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Mito, religione e filosofia nel pensiero greco

Francesca Cattaneo e Micol Guffanti

Parte prima: Orfismo: mito, religione e filosofia [lezioni 1- 5]


Lezione n. 1: Concezione dualistica delluomo

La parola greca psych si riferisce a unarea semantica piuttosto ampia (pu essere tradotta, a seconda del contesto, con anima, vita, spirito, coscienza; tra i suoi significati c anche quello di farfalla), che ha subto significative trasformazioni storiche: in Omero corrisponde allimmagine che si allontana dal cadavere di un defunto per raggiungere lAde, allombra spettrale con la quale si indica la persona nel suo non essere pi; le testimonianze del VI e del V secolo mostrano una trasformazione nelluso del termine psych, impiegato per indicare la personalit del vivente, particolarmente per quanto riguarda gli aspetti emotivi: la sede del coraggio, dellangoscia, della passione e della piet e, raramente prima di Platone, della ragione; fra la psych cos concepita e il corpo non sussiste nessuna conflittualit: la psych rappresenta il principio vitale (letteralmente soffio, da psychin, soffiare) intimamente connesso al corpo e ai suoi movimenti; questa concezione naturalistica viene approfondita dai filosofi della natura del VI secolo, che identificano la psych con larch, il principio cosmico della vita e del movimento: cos la psych per Anassimene essenzialmente aria, per Eraclito fuoco, per Filolao e il tardo pitagorismo armonia; occasionalmente, specie nei testi degli autori tragici, la psych si presenta come organo della coscienza e le si attribuisce una specie di intuizione non razionale: un bambino pu afferrare con la psych qualche cosa di cui non pu avere conoscenza razionale; ha una psych divina non chi pi intelligente o virtuoso, ma il veggente; si immagina che la psych abiti in qualche profondit dellorganismo e di l possa parlare a chi la possiede, con voce propria.

Per quanto la terminologia psicologica in uso nel V secolo risulti piuttosto confusa ( ormai completamente sovvertito il vocabolario omerico), appare chiaro che, se anche lidea di psych pu evocare un vago sentore di soprannaturale, lanima non considerata affatto prigioniera del corpo: piuttosto il principio vivificante il corpo, nel quale quindi si trova come a casa propria. Accanto a questa concezione naturalistica della psych si viene per formando una diversa nozione di anima, implicante un rigido dualismo anima-corpo. Proprio il dualismo fra anima (psych) e corpo costituisce lasse portante della religiosit orfica, cos detta perch ispirata alla figura del leggendario cantore tracio Orfeo, al quale vengono attribuite le dottrine e gli scritti che costituiscono il riferimento per questa forma di spiritualit. Si tratta di una corrente religiosa molto lontana dalla religione pubblica della plis e legata piuttosto alla sfera dei culti misterici per la centralit accordata al problema della salvezza personale. Le testimonianze pi antiche riconducibili alla corrente religiosa orfica sono del VI sec. a.C.; molto difficile stabilirne con certezza i caratteri, specialmente considerando che le testimonianze dirette (laminette e terracotte funerarie) sono successive e le opere integrali tramandate come orfiche sono falsificazioni di et tardo-antica e quindi circa di un millennio posteriori alle origini dellorfismo. Tramite le testimonianze indirette tuttavia possibile enucleare alcuni caratteri distintivi delle credenze legate al movimento orfico e coglierne loriginalit rispetto alla cultura greca tradizionale e insieme la pesante ricaduta sulla trasformazione di quella stessa cultura.

Per seguire le tracce di questa alternativa matrice di significati, che Rohde ha chiamato una goccia di sangue estraneo nelle vene dei Greci, occorre rifarsi alla prima testimonianza significativa in questa direzione, quella del poeta Pindaro, che trova riscontri terminologici e concettuali in Senofonte e Aristotele.
L1- T1 Unimmagine delluomo che viene dagli dei

E il corpo di tutti soccombe alla morte potente. Ma viva ancora unimmagine rimane delluomo, ch sola dagli dei viene; essa dorme, mentre operano le membra; ma dimostra nei sogni ai dormienti sovente il giudizio, che avanza, di gioie e di pene. [Pindaro, fr.116 Bowra. Traduzione di F. Sarri] Dal testo di Pindaro (prima met del V secolo) emergono alcuni spunti significativi circa il problema della natura dellanima e del suo rapporto con il corpo: laffermazione della sopravvivenza, dopo la morte del corpo, di una immagine delluomo; la giustificazione di tale sopravvivenza tramite il riferimento a una origine divina; la constatazione del rapporto di proporzionalit inversa fra attivit corporea e attivit del principio divino; la sua esemplificazione con il richiamo allesperienza dei sogni profetici.

Limmagine delluomo che rimane viva Il frammento di Pindaro esprime chiaramente e nella sua originalit lo spirito della religiosit orfica; ciononostante, per designare la psych, si serve di una perifrasi tipicamente omerica, ossia limmagine delluomo che rimane viva: questa scelta linguistica richiama da vicino lidea dellombra spettrale che si allontana dal cadavere per recarsi nellAde, tipica dellepica tradizionale. Gli Orfici possono sussumere nella loro idea di psych quella omerica di soffio vitale che al momento della morte abbandona luomo, per quanto sia apparentemente incompatibile con la divinit e immortalit dellanima: infatti la psych orfica presenta delle caratteristiche che ne consentono laccostamento alla immagine delluomo di Omero. Anche la psych divina non che immagine delluomo: non partecipa alle attivit delluomo che vive, sente, pensa, ma svolge una attivit propria che pu realizzare pienamente solo quando allenta i legami con il corpo; la sua consistenza si avvicina dunque molto a quella dello spettro omerico, la cui identit consiste propriamente nel non essere pi delluomo cui pure apparteneva.
L1- T2 Manifestazioni del divino nellanima

Io per mio conto, o figlioli, non sono mai riuscito a persuadermi di questo: che lanima, finch si trova in un corpo mortale, viva; quando se ne liberata, muoia. Vedo infatti che lanima rende vivi i corpi mortali per tutto il tempo in cui vi risiede. E neppure mi sono mai persuaso che lanima sar insensibile, una volta separata dal corpo, il quale insensibile. Anzi, quando lo spirito si separato dal corpo, allora, che sciolto da ogni mescolanza e puro, logicamente sensibile pi di prima. Allorch il corpo delluomo si dissolve, si vedono le singole parti raggiungere gli elementi della loro stessa natura, ma non lanima: essa sola, presente o assente, sfugge alla vista. Osservate poi, - prosegu,- che nessuno degli stati umani pi vicino alla morte del sonno: e lanima umana allora meglio che mai rivela con chiarezza la sua

natura divina, allora prevede il futuro, senza dubbio perch allora pi che mai libera. [Senofonte, Ciropedia, VIII, 7, 21. Traduzione di C. Carena] Lesposizione in prosa di Senofonte sembra ribadire le idee essenziali del brano di Pindaro, con alcune importanti precisazioni. In essa troviamo: la sottolineatura del rapporto di stretta intimit fra anima e corpo; ciononostante, la convinzione che un diverso destino li attenda, dopo la loro separazione: il corpo, insensibile, si dissolve e le parti che lo costituiscono raggiungono gli elementi della loro stessa natura; lanima logicamente pi sensibile di prima e sfugge alla vista; quindi, la sottolineatura della proporzionalit inversa fra attivit corporea e psichica; il richiamo alla natura divina dellanima umana; laccostamento morte-sonno e lesempio del sogno profetico. Aristotele diceva che la nozione degli dei ha avuto origine negli uomini da due fonti: dagli avvenimenti concernenti lanima e dai fenomeni celesti. Dagli avvenimenti concernenti lanima a cagione delle ispirazioni che questa ha nei sogni e nelle profezie. Quando infatti, egli dice, nel sonno lanima viene ad essere per s, allora, assunta la sua propria natura, essa prevede e predice le cose future. Tale essa anche nel separarsi dai corpi al momento della morte. Pertanto [Aristotele] approva anche il poeta Omero per il fatto che ha notato questo: ha infatti rappresentato Patroclo che, nel venire ucciso, predice luccisione di Ettore e Ettore la morte di Achille. Da questi avvenimenti, egli dice, gli uomini furono indotti a supporre che esista alcunch di divino simile per se stesso allanima e il pi capace fra tutti di avere scienza.[Aristotele, Sulla filosofia, fr.12 a Ross. Traduzione di G. Giannantoni] Oltre che dallosservazione dei fenomeni celesti, la nozione degli dei collegata da Aristotele allesperienza psichica. Come la contemplazione del cielo, lesperienza coscienziale alla portata di ciascun uomo. A garantirne linterpretazione chiamato Omero, lautorit per eccellenza; la testimonianza del poeta, per, riguarda soltanto la capacit profetica della psych dei morenti, non il passaggio fondamentale concernente il legame con il divino, che non poteva trovare riscontro nellIliade n nellOdissea, in quanto propriamente estraneo alla mentalit arcaica veicolata da quei testi. Laggancio a Omero in realt una rilettura del poeta alla luce di uno schema di pensiero pi complesso: nei sogni e nelle profezie lanima umana ispirata e prevede e predice le cose future; ci accade in virt del fatto che nel sonno lanima viene a essere per s e assume la sua propria natura; le stesse condizioni si verificano quando lanima si separa dal corpo al momento della morte, come attestano i poemi omerici; il divino qualcosa di simile per se stesso allanima.

L1- T3 Dallanima al divino

La matrice dei nuovi significati dellidea di psych legati al dualismo anima-corpo e la ragione del radicale capovolgimento del concetto omerico ma anche naturalistico di psych rappresentata dalla idea dellorigine divina dellanima. Si incomincia cos a parlare della presenza, nelluomo, di una scintilla divina e immortale, proveniente dagli dei e situata nel

corpo; dal momento per che la sua natura decisamente antitetica a quella del corpo, pu essere veramente se stessa quando i vincoli con il corpo si allentano, quindi quando il corpo dorme oppure si appresta a morire. Questa nozione di psych pare non potersi ricollegare alla religione popolare dei Greci, quanto piuttosto alle speculazioni dei teologi o sapienti, le cui figure (Abaris, Aristea, Ermotimo, Epimenide, Ferecide) richiamano echi della tradizione sciamanica originatasi nel mondo scitico, come anche delle credenze indoiraniche sullimmortalit. Tali credenze sembrano passare nei misteri, nelle sette religiose chiuse dedite al culto di Dioniso e, in epoca coeva alla nascita della filosofia greca, nellorfismo.

Lezione n. 2: Metempsicosi, colpa originaria e purificazioni

La mentalit greca interpreta le credenze sciamanistiche in senso morale: il fatto che lanima divina sia racchiusa in un corpo giudicato come un castigo. Questa interpretazione, veicolata dallorfismo, offre una risposta convincente ad alcune esigenze logiche, morali e psicologiche dei Greci della fine dellet arcaica. Determinando una significativa discontinuit rispetto alla mentalit corrente, lorfismo non si limita ad affermare lesistenza di premi e castighi nelloltretomba (solo in casi eccezionali e limitati, se ne trova traccia anche in Omero) o a parlare di rinascita delle anime (eventualit ammessa, anche se solo per pochi), ma estende la reincarnazione a tutte le anime senza distinzione e le attribuisce valore morale: la reincarnazione diventa un peso anzich un privilegio ed funzionale a spiegare la disparit delle sorti individuali, dimostrando, come afferma un poeta pitagorico, che le sofferenze degli uomini sono volute da loro stessi. La dinamica di sviluppo la seguente: con lo sviluppo del concetto di moralit, si fa sempre pi urgente il bisogno di razionalizzare il senso oscuro di colpa dominante nellet arcaica: la credenza nella ereditariet della colpa diventa sempre pi intollerabile, mentre si pone il problema di giustificare le sofferenze apparentemente inspiegabili degli innocenti; secondo la dottrina orfica, non esistono propriamente anime innocenti: tutti scontano colpe di varia gravit commesse nelle vite anteriori; la credenza nella trasmigrazione della psych, nota come metempsicosi, riguarda appunto la necessit della psych di entrare, dopo la morte, in un altro corpo per potere completare con le sofferenze della reclusione corporea il necessario ciclo delle purificazioni; per ciascuna anima permane dunque la validit della misura arcaica della giustizia, secondo la quale chi ha peccato, pagher; tale misura si realizza per sul metro del tempo cosmico.

Lesistenza nel corpo dunque per la psych occasione di espiazione: se ne troverebbe testimonianza nello stesso uso linguistico, che si serve di parole molto simili per indicare il corpo (sma) e la tomba (uno dei significati di sma):
L2- T1 La tomba dellanima

Difatti alcuni dicono che il corpo tomba [sma] dellanima, quasi che essa vi sia presentemente sepolta: e poich daltro canto con esso lanima esprime [seminei] tutto ci che esprime, anche per questo stato chiamato giustamente segno [sma]. Tuttavia mi sembra che siano stati soprattutto i seguaci di Orfeo ad aver stabilito questo nome, quasi che lanima espii le colpe che appunto deve espiare, e abbia intorno a s, per essere custodita [szetai] questo recinto, sembianza di una prigione. Tale carcere dunque, come dice il suo nome, custodia [soma] dellanima, sinch essa non abbia finito di pagare i suoi debiti, e non c nulla da cambiare, neppure una sola lettera. [Platone, Cratilo, 400c. Traduzione di G. Colli] Oltre a ribadire alcuni aspetti del rapporto anima-corpo in continuit con i testi precedenti, questo brano di Platone offre un significativo riferimento allidea di espiazione di una colpa e di saldo di un debito, di cui viene individuata la matrice, senza per precisarne i contorni. Cos il testo presenta il corpo: il corpo segno: grazie a esso che lanima esprime tutto ci che esprime;

il corpo tomba dellanima, recinto con laspetto di una prigione, custodia: allinterno, lanima espia le colpe che deve espiare, fino a che non abbia saldato il suo debito; questa dottrina da attribuirsi soprattutto ai seguaci di Orfeo.

Altrettanto incisiva la descrizione aristotelica:


L2- T2 Il supplizio degli Etruschi

Considerando questi errori e queste tribolazioni della vita umana, sembra talvolta che abbiano visto qualcosa quegli antichi, sia profeti sia interpreti dei disegni divini nella narrazione delle cerimonie sacre e delle iniziazioni, i quali hanno detto che noi siamo nati per pagare il fio di alcuni delitti commessi in una vita anteriore, e sembra vero ci che si trova presso Aristotele, ossia che noi subiamo un supplizio simile a quello patito da coloro che in altri tempi, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, venivano uccisi con una crudelt ricercata: i corpi vivi di costoro erano legati assieme a dei morti con la massima precisione, dopo che la parte anteriore di ogni vivo era stata adattata alla parte anteriore di un morto. E come quei vivi erano congiunti ai morti, cos le nostre anime sono strettamente legate ai corpi.[Aristotele, Protrettico, fr.10 b. Traduzione di G. Colli] Rispetto al contributo precedente, il testo mette a fuoco con maggiore precisione la motivazione e la consistenza del debito della psych; in esso si riscontrano di nuovo la sottolineatura dello stretto legame fra anima e corpo e, allinterno di esso, la distinzione fra il principio vivo, rappresentato dallanima, e la pura passivit caratteristica del corpo; emergono per anche: la caratterizzazione dellunione anima-corpo come ricercato supplizio; la giustificazione del supplizio: noi siamo nati per pagare il fio di alcuni delitti commessi in una vita anteriore; lattribuzione di questa convinzione agli antichi, sia profeti sia interpreti dei disegni divini e il riscontro di questa matrice culturale nel primo Aristotele.

interessante rilevare come il motivo della reminiscenza, di importanza fondamentale nella filosofia platonica, ma molto probabilmente gi in quella pitagorica, potrebbe essere stato originariamente legato proprio alla necessit di educare la memoria al ricordo di una vita anteriore, ragione delle sofferenze di quella presente. Restano da chiarire le modalit dellespiazione:
L2- T3 Il contrappasso

Questo sia detto come preludio alla trattazione di questa materia, e si aggiunga a questo la tradizione, alla quale, quando ne sentono parlare, molti di coloro, che nelle iniziazioni ai misteri sinteressano di queste cose, prestano molta fede, che, cio, nellAde vi una punizione per tali misfatti, e che gli autori di essi, tornati qui di nuovo, devono necessariamente pagare la pena naturale, quella, cio, di patire ci che hanno fatto, terminando in tal modo per mano daltri la novella vita. [Platone, Leggi, IX, 870 d-e. Traduzione di A. Cassar] Il testo prosegue offrendo esempi concreti in proposito: chi ha ucciso il padre deve sopportare che un giorno lo stesso trattamento gli sia riservato da parte dei figli; il matricida deve rinascere di sesso femminile e morire per mano dei figli; lanima colpevole deve pagare luccisione con luccisione, il simile con il simile. Dunque:

il castigo che attende i malvagi dopo la morte consiste nel tornare di nuovo in vita e scontare la pena naturale, cio patire ci che hanno fatto.

Terminato il ciclo delle reincarnazioni, lanima ha finalmente accesso al premio che realizza il suo destino pi pieno. Circa la natura dei premi riservati alle anime purificate, le testimonianze offerte dalle laminette auree trovate presso alcune tombe presentano versioni diverse: nella laminetta trovata a Petelia si dice che il destino dellanima quello di regnare insieme agli Eroi; quella di Ipponio afferma che lanima purificata nellaldil fa molta strada per le vie che percorrono anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso. Numerose laminette trovate a Turi assegnano allanima il recupero della sua divinit originaria. Convivono comunque, nella descrizione dellaldil, una componente originale propriamente orfica, e un quadro tradizionale: nella maggior parte dei casi, il premio dellanima che si purificata scontando la sua pena naturale consiste nel rinascere dio; laldil descritto idealizzando la realt terrena e collocando i beati in un rapporto di armonia con gli dei.

Resta comunque da spiegare per quale motivo un principio divino si macchia di colpe e si purifica da esse in un corpo mortale, vale a dire, secondo le parole di un poeta pitagorico, da dove proviene lumanit, e perch divenne cos cattiva. A questa domanda risponde la teogonia orfica, un complesso di narrazioni mitologiche destinate, in conformit con le teogonie tradizionali greche e in particolare con quella esiodea, a illustrare larticolarsi delle genealogie divine e linstaurarsi dei regni dei vari dei e a svolgere cos una cosmologia mitica in grado di abbracciare la generazione di tutto luniverso. La particolarit della teogonia orfica risiede per nel fatto di chiudersi con la spiegazione dellorigine della stirpe degli uomini e del bene e del male che in essi: questo fa s che il racconto mitico possa rappresentare la base per una dottrina etica. La teogonia orfica di difficile ricostruzione: le fonti decisive sono infatti molto tarde, e legate alla testimonianza dei Neoplatonici; questa duplice limitazione rischia di comprometterne lattendibilit, soprattutto perch lorfismo ha subito un processo di trasformazione plurisecolare che ben presto ha reso difficile distinguere gli elementi pi antichi dalle aggiunte successive. Alcuni elementi sembrano per appartenere alla narrazione originaria. Quando Zeus conquista il dominio del mondo dopo avere divorato Phanes da cui aveva avuto origine ogni cosa, plasma di nuovo luniverso. Unitosi con Rhea Zeus genera Persefone, dalla quale ha Dioniso. A questi, per quanto giovanissimo, viene attribuito il potere sul mondo e la signoria sugli dei. I Titani, per, invidiosi di Dioniso e probabilmente sobillati da Era, gli tendono una trappola.
L2- T4 Dioniso sbranato dai Titani

[] Intorno a lui ancora fanciullo si agitano in una danza armata i Cureti, ma i Titani si insinuano con lastuzia: dopo di averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ecco che questi Titani lo sbranarono, sebbene fosse ancora un bambino, come dice il poeta delliniziazione, Orfeo il Tracio [] [Clemente Alessandrino, Protrettico, 2, 17- 18. Traduzione di G. Colli] I Titani dunque, dopo averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi (tra cui lo specchio) fanno a pezzi Dioniso. Atena riesce a salvare solo il suo cuore, da cui Zeus genera un nuovo

Dioniso. I Titani per punizione vengono fulminati da Zeus e dalla loro cenere nascono gli uomini. Luomo si presenta, in questa concezione, come unione di elemento divino, dionisiaco, e elemento titanico. Si spiega cos la tendenza al bene e al male presente in ogni uomo: alla parte dionisiaca corrisponde lanima, alla parte titanica il corpo. Il compito morale che ne deriva quello di liberare lelemento divino dallinvolucro titanico. Il ciclo delle rinascite finalizzato a liberare luomo da questa colpa originaria. Per affrettare la liberazione dellelemento divino, si rende necessario un esercizio di purificazione. Il concetto di catarsi non rappresenta un elemento originale orfico: infatti al centro degli interessi del pensiero religioso anche durante let arcaica; certamente, allinterno dello schema antropologico prospettato dallorfismo, il tema della catarsi acquista un ruolo e unurgenza assolutamente prioritari: a garantire la salvezza la purezza, prima ancora che la giustizia. Tra le pratiche catartiche maggiormente attestate vanno inclusi la partecipazione a riti e cerimonie, spesso centrate sulluccisione di Dioniso a opera dei Titani, la pronuncia di formule a carattere magico e il vegetarianismo (considerato corollario naturale della metempsicosi, ma legato, pi in profondit, alla regola che comandava di astenersi da qualsiasi spargimento di sangue). Particolari declinazioni dellideale catartico si riscontrano presso alcuni filosofi che hanno aderito alle dottrine orfiche.
Nodi

considerazione della vita del principio divino nel corpo come castigo trasmigrazione in diversi corpi finalizzata allespiazione di una colpa originaria duplice natura della stirpe umana illustrata dalla teogonia orfica liberazione dellelemento divino ruolo fondamentale della catarsi

Lezione n.3: Pitagorismo, Empedocle e Eraclito

Uno dei pochi dati certi riguardo alla figura di Pitagora (VI sec. a.C.), per molti aspetti avvolta dal mistero, la sua adesione alla dottrina orfica della metempsicosi. Il contemporaneo Senofane, secondo quanto riferisce Diogene Laerzio, poteva scherzare sulla compassione di Pitagora nei confronti di un cagnolino bastonato:
L3- T1 La metempsicosi

Dicono che egli passando accanto a un cagnolino che veniva percosso ne abbia avuto piet e abbia detto a chi lo percuoteva cos: Cessa, non percuoterlo, poich dun uomo amico lanima che io riconobbi, udendo la sua voce.[Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII,36. Traduzione di M. Gigante] Altre notizie ben attestate riguardano viaggi di Pitagora nel Vicino Oriente e in Egitto: il filosofo si sarebbe fatto discepolo degli Egiziani. Lo storico Erodoto stabilisce addirittura una linea di continuit fra tradizione egiziana, rituali orfici e dionisiaci e Pitagorismo. Al termine dei suoi viaggi, Pitagora si sarebbe stabilito a Crotone, fondando una comunit dal carattere esclusivo, organizzata secondo una rigida gerarchia, vincolata al silenzio circa alcune verit fondamentali e con laspetto insieme di setta religiosa e centro di studi scientifici. Questo duplice aspetto del sodalizio pitagorico si spiega tenendo in considerazione la concezione pitagorica della catarsi: le pratiche di purificazione dellanima includono lesercizio e lascolto della musica, nonch lo studio dellarmonica e degli intervalli musicali; lesercizio ascetico legato alla indagine naturalistica, finalizzata a svelare larmonia sottesa alla simpatia e corrispondenza universale, secondo una concezione magica probabilmente alla base delle stesse indagini matematiche; pi in generale, strumento di perfezionamento la filosofia (il termine sarebbe stato impiegato per la prima volta proprio allinterno della cerchia pitagorica); Pitagora, che diventato discepolo degli Egiziani port per primo in Grecia tutta la filosofia, oltre a dedicarsi ai sacrifici e alle cerimonie dei riti sacri, diventa il modello della vita pitagorica, fatta di studio e ascesi.

Per quanto limpegno di indagine scientifica sia recuperato dai Pitagorici nel quadro delle credenze orfiche come mezzo privilegiato di purificazione della psych, la dottrina dellanima che elaborano e successivamente sviluppano come approdo della loro ricerca sulla natura sembra semplicemente giustapporsi alla concezione di matrice orfica, senza potersi armonizzare con i suoi fondamenti. Per quanto la ricostruzione delle tesi del pitagorismo antico risulti problematica, pare che la considerazione scientifica della psych porti a identificarla con il numero o le propriet del numero; questa posizione avrebbe poi potuto con una certa coerenza evolvere verso la dottrina dellanima-armonia. Sempre al Pitagorismo sarebbe da attribuire la dottrina dellanima come pnuma, soffio vitale, in stretta relazione con la cosmologia. Nonostante le oscillazioni, non certo trascurabili, chiaro che lapproccio scientifico conduce i Pitagorici nel solco dellindagine naturalistica che identifica nella psych un frammento dellarch, il principio cosmico della vita e del movimento. Questo conduce certamente a riconoscere alla psych divinit e immortalit, ma limmortalit intesa come impersonale ricongiungimento allarch, laddove le dinamiche della colpa e della purificazione implicate dalla fede orfica comportano necessariamente la conservazione dellindividualit nel

succedersi delle reincarnazioni. Il contrasto pi stridente si manifesta per a proposito del dualismo, fondamentale conseguenza della concezione orfica assolutamente inconciliabile con una prospettiva di tipo naturalistico, impegnata viceversa a sottolineare la continuit fra cosmologia e antropologia, fra lorganismo macrocosmico e quello microcosmico. La giustapposizione di indagine naturalistica e credenze orfiche si riscontra in maniera ancora pi evidente e quindi problematica se si considera la figura di Empedocle di Agrigento, vissuto a cavallo della met del V sec. Autore di un poema Sulla Natura in cui, intrecciando i registri espressivi della narrazione mitica e dellargomentazione razionale, tenta una sintesi fra logica delleleatismo e tradizione naturalistica, Empedocle scrive anche le Purificazioni, testo nel quale si presenta come divino taumaturgo. Diverse ipotesi sono state avanzate per dare coerenza a una produzione cos eterogenea: i testi stessi smentiscono che si possano comporre le divergenze mettendo in campo ragioni evolutive e attribuendo i due testi di Empedocle a due periodi della sua vita (a una attenta lettura risulta che nello stesso poema Sulla Natura compaiono riferimenti alle dottrine religiose orfiche e ai poteri straordinari dellautore, che rivendica le facolt di tenere a freno i venti, comandare le piogge e risuscitare i morti); difficile anche parlare di Empedocle come personalit filosofica sintetizzante, perch ci che sembra mancare proprio la sintesi delle due componenti del suo pensiero; come Pitagora, Empedocle sembra piuttosto un rappresentante del tipo dello sciamano, insieme scienziato naturalista e predicatore, poeta e filosofo, taumaturgo e pubblico consigliere. Ecco come, nelle Purificazioni, dimostra di accogliere i temi fondamentali della fede orfica:
L3- T2 Colpa e espiazione

E c, come un dato ineluttabile, lantico decreto degli dei, sempiterno, suggellato con ampi rescritti giurati, allorch per erramenti un uomo insozzi le proprie mani [con il sangue. <Ed questo:> chi risulta spergiuro per la colpa [commessa, dovr migrare lontano dai beati, che come demoni longevi [hanno raggiunto la vita, per tre volte diecimila stagioni, rinascendo attraverso il tempo in molteplici forme di corpi [mortali, permutando i procellosi cammini della propria esistenza. Cos ora sono esule anchio per il decreto divino ed errante affidato allastio furibondo [Empedocle, Poema Lustrale, fr.103 Gallavotti. Traduzione di C. Gallavotti] Lesilio della vita terrena si consuma nella consapevolezza della caduta da uno stato di perfezione originaria:
L3- T3 Precipitati dalla grandezza

Oh sciagura!, o stirpe meschina dei mortali, oppure infelice, da tali contese siete nati e da questi lamenti, e da quale dignit precipitando e dalla grandezza di quanta [felicit. [Empedocle, Poema Lustrale, fr.115-116 Gallavotti. Traduzione di C. Gallavotti]

Empedocle accoglie dunque le istanze fondamentali dellorfismo: lanima individuale deve pagare per una colpa originaria; lespiazione della colpa originaria passa attraverso il ciclo delle reincarnazioni.

Non si possono per dimenticare gli elementi di matrice segnatamente pitagorica: il ciclo delle reincarnazioni si presenta molto lungo e complesso; lattivit intellettuale ritenuta un esercizio di purificazione.

