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Corey Robin, Paura. La politica del dominio, trad. di U. Mangialaio, EGEA, Milano, 2005, pp. 41
48, 8182, 9192]
Nell’analisi di Hobbes la paura politica si presenta non tanto come lo strumento di potere nelle
mani di un sovrano (come avviene invece in Machiavelli), ma come un elemento strutturale
della vita collettiva. Egli fu il primo a comprendere come la paura potesse essere alimentata
oltre ogni oggettiva giustificazione reale, trasformando nella mente della gente pericoli remoti
in minacce imminenti e incombenti. La paura dello stato di natura e la paura rivolta verso il
sovrano deve essere pertanto continuamente – e parallelamente – alimentata dal sovrano. Da
questo momento, secondo la lettura fornita dal filosofo statunitense Corey Robin, il tema della
paura alimenta l’impianto teorico dell’intera riflessione politica: in Montesquieu è lo spettro del
dispotismo a giustificare il principio della divisione dei poteri; in Tocqueville le angosce dei
cittadini, pur non vertendo su nessun male in particolare, esprimono un oscura inquietudine
riguardo alla velocità del cambiamento e alla dissoluzione dei punti di riferimento collettivi,
traducendosi nello sforzo di fondersi nella massa.
Se confrontiamo l'analisi di Hobbes con quella di Machiavelli, possiamo vedere in azione il
superiore acume sociologico del primo. Machiavelli descrisse la paura politica uno strumento
poco affilato, suscitata dai mezzi di coercizione del principe. «Il timore è tenuto», scrisse
Machiavelli al suo principe immaginario «da una paura di pena che non ti abbandoner à
mai». La paura machiavelliana era l'arma del principe, un effetto della sua violenza, fondata
sul presupposto di un'eterna divisione tra principe e popolo, che giovava al primo e minacciava
il secondo. Hobbes, invece, credeva che nessun monarca potesse mai possedere un potere
coercitivo sufficiente a ingenerare paura sufficiente tra i suoi sudditi. «Se, infatti, gli uomini
non conoscono il loro dovere, cosa li può costringere a obbedire alle leggi? Un esercito, si dirà.
Ma che cosa costringe un esercito»? E neppure pensava che la paura potesse imporre
l'obbedienza, se il popolo non avesse ritenuto che la sottomissione motivata dalla paura gli
avrebbe giovato. In assenza di un più ampio complesso di obblighi morali e della collaborazione
spontanea da parte dei governati, l'idea di fondare la sottomissione sulla paura dell'autorit à
reale si sarebbe rivelata speranza vana. Hobbes concluse che la paura politica non dovesse
essere intesa come strumento chirurgico nelle mani di un sovrano distante, ma come un
elemento strutturale della vita collettiva, sostenuta continuamente dalla consapevole
partecipazione dei sudditi, delle élite dominanti nella società civile e di istituzioni come la
chiesa e le università. [...]
La gente comune avrebbe imparato da insegnanti opportunamente preparati che la paura
politica era utile e contribuiva ad assicurare loro un ingrediente vitale della felicit à terrena.
Una volta compresa la rilevanza morale della paura, la gente comune avrebbe collaborato alla
sua crescita e diffusione. Ogni suddito avrebbe trasmesso ai vicini il messaggio che chiunque
sfidava l'ordine politico avrebbe vissuto sotto la minaccia di una punizione quasi certa, se non
dell'annientamento. Per questa ragione, tutti avrebbero contribuito a dare vita propria
all'oggetto della paura che li teneva asserviti. Com'è stato spesso osservato, sul frontespizio
della prima edizione del Leviatano di Hobbes è raffigurata l'immagine spettrale di un re che
incombe su una città fortificata: un re imponente che sorveglia gli abitanti della città,
proteggendoli dai nemici. Il corpo del sovrano, tuttavia, è composto da migliaia di figure
individuali, che rappresentano uomini e donne ordinati con lo sguardo serenamente rivolto in
alto, verso il capo. Secondo un'interpretazione, l'immagine vuole significare che il sovrano
esiste solamente per effetto dei sudditi stessi. Ma suggerisce anche che i sudditi sono gli autori
della loro propria paura ed è il loro sguardo spettrale a rendere il viso del Leviatano, altrimenti
benigno, non solo maestoso, ma anche minaccioso. [...]
Due sono le domande che tormentano gli autori contemporanei a proposito della paura politica.
