Sei sulla pagina 1di 10

I BIOPOLIMERI NELL’IMBALLAGGIO

Francesco
Pilati
Università di Modena e Reggio Emilia - Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e
dell’Ambiente, via Vignolese 905, 41100 Modena

Per gli imballaggi in genere, e per quelli alimentari in particolare, si fa largo uso di materie
plastiche. Tra le tante tipologie di materie plastiche disponibili a questo scopo ci sono anche
materiali definibili biopolimeri, in quanto o di origine biologica o biodegradabili. L’uso del termine
biopolimero (o bioplastica) può tuttavia essere ambiguo e la presentazione mira in primo luogo a
fare chiarezza nella classificazione delle diverse tipologie di plastiche. Verranno poi descritti i
principali tipi di materiali biodegradabili e discussi i criteri che dovrebbero essere utilizzati per una
scelta ottimale, con particolare riguardo agli aspetti relativi alla sostenibilità ambientale.

1. IMBALLAGGI NELL’INDUSTRIA ALIMENTARE

Gli imballaggi sono oggi percepiti da una larga parte della stampa e dell’opinione pubblica, come
una delle principali cause di contaminazione per l’ambiente, e la loro eliminazione è vista come una
delle principali strade per risolvere i problemi connessi con uno sviluppo sostenibile. Le ragioni che
portano a questo tipo di conclusione derivano dal fatto che l’impiego di imballaggi ormai è stato
esteso ad ogni tipologia merceologica, che gli imballaggi sono di plastica, un materiale ritenuto
inquinante, e che la loro vita media è oggettivamente molto breve (< un anno).
Va comunque considerato che la principale ragione per cui l’uso di imballaggi è enormemente
cresciuto deriva dal fatto che il loro impiego in molti casi, ed in particolare nel caso degli
imballaggi alimentari, comporta una serie di vantaggi funzionali che, riducendo gli sprechi e i
rischi per la salute, aiutano a migliorare la qualità della vita delle persone e la sostenibilità
ambientale. Infatti, gli imballaggi alimentari sono oggi strumenti funzionali a cui si richiede di volta
in volta una o più delle seguenti proprietà: resistenza, flessibilità, leggerezza, trasparenza,
saldabilità, termoretraibilità, caratteristiche di barriera ai gas e ai vapori, o addirittura una
funzionalità attiva (es. antibattericità, capacità di evidenziare il raggiungimento di temperature
eccessive o la presenza di contaminanti, ecc.). Le materie plastiche, per le loro caratteristiche di
grande versatilità e di basso costo complessivo, riescono a soddisfare più facilmente di altri
materiali la maggior parte delle funzionalità richieste ed è per questo che sono di gran lunga i
materiali più utilizzati nell’imballaggio.
Naturalmente il problema dell’impatto ambientale che un eccessivo impiego di imballaggi comporta
non può essere ignorato; sono negli occhi di tutti le immagini di imballaggi in plastica che
contaminano mari, coste, fiumi. Tuttavia è dimostrabile che quando il peso dell’imballaggio per
unità di prodotto è inferiore ad un certo valore i vantaggi ambientali sono superiori ai problemi
generati dall’imballaggio stesso. Solo quando gli imballaggi sono usati impropriamente o sono
sovradimensionati rispetto alle esigenze funzionali, il costo in termini di impatto ambientale supera
i benefici che l’uso di imballaggi comporta.
Esistono comunque molti esempi che dimostrano che l’incidenza dell’imballaggio sugli indicatori
di impatto ambientale è percentualmente piccola (tipicamente ca 1%) rispetto all’impatto
ambientale complessivo del bene imballato.
Stabilito quindi che l’imballaggio può contribuire ad una gestione ecosostenibile dei processi
economici e che le materie plastiche sono nella maggior parte dei casi i materiali più convenienti sia
per i vantaggi tecnologici sia per l’impatto ambientale, rimane da valutare quali materie plastiche è
preferibile privilegiare in un’ottica di sviluppo sostenibile.
2. MATERIE PLASTICHE E SOSTENIBILITA’

Nel 2007, la produzione complessiva di materie plastiche nel mondo (escluse le fibre) è stata di ca.
260 Mt, con un incremento del 3% rispetto al 2006, e quelli che si definiscono in modo generico
biopolimeri costituiscono ca l’1% della produzione complessiva di materie plastiche.
In relazione alle applicazioni, la maggior percentuale è destinata all’imballaggio (ca 37 %) seguita
da costruzioni (21 %), auto (8%), applicazioni elettriche ed elettroniche (6 %) e altro (28%).
Il grande volume di plastiche utilizzate nell’imballaggio e la loro breve vita (tipicamente < 1 anno)
spiegano perché gli imballaggi siano percepiti come un problema in relazione al consumo di risorse
non rinnovabili (petrolio), alla emissione di gas serra (greenhouse gases, GHG) e alla gestione dei
rifiuti solidi urbani (RSU).
Per quanto riguarda il consumo di risorse non rinnovabili, va tuttavia ricordato che la quantità di
petrolio destinata alla produzione di materie plastiche ammonta a ca. il 4% della quantità totale di
petrolio consumata, e quindi la quantità destinata alla produzione di imballaggi corrisponde ca.
all’1.5 % del totale (< 1% se si considerano solo gli imballaggi alimentari).
La generazione di GHG, ed in particolare di CO2, associata all’uso della plastica, è prevalentemente
determinata dalla quantità di petrolio utilizzata (che si presume diventi CO2 a fine vita), essendo
quella associata a processi di lavorazione e al trasporto secondaria. Da questo punto di vista materie
plastiche derivate da fonti vegetali appaiono più vantaggiose in quanto la CO2 generata nel ciclo di
vita è in larga parte compensata da quella assorbita dalla pianta durante la crescita. Va di nuovo
ricordato che la CO2 generata per produrre un imballaggio è molto inferiore (circa 100 volte più
piccola) di quella generata per produrre l’alimento imballato.
Tuttavia, la ragione principale per cui le plastiche sono considerate un problema deriva dal volume
di plastica nel flusso dei RSU; tipicamente le plastiche costituiscono il 7-8% in peso e il 20-30% in
volume dei RSU e sono principalmente derivate da plastiche da imballaggio.
A fronte dell’accresciuto problema della gestione dei rifiuti, si stima tuttavia che l’uso degli
imballaggi in plastica in alternativa ad altri materiali consenta di ridurre di un fattore 4 il peso
complessivo degli imballaggi, di un fattore 2 l’emissione di gas serra, di un fattore 1.9 il costo, di
un fattore 1.5 l’energia necessaria e di un fattore 1.6 il volume dei rifiuti.