Anche nel caso di Empedocle fondamentale, per comprendere il problema della presenza concomitante di elementi di marca naturalistica e elementi orfici, analizzare la concezione dellanima che emerge dai testi: il termine psych compare in Empedocle una volta soltanto, con il significato di vita; per indicare lanima di origine divina che passa attraverso il ciclo delle successive reincarnazioni, Empedocle parla di daimon, mentre quando fa riferimento alla sede dei processi conoscitivi ne parla come di un principio impersonale, diversamente distribuito ma comunque presente in tutta la natura; grazie alle quattro radici di tutte le cose (revisione pluralistica dellarch dei filosofi ionici) che tutte le cose sono in connessione armoniosa, ciascuna con la parte a lei destinata di conoscenza e di pensiero; la conoscenza si fonda sullarmonia del simile con il simile: quindi plausibile, nelluomo, indicarne la sede principalmente nel sangue, risultato della mescolanza delle quattro radici (aria, acqua, terra e fuoco).

Il naturalismo di Empedocle e in particolare la concezione della conoscenza come rapporto del simile con il simile gli impediscono di fare propria una intuizione fondamentale per la psicologia antica, quella conquistata da Eraclito di Efeso (seconda met VI sec. - prima met V). Eraclito fa proprie le idee fondamentali della spiritualit orfica, che esprime nel suo caratteristico stile aforismatico, vicino allenigma e alla profezia oracolare:
L3- T4 Vivere morire

Immortali mortali, mortali immortali, vivendo la morte di quelli, morendo la vita di quelli. [Eraclito, fr.22 B62 DK]
L3- T5 Loltretomba

Dopo la morte attendono gli uomini cose che essi non sperano e neppure immaginano. [Eraclito, fr.22 B27 DK] I riferimenti si inscrivono allinterno delle coordinate classiche della dottrina orfica: la vita terrena si configura come esistenza decaduta; intercorre fra vita corporea e vita dellanima di origine divina un rapporto proporzionalit inversa; dopo la morte lanima va incontro a premi o castighi. di

Il guadagno fondamentale di Eraclito non riguarda infatti una rivisitazione delle dottrine orfiche, quanto piuttosto una svolta fondamentale impressa alla speculazione naturalistica e conseguentemente alla psicologia modellata su di essa: la psych fatta coincidere con larch, il fuoco cosmico; al principio per attribuita lintelligenza, che viene quindi a essere una caratteristica propria anche della psych. Anche nella psych si manifesta infatti lattivit del lgos, la regola che governa tutte le cose attraverso tutte le cose. Questa fondamentale acquisizione apre alla psych una nuova dimensione; a rivelarlo sono le metafore spaziali impiegate dallo stesso Eraclito:
L3- T6 Unanima senza confini

I confini della psych non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda fino in fondo nel percorrere le sue strade: cos profondo il suo lgos. [Eraclito, fr. 22 B 45 DK]
L3- T7 Unanima che si accresce

C un lgos della psych che accresce se stesso. [Eraclito, fr.22 B 115 DK] Lanima si presenta come lunica realt del mondo umano in grado di partecipare della potenza del lgos e non di subirla: grazie alla continuit garantita dal lgos che possibile per luomo superare lestraneit rispetto al mondo ed in virt dellonnipresenza del lgos che non si d contrapposizione fra indagine del macrocosmo e del microcosmo (Eraclito pu parlare della sua ricerca scrivendo: Ho indagato me stesso). Certamente anche questo tipo di considerazione della psych non esce dal solco del naturalismo, con la conseguenza inevitabile dellimpersonale omogeneit di anima e arch: tuttavia lidentificazione di anima e intelligenza, per quanto attuata attraverso il medium rappresentato dalluniversale presenza del lgos, rappresenta un traguardo del pensiero naturalistico che, lasciato cadere da Empedocle, destinato ad agire in profondit sullo sviluppo del concetto di anima fino alla rivoluzione socratica.
Nodi

attivit intellettuale come strumento di purificazione in Pitagora e Empedocle giustapposizione di concezione naturalistica e concezione orfica della psych identificazione di psych e intelligenza in Eraclito

Lezione n. 4: La rivoluzione socratica

Il tentativo di valutare lapporto di Socrate nellambito dello sviluppo del concetto greco di psych si scontra inevitabilmente con lostacolo rappresentato dal margine di aleatoriet che caratterizza qualsiasi ricostruzione del pensiero di questo autore. La totale assenza di testimonianze dirette costringe, anche per quanto riguarda questo tema, a ipotizzare quale possa essere stato il contributo di Socrate tramite approssimazioni successive, attraverso il confronto delle testimonianze indirette. I testimoni cui fare riferimento sono: Aristofane: la fonte pi antica; la sua commedia, Le Nuvole, assume il tono della parodia per accusare Socrate di essere il peggiore dei sofisti e allo stesso tempo filosofo naturalista vicino alle dottrine di Diogene di Apollonia; Platone: attribuisce a Socrate il ruolo di protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi; la sua testimonianza va vagliata considerandone lintento di esaltazione della figura di Socrate, spesso trasfigurata fino a assumere valore di simbolo; occorre poi considerare che nei dialoghi platonici Socrate si fa portavoce delle dottrine platoniche; Senofonte: i Detti memorabili e altri scritti minori che hanno Socrate come protagonista sono per la maggior parte opere della vecchiaia dellautore, uditore di Socrate solo per brevissimo tempo e durante la giovinezza; Aristotele: pur offrendo contributi importanti, non un contemporaneo e per di pi parla di Socrate solo sporadicamente; i fondatori delle Scuole socratiche minori, le cui testimonianze sono scarse e filtrate attraverso le rispettive riletture dellinsegnamento socratico.

Anche se le innumerevoli difficolt che si incontrano cercando di orientarsi attraverso questi riferimenti tendono a sfumarne irrimediabilmente i contorni, non si pu fare a meno di sottolineare il carattere decisivo del contributo socratico, in particolare per quanto riguarda levoluzione del concetto di psych. Proprio su questo punto infatti sembra pi netta la distinzione fra il prima e il dopo Socrate, tanto da far parlare di rivoluzione socratica. Per documentarne la consistenza, vale la pena di rivolgersi innanzitutto alla platonica Apologia di Socrate, probabilmente il documento pi cospicuo e attendibile sulla figura storica di Socrate. Levento cui lApologia fa riferimento il processo intentato contro Socrate nel 399 a.C. Difendendosi contro i suoi accusatori, Socrate mette a fuoco loggetto fondamentale della sua indagine filosofica:
L4- T1 Sapienza umana

Ebbene, che cosa affermavano i miei calunniatori nel calunniarmi? Dobbiamo leggere il loro atto di accusa, come se fossero accusatori veri e propri: Socrate commette ingiustizia e si d molto da fare, indagando le cose che stanno sotto terra e quelle celesti, facendo apparire pi forte il ragionamento pi debole e insegnando queste medesime cose anche agli altri. Questa laccusa che mi fanno. E queste stesse cose le avete viste nella commedia di Aristofane, un Socrate che l viene portato attorno, dicendo di camminare nellaria e molte altre sciocchezze: tutte cose queste di cui io non mi intendo n molto n poco. Dico ci in quanto ho disprezzo per una scienza come quella, posto che ci sia qualche sapiente di tali cose. Che io non debba ricevere da Meleto anche unaccusa di tal genere! Dico, invece, che di queste cose, o cittadini ateniesi, io non faccio assolutamente ricerca. Chiamo a testimoni, di nuovo, la maggior parte di voi. E ritengo opportuno che vi informiate a vicenda e che riferiate le vostre opinioni, quanti mi avete sentito discutere. E siete in molti che mi avete sentito! Consultatevi dunque a vicenda, se c qualcuno di

voi che mi abbia mai udito discutere di cose di tal genere, o poco o molto. E cos vi renderete conto che anche le altre cose che i pi dicono di me sono come queste. In realt, niente di tutto questo vero. E se poi avete udito da qualcuno che io cerco di educare uomini e che esigo danaro, neanche questo vero. In realt mi sembra che sia una cose bella, se uno in grado di educare uomini, come sono in grado di farlo Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo e Ippia di Elide. [] Ma di tali cose non ho proprio conoscenza, cittadini di Atene!. Ora, qualcuno di voi potrebbe fare questa considerazione: Ma allora, o Socrate, quale la tua occupazione? Da che cosa ti sono derivate queste calunnie? Certamente non perch non ti occupavi di nulla di pi straordinario degli altri, si sono levate queste voci e una fama cos grande. Non sarebbero sorte, se tu non avessi fatto nulla di diverso rispetto agli altri. Devi dirci, dunque, che cos, affinch non ti giudichiamo in modo sconsiderato. Chi dice ci, mi sembra che dica il giusto. E io cercher di mostrarvi che cosa ha dato origine alla cattiva fama e alla calunnia contro di me. Dunque, ascoltatemi! Forse a qualcuno di voi sembrer che io stia scherzando. Ma seppiatelo bene: io vi dir tutta la verit. Io, cittadini ateniesi, mi sono procurato questa rinomanza non per altro che per una certa sapienza. Quale questa sapienza? Quella che, forse, una sapienza umana. Infatti, di questa pu darsi veramente che io sia sapiente. Invece, quei tali di cui poco fa parlavo, o saranno sapienti di una sapienza superiore rispetto a quella umana, o non so che cosa dire. Certamente, io non conosco questa sapienza. E chi dice, invece, che la conosco, mente; e lo dice per calunniarmi. [Platone, Apologia di Socrate, 19b-20e. Traduzione di G. Reale] Socrate accusato: di indagare le cose che stanno sotto terra e quelle celesti: per comprendere come questa attivit potesse in certi casi diventare un capo di imputazione, basta citare il precedente non lontano di Anassagora, processato nel 433 a.C. ad Atene proprio per empiet; di far apparire pi forte il ragionamento pi debole: tramite questa insinuazione laccusa vuole parificare linsegnamento socratico e quello dei sofisti, mirante alla persuasione e non alla verit.

Nel rispondere, Socrate chiama gli Ateniesi stessi a testimoni della sua estraneit allindagine naturalistica e alla sofistica: riconosce lesistenza e la diffusione dellopinione che lo vorrebbe filosofo naturalista; cita direttamente Aristofane e la parodia delle Nuvole, la quale sfrutta fra laltro il fatto che Socrate era stato discepolo di Archelao di Atene, che poneva laria infinita come principio delle cose; chiarisce il suo disprezzo nei confronti di una scienza che voglia indagare le cose che stanno sotto terra e quelle celesti e mette in dubbio addirittura che possa esserci qualche sapiente di tali cose: in ogni caso, riconosce la propria ignoranza in proposito (tutte cose queste di cui io non mi intendo n molto n poco); insinua il dubbio anche circa la possibilit di dispensare insegnamenti circa le virt delluomo e del cittadino, alla maniera dei sofisti: ritiene certamente che sia una cosa

bella, se uno in grado di educare uomini, ma nel suo caso specifico non esita a ammettere di non avere alcuna conoscenza in merito; dopo avere per due volte ribattuto alle accuse invocando la propria ignoranza, ammette che le calunnie nei suoi confronti derivano da una certa sapienza, che ammette di possedere: una sapienza umana.

Il magistero di Socrate in Atene inizia quando il filosofo si lasciato definitivamente alle spalle linteresse per la filosofia naturalistica e ha circoscritto la sua indagine alla sapienza umana. Questo nuovo tipo di sapere umano in quanto: prende le mosse dalla consapevolezza della limitatezza della capacit conoscitiva delluomo: gi dal testo sopra riportato chiaro come la sapienza umana delimiti il proprio perimetro in relazione a vaste regioni dichiaratamente consegnate allignoranza o allillusione di una sapienza superiore rispetto a quella umana; mette esplicitamente a fuoco quello delluomo come il problema filosofico per eccellenza.

Seguire litinerario del pensiero di Socrate quindi innanzitutto chiedersi quale sia lessenza delluomo e portarsi cos alle radici, non raggiunte dalla sofistica che pure aveva indagato i problemi delluomo, della filosofia morale.
L4- T2 Che cos luomo

Socrate. Potremo mai sapere quale arte renda migliore noi stessi, mentre ignoriamo chi siamo noi stessi? Alcibiade. impossibile. Socrate. Ma forse facile conoscere se stessi ed era un buono a nulla colui che ha posto quelliscrizione sul tempio di Delfi, oppure si tratta di una cosa difficile e non alla portata di tutti? Alcibiade. Molte volte, Socrate, mi sembrata una cosa alla portata di tutti, molte volte, invece, assai difficile. Socrate. Tuttavia, Alcibiade, che sia facile oppure no, per noi la questione si pone cos: conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre, se lo ignoriamo, non lo possiamo proprio sapere. Alcibiade. cos. Socrate. Ebbene, in quale modo si potrebbe trovare questo se stesso? Cos, infatti, scopriamo chi siamo, mentre, finch lo ignoriamo, ci sar impossibile. Alcibiade. Dici bene. Socrate. Fermati, per Zeus! Con chi stai parlando ora? Non stai parlando con me? Alcibiade. S. Socrate. E anchio con te? Alcibiade. S. Socrate. Socrate, allora, colui che parla? Alcibiade. Proprio. Socrate. Mentre Alcibiade colui che ascolta? Alcibiade. S. Socrate. Ma Socrate non discute forse con parole? Alcibiade. ovvio. Socrate. Il discutere e il servirsi di parole per te coincidono? Alcibiade. Senzaltro. Socrate. Ma chi si serve e ci di cui si serve non sono differenti? Alcibiade. Come dici? Socrate. Per esempio il calzolaio taglia con il trincetto, la lesina e altri strumenti.

Alcibiade. S. Socrate. Pertanto, chi taglia e si serve di qualcosa diverso da ci che, tagliando, usa? Alcibiade. Come no? Socrate. E cos anche gli strumenti di cui si serve il suonatore di cetre sono diversi dal citarista stesso? Alcibiade. S. [] Socrate. Dunque, calzolaio e citarista sono diversi dalle mani e dagli occhi di cui si servono? Alcibiade. chiaro. Socrate. E luomo non si serve di tutto il corpo? Alcibiade. Senzaltro. Socrate. Ma non ci risultava diverso chi si serve di qualcosa da ci di cui si serve? Alcibiade. S. Socrate. Pertanto luomo diverso dal suo corpo? Alcibiade. Sembra di s. Socrate. Che cos, allora, luomo? Alcibiade. Non so che cosa rispondere. Socrate. Per sai che ci che si serve del corpo. Socrate. Vi forse qualcosaltro che se ne serve, al di fuori dellanima? Alcibiade. Nientaltro. [] Socrate. Lanima quindi ci ordina di conoscere chi ci comanda conosci te stesso. [Platone, Alcibiade Maggiore, 128e-131a. Traduzione M.L. Gatti] Il monito delfico Conosci te stesso pu senza dubbio essere assunto quale cifra del filosofare socratico: la stessa urgenza dellesigenza morale pu trovare opportuna risposta solo a partire da unadeguata analisi introspettiva, come evidenziato in apertura del testo. Chi dunque il te stesso che loracolo comanda di conoscere? Attraverso alcuni semplici passaggi, Alcibiade messo nella condizione di poter rispondere: il primo esempio prende spunto dallesperienza del colloquio in atto: gli interlocutori parlano, e per fare ci si servono dello strumento rappresentato dalle parole; seguono altri esempi: il calzolaio svolge il suo lavoro servendosi degli strumenti caratteristici (trincetto, lesina) e cos il citarista; sempre mantenendo gli esempi precedenti, si guadagna un ulteriore acquisizione: nel lavoro, anche alcune parti del corpo intervengono come strumenti specializzati (mani, occhi); se si considera quel particolare mestiere che lessere uomo, ci si accorge che a essere impiegato come strumento tutto il corpo; anche in questultimo caso, come nei precedenti, va tenuta ferma la regola per cui diverso chi si serve di qualcosa e ci di cui si serve; dunque luomo non corpo, ma ci che si serve del corpo: luomo lanima, unanima che si serve del corpo come strumento.

Letica socratica prende le mosse proprio dallidentificazione delluomo con la sua anima, e dalla particolare concezione dellanima propria di Socrate. Ecco come il filosofo presenta la propria originale attivit di educatore della citt, che considera missione divina:
L4- T3 La missione di Socrate

Cittadini ateniesi, vi sono grato e vi voglio bene; per ubbidir pi al dio che a non a voi; e finch abbia fiato e sia in grado di farlo, io non smetter di filosofare, di esortarvi e di farvi capire, sempre, chiunque di voi incontri, dicendogli quel tipo di cose che sono solito dire, ossia queste: Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della Citt pi grande e pi famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnarne il pi possibile e della fama e dellonore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verit e della tua anima, in modo che diventi il pi possibile buona?. E se qualcuno di voi dissentir su questo e sosterr di prendersene cura, non lo lascer andare immediatamente, n me ne andr io, ma lo interrogher, lo sottoporr ad esame e lo confuter. E se mi risulter che egli non possegga virt, se non a parole, lo biasimer, in quanto tiene in pochissimo conto le cose che hanno maggior valore, e in maggior conto le cose che ne hanno molto poco. E far queste cose con chiunque incontrer, sia con chi pi giovane, sia con chi pi vecchio, sia con uno straniero, sia con un cittadino, ma specialmente con voi, cittadini, in quanto mi siete pi vicini per stirpe. Infatti queste cose, come sapete bene, me le comanda il dio. E io non ritengo che ci sia per voi, nella Citt, un bene maggiore di questo mio servizio al dio. Infatti, io vado intorno facendo nientaltro che cercare di persuadere voi, e pi giovani e pi vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, n delle ricchezze, n di alcunaltra cosa prima e con maggiore impegno che dellanima, in modo che diventi buona il pi possibile, sostenendo che la virt non nasce dalle ricchezze, ma dalla virt stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico. [Platone, Apologia di Socrate, 29d-30b. Traduzione di G. Reale.] Il testo evidenzia la portata dirompente dellidentificazione dellessenza delluomo con lanima; Socrate: caratterizza il suo filosofare come continuo interrogare e sottoporre a esame gli interlocutori per metterli sulla strada della virt; capovolge la gerarchia dei valori: rimprovera infatti agli Ateniesi di tenere in maggiore conto le cose che hanno scarso valore e di darsi pensiero unicamente delle ricchezze, della fama e dellonore; recupera il primato della virt rispetto a qualsiasi altro bene; riannoda la virt allessenza delluomo: coltivare la virt significa darsi pensiero della saggezza, della verit e della propria anima, in modo che diventi il pi possibile buona.

Il fatto che vengano accomunate la cura per la saggezza, per la verit e per la propria anima chiarisce un aspetto essenziale della rivoluzione socratica: lanima, che rappresenta per Socrate lessenza delluomo, la coscienza pensante e operante, il soggetto dellattivit intellettuale e morale. In definitiva, uno sguardo complessivo sulla dottrina socratica dellanima non pu fare a meno di sottolineare il ruolo decisivo di due componenti, gi anticipate, senza svilupparne tutte le implicazioni, da Eraclito: linteresse per lindagine introspettiva lidentificazione della psych con la sede dellintelligenza individuale;

Anche la matrice orfica rappresenta un riferimento imprescindibile; nellappello socratico alla cura dellanima convergono: la concezione della psych come individuale (legata nellorfismo alla necessit della conservazione della medesima identit attraverso le successive trasmigrazioni); la convinzione del primato dellanima sul corpo e linsistenza sulla necessit di preoccuparsi della vita dellanima piuttosto che di quella del corpo (le tracce del dualismo gerarchico anima-corpo tipico dellorfismo si ripresentano puntualmente nei limiti intellettualistici delletica socratica, che riduce di fatto il vizio a un deficit di conoscenza); lidea che lattenzione per lanima si concretizzi in un esercizio continuo finalizzato alla sua purificazione (cos pu essere letto il riferimento allincessante esame di se stessi e della propria condotta); la centralit della tematica antropologica, pur non legata a una escatologia (la posizione socratica circa il destino dellanima aporetica) e lurgenza dellesigenza etica, gi incontrate come caratteri distintivi dellOrfismo e della narrazione teogonica che ne alla base.

Inoltre, limportanza, per la costruzione dellidea socratica di psych, del concetto orfico di anima-demone troverebbe conferma nella testimonianza del poeta comico Aristofane, nelle Nuvole: la parodia dellinsegnamento socratico include infatti la presentazione del pensatoio delle psychi sapienti come comunit mistico-esoterica.
L4- T4 Riti di iniziazione

Socrate. Vuoi chiaramente conoscere la vera essenza delle divine cose? Strepsiade. Se si pu, perdio! Socrate. E intavolare un discorso con le Nuvole, nostre divinit? Strepsiade. Certissimo. Socrate. E allora siedi sul sacro trespolo. Strepsiade. Eccomi seduto. Socrate. Ora prendi questa corona. Strepsiade. La corona, perch? Povero me, Socrate, baste che non mi sacrificate: che sono, Atamante? Socrate. Ma no: tutte cose che facciamo agli iniziati. Strepsiade. E che me ne viene? Socrate. A parlare diventerai limatissimo, sonante, fior di farina. (Lo spruzza di farina) Ma sta fermo! Strepsiade. Perdio, mi imbrogli! Spruzzato cos, chi non diventa fior di farina? Socrate. Che taccia il vecchio in devozione e ascolti la preghiera: Aere possente signore smisurato tu che la Terra reggi sospesa nello spazio Etere fulgido e Nuvole sante divine tra i fulmini tonanti or vi levate apparite voi Signore nellaria a quei che pensa. [Aristofane, Le Nuvole. Traduzione Marzullo] I riferimenti di marca mistico-esoterica sono numerosi: il sacro trespolo;

la corona; laccenno agli iniziati; il battesimo con la farina; linvocazione delle divinit della setta, tra cui Caos e Etere, due figure fondamentali della cosmogonia orfica.

Con Socrate tuttavia gli elementi desunti dallOrfismo sono recuperati in una sintesi speculativa del tutto originale: identificando nella psych la sede dellintelligenza e della coscienza la riflessione filosofica sullanima finisce di dividersi fra approccio naturalisticoscientifico (destinato irrimediabilmente ad appiattire il discorso sulluomo nel quadro di una pi vasta indagine sulla natura) e considerazione teosofica (che prescrive la cura di un misterioso secondo io che alberga nelluomo) e apre lo spazio per lautonomo sviluppo della riflessione morale.

Lezione n. 5: Platone: lanima e il suo destino

Con Platone giunge a piena maturazione il concetto di anima avanzato da Socrate; si possono infatti riscontrare: laffermazione che luomo si identifica con la propria anima; lidentificazione dellanima individuale con la capacit di intendere e di volere del singolo; la prescrizione che di essa e non del corpo deve innanzitutto occuparsi l'uomo.

Questi guadagni fondamentali sono raggiunti dalla protrettica e dalla dialettica socratica principalmente per via intuitiva, mentre grazie a Platone acquistano il rigore di conclusioni dimostrate. Un riferimento importante per lindagine psicologica platonica offerto dalla cosiddetta seconda navigazione, che dischiude la dimensione del soprasensibile: ammettendo lappartenenza dellanima a questo ordine di realt possibile acquisire per via dimostrativa i punti principali di una dottrina della psych che conserva molti aspetti di quella orfica, ancorandola per a una salda fondazione speculativa. Si ritrovano dunque in Platone temi caratteristici dellorfismo, a partire da quello dello scambio morte-vita. Un elemento ulteriore, anche se non del tutto originale (basta pensare ai Pitagorici), rintracciabile nella trattazione platonica invece la particolare interpretazione dell esercizio di purificazione necessario per riscattare la psych dal suo esilio corporeo: si tratta innanzitutto di un esercizio filosofico. Date queste premesse, non risulta difficile comprendere il messaggio proposto nel Fedone: i filosofi fanno della morte in quanto distacco dal corpo la loro professione; a maggior ragione dunque non li spaventa il sopraggiungere della morte vera, per prepararsi alla quale impiegano lintera esistenza.
L5- T1 Occupati a morire

Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi daltro che della morte, e poi, quando arriva la morte, addolorarsi di ci che da tanto tempo si desiderava e di cui ci si dava tanta cura. E Simmia, ridendo, disse: Per Zeus, Socrate, mi hai fatto ridere, anche se ora non ne avevo proprio voglia! Io penso che la gente, se sentisse dire questo, penserebbe che sia davvero ben detto dei filosofi- e lo riterrebbero in particolar modo i nostri concittadini-, ossia che essi sono veramente dei moribondi; e direbbe di essersi ben accorta che i filosofi sono degni di subire la morte! E direbbe la verit, Simmia! Per non vero che la gente se ne sia davvero accorta. Infatti non si accorta in che senso i veri filosofi siano dei moribondi e in che senso siano degni di morte, e di quale morte! Ragioniamo dunque, tra noi e lasciamo andare la gente. Riteniamo noi che la morte sia qualche cosa? Certo, disse Simmia. E riteniamo che sia altro che non una separazione dellanima dal corpo? E che essere morto non sia altro che questo: da un lato, lessere il corpo, separatosi dallanima, da s solo, e dallaltro, lessere lanima, separatasi dal corpo, da s sola? O dobbiamo ritenere che la morte sia qualcosa daltro e non questo? [Platone, Fedone, 64 a- c. Traduzione di G. Reale] Il discorso procede in maniera estremamente lineare:

la morte consiste nella separazione dellanima dal corpo: dopo la morte, lanima sta da s sola e cos il corpo; se si intende la morte in questo senso, loccupazione dei filosofi principalmente quella di morire.

Resta per da chiarire perch il filosofo persegue la separazione dellanima dal corpo, e quindi in che senso la filosofia rappresenta una pratica di purificazione. Cos argomenta il Fedone:
L5- T2 Puri come la verit

Sembra che ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verit. [] Ma risulta veramente chiaro che, se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime. E allora soltanto, come sembra, ci sar dato di raggiungere ci che vivamente desideriamo e di cui ci diciamo amanti, vale a dire la saggezza: cio quando noi saremo morti, come dimostra il ragionamento, e non fin quando siamo vivi. Infatti, se non possibile conoscere alcunch nella sua purezza mediante il corpo, delle due luna: o non possibile raggiungere il sapere, o sar possibile solo quando si sar morti; infatti solamente allora lanima sar sola per se stessa e separata dal corpo, prima no. E nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto di pi al sapere quanto meno avremo relazioni con il corpo e comunione con esso, se non nella stretta misura in cui vi sia piena necessit, e non ci lasceremo contaminare dalla natura del corpo, ma dal corpo ci manterremo puri, fino a quando il dio stesso non ci abbia sciolto da esso. E, cos puri, liberati dalla stoltezza che ci viene dal corpo, come verosimile, ci troveremo con esseri puri come noi, e conosceremo da noi stessi tutto ci che semplice: questa forse la verit. Infatti, a chi impuro non lecito accostarsi a ci che puro. [Platone, Fedone, 66 b-67 b. Traduzione di G. Reale] Dunque il filosofo, etimologicamente amante della saggezza, persegue un obiettivo, la verit, per il raggiungimento del quale il corpo rappresenta un impedimento: da esso non viene saggezza, ma stoltezza: nella parte di testo omessa, Platone argomenta questa tesi, elencando le innumerevoli preoccupazioni a motivo delle quali il corpo distoglie dalla ricerca della verit (necessit del nutrimento, malattie, amori, passioni, paure, vanit e, come se non bastasse, interferenze nelle ricerche stesse che impediscono di vedere il vero); la acquisizione del sapere autentico presuppone che lanima sia sola per se stessa e separata dal corpo, dunque precisamente nella condizione che il testo precedente indicava quale prodotta dalla morte; quella approssimazione alla saggezza in cui precisamente consiste la vita del filosofo dunque un cammino di perfezionamento dallessere la propria anima allessere esclusivamente la propria anima: per questo motivo ricalca litinerario della purificazione orfica e ne rispetta lassunto di fondo: a chi impuro non lecito accostarsi a ci che puro; la concezione dellattivit intellettuale come purificazione solo con Platone riesce a armonizzarsi opportunamente con la dottrina della psych, soprattutto per via degli approdi della seconda navigazione;

se la "stoffa" dellanima quella del mondo soprasensibile e intelligibile, unico il cammino che conduce dal sensibile allintelligibile (quello filosofico) e che consente la emancipazione della psych dalla corporeit (quello di purificazione).

