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Grande la confusione sotto il cielo: perchè usciamo
da Eurostop
Raramente utilizziamo questo spazio per comunicazioni ufficiali, il più delle volte
inutili per un collettivo come il nostro. Se questa volta deroghiamo alla regola che
vuole questo un luogo di confronto, e non pietrificato dalle formalità, è perché è ormai
inevitabile informare della nostra fuoriuscita dalla piattaforma politica Eurostop.
Prendiamo atto della scelta di proseguire nel percorso di Potere al Popolo, una strada
che – lo abbiamo discusso lungamente qui e nelle sedi opportune – ci sembra smentire
una serie di presupposti analitici che da molti anni andiamo elaborando, come
collettivo e insieme ai compagni che ancora animano la piattaforma antieuropeista.
Prendiamo atto della mancata critica della realtà, in funzione di un’esaltazione fuori
fuoco che insiste nel vedere in una storia che muore – la “sinistra radicale” dei
partitini “comunisti” – addirittura un punto di partenza. Lo scollamento tra sinistra e
società, emerso violentemente dai risultati elettorali del 4 marzo, avrebbe dovuto
ricondurre, proprio quei compagni che in questi anni più coraggiosamente avevano
centrato il proprio ruolo nella critica radicale alla sinistra di complemento, a un
confronto materiale con gli attuali rapporti della politica. Si prende atto che “la
sinistra è morta”, ma si insiste, defibrillatore alla mano, nel rianimare costantemente
il morto, ripartendo sempre e soltanto da quella sinistra che, al sicuro delle proprie
riunioni, si giudica come nemico. Non è, d’altronde, un problema di questo o quel
partitino. E’ un intero schema ideologico che andrebbe dileguato: il calderone
arcobaleno della sinistra radicale, che non ha più ragion d’essere. Quella
socialdemocrazia dal basso che vorrebbe correggere le storture del sistema senza
indicare priorità comprensibili è stato spazzato via, espunto dalla logica politica,
relegato tra gli anacronismi intellettuali. Forse è solo un passaggio della storia politica
di questo paese, ma bisogna prendere atto che tale fase discendente è in corso da quasi
un ventennio, e vent’anni fa eravamo già dentro una fase di ritirata storica, per quanto
mascherata da saltuarie esplosioni di partecipazione democratica (e non certo
rivoluzionaria!). Non ci interessa però accusare nessuno. Ci piacerebbe invece
sfruttare questa occasione per formulare una critica che sia soprattutto un’autocritica.
Abbiamo partecipato da subito ad Eurostop perché credevamo – e crediamo tutt’ora –
necessario organizzare un discorso attorno alla contraddizione principale dei nostri
tempi: l’europeismo liberista incarnato nell’Unione europea. La difficoltà, a volte la
vera e propria paura, nella sinistra, di affrontare di petto il nodo strategico che
struttura l’attuale sistema ordoliberale europeista è parte di quell’incomprensione
popolare verso le sinistre radicali. Non tutto, ovviamente, si risolve attraverso
l’utilizzo di “giuste parole d’ordine”, ma l’incomprensione totale del mondo reale nel
quale viviamo contribuisce allo scollamento evidente tra “sinistra” e “popolo”. Agitare
la contraddizione principale non significa però risolvere i conti con la propria
proiezione politica. Eurostop, e noi con essa, è stata incapace di organizzare attorno al
problema principale un discorso che intervenisse nella miriade di contraddizioni
immediate di cui si compone la realtà sociale. Il risultato è stato quello di un gruppo
ben strutturato di compagni incapaci di esercitare una qualche forma di internità
politica nei settori di classe. I proletari, detto schematicamente, si fanno difendere
dalla sinistra di classe (nelle vertenze sindacali, sociali, territoriali, eccetera), ma
affidano la propria rappresentanza al “populismo”. Un circuito perverso, perché
contribuisce all’indebolimento della suddetta sinistra di classe, a cui corrisponde un
peggioramento complessivo delle condizioni di vita dei proletari, a cui si risponde con
titanici sforzi militanti rincorrendo una realtà sociale che sfugge sempre più di mano.