La Direttiva Europea del 2008 riguardante la gestione dei rifiuti individua come prioritarie le
seguenti azioni: riduzione, riuso, riciclo (recupero di materia), recupero (di energia), smaltimento
La riduzione del volume dei rifiuti è sicuramente un modo importante per ridurre le dimensioni del
problema, ma deve essere salvaguardando i vantaggi che un imballaggio determina in relazione alla
produzione di scarti e alla salute dei consumatori. Il riuso non è praticabile per la grande
maggioranza degli imballaggi alimentari. Il recupero di materia da rifiuti consente di risparmiare
materie prime, ridurre emissioni, risparmiare energia, ridurre i costi; è sicuramente da privilegiare
rispetto ad altri trattamenti dei rifiuti, ma questo tipo di riciclo non è sempre possibile per problemi
legati alla difficoltà della raccolta, dei trattamenti preliminari necessari e alla natura mista dei
materiali plastici anche se derivanti da flussi da raccolta differenziata.
In alternativa al riciclo, lo smaltimento delle plastiche presenti nei RSU può avvenire per
combustione (di RSU o RDF o PDF) o per biodegradazione nel caso di compostaggio della frazione
umida. La combustione ha come vantaggi una gestione del processo relativamente più semplice ed
economica e consente il recupero di energia termica, ma ha come controindicazioni un aumento
della emissione di microinquinanti (in particolare di NOx, SOx, ..), soprattutto quando anche la
frazione umida sia avviata alla combustione. Il compostaggio consente invece un miglior
smaltimento della frazione umida con recupero di amendante; la presenza di plastiche non
biodegradabili nel flusso della frazione umida (ca il 5%) può costituire un problema, che richiede
uno stadio aggiuntivo di separazione delle plastiche dal compost al termine del processo. Infine,
come ultima alternativa rimane la discarica; mentre ci possono essere pareri discordanti in merito
all’approccio più conveniente ad una gestione del flusso dei rifiuti alternativo alla discarica (non è
detto che quello più conveniente sia necessariamente lo stesso in ogni situazione), c’è unanime
consenso nel ritenere la discarica come l’ultima opzione, in particolare in paesi ad alta densità
abitativa come l’Italia. Lo smaltimento in discarica crea infatti diversi problemi legati ai cattivi
odori, all’emissione di metano, derivante da decomposizione anaerobica, che finendo in atmosfera
ha un effetto rilevante sulle emissioni GHG (ca 10 volte superiore ai clorofluorocarburi), ai rischi di
infiltrazione nelle falde di percolato oltre alla già citata difficoltà di individuare siti in cui collocare
la discarica.

Nel 2007 in Europa la quantità di plastiche recuperate a fine vita (da riciclo meccanico, feedstock,
combustione) ammontava a ca il 50 % (+ 1% rispetto al 2006), mentre il rimanente 50 % è stato
destinato alla discarica (ca 12.4 Mt anno), La quantità delle plastiche post-consumo riciclate (quasi
esclusivamente con riciclo meccanico) è del 20.4% (+ 1% rispetto al 2006), mentre il recupero di
energia rimane invariato al 29.2 %. Tuttavia va sottolineato che ci sono forti differenze in termini
percentuali da stato a stato: 9 stati, quelli che generalmente adottano un tipo di gestione integrata
del flusso dei rifiuti sfruttando le diverse opzioni possibili, recuperano più del 80 % di plastiche a
fine vita. E gli Stati in cui è più alta la quantità destinata al recupero di energia, sono anche quelli
che figurano ai primi posti per la quantità riciclata, evidenziando che la combustione ed il riciclo
non sono necessariamente processi antitetici. E va poi sottolineato che la maggior parte di questi
Stati si collocano ai primissimi posti per indice di sostenibilità (FEEM SI).
Escludendo il PET, riciclato in larga misura, le altre plastiche utilizzate nell’imballaggio sono
oggettivamente difficili da riciclare con riciclo meccanico, sia per la natura chimica disomogenea
sia per l’elevato grado di contaminazione. Per questa ragione, considerato l’elevato grado di
contaminazione delle plastiche utilizzate per imballaggio di alimenti è ragionevole considerare la
combustione e compostaggio come le uniche alternative alla discarica.