Innanzitutto, quali sono le ragioni delle attuali paure della gente? Perché la paura della
criminalità, della droga e del terrorismo domina l'interesse collettivo, mentre altri pericoli sono
sbrigativamente liquidati? In secondo luogo, perché i senza potere si sottomettono ai potenti,
soprattutto se i primi sono molto più numerosi dei secondi? Se è vero che i deboli corrono il
rischio di rappresaglie e brutali punizioni in caso di rivolta, è anche vero che se coalizzassero le
proprie forze, potrebbero muovere un attacco concertato contro i loro superiori. Perché agiscono
così raramente in questo modo? Hobbes era particolarmente interessato a questi interrogativi,
che riteneva strettamente collegati. Vivendo in una società nella quale gli uomini temevano
così spesso cose a suo parere sbagliate, Hobbes fu costretto a riflettere seriamente sul modo in
cui si potevano convincere ad avere paura delle cose giuste. Gli uomini dovevano temere la
morte piuttosto del disonore. Avrebbero dovuto rendersi conto che la loro morte era assai pi ù
probabile nello stato di natura, di cui percepivano solo vagamente i pericoli, e, se avessero
disobbedito, per mano del sovrano, del cui potere avevano solamente una minima
comprensione. Il compito di Hobbes era quello di far concretamente capire agli uomini i rischi
dello stato di natura e quello di rappresentare il potere del sovrano come più ampio e
minaccioso di quanto non fosse veramente. Questo binomio di paure quella dello stato di
natura e quella del sovrano aveva bisogno di ciò che gli intellettuali odierni
chiamano costruzione della paura. Si potrebbe dire che Hobbes fu il primo autore a
comprendere che la paura potesse essere alimentata oltre ogni oggettiva giustificazione reale,
trasformando nella mente della gente pericoli remoti in minacce imminenti e incombenti. [...]
Poiché la paura è un'emozione duttile, modellata e rimodellata dall'istruzione morale e
dall'ideologia, è ampio il potere del sovrano di definirne gli oggetti. Nessun sovrano è
automaticamente in possesso di questo potere; anzi, deve spesso affrontare la concorrenza di
soggetti «privati», che tentano di persuadere la gente a temere oggetti che egli non ha
autorizzato a temere. Tuttavia, se il sovrano assume pienamente i suoi legittimi poteri, sar à
nella posizione di definire gli oggetti di paura della gente. Il sovrano deve, quindi, fare in modo
che la paura dello stato di natura e del proprio potere coercitivo divenga in modo stabile la
paura principale dei sudditi; deve fornire alla gente «lenti di cannocchiale» molate dalla «Moral
and Civil Science», la quale offre solide dottrine morali e politiche, così da consentir loro di
«vedere in lontananza le sciagure che incombono», ma che non riescono immediatamente a
percepire.
In quale modo questi cannocchiali della scienza morale e politica, dati dal sovrano, riescono a
incutere nella gente la paura dello stato di natura? Non solamente mostrando loro quanto è
orribile, ma dimostrando che, nello stato di natura, proveranno una paura che, strettamente
parlando, è irrazionale e assurda. Laddove si ritiene che la paura della morte consenta
all'individuo di assicurarsi il proprio bene, la paura associata allo stato di natura conduce
l'individuo ad agire in modi che sovvertono il suo bene. In altre parole, nello stato di natura la
paura produce effetti contrari allo scopo a essa assegnato. La mancanza di un'autorit à sovrana
che definisca e faccia rispettare le regole dell'ordine, la mancanza di qualsiasi garanzia sulla
buona fede dei pari costringono l'individuo a passare all'attacco. Quand'anche sapesse che la
maggior parte delle persone nutre buoni propositi, o almeno non ostili, nei suoi confronti, non
potrà comunque mai sapere se l'individuo che deve affrontare sia uno di essi, e per tutelarsi
deve quindi trattare tutti gli altri come fossero nemici. Poiché i suoi pari sono nella medesima
situazione, dovranno ugualmente trattare lui e i loro pari come nemici. Il risultato è la guerra
di tutti contro tutti, la quale non fa che perpetuare proprio quelle condizioni che tengono
spaventate le persone. La paura dello stato di natura non protegge gli uomini né li rende
capaci di assicurarsi il proprio bene, ma li costringe piuttosto ad agire in modi che assicurano
l'ininterrotta paura, senza mai permettere di abbassare la guardia per perseguire il proprio
bene. È una paura che non dà respiro, che non lascia mai agli uomini né tempo né spazio per
provare altro che paura. La paura dello stato di natura separa l'individuo dal proprio bene,
costringendolo a pensare soltanto alla propria paura e sopravvivenza. Non ha più bisogno di
temere la morte per godere dei beni della vita, perché non esistono più beni di cui possa godere.