Non stupisce quindi che Platone possa sentirsi sicuro nellinterpretare come conformi alla sua dottrina le testimonianze degli esperti dei misteri:
L5- T3 Chi sono gli eletti

E certamente non furono degli sciocchi coloro che istituirono i Misteri: e in verit gi dai tempi antichi ci hanno velatamente rivelato che colui il quale arriva allAde senza essersi iniziato e senza essersi purificato, giacer in mezzo al fango; invece, colui che si iniziato e si purificato, giungendo col, abiter con gli Dei. Infatti, gli interpreti dei misteri dicono che i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi. E costoro, io penso, non sono se non coloro che praticano rettamente la filosofia.[Platone, Fedone, 69 c-d. Traduzione di G.Reale] Oltre allo scambio morte-vita e allurgenza della pratica catartica, possibile riscontrare nella trattazione platonica sullanima altri temi che richiamano, pi o meno da vicino, lOrfismo. Analoghi in particolare sono gli interrogativi circa lorigine divina dellanima, le ragioni della sua caduta in un corpo e il suo destino ultimo; anche il registro espressivo scelto ricalca quello mitico-poetico della teogonia orfica. Il testo di riferimento per i temi in esame il Fedro, a partire dal celebre mito dellauriga:
L5- T4 La struttura dellanima

Della immortalit dellanima si parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura dobbiamo dire che definire quale sia sarebbe trattazione adeguata solo per un dio e anche lunga; tuttavia, parlarne per immagini impresa umana e pi breve. Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri lanima come la potenza dinsieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dei e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po s e un po no. Innanzitutto, per noi uomini, lauriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno nobile e buono, e di buona razza, mentre laltro tutto il contrario ed di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida davvero difficile e penoso [Fedro, 246a 246b. Traduzione di P. Pucci modificata]. Il testo si apre con un riferimento alla trattazione sullimmortalit dellanima: tale accenno particolarmente importante, in quanto consente di ribadire, nel quadro di un discorso mirante a rintracciare gli elementi di matrice orfica nel discorso platonico, lirriducibile stacco comunque sussistente fra il discorso filosofico e quello religioso sulla psych: Platone pu, a differenza di qualsiasi iniziato ai misteri orfici, asserire di avere dimostrato razionalmente, grazie alle acquisizioni della seconda navigazione, limmortalit dellanima (le principali prove da lui offerte sono contenute nel Fedone; inoltre se ne contano una nel Fedro e una nella Repubblica). Ci non toglie che altri aspetti della dottrina della psych (la sua natura, origine e destino) risultino meno accessibili allindagine conoscitiva e possano essere espressi solo attraverso immagini. Il mito dellauriga, consapevolmente utilizzato come strumento umano per affrontare un tema divino, si propone di illustrare la struttura interna dellanima:

lanima umana presenta una articolazione funzionale rispetto alla sua destinazione di ente immortale ma incarnato; tale destinazione si riflette nella struttura: le anime destinate alla incarnazione sono diverse intrinsecamente caratterizzate da una eterogeneit di componenti - rispetto a quelle uniformi degli dei, estranee alla prospettiva della unione con il corpo; la struttura dellanima presenta dunque una sostanziale tensione tra le componenti: una ben disposta, laltra meno, alla guida dellauriga; il disordine dellanima quindi potenzialmente legato alla sua struttura; essa pu essere cos interpretata: una componente razionale [quella essenziale allanima, che impronta lunit dellanima divina], una irascibile, disposta a lasciarsi condurre dalla prima ma da essa distinta, una concupiscibile, destinata a scontrarsi con le direttive razionali e a essere la maggiore responsabile del disordine.

Una tale descrizione rappresenta indubbiamente un contributo fondamentale per levoluzione del concetto di psych: lintuizione socratica dellidentificazione dellanima con lintelligenza e la coscienza sviluppata in un quadro pi complesso; lo stesso rigido dualismo del Fedone sembra superato: la tripartizione dellanima fa s che emozioni e desideri non siano imputati esclusivamente alla corporeit.

Seguire lo sviluppo del discorso sullanima nel Fedro offre dunque la possibilit di osservare come Platone declini il tema del dualismo, di matrice orfica, in una tensione interna allanima; il problema circa la componente che deve essere fatta prevalere significativamente risolto a partire dalla considerazione dellorigine dellanima e del suo legame con il divino.
L5- T5 La natura dellanima

Ora dobbiamo spiegare come gli esseri viventi siano chiamati mortali e immortali. Tutto ci che anima si prende cura di ci che inanimato, e penetra per lintero universo assumendo secondo i luoghi forme sempre differenti. Cos, quando sia perfetta ed alata, lanima spazia nell'alto e governa il mondo; ma quando unanima perda le ali, essa precipita fino a che non si appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dellanima. Questa composita struttura di anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. [] Veniamo a esaminare il perch della caduta delle ali per cui esse si staccano dallanima. Ci accade allincirca in questo modo. La funzione naturale dellala di sollevare ci che peso e di innalzarlo l dove dimora la comunit degli dei; e in qualche modo essa partecipa del divino pi delle e altre cose che hanno attinenza col corpo. Il divino bellezza, sapienza, bont e ogni altra virt affine. Ora, proprio di queste cose si nutre e si arricchisce lala dellanima, mentre dalla turpitudine, dalla malvagit e da altri vizi, viene corrotta e perduta [Fedro, 246b 246d. Traduzione di P. Pucci modificata]. Il mito evidenzia: il nesso strutturale tra anima e corpo, per cui secondo tradizione alla prima spetta il compito di vivificare (dare vita a) il mondo materiale, nel suo complesso e nelle sue varie parti [di qui la multiforme pregnanza e presenza dellanima];

il nesso essenziale tra psych e mondo divino: quella dellanima una natura meta-fisica che la avvicina alla perfezione ma tendenzialmente destinata a sollevare, con le proprie ali, un corpo; conseguentemente, il nesso essenziale tra anima e idee (bellezza, sapienza ) e, una volta incarnata, la sua possibilit di recuperarle (reminiscenza); il nesso essenziale tra contemplazione e destino dellanima: essa nutre delle idee la propria essenza metafisica, mentre ci che legato alle distrazioni del corpo causa di corruzione.

Il testo che segue mostra come Platone, affrontando il tema del destino dellanima, rielabori anche il tema orfico della reincarnazione.
L5- T6 Anima e incarnazione

Ecco la legge di Adrastea. Qualunque anima, al seguito di un dio, abbia contemplato qualche verit, fino al periplo successivo rimane estranea a dolori, e se sar in grado di far sempre lo stesso, rimarr immune da mali. Ma quando lanima, incapace di seguire questo volo, non colga nulla della verit, quando, in conseguenza di qualche disgrazia, impregnata di smemoratezza e vizio, si appesantisca, e per colpa di questo peso perda le ali e precipiti a terra, allora la legge vuole che questa anima non si trapianti in alcuna natura ferma durante la prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che pi abbia veduto si trapianti in un seme duomo destinato a divenire un ricercatore della sapienza e del bello o un musico, o un esperto damore; che lanima, seconda alla prima nella visione dellessere si incarni in un re rispettoso della legge, esperto di guerra e capace di buon governo; che la terza si trapianti in un uomo di stato, o in un esperto di affari e di finanze; che la quarta scenda in un atleta incline alle fatiche, o in un medico; che la quinta abbia una vita da indovino o da iniziato; che alla sesta si adatti un poeta o un altro artista darti imitative, alla settima un operaio o un contadino, allottava un sofista o un demagogo, e alla nona un tiranno. Ora, fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi senza giustizia, una sorte peggiore. Perch ciascuna anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita prima di diecimila anni giacch non mette ali in un tempo minore tranne lanima di chi ha perseguito con convinzione la sapienza, o di chi ha amato i giovani secondo quella sapienza. Tali anime, se durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa vita filosofica, riacquistano per conseguenza le ali e se ne dipartono al termine del terzo millennio. Ma le altre, quando abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a giudizio, e dopo il giudizio, alcune scontano la pena nelle prigioni sotterranee, altre, alzate dalla Giustizia in qualche sito celeste, ci vivono cos come hanno meritato dalla loro vita, passata in forma umana. Allo scadere del millennio, entrambe le schiere giungono al sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna anima sceglie secondo il proprio volere: qui che unanima pu passare in una vita ferma e lanima di una bestia che una volta sia stata in un uomo pu ritornare in un uomo; ma ad essere uomo non potr mai giungere unanima che non abbia contemplato la verit [Fedro, 248c 249b. Traduzione di P. Pucci modificata]. Nellultima parte del mito Platone (come nel Gorgia, nel Fedone e nella Repubblica) si intrattiene sul tema dei destini ultraterreni dellanima e sulle modalit dei cicli di reincarnazione: la incarnazione dellanima originariamente prospettata come effetto di un deficit contemplativo, di una carente visione della verit intelligibile;

a motivo della essenziale coappartenenza, lanima nutre la propria natura immortale della contemplazione degli enti intelligibili: il deficit contemplativo comporta dunque uno scadimento di condizione, che si traduce, miticamente, nella perdita dellala e nella caduta; anche la caduta condizionata dalla precedente visione: quanto pi unanima ha comunque contemplato della verit, tanto migliore la sua destinazione incarnata; Platone pu cos delineare una gerarchia di incarnazioni, dal mondo vegetale al vertice del tipo uomo rappresentato dal filosofo, sottolineando come, in ogni caso, lanima umana sia quella che pi ha contemplato [e quindi pi o meno faticosamente in grado di progredire verso la verit]; ogni incarnazione, cos determinata, seguita da un giudizio sulla condotta dellanima incarnata, accompagnato da remunerazioni o pene; la originaria contemplazione incide ancora allinterno del ciclo delle reincarnazioni: le anime di coloro che pi contemplarono e che, conseguentemente, ricevettero un destino migliore, saranno poi anche le prime, confermando in un circuito di tremila anni la scelta di vita filosofica, a sfuggire al percorso previsto (diecimila anni), tornando alla patria celeste con grande anticipo rispetto alle altre anime.

In definitiva, si pu affermare che, nel Fedone come nel Fedro, che pure sviluppano diversamente la tematica del dualismo anima-corpo, rimane ferma, saldamente ancorata alle acquisizioni della seconda navigazione, lappartenenza strutturale dellanima allordine metafisico: nella misura in cui lanima conserva la memoria di questa origine e asseconda il desiderio dellintelligibile, che di tale origine testimonianza, adempie il suo pi alto destino; per questo motivo i due dialoghi presi in esame sono concordi nelladditare nellesercizio filosofico la forma pi indicata di cura dellanima.

Parte prima: conclusioni

Con la diffusione della corrente religiosa orfica, il mondo greco conosce un nuovo schema di civilt, fondato su un rigido dualismo anima-corpo. Nonostante il carattere frammentario e in gran parte tardo delle testimonianze, possibile stabilire i motivi centrali di tale forma di spiritualit: lanima umana sede di un principio divino; tale principio, totalmente eterogeneo rispetto al corpo, manifesta la sua presenza quando i legami con il corpo si allentano (nel sonno o in prossimit della morte; il fatto che lanima divina sia racchiusa in un corpo considerato un castigo; lesistenza nel corpo e la reincarnazione in corpi diversi sono per la psych occasione di espiazione; la teogonia orfica presenta luomo come unione di un elemento divino, dionisiaco (anima) e di un elemento titanico (corpo): il ciclo delle rinascite finalizzato a liberare lelemento divino dallinvolucro titanico.

La tematica della purificazione dellanima, centrale nellOrfismo, si pu rintracciare nellopera di numerosi interpreti della filosofia antica, che a loro volta lhanno arricchita di precisazioni e sviluppi: i Pitagorici accolgono lesigenza orfica della catarsi, perseguita attraverso lesercizio e lascolto della musica, ma anche tramite lindagine filosofica; la loro dottrina sullanima non riesce per a armonizzarsi con il dualismo orfico, inconciliabile con ogni prospettiva naturalistica; Empedocle accoglie le istanze fondamentali dellOrfismo, ma non offre soluzioni circa il rapporto fra lanima divina e lanima come espressione di un principio che si distribuisce in tutta la natura; a Eraclito si deve lattribuzione allanima dellintelligenza; con Socrate la riflessione filosofica sullanima cessa di dividersi fra approccio naturalistico e considerazione teosofica; la seconda navigazione platonica offre la base speculativa per sviluppare il dualismo anima-corpo; la filosofia si configura come autentico esercizio catartico.

Ricerche

Per quanto riguarda lo sviluppo del concetto di anima nelluniverso spirituale greco, con particolare attenzione allet arcaica, resta fondamentale, per lo studente con una conoscenza anche solo elementare della lingua greca, il contributo classico di B. Snell, Luomo nella concezione di Omero, in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, , Einaudi, Torino 1963. Un testo recente e piuttosto accessibile che segue levoluzione del concetto di uomo da Omero a Platone Corpo, anima e salute di G. Reale, Cortina, Milano, 1999. Per quanto riguarda i temi specifici oggetto della parte prima di questo percorso, si consiglia in particolare la lettura del capitolo ottavo, dedicato allOrfismo come schema di cultura in antitesi con quello dei poemi omerici, del nono (La psych nei primi filosofi) , dei capitoli 1012 dedicati alla rivoluzione socratica e del capitolo quindicesimo (La natura dellanima secondo Platone).

Una sintesi chiara e efficace degli aspetti essenziali della dottrina orfica si trova nellappendice prima (LOrfismo e la novit del suo messaggio) al volume I della Storia della filosofia antica in cinque volumi di G. Reale, Vita e pensiero, Milano, 1975. Di primario interesse, soprattutto per le ipotesi circa le origini della religiosit orfica, e di non difficile lettura anche il capitolo dedicato allOrfismo dal classico E.R. Dodds, I Greci e lirrazionale, La Nuova Italia, Firenze, 1973. Per accedere alla lettura delle testimonianze e dei frammenti orfici si pu consultare G. Colli, La sapienza greca, I volume, Adelphi, Milano,1977. Impegnativa ma di indubbio interesse , nello stesso volume, la lettura della parte dedicata a Orfeo dellIntroduzione. Per quanto riguarda, nello specifico, i contributi pi decisivi per levoluzione del concetto di psych, il tema della rivoluzione socratica pu essere sviluppato a partire da un approfondimento sulla figura di Socrate con la lettura di G. Reale, Socrate: alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano, 2000; altro testo di riferimento, di agevole consultazione, pu essere Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, di F. Sarri, Vita e Pensiero, Milano,1997. Per quanto riguarda Platone, il problema dellanima, del suo rapporto con il corpo e della sua immortalit, oltre ai capitoli specifici nel gi citato Corpo, anima e salute possibile consultare R. Di Giuseppe, La teoria della morte nel Fedone platonico, Il Mulino, Bologna, 1993 e la raccolta di J. Patoka, Platone e lEuropa, Vita e Pensiero, Milano, 1997.

Parte seconda: Il poema Sulla natura di Parmenide [lezioni 6- 9]


Lezione n. 6: Il Proemio

Parmenide espone la sua dottrina filosofica in unopera in versi, che i commentatori posteriori hanno intitolato Sulla natura; la datazione incerta, ma potrebbe essere collocata verso il 468 a.C. Del poema rimangono 154 versi, raggruppati in 19 frammenti. Il Proemio (fr. 1, integralmente conservato) evidenzia, meglio di ogni altro frammento, la forte incidenza, allinterno dellopera parmenidea, della componente mitico-religiosa e del linguaggio poetico in cui essa si esprime. Altre parti (fr.2-8) presentano una marca decisamente logico-ontologica, mentre una mescolanza di elementi mitici e logico-razionali si riscontra sia nella parte finale del Proemio (v. T2), sia nella parte dedicata alla verit (altheia), che anche Altheia (figura divina), sia nella seconda parte, dedicata allesposizione delle opinioni degli uomini e della dottrina corretta del mondo delle apparenze. Il poema si presenta come armonica e compiuta sintesi di un aspetto propriamente miticopoetico, interpretato dal linguaggio dellepica, e di un aspetto schiettamente filosoficorazionale, attestato dalla comparsa di una terminologia di inedita astrattezza. Lelemento religioso, asse portante della costruzione mitico-poetica, non rimane confinato allinterno di essa, ma estende la sua funzione strutturale alledificio filosofico, caratterizzato dallo statuto del tutto particolare di rivelazione destinata alla disamina razionale, in quanto garantita dalla sua stessa inattaccabilit logica.
L6- T1 Proemio del poema

Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio [vuol giungere, mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e [mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, che appartiene alla divinit e che porta per tutti i [luoghi luomo che sa. L fui portato. Infatti, l mi portarono accorte cavalle Tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via. Lasse dei mozzi mandava un sibilo acuto, [infiammandosi, in quanto era premuto da due [rotanti cerchi da una parte e dallaltra-, quando [affrettavano il corso nellaccompagnarmi, le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case [della Notte, verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo. L la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra; e la porta, eretta nelletere, rinchiusa da grandi [battenti. Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le [chiavi che aprono e chiudono. Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole, con accortezza la persuasero, affinch, per loro, la [sbarra del chiavistello senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito [aprendosi,

produsse una vasta apertura dei battenti, facendo [ruotare nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi fissati con chiodi e con borchie. Di l, subito, [attraverso la porta, diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono [carro e cavalle. [Parmenide, Poema sulla natura. Traduzione di G. Reale. DK28B1 vv. 1-22] fondamentale, per comprendere il singolare e multiforme registro dellesposizione parmenidea, mettere a fuoco anzitutto il significato di un impiego filosofico del linguaggio mitico-epico rispetto alla cultura del tempo: loperazione di Parmenide non rappresenta un attardarsi sulle forme espressive tradizionali, ma un loro consapevole recupero dopo laffermazione della prosa filosofica ionica e la polemica contro il mito, decisamente propugnata dalla filosofia milesia e da Senofane; Parmenide si contrappone alla razionalit di tipo ionico sia dal punto di vista del registro espressivo, sia dal punto di vista dei contenuti; anzi la nuova formalizzazione che egli offre dei problemi affrontati dalla tradizione precedente che permette di evidenziarne efficacemente i limiti; allinterno di questa ri-formulazione delle domande dei predecessori riveste un ruolochiave proprio il ritorno al mito, e la sua lettura mediata da una sensibilit nuova: la domanda fondamentale da cui muove lindagine parmenidea non la domanda sul principio dal quale tutte le cose derivano e nel quale tutte ultimamente si risolvono (tematica rispetto alla quale si pu riscontrare una vicinanza della filosofia ionica alla tradizione mitica), ma la domanda sullessere e sugli enti e sulla loro verit; il contenuto dellepica, cos come si trova espresso nellIliade a opera dellindovino Calcante (I, 70) e nella Teogonia di Esiodo dalle Muse (Proemio, 26 ss.), riguarda proprio le cose che sono e le cose che sono vere, intese secondo lapertura totalizzante caratteristica delle grandi descrizioni cosmogoniche e teogoniche; nel momento in cui riporta lattenzione su le cose che sono e le cose che sono vere, Parmenide si richiama al linguaggio che da sempre ne ha veicolata lespressione, il linguaggio del mito e dellepica; come coloro che a vario titolo disprezzavano il mito, privandolo di qualsiasi consistenza razionale, non facevano differenza fra le varie tradizioni mitiche, accomunandole in una generale irrisione, Parmenide, pur animato da una valutazione opposta, si muove allinterno di una pluralit di riferimenti (Omero e Esiodo certamente, ma anche i misteri, la tragedia, la lirica arcaica), che raccoglie non in un sincretismo pi o meno esteriore, ma tramite una robusta sintesi che disponga lo scenario per quellessere e quella verit evocati dal mito e in attesa di diventare gli eroi protagonisti di un altro discorso, il lgos filosofico.

Anche la componente religiosa acquisisce reale spessore solo se esaminata nel suo contesto: il contributo di Parmenide si inserisce nel quadro degli sforzi di perfezionamento del concetto del divino che a partire dal VI sec. a.C. si esprimono attraverso la destrutturazione della religiosit di tipo olimpico a favore dei culti misterici, specialmente orfici, lelaborazione di nuove teogonie, la polemica dei filosofi contro i culti tradizionali;

dal punto di vista filosofico, il nodo problematico in esame quello dei molti nomi del divino, nati nellambito della religiosit pre-ellenica ma, diversamente che in essa, non pi armonizzati nellunit della dea-madre e conseguentemente esposti alla reciproca scomposizione e opposizione; dal momento che i nomi divini rispecchiano altrettanti aspetti del reale, il prevalere delle divergenti determinazioni del divino sulla capacit di attrazione centripeta dellunit della dea-madre porta inevitabilmente con s la disgregazione del reale stesso, frantumato in una molteplicit irrelata e contraddittoria; un tentativo di superamento di questa contraddizione ravvisabile in un tragico come Eschilo; in Senofane lapprodo la cancellazione dei molti nomi; in Parmenide la polinomia non cancellata, ma conservata e esplorata come illustrazione delle diverse regioni e dimensioni del Tutto; alla considerazione logico-ontologica dellessere totale fa riscontro sul piano miticoreligioso la divinit pre-ellenica della Grande Dea mediterranea, unica e medesima pur nelle diverse denominazioni, che ne accentuano laspetto normativo (Annke, Necessit; Mira, Destino; Peith, Persuasione; Altheia, Verit) nella prima parte del poema e il carattere di scaturigine dei molti aspetti del reale nella seconda (Afrodite, corona celeste); la riconduzione delle diverse figure divine a ununica divinit dunque allo stesso tempo la ricomposizione e riconciliazione della molteplicit degli aspetti del reale.

Del resto, quella che nel poema si prospetta come una rivelazione da parte della Dea, altro non che lautomanifestarsi del reale, legato a nessi di necessit e di razionalit che vincolano uomini e dei a convergere nellassolutezza della legge dellessere, del cui autosvelamento sono testimoni. Infatti: mentre le Muse esiodee possono dire anche il falso, la Dea di Parmenide vincolata a manifestare la verit, lessere; la Dea esorta ripetutamente a considerare (fr.6), giudicare con la ragione (fr.7) quanto propone; laccento posto sul coinvolgimento razionale riveste di nuovo significato lepiteto di uomo che sa, attribuito al destinatario della rivelazione: ricorrente nei misteri, particolarmente quelli orfici, per additare liniziato, indica, nel corso del poema, un tipo ben diverso di sapere, la cui inattaccabilit consiste nella coerenza logico-razionale.

Gli elementi mitici e religiosi del Proemio si dispongono tutti intorno al motivo principale che lo attraversa, quello del viaggio, a sua volta dotato di una valenza mitica, religiosa e speculativa: il tema della via rappresenta forma e contenuto della rivelazione: il messaggio della dea comunicato nel corso di un viaggio, ma allo stesso tempo riguarda le possibili vie di ricerca e la loro percorribilit; indicando lunica possibile via di ricerca e argomentando tale unicit, la Dea conferisce alla strada (ods) per la quale guida luomo che sa anche la valenza di metodo (mthodos); la via dice molte cose, appartiene alla divinit e porta per tutti i luoghi luomo che sa: traccia un cammino sicuro (v. subito, diritto) sviluppandosi attraverso il tutto; come la via attraversa una regione e insieme parte di essa, cos la via mthodos per la conoscenza della verit e gi parte della verit stessa; il viaggio raccontato da chi ha ricevuto la rivelazione, dopo aver fatto ritorno dalle case della Notte verso il mondo della luce (illuminato quotidianamente dal sole, come attesta

lepica); le Heliadi, figlie del Sole, dopo essersi allontanate i veli dal capo, accompagnano il protagonista alla luce, scortandolo nel viaggio di ritorno, momento critico di qualsiasi viaggio ultraterreno, come testimoniato dagli esempi di Kore e Persefone, Orfeo e Euridice, Ulisse, Fetonte, Ercole e Alcesti; il fatto che laccento sia posto sul viaggio di ritorno assume una valenza del tutto particolare se si considera limportanza attribuita da Parmenide alla corretta spiegazione del mondo delle apparenze alla luce della conoscenza della verit. Il programma della rivelazione della Dea rivela del resto apertamente lesigenza logicoespositiva di riappropriazione del mondo alla luce della verit:
L6- T2 Lannuncio della rivelazione

E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano [la mia mano destra prese, e incominci a parlare cos e mi disse: O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati, poich non uninfausta sorte ti ha condotto [a percorrere questo cammino - infatti esso fuori dalla via[battuta dagli uomini -, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto [apprenda: e il solido cuore della verit ben rotonda e le opinioni dei mortali, nelle quali non c una vera [certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose che [appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso. [DK28B1vv. 23-34] La rivelazione si dispiegher dunque in tre momenti: il solido cuore della verit ben rotonda, vale a dire il lgos, la norma che rende veri i contenuti veri; le opinioni dei mortali, nelle quali non c una vera certezza e che pertanto necessitano di essere confutate; la spiegazione di come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso, cio la descrizione del mondo dellesperienza secondo la corretta interpretazione di esso che si fonda sul solido cuore della verit ben rotonda; soltanto a partire da esso si possono derivare tesi il cui statuto sia quello della vera certezza: certezza, e non verit, in quanto concernente una materia legata al mondo dellapparenza, ma pur sempre vera, perch lapparenza riletta sulla base della norma della verit; le opinioni dei mortali sono dunque fallaci sia considerate in se stesse,come opposte alla esatta descrizione de le cose che appaiono, sia considerate nella radice comune che le fonda, lerrore circa il cuore della verit ben rotonda.

Introducendo il protagonista alla rivelazione tramite le sue anticipazioni, comunque, la Dea mette in chiaro almeno due aspetti:

bisogna che liniziato tutto apprenda: la verit tale in quanto si dispiega come totalit onnicomprensiva; la contrapposizione non fra verit e apparenza o opinione, ma fra verit e apparenza o opinione che non si fondino sulla verit e non conseguano quindi vera certezza; non negato il mondo dellapparenza, ma la sua erronea interpretazione sulla scorta dellerrore dei mortali.

Lezione n. 7: Il linguaggio della Verit L7- T1 Essere, pensiero, intelligenza

Orbene io ti dir e tu ascolta e ricevi la mia [parola quali sono le vie della ricerca che sole si possono pensare: luna che e che non possibile che non sia il sentiero della Persuasione, perch tien dietro [alla Verit laltra che non e che necessario che non sia. E io ti dico che questo un sentiero su cui nulla si [apprende. Infatti, non potresti conoscere ci che non , perch [non fattibile, n potresti esprimerlo [DK28B2] Il primo rilievo che si impone nellaffrontare il contenuto della rivelazione della Dea riguarda il registro del discorso: per quanto esso tratti del nucleo speculativo della dottrina di Parmenide, conserva numerosi tratti di marca mitico-poetica: la parola che la Dea invita a ascoltare e ricevere indicata, nel testo greco originale, con mthos; persuasione e verit sono personificate nelle rispettive divinit; il motivo dominante continua a essere quello della via, impiegato in sede logicoontologica a indicare le vie di ricerca.