La sensibilità ambientale sviluppatasi negli ultimi decenni nelle opinioni pubbliche dei paesi
economicamente più evoluti, richiede che le decisioni in merito alla gestione dei processi produttivi
e dei rifiuti non siano fatte sulla base di considerazioni puramente tecniche ed economiche, ma che
tengano in conto considerazioni di sostenibilità ambientale, relative ad un uso sostenibile delle
risorse, alle emissioni nell’ambiente di GHG e microinquinanti, ai fenomeni di eutrofizzazione, al
consumo di acque, ecc.
Per valutare il grado della sostenibilità delle attività economiche complessive sono stati proposti
indici di sostenibilità (FEEM SI, EF (ecological footprint), SEEBALANCE …) basati su aspetti
economici, sociali e ambientali e quantificati mediante l’uso di indicatori quali:
emissioni di CO2 / energia prodotta (CO2 intensity of energy)
emissioni di (N2O + CH4 + CO2)/popolazione (GHG emission per capita):
acqua utilizzata/acqua rinnovabile totale (use of renowable water resources)
energia utilizzata/ PIL (energy intensità)
energia importata/ energia totale utilizzata (%) (imported energy)
produzione di energia pulita/energia complessiva utilizzata (%) (clean energy)
specie ad alto rischio di estinzione/specie totali a rischio di estinzione (%) (biodiversity
index of plants)
(specie ad alto rischio di estinzione/specie totali a rischio di estinzione (%) (biodiversity
index of animals)
In un’ottica di sostenibilità ambientale, l’utilizzo di tutti o di solo una parte di tali indicatori, scelti
sulla base di uno specifico scenario, dovrebbe diventare la guida per la selezione dei materiali e dei
nelle diverse situazioni.

3. POLIMERI E BIOPOLIMERI

Da un punto di vista della struttura molecolare i polimeri, sia bio- che non, sono costituiti da molte
unità monomeriche (gruppo di pochi atomi derivanti da piccole molecole, i monomeri), che si
ripetono a formare macromolecole (contenenti da migliaia a milioni di atomi) lineari, ramificate o
reticolate. Quindi da un punto di vista della costituzione molecolare polimeri sintetici e biopolimeri
sono simili, anche se a volte possono esistere differenze relative alla distribuzione dei pesi
molecolari e delle unità monometriche nelle catene polimeriche. Tale differenza non è tuttavia
sempre vera e quindi di scarso interesse per distinguere polimeri da biopolimeri.
Il temine biopolimero si può utilizzare in modo generico per distinguere da altri i polimeri che nel
loro ciclo di vita interagiscono in qualche modo col mondo biologico. Come vedremo di seguito è
tuttavia un termine ambiguo, non univocamente associabile ad una ben definita classe di materiali
plastici, ed è spesso utilizzato con diversi significati. Per questo è utile cercare di fare un po’ di
chiarezza.

Si può pensare di associare il termine biopolimero all’origine biologica del polimero stesso. In
questo caso sarebbero biopolimeri solo i polimeri naturali, prodotti direttamente da organismi
viventi (piante e animali), mentre non sarebbero biopolimeri i polimeri sintetici ottenuti da
polimerizzazione industriale di monomeri derivati da fonti fossili (petrolio, carbone). Ma tra questi
casi estremi esistono situazioni intermedie di polimeri la cui classificazione non è ovvia. Ad
esempio, come si dovrebbero classificare i polimeri ottenuti attraverso un processo chimico che
partendo da polimeri naturali porta all’ottenimento di nuovi polimeri attraverso un processo
industriale che ne modifica la struttura molecolare (come ad esempio per i derivati della cellulosa)?
Esistono poi anche polimeri ottenuti da polimerizzazione industriale di monomeri derivati,
completamente o in parte, da risorse rinnovabili (generalmente piante); anche questi hanno titolo
per essere classificati come biopolimeri, anche se è forse preferibile utilizzare il termine polimeri a
base di monomeri da risorse rinnovabili (o ancora meglio il termine inglese ‘bio-based
polymers’). Inoltre, esistono materiali polimerici ottenuti attraverso processi di miscelazione di
diversi polimeri e copolimeri (naturali, artificiali, bio-based , sintetici…biodegradabili o non) e/o
mediante l’impiego di additivi vari (naturali o non); anche in questo caso è lecito chiedersi se tali
materiali possano definirsi biopolimeri. E’ evidente che l’utilizzo del termine generico biopolimero
è ambiguo, soggettivo e discutibile.

Un modo meno ambiguo per classificare i materiali plastici in relazione alla loro interazione col
mondo biologico è quello di raggrupparli sulla base di alcune precise caratteristiche. Ad esempio,
considerando esclusivamente il loro comportamento rispetto alla biodegradazione idrolitica
catalizzata da batteri, si possono distinguere polimeri biodegradabili da quelli non biodegradabili.
Appartengono alla classe dei polimeri biodegradabili polimeri naturali, come poliidrossialcanoati,
cellulosa, amido, ecc., ma anche polimeri completamente sintetici, come policaprolattone e alcuni
poliesteri alifatici. Va tuttavia ricordato che la biodegradabilità di un certo materiale dipende dal
modo e dalle condizioni in cui viene misurata (in particolare tipo di batteri presenti, temperatura,
umidità e concentrazione di ossigeno, ecc.); uno stesso polimero potrebbe essere considerato
biodegradabile in certe condizioni (ad esempio compostaggio), ma non biodegradabile in altre
condizioni (es. terreno o ambiente marino). Per ridurre i possibili equivoci sono state sviluppate
normative che definiscono i criteri sulla base dei quali un polimero può essere considerato
biodegradabile (EN 13432 e ASTM D6400-04, D7081-05, D6868-03, D5511, D5526). Tali
normative prevedono diversi criteri per cui un materiale può essere considerato biodegradabile se si
considera una certa normativa, e essere non biodegradabile rispetto ad un altro tipo di normativa. E’
evidente che una definizione basata sulla quantificazione della percentuale di materiale
biodegradabile misurata secondo un metodo definito è sicuramente meno equivoca del termine
generico biopolimero, ma ancora in parte ambigua e discutibile. Le definizioni normate sono, in
certi paesi, legalmente vincolanti rispetto alle indicazioni riportate in etichetta.

