontasse
in mezzo alla folla dei suoi ascoltatori. Il narratore infatti cerca
di rendere umani e naturali eventi e cose che appartengono al-
l’ordine sovrumano e soprannaturale; l’autore dal canto suo en-
fatizza la distanza che separa quegli stessi eventi e cose dalla
prospettiva del lettore. Se il narratore è solidale con il narratario,
l’autore è invece severo col lettore, richiamandolo all’attenzione
quando rischia di distrarsi, spiegandogli i fatti quando teme che
non li abbia capiti, invitandolo addirittura a desistere dalla lettu-
ra (a rinunciare al suo stato di lettore) quando non lo ritiene al-
l’altezza della materia trattata (come avviene all’inizio del II can-
to del Paradiso). Oltre alle sedi canoniche che abbiamo indicato,
ci sono altri luoghi testuali sui quali si proietta l’ombra dell’au-
tore. Basta pensare alle immagini di auctoritas presenti nel poe-
ma sacro: Virgilio e Beatrice, che spiegano l’ordinamento morale
dell’Inferno e la cosmologia del Paradiso; oppure Stazio, che
tratta il problema della generazione dell’uomo. Basta inoltre ri-
cordare personaggi come Brunetto Latini o Cacciaguida che
configurano una forma di paternità mondana o spirituale; oppu-
re anche eventi come i sogni, che contengono anticipazioni non
solo narrative ma anche poetologiche.

A conclusione della nostra indagine sulle forme dell’enuncia-


zione narrativa e poetica della Commedia vogliamo vedere come
le figure dell’autore e del narratore interagiscono fra di loro, po-
16. Classici gli studi di E. AUERBACH, Gli appelli di Dante al lettore, in ID., Studi su
Dante, trad. it., Milano, Feltrinelli 1963, pp. 309-23; e di L. SPITZER, Gli appelli di
Dante nella «Commedia», in ID., Studi italiani, trad. it., Milano, Vita e Pensiero 1976,
pp. 213-39.
22 MICHELANGELO PICONE

nendoci quindi in una prospettiva non più descrittiva ma fun-


zionale. Il campione d’analisi del quale ci serviremo è il memo-
rabile prologo al Paradiso, che riproduciamo integralmente:
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda. (vv. 1-36)

Questa lunga introduzione alla terza cantica si divide in due par-


ti, chiamate, fin dal passo autoesegetico che la riguarda nella
DANTE COME AUTORE/NARRATORE DELLA COMMEDIA 23

Lettera a Cangrande, propositio dell’argomento (vv. 1-12) e invo-


catio (vv. 13-36). Si potrebbe dire che la prima parte è dedicata
al narratore che annuncia al suo narratario la materia che trat-
terà (la visio Dei), e la seconda invece all’autore che invoca l’aiu-
to di Apollo Musagete, la più alta fonte di ispirazione. L’atten-
zione che prima è concentrata sul problema della narrazione del
viaggio paradisiaco, si rivolge poi al problema espressivo del
viaggio testuale, della composizione del Paradiso. La situazione
comunicativa è però un po’ più complessa di questo. In effetti,
la prima terzina pone subito una difficoltà alla separazione delle
due voci nel modo appena indicato: chi parla infatti in questi
versi? Abbiamo dei presenti (v. 2: «penetra e risplende») che
non sono né storici né descrittivi, ma gnomici o meglio acronici:
la luce divina si fa vedere ab aeterno nel creato a seconda del di-
verso grado che esso ha di riceverla. Questa è una verità assolu-
ta, che sintetizza l’insegnamento teologico sul rapporto fra Dio e
l’universo. L’istanza che pertanto enuncia queste parole corri-
sponde a quella autoriale e non a quella narratoriale; qui non si
descrive una realtà, ma si emette apoditticamente una verità. Ci
sono altre spie linguistiche che confermano questo fatto. Dante
non dice ‘luce divina’ (come troviamo nella parafrasi della Lette-
ra: «divinus radius»), ma «la gloria di colui che tutto move»;
l’enfasi è cioè posta su un termine come ‘gloria’ fortemente mar-
cato dal punto di vista poetologico. Tutta la cantica (e il poema)
diventa così l’espressione della ricerca della gloria poetica da
parte del suo autore: una gloria non caduca (come quella depre-
cata da Oderisi nell’XI canto del Purgatorio) ma perenne, che
solo l’ispirazione divina può assicurare. Su tale ricerca insisterà
la parte più propriamente autoriale del prologo, soprattutto ai
versi 26-33. C’è però dell’altro: la precisazione fatta in questa
terzina (la diversa capacità di assorbimento della luce divina da
parte delle creature) evidenzia che la creatura che si è avvicinata
di più a Dio è proprio il protagonista della Commedia. È lui che
ha visitato la parte dell’universo che di più assorbe tale luce:
l’Empireo (vv. 4-5). Ne deriva l’idea di una identificazione del-
l’io con Dio, e conseguentemente di una investitura divina della
missione che Dante si assegna: quella di poeta della cristianità.
Nelle terzine successive l’enfasi sembra spostarsi tutta sul pia-
24 MICHELANGELO PICONE