Sebbene il contesto sia quello ideale per la comunicazione di un sapere di tipo iniziatico, dispensato benevolmente da una divinit dotata di conoscenza soprannaturale a un devoto in grado di riceverne il messaggio senza poterne comprendere le ragioni, la rivelazione della Dea non tarda a manifestare la sua peculiarit: lindicazione delle vie di ricerca e lopzione per lunica realmente percorribile sono fondate su di un criterio, quello della concepibilit (infatti, non potresti conoscere ci che non , perch non fattibile, n potresti esprimerlo) che pienamente a disposizione di colui che riceve la rivelazione; questi pu dunque riconoscere, in virt della sua razionalit, le leggi logico-ontologiche nello stesso cristallino rigore che le rende vere per la divinit. Sulla base del criterio della concepibilit sono delineate due vie di ricerca: sono le sole che si possano pensare: il riferimento al pensiero anticipa lequazione pensabile-possibile-essere, che esplicita il contenuto del criterio di concepibilit in chiusura del frammento; laccento posto sul fatto che le due vie di seguito esposte siano le sole pensabili ribadisce poi la permanente esigenza parmenidea (gi sottolineata in apertura del discorso della dea) di evidenziare lapertura totalizzante come strutturale a qualsiasi trattazione intorno alla verit; una via afferma la formula dellesistenza; laltra delinea preliminarmente unalternativa opposta, pretesa e contemplata sulla base della sua pensabilit programmatica, ma del tutto inindagabile nelle sue implicazioni; il tentativo di delineare astrattamente una metodologia produce le prime formulazioni di regole-base del lgos filosofico: le due vie di ricerca reciprocamente incompatibili sono

infatti riconosciute come le uniche pensabili e la loro inconciliabilit fondata sulla loro radicale opposizione, che opposizione fra contraddittori (la via che non possibile che non sia, quella che non necessario che non sia); A proposito della formulazione della cifra caratterizzante le due vie, il fr.2 ha dato luogo a diverse interpretazioni; il punto controverso riguarda la necessit o meno di attribuire un soggetto alle espressioni che e che non e leventuale scelta del soggetto pi adeguato: secondo una prima interpretazione l sottintenderebbe il soggetto lessere, che emergerebbe chiaramente dai frammenti successivi; Parmenide intenderebbe affermare: lessere , il non-essere non ; infatti il soggetto dellespressione , per accordarsi con il contesto del discorso, deve essere in contraddizione con il non essere e tale valore pu essere assunto soltanto dallespressione essere, intendendo con essa il tutto e anche ogni singola cosa di cui occorre dire che ; il soggetto di potrebbe per pi semplicemente cercarsi nel testo stesso, che fa riferimento alle due vie: luna sarebbe la via che e che conduce alla verit, laltra la via che non , che cio non ha esistenza reale e porta allo sbandamento dellerrore; anche la terza interpretazione, sostenuta da Calogero, non cerca un soggetto da inserire nel testo, che intende in questo senso: la prima via dice e afferma limpossibilit del non (non possibile che non sia); la seconda pretende di affermare il non e il suo valore di necessit ( necessario che non sia), chiaramente smentita dal nesso pensiero-essere, avanzato con il criterio della concepibilit e esposto perentoriamente nel fr.3: Infatti lo stesso pensare ed essere[DK28B3] importante sottolineare come lequazione pensare-essere, che, considerando anche gli ultimi versi del fr.2 (con il riferimento allesprimibile) diventa pensare-essere-dire non rifletta lingenuit fondamentale sottesa alla credenza di tipo magico per cui il possesso del nome o dellimmagine mentale di una cosa rappresenta immediatamente il dominio su di essa; infatti la consapevolezza dello scarto tra pensiero (almeno umano) e potere sulla realt gi presente nel patrimonio epico quale portato del senso comune. Parmenide accoglie listanza dellepica che fa presente come lidentificazione di pensiero e potenza valga soltanto per gli dei, e nellaffermare lidentit di essere, pensiero e parola trasferisce la potenza, il criterio sulla base del quale pensiero e parola divengono realt, dalla sfera del divino a quella stessa del pensiero e della parola, reali purch veri e quindi radicati nella via dellessere, della quale fanno essi stessi indovinare il tracciato, costituendo il reale nella sua manifestazione.
L7-T2 Essere e enti

Considera come le cose che pur sono assenti, alla [mente siano saldamente presenti; infatti non potrai recidere lessere dal suo essere [congiunto con lessere, n come disperso dappertutto in ogni senso nel cosmo, n come raccolto insieme [DK28B4] Indifferente per me Il punto da cui devo prendere le mosse; l, infatti, [nuovamente dovr fare ritorno [DK28B5]

I due frammenti: sottolineano la compattezza dellessere e di conseguenza la solo relativa dispersione degli enti molteplici, saldamente congiunti nellessere (contrassegnando il fatto di essere proprio di ogni cosa esistente, lessere rappresenta lo sfondo imprescindibile perch ogni ente possa delinearsi come tale); evidenziano il ruolo fondamentale della mente, dellintelligenza (nos) nel leggere, oltre le multiformi apparenze degli enti dellesperienza, ci che soltanto lo sguardo razionale coglie, ossia il loro muoversi comunque nella scena dellessere; presentano, particolarmente il fr.4, una scoperta polemica con la tradizione della filosofia naturalistica ionica, le cui espressioni non sembrano coerenti con le assunzioni di fondo sullessere e la sua radicale opposizione al non-essere fatte proprie da Parmenide e riconosciute come il solido cuore della verit ben rotonda; in particolare, la perentoriet delle premesse parmenidee rende impossibile qualsiasi tipo di distinzione allinterno dellessere che ne incrini la compattezza; qualsiasi tentativo di discriminare nellambito dellessere squalificato in quanto indebito recupero del nonessere inizialmente emarginato; si capisce quindi come Parmenide si dimostri critico nei confronti di quelle dottrine che affermano la stabilit e indefettibilit - caratteristiche dellessere - di un principio (arch), per poi operare delle distinzioni allinterno di esso per contrapporre il principio agli enti sottoposti al divenire; cos concentrazione e rarefazione (il bersaglio del fr.4 sembra Anassimene) minano la solidit dellessere e sembrano coinvolgere nuovamente il nulla.

Lezione n. 8: i segni dellessere L8- T1 Lerrore dei mortali

necessario il dire e il pensare che lessere sia: infatti lessere , il nulla non : queste cose ti esorto a considerare. E dunque da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno vanno errando, uomini a due teste: infatti, lincertezza che nei loro petti guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati, sordi e ciechi a un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio, dai quali essere e non essere sono considerati la medesima cosa e non la medesima cosa, e perci di tutte le cose c un cammino reversibile [DK28B6] Infatti, questo non potr mai imporsi: che siano le cose che non sono! Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero, n labitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi a muovere locchio che non vede, lorecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa che da me ti stata fornita [DK28B7] Le acquisizioni speculative fondamentali guadagnate nei frammenti 2, 3 e 4 sono decisamente ribadite nei due testi riportati: si ripropone lequazione pensare-essere-dire (apertura del fr.6); ritorna il tema dellimpraticabilit della via che non , dalla quale liniziato deve essere tenuto lontano

Il principale elemento di novit dato dallintroduzione della figura dei mortali; nel descriverne latteggiamento Parmenide sembra fare proprio il tono sdegnoso della polemica eraclitea contro i molti: il carattere che contraddistingue i mortali la carenza del loro sapere: sono infatti indicati con lepiteto di mortali che nulla sanno; questo difetto di conoscenza ha la sua ricaduta pratica nella figura dellerramento, particolarmente efficace nel segnalare con la sua valenza metaforica laspetto propriamente epistemico dellerrore e insieme il disorientamento di chi procede su un sentiero lungo il quale non sa fissare dei riferimenti e del quale dunque non pu dominare il tracciato; lidea del disorientamento rafforzata dalla caratterizzazione dei mortali come sordi e ciechi, sbalorditi: al difetto del giudizio e alla mente dissennata si accompagna la inaffidabilit delle facolt sensoriali, che li condanna allisolamento e allestraneit rispetto alla loro stessa esperienza (di nuovo sembra riproporsi il riferimento a Eraclito).

Lerrore dei mortali rappresenta una forma di sviamento dalla verit forse ancora pi minacciosa della via che non :

pretende di coniugare essere e nulla (essere e non essere sono considerati la medesima cosa e non la medesima cosa); cade irrimediabilmente in contraddizione, come suggerisce limmagine icastica degli uomini a due teste; ciononostante, presenta un carattere capzioso: apparentemente infatti sembra possedere una propria fondatezza, dovuta allaccordo con lesperienza; si tratta per di una esperienza assunta nella forma passiva dellabitudine, e dunque in maniera tale da paralizzare le capacit conoscitive umane (locchio che non vede, lorecchio che rimbomba), piuttosto che esaminata con il contributo attivo della ragione.

Se la Dea, esponente della stirpe eterna dei sempre essenti, secondo lepiteto dellepica, si fa portavoce della via di ricerca che pone lessere come identico a se stesso, i mortali viceversa sono coloro che affermano la coesistenza di essere e non essere e il trapassare delluno nellaltro. Nella polemica possono essere coinvolti: i naturalisti ionici, rei di attribuire i caratteri dellessere a un solo principio per poi privarlo di essi al momento di spiegare gli enti di esperienza; probabilmente anche Eraclito (la sua filosofia del divenire lesatto opposto di quella parmenidea della stabilit e il riferimento alla reversibilit dei processi riecheggia il fr.60 di Eraclito: Una e la stessa la via allin su e la via allin gi ); pi in generale, chiunque si affidi all abitudine nata da numerose esperienze (fr.7), che compromette la capacit di disamina razionale sulla scorta dellintelligenza (per la quale le cose assenti non scadono nel non-essere, ma rimangono saldamente presenti) e forza a muovere locchio che non vede, lorecchio che/ rimbomba e la lingua. La lingua in particolare non esprime la compiutezza dellessere e non rispecchia la realt: il fr.8 preciser che sono meri nomi quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere:/ nascere e perire, essere e non essere,/ cambiare forma e mutare luminoso colore.

Una volta marcato lo stacco rispetto alle opinioni dei mortali, la Dea espone una parte fondamentale della sua rivelazione:
L8- T2 I segni dellessere

Resta solo un discorso [della via: che . Su questa via ci sono segni indicatori assai numerosi: che lessere ingenerato e imperituro, infatti un intero nel suo insieme, immobile e senza [fine. N una volta era, n sar, perch ora insieme tutto [quanto, uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di [esso? Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non-essere [non ti concedo n di dirlo n di pensarlo, perch non possibile n [dire n pensare che non . Quale necessit lo avrebbe mai costretto a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla? Perci necessario che sia per intero, o non sia

[per nulla. E neppure dallessere conceder la forza di una [certezza che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa [ragione n il nascere n il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo [dalle catene, ma saldamente lo tiene. La decisione intorno a tali [cose sta in questo: o non . Si quindi deciso, come necessario, che una via si deve lasciare, in quanto impensabile e [inesprimibile, perch non del vero la via, e invece che laltra , ed vera. E come lessere potrebbe esistere nel futuro? E come [potrebbe essere nato? Infatti, se nacque, non ; e neppure esso , se mai [dovr essere in futuro. Cos la nascita si spegne e la morte rimane ignorata. E neppure divisibile, perch tutto intero [uguale; n c un di meno, ma tutto intero pieno di essere. Perci tutto intero continuo: lessere, infatti, si [stringe con lessere. Ma immobile, nei limiti di grandi legami senza principio e senza fine, poich nascita e [morte sono state cacciate lontane e le respinse una vera [certezza. E rimanendo identico e nellidentico, in s medesimo [giace, e in questo modo rimane l saldo. Infatti, Necessit [inflessibile lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra [tuttintorno, poich stabilito che lessere non sia senza [compimento: infatti non manca di nulla; se, invece, lo fosse, [mancherebbe di tutto. Lo stesso il pensare e ci a causa del quale il [pensiero, perch senza lessere nel quale espresso, non troverai il pensare. Infatti, nientaltro o o sar allinfuori dellessere, poich la Sorte lo ha [vincolato ad essere un intero e immutabile. Per esso saranno nomi [tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che [fossero vere: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Inoltre, poich c un limite estremo, esso compiuto Da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera,

a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, n [in qualche modo pi grande n in qualche modo pi piccolo necessario che sia, da [una parte o da unaltra. N, infatti, c un non -essere che gli possa impedire di [giungere alluguale, n possibile che lessere sia dellessere pi da una parte e meno dallaltra, perch un [tutto inviolabile. Infatti, uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei [suoi confini [DK28B8 vv.1-49] La via che costellata di segni indicatori, che manifestano ciascuno un particolare aspetto dellessere: i segni (smata) sono indizi che alludono a qualche cosa che li trascende e rappresentano un invito a oltrepassarli; possono essere letti correttamente solo da chi conosca gi lessere, al quale alludono; il fatto di condividere lessere come riferimento comune determina il fatto che i segni si implichino reciprocamente e siano correttamente intesi solo come diversi aspetti di ununica realt; isolarne uno o alcuni sarebbe gi negare lessere ( necessario che sia per intero, o che non sia per nulla); il metodo impiegato per ricavare i segni quello della riduzione allassurdo degli aspetti della realt illusoriamente attestati dai sensi (nascita, corruzione, divisibilit); la negativit (nel senso di carenza dessere) che in essi emerge, una volta negata, produce laffermazione della assoluta positivit; i caratteri dellesperienza vengono progressivamente ridotti allassurdo in quanto avversi ai postulati fondamentali dellidentit dellessere con se stesso, della sua assoluta incompatibilit con il suo opposto, il non-essere, e delluguaglianza essere-pensiero, che infatti ritornano periodicamente nel fr.8 a segnare il ritmo della descrizione ontologica; dal punto di vista stilistico e del lessico, la presentazione dei segni dellessere si caratterizza per un elevato livello di astrattezza terminologica e agguerrita sottigliezza argomentativa: basti citare il metodo confutatorio della riduzione allassurdo, consapevolmente codificato solo pi tardi, da Zenone, o la formulazione del principio di ragion sufficiente nella forma dellex nihilo nihil fit; considerando questi aspetti del discorso parmenideo, alcuni interpreti ipotizzano alle spalle di esso un consistente patrimonio di discussioni orali, che ne giustifichino la maturit logica.

Questa risulta, in sostanza, la struttura dellargomentazione di Parmenide: lessere : ingenerato e imperituro: - in quanto una totalit compiuta (uno intero nel suo insieme, immobile, senza fine, ora insieme tutto quanto, uno, continuo); - in quanto la temporalit coinvolge il nulla (non pu essere nato dal non-essere, perch non c necessit alcuna della derivazione di qualcosa dal nulla; non pu essere nato dallessere, perch ne avrebbe compromessa la compattezza; l ha come sua unica dimensione la puntualit atemporale se nacque, non ; e neppure esso , se mai dovr essere in futuro) indivisibile: a motivo della sua omogeneit e densit (tutto intero uguale, tutto intero pieno di essere, tutto intero continuo), per cui lessere si stringe con lessere

identico e nellidentico: giace saldo in s medesimo in quanto compiuto (non manca di nulla) compiuto da ogni parte: c infatti un limite estremo simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti la dissimmetria non pu esservi introdotta dal non-essere n tantomeno dallessere, della cui compattezza costituirebbe una violazione.

Lequilibrio perfetto suggerito dallimmagine della ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte consolida ulteriormente lidea dellimmobilit, che ritorna per ben tre volte nel frammento e si precisa con il riferimento ai grandi legami del limite estremo, sigillo di perfezione in quanto compiutezza, secondo un modo di sentire tipicamente pitagorico; laccenno ai legami della Necessit, cos come alle catene della Giustizia serve del resto non solo a preparare e rendere intelligibile limmagine della sfera, ma anche a significare, secondo il consueto intreccio di piano mitico e piano filosofico-razionale, unimmobilit del tutto particolare, ottenuta tramite quel tipo particolare di costrizione che la cogenza delle leggi logiche.

Lezione n. 9: La dottrina vera dellapparire

Nel fr.8 la Dea si accinge a illustrare sinteticamente il contenuto delle opinioni fallaci dei mortali, e ne ribadisce il carattere capzioso, preannunciando il fatto che le sue parole successive presenteranno un andamento seducente. La spiegazione del mondo delle apparenze secondo lopinione dei mortali effettuata a partire da due principi, due forme, letereo fuoco della fiamma e la notte oscura (forse di matrice pitagorica), lunit delle quali per loro non necessaria. Proprio questo aspetto fa s che la loro dottrina del mondo dellesperienza non sia dotata di vera certezza: per poterla correggere necessario apprendere come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso.
L9- T1 Luce e Notte e il loro legame con lessere

E poich tutte le cose sono state denominate luce [e notte, e le cose che corrispondono alla loro forza sono [attribuite a queste cose o a quelle, tutto pieno ugualmente di luce e di notte oscura, uguali ambedue, perch con nessuna delle due c il [nulla [DK28B9] Il frammento sintetizza la dottrina parmenidea del mondo dei fenomeni, con particolare attenzione a marcare lo scarto rispetto alle opinioni dei mortali (che comunque colgono nel segno nellindividuare una polarit e nel ricostruirne i termini etereo fuoco della fiamma e notte oscura sono pressoch sovrapponibili a luce e notte): contro quanti non sanno vedere lunit necessaria dei due opposti principi, Parmenide ne sottolinea, pur nellopposizione, luguaglianza (ugualmente, uguali ambedue), e quindi lequipollenza; lequivalenza delle due potenze si motiva, contro quanti affermano lindebita mescolanza di essere e non-essere, con il loro comune radicamento nellessere, che ne giustifica anche la implicazione reciproca; se Luce e Notte rappresentano i principi ai quali la totalit dellessere che appare riconducibile e con nessuna delle due c il nulla, non ci sono aspetti del mondo dellesperienza che non siano ricompresi nellessere: lerrore dei mortali consiste dunque nello scambiare la differenziazione delle potenze nellambito della manifestazione fenomenica dellessere con una differenza di stampo ontologico; la discriminazione di Luce e Notte, allorigine del mondo dellesperienza, non contravviene dunque alla norma esposta nel fr.8 per cui lessere un tutto intero continuo, costituendone piuttosto la conferma anche per il mondo fenomenico (con nessuna delle due c il nulla), contro la lettura della polarit offerta dai mortali, che scambiano i lati notturni dellessere per non-essere.

Linsistenza sul motivo della totalit (tutte le cose sono state denominate luce e notte, tutto pieno) sulla quale si esercita il potere esplicativo delle due potenze dimostra come Parmenide intenda, in sede di descrizione del mondo fenomenico, confrontarsi con la tradizione naturalistica dei filosofi dellarch, che si proponevano di ricondurre appunto la totalit degli enti di esperienza allelementarit di un principio:

nel caso di Parmenide larch si esprime attraverso due forze che si implicano reciprocamente in una opposizione di tipo polare finalizzata alla loro mescolanza e alla conseguente costituzione della totalit delle forme dellapparire; la veste duplice dellarch prepara la sua evoluzione nel senso di elemento, ulteriormente evidente in Empedocle; lindividuazione di una duplicit di potenze si svolge comunque in un quadro in cui molto forte la sottolineatura della compatta unit dellessere di cui Luce e Notte sono lespressione nel mondo fenomenico; si delinea quindi, rispetto allindagine dei filosofi naturalisti, una nuova collocazione della ricerca sullarch: la spiegazione sulla base di potenze opposte fra loro non lunica o ultima; riguarda il mondo dellapparire, non degradato a mera parvenza, ma comunque tenuto fermo nella sua subordinazione e ricomprensione nellessere (alla quale si pu far risalire la considerazione della fisica come scienza subordinata allanalisi schiettamente ontologica).

L9- T2 Il programma della cosmologia

Tu conoscerai la natura delletere, e nelletere [tutte quante le stelle, e della pura lampada del sole lucente le invisibili opere e donde ebbero origine, e apprenderai le azioni e le vicende della luna [errabonda dallocchio rotondo e la sua natura; e conoscerai altres il cielo che tutto [circonda, donde ebbe origine, e come la Necessit lo guid e [costrinse a tenere fermi i confini degli astri. [DK28B10]
L9- T3 Il governo della Dimon

Le corone pi strette furono riempite di fuoco non [mescolato, quelle che seguono ad esse furono riempite di notte, [ma in esse si immette una parte di fuoco; nel mezzo di queste sta una divinit che tutto [governa: dovunque, infatti, essa presiede al doloroso parto e [alla congiunzione, spingendo la femmina ad unirsi col maschio, e, [allinverso, di nuovo, il maschio con la femmina. [DK28B12] La dottrina vera del mondo dellapparire deve illustrare le modalit della manifestazione dellessere nellambito del visibile; deve dimostrare che lessere davvero tutto e quindi abbraccia anche lapparire, nel quale si completa. quindi interessante rintracciare, in apertura del discorso sulla cosmologia, alcuni tratti che richiamano la descrizione dellessere cos come prospettata nella parte dedicata allesposizione della verit (altheia):

il cielo che tutto circonda guidato e costretto a tenere fermi i confini degli astri: il richiamo al fr. 8, l dove lessere descritto come immobile nei limiti di grandi legami, saldo in s medesimo, cos che uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei suoi confini; a determinare lazione del cielo di mantenere saldi i confini la Necessit, la stessa figura che nel fr.8, inflessibile, tiene nei legami del limite lessere: la Necessit si conferma, nella trattazione sullessere come in quella sullapparire, la forza che stringe lessere con se stesso mantenendo dunque tutte le cose nellessere; il riferimento alle corone (il termine greco pu indicare anello ma anche zona sferica o, pi genericamente, un punto attorno al quale si dispone una formazione di tipo circolare) riecheggia limmagine della ben rotonda sfera del fr.8: la compiutezza e il perfetto equilibrio dellessere non possono che rispecchiarsi in un universo compiuto; il dinamismo che si associa allimmagine della circolarit in sede di cosmogonia non comunque del tutto assente neppure nella descrizione della sfera dellessere; limmobilit da e verso il non-essere non esclude che lessere sia in qualche modo attivo nella sua densit: un indizio si troverebbe nel dinamismo interno alla descrizione del fr.8, che considera la sfera alternativamente dal centro alla periferia e viceversa.

La cospicua parte del poema dedicata alla spiegazione dellapparire (pi di un terzo) testimonia limportanza attribuita da Parmenide a questa sezione, che si presenta con i caratteri di una autentica enciclopedia, che spazia dalla cosmogonia e cosmologia alla teogonia, allantropologia e alla fisiologia; il linguaggio richiama da vicino quello di Esiodo, ma anche quello della prima parte del poema: alla connessione necessaria fra concetti caratteristica della logica dellessere corrispondono i rapporti genealogici fra potenze divine, confermando come la scelta del registro mitico-poetico sia opzione consapevole e finalizzata al conseguimento di una maggiore espressivit e significativit e non esito obbligato di ingenuit comunicativa. A proposito del procedimento esplicativo adottato, significativo notare: il rilievo attribuito alla conoscenza della natura delle cose, ricavabile a partire dalle loro azioni (cos si devono conoscere la natura delletere, le opere del sole e la loro origine la natura da cui derivano, e ancora le azioni e le vicende della luna e la sua natura; anche del cielo si osserva prima lazione di circondare tutto, poi lorigine,- la natura, dalla quale ridiscendere poi a considerare le attivit); il richiamo alla Dea (Dimon) come centro unificatore del sistema delluniverso: il rischio che la polemica intorno ai molti nomi degli dei portasse a una disgregazione del reale nei suoi diversi aspetti decisamente scongiurato: tutto pieno di essere e tutto pieno di Luce e Notte, la cui mescolanza orchestrata dalla Dimon; il ruolo centrale della Dea nel garantire la contiguit di tutti gli enti nellessere, e specificamente la continuit esistente fra cosmologia e antropologia, per cui la stessa Dea che presiede alla mescolanza di Luce e Notte e alla nascita degli uomini.

Parte seconda: conclusioni

Il poema strutturato intorno a due nuclei fondamentali: esposizione della verit; presentazione del mondo dellapparire: come erroneamente considerato dai mortali e come va correttamente spiegato.

Il proemio consente di ricavare alcuni elementi costanti del testo: limpiego filosofico del linguaggio mitico-epico; il rilievo attribuito alla componente religiosa, nel quadro del dibattito sui molti nomi del divino; la presenza della tematica del viaggio, caricata di una duplice valenza mitologiconarrativa e speculativa.

Il poema tratta della rivelazione ricevuta dal protagonista a opera di una Dea; questa ne , in sintesi la struttura: verit: presentazione delle sole vie di ricerca pensabili: una che , laltra che non e su cui nulla si apprende; esplicitazione del nesso pensare-essere-dire; ruolo centrale dellintelligenza nel rintracciare la verit dellessere; descrizione dei segni dellessere mondo delle apparenze: opinioni fallaci dei mortali, che non individuano lunit delle forze opposte con cui spiegano il mondo dellesperienza; dottrina vera dellapparire: comune radice nellessere di Luce e Notte, sottoposte allunico comando della Dimon

Ricerche

Decisamente impegnativa ma fondamentale ledizione del Poema sulla natura di Parmenide curata da G. Reale e L.Ruggiu, Rusconi, Milano 1991; unottima guida per affrontare la lettura dei frammenti offerta dal saggio introduttivo, che mette a fuoco alcuni temi centrali per la comprensione e linterpretazione del testo; molto ricchi sono anche i commenti ai singoli frammenti. Importante anche ledizione a cura di M. Untersteiner, Parmenide. Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze, 1967; lintroduzione presenta tra laltro una particolare interpretazione delle due vie parmenidee. Interessante e con puntuali rimandi al testo parmenideo il paragrafo dedicato a Parmenide nel capitolo settimo (Filosofia e scienza empirica alla fine dellet arcaica) di H. Fraenkel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, Il Mulino, Bologna,1997. Un contributo classico nello studio del pensiero di Parmenide quello consultabile nel paragrafo terzo del quarto capitolo, a cura di G. Giannantoni, del volume III della Storia della filosofia diretta da M. Dal Pra, Vallardi, Milano, 1975. Si pu fare riferimento anche al capitolo terzo del primo volume della Storia della filosofia a cura di P. Rossi e C. A. Viano, Laterza, Roma-Bari, 1993.

Per quanto riguarda laspetto specificamente cosmologico del Poema sulla natura pu essere utile affrontare la lettura del capitolo sesto (Il mondo di Parmenide. Note sul poema di Parmenide e sulla sua origine agli albori della cosmologia greca) di K. Popper, Il mondo di Parmenide. Note sul poema di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, Piemme, Casale Monferrato, 1998.

Parte terza: Crisi della tradizione mitico-religiosa e nuovi orizzonti del pensiero teologico nellet della polis [lezioni 10- 13]
Lezione n. 10: Polemica e convivenza

Lorizzonte cittadino muta profondamente i punti di riferimento delluomo greco e tra questi anche la dimensione religiosa: nellAtene democratica del V secolo le avanguardie intellettuali si scontrano con il conservatorismo di alcuni ambienti, ma talvolta trovano anche nuove modalit di approccio alla tradizione. Preliminarmente da ricordare la messa per iscritto dei poemi omerici alla met del VI secolo per iniziativa del tiranno ateniese Pisistrato, che mette cos a disposizione una versione ufficiale dei miti iliadici e odissiaci, ponendo un freno al proliferare di varianti, ma, soprattutto, consentendo la riflessione critica su quanto si trova in quei testi. A partire da qui tutto lapparato mitico a subire lattenzione, spesso in chiave polemica, degli intellettuali ateniesi. Nonostante la fissazione e il conseguente irrigidimento del mito, esso continua a stimolare la fantasia, a rimodellarsi tra le mani dei pensatori che ne sfruttano la caratteristica duttilit e poliedricit. Il poeta-filosofo Senofane di Colofone, che nasce intorno al 570 a.C., scaglia i suoi strali contro Omero e Esiodo:
L10-T1 Contro Omero

Omero e Esiodo hanno attribuito agli dei tutto ci che per gli uomini onta e biasimo: e rubare, e fare adulterio e ingannarsi a vicenda. [fr.11 DK] Ma i mortali si immaginano che gli dei siano nati e che abbian vesti, voce e figura come loro. [fr. 14 DK] Ma se i bovi e i cavalli e i leoni avessero le mani, o potessero disegnare con le mani, e far opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dei, e simili ai bovi il bove, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro. [fr.15 DK] Gli Etiopi dicono che i loro dei hanno il naso camuso e son neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi. [fr.16 DK] I frammenti presentati polemizzano contro tre aspetti dellimmagine degli dei tratteggiata dai due poeti: lantropomorfismo del loro aspetto esteriore; lempiet dellattribuzione agli dei di caratteri psicologici e azioni biasimevoli, che li abbassa a livello quasi umano; larbitrariet di una simile raffigurazione che risente di un assurdo particolarismo etnico, tanto che le divinit finiscono con l'assomigliare anche fisicamente ai popoli di cui sono costruzione.

Se vi sono dei, essi si devono necessariamente distinguere dagli uomini. Il vecchio pantheon non soddisfa dunque le esigenze della polis: gli dei omerici sono oggetti costruiti, frutto di opinione, sottoponibili a falsificazione. Senofane non sembra per avvertire la costitutiva antistoricit della sua operazione: si confronta con Omero come con un concittadino, non tiene conto del fatto che il suo mondo e il suo universo conoscitivo sono profondamente diversi dal contesto che ha dato origine ai miti che critica.

Omero, ovviamente, non pu rispondere di persona alle critiche di Senofane; in sua difesa si schierano dunque i rapsodi. L'arma pi efficace per difendere un testo ormai immutabile perch scritto diventa la interpretazione allegorica. Tornando al carattere di costruzione attribuito da Senofane agli dei, facile notare come, accanto alla critica alla pedagogia poetica, si affaccino dubbi anche pi profondi sulla natura reale della divinit. Si indaga innanzitutto sulla genesi del pantheon olimpico. La risposta razionalistica pi efficace e radicale si ha con Crizia, in linea con le prime formulazioni dissacranti circa la natura contrattualistica dello Stato e lopposizione phsis-nmos (naturalegge) elaborate nellambiente sofistico.
L10-T2 La vera origine degli dei

Un tempo vi fu quando senzordine era la vita umana e bestiale e serva della forza, quando non cera premio per i buoni n quindi si davano castighi ai malvagi. In seguito penso che gli uomini abbiano emanato leggi per punire, affinch la giustizia sia sovrana di tutti al pari e consideri schiava linsolenza. Ed era castigato chiunque errasse. Quindi, poich le leggi impedivano loro di compiere delitti palesi con violenza, ma occultamente agivano, allora io credo che per la prima volta un uomo astuto e saggio nella mente invent per gli uomini il terrore degli dei, perch i tristi temessero anche per ci che in modo occulto compissero o dicessero o pensassero. Quindi introdussero il divino che manifestazione demonica fiorente di vita immortale che con forza percettiva ode e vede, attuando una volont e reggendo il tutto, avendo perennemente in s natura divina; questa forza demonica udr quanto fra gli uomini si dice e vedere potr ogni loro azione. Se mala impresa tu mediti in silenzio, non sfuggir agli dei, perch capacit percettiva sta negli dei. Con questa dottrina addusse il pi soave degli insegnamenti occultando la verit con falso verbo. Diceva che gli dei abitano col dove egli al sommo poteva atterrire gli uomini, donde sapeva che ai mortali timori provengono e lotte alla misera vita, dallalto vortice, dove vedeva trovarsi i fulmini e i fragori orrendi del tuono e la stellante volta urania, bel ricamo del saggio artefice Chronos, da dove muove la massa fulgida del sole e la pioggia scende umida a terra. Tali terrori vibr attorno agli uomini e tramite il loro aiuto, ragionando, bene instaur la potenza demonica e in luogo adatto, e spense con le leggi lassenza di ogni legge. Dopo un breve sviluppo didee aggiunge: Cos, penso, in principio qualcuno persuase gli uomini a credere che gli dei esistano. [Crizia, Sisifo fr.25 DK] La tesi centrale nel testo di Crizia laffermazione della natura politica della credenza negli dei. Largomentazione si sviluppa progressivamente nei seguenti punti: lesistenza di uno stadio bestiale della storia umana, uno stato di natura privo di leggi, in cui, complice la natura delluomo, vigono anarchia e violenza; la instaurazione umana delle leggi allo scopo di salvaguardare la giustizia e di rendere tutti uguali dinanzi a essa; la capacit coercitiva della legge si limita allambito delle azioni pubbliche, palesi, visibili; il timore degli dei supera tali limiti rendendo lindividuo visibile in ogni momento allocchio panoramico del dio;

la creazione delle figure divine del tutto strumentale al controllo sociale e le caratteristiche degli dei sono funzionali al loro compito di controllo sulle azioni private degli uomini.