Associando il termine biopolimero alla biodegradabilità non sarebbero biopolimeri alcuni polimeri
naturali come ad esempio la gomma naturale e i polimeri artificali, derivati da polimeri naturali
biodegradabili in origine (esempio cellulosa), ma non più biodegradabili dopo le trasformazioni
molecolari subite. Ed anche tra i polimeri ottenuti da monomeri da fonti rinnovabili (bio-based
polymers) esistono sia polimeri biodegradabili che non biodegradabili.

La possibilità di ottenere polimeri completamente sintetici, con solo atomi di carbonio nella catena
principale, ma biodegradabili dopo un processo di ossidazione controllata pone poi un ulteriore
problema di classificazione. Infatti, attraverso la realizzazione di opportune strutture molecolari si
possono ottenere polimeri che possono subire a fine vita reazioni di ossidazione controllata in grado
di ridurre il peso molecolare a valori tali da rendere metabolizzabili da microrganismi
(biodegradabili) i frammenti residui delle catene polimeriche (oxo-biodegradable o oxo-
fragmentable, photodegradable plastics). Come dovrebbero essere classificati questi polimeri?
Sull’argomento ci sono contrastanti pareri; in particolare Bioplastics Council ha pubblicato nel
gennaio 2010 un documento in cui si contesta la definizione di biodegradabile per tali prodotti in
mancanza di una normativa specifica che permetta di quantificare gli effetti della biodegradazione.

In un’ottica di sostenibilità ambientale, l’utilizzo di fonti rinnovabili può essere considerato come
base di riferimento per un altro tipo di classificazione delle materie plastiche, distinguendo i
polimeri da fonti rinnovabili (bio-based polymers) da quelli da fonti non rinnovabili (fossil-based
polymers)
Rientrano nella classe dei polimeri da fonti rinnovabili polimeri biodegradabili come PHAs, PLA,
polimeri a base di amido, ma anche polimeri non biodegradabili (durable) come PA11, poliesteri
alifatici aromatici, poliuretani, polimeri derivati dalla cellulosa, ed anche HDPE ottenuto da etanolo
(se quest’ultimo è derivato da fermentazione di biomasse) che possiede esattamente le stesse
caratteristiche del HDPE derivato da petrolio. Mentre non rientrano nella classe dei polimeri da
fonti rinnovabili polimeri sintetici biodegradabili come PCL e alcuni poliesteri alifatici.
Naturalmente possono esistere polimeri, copolimeri e miscele polimeriche in cui la percentuale di
materia derivata da fonti rinnovabili è minore di 100; per questo è d’uso indicare la percentuale di
materiale da fonti rinnovabili.
Esiste poi il problema, etico e legale, di distinguere polimeri di uguale struttura molecolare e
proprietà, ma ottenuti da fonti rinnovabili o da fonti fossili. A tale scopo è disponibile una
normativa basata sulla misura della concentrazione di 14C che consente di distinguere polimeri
derivanti da fonti rinnovabili da quelli equivalenti, ma di origine fossile (ASTM D6866).

In conclusione è bene ribadire che il termine biopolimero è generico ed ambiguo, e quindi da


evitare se lo si intende associare a precise caratteristiche del materiale o all’origine biologica. In
questo caso è preferibile ricorrere ai termini meno ambigui precedentemente descritti: polimeri
naturali, polimeri biodegradabili (specificando però le condizioni/norme in cui tale proprietà si
manifesta), polimeri compostabili, polimeri derivati da risorse rinnovabili (biobased polymers), o,
ancora meglio, ad una descrizione più articolata.

4. PLASTICHE PER IMBALLAGGIO – CRITERI DI SCELTA

La scelta del materiale da utilizzare per una definita applicazione deve in primo luogo soddisfare i
requisiti funzionali e di lavorabilità, ma deve anche cercare di tener conto degli aspetti legati ad uno
sviluppo sostenibile. Quest’ultimo aspetto se da un lato può portare ad aumento di costi, dall’altro
può essere premiante rispetto alle scelte dei consumatori. Un’indagine recente fatta nei paesi del
nord Europa (F,S,DK,N) ha indicato che ca. il 31 % della popolazione tiene conto dell’impatto
ambientale nella decisione di acquisto.