Nello stato di natura, dunque, la paura tradisce il proprio compito dichiarato. È questa
assurdità, questo rovesciamento della promessa a rendere lo stato di natura qualcosa da
evitare a tutti i costi. Tuttavia, è possibile rendersi conto dell'assurdità solamente se si
adopera il cannocchiale della scienza morale e politica, che considera la paura un'emozione
utile, perché consente agli uomini di assicurarsi il proprio bene. È questo cannocchiale, in altre
parole, che trasforma una realtà distante in una minaccia spaventosa. […]
Secondo Tocqueville, il nuovo ritmo dell'Età della rivoluzione democratica aveva anche
prodotto un nuovo tipo di paura. Nessuno era più in grado di orientarsi in un mondo che
cambiava così rapidamente. Questo smarrimento e questa perdita di controllo inducevano
un'ansia che fluttuava liberamente senza un oggetto preciso. Le vittime di Montesquieu erano
terrorizzate da minacce concrete: la pena, la tortura, la prigione, la morte; i sudditi hobbesiani
avevano paura di pericoli specifici: lo stato di natura e lo stato coercitivo. L'ansia dei cittadini
di Tocqueville, invece, non si concentrava su nessun male in particolare. Vi era un vago oscuro
presagio riguardo alla velocità del cambiamento e alla dissoluzione dei punti di riferimento
collettivi. A causa dell'incertezza sui contorni del mondo, le persone cercavano di fondersi nella
massa, perché solamente nell'unità avrebbero trovato un senso di coesione. Altrimenti si
sottomettevano a uno stato onnipotente e ,repressivo, che restituiva loro un senso di autorità e
permanenza. L'ansia, dunque, non era suscitata da poteri che intimidivano come nel caso
della paura hobbesiana e del terrore di Montesquieu ma dalla condizione esistenziale
dell'uomo e della donna moderni. L'ansia non era una reazione alla repressione dello stato, ma
la causa.
Poiché l'ansia di massa produceva la repressione politica, con il sentimento di coloro che
stavano in basso a causare le azioni di chi stava sopra, Tocqueville trasformò completamente il
significato e la funzione della paura politica, segnando un distacco definitivo dai mondi di
Hobbes e Montesquieu. La paura, ridefinita in termini di ansia, non era più considerata uno
strumento del potere; essa era la condizione psichica permanente della massa. E quando il
governo agiva repressivamente in reazione a quest'ansia, lo scopo non era di inibire potenziali
atti di opposizione, assoggettando il popolo (Hobbes) o mantenendolo diviso (Montesquieu), ma
quello di accomunare la gente, dandole un senso di stabilità e di coesione e liberandolo, almeno
temporaneamente, della furia della sua ansia. Tocqueville si allontanò, dunque, ulteriormente
dall'analisi politica di Hobbes, preparando il terreno a Hannah Arendt, che avrebbe portato
quel distacco a compimento.
Come Montesquieu, comunque, e, in una certa misura, come Hobbes, Tocqueville propose
un'analisi meno politica per servire i fini della politica. Come Montesquieu, anche Tocqueville
era convinto di poter usare questa immagine dell'ansia per mobilitare gli uomini e le donne in
nome di una società più benigna. Tocqueville sosteneva un governo con poteri limitati e
separati, nonché un vivace associazionismo e una democrazia dalla cultura politica
partecipativa. Nel continuo affaccendarsi degli uomini e delle donne, nei loro sforzi congiunti
per costruire ponti, erigere scuole e approvare leggi, Tocqueville vedeva un sostituto della
coesione perduta dell'Ancien Régime. Al pari di Hobbes e Montesquieu, dunque, Tocqueville
utilizzò una forma di paura come fondamento della società che aveva in mente. «La paura»,
scrisse in una nota personale «deve essere messa al servizio della libertà». […]pp. 8182]
Tocqueville considerava la folla solitaria il contrario della comunità, così ricca di sentimenti,
dell'Ancien Régime. Prima dell'era moderna prima della rivoluzione, dell'uguaglianza e del
laicismo uomini e donne erano i membri di una società gerarchica, legati gli uni agli altri da
tre distinti legami, ciascuno dei quali dava un profondo e stabile senso di coesione. Erano legati
orizzontalmente ai membri della loro classe sociale come in una «piccola patria». Erano legati
verticalmente a quelli che stavano sopra e sotto di loro da una serie di doveri paternalistici e di
obblighi di riconoscenza, come nel tempo ai loro avi e ai loro discendenti. Forse gli individui si
sentivano limitati da questi legami, ma non si sentivano mai soli. E il sollievo dalla solitudine
dall'essere affidati a se stessi era la misura migliore della benevolenza dell'Ancien R égime:
«Le persone che vivono nell'era dell'aristocrazia sono quasi sempre coinvolte in qualcosa al di
fuori di se stesse».