Chiariti questi passaggi si pu facilmente notare il parallelismo proposto da Crizia tra legge e credenza negli dei, luna valida in pubblico, laltra in privato, ma entrambe fonti di limitazione della phsis che, se richiede limposizione di barriere, perch potenzialmente distruttiva della convivenza civile: la societ umana priva di nmos infatti connotata come senzordine, bestiale e serva della forza. Ma per controllare le spinte bestiali delluomo non sufficiente la legge, occorre un dio che vede e ode tutto ci che luomo compie, anche in segreto. Accanto alla motivazione politica addotta da Crizia per dar conto del culto degli dei, Prodico di Ceo avanza unipotesi per certi versi simile, basata sullutile quale fondamento della teologia. Chiarissima la testimonianza di Sesto Empirico:
L10-T3 Dei e Utile

Prodico di Ceo afferma: Gli antichi considerarono dei, in virt del vantaggio che ne derivava, il sole, la luna, i fiumi, le fonti e, in generale, tutte le forze che giovano alla nostra vita, come, per esempio, gli Egizi il Nilo e per questo il pane era considerato come Demeter, il vino come Dioniso, lacqua come Posidone, il fuoco come Efesto, e cos ciascuno dei beni che ci utile. [Sesto Empirico, Contra matematicos, IX, 18=DK 84B5] Prodico, pur rifiutando unetica volta al conseguimento del piacere, sostiene per che la morale non mai disgiunta da ci che vantaggioso e utile per chi la pratica. Allinterno di questa visione rientra anche la sfera religiosa, pertanto: gli dei non sono altro che le entit che si dimostrano utili alla vita umana che hanno subito un processo di divinizzazione dimenticato con il passare del tempo; implicitamente chiaro che solo loblio di questa operazione consente che si formi unidea del divino come dotato di unesistenza indipendente dalluomo che lo costruisce a immagine e somiglianza del mondo che lo circonda, come per sottolinearne con una personificazione gli aspetti che risultano pi carichi di valore, specie materiale, per la sua vita.

Dati questi presupposti, abbastanza semplice comprendere le ragioni per cui lesistenza degli dei viene messa in dubbio da un altro esponente della sofistica, Protagora:
L10-T4 Il problema dellesistenza degli dei

Riguardo agli dei non ho la possibilit di accertare n che sono, n che non sono, n di che natura sono, opponendosi a ci molte cose: loscurit dellargomento e la brevit della vita umana. [fr.4 DK] Di tutte le cose misura luomo: di quelle che sono per ci che sono, di quelle che non sono per ci che non sono. [fr.1 DK] I due frammenti sono strettamente legati:

impossibile prendere posizione, per mancanza di prove, circa lesistenza degli dei e, eventualmente, circa la loro natura; non resta alluomo che affidarsi a se stesso come misura (mtron) delle proprie azioni, dei propri valori, delle proprie verit: resta solo il giudizio sul mondo espresso da un tribunale composto da uomini.

Si intuisce come posizioni tanto radicali, agnostiche, razionalistiche, demistificanti non potessero essere facilmente accolte dalla citt e fossero suscettibili di essere interpretate come mosse rivoluzionarie, destabilizzanti, empie e pertanto da condannare, pena la decadenza della citt stessa. Questa la posizione del commediografo Aristofane che, nelle Nuvole, commedia del 423 a.C., assimilando la figura di Socrate a quella di un sofista-naturalista, condanna tutto un clima culturale colpevole ai suoi occhi di voler cancellare la tradizione religiosa dei padri.
L10-T5 Il conservatore Aristofane

Fidippide: Che ne diresti se usando il discorso minore ti convincessi a forza di parole che si impone di suonare la propria madre? Strepsiade: Chi ti pu impedire se fai questo di buttarti nel burrone tu, Socrate e il discorso minore? Per voi mi succede, o Nuvole, dopo avervi affidato me stesso Corifea: Solo tu sei causa di tutto: ti sei messo a fare il delinquente. Strepsiade: perch non mi avvertivate allora, invece di illudermi, un campagnolo per giunta vecchio? Corifea: Lo facciamo sempre, quando vediamo uno che smani per le mascalzonate. Lo imbarchiamo in un guaio, cos impara a temere gli dei. Strepsiade: E stato amaro, o Nuvole, ma santo: non dovevo negare i debiti che ho fatto. (Al figlio) Nessuno mi tiene, adesso. Vieni con me, caro, andiamo ad accoppare quel mascalzone di Cherefonte e Socrate. Ci hanno ingannati, me e te. Fidippide: Come, fare un torto ai maestri? Strepsiade: Certo, e rispetta il dio dei padri tuoi Fidippide: Sentilo, il dio dei padri! Uomo antiquato : che, esiste dio? Strepsiade: Esiste s. Fidippide: Noooh: da quando regna la Turbina, che ha cacciato Zeus. Strepsiade: Che cacciato? Ci credevo pure io, non si parla che di turbine oggi! Povero me, che lho creduta un dio! Fidippide: Continua a sragionare, per conto tuo: tutte sciocchezze! (Esce) Strepsiade: Oh, che mattana: ero pazzo, rinnegare gli dei per via di Socrate! (Rivolgendosi a unedicola del dio) Non ti arrabbiare, Ermete caro,non rovinarmi: abbi piet, avevo perso la testa per la chiacchiera. Dammi un consiglio: li devo citare in tribunale, o che ti pare? Hai ragione, dici di non fare processi: dare subito fuoco alla casa dei lestofanti? (Al servo) Corri, Santia, corri fuori: prendi una scala, porta il piccone. Arrampicati sul Pensatoio, sfonda il tetto, se vuoi bene al padrone: finch non gli cade la casa addosso. Portatemi una torcia, accesa: oggi me la paga, uno di loro, hanno voglia di imbrogliare! [Aristofane, Nuvole, trad. Marzullo] Il brano tratto dal finale della commedia, momento in cui il vecchio Strepsiade, dopo aver convinto Socrate a istruire il figlio Fidippide affinch possa, con abile arte retorica, tener lontani i creditori, si trova davanti il figlio che, educato secondo i dettami socratico-sofistici, non riconosce pi gli antichi valori (il rispetto per i genitori in particolare) n le divinit olimpiche. Il vecchio, ingannato dai miraggi della nuova cultura, si pente ora di avervi fatto ricorso e cerca di riportare il figlio alla ragione.

Il testo stigmatizza: la venerazione per i maestri da parte dei giovani allievi: ladesione ai retori incantatori e alle loro empie teorie distrugge il timore verso gli dei; il naturalismo delle concezioni filosofiche dellepoca con la conseguente divinizzazione della natura e dimenticanza degli dei olimpici: la Turbina e le Nuvole hanno cacciato Zeus; limmoralit conseguente ai nuovi insegnamenti: Fidippide picchia il padre e minaccia di fare lo stesso con la madre, pensando di poter persuadere chiunque della giustezza di simili atti; lagnosticismo di alcune posizioni: si veda, a riprova, il testo di Protagora.

Nonostante la radicalit delle posizioni sofistiche, proprio in questo clima si nota la permanenza di figure mitiche e delle loro vicende nel bagaglio culturale degli intellettuali dellepoca che piegano tali reminiscenze alle proprie esigenze argomentative e ai nuovi criteri di valutazione. Esemplare il caso di Gorgia, che utilizza il personaggio di Elena e i controversi giudizi espressi su di esso per mostrare la forza persuasiva delle parola. Gorgia intraprende limpresa titanica di difendere lagire di Elena scandagliandone le possibili motivazioni, le attenuanti, le circostanze. Fa di se stesso il difensore di un imputato nel tribunale cittadino, impegnato a convincere con la sola forza della parola i giudici. La rivoluzionaria riabilitazione di Elena un gesto che mette in discussione laffidabilit e il valore della verit mitica e, dunque, di unintera cultura. Anche a Protagora attribuita, da Platone (Protagora, 320d-322d), la narrazione di un mito a sostegno della sua concezione politico-pedagogica: il mito riguarda lorigine delle comunit umane, che, alla stregua di Crizia, Protagora vede come inizialmente afflitte da disordini e discordie cui pone fine Zeus distribuendo ai mortali pudore e giustizia. Il mito si fa in questa occasione fautore del sistema democratico.

Lezione n. 11: Socrate e gli dei cittadini

Personaggio esemplare, intellettuale cittadino per eccellenza, Socrate una figura carica di segreti e difficolt interpretative: accanto alla questione delle fonti, del suo silenzio, delle sue dottrine, innanzitutto il suo rapporto con la citt a costituire un problema. Il cittadino irreprensibile e fiero della sua cittadinanza, tanto da non allontanarsi mai dalla patria, condannato dal tribunale dei concittadini con accuse infamanti di corruzione dei giovani e empiet. Le testimonianze di Senofonte e Platone sottolineano lassurdit delle imputazioni, ribadendo la fedelt di Socrate ai culti patrii, ma soffermandosi anche sugli aspetti che distinguono la sua visione degli dei da quella comune. Senofonte si chiede meravigliato su quali basi si sia resa possibile laccusa:
L11-T1 Laccusa di empiet

Pi volte mi sono meravigliato delle ragioni con cui gli accusatori di Socrate riuscirono a persuadere gli Ateniesi che egli era reo di delitto capitale contro lo stato. Laccusa contro di lui era in sostanza questa: Socrate colpevole di non credere negli dei in cui la citt crede e di introdurre altre nuove divinit; reo pure di corrompere i giovani. Innanzitutto, che non credesse negli dei in cui lo stato crede, quale mai prova ebbero? Sacrificava spesso in casa, spesso sugli altari comuni della citt, ed era noto a tutti: usava anche la divinazione e non ne faceva un segreto. Era comunemente noto un suo detto che il demone gli dava suggerimenti. Di qui soprattutto mi sembra che labbiano accusato di introdurre nuove divinit. In realt egli non ne introdusse nessuna diversa da quelle degli altri, che, credendo alla divinazione, ricorrono agli auguri, agli oracoli, ai presagi, ai sacrifici. Costoro suppongono che gli uccelli e le persone incontrate non sanno affatto quello che serve a chi pratica la divinazione, ma che gli dei lindicano mediante tali mezzi: ed anche egli pensava cos. Ma mentre i pi affermano che sono trattenuti o spinti ad agire dagli uccelli e dalle persone incontrate, Socrate, al contrario, come credeva, cos diceva e asseriva che glielindicava il demone. E consigliava molti dei suoi famigliari a fare certe cose, a non farne delle altre, a seconda dellavvertimento del demone: e quarti gli dettero ascolto si trovarono bene, quanti invece lo respinsero ebbero a pentirsi. Ora, chi non ammetter che egli non volle apparire ai suoi famigliari n sciocco n millantatore? E invece luno e laltro sarebbe sembrato se, predicendo le cose come manifestategli dal dio, fosse apparso mentitore. E chiaro quindi che non le avrebbe annunciate, se non fosse stato convinto della loro verit. Era convinto che gli dei si prendono cura degli uomini, ma non al modo che credono i pi: costoro infatti pensano che gli dei conoscono alcune cose, altre no; Socrate, invece, riteneva che gli dei conoscono tutto, quel che si dice, si fa, si pensa in segreto, che sono presenti dovunque e predicono agli uomini tutte le cose umane. Mi meraviglio quindi come mai gli Ateniesi si lasciarono persuadere che Socrate non fosso pio verso gli dei, egli che non disse n commise mai empiet contro di loro, ma disse e fece nei loro confronti ci che dovrebbe dire e fare un uomo per essere in realt e, insieme, per essere stimato, in sommo grado religioso. [Senofonte, Memorabili] Innanzitutto da notare la tripartizione dellimputazione di Socrate: il disconoscimento degli dei in cui crede la citt; la introduzione di nuove divinit; la corruzione dei giovani di cui, evidentemente, parte non secondaria proprio linsegnamento scettico e innovativo in materia religiosa.

Senofonte obietta innanzitutto al primo punto sostenendo che: Socrate sacrificava in privato e pubblicamente e si avvaleva della pratica divinatoria; Socrate riteneva che gli dei si prendessero cura degli uomini.

Su un tronco tradizionale si innestano per le apparenti novit. Senofonte mitiga quelli che ritiene gli aspetti della religiosit socratica che hanno prodotto la condanna, depotenziandoli, ma allo stesso tempo rimarca il fatto che essi, ben lungi dal costituire credenze blasfeme, sono testimonianza di una estrema fiducia negli dei e nelle pratiche cittadine, che anzi rivalutano e portano alla massima espressione garantendo loro efficacia e potenza inaudite: il demone non affatto una nuova divinit, ma una diversa declinazione della pratica profetico-divinatoria: Senofonte fa notare la veridicit delle predizioni e lesito positivo dei consigli del demone nella vita di Socrate e delle persone a lui vicine che lhanno ascoltato. la potenza divina non viene messa in discussione da Socrate che ritiene gli dei partecipi della vita umana e onniscienti, riconoscendo loro un potere maggiore rispetto alla credenza comune che reputava limitata la loro conoscenza.

La conclusione di Senofonte non pu che essere, alla luce di tali prove, che Socrate era un uomo estremamente pio e religioso. Tale risultato del resto in linea con lintero ritratto prodotto nei Memorabili, dove lattenzione si focalizza sulla personalit e sulla componente moralistica dellinsegnamento di Socrate, presentate come profondamente in armonia tra loro. La testimonianza senofontea fa emergere linconsistenza dellaccusa di empiet che, piuttosto, si mostra nel suo volto di espediente di sicuro effetto per liberarsi di un personaggio scomodo: la messa in discussione degli dei, nellorganismo complesso della polis antica, coincide con un colpo assestato allistituzione cittadina stessa: chi si macchia di hbris (tracotanza) nei confronti degli dei, quale rispetto potr avere per i costumi e le leggi cittadine e umane? Quale educatore potr mai essere? Ecco anche chiarito il significato del legame tra le due accuse. Dei della citt e dei privati Il culto civico ha il valore di una legge, trasgredirlo non significa venir meno a una qualche ortodossia o rinnegare una fede, ma tradire una citt e le leggi che si sono accettate decidendo di vivere in essa, come mostra Socrate nel Critone. Gli dei, per questo, sono gli dei della citt: non un caso che accanto ai culti cittadini, che hanno il carattere di vere e proprie feste civili, si sviluppino in Grecia riti dionisiaci, misterici e soteriologici che via via acquisiscono adepti poich rispondono a esigenze diverse, private, interiori, assai distanti dalla pubblicit e esteriorit dei riti che lo stesso Socrate, del resto, compie. Con la crisi della polis tali manifestazioni religiose, fino a quel momento minoritarie, avranno sempre pi peso, perch rispondenti a una situazione di isolamento dellindividuo e di dissoluzione del tessuto di collettivit e autoriconoscimento in essa che la polis ha saputo produrre. Socrate non si limita per a affermare la sua fede negli dei; egli chiama a garanzia del suo sapere il dio di Delfi che lha indicato come il pi sapiente degli uomini:
L11-T2 Loracolo delfico

Della mia sapienza, se sapienza e quale sia, vi presenter a testimone il dio di Delfi. ()

Un giorno (Cherefonte) and a Delfi e os consultare loracolo su questo ripeto, cittadini, non rumoreggiate - chiese dunque se cera qualcuno pi sapiente di me. La Pizia rispose che non cera nessuno. Su ci vi potr dare testimonianza suo fratello qui presente, perch Cherefonte morto. Guardate perch vi dico questo: sto per spiegarvi donde ebbe origine la calunnia. Udito il responso, riflettei: Che cosa vuol dire il dio? A che cosa allude? Sono consapevole di non essere sapiente, n poco n molto. Che cosa vuol dire allora quando afferma che sono il pi sapiente di tutti? Certo non mente, perch non gli lecito. Per molto tempo restai incerto su che cosa volesse dire; poi controvoglia mi volsi a cercarlo. Mi recai da uno di quelli considerati sapienti, convinto che soltanto cos avrei confutato il responso e indicato alloracolo Costui pi sapiente di me, mentre tu dicevi che ero io. () Questa indagine, cittadini Ateniesi, mi procur molte inimicizie e cos gravi e pericolose, che ne nacquero molte calunnie e ne ricevetti la nomea di sapiente. Ogni volta gli astanti credono che io sappia le cose su cui confuto un altro. Ma forse, cittadini, veramente sapiente solo il dio e col suo oracolo intende dire che la sapienza umana poco o nulla. Sembra che parli di Socrate, ma si serve del mio nome solo come di un esempio, come se dicesse: O uomini, tra voi il pi sapiente chi, come Socrate, ha riconosciuto di non valere veramente nulla in fatto di sapienza. Per questo ancor oggi vado in giro a cercare e a esaminare, secondo lindicazione del dio, chi posso credere sapiente fra i cittadini e i forestieri. E se mi pare che non lo sia, coadiuvo il dio dimostrando che non sapiente. Questa occupazione mi ha tolto il tempo di fare ogni altra cosa degna di menzione per la citt e per la mia casa, anzi, per questo servizio al dio, vivo in estrema povert. [Platone, Apologia di Socrate, 20e-21d; 23a-23c] Socrate si interroga sulla natura della sua sapienza, cui loracolo delfico ha riconosciuto un primato, ribadendo: la fiducia nella parola oracolare: al dio non concesso mentire e, per quanto bizzarro e oscuro risulti il responso, esso deve essere vero; il carattere umano della sua sapienza e dunque lincolmabile distanza che la separa da quella divina: questa particolare conoscenza consiste piuttosto nel pacato riconoscimento della sua limitatezza e pochezza; laffidamento da parte del dio di una missione verso i suoi concittadini (o, genericamente, i suoi simili), affinch acquisiscano anchessi la coscienza della propria ignoranza e accettino pertanto con maggiore serenit e responsabilit la propria condizione; la dedizione totale che il servizio al dio impone.

Latteggiamento di Socrate, la sua risposta allimpegno impostogli dal dio e la sua profonda religiosit e disciplina interiore nel seguirlo sono indici di una sensibilit religiosa che coinvolge maggiormente lindividuo, lo fa portavoce del dio in un senso diverso rispetto al poeta o alloracolo ispirati dalle Muse o da Apollo. Accanto a tale dimensione permane per anche la fede nella religione della citt e nei suoi mezzi di veicolazione del messaggio divino. Non a caso Socrate chiama a testimone, come voce autorevole e degna di ascolto, il dio delfico.

Lezione n. 12: Religione e tragedia

La citt di Atene trova nel V secolo un momento di coesione e di pedagogia collettiva nellesperienza del teatro, in particolare della tragedia. La rappresentazione della tragedia avveniva, lungo tutto larco della giornata, nel corso di alcune solennit (le Piccole e le Grandi Dionisie, le Lenee, le Antesterie). Si assisteva a un vero e proprio concorso tragico, organizzato in queste occasioni accanto ad altri agoni artistici. Lelevato coinvolgimento popolare rendeva particolarmente importante, da un punto di vista politico, il momento della selezione dei drammi, il cui contenuto non poteva essere sottovalutato. Laspetto educativo e il ruolo di opinion maker assunto in taluni casi dal tragediografo erano il punto darrivo, la declinazione politica, di un processo che lega nel mondo greco poesia e societ. Ma la tragedia presenta anche un altro volto, quello religioso: connessa ai culti dionisiaci, essa presenta nelle vicende narrate, una potente rielaborazione del materiale mitico, intrisa, in Eschilo e Sofocle, anche di un profondo sentimento religioso, pi razionalizzata in Euripide. Al legame con Dioniso si riferiscono le parole di Aristotele:
L12-T1 Dioniso, dio della tragedia

Tanto la tragedia che la commedia erano allinizio basate sullimprovvisazione: la prima deriv da coloro che intonavano il ditirambo () e dopo essere passata attraverso vari cambiamenti arrest la sua evoluzione una volta raggiunta la natura che le propria (). Derivata da brevi racconti e caratterizzata in origine da un linguaggio ridicolo, impieg molto tempo per affrancarsi dallelemento satiresco e acquisire gravit di tono. [Aristotele, Poetica, 1449a] Aristotele affronta il problema dellorigine del genere tragico, cos come far Nietzsche nellOttocento con la sua Nascita della tragedia in cui ricondurr alla straordinaria fusione dei due impulsi antitetici di dionisiaco e apollineo la scaturigine del dramma attico e la ragione della sua unicit. Due i punti chiave del testo aristotelico: il richiamo al ditirambo e al coro che lo intonava; la reminiscenza dellelemento satiresco.

Entrambi si legano al culto dionisiaco: i satiri formavano il seguito di Dioniso: difficile da spiegare risulta per il passaggio dal dramma satiresco, unopera buffa, alla tragedia ditirambica; il nesso del ditirambo con il culto di Dioniso indubbio: ditirambo designa il genere di danza e di musica che accompagnava il sacrificio dionisiaco e che attravers il passaggio dalla forma dell'azione rituale a genere letterario-musicale.

Nonostante questo, la teoria aristotelica e quelle che, anche in epoche successive vi si sono richiamate risultano fragili: stato supposto che lo schema iniziale dei poemi tragici avesse relazione con la passione di Dioniso (L2-T4) o derivasse da uno scenario da carnevale; oppure che i coristi della tragedia in origine si travestissero da satiri;

non vi nessun indizio positivo che possa corroborare la conclusione che la tragedia originaria fosse un ludo della passione di Dioniso; a quanto sembra, nel ditirambo non esistevano dialoghi; i tre generi teatrali (commedia, tragedia, dramma satiresco) comportavano la maschera o travestimenti di attori e coreuti, di cui non si trova traccia nei testi riferiti al ditirambo letterario.

Quali che siano le origini rituali della tragedia, nei suoi contenuti il mito a misurarsi con le sue stesse potenzialit pedagogiche e le innumerevoli variazioni possibili. Ancora Aristotele, nel soffermarsi su uno degli ingredienti fondamentali della tragedia, la fabula, il racconto, ne delinea lintricato rapporto con il mito affermando che i tragediografi: si richiamano ai miti tradizionali pur non restando rigidamente a essi fedeli. Il mito dunque riplasmato dal tragediografo, conformemente allimmagine greca del poeta come artigiano la cui creativit si esercita nel reperimento e nella rielaborazione di eventi e figure gi fissati dalla tradizione. Quando la tragedia si afferma ad Atene, il mondo del mito gi percepito come distante, la critica razionalistica ha gi abbattuto la fiducia in esso, ma il mito resta un elemento cui i greci guardano come costitutivo della loro identit collettiva; in conformit con questa tensione tra passato e presente in cui si colloca, esso subisce un processo di riattualizzazione. Atena: Su questo colle Reverenza (aids) e Paura (phbos), che di Reverenza cognata, impediranno ai cittadini di far offesa a Giustizia, quando non vogliano essi stessi sovvertire le leggi: chi di correnti impure e fango intorbida limpide acque non trover pi da bere. N anarchia n dispotismo; questa la regola che ai cittadini amanti della patria consiglio di osservare, e di non scacciare del tutto dalla citt il timore perch senza il timore nessuno dei mortali opera secondo giustizia. E se voi, come dovete, avete timore e reverenza della maest di questo istituto, il vostro paese e la vostra citt avranno un baluardo di sicurezza quale nessunaltra gente conosce, n tra gli Sciti n nella terra di Pelope. Incorruttibile al lucro io voglio questo Consiglio, e rispettoso del giusto; e inflessibile, pronto, vigile scolta che, se anche gli altri dormono, desta. [Eschilo, Eumenidi, 690-705] Il testo tratto dal finale delle Eumenidi, terza tragedia della trilogia che va sotto il nome di Orestea e che narra le vicende seguite al ritorno in patria di Agamennone dalla guerra di Troia: la sua uccisione ad opera della moglie Clitemnestra e dellamante Egisto e lomicidio ai loro danni di cui si macchia Oreste, figlio di Agamennone, per vendicare il padre. Oreste giudicato ad Atene, dove la dea Atena istituisce il tribunale dellAreopago. Il discorso della dea rappresenta un potente tratto di attualizzazione del mito: si fa portatore, tramite la voce autorevole di Atena, di un messaggio alla cittadinanza da parte del poeta; risente di un dibattito politico interno alla citt: in quegli anni le riforme dei democratici radicali di Efialte stanno mutando completamente la gestione della politica interna ad Atene; il drastico ridimensionamento delle competenze dellAreopago, lantico tribunale, ultima roccaforte dei conservatori, a vantaggio degli istituti democratici scatena la

L12-T2 Il mito attuale

reazione dei pi moderati. Atena sprona alla moderazione: invitando a un governo che non costituisca n anarchia, n dispotismo.; la tensione tocca il culmine con lassassinio di Efialte. Da qui linvito di Atena a evitare la lotta civile, salvaguardando la concordia.

Il poeta rimodella dunque le storie tradizionali dal punto di vista del presente e trova spazi per chiarire questo profondo legame con lattualit. In Euripide ad esempio, molti sono i riferimenti alla guerra e gli appelli pacifisti dei personaggi, chiari riflessi del clima di stanchezza per il trascinarsi e le disfatte della Guerra del Peloponneso respirato dal tragediografo nellAtene degli ultimi due decenni del V secolo: i protagonisti di questi drammi, le Troiane e lEcuba, sono Troiani, ovvero gli sconfitti per eccellenza, coloro che hanno pagato pi duramente il prezzo della guerra pi celebrata dal mito. Specie in Euripide, inoltre, si ravvisano anche spunti polemici, vicini alle tesi sofistiche, contro una tradizione vissuta ormai come estranea.
L12-T3 La critica al mito

Io che gli dei si compiacciano di talami vietati dalle sacre leggi non credo, n mai pensai che (reciprocamente) avvincano catene alle loro braccia n di ci mi lascer persuadere, n che un dio abbia la natura di poter dominare un altro dio. Infatti un dio, se secondo verit un dio, non ha bisogno di nulla: questi sono i racconti sciagurati degli aedi. [Euripide, Eracle, vv.1341-1346] Sono parole che non necessitano di alcun commento: lo spirito che le anima chiaramente il medesimo dei frammenti di Senofane (L10-T1). Ma simili echi si ritrovano anche in Platone (L14-T1). In particolare sono da sottolineare: la presa di distanza dallaedo, presentato come un ciarlatano; il biasimo per lattribuzione agli dei di azioni immorali; laffermazione della potenza divina come autarchica, il che invalida la possibilit di una gerarchia tra dei: con questa affermazione il poeta si pone accanto a Socrate e alla sua concezione del divino come essere che tutto vede e tutto ode (L11-T2).

Se Euripide non pi in grado di comprendere il senso del racconto mitico, quali fonti potranno mai fornirgli opinioni condivisibili e razionalmente provate dellesistenza degli dei?
L12-T4 La vena antireligiosa

Cos un dio? Cosa non ? Esiste alcunch di intermedio? Chi fra i mortali pu dire di aver trovato, cercando, il termine estremo, se vede le azioni divine balzare qua e l, e di nuovo altrove, in gioco di opposte e imprevedibili sorti? [Euripide, Elena, 1137-1143] Vedo finalmente come sono falsi e menzogneri i responsi degli indovini. Nessuna utilit c nellesaminare i movimenti della fiamma o le voci degli uccelli, da stupidi pensare che gli uccelli si rendano utili agli uomini [Euripide, Elena, 744-748]

I due brevi brani dellElena sono vivacemente in opposizione con limmagine socratica del divino, nonostante la lunga tradizione che, dallantichit a Nietzsche, ha accostato i due personaggi: Euripide dichiara il suo agnosticismo, con chiari accenti protagorei (L10-T4), laddove Socrate, afferma di credere negli dei; Euripide denigra la pratica divinatoria: Socrate, invece, persino visto come un indovino sui generis, la cui capacit profetica si basa certo su una voce divina assai particolare, ma accostata proprio a tali esperienze religiose.