In relazione alle proprietà funzionali, i principali requisiti che un materiale per imballaggio deve
possedere per soddisfare le esigenze del prodotto sono sostanzialmente proprietà meccaniche e, per
certe applicazioni, proprietà di barriera ai gas adeguate nell’intero intervallo di temperatura che il
prodotto imballato incontra nella sua vita d’uso. Le proprietà meccaniche più importanti sono il
modulo, ovvero la resistenza di un materiale alla deformazione, e la resistenza a rottura. Maggior
modulo e resistenza significa poter avere prestazioni equivalenti con minori spessori, e quindi poter
realizzare un certo imballaggio con minor consumo di materiale (per andare nella direzione della
riduzione della quantità di imballaggi). Riguardo a questo ultimo aspetto, anche la densità del
materiale è una proprietà importante; infatti a parità di volume di materiale usato per l’imballaggio,
una maggior densità significa maggior peso dell’imballaggio stesso.
Sia il modulo che la resistenza variano poi al variare della temperatura e per capire i criteri che ne
determinano la variazione è utile distinguere i polimeri in amorfi e semicristallini e descrivere il
ruolo delle principali transizioni termiche, transizione vetrosa (Tg) e temperatura di fusione (Tm).
Nel caso dei polimeri amorfi le condizioni d’uso sono sostanzialmente definite dalla temperatura di
transizione vetrosa, Tg; indicativamente T = Tg – 20 °C definisce la masima temperatura d’uso per
applicazioni strutturali, mentre T = Tg + 20 °C definisce la minima temperatura d’uso per materiali
elastomerici. Nel caso dei polimeri semicristallini le condizioni d’uso sono prevalentemente definite
dalla temperatura di fusione, Tm, e dal grado di cristallinità del materiale; indicativamente T = Tm
– 30 °C definisce la massima temperatura d’uso per applicazioni strutturali, e un aumento del grado
di cristallinità porta ad un aumento della rigidità e resistenza. Altre proprietà meccaniche importanti
possono essere la resistenza all’azione di una punta e la resistenza alla lacerazione.
Tra le proprietà fisiche, le proprietà di barriera ai gas, ossigeno e vapor d’acqua in particolare, sono
importanti per alcuni tipi di applicazione; anche in questo caso materiali con caratteristiche di
barriera inferiori devono essere utilizzati con spessori maggiori per ottenere le stesse caratteristiche
funzionali. Va comunque ricordato che le proprietà dei polimeri, inclusi quelli biodegradabili,
possono essere facilmente modulate in un ampio intervallo di valori attraverso la miscelazione con
altri polimeri, cariche e additivi.

Altri aspetti importanti da considerare nella scelta dei materiali da imballaggio sono quelli legati
alla loro lavorabilità. La finestra di temperatura in cui il materiale è lavorabile senza problemi
dipende dalla viscosità del materiale e dalla sua velocità di degradazione. Aumentando la
temperatura la viscosità diminuisce (e il materiale diventa più facilmente lavorabile), ma aumenta
anche la velocità dei i fenomeni degradativi.
Anche le dimensioni molecolari delle catene polimeriche (generalmente rappresentate dal MFI nei
bollettini tecnici) si riflettono sulle caratteristiche meccaniche e di lavorabilità. Un peso molecolare
più basso (maggiore MFI) riduce la viscosità facilitando processi di stampaggio ad iniezione, ma
può rendere più critiche le condizioni di lavorazione per termoformatura, per stampaggio-soffiatura
e per la produzione di materiali espansi. Un peso molecolare troppo basso può anche determinare un
eccessivo infragilimento del materiale. Altre caratteristiche di lavorabilità da considerare sono la
resistenza del materiale allo stato fuso (melt strength), importante per prodotti espansi o soffiati, la
saldabilità e la stampabilità degli inchiostri.

Per le materie plastiche sintetiche tradizionalmente utilizzate nell’imballaggio (LDPE, HDPE, PP,
PET, PA, PS, PVC, EVOH, …) tutte le proprietà sopra indicate sono state ottimizzate per decenni
in funzione delle specifiche richieste di ciascun tipo di imballaggio, ed è quindi inevitabile che tali
materiali siano presi come termine di confronto nella valutazione delle proprietà funzionali dei
biopolimeri utilizzati per le stesse applicazioni.

Da un punto di vista applicativo molti polimeri naturali (proteine, cellulosa, …) non possono essere
utilizzati come tali a causa della alta viscosità allo stato fuso e della scarsa resistenza alle elevate
temperature (che rende difficile la lavorazione con le stesse tecnologie utilizzate per i polimeri
sintetici) e per l’elevata affinità per l’acqua (che determina una modifica inaccettabile di alcune
proprietà del materiale a contatto con acqua).
Sono state tuttavia sviluppate diverse plastiche biodegradabili (a base di PLA, PHA, amido, ecc.)
derivate da fonti vegetali rinnovabili che per prestazioni funzionali e lavorabilità si confrontano con
le plastiche tradizionali.
Le materie prime vegetali da cui sono derivate sono il granoturco, la canna da zucchero,
barbabietole da zucchero, sorgo, riso, patate, ecc.. da cui si derivano amido, glucosio cellulosa , ma
anche oli vegetali (olio di ricino in particolare) da cui si derivano proteine e acidi grassi.
In particolare, da granoturco, patate, sorgo, riso, ecc. si deriva l’amido da cui è poi possibile
ricavare: i) materie plastiche attraverso un’opportuna destrutturazione e miscelazione con altri
polimeri o additivi; ii) acido lattico, e quindi i lattidi da cui per polimerizzazione si deriva il
poli(acido lattico) (PLA). Gli zuccheri sono invece la fonte prevalente (ma non unica) per
alimentare i batteri in grado di produrre diverse varietà di poliesteri alifatici, quali i
poliidrossialcanoati (PHAs). Dagli zuccheri si possono derivare anche monomeri (acido succinico,
propilen diolo) utilizzabili per ottenere poliesteri alifatici biodegradabili.