L'uguaglianza e il laicismo avevano rescisso questi legami. Eliminando la trasmissione
generazionale della gerarchia, l'uguaglianza aveva lacerato «la trama del tempo», i legami
temporali tra passato, presente e futuro. Aveva tagliato i legami verticali di doveri e obblighi,
che vincolavano «tutti, dal bracciante al re». Distruggendo questi legami temporali e verticali,
l'uguaglianza aveva eliminato il legame più importante di tutti il legame orizzontale tra un
individuo e l'altro. In conclusione, Tocqueville sosteneva che tra uomini e donne uguali non
esistono «legami naturali» di sorta, perché l'uguaglianza metteva «gli uomini gli uni accanto
agli altri senza un legame comune che li tenesse fermi e saldi». La scomparsa dell'autorit à
religiosa, fenomeno intimamente legato al declino dell'Ancien Régime, aveva rafforzato questo
senso di isolamento. La religione teneva uniti gli uomini gli uni agli altri attraverso una catena
di obblighi, sottraendo le persone, «di tanto in tanto, al pensiero di se stesse». In una societ à
laica, invece, ciascuna persona era «eternamente ripiegata solo su se stessa», era «rinchiusa
nella solitudine del suo cuore».
In assenza di una gerarchia sociale e di autentici legami di affetto e di contenuto, gli uomini e
le donne diventavano insicuri di se stessi e dell'ambiente che li circondava: «Il dubbio invade le
più alte facoltà mentali e semiparalizza il resto». Non sapevano come frenare impulsi e
desideri; su cosa fondare le loro azioni; con cosa dare contenuto, significato e scopo alle proprie
azioni. Vedevano, piuttosto, una sconfinata, aperta distesa, dove tutto era possibile, dove il
paesaggio cambiava quotidianamente, diventando rapidamente confuso. Questa mancanza di
struttura si traduceva nell'assenza di autorità, nell'esperienza, cioè, in assoluto più ansiogena.
«Quando non esiste alcuna autorità nella religione o nella politica, gli uomini vengono subito
terrorizzati dall'illimitata autonomia che si trovano ad affrontare». Tocqueville allude qui a
quella che poi sarà chiamata paura della libertà, la vertigine che affliggerà chiunque sia
costretto a fare una scelta senza l'ausilio di principi e autorità tradizionali: ognuno era ormai
«terrorizzato persino dalla propria volontà», aveva «paura di se stesso».
A fronte di quest'ansia per l'assenza di una struttura, autorità, tradizioni, coesione e
significato, lo stato era costretto a intervenire in prima persona per ripristinare la solida
struttura dell'autorità, per ricordare a uomini e donne che non erano soli. «Essendo tutto in
movimento nel regno della mente», gli uomini e le donne si sentivano «inevitabilmente
logorati». I tremori costanti producevano la paralisi, un «prosciugamento» delle «sorgenti della
volontà». Non ci volle molto prima che gli uomini e le donne si rendessero conto che il ripristino
dell'autorità quanto più solidamente, tanto meglio avrebbe, se non altro, temperato la loro
notevole ansia. Si rivolsero alla figura del dittatore o, più spesso, a uno stato sociale
paternalistico, che, agendo per aiutare le persone, le privava del proprio potere. Quelli che
volevano che «almeno l'ordine materiale fosse solido e stabile» divennero presto un «popolo
pronto per la schiavitù». Non soltanto «lasciarono che la libertà venisse loro tolta, ma spesso, in
realtà, furono essi stessi a cederla», scriveva Tocqueville. «Disperando di restare liberi, nel
fondo dei cuori venerano già il padrone che presto è destinato ad apparire».