no della narrazione. Compare il passato remoto, il tempo del


racconto, e compaiono i verbi tipici delle azioni compiute dal
pellegrino, «fui» e «vidi» (v. 5): il primo a racchiudere l’idea che
la peregrinatio è stata compiuta corporaliter, e il secondo ad indi-
care la finalità del viaggio, la visio della realtà paradisiaca. La si-
tuazione descritta ai versi 4-6 è in fondo la stessa di quella che
troviamo abbozzata già nel cap. XLI della Vita Nuova. Qui e là il
pellegrino, che ha appena compiuto il viaggio stellare, ha il pro-
blema di «ridire», di raccontare l’esperienza numinosa. Natural-
mente nel libello si tratta di una visione che si arresta alla gloria
di Beatrice («Vedela tal...»), nella Commedia invece la visione è
totale e include, oltre ai beati, la fonte stessa della beatitudine,
Dio17. Ma il problema di fondo rimane lo stesso: quello appunto
di raccontare, ritornato sulla terra, il contenuto della visione, di
trasformare in ‘discorso’ la ‘storia’ straordinaria appena vissuta.
Tale difficoltà ci viene acutamente spiegata dalla Lettera a Can-
grande nel commento alla frase «che ridire / né sa né può»: «ne-
scit quia oblitus, nequit quia, si recordatur et contentum tenet,
sermo tamen deficit»18. Si tratta pertanto di una défaillance della
memoria combinata con l’assenza di una strumentazione verbale
o stilistica adeguata; o, per metterla nei nostri termini, di una
doppia complicazione a livello narratoriale e autoriale. Il «ridi-
re» dantesco comprende sia il racconto del viaggio fatto dal nar-
rator, sia la mise en écriture del racconto fatta dall’auctor.
Il senso del doppio lavoro da compiere trapela anche nella
terzina finale della propositio (vv. 10-12). L’io che durante il suo
viaggio ha immagazzinato nella sua memoria una serie di fatti e
parole, di incontri e racconti, deve ora attingere a questa riserva
memoriale i materiali da immettere nel suo «canto». Il «tesoro»
di conoscenze sul «regno santo» deve essere ora condiviso con
l’umanità tutta. Come nella parabola evangelica, chi ha ricevuto
il talento (nella fattispecie, il privilegio della visione paradisiaca)

17. Inoltre nella Vita Nuova è l’io personaggio che non «intende» il resoconto «sotti-
le» fatto dallo «spirito peregrino» (la parte sprirituale dell’io protagonista dell’avven-
tura paradisiaca); nel Paradiso invece l’io narratore non riesce a trasmettere al pubbli-
co l’avventura celeste che ha vissuto anche col corpo.
18. D. ALIGHIERI, Epistola a Cangrande, a cura di E. CECCHINI, Firenze, Giunti 1995,
p. 30 (§ 83).
DANTE COME AUTORE/NARRATORE DELLA COMMEDIA 25