E per ancora Euripide a presentare la compiuta forma del nuovo dio, la cui figura esce dallesperienza tragica profondamente deantropomorfizzata e sfaccettata, come una potenza impersonale che regge lordine universale:
L12-T5 Gli dei nella tragedia

Tu che sei sostegno della terra e sulla terra troneggi, chiunque mai tu sia, impenetrabile alla conoscenza, o Zeus, legge di natura o intelligenza dei mortali, io ti prego: movendoti lungo un sentiero silenzioso tu guidi tutte le cose mortali secondo giustizia. [Euripide, Troiane, vv. 884-888] Quasi identiche le parole, pi antiche, di Eschilo nella parodo (il canto corale dingresso) dellAgamennone: Strofe2: Zeus, quale mai sia il tuo nome, se con questo ti piace esser chiamato, con questo ti invoco. N certo ad altri posso pensare, nessun altro allinfuori di te riconoscere, se veramente questo peso vano dallanima voglio scacciare. Antistrofe2: Tale fu grande un giorno e fiorente di ogni audacia guerriera, e di costui neppure pi si dir che esistette; poi venne un secondo, e anche questo comparve, trovando un terzo pi forte. Chi con cuore devoto canta epinici a Zeus, questo soltanto avr colto suprema saggezza. Strofe3: Le vie della saggezza Zeus apr ai mortali, facendo valere la legge che sapere soffrire. Geme anche nel sonno, dinanzi al memore cuore, rimorso di colpe, e cosi agli uomini anche loro malgrado giunge saggezza. E questo beneficio dei numi che saldamente seggono al sacro timone del mondo [Eschilo, Agamennone, vv.159-183, trad. Valgimigli] I due testi, proprio perch appartenenti a due autori assai diversi, testimoniano un sentire comune, evidentemente diffuso: il politeismo pagano non risulta incompatibile con spunti monoteistici: nonostante le numerose divinit, il loro nome momentaneo, irrilevante, quel che conta, e che spiega anche il sincretismo religioso, il riconoscimento della presenza divina, identificata dai due tragediografi con Zeus, ma quale mai sia il tuo nome, se con questo ti piace esser chiamato, con questo ti invoco; il divino regge il mondo, ne il timone, ma, soprattutto, rappresenta, come gi in Esiodo, il garante della giustizia: la giustizia divina ci in cui trova consolazione il dramma delleroe. Al di l dellinspiegabilit delle dinamiche della giustizia, conta che vi sia un dio che possa reggerne le fila, seppure per vie imperscrutabili, affinch essa trionfi. Per Euripide, soprattutto, Zeus, lancora di salvezza dallapparente irrazionalit

delluniverso, lunica garanzia giustificatrice di una ricerca della verit razionale, umanamente attingibile; Zeus emerge come educatore: la consapevolezza e la presa di responsabilit relativamente al proprio errore, che leroe tragico acquisisce spesso a costo della vita, anchessa opera di Zeus, che responsabilizza lindividuo di fronte alle proprie azioni, lo rende saggio con la sofferenza impostagli per effetto delle sue colpe.

Resta a questo punto da analizzare, in relazione al rapporto della tragedia con la citt e la religione, un aspetto legato al ruolo dello spettatore e al fine che nei suoi confronti questo genere di opera drammatica si prefigge. Scrive Aristotele:
L12-T6 La catarsi tragica

Tragedia dunque mimesi di unazione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano piet e terrore ha per effetto di sollevare e purificare lanimo da queste passioni (ktharsis tn pathemton). [Aristotele, Poetica, 1449b 24-28] Il filosofo coglie nellinterazione tra la tragedia e il suo pubblico due aspetti: il coinvolgimento emotivo dello spettatore che diviene cos partecipe dellazione drammatica provando piet e terrore; l'effetto catartico, ovvero purificatore, che la liberazione di tali sentimenti porta a compimento.

Qual il senso di questa catarsi? il termine greco ktharsis presenta diversi legami con la sfera religiosa, con i riti di purificazione delle pi diverse specie, ed in tal senso, oltre che per la sua connessione con i culti dionisiaci, che la tragedia possiede aspetti rituali e sacrali; Aristotele, al di l della scelta terminologica, riconduce la esorcizzazione dei sentimenti suscitati a una sfera decisamente umana: la piet e la paura sono provati dallo spettatore per il fatto che ci che accade alleroe, quantomeno possibile e dunque anchegli potrebbe venirsi a trovare nelle medesime condizioni; la depurazione da queste passioni consente il raggiungimento di una visione equilibrata e di uno stato danimo pi sereno e consapevole di fronte alle cose; la tragedia resta primariamente un rito collettivo: l'uso della musica nel trattamento e nella cura di certe affezioni dovute alla possessione (all'entusiasmo) deve essere stato cosa corrente e importante; il gioco da cui sembra aver avuto origine il dramma satiresco, procede direttamente da tale paideia catartica.

Lezione n. 13: La figura filosofica del dio

Se nel contesto della polis il rapporto con la tradizione mitico-religiosa da un lato incanalato in un culto civico, dallaltro si fa problematico, non viene per meno lesigenza della riflessione sulla natura della divinit. Si visto, in riferimento alla tragedia, come emergano forme di monoteismo pure in un contesto che fa uso largamente del materiale mitico. I filosofi della polis proseguono questo cammino affermando con forza la figura del dio unico, privo di caratteri squisitamente umani, frutto di una speculazione razionale e ragione esso stesso che costituisce il risvolto positivo e costruttivo della loro operazione critica. Scrive Senofane (vedi anche L10-T1):
L13-T1 Il dio di Senofane

Gli dei non hanno certo svelato ogni cosa ai mortali fin dal principio, ma, ricercando, gli uomini trovano a poco a poco il meglio.[fr.18 DK] Un solo dio, il pi grande tra uomini e dei, n per la figura n per i pensieri simile ai mortali.[fr.27 DK] Tutto occhio, tutto mente, tutto orecchio.[fr.28 DK] Ma senza fatica scuote tutto con la forza della mente.[fr.28 DK] Rimane sempre nello stesso luogo immobile n gli si addice spostarsi or qui or l. [fr.30 DK] In continuit con le sue critiche alle caratteristiche delle divinit protagoniste dei poemi omerici, Senofane costruisce il suo dio in opposizione a queste: unico; privo di caratteri antropomorfici sia in termini morali che fisici; identificabile con una mente pensante e onnisciente; con la forza della sua mente esercita la sua capacit modellatrice e trasformatrice, nonch ordinatrice e reggitrice; immutabile perch autosufficiente: il movimento indice di mancanza e ricerca di compimento, il dio, invece, in quanto tale, non ha bisogno di nulla.

Un po diverso il contenuto del frammento 18DK, che completa il quadro: confermando la distanza tra uomo e dio la cui differenza si gioca innanzitutto sul piano della capacit conoscitiva; esplicitando la possibilit-necessit della ricerca da parte delluomo per avvicinarsi il pi possibile alla scienza divina; caratterizzando il difetto conoscitivo come fonte di attivit, sforzo, fatica e movimento, assai lontani dalla stabilit immobile della figura divina.

Secondo Senofane lesatta e esaustiva verit, direttamente percepibile solo dal Dio e inconoscibile per l'uomo che possiede una conoscenza congetturale. Tra Dio e uomo esiste una distanza incolmabile, quasi che Dio rappresenti lideale limite di una conoscenza totale che arresta laffannarsi che attanaglia invece lesistenza umana: agli dei attivi dell'epopea omerica si sostituisce un dio astratto e immutabile.

Una particolare voce divina, assai distante dalle divinit omeriche, ma anche dallonnipotente dio di Senofane, avvertita da Socrate che cos la descrive:
L13-T2 Il daimnion

Cos mi pare che il dio mi abbia imposto alla citt affinch stimolandovi, persuadendovi e rimproverandovi uno per uno, non cessi mai di starvi appresso per tutto il giorno, in ogni luogo. () La causa di questo ci che mi avete sentito dire sovente in molti luoghi. Che in me c qualcosa di divino e di demonico, che anche Meleto ha indicato scherzando nellatto daccusa. Questo, che in me fin da bambino, come una voce, che, quando si fa sentire, mi distoglie sempre da ci che sto per fare e non mi spinge mai a nulla. E questo che mi impedisce di occuparmi di politica e fa bene ad impedirmelo, mi pare. Sapete bene, Ateniesi, che se da un pezzo avessi intrapreso ad occuparmi di politica, da un pezzo sarei morto e non sarei stato utile n a voi n a me. [Platone, Apologia di Socrate, 31a; 31d-e] Nel brano Socrate pone laccento: sulla missione affidatagli dal dio (vedi L9-T2); sulle ragioni della scelta del dio stesso: Socrate possiede in s qualcosa di divino, una voce che lo dissuade dal compiere alcune azioni, senza mai spingerlo a nulla. E la celebre e sintetica definizione del daimnion socratico.

Difficile chiarire quale sia lintento di Socrate nellintrodurre questa figura: la si interpretata come una primitiva voce della coscienza, oppure come una metafora del dovere morale, o, ancora, come vera e propria presenza divina. Universale per il riconoscimento dello speciale e primario rapporto tra religione e etica. La divinit non tanto garante del destino ultraterreno, n stabilisce da s ci che giusto e ci che non lo , ma gli dei confortano e confermano le scelte dellindividuo orientate da quei valori spirituali che essi per primi riconoscono, dal momento che, per certi versi, altro non sono che la concreta rappresentazione di quei valori. Ecco perch dunque in Socrate la credenza religiosa, e anche latteggiamento del demone, coincidono perfettamente con un corretto atteggiamento morale. Lopera del daimnion riconosciuta da Socrate anche nel momento pi drammatico della sua esistenza, quello della sua condanna a morte:
L13-T3 Socrate e la morte

A voi che siete amici, voglio mostrare che cosa significa ci che mi successo oggi. Infatti, o giudici, - chiamandovi giudici vi do il giusto nome - mi successo un fatto mirabile. La mia solita voce profetica, quella del demone, in tutto il passato era sempre molto frequente e si opponeva molto anche in questioni da poco, se ero sul punto di fare qualcosa scorrettamente. Ora invece mi successo, lo vedete anche voi, quello che si potrebbe credere e considerare lestremo dei mali. Ma il segno del dio non mi si opposto, n quando stamattina sono uscito di casa, n quando sono salito, qui in tribunale, n durante il dibattito in nessun momento, quando stavo per parlare. Eppure in altri discorsi mi ha fermato spesso mentre parlavo; ora invece durante questa faccenda non si opposto a nessuna mia parola o atto. Quale penso ne sia la causa? Ve lo dir. Forse ci che mi successo un bene e non possibile che pensiamo rettamente noi che crediamo la morte un male. Di ci ho avuto una

grande prova: impossibile che il solito segno non mi si sia opposto, se ero sul punto di fare qualcosa che non fosse bene. Consideriamo anche per questa via come ci possa essere grande speranza che esso sia un bene. Il morire una di queste due cose: o come non essere nulla e chi morto non ha nessuna sensazione, o, come si racconta, una specie di mutamento o di trasferimento dellanima da questo luogo a un altro. Se non avere nessuna sensazione, ma come un sonno quando si dorme senza sogni, la morte sarebbe un guadagno meraviglioso. (). Se invece la morte come un viaggio di qui in un altro luogo e sono veri i racconti che col sono tutti i morti, qual bene, giudici, potrebbe essere maggiore di questo? Se uno, giunto nellAde, libero da questi che si dicono giudici, trover i veri giudici, che si dice che sentenzino laggi, Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo e gli altri semidei che furono giusti nella loro vita, questo viaggio sar uninezia? E quanto non pagherebbe ciascuno di voi per trovarsi con Orfeo, Museo, Esiodo e Omero? (.). Anche voi, giudici, dovete nutrire buona speranza davanti alla morte e pensare che una cosa vera, questa: che ad un uomo buono non pu avvenire nulla di male, n in vita n in morte e le sue vicende non sono trascurate dagli dei. Cos le mie ora non sono avvenute per caso: a me chiaro che ormai il morire liberarmi dai fastidi era per me la cosa migliore.- per questo il segno non mi ha distolto in nessun momento; per questo non sono adirato con quelli che mi hanno condannato e con gli accusatori. () Ma ormai ora di andarsene, io a morire, voi a vivere: chi di noi vada verso la meta migliore, oscuro a tutti tranne che alla divinit. [Platone, Apologia di Socrate, 40a-41c; 41d-41e, 42a] Lassenza, in un momento tanto cruciale, della voce dissuasiva del demone spinge Socrate ad alcune considerazioni finali sulla divinit, la morte, la vita ultraterrena: la morte non pu essere un male, se la divinit, che sempre degna di fede, non tenta di impedire azioni che, come il discorso dello stesso Socrate in tribunale, a essa conducono. Solo lignoranza umana degli imperscrutabili disegni divini e leccessivo attaccamento alla vita che ne discende possono produrre unidea negativa della morte; Socrate riprende limmagine tradizionale dellAde ribaltandola in senso positivo, ma, soprattutto, testimoniando ancora una volta la presenza costante, seppure non acritica, della tradizione mitico-religiosa; al di l della questione sulla sua reale fede in questa raffigurazione, conferisce il massimo rilievo alle figure dei giudici infernali che, a differenza di quelli terreni, sono a conoscenza della totalit delle azioni, dei pensieri e dei progetti umani e divini e possono perci esprimere un giudizio veritiero, garantendo uneffettiva giustizia che si dispiega nelleternit; in conseguenza di ci, Socrate ribadisce che il dio non si disinteressa delle vicende terrene, ma le osserva e orienta rettamente il giudizio sullindividuo dopo la morte. data la preoccupazione divina nei confronti delle cose umane, per luomo buono non vi nulla da temere n nella vita n nella morte: ecco il legame etica-religione farsi pregnante; Socrate non afferma di credere in una vita ultraterrena, ma semplicemente, di ritenerla una conclusione possibile e positiva per il destino delluomo; in conclusione Socrate ribadisce la sua convinzione sullonniscienza divina: solo la divinit pu sapere se sia meglio vivere o morire, alluomo lasciata solo la possibilit di congetturare.

Parte terza: conclusioni

Lambiente della polis e soprattutto la sua forma democratica, portatori di uninsita plurivocit, mettono in crisi lindiscutibile autorit della parola sacrale del mito. In primo luogo, quindi, si apre nella polis un confronto con Omero e Esiodo, faccia a faccia che porta in s anche profondi significati politici: a far avvertire come ormai estranei gli autori tradizionali su cui ci si formati fino a quel momento in particolare il passaggio da modelli aristocratici di governo e concezione del mondo, basati sulla nobilt di sangue a una visione democratica che privilegia la collettivit in ambito sia politico (assemblea) che militare (la falange oplitica) che culturale. La distanza da quella prospettiva si avverte: nella critica allantropomorfismo della divinit omerica; nello sfruttamento retorico-argomentativo del patrimonio mitico; nelle posizioni agnostiche e in quelle tese a riscontrare unorigine terrena del sentimento religioso e le sue potenzialit per il mantenimento dellordine politico-sociale.

In questo contesto si muove la figura di Socrate che presenta alcuni tratti in comune con le posizioni pi radicali espresse dalla sofistica e messe in relazione dallambiente conservatore con una generale decadenza della citt. Le fonti a lui pi favorevoli si mostrano invece convinte: della sua profonda, anche se non acritica, religiosit; della sua investitura da parte del dio di una missione divina a vantaggio dellumanit.

Lorizzonte religioso della polis, intrecciato in maniera indistricabile con la sua vita sociopolitica, ha una delle sue massime espressioni nel rito collettivo della tragedia che raccoglie in s spunti filosofici monoteistici e razionalistici e tradizione mitica, fondendoli in unirripetibile forma artistica che coinvolge: una purificazione dalle passioni; la convinzione in un ordine divino delluniverso; una considerazione pi meditata del mito piegato a significati etico-cosmici che rispondono alle pressanti domande della ragione filosofica e dellattualit politica.

Del resto i filosofi, molto spesso, muovono le loro critiche alla religiosit dei padri in vista dellaffermazione di una figura innovativa del dio le cui massime espressioni sono: il monoteismo razionalistico di Senofane; il daimnion socratico; ai margini dellesperienza della polis, il dio ottimo e immutabile di Aristotele.

In generale si attua un approfondimento della frattura tra umano e divino, specie da un punto di vista conoscitivo. Aristotele, per, in risposta al radicalismo sofistico (e per certi versi anche senofaneo) della riduzione del dio a invenzione-inganno umano, tende anche ad argomentare, secondo schemi dimostrativi rigorosi, lesistenza di una nozione del divino indubitabile e degna di fede, che allontana da ogni possibilit di agnosticismo. Proprio tale strategia di difesa della credenza religiosa, del resto, un sintomo della sua crisi, oltre che del definitivo imporsi del lgos sul

mthos che di quello necessita per ricevere una certificazione di verit, ormai incapace di ottenere, come tradizionalmente avveniva, in nome della sua sola sacralit.
Ricerche

Per una generale e sintetica considerazione delle manifestazioni del sacro nella grecit e nella polis in particolare si consigliano M. Vegetti, Luomo e gli dei, in Luomo greco, a cura di J.P. Vernant, Laterza, Bari, 1998 e J.P. Vernant Le origini del pensiero greco, Editori Riuniti, Roma, 1997 [Capitolo IV, Luniverso spirituale della polis]. Uninteressante, ma anche complessa, prospettiva sulla reale fede nei miti nella cultura e nei pensatori ellenici dellet della polis si ritrova in P. Veyne, I Greci hanno creduto ai loro miti?, Il Mulino, Bologna, 1984. Un approfondimento su Senofane e sui significati socio-politici e antropologici della sua critica a Omero e del suo dio fornito da J. Svenbro, La parola e il marmo: alle origini della poetica greca, Boringhieri, Torino, 1984. Sulla tematica teologica affrontata dai sofisti in chiave retorica e politica si consigliano la lettura dellEncomio di Elena di Gorgia [Frammenti, a cura di C. Moreschini, Boringhieri, Torino, 1959] e del mito di Epimeteo e Prometeo nel Protagora di Platone [320d-322d, in Platone, Opere complete, trad di F. Adorno, Laterza, Bari, 1982]. Per una visione pi articolata della questione si consiglia il testo di G. Casertano Natura e istituzioni umane nelle dottrine dei sofisti, Il Tripode, Napoli-Firenze, 1971. Su Socrate la bibliografia sterminata: si consiglia, per una pi chiara visione del personaggio G. Giannantoni, Socrate, tutte le testimonianze da Aristofane a Senofonte ai Padri Cristiani, Laterza, Bari, 1971 Relativamente allutilizzo del mito e della religione nella tragedia si consigliano i brevi saggi di B. Snell, Mito e realt nella tragedia greca, in La cultura greca e le origini del pensiero occidentale, Einaudi, Torino, 1963 e di J.P. Vernant, Il dio della finzione tragica, in J.P. Vernant P. Vidal-Naquet, Saggi su mito e tragedia, Einaudi Scuola, Torino, 1994. Per un approfondimento riguardo alla connessione tra Dioniso e la tragedia sono esaurienti i capitoli dedicati alla questione da H. Jeanmaire nella voluminosa monografia Dioniso, Einaudi, Torino, 1970: capp.4 [La mana divina], 6 [Il ditirambo] e 7 [Il tiaso e lorigine del teatro]. Inoltre, circa la lettura aristotelica della tragedia, interessante A. Pagliaro, La tragedia e il tragico secondo Aristotele, in Altri saggi di critica semantica, DAnna, Messina-Firenze, 1961. Sulla catarsi tragica consigliabile la lettura di C. Diano, La catarsi tragica, in Saggezza e poetiche degli antichi, Neri Pozza, Venezia, 1968 Si consiglia inoltre la lettura delle Baccanti, Rizzoli, Milano, 1983 che presentano Dioniso come protagonista della tragedia e il rituale dionisiaco. Sulla considerazione degli dei e della religione nella tragedia si vedano in M. Pohlenz, La tragedia greca, Paideia, Brescia, 1961 i passi indicati nellindice analitico sotto la voce Dei e Mito. Infine, per un inquadramento filosofico del tragico, anche nelle sue declinazioni contemporanee, si consiglia R. Cantoni, Il tragico come problema filosofico, in Tragico e senso comune, Mangiarotti, Cremona, 1963.

Parte quarta: Mthos e lgos in Platone [lezioni 14- 17]


Lezione n. 14: La superficialit della cultura religiosa corrente

Quando si parla, in riferimento al mondo greco, di cultura tradizionale si intende quel complesso di valori, concezioni del mondo, comportamenti derivati dai poemi omerici. Senofane affermava che Tutti i greci hanno imparato da Omero (fr.9 DK). Iliade e Odissea costituivano infatti non solo il patrimonio mitologico dellEllade, ma la fonte primaria del diritto, della religione e della morale. Contro questa cultura si scaglia autorevolmente Platone sin dai suoi primi scritti:
L14-T1 Limmagine mitica della divinit

- () Ti porto una prova decisiva. Ne ho gi fatto uso con molti, per dimostrar che va bene agire in questo modo e che non si deve mostrarsi deboli con lempio; mai, chiunque egli sia. Il genere umano ritiene che Zeus sia il pi nobile e il pi giusto fra gli dei. Eppure tutti sanno che Zeus mise in catene il padre suo, perch ingiustamente aveva trangugiato i propri figli. E questo padre a sua volta aveva evirato il suo per ragioni non certo migliori. Ma intanto se la prendono con me, perch faccio causa a mio padre, e cos vengono a trovarsi in contraddizione: da una parte gli dei, dallaltra il caso mio. - Guarda guarda, Eutifrone! Questo proprio il motivo per cui mi trovo citato in tribunale. Devi sapere che non mi sento di accettare a cuor leggero certe affermazioni sulla divinit. E per questa ragione appunto si dir che grande il mio errore. Ora in ogni modo se tu, che la sai lunga in materia, hai questopinione, bisogna, come pare, che mi rimetta.()A ogni modo, per piacere, in nome del dio che protegge gli amici: credi davvero alla verit di questi racconti? - S, e ve ne sono altri pi stupefacenti, o Socrate, che la gente non conosce. - E allora ritieni che vi siano veramente battaglie fra gli dei e inimicizie terribili e guerre e altre brutte cose? Cos almeno narrano i poeti. E i pittori? Non hanno con tanta bravura introdotto nei loro quadri variazioni dogni genere sulla storia sacra? Per esempio, nelle Panatenaiche, il peplo famoso viene recato sullacropoli, tutto istoriato di tali leggende. E dobbiamo dire che tutto questo, Eutifrone, risponde a verit? - S, e non soltanto questo, o Socrate; ma, ti dicevo or ora, ci sono altre leggende, e in gran numero. Se desideri, te le posso raccontare. Sentirai, e certo rimarrai a bocca aperta. [Platone, Eutifrone, 5e-6c, trad. Turolla] Il dialogo si svolge tra Socrate, che si reca in tribunale per rispondere dellaccusa di empiet, e Eutifrone, un sacerdote, che ne sta uscendo dopo aver intentato causa contro suo padre per lomicidio di un servo: Eutifrone sostiene che mai bisogna aver piet dellempio, neppure se si tratta di una persona molto cara; a giustificazione del proprio gesto chiama in causa la vicenda mitica di Zeus che ha incatenato il padre Crono che aveva ucciso i propri figli temendo di essere spodestato; Socrate si mostra incredulo nei confronti di certi racconti scabrosi relativi alle divinit, attribuendone la paternit a poeti e pittori; non solo, ma sostiene essere questa incredulit la ragione delle accuse rivoltegli.

La posizione di Platone, sotto le spoglie di Socrate, chiarissima: Socrate stato vittima di unaccusa ingiusta, portata avanti da una cultura che non ha ben chiaro che cosa sia bene e male, in assoluto, per un uomo; la cultura epico-omerica trasmette unimmagine della divinit in cui trova giustificazione e sanzione ogni comportamento: passioni come la lussuria, lavidit, lira, linvidia sono attributi anche degli dei omerici. poeti e pittori, hanno svolto in modo riprovevole il loro compito educativo, tramandando come divini e ispirati racconti e raffigurazioni empi: gli esponenti della cultura tradizionale sono dunque portatori di opinioni pregiudiziali, assolutamente inverificabili e diseducative. Eutifrone non nutre alcun dubbio circa la veridicit dei racconti mitici, anzi, vorrebbe stupire Socrate raccontandogliene di ancor pi incredibili, mostrando un futile gusto per lerudizione fine a se stessa, e difettando invece di una seria riflessione sui valori veicolati, nel rispetto passivo delle verit tramandate.

Le critiche di Platone dovevano essere diffuse ad Atene, esse riecheggiano i toni della polemica di Senofane e dei sofisti (L10), ma sono da sottolineare due importanti novit: quello che da parte conservatrice era imputato alle nuove tendenze culturali, cio la immoralit conseguente allabbandono dei culti antichi e alla sfiducia nei miti, attribuita da Platone proprio ai contenuti della pedagogia tradizionale, persino nei suoi esponenti a parole meno superficiali; lintento implicito di Platone quello di screditare la cultura omerica e i suoi diffusori, nelle persone dei sacerdoti e dei poeti, per sostituirvi la sua nuova cultura filosofica e il filosofo quale educatore della citt. - Cerca dunque di insegnarmi quale parte del giusto spetta alla santit. Diremo allora a Meleto di smettere con le sue ingiuste accuse di empiet; ormai abbiamo avuto la lezione da te e sappiamo benissimo quali sono le opere conformi a religione e sante, e quali non lo sono. - Secondo me, vedi, Socrate, la piet e la santit sono quella parte del giusto avente la sua esplicitazione nel culto e nella cura verso gli dei. La parte invece rivolta agli uomini la restante. - S, e direi proprio che tu abbia ragione, ma mi manca un piccolo particolare ancora. Questa parola cura, non capisco bene in qual senso la si adoperi. Non vorrai intendere, credo, nel comune senso, trattandosi della divinit. Sai bene, si dice, se si tratta di cavalli, che non tutti sanno prendersene cura, soltanto la persona esperta. Non ti pare? () - E allora santit, secondo questa interpretazione, sarebbe scienza del chiedere e del donare agli dei. - Hai capito, Socrate, perfettamente la mia dottrina. - Sono ansioso, mio caro, di possederla nella mente, la tua dottrina. Oh, le tue parole non cadranno per terra. Questo servizio che noi rendiamo agli dei, dimmi un po, a che cosa si riduce? Affermi che si tratta di rivolger preghiere e offrir doni? - S. - E credi che rivolgere una giusta preghiera sia diverso dal chiedere, con preghiera, appunto, ci di cui abbiamo bisogno?

L14-T2 Il mercato della santit

- Che altro sarebbe? - Se reciprocamente, lofferta giusta d agli dei ci di cui hanno bisogno. Sarebbe contrario a una buona norma offrire a qualcuno un dono di cui non ha bisogno. - Hai ragione, Socrate. - Si tratta allora di un mercato, o pressa poco, caro Eutifrone. Tale appare la santit: unoperazione commerciale tra uomini e dei , nelle loro reciproche relazioni. - S; se ti piace, chiamala operazione commerciale. - Ma non questione di piacere o meno, deve rispondere a verit. Dunque dimmi: quale utilit hanno gli dei per questi nostri doni? (In quanto a ci chessi concedono, non c motivo di dubbio. Nessun bene esiste per noi che non ci sia concesso dagli dei). Ma da ci che prendono, quale vantaggio ne viene? E con la nostra abilit commerciale arriviamo forse ad essere pi furbi di loro? Si potrebbe prendere ogni bene, e non dar nulla in ricambio. - Ma puoi credere, Socrate, che gli dei ricavino utilit dai doni ricevuti? - E allora in che cosa consistono mai, o Eutifrone, questi doni che offriamo agli dei? - Cosa credi? Onore, segni di venerazione e, te lo dicevo poco fa, un senso di diletto e di piacere. - Ma allora la santit, Eutifrone, si risolve in qualche cosa che dia diletto, non certo in cosa utile e cara agli dei. - Anzi, mia opinione che si tratti della cosa pi cara. [Platone, Eutifrone, 12e-13a; 14d-15c, trad. Turolla] La domanda di Socrate al sacerdote Eutifrone, in teoria un esperto nel campo, : che cos il santo? Anche in questa occasione la visione di Platone traspare chiaramente sotto lironia graffiante di Socrate che mostra lo svilimento del divino nella religione corrente: la divinit non riferimento trascendente, irraggiungibile e degno di rispetto, ma qualcosa di cui ci si prende cura con culti sporadici e superficiali, come si fa con un cavallo, con un animale qualunque; il culto (come la cura dei cavalli) dovrebbe essere amministrato da persone esperte, che sanno qual il suo significato profondo, ma Eutifrone si mostra del tutto ignaro di questa profondit; la relazione delluomo con le divinit si limita a uno scambio commerciale di richieste (preghiere) e doni (sacrifici, ex voto) che non coinvolge alcuna dimensione spirituale o etica; gli dei sono ridotti a contraenti di un patto commerciale, per giunta truffati, dal momento che, se indubbio quale vantaggio gli uomini ricavino dai doni divini, impossibile riscontrare un tale vantaggio da parte degli dei per i doni degli uomini; Eutifrone sostiene che il vantaggio per gli dei risiede nella venerazione e nellonore che si cela dietro alle manifestazioni di devozione, ma non si accorge che in tal modo abbassa il dio al livello umano-omerico, dove ci che conta esclusivamente il riconoscimento altrui: il dio non appare dunque affatto signore e controllore delluniverso, ma un essere bisognoso di approvazione e onore, e dunque debole, e, cosa ancor pi grave, corruttibile con la pi bassa adulazione.

