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LE SPECIALITÀ
Lo stadion era la corsa veloce, una lunghezza fissa, dalla partenza all’arrivo, di
600 piedi, corrispondente a 192,27 metri. Si pensa che questa fosse esattamente la
lunghezza dello stadio. Le false partenze, dai blocchi del tempo, pedane in pietra
chiamate balbis, erano punite con la fustigazione.
Il diaulos comparve dalla 14ma Olimpiade nel quale si correva per 1200 piedi:
percorso uno stadion, i corridori doppiavano un palo sulla sinistra e tornavano
indietro sulla linea di partenza, dov’era il traguardo della gara.
Il dolicos, la terza corsa, comparve nell’Olimpiade successiva, nell’anno 720 a.
C. E’ la vera corsa di resistenza ed è lunga 24 stadi, poco meno di 5000 metri. Questa
gara era legata all’attività dei corrieri incaricati di portare i messaggi durante le
battaglie. Il più celebre, cioè un uomo capace di correre per un giorno intero, fu
Filippide il quale, nel 490 a. C., corse per 42,120 km da Maratona ad Atene per
annunciare la vittoria dei Greci su Dario: annunciò e morì. La corsa di Maratona, ai
Giochi del Novecento fu ammessa in suo onore ma la distanza da percorrere fu
portata a 42,195 km per volontà della regina Alessandra (moglie di re Edoardo VII
d’Inghilterra) che volle assistere alla partenza della gara dal castello di Windsor,
distante esattamente 42,195 Km dallo stadio di White Hall City dov’era fissato
l’arrivo.
La lotta. In mezzo allo stadio c’era una fossa, la skamma, riempita di sabbia, la
stessa utilizzata per il salto in lungo. Qui i lottatori disputavano i loro incontri, nudi,
unti d’olio e coperti di sabbia. Non esistevano categorie di concorrenti divise per
peso, la discriminante era l’età. Erano ammesse le prese sulla parte superiore del
corpo, che andava dal ginocchio in su, ed era ammesso lo sgambetto. Se i lottatori
uscivano dalla skamma, i giudici sospendevano il combattimento e lo facevano
riprendere all’interno della fossa. La vittoria era assegnata a chi riusciva ad atterrare
l’avversario per tre volte, facendogli toccare terra con la parte superiore del corpo.
Il pentathlon, “penta” significa cinque e “athlos” gara, è la prima e unica prova
multipla che entra a far parte del programma olimpico dal 708 a. C. Veniva disputato
per ultimo nel calendario delle gare e comprendeva la corsa, il salto in lungo, il lancio
del giavellotto, il lancio del disco e la lotta. Il vincitore di questa specialità veniva
considerato il supercampione.
Il pugilato. Agli inizi i pugilatori si affrontavano a mani nude, ma presto si
passò all’uso di speciali protezioni, di nome imantes, costituite da strisce di cuoio
duro strutturate in modo da portare il massimo dell’offesa. Il pugilato greco non
conosceva gli intervalli, i round, il gong e non aveva limiti di tempo: finchè
l’avversario non andava a tappeto o non alzava il braccio nel segno della resa il match
continuava. La forza di un pugile era individuata dal non avere cicatrici sul volto, ed
è per questo che proprio alla faccia dell’avversario, più che al corpo, miravano i colpi
degli atleti.
Le gare equestri compaiono nel 680 a. C. per la prima volta, si svolgono al di
fuori dello stadio in un impianto apposito, l’ippodromo. Si disputò il tethrippon, la
corsa di carri con quattro cavalli attaccati, le quadrighe, che percorrevano 12 giri di
pista. L’Olimpiade successiva vede l’introduzione delle corse riservate ai cavalli
montati, kalpe; la lunghezza della gara era di sei stadi e i fantini montavano a pelo. In
seguito comparvero le bighe, cioè i carri tirati da due cavalli e le quadrighe tirate da
puledri. Risultava vincitore il proprietario dei cavalli e non l’auriga (colui che
guidava i carri o montava il cavallo) e per questo era lo “sport” più praticato dai
ricchi. In questo modo, anche le donne, che erano totalmente escluse dai Giochi (non
potevano partecipare e neppure assistervi!) riuscirono a conquistare una vittoria…
come proprietarie di cavalli!