I PHAs sono noti da molti decenni e furono prodotti per la prima volta a livello industriale da ICI
negli anni 1980-90 (nome commerciale Biopol). Per il prezzo troppo elevato e la non facile
lavorabilità non ebbero grande successo e il marchio fu venduto a Monsanto, che a sua volta
vendette il marchio a Metabolix nel 1998. Nel 2006 Metabolix ha fatto una joint venture con un
produttore di cereali (Archer Daniels Midland) e oggi PHAs sono commercializzati dalla Società
Telles col marchio MIREL, una famiglia di prodotti con transizioni termiche e proprietà
meccaniche simili alle poliolefine in genere e al PP in particolare. Per la produzione di questi
materiali è stato aperto un impianto da 50000 t/anno a Clinton nello Iowa, nel dicembre 2009.
Scegliendo opportunamente ceppi batterici e loro alimento, si possono ottenere materiali a base di
PHAs con una varietà di strutture molecolari e di proprietà relativamente ampia, adatti per
stampaggio ad iniezione, stampaggio a soffiatura, termoformatura, ecc.. I produttori di MIREL
rivendicano biodegradabilità in terreni, acque varie e compostaggio domestico oltre che in impianti
di compostaggio industriali, ma non nelle discariche convenzionali.

Materiali a base di PLA sono commercializzati da diversi produttori (produttore più importante
NatureWorks, nome commerciale dei prodotti Ingeo) con caratteristiche diverse in relazione al
grado di cristallinità, alla struttura molecolare (lineare o ramificata) e alla miscelazione con altri
polimeri/additivi. Il PLA amorfo è un materiale rigido che soffre tuttavia di scarsa resistenza
all’urto e alle alte temperature, caratteristiche che tuttavia non ne limitano le applicazioni nel settore
dell’imballaggio alimentare. Attraverso la miscelazione con PLLA o con PDLA o con altri polimeri
(proteine, amido, PHAs) si possono ottenere diverse plastiche a base di PLA, completamente
biodegradabili e con migliori proprietà termiche, una più ampia gamma di proprietà meccaniche e
con caratteristiche meno stringenti in termini di lavorabilità. Sono disponibili anche tipologie con
struttura molecolare ramificata che, possedendo maggiore resistenza del fuso, sono particolarmente
adatte a realizzare materiali espansi con proprietà simili a quelle di polistireni espansi (EPS).

I materiali a base amido, di cui uno dei produttori più importanti è Novamont, che fu tra i primi a
commercializzare prodotti di questo tipo col nome di Mater-Bi®, rappresentano una famiglia di
polimeri biodegradabili derivati da prodotti vegetali che possiedono caratteristiche termiche e
meccaniche che li rendono confrontabili con un’ampia gamma di materiali tradizionali. I prodotti
Mater-Bi® possono essere filmati utilizzando le tradizionali macchine per LDPE con temperature di
estrusione più basse e con la possibilità di rigenerare gli scarti con tecniche simili a quelle in uso per
il PE. Ovviamente per la filmatura sono disponibili diversi gradi utilizzabili per specifiche
applicazioni (per esempio sacchi, shopper, film per pacciamatura, film per packaging, film per
igiene). Il film in Mater-Bi® si stampa con inchiostri ad acqua o solventi, con qualsiasi tecnologia
di stampa senza bisogno di trattamento corona. Per la produzione di sacchi la saldabilità è simile a
quella del PE e può essere effettuata alla stessa velocità. Il Mater-Bi risulta biodegradabile non solo
in condizioni di compostaggio industriale, ma anche a temperatura ambiente ed è conforme allo
standard UNI 11183 (Materie plastiche biodegradabili a temperatura ambiente - Requisiti e metodi
di prova).
Poliesteri alifatici quali poli(butilen succinato), copolimeri poli(butilen succinato / adipato /
tereftalato), poli(etilen succinato), e loro miscele con amido, cellulosa, ecc. (nomi commerciali più
noti Bionolle xxxx, prodotto in Giappone da Showa Highpolymer Co., Ltd; Ecoflex ed Ecovio,
prodotti da BASF) sono polimeri termoplastici semicristallini con Tm tra 90 e 120 °C, Tg tra -10 e
– 45°C, caratteristiche che li assimilano a LDPE, anche se la densità di ca 1.25 g/cm3 è
significativamente più alta. I produttori rivendicano eccellente lavorabilità con processi di
lavorazione che utilizzano le stesse apparecchiature tipicamente utilizzate per poliolefine
(stampaggio ad iniezione, estrusione e soffiatura) a temperature di 160-200 °C. Gradi particolari
sono stati ottenuti introducendo ramificazioni lunghe nelle catene polimeriche, consentendo di
ottenere materiali con alta resistenza del fuso, per realizzare più facilmente materiali espansi e
bottiglie.

Come già detto, le proprietà dei polimeri, inclusi quelli biodegradabili, possono essere facilmente
modulate attraverso la miscelazione con altri polimeri, cariche e additivi. Questo fa sì che attraverso
opportune formulazioni i polimeri biodegradabili possano essere resi molto simili a quelli
tradizionali sia in termini di proprietà meccaniche che di lavorabilità.

Alcune applicazioni nell’imballaggio alimentare richiedo elevate proprietà di barriera ai gas e


vapori come caratteristica primaria. La permeabilità all’ossigeno di film in PLA o in Mater-Bi® è
confrontabile con quella di OPP/HDPE, ma nettamente inferiore rispetto a quella di PET e EVOH.
La trasmissione di vapor d’acqua di Mater-Bi® è molto superiore a quella di OPP, HDPE e PET e
rende tale film simile al PE microforato (ma a differenza di quest’ultimo fornisce una barriera
biologica per virus e batteri).