Un incubo, che però va combattuto e non introiettato.
I motivi per cui il cosiddetto populismo raccoglie elettoralmente tutto ciò che non
riesce più ad essere raccolto dalla sinistra sono molteplici. Nel corso di questi anni
abbiamo provato a indagarli, nel limite delle nostre forze militanti e intellettuali.
Crediamo, soprattutto oggi, che il motivo principale (non l’unico però) sia più o meno
questo: il “populismo” definisce una gerarchia di politiche, esattamente il contrario del
calderone informe della “sinistra radicale”. E questa gerarchia ruota attorno alla
resistenza che questo suscita rispetto alle politiche ordoliberali europeiste
globalizzate. Al “populismo” – e al suo elettorato – interessa poco o nulla del
“programma”, della lista della spesa, della coerenza del proprio discorso politico: tutte
cose che, al contrario, mandano in estasi i commentatori più sofisticati. Al “populismo”
– e al suo elettorato – interessa essere percepito come strumento di resistenza alla
globalizzazione, in Europa organizzata per mezzo della Ue. Credere che il “populismo”
vinca elettoralmente per questa o quella proposta specifica significa reiterare la
propria incomprensione dell’esistente: il “populismo” vince perché se ne frega del
programma, l’importante è manomettere gli ingranaggi della stabilità liberale. Il
“populismo” indica un nemico, immediato e concreto. E lo fa “antiideologicamente”,
cioè costantemente calato nella realtà dei fatti.
Che poi questo nemico non sia il “vero nemico”, che il populismo (stavolta senza
virgolette) faccia in pieno parte di quel sistema politico liberale di cui è una
“controfaccia”, e bla bla bla, ce lo possiamo ripetere oltre la noia, ma tant’è: o ci si
rassegna e si torna a fare altro nella vita, ma se si decide di insistere nella politica da
qui tocca ripartire. Dalla realtà, non dalle proprie proiezioni ideologiche.
I motivi per cui, pur intervenendo nella contraddizione principale, si vegeti in uno
stato di minorità, sono ovviamente molti. C’è una situazione oggettiva di cui tener
conto: viviamo una fase di riflusso storico della partecipazione politica, e dentro questa
fase difficilmente uscirà fuori “l’organizzazione” capace di invertire lo stato di cose
presenti. Si tratta, per lo più, di resistere in attesa di tempi migliori. Eppure non tutto
si risolve incolpando “i tempi che corrono”. Ci sono anche nostre responsabilità
soggettive. Eurostop, e noi con essa, scontiamo i limiti di una proiezione che rimane
ancora eccessivamente massimalista, intesa come perseguimento di un programma
massimo senza alcuna realistica possibilità di successo, finendo così confinati in un
idealismo dei propositi nei fatti poco comprensibile. Manca la via di mezzo, la capacità
cioè di far vivere dentro le lotte di classe quelle parole d’ordine che rimandano alla
natura strutturale delle varie contraddizioni.
Ribadiamo che quella riferita non è una critica ai compagni, ma un’autocritica che
investe in primo luogo noi e, ovviamente, gli ambiti entro cui abbiamo fatto politica in
questi anni. Allargando la visuale si intravedono le macerie di un panorama politico
che procede senza sinistra, cannibalizzata dal “populismo”. Da qui bisogna ripartire.
Capire bene il risultato elettorale, utile in quanto fotografia dell’esistente e non feticcio
politicistico ovviamente. E adeguarsi a un mondo che cambia, che è cambiato, molto
più velocemente di quello che pensavamo. Per la “sinistra” dei cliché cosmopoliti è
suonata da quel dì la marcia funebre. Ma per chi ancora lavora ancorato alla realtà,
occorre un atto di coraggio, quello di ripensare se stessi davvero. Siamo dentro una
traversata del deserto che non prevede scorciatoie politiciste.