La cultura tradizionale, questa in ultima analisi la tesi di Platone, non conosce il significato del sacro, sia perch accoglie una concezione delletica formalistica e vuota, sia perch non conosce la vera natura del divino che delletica dovrebbe costituire la misura e la norma. Ma ci che peggio che pretende di conoscerla e di trasformare in leggi e precetti la propria ignoranza.

Lezione n. 15: La prospettiva pedagogica della Repubblica

Si accennato nella lezione precedente al ruolo ricoperto dal mito nelleducazione dei giovani greci. E dunque logico che Platone, vestendo nella Repubblica gli abiti del fondatore della citt ideale, si ponga il problema di come collocare questa tradizione e di una sua possibile pericolosit o utilit persuasiva per gli animi dei cittadini:
L15-T1 Il pericolo poetico

- Or non sai che linizio di ogni opera cosa della massima importanza, specialmente per ogni elemento giovane e tenero? Giacch allora soprattutto esso plasmabile, e vi si diffonde quellimpronta che uno voglia sia impressa in ciascuno. - Senzaltro. - Lasceremo allora cos facilmente che i fanciulli ascoltino i primi miti che capitano, foggiati dai primi venuti, e accolgano nellanima opinioni per lo pi opposte a quelle che riterremo essi debbano avere, una volta fatti uomini? Non lo permetteremo in alcun modo. - Dovremo allora anzitutto soprintendere ai compositori di miti, e quelli che faccian buoni trascegliere, e i non buoni scartare. I trascelti poi persuaderemo le nutrici e le madri a raccontarli ai fanciulli, e a formare coi miti le anime loro assai pi che non con le mani i corpi. Ma di quelli che ora narrano i pi vanno rigettati. - Quali? - Nei miti maggiori vedremo anche i minori, ch maggiori e minori debbon per forza essere dello stesso tipo e avere lo stesso effetto. Non credi? - S, ma non capisco nemmeno quali tu intendi per i maggiori. - Quelli narratici da Omero ed Esiodo e dagli altri poeti; i quali han narrato e narrano agli uomini miti falsi, da loro composti. - Quali sono, dissegli, e che ci trovi in essi a ridire? - Ci che anzitutto e soprattutto va biasimato, specialmente quando uno non bellamente mentisca. - E cos questo? - Quando uno nei suoi discorsi malamente raffiguri la natura degli dei e degli eroi, come un pittore che dipingesse immagini per nulla somiglianti agli oggetti che volesse ritrarre. - Ed ben giusto biasimare simili cose. Ma in che senso diciam questo, e di quali miti? - Anzitutto malamente ment, con la maggiore menzogna e su cose del massimo conto, chi disse di Urano quello che Esiodo dice egli abbia fatto, e come Crono lo pun. Quanto poi alle opere di Crono, e a quel che egli sub da parte del figlio, neanche se fosse vero io riterrei si dovesse cos facilmente dire a esseri irragionevoli e giovani; ma piuttosto tacerlo, e se proprio ci fosse qualche necessit di dirlo, che lo udissero per via misterica, quanto pi pochi possibile, sacrificando non un porco ma qualche grande e mal procurabile vittima, di modo che a pochissimi accadesse di udirlo. - Difatti, disse, questi racconti sono scabrosi. - E non andranno fatti, dissio, o Adimanto, nella nostra citt. N si dovr dire a un giovane ascoltatore che commettendo egli unestrema ingiustizia non farebbe nulla di strano, n punendo con estremi mezzi il padre ingiusto, ma che cos farebbe proprio ci che han fatto i primi e massimi degli dei. - No, per Zeus, neanche a me par che sian buone a dirsi queste cose. - E neanche affatto che gli dei fan guerra agli dei, e sinsidiano e combattono fra loro, ch non vero, se bisogna che i nostri futuri custodi della citt ritengano turpissima

cosa il venir facilmente in inimicizia gli uni contro gli altri. () Queste cose non bisogna ammetterle nella citt, siano esse state composte con o senza significato allegorico. Giacch il giovane non capace di distinguere quel che o non allegoria, ma ci che a quella et egli accolga nelle idee che si fa suol essere difficilmente cancellabile e mutabile: e perci bisogna fare ogni sforzo a che le prime cose che essi odono siano miti composti quanto meglio possibile per incitare alla virt. [Platone, Repubblica, 377b -379a, trad. Gabrieli] La questione centrale affrontata dal testo, e che si pone come il problema politico primario per Platone nellinaugurare la sua citt, quella delleducazione dei guardiani (i governanti), e in genere della cittadinanza. In questo quadro si colloca la requisitoria platonica contro i mitografi: la questione inevitabile dato che il sapere mitico la base della cultura tradizionale; enorme per Platone il pericolo che racconti immorali o che presentano una immagine distorta della divinit possano essere indiscriminatamente uditi dagli animi ingenui dei pi giovani, facilmente impressionabili e persuadibili; Omero, Esiodo e i poeti in genere sono educatori degeneri, che spacciano racconti falsi come verit di fede.

Rispetto allEutifrone, il richiamo al quale evidente persino negli esempi scelti, linteresse pedagogico amplificato e si intreccia con la critica religiosa: i miti poetici sono diseducativi perch rendono esemplari i difetti degli uomini attribuendoli agli dei e dunque giustificandoli e abbellendoli e stimolando lidentificazione con personaggi immorali; il giovane possiede un animo facilmente plasmabile, perci non pu udire alcuni racconti: egli non possiede strumenti critici di difesa che lo mettano in grado di distinguere unipotetica narrazione allegorica dalla realt; per questo, inoltre, quanto pi forte la componente imitativa, che produce unillusione di realt, tanto pi la poesia pericolosa.

La soluzione proposta da Platone semplice e allo stesso tempo radicale: la fruizione di alcuni aspetti scandalosi del mito va limitata (lallusione ai misteri e agli iniziati) in modo che solo uomini consapevoli e in grado di discernere lallegoria e la letteralit ne siano a conoscenza; lintero patrimonio mitico, se anche resta alla base delleducazione, deve essere sottoposto a un rigoroso controllo e deve subire una drastica censura: le vere bugie dei miti provocano altrimenti unillusione di conoscenza assai pi grave della stessa ignoranza, in quanto subdola e inavvertita. Platone stabilisce anche quali narrazioni siano da salvare: la poesia deve, nella citt ideale, trasmettere una nuova teologia la cui divinit sia eticamente razionale, buona, aliena da propositi ingannatori e da ogni conflittualit.

Platone, tuttavia, rimane cosciente dellimmensa forza persuasiva che il mito possiede, per la sua antichit e lapertura al meraviglioso e al soprannaturale; ecco allora che il mito viene conservato nei suoi tratti educativamente positivi. Ma egli non si limita a questo e intraprende una dichiarata pedagogia mitologico-retorica che trova il suo culmine nella menzogna politica:

L15-T2 La nobile menzogna

- Che mezzo ci sarebbe allora, inventando noi una buona di quelle menzogne che han luogo in materia necessaria, e di cui poco fa parlavamo, per persuaderne anzitutto i capi stessi, e, se non ci riesce, il resto della citt? - Di che menzogna si tratta?, disse. - Nulla di nuovo, dissio, ma qualcosa di fenicio, che prima accadeva in molti luoghi, come affermano ed han persuaso i poeti, ma che al tempo nostro n mai accaduto n so se possa accadere, e richiederebbe poi molta persuasione per farne persuasi. - Sembra che tu esiti a dirlo. - E ti parr ben naturale che io esiti, quando labbia detto. - D pure, e non temere. - Dico, per quanto non sappia con che ardire e servendomi di quali discorsi io dir; e cercher anzitutto di persuadere i capi stessi e i soldati, e poi il resto della citt, che quellallevamento e quelleducazione da noi data a loro, sembrava ad essi di subirla tutta come un sogno, svolgentesi intorno a loro; ma che in realt essi si trovavano allora sotto terra, foggiati ed allevati, essi e le loro armi e ogni altro fabbricato apparecchio, e che quando furono perfettamente lavorati, la terra madre li emise alla luce; e che quindi ora essi debbono assistere col consiglio e difendere come genitrice e nutrice la terra in cui si trovano, ove qualcuno lassalga e considerare gli altri cittadini come fratelli e nati dalla terra. - Non senza ragione, disse, ti vergognavi prima di dire questa menzogna. - E ben naturale, feci io; ma pur ascolta anche il resto del mito. Voi quanti siete, nella citt siete tutti fratelli, diremo loro mitologizzando; ma il dio che vi ha formati, quanti erano atti a comandare ha mescolato nella loro generazione delloro, per cui essi sono sopra tutti pregevoli; a quanti sono ausiliari dellargento; e ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani. Come dunque tutti di una stessa stirpe, genererete per lo pi degli uguali a voi stessi, ma v il caso che dalloro si generi una prole argentea e dallargento una aurea, e cos da loro tutto il resto. Ai capi come prima e massima raccomandazione il dio ingiunge che di nessuno abbiano a essere cos buoni custodi e nulla cos attentamente custodiscano quanto la loro prole, badando a ci che nelle anime di costoro venga loro frammisto; e se un loro rampollo nasca con una certa commistione di bronzo e di ferro, non si lascino commuovere in alcun moro, ma assegnando alla natura il valore che le spetta lo caccino tra gli artigiani e gli agricoltori e se per contro qualcun di costoro nasca con una vena doro o dargento, lo apprezzino e sollevino gli uni agli uffici di guardiano gli altri a quello di ausiliare; essendovi un oracolo che allora la citt andr in rovina quando la custodisca il guardiano di ferro o di bronzo. Or perch possano essi essere persuasi di un simile mito, sapresti tu trovar qualche mezzo? [Platone, Repubblica 414b-415d, trad. Gabrieli] Il problema di Socrate quello di legittimare la gerarchia politica che si viene a istituire nella citt ideale, innanzitutto per i governati e, in secondo luogo, anche per i governanti che dovranno accettare alcuni obblighi (comunismo dei beni, delle donne, dei figli, divieto di possesso di un patrimonio privato, lonere stesso del governo), consci del valore del loro ruolo: Socrate introduce una nobile menzogna o racconto fenicio per operare una totale persuasione. Il racconto fenicio presentato consapevolmente come unico: i miti narrati dai poeti pretendono di essere veri, questo esplicitamente caratterizzato come falso, finalizzato esclusivamente alla persuasione degli animi: una menzogna sacra

a fin di bene che si pone come culmine della retorica politica e in questo senso nobile o utile; Socrate esita a intraprendere la narrazione: mai questa esitazione coglierebbe Omero, certo della verit dei suoi miti e dellispirazione divina che garantisce il suo canto e lo rende possibile. Socrate teme invece di raccontare qualcosa di inaccettabile, laddove dalla tradizione si pronti ad accettare tutto, persino un dio patricida, invidioso, lussurioso; lattributo fenicio indica il carattere di mito di fondazione posseduto dal racconto, che, infatti, rende accettabile una situazione di fatto fornendole una giustificazione teorica con la sua antichit e origine direttamente dalla terra: esattamente la stessa giustificazione divina di cui si serve la cultura tradizionale per giustificare certi comportamenti empi; Socrate deve opporre al dato naturale, che mostra un soggetto ingiusto e immorale, un soggetto costruito dalleducazione, pertanto il racconto falso in quanto fa nascer dalla terra qualcosa che in realt prodotto dalleducazione: non a caso i guardiani devono credere che la loro educazione sia stata un sogno e che essi siano naturalmente destinati a governare grazie alloro presente nelle loro anime.

Il racconto persegue i suoi intenti persuasivi ricercando una garanzia autorevole per il dato di fatto: lequivalenza terra-madre-natura supporta la tesi del carattere innato, originario e perci irrinunciabile della distinzione dei compiti nella citt e del dovere dei guardiani di difendere la patria (la terra che li ha generati); il riferimento alla diversa nobilt dei metalli e il dio plasmatore che determina le caratteristiche delle anime giustificano divinamente e naturalmente la gerarchia; la possibilit di generare figli diversi da s rende ragione della mobilit sociale e della meritocrazia, destituendo di fondamento laristocrazia di sangue; il riferimento alloracolo chiama in causa una voce autorevole, degna di fede, per garantire il rispetto da parte dei guardiani di questa meritocrazia.

Il problema della giustizia al centro della Repubblica, e rispetto a questo tema lorganizzazione dello stato ideale rappresenta una sorta di digressione a scopo esplicativo. Nel corso del secondo libro Glaucone narra il mito di Gige per dimostrare come il giusto non sia tale volontariamente, ma solo per il timore che la sua ingiustizia possa venir scoperta e punita. Al termine del suo racconto il fratello Adimanto lo approva, dichiarando per di pi che il perseguimento della giustizia non disinteressato, ma desiderato in considerazione dei beni che ne derivano:
L15-T3 Dei e giustizia

Dunque, visto che lapparenza, come mi dimostrano i saggi, sforza anche la verit e determina la felicit, bisogna con tutte le forze volgersi a questo. Come facciata e forma esteriore bisogna che io tracci a me intorno unombra sfumata di virt, ma poi mi tiri dietro la volpe furba e versatile del sapientissimo Archiloco. () Ma agli dei non si pu n sfuggire n far violenza. Orbene, se essi non ci sono o nessuna cura hanno delle cose umane, che pensiero dobbiam darci noi di non farci scorgere? Se ci sono, e se ne occupano, noi non sappiamo di loro altrimenti che per sentito dire, o dalle leggende e dai poeti di genealogie, e questi ci dicono che essi sono smuovibili e persuadibili con sacrifici e con blande preghiere e doni votivi. Ora a questi bisogna o credere su tutti e due i punti, o su nessuno dei due. Se bisogna crederci, si ha a fare uningiustizia e poi sacrificare a purificazione delle ingiustizie commesse. Giacch se saremo giusti resteremo senza pena soltanto da parte degli dei, e perderemo i

vantaggi dellingiustizia, se ingiusti, faremo i nostri guadagni, e poi supplicando da trasgressori e peccatori, e cos persuasi gli dei, ce la caveremo impuniti. Ma nellAde dovremo pagare il fio delle iniquit qui commesse, o noi o i figli dei figli. Ma caro mio, dir quello facendo i suoi conti, una buona forza debbono poi avere le espiazioni e gli dei proscioglitori, come asseverano le pi grandi citt e i figli degli dei, fatti poeti e interpreti degli dei stessi, che dichiarano le cose star proprio cos. Per quale ragione dunque potremo ancor preferire la giustizia alla massima ingiustizia, che ove riusciamo a procacciarcela insieme a un falso esterno decoro, vivremo a nostro talento presso gli dei e presso gli uomini, da vivi e da morti, come vuole lopinione dei molti e dei sommi? [Platone, Repubblica, 365c-366b, trad. Gabrieli] A partire dal presupposto che la giustizia sia apprezzata solo in virt dei beni che ne derivano e non per convinzione interiore, Adimanto sostiene dunque che: sufficiente, per farsi una buona fama agire in pubblico giustamente, ma procurandosi in segreto con ogni mezzo tutto ci che si desidera; chi dichiara che questi atti ingiusti, bench invisibili agli uomini, sono noti agli dei, non considera lincertezza circa lesistenza degli dei e il loro interessamento alle vicende umane; ma anche ammettendo che questa tesi della visione degli dei fosse vera, i poeti affermano che essi sono plasmabili con sacrifici e con blande preghiere e persino le pene dellAde sono evitabili con queste forme di adulazione; non vi dunque ragione che consenta di ritenere pi positiva una condotta giusta rispetto a una ingiusta.

Analizziamo meglio quanto letto: la posizione di Adimanto raccoglie alcuni temi dellagnosticismo sofistico; il dio era visto come custode e inibitore di quanto luomo faceva o pensava in privato: Adimanto lo priva di questo ruolo attribuendogli una corruttibilit degna del pi basso degli uomini; il culto ripara alle colpe commesse, in modo da procacciare non solo limpunit terrena, ma anche celeste, con una facciata di giustizia e devozione; la conclusione di Adimanto ancor pi radicale di quella di Glaucone: anche se visto dagli dei, luomo pu perpetrare qualunque ingiustizia e guadagnarsi, nonostante ci, il rispetto degli dei e degli uomini; Glaucone poteva limitare la preferibilit dellingiustizia alla sfera terrena, mantenendo come garanzia di giustizia lo sguardo onnisciente della divinit; non solo, ma Adimanto pi oltre sostiene che, quasi certamente, chi sia davvero giusto sar malvisto dagli uomini e benvisto solo dagli dei, pertanto lingiusto, apprezzato da dei e uomini, avr una vita pi felice del giusto e non dovr attendere lincerto al di l per godere della eudaimona.

Il medesimo tema ripresentato da Platone nelle Leggi (906d-907b), dove la questione posta da Adimanto trova una di risposta a distanza. Platone utilizza paragoni infamanti per degli dei che si lascino blandire cos facilmente: cani da pastore corrotti da lupi, nocchieri ubriachi, aurighi che vendono la vittoria. Lo scopo della dimostrazione esplicitamente persuasivo: insopportabile che gli ingiusti possano agire indisturbati contando su una garanzia di impunit persino divina, e mortificando a tale scopo la divinit stessa.

Ancora una volta si nota, come in molti altri dialoghi platonici (Fedro, Gorgia, Fedone), che letica platonica pu rimanere coerente fino in fondo con il suo carattere eudaimonistico solo facendo ricorso allescatologia: come mostra il mito di Er che chiude la Repubblica, necessario postulare, per rendere realmente appetibile un atteggiamento virtuoso, dei premi per la virt nelloltretomba e, reciprocamente, castighi per la malvagit. Platone, che tanto duramente si scaglia contro il mito, costretto a salvare in extremis proprio con un mito il suo progetto di stato ideale e per farlo crea un quadro grandioso. La metempsicosi (reincarnazione), fatta oggetto di scelta, diventa in Platone qualcosa di liberatorio e insieme responsabilizzante: leudaimona, il possesso di un buon demone, la felicit, insomma, resa possibile non tanto dal fatto che un buon damon presiede al nostro destino, ma dal fatto che noi stessi abbiamo scelto un buon damon.

Lezione n. 16: Pensare per immagini

La posizione assunta da Platone rispetto alla poesia e in particolare alla produzione mitica certamente complessa e probabilmente soggetta a evoluzioni nel corso dello stesso sviluppo del filosofare platonico. Certo che Platone fa ampio ricorso, nei suoi dialoghi, alla rielaborazione di miti tradizionali e alla creazione spontanea di miti del tutto originali, a testimonianza del fatto che riteneva il mythos uno strumento privilegiato per veicolare significati, anche specificamente filosofici. Le pesanti sferzate rivolte da Platone contro poeti e mitologi non escludono dunque un impiego positivo del mito, e non solo quale elemento unificatore e armonizzatore della societ politica, ma anche come linguaggio filosofico. Il testo che immediatamente segue riporta il caso di un racconto degli antichi che Socrate propone a Fedro e che Fedro, non smentito dal suo interlocutore, attribuisce a Socrate stesso; particolarmente significativa, per spiegare la considerazione platonica del mito, lultima battuta di Socrate:
L16-T1 Ci che davvero importa

Socrate Ho sentito narrare che a Naucrati dEgitto dimorava uno dei vecchi dei del paese, il dio a cui sacro luccello chiamato ibis, e di nome detto Teuth. Egli fu linventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dellastronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dellalfabeto. Re dellintiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande citt dellAlto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio Ammone. Teuth venne presso il re, gli rivel le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilit comportasse, e poich Teuth spiegava, egli disapprovava ci che gli sembrava negativo, lodava ci che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Teuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero allalfabeto: Questa scienza, o re disse Teuth render gli Egiziani pi sapienti e arricchir la loro memoria perch questa scoperta una medicina per la sapienza e la memoria. E il re rispose: O ingegnosissimo Teuth, una cosa la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa giudicare qual grado di danno e di utilit esse posseggano per coloro che le useranno. E cos ora tu, per benevolenza verso lalfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perch esso ingenerer oblio nelle anime di chi lo imparer: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perch fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non pi dallinterno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ci che tu hai trovato non una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. N tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo lapparenza perch essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno dessere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sar una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti. Fedro O Socrate, ti facile inventare racconti egiziani e di qualunque altro paese ti piaccia! Socrate Oh! Ma i preti del tempio di Zeus a Dodona, mio caro, dicevano che le prime rivelazioni profetiche erano uscite da una quercia. Alla gente di quei giorni, che non era sapiente come voi giovani, bastava nella loro ingenuit udire ci che diceva la quercia e la pietra, purch dicesse il vero Per te invece fa differenza chi che parla e da quale paese viene: tu non ti accontenti di esaminare semplicemente se ci che dice vero o falso. [Platone, Fedro, 274b-275c]

Il fatto che il mito sia inventato piuttosto che recuperato dalla tradizione non ne inficia il valore, che risiede dunque non nella sua antichit o popolarit (si pensi alla polemica contro Omero), ma nella sua capacit di esprimere un contenuto veritativo. questa potenzialit a definire il criterio sulla base del quale selezionare i miti da diffondere nella citt ideale (come afferma la Repubblica) e a determinare lefficacia filosofica del mthos. Impiego filosofico del mito non significa semplicemente presenza di inserti di stampo narrativo, tradizionale o fantastico, allinterno dei dialoghi; per comprendere quanto il termine mthos sia, in Platone, denso di significati, occorre innanzitutto considerare la particolare concezione dei rapporti fra scrittura e oralit tipica di questo autore e sintetizzata nel racconto egiziano: la scrittura contribuisce a generare oblio, perch fissa i contenuti su un supporto esterno, al quale fare riferimento invece di richiamare le cose alla memoria dallinterno di se stessi; lo scritto utile limitatamente alla sua funzione ipomnematica, di richiamare cio alla mente contenuti gi noti; lapprendimento tramite la parola scritta non produce il vero sapere, ma lapparenza del sapere; dando limpressione di avere notizia di moltissime cose, fa s che ci si creda dottissimi senza che se ne conosca davvero nessuna e si discuta mettendo in campo non la propria personale sapienza, ma le opinioni delle quali si imbottiti; il vero sapere riacquista solo tramite linsegnamento, che coinvolge la vivacit della parola orale e la sua capacit di scendere e prendere dimora nellanima di chi ascolta.

Solo tenendo conto di queste assunzioni di fondo si comprende perch Platone affermi che trattare della scienza del giusto, del bello e del buono(lespressione proprio del Fedro) in testi scritti piuttosto che nella dimensione delloralit non pu che essere un gioco, superiore a tutti gli altri per seriet, ma pur sempre un gioco, e designi questo gioco come mythologhin, parlare per miti. Bisogna dunque concludere che Platone considera tutti i suoi dialoghi come forme di mthos; anche nella Repubblica si riferisce alla sua trattazione sulleducazione come a un racconto in forma di mito e illustrando la struttura generale dellopera dice di stare parlando per immagini (il verbo greco ancora mythologhin). In alcuni casi, il discorso filosofico assume la forma del mito non o non solamente in quanto scritto, ma perch la materia stessa oggetto di trattazione a essere strutturalmente accostabile solo con un approccio che si limiti allo statuto della narrazione (in greco mthos) probabile. A questo proposito, ecco un passo tratto dallapertura del Timeo:
L16-T2 Accontentarsi di una narrazione probabile

Timeo - Ma il Fattore e il Padre di questo universo molto difficile trovarlo, e, trovatolo, impossibile parlarne a tutti. E questo si deve indagare delluniverso: guardando a quale degli esemplari chi ha fabbricato luniverso lo abbia realizzato, se allesemplare che sempre nello stesso modo e identico o a quello che generato. Ma se questo mondo bello e lartefice buono, evidente che Egli ha guardato allesemplare eterno; e se, invece, lArtefice non tale, ci che non neppure permesso a qualcuno di dire, ha guardato allesemplare generato. Ma evidente a tutti che Egli guard allesemplare eterno: infatti luniverso la pi bella delle cose che sono state generate, e lArtefice la migliore delle cause. Se, pertanto, luniverso stato generato cos, fu realizzato dallArtefice guardando a ci che si comprende con la ragione e con lintelligenza e che sempre allo stesso modo.

Stando cos le cose, assolutamente necessario che questo cosmo sia immagine di qualche cosa. Ora, in ogni questione della massima importanza incominciare dal suo principio naturale. Pertanto, anche intorno allimmagine e allesemplare di essa, bisogna riconoscere questo, che i discorsi hanno unaffinit con le cose stesse di cui sono espressione. Dunque, ci che stabile e saldo e che si manifesta mediante lintelletto, conviene che sia stabile e immutabile, almeno nella misura in cui si concede ai discorsi che siano inconfutabili e invincibili: di questo non deve mancare nulla. Invece, i discorsi che si fanno intorno a ci che fu ritratto su quel modello, e che quindi immagine, sono a loro volta verisimili e in proporzione ai primi: infatti, ci che in rapporto alla generazione lessenza, questo in rapporto alla credenza la verit. Dunque, o Socrate, se dopo molte cose dette da molti intorno agli dei e allorigine delluniverso, non riusciamo a presentare dei ragionamenti in tutto e per tutto concordi con se medesimi e precisi, non ti meravigliare. Ma se presenteremo ragionamenti verosimili non meno di alcun altro, allora dobbiamo accontentarci, ricordandoci che io che parlo e voi che giudicate abbiamo una natura umana: cosicch, accettando intorno a queste cose la narrazione probabile, conviene che non ricerchiamo pi in l. Socrate - Molto bene, o Timeo, bisogna accettare in tutto e per tutto la cosa nella maniera in cui dici. Il tuo proemio labbiamo accolto con ammirazione e ora facci sentire il seguito del tuo canto. [Platone, Timeo, 28b-29d. Traduzione di G. Reale] Il brano tratto dal preludio del discorso di Timeo, che espone la dottrina cosmologica platonica; prima di addentrarsi nello sviluppo dellargomento, Timeo si preoccupa di specificare quale sar il tenore del suo discorso; al termine, Socrate dimostra di avere compreso che il registro del suo interlocutore quello del mito: infatti indica quanto precedentemente detto come proemio e quanto segue come il seguito del tuo canto. I discorsi hanno unaffinit con le cose stesse di cui sono espressione: questo il passaggiochiave del brano e il criterio che sta alla base dellintero discorso platonico sulla cosmologia. Largomento platonico il seguente: una volta ammesso che il cosmo in divenire e stato generato da una causa, occorre stabilire i termini dellazione di questa causa produttrice: bisogna indagare se chi abbia fabbricato luniverso lo abbia realizzato guardando a un modello eterno o a un modello generato; poich questo mondo la pi bella delle cose che sono state generate e lArtefice la migliore delle cause, evidente che ha guardato allesemplare eterno; i discorsi hanno unaffinit con le cose stesse di cui sono espressione: lesemplare eterno stabile e saldo e si manifesta mediante lintelletto: i discorsi intorno a esso devono essere inconfutabili e invincibili; ci che sullesemplare si modella immagine dellesemplare: i discorsi intorno a esso sono a loro volta verosimili e in proporzione ai primi.