In aggiunta alle proprietà sopra riportate, le caratteristiche di biodegradabilità rendono tali plastiche
particolarmente interessanti per prodotti monouso e di vita breve, e in tutte quelle applicazioni che
utilizzano tali plastiche per fare oggetti che hanno alta probabilità di confluire in un flusso di rifiuti
ricco di frazione organica (imballaggi, stoviglieria, vasi per aziende vivaistiche, ecc.) e destinato al
compostaggio. Anche per oggetti che abbiano elevata probabilità di finire dispersi nell’ambiente
(mare, fiumi, laghi, terreno) la biodegradabilità sarebbe una proprietà utile, ma non tutti i materiali
sopra indicati subiscono biodegradazione veloce in tali ambienti. In generale, nelle condizioni di
compostaggio industriale la biodegradabilità di PHAs, PLA e di plastiche a base di amido è totale,
mentre quella relativa a poliesteri alifatici può variare dallo 0% al 100% in relazione alla natura
chimica dei monomeri utilizzati. In altre condizioni, terreno, acque marine o lacustri, compostaggio
domestico, ecc., non è detto che tutte le plastiche sopra indicate siano completamente degradabili in
tempi brevi.

Esistono in commercio anche materiali rivendicati come biodegradabili, ma per i quali ci sono forti
dubbi che abbiano caratteristiche di biodegradabilità completa nelle condizioni di
compostaggio. Tra questi ad esempio i prodotti commercializzati dalla Bio-Tec Environmental col
nome EcoPure, ottenuti mescolando additivi (anche a < 1% in peso) con plastiche tradizionali quali
PP, PVC, EVA, PE, PET, sono rivendicati come materiali ‘verdi’ e biodegradabili (ma non
compostabili); tuttavia dai dati riportati nei bollettini tecnici risulta che la percentuale
biodegradata in ambiente ricco di batteri dopo 90 giorni è < del 10%.

In termini di emissioni di CO2 studi LCA che confrontano polimeri biodegradabili con altri polimeri
tradizionali riportano dati contrastanti in relazione ai diversi scenari considerati, evidenziando che
l’uso dello strumento LCA soffre ancora di un certo grado di soggettività. Particolarmente
interessante rispetto all’abbattimento delle emissioni di CO2 è l’ipotesi di utilizzare fonti
energetiche rinnovabili (torri eoliche, fotovoltaico, ….) per alimentare alcuni stadi del processo
complessivo di crescita dei vegetali (aratura, irrigazione,….).
Come detto in precedenza, il termine bioplastiche può anche essere utilizzato per le materie
plastiche non biodegradabili ma derivate da fonti rinnovabili (PA, PE, poliesteri, poliuretani,
epossidiche, ecc.). L’interesse per tali materiali risiede evidentemente nella loro capacità di ridurre
il consumo di fonti fossili nel corso del ciclo di vita e l’emissione di CO2 in atmosfera. Le loro
applicazione nell’imballaggio sono tuttavia limitate, e l’interesse principale delle ricerche relative
allo sviluppo di tali materiali sta nella dimostrazione di poter ottenere materiali plastici da fonti
rinnovabili con proprietà equivalenti a quelle dei materiali oggi ottenuti da fonti fossili non
rinnovabili, modificando di fatto le prospettive di sviluppo in vista dell’esaurimento delle fonti di
petrolio.

Valori comparativi relativi ad altri tipi di indicatori di sostenibilità ambientale (consumo di acqua,
eutrofizzazione, biodiversità, tossicità,…) non sono facilmente reperibili e quelli esistenti sono a
loro volta contraddittori.

Va ricordato infine che tra gli indicatori di sostenibilità dovrebbero essere considerati anche quelli
sociali ed economici, oltre a quelli ambientali. Da questo punto di vista una eccessiva estensione
delle plastiche da fonti vegetali rinnovabili potrebbe generare un problema relativo all’estensione
dei terreni coltivabili necessari a sostenerne la produzione. Infatti, se il mercato delle bioplastiche
crescesse come nelle previsioni il problema della competizione tra terreni destinati ad uso
industriale o alimentare potrebbe diventare molto serio in termini di disponibilità e costo degli
alimenti. Ad esempio, se le bioplastiche fossero il 10 % delle plastiche totali, occorrerebbero ca 45
Mt/anno di amido con inevitabili ripercussioni sulla filiera alimentare. In questa ottica è
interessante l’ipotesi di derivare bioplastiche dalle alghe, o meglio dalle biomasse residue dalla
lavorazione di alghe per produrre biocarburanti (Cereplast ha annunciato che si aspetta di avere le
prime bioplastiche di questo tipo alla fine del 2010 o all’inizio del 2011).