non deve tenerlo per sé, ma deve farlo fruttare, metterlo in cir-
colazione, e quindi trasmetterlo agli altri affinché ne traggano
beneficio. Questa trasmissione del tesoro sapienziale avviene at-
traverso il canto, il racconto che si fa poesia. Dal libro metafori-
co della memoria, fonte del narrator, passiamo così al libro reale,
al «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra».
La parola «canto» (v. 12) con la quale si sigilla la propositio
introduce naturalmente la parte successiva dell’invocatio a Apol-
lo, dove tutti gli sparsi riferimenti alla dimensione autoriale del-
l’io trovano la loro finale fissazione semantica (vv. 13-15). Non
cessa di sorprendere il lettore moderno il fatto che la cantica
della verità cristiana rivelata, il Paradiso, sia affidata alla diretta
ispirazione di una divinità pagana: il «buono Appollo». Che si
invocassero le Muse nel prologo dell’Inferno (II, 7-9) e Calliope
in quello del Purgatorio (I, 7-12), poteva essere comprensibile,
dato che quelle cantiche rimanevano ancora legate alla terra e al-
la storia; l’esperienza però affabulata nel Paradiso è divina e non
umana, ciò che fa sembrare l’armamentario retorico della cultu-
ra classica del tutto fuor di luogo. Perché allora Dante invoca
Apollo, il dio pagano del canto e il padre delle Muse? Forse per
ragioni di simmetria strutturale e di gradazione stilistica con le
altre cantiche? Non crediamo che queste possano essere motiva-
zioni sufficienti a spiegare l’inquietante alterità ideologica di
questa presenza mitologica in un contesto unicamente cristiano.
Tanto più che le allusioni al mito sono disseminate non solo in
questa sede proemiale (oltre a Apollo si citano in rapida succes-
sione il Parnaso, Marsia, Dafne, Delfo, Peneo e Cirra) ma anche
nel resto del canto e nell’intera cantica19. La girandola degli echi
della poesia classica deve rispondere a delle giustificazioni più
profonde, di tipo precisamente poetologico e macrostrutturale.
L’esigenza fondamentale sottostante alla composizione della
Commedia è quella di affermare la propria auctoritas poetica: ciò

19. Basti pensare che la prima azione compiuta dal pellegrino, il «trasumanar» (Par.
I, 70) viene descritta in termini di deificatio mitologica: Dante come Glauco; e che
l’ultima immagine del viaggio celeste, quella dell’«ombra d’Argo» (Par. XXXIII, 96),
raffigura Dante come un nuovo Argonauta. Ma si vedano ora gli Atti del Seminario di
Ascona Dante: mito e poesia, a cura di M. PICONE e T. CRIVELLI, Firenze, Franco Ce-
sati Editore 1999.
26 MICHELANGELO PICONE

che induce Dante a confrontarsi continuamente coi suoi modelli


classici, Virgilio e Stazio, ma soprattutto Ovidio. Egli non vuole
scrivere un’opera né mistica né profetica, bensì poetica, i cui pa-
rametri gli vengono forniti dall’«Ovidius Metamorphoseos», e
non dall’«Itinerarium mentis ad Deum» di S. Bonaventura. Per
cui il Paradiso, che al livello narratoriale si presenta come il viag-
gio del pellegrino verso la visione di Dio, al livello autoriale fini-
sce per essere un gradus ad Parnassum, la storia di una vocazione
letteraria altissima che si concluderà con l’imposizione
dell’«amato alloro» (v. 15), con l’incoronazione poetica (vv. 25-
33; e cfr. Par. XXV, 1-9). L’enunciatore primo della Commedia si
viene così a qualificare non come il poeta-theologus, caro alla
scuola esegetica americana, e nemmeno come il poeta-propheta,
preferito da certa critica italiana, ma semplicemente e sublime-
mente come il poeta-artifex, l’erede della tradizione letteraria po-
sta alla confluenza di mondo classico e civiltà cristiana20.

20. Il sincretismo classico-cristiano si mostra del resto in modo esemplare nel diverso
valore semantico assunto dall’espressione, chiaramente marcata in senso religioso, vas
electionis: riferita propriamente a S. Paolo (cfr. Inf. II, 28), ma qui applicata al «vaso»
riempito dallo spirito apollineo della poesia (v. 14).

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