Il pancrazio (“pan-kratos”, tutte le forze) rappresentò la competizione più dura
e brutale di tutto lo sport antico. Erano consentite tutte le infrazioni alle regole che si
registravano nella lotta e che vennero codificate in questa nuova disciplina, nel 648 a.
C. Era permesso fratturare le ossa, torcere gli arti fino a slogarli, colpire con calci,
testate, pugni, calpestare gli avversari in qualsiasi modo. Solo i morsi e le dita negli
occhi erano proibiti. Si andava avanti anche con lo scontro a terra e arrendersi era
ritenuto un disonore. Non c’erano limiti di tempo, si continuava fino a che
l’avversario non alzava l’indice in segno di resa.
La corsa con le armi, oplitodromos, fu una specialità olimpica a partire dal 520
a. C. Si disputava sulla distanza dei due e dei quattro stadi e manifestava l’importanza
dell’atletica per l’addestramento militare. Era la corsa della fatica che gli atleti
correvano in pieno assetto di guerra: elmo di metallo, schinieri alle gambe, scudo di
bronzo ricoperto di cuoio e lancia. Le armi venivano fornite dall’organizzazione ed
erano uguali per tutti.
Col passare del tempo agli atleti non bastò più l’ulivo di Olimpia, ora
pretendevano l’oro. Si stabilì così che il vincitore ricevesse 500 dracme di premio.
Vincere le Olimpiadi era come servire la polis in armi per un paio d’anni e si
correvano meno rischi: il denaro come fine era la nuova filosofia dell’atletismo, una
filosofia molto moderna!
Nell’anno 72 a. C. le Olimpiadi stanno cambiando. La ricerca e la conquista di
un ideale di perfezione morale e fisica, l’esaltazione dell’agonismo puro sono un
lontano ricordo. Le Olimpiadi sono diventate uno spettacolo fine a se stesso, con
competizioni che servono a fare sempre più ricchi gli atleti o per titillare gli istinti di
una folla di spettatori imbarbarita dalla nuova natura mercenaria delle competizioni.
La distinzione fra coloro che più si dedicavano allo sport e coloro che più
semplicemente lo praticavano per puro diletto si fece sempre più ampia; si allargò la
forbice fra il professionismo e il dilettantismo, con il primo che imponeva
allenamenti specifici e sempre più impegnativi. Nacque la professione di atleta,
quella in cui l’abilità agonistica divenne fonte di guadagno e andò a sostituire il
lavoro perché consentiva guadagni inimmaginabili in altri tipi di attività.
La rivoluzione cristiana segnò la fine di un mondo ed anche quella dei Giochi
olimpici. Nel 313 dopo Cristo Costantino emanò l’editto di Milano con il quale
poneva il cristianesimo fra le religioni lecite e dunque poneva fine alle persecuzioni
che fino a quel momento erano state il pane quotidiano dei cristiani. La religione di
Cristo si propagò rapidamente nell’Impero Romano.
La scomparsa del paganesimo con i suoi riti, tra i quali quello dei Giochi di
Olimpia, era ineluttabile. Le ultime reliquie pagane, che erano sopravvissute nei due
estremi della campagna e dell’aristocrazia, categorie sociali sempre tendenti alla
conservazione, erano ormai condannate. Il significato sacro delle Olimpiadi, che già
la loro mercificazione aveva svilito, non aveva più senso; la grande statua di Zeus era
soltanto una splendida opera d’arte e non più un dio ispiratore e governatore dei
destini umani. Il cristianesimo aveva vinto la sua guerra e non restava che cancellare
le tracce del passato.
L’agonismo era una festa pagana, e così l’avversione per tutte le cose umane
che si legavano al paganesimo, finì per rivolgersi anche contro l’agonismo che,
ironicamente, riconquistò il suo senso del sacro proprio nelle menti e nei
ragionamenti dei suoi avversari, quel senso del sacro che i suoi praticanti avevano
ormai perduto. I cristiani non rispettavano i Giochi come sacri, ma come tali li
combattevano, giacché si riferivano ad una religione da combattere.
I Giochi andarono avanti con stanchezza fino al 392 quando Teodosio, con
l’editto di Costantinopoli, vieta anche i giochi atletici che, per le loro tradizioni, le
loro leggende, le nudità dei corpi, alimentavano la temuta sopravvivenza del
paganesimo. Olimpia non è direttamente nominata ma l’anno successivo, 393, non si
tennero i Giochi olimpici che erano in programma.