5. CONCLUSIONI

Spesso, in merito all’effetto degli imballaggi sull’impatto ambiente si fanno affermazioni del tipo
“…zero imballaggi è un bene per l’ambiente…”, “…il riciclo dei materiali per l’imballaggio ed una
ridotta impronta di carbonio sono sempre la migliore soluzione per l’ambiente”, ecc… Sono
messaggi semplicistici, e valutazioni più attente dimostrano che gli imballaggi possono invece dare
un contributo ad uno sviluppo sostenibile.
In relazione alla tipologia di materiale preferibile per l’imballaggio, i materiali plastici sono quasi
sempre la soluzione migliore sia da un punto di vista economico che di impatto ambientale. La
scelta tra le diverse tipologie di materiali plastici, ed in particolare tra polimeri da risorse fossili e
polimeri da fonti rinnovabili, tra polimeri non-biodegradabili e polimeri biodegradabili, non è
sempre ovvia. A pari funzionalità si dovrebbe privilegiare l’imballaggio a minor impatto
ambientale, avendo tuttavia presente che questo può comportare costi più elevati per la collettività.
L’impiego di diversi indicatori ambientali calcolati con un approccio all’analisi del ciclo di vita del
tipo ‘dalla culla alla tomba’ è il modo più corretto per supportare, caso per caso, le scelte per un
migliore sviluppo sostenibile, ricordando però che le risposte di analisi LCA sono spesso
influenzate dallo scenario di riferimento scelto.
Lo sviluppo negli ultimi due decenni di una grande varietà di materiali biodegradabili e/o derivati
da fonti vegetali rinnovabili consente una scelta più ampia e consapevole in relazione alle
indicazioni ‘politiche’ miranti ad uno sviluppo sostenibile in generale e alla gestione integrata dei
flussi dei rifiuti (domestici, urbani, industriali) in particolare.
La valutazione per una scelta ottimale ha elevati contenuti di soggettività in particolare in relazione
al contesto socio-economico di riferimento: locale, regionale, globale.
I materiali biodegradabili e/o da fonti vegetali rinnovabili sono in genere considerati migliori
rispetto all’impatto ambientale, ma non mancano opinioni contrastanti.
Le plastiche biodegradabili nelle condizioni tipiche degli impianti di compostaggio, possono
semplificare la gestione del flusso dei rifiuti umidi (ca il 40% dei RSU). D’altra parte la
biodegradazione aerobica delle plastiche biodegradabili non consente il recupero dell’energia
contenuta nelle plastiche stesse, come potrebbe invece avvenire in un impianto di incenerimento
con recupero di energia termica. Quest’ultimo approccio peraltro può determinare un aumento di
emissioni di inquinanti NOx, SOx, …. La biodegradazione anaerobica dei rifiuti umidi, incluse le
plastiche biodegradabili, potrebbe consentire di recuperare anche energia, ma è più onerosa.
In merito all’impronta di CO2, le plastiche, sia biodegradabili che non-, derivate da fonti vegetali
rinnovabili possono contribuire, in un’ottica globale, ad un migliore controllo del clima, ma in
un’ottica socio-economica la sottrazione di terreni coltivabili alle colture per l’alimentazione può
diventare un grande problema. Va tuttavia sottolineato che in un’ottica di lungo termine, lo sviluppo
di nuovi materiali da fonti rinnovabili, con caratteristiche simili a quelle delle attuali plastiche da
petrolio, è di grandissimo interesse in quanto garantisce la possibilità di sostenere lo sviluppo anche
nella prospettiva inevitabile di una progressiva riduzione della disponibilità di petrolio come fonte
di materie plastiche.
Altri indicatori ambientali (il consumo di acqua (‘water footprint’), l’eutrofizzazione,
l’acidificazione, la biodiversità per piante e animali, ecc.), spesso di interesse locale o regionale
piuttosto che globale, sono ancora poco considerati nell’analisi complessiva dell’impatto
ambientale, ma potrebbero diventare di grande rilevanza in un prossimo futuro.
Alla luce di quanto detto, è evidente che decisioni in merito alla scelta ottimale dei materiali per
imballaggio dovrebbero essere prese caso per caso, considerando lo scenario su cui la scelta va ad
incidere e in un quadro di indirizzo di natura prevalentemente politica, che può anche utilizzare lo
strumento legislativo per influenzare le scelte.

6. BIBLIOGRAFIA
la maggior parte delle informazioni relative alle proprietà dei materiali commerciali sono
state ricavate dai siti web dei rispettivi produttori.
Altri siti web consultati: www.plasticeurope.org – www.epro-plasticsrecycling.org –
www.plasticsrecyclers.eu – www.sustainable-cities.org/indicators/ –
www.rprogress.org/programs/sustainability/ – www.americanchemistry.com –
www.bioplasticsmagazine.com – www.bioplasticscouncil.org
Chet Chaffe and Bernard R. Yaros - Boustead Consultino & Associates, “LCA for three
types of grocery bags – recyclable plastics; compostale, biodegradabile plastic; and
recycled, recyclable paper” – final report (2007)
E. Semeghini – La raccolta differenziata dello scarto organico, l’importanza della qualità per
l’intera filiera del compostaggio – ottobre 2007
Christian Bauer – “Resources efficiency and flexible packaging – a system perspective” –
Wuppertal 2009
Plastics Engineering, Feb. 2010, p15
E.T.H. Vink, K. R. Rabago, D. A. Glassner, P.R. Gruber, “Application of life cycle
assessment to NatureWorks polylactide (PLA) production”, Polym. Degrad. and Stability,
2003, 80, 403-419
Ramani Narayan, “fundamental principles and concepts of biodegradability – sorting
through the facts, hypes and claims of biodegradable plastics in the marketplace, BioPlastics
Magazine, 01/09, vol 4.
C. Aall and I. T. Norland, Local Environment, 2005, 10 (2), 159-172
K.G. Harding, J.S. Dennis, H. von Blottniz, S.T.L. Harrison, J. of Biotechnology, 2007, 130,
57-66
F. Razza, M. Fieschi, F. Degli Innocenti, C. Bastioni, Waste management, 2009, 29, 1424-
1433
M. Akiyama, T. Tsuge, Y. Doi, Polym. Degrad. and Stability, 2003, 80, 183-194

Potrebbero piacerti anche