Oltre alle difficolt caratteristiche di ogni discorso che non si svolga nellambito delloralit e conduca gradualmente al sapere autentico (a tali difficolt Platone sembra accennare quando afferma: Ma il Fattore e il Padre di questo universo molto difficile trovarlo, e, trovatolo, impossibile parlarne a tutti), quello intorno alla cosmologia ne presenta dunque delle altre:

deve adattarsi alle cose stesse di cui espressione e tratta di enti sottoposti al divenire. Se la scienza di ci che immutabile e eterno si esprime in discorsi inconfutabili e invincibili in quanto garantiti dallimmutabilit del loro oggetto, tutti gli aspetti della realt connessi con il divenire devono essere esposti in una forma di narrazione che sia semplicemente probabile: si muovono infatti su piani ben diversi di stabilit lessenza e la generazione, la verit e la credenza; sono anzi fra loro in proporzione, come il modello e ci che su di esso esemplato. In sintesi, si potrebbe affermare che, poich assolutamente necessario che questo cosmo sia immagine di qualche cosa, la riflessione intorno a esso deve a sua volta svilupparsi per immagini: dal momento che il mondo fisico stato generato dallArtefice come immagine sensibile di un modello intelligibile non pu che essere espresso tramite un mito verisimile che sia immagine vivida del Vero (Platone non perde mai di vista il legame del mito con la verit, ragione del suo impiego filosofico). Certamente influisce, sulla scelta della narrazione mitica, anche la considerazione della limitatezza delle possibilit umane, che emerge chiaramente nel passo del Timeo: dobbiamo accontentarci, ricordandoci che io che parlo e voi che giudicate abbiamo una natura umana: cosicch, accettando intorno a queste cose la narrazione probabile, conviene che non ricerchiamo pi in l. Questo aspetto dominante nei casi in cui Platone propone miti di impronta escatologica. In conclusione, si possono rintracciare vari usi filosofici del mito in Platone: dato il particolare rapporto scrittura-oralit, sono un parlare per miti tutte le trattazioni filosofiche che si svolgono al di fuori della dialettica orale; mito, cio narrazione probabile, lintera cosmologia platonica, poich prende in esame un oggetto che solo in termini di verosimiglianza pu essere sviluppato; attraverso il mito che pu essere affrontato lambito escatologico, a motivo delle limitate capacit della ragione umana in questo settore

In tutti i casi evidente come la funzionalit del discorso mitico sia legata al suo rappresentare, nei singoli contesti, la migliore approssimazione possibile alla verit; lobiettivo filosofico della verit rimane quindi dominante e il registro mitico, lungi dal precluderne laccesso, moltiplica piuttosto i percorsi per raggiungerlo.

Lezione n. 17: La teologia politica delle Leggi

Le Leggi sono lultimo dialogo di Platone, che stato definito come il suo testamento politico. Come nella Repubblica, il filosofo si impegna nellimponente opera di fondazione e organizzazione di uno stato perfetto. Al di l delle differenze tra i due dialoghi, conta qui sottolineare alcuni aspetti caratteristici di questo testo, legati al progetto politico dellultimo Platone e ai suoi rapporti con la fede nel divino. Iniziamo, allora, con un mito:
L17-T1 Let di Crono

Prima delle costituzioni alle quali abbiamo accennato, si dice che di gran lunga antecedente ci fosse stato il governo e lo stato, cos felice al tempo di Crono. E che, anzi, il governo pi perfetto dei nostri tempi sia soltanto imitazione di quello. () la tradizione concorde nellammettere vita felice per gli uomini in quei tempi antichi; si dice che lumanit avesse allora in grande abbondanza ogni cosa e che tutto si producesse spontaneamente. E pressa poco ecco la causa di questo fatto. Crono sapeva che, come abbiamo osservato, lumana natura non acconsente a nessun uomo di provvedere con pieno assoluto potere a tutti gli interessi dei suoi simili. Quando luomo perviene a questo grado supremo, purtroppo pieno di violenza e dingiustizia se ne dimostra loperato. Alla quale condizione il dio, riflettendo, mise s allora re e sovrani a capo delle citt umane; ma non erano uomini questi re e questi sovrani. Erano di pi alta stirpe e pi divina: demoni, cio entit sovrannaturali. Allo stesso modo noi oggi provvediamo agli armenti e alle greggi in genere danimali domestici. In tal caso non bovi per altri bovi, non pecore per altre pecore mettiamo a presiedere quali governanti, ma noi stessi esercitiamo il dominio, noi che siamo di generazione pi eletta. Questa medesima cosa dio ebbe a pensare evidentemente, ed essendo pure amante delluman genere, ne mise a capo una stirpe migliore della nostra, quella dei demoni. E questa stirpe, con facile opera di governo, e non piccolo vantaggio anche da parte nostra, si prese cura delle nostra condizione. E questi demoni procurarono a noi pace, reciproco rispetto, leggi ottime e perfette, pienezza di giustizia; questi demoni resero i figli degli uomini concordi fra loro, senza pi rivalit, felici e contenti. E dice tuttora questa tradizione, e dice certo il vero, che quegli stati in cui non un dio, ma umana potest mortale governi, ebbene, per questi stati non v modo di evitare, per nessun modo, sventura e affanno. E afferma ancora questa tradizione che luomo deve, in ogni maniera, cercar di imitare la vita di cui tradizione ci parla; vita vissuta al tempo di Crono. Nel nostro essere vi , sai bene, facolt immortale; si tratta quindi di rispettarne in pieno le esigenze nelle pubbliche ragioni e nelle ragioni private, e in questo modo governar le famiglie e gli stati, e nullaltro ritenere sia legge se non in un certo modo lettura di mente che trasceglie, distribuisce, dispensa. (Platone, Leggi, 713b-714a, trad. Turolla) Platone, a questo punto del dialogo, ha gi stabilito che le condizioni per poter raggiungere lo stato perfetto sono quelle in cui il massimo di temperanza e intelligenza si sposino con il massimo del potere. Ora deve tentare di foggiare le leggi di questo stato e, allo scopo, introduce il mito di Crono: let del governo di Crono presentata come antichissima, precedente allideazione dei vari tipi di costituzione storicamente conosciuti; il tempo in cui i destini degli uomini erano governati dagli dei era unet delloro in cui la natura offriva spontaneamente i propri frutti e regnava la pace;

gli stati dove il governo sia detenuto dagli uomini sono destinati alla rovina; luomo deve nel governo di s e dello stato adeguarsi e imitare il pi possibile quellantico modello divino, rispondendo esclusivamente a ci che di divino c in lui, lanima.

Anche questo, come il racconto fenicio della Repubblica (L15-T2), un mito politico, e un tratto comune il riferimento alla rovina in cui pu cadere la citt se mal governata (da uomini di bronzo o, semplicemente, da uomini), ma esso: non presentato come falso, n vi esitazione a raccontarlo; rappresenta un ideale limite cui le leggi che si stanno per stabilire devono ispirarsi; proietta lideale allindietro, in un passato meraviglioso; la divinit non ha caratteristiche demiurgiche, ma, pi tradizionalmente, rappresentata sotto forma di legislatrice e garante della giustizia.

Il principio che giustifica il mito quello dellimitazione di dio cui deve spingere legislatori e cittadini. Pi oltre Platone scrive:
L17-T2 Dio-misura

Noi diremo cos: O uomini, come antiche tradizioni tramandano, iddio regge cominciamento, termine e mediet di quanto esiste, retto egli procede secondo sua natura, in giro sempiterno volvendosi. E dietro a lui, perenne, giustizia viene, vendicatrice di quanti divina legge pongono in non cale. Di lei prossimo seguace, viene, umile e modesto, luomo che dovr esser felice. Chi invece, gonfio per orgoglio, superbo per ricchezza o per onori, superbo per fisica prestanza, stolto insieme e inesperto, arde nellanima sua e si fa compagno a violenza; chi ritiene di non aver bisogno daltri che lo regga o lo governi, ma si reputa anzi guida adatta per i propri simili. Ebbene, costui resta abbandonato, fatto deserto di dio. () In conseguenza, dio in grado supremo universale misura di tutte le cose. E ben pi che non luomo. Come pur si va dicendo. Perci chi vorr diventare amico a lui, deve, per quanto possibile, diventare egli pure in sommo grado a lui somigliante. (Platone, Leggi, 716a-e, trad. Turolla) Nel testo sono da sottolineare alcuni punti che si legano al mito di Crono, trasferendo nel reale ci che stato detto con la favola. rispetto al mito dato maggior rilievo al potere del dio sullintero cosmo, di cui reggitore oltre che iniziatore (prospettiva demiurgica), e non solo in riferimento alluomo; con lequivalenza divino-giustizia si equipara il rispetto delle leggi negli stati concreti con lobbedienza agli dei nel regno di Crono; si puntualizza la pochezza delluomo la cui superbia empia e tracotante; si osserva la correlazione tra felicit e giustizia e quindi tra la fedelt alle leggi divine e felicit; Platone rovescia il motto protagoreo, affermando che vera misura delle cose il dio e dunque egli non solo il garante, ma anche il modello della giustizia cui la legislazione e i cittadini si devono attenere; il tentativo di somigliare al dio positivo per lindividuo, che ottiene felicit e benevolenza divina, ma, soprattutto, per lo stato, che attinge cos alla sua origine lontana e ai tempi lieti del governo di Crono pu aspirare a riprodurli.

Non sempre, nonostante il loro ruolo di modello, gli dei sono adeguatamente rispettati:
L17-T3 Il preludio alle leggi

In quanto poi si pu far violenza agli dei con parola e con azione, dovremo determinare ora la pena relativa, facendo precedere un ammonimento. E sia il seguente: quanti conformemente alla legge credono nellesistenza degli dei, non vorranno per quanto sta in loro commettere empiet, mai pronunciare illecita parole; il che invece potr provenire da una delle seguenti tre cause: o non si crede nellesistenza degli dei, oppure, in secondo luogo, pur credendo nella loro esistenza, non si pensa che si occupino degli uomini; o, terza ipotesi, si crede possibile placare lira divina, guadagnandone il favore per mezzo di sacrifici e di preghiere. () Eh, cosa vuoi, certo con un po dironia prenderanno la parola: Amici cari, tu ateniese, e tu o spartano, come te pure o cnosio, voi dite la verit. E un fatto, una parte di noi non crede nellesistenza degli dei, una parte, invece, nella condizione degli altri di cui avete fatto cenno. E si desidererebbe anzi una cosa. Come voi stessi avete detto che ci si deve comportare promulgando una legislazione, ebbene, alla stessa guisa, prima di procedere al severo linguaggio di minaccia, si desidererebbe che faceste esperimento di persuasione su di noi, che insomma ci poteste istruire e ci faceste vedere che gli dei veramente ci sono. Si vorrebbero da voi adatte prove e che ci faceste comprendere che troppo sublime quella natura perch, incantata da doni, possa venir sviata contro giustizia (Platone, Leggi, 885b-d, trad Turolla) Platone, prima di stabilire le pene relative ai reati di empiet, si premura di fare alcune precisazioni: tali gesti non possono provenire da uomini devoti; i colpevoli saranno spinti a ci da tre possibili concezioni: lidea che non esistano gli dei; lidea che, se pure esistono, non si occupano delle vicende degli uomini; la possibilit di placare leventuale ira divina con atti estrinseci di devozione; necessario persuadere questi miscredenti della falsit delle loro convinzioni: il dialogo proseguir infatti dimostrando lesistenza degli dei, il loro coinvolgimento nel mondo e la loro incorruttibilit.

Sono enunciati da Platone tre forti e diffusi elementi di sfiducia nella tradizione religiosa. La strategia persuasiva proposta da Platone come contromisura alla miscredenza testimonia: come sia ormai impossibile far riferimento alla passiva acquiescenza alla tradizione religiosa per imporre alcunch, dunque come essa abbia perso il suo valore veritativo e persuasivo; come ladesione a una legislazione da parte di un cittadino si ottiene veramente solo se egli intimamente convinto della sua giustezza; chiamare in causa gli dei pu essere persuasivamente efficacissimo, ma di fronte alla crescente sfiducia religiosa persino la semplice affermazione della loro esistenza diventa problematica; proprio per la forza retorica che la religione possiede una volta liberata da possibili fonti di incredulit, al termine delle confutazioni delle tre tesi degli agnostici Platone affermer: per conto mio questo sarebbe il preludio pi bello e pi sublime ad ogni legge.

Parte quarta: conclusioni

Affrontare Platone nel suo rapporto con il mito significa presentare il suo pensiero secondo quella che sembra essere la sua considerazione dei dialoghi che, vista la svalutazione della scrittura rispetto alloralit, sono un parlare per miti. Egli prende spesso posizione nei confronti del mito che sta alla base delleducazione della grecit e inserendosi nel vasto dibattito in corso nella polis. La prospettiva pedagogica essenziale per comprendere il significato di questi interventi: Platone prende di mira gli educatori tradizionali, poeti e sacerdoti, smascherandone la superficiale cultura religiosa e reputando indegni di fede e riprovevoli alcuni contenuti da loro proposti; scopo primario quello di insediare, nel posto da essi occupato, il filosofo, che scende nella caverna e ne riemerge con la missione di narrare allumanit quanto ha conosciuto.

La critica al mito ha per soprattutto una finalit politica: la educazione dei cittadini dimportanza primaria per il buon funzionamento dello stato e miti immorali sono pertanto assai rischiosi: a tale scopo Platone si fa teorico della censura; il mito ha per un valore persuasivo e una ricaduta esistenziale tali da rendere impossibile il suo accantonamento come forma di trasmissione di sapere; esso viene inoltre piegato alle esigenze dello stato, diventa menzogna politica che pu far accettare come naturale e divina ogni disposizione e ogni gerarchia.

La riabilitazione di certe forme del mito che si compie nelle Leggi discende da unattenta e pi ampia valutazione di quanto pericolosi si rivelino lateismo e unerrata concezione del rapporto degli dei con il mondo degli uomini per la compagine statale: favoriscono infatti comportamenti ingiusti. Di qui la necessit: di una persuasione religiosa che stimoli ad atteggiamenti virtuosi; di dimostrare lesistenza degli dei e la loro attenzione per le vicende terrene, ma soprattutto linutilit di ogni tentativo di corruzione ai loro danni da parte dellingiusto.

Platone arriva dunque a formulare in via del tutto razionale una propria teologia di significato spiccatamente politico, ma ricorre anche a narrazioni mitiche che sintetizzano i punti nodali della sua dottrina e la esprimono in immagini efficacissime, pur nella convinzione che tale narrazione si pone su un gradino pi basso, seppure pi immediatamente comprensibile, rispetto al pensare per concetti che caratterizza la filosofia. Nonostante il costante tentativo di arrivare per via razionale allaffermazione di un codice etico e di una visione teoretica, si deve inevitabilmente ricorrere al mito escatologico per conferire un fondamento realmente solido e convincente al proprio filosofare.
Ricerche

La bibliografia su Platone naturalmente sterminata; si consiglia innanzitutto, per le tematiche affrontate in questa Parte, la lettura integrale dellEutifrone [in Platone, Opere complete, Laterza, Bari, 1988] e dei Libri II e III della Repubblica [Rizzoli, Milano, 1997] oltre che del mito di Er alla conclusione del X libro del medesimo dialogo. Particolarmente significativo per quanto riguarda la polemica di Platone contro la poesia omerica E.A. Havelock, Cultura orale e civilt della scrittura: da Omero a Platone,

Laterza, Roma-Bari, 1983: capp.1 [Platone e la poesia], 2 [La Mimesi], 3 [La poesia come salvaguardia della comunicazione], 13 [La poesia come opinione] e 15 [La musica suprema la filosofia]. SullEutifrone si veda F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma, 1998, cap.3 [La critica alla cultura tradizionale]. Per uninterpretazione della Repubblica e dei suoi miti in una chiave originale si consigliano i saggi critici contenuti nelledizione di Platone, Repubblica, Bibliopolis, Napoli, 1998 curata da M. Vegetti; suggestiva anche la lettura proposta nelle lezioni universitarie di C. Sini, La virt politica. Filosofia e antropologia, CUEM, Milano, 2000. Per una presentazione chiara della complessa architettura delle Leggi e un loro confronto con le analoghe tematiche della Repubblica si consigliano i capp.10 [Etica e politica nella Repubblica] e 15 [Lultimo pensiero politico di Platone: il Politico e le Leggi] del gi citato Platone di F. Trabattoni. Sulla religione nei dialoghi platonici si pu affrontare la lettura di A. Bortolotti, La religione nel pensiero di Platone dai primi dialoghi al Fedro, Olschki, Firenze, 1986.

Parte quinta: Etica e teologia nello stoicismo e nellepicureismo [lezioni 18-20]


Lezione n.18: La lotta contro la superstizione

I massimi esponenti della filosofia epicurea, il suo ideatore Epicuro, e il poeta latino Lucrezio, con la trattazione poetico-didascalica del pensiero epicureo nel De rerum natura, adottano un atteggiamento fortemente critico nei confronti della tradizione religiosa: in particolare messo sotto accusa il rapporto di subordinazione e timore che luomo instaura con la divinit, rendendosi cos vittima di una superstizione dannosa e angosciante. In questo senso si muove la ricerca scientifica di Epicuro, che si spinge alla ricerca delle cause prime dei fenomeni di cui gli uomini sono spettatori allo scopo di reperirle allinterno della natura, senza ricorrere a forze divine soprannaturali e minacciose, in grado di stravolgere lassetto del cosmo del tutto improvvisamente. Si rende necessaria una rivoluzione scientifica per liberarsi dalloppio della religione.
L18-T1 Lesigenza scientifica

XI - Se non ci turbasse la paura delle cose celesti e della morte, nel timore che esse abbiano qualche importanza per noi, e lignoranza dei limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura . XII - Non era possibile dissolvere i timori riguardo a ci che pi importante ignorando che cosa fosse la natura delluniverso ma vivendo in sospettoso timore per i miti. Cos non era possibile senza lo studio della natura avere pure gioie. XIII - A niente giovava il procacciarsi la sicurezza dagli uomini finch rimanevano i sospetti e le paure per le cose del cielo e dellAde e di ci che avviene nelluniverso. [Epicuro, Massime capitali] Epicuro si sofferma a delineare la connessione tra scienza naturale e felicit in contrapposizione al binomio superstizione-turbamento: limpegno scientifico si rende necessario per effetto dei timori degli uomini circa le cose celesti (dei e fenomeni), le pene dellAde, la morte; linsegnamento veicolato dai miti impedisce la pura gioia, dal momento che ingenera timori che possibile dissolvere solo con la ricerca e il reperimento scientifico della vera natura delluniverso; nessunaltra forma di sicurezza e benessere elimina il sospetto ed dunque serenamente godibile.

Scopo di Epicuro dunque liberare, mediante la spiegazione scientifica, luomo dal timore della vita e della morte la cui fonte primaria vista nei contenuti dei miti e delle prescrizioni religiose. La scienza epicurea adotta il metodo delle spiegazioni molteplici di un singolo fenomeno, di per s antiscientifico ma assai utile per i suoi scopi etici: Epicuro vuole persuadere il lettore che tutto spiegabile razionalmente e che la provvidenza divina non coinvolta. Egli non nega la esistenza degli dei, ma esclude la veridicit della concezione tradizionale che fa loro esercitare una qualche influenza sugli uomini e sul mondo.
L18-T2 Gli dei e il mondo

Per quanto riguarda i moti, le rivoluzioni, e il sorgere e il tramontare, e gli altri fenomeni simili dei corpi celesti, non bisogna credere che ci sia qualche essere che a ci preposto e dia, o abbia dato, ordine ad essi, e nello stesso tempo goda della

pi completa beatitudine e dellimmortalit poich occupazioni e preoccupazioni e ire e benevolenze sono inconciliabili con la beatitudine: sono cose che provengono da debolezza, e timore, e bisogno degli altri n, essendo un po di fuoco conglobato, dotati di beatitudine assumano questi moti per spontaneo atto di volont. () Oltre a tutto ci bisogna credere che il pi grave perturbamento sorge nelle anime degli uomini nel credere che le medesime creature possano essere beate e immortali e avere volont e azioni e cause contrarie a tali loro attributi, e, o nellattendere o nel temere, prestando fede ai miti, qualche male eterno, o nel paventare quella mancanza di sensibilit che nella morte, come se fosse per noi un male e nel dover sopportare tutto ci non in seguito a proprie opinioni, ma per una specie di irragionevole insania; per cui, non sapendo ben determinare che cosa si deve temere, [gli uomini] sono soggetti allo stesso o anche a maggiore perturbamento che se avessero delle loro decise opinioni nei riguardo di ci. Limperturbabilit proviene dalla completa liberazione da tutto ci e dal ricordo ininterrotto dei principi generali e fondamentali della dottrina. [Epicuro, Lettera a Erodoto, 76-77 e 81-82] Il testo torna sulla possibilit di spiegare fenomeni naturali con un intervento divino, ma: rileva che un qualunque agire della divinit nel mondo in contrasto con i caratteri di beatitudine e immortalit a essa attribuiti; questo perch ira, preoccupazioni, benevolenze sono indice di debolezza, mancanza, incompiutezza, non autosufficienza: per converso agli dei riconosciuta questa autarchia; la credenza nella supervisione e nella preoccupazione divina per luomo e il mondo produce grave turbamento nellanimo: Epicuro caratterizza questo prestar fede ai miti come irragionevole insania.

Epicuro svela agli uomini le leggi fisiche a cui sottostanno tutte le cose, dei compresi, cos si pone fine allarbitrio e luomo reso finalmente padrone di se stesso e del suo destino. Senza ricorrere ad astrazioni concettuali, Lucrezio mostra plasticamente le aberrazioni cui pu condurre la superstizione mediante la narrazione del sacrificio di Ifigenia da parte del padre Agamennone:
L18-T3 Ifigenia, vittima della superstizione

Questa la mia paura, che tu creda di accettare i principi di una dottrina empia e di avanzare sulla via del delitto. Al contrario, stata proprio quella religione a produrre azioni Empie e crudeli. Come in Aulide brutalmente deturparono Laltare della vergine trivia con il sangue di Ifigenia I capi scelti dei Danai, fior fiore di eroi. E non appena la sacra benda, posta intorno alle chiome, ricadde su entrambe le guance alla vergine, e si accorse che il padre stava triste davanti agli altari, e da presso i ministri celavano il ferro, e i cittadini alla vista piangevano, muta per il terrore, piegata sulle ginocchia cadeva a terra. N allinfelice poteva giovare in questo caso Che per prima avesse donato al re il nome di padre, e presa da mani di uomini fu portata allaltare non per compiere un rito di nozze e accompagnata

da splendido corteo passare nella casa, ma per morire impuramente, lei cos pura proprio in stagione di nozze, ammazzata dal padre. Vittima infelice perch la flotta felice partisse. A tanti mali indurre allora pot la religione. [Lucrezio, De rerum natura, I, 80-101] Lucrezio mira a suscitare orrore e sdegno: la dottrina epicurea non empia per la sua considerazione di dei e religione tradizionale, anzi, proprio questultima a risultare empia come mostra la vicenda di Ifigenia; il sacrificio raccontato sottolineando laspetto ingannatore, e perci colpevole, con cui presentato a Ifigenia come un rito di nozze; a ordinare il sacrificio il padre della vittima; la giovane muore per volere di una divinit crudele affinch la navigazione achea verso Troia abbia buon esito.

La narrazione lucreziana prende spunto da unaffermazione dello stesso Epicuro che, nella Lettera a Meneceo, afferma che Empio non colui che rinnega gli dei del volgo, ma colui che le idee del volgo applica agli dei. La dottrina epicurea non empia nel rinnegare la religione tradizionale; lesposizione di Lucrezio ribadisce alcuni cardini della requisitoria epicurea: il non coinvolgimento divino nelle vicende umane; la pericolosit di una religiosit che, non ritenendo vera questa tesi, spinge ad azioni turpi e sacrileghe come luccisione di una fanciulla innocente per la ragion di stato che impone il sacrificio del singolo a vantaggio della comunit: Agamennone vittima di un accecamento superstizioso che gli impedisce di cogliere la follia del suo atto e a produrlo la fede nelle opinioni religiose del volgo.

Lucrezio arriva a sostenere che credenza negli dei costituisca esclusivamente una tappa della evoluzione umana rispondente a quanto gi gli uomini pi antichi vedevano durante la veglia o il sonno: lorigine della religione tradizionale del tutto storica e psicologica, dovuta allincapacit di reperire razionalmente le cause di ci che si osserva nel cosmo. Dal riconoscimento della potenza illimitata degli dei immaginati derivano i culti in cui Lucrezio crede di riconoscere: il contrario della devozione, la cui vera natura risiede nella capacit di guardare tutto serenamente; la umiliazione delluomo che finisce per vedersi come un burattino nelle mani delle potenze divine; la angoscia dinanzi allarbitrio dellazione divina.

Un ulteriore aspetto connesso con la religiosit e che Epicuro tenta di esorcizzare con spiegazioni razionali la paura della morte. Alla condanna dellimmagine dellAde descritta dai miti Lucrezio dedica versi carichi di sarcasmo e amarezza:
L18-T4 Le pene delloltretomba

Senza alcun dubbio i tormenti, che si dice vi siano

Nel profondo Acheronte, sono in realt tutti nella nostra vita. N Tantalo infelice, come si favoleggia, raggelato da un vano terrore, teme lenorme macigno che incombe sospeso nellaria; ma piuttosto nella vita lo stolto timore degli dei incalza i mortali che temono le sventure di cui sar foriera a ognuno la sorte. N gli uccelli penetrano in Tizio disteso nellAcheronte, n certo possono trovare entro il suo vasto petto qualcosa in cui frugare nelleternit del tempo. . Ma nella vita il terrore delle pene per le malvagit compiute, crudele per crudeli delitti, e lespiazione della colpa, il carcere e il tremendo balzo gi dalla rupe, le frustate, i carnefici, le violenze, la pece, le lamine, le torce; e anche se tutto ci lontano, la mente consapevole dei misfatti rimordendo applica a s quei tormenti, brucia sotto la sferza, e non vede intanto qual termine possa esserci a quei mali, n qual sia infine linterruzione di quelle pene, e teme anzi che le medesime in morte sinaspriscano. Qui sulla terra savvera per gli stolti la vita dellinferno (Lucrezio, De rerum natura, III, vv.978-986 e 1014-1023 trad. Canali) Data per scontata, sulla base della fisica epicurea, la impossibilit delle vita ultraterrena, assurde risultano anche le raffigurazioni delloltretomba e delle sue pene la cui origine, come gi quella della religione, ricondotta a un antropomorfismo deteriore e ridicolo che traspone le angosce, i timori, i rimorsi terreni in un immagine soprannaturale: Lucrezio riprende alcune delle figure mostruose pi tipiche dellAde mitico (Cerbero, le Furie), le descrizioni dei luoghi (il fuoco, lassenza di luce, i fiumi) e i tormenti esemplari quali quelli di Tantalo, Tizio, Sisifo; le pene e la orrorifica immagine dellAde, che occupano la mente degli uomini, non sono altro che una proiezione nellaldil di colpe e rimorsi: di qui laffermazione, che torna come un ritornello allinizio e alla fine del brano, secondo cui le pene dellaldil sono tutte nella nostra vita.

Al di l del contenuto specifico, emerge nuovamente il nodo centrale di tutta la critica religiosa epicurea: i terribili tormenti cui porta la credenza superstiziosa trasmessa dal mito, ben simboleggiati dalla descrizione degli Inferi.

Lezione n. 19: La religiosit epicurea

Per lungo tempo la tesi dello stoico Posidonio (II secolo a.C.) secondo cui Epicuro avrebbe sostenuto lesistenza degli dei per mera opportunit politica, evitando cos di incorrere in una accusa di empiet, prevalsa, ma recentemente si rivalutata lautenticit della religiosit epicurea nel suo nesso con il complesso della dottrina: la divinit presentata come modello perfetto e realizzato di felicit, cio come saggio realizzato che ha raggiunto la atarassa (assenza di turbamento); da ci deriva linattivit della divinit stessa e dunque il suo mancato coinvolgimento nelle vicende mondane, aspetti che la rendono oggetto di aspirazione da parte delluomo, che non deve per farsi intimorire o inibire sino a diventarne schiavo. Epicuro, quasi inaspettatamente, mantiene ferma lidea dellesistenza degli dei: da sempre il legame tra fede negli dei e loro intervento nelle vicende mondane inscindibile e il venir meno di questa seconda condizione sembrerebbe coincidere con leliminazione degli dei stessi. Epicuro, invece, ricorrendo alla propria gnoseologia, non arriva affatto a conclusioni ateistiche:
L19-T1 La nozione degli dei

Solo Epicuro cap che anzitutto gli dei devono esserci proprio perch la natura stessa ne ha impresso la nozione nellanima degli uomini tutti. E quale stirpe e quale gente umana vi mai infatti che non abbia, anche senza la conoscenza vera e propria, almeno la prenozione del divino? Quella prenozione che Epicuro chiama prolessi. [Cicerone, De natura deorum,I 19,51] Da Epicuro ci si attenderebbe, al limite, un accenno al divino come attributo di atomi indistruttibili ed eterni, cio una coincidenza, quale quella stabilita dai fisici pi antichi, tra il divino e larch (principio) di tutte le cose. Invece Epicuro parla di dei in senso pieno e Cicerone si sofferma a mostrare le ragioni di questa posizione: la conoscenza o almeno una qualche nozione del divino presente in tutti i popoli; ci significa che la natura stessa ha impresso la nozione degli dei negli uomini; questa conoscenza esattamente una prenozione o prolessi e, come tale, prodotta da specifici simulacri che non possono che provenire dai rispettivi oggetti e che colpiscono i sensi o lintelletto.

Il concetto di divinit che poi da questa prenozione derivato quello che Epicuro non condivide, ma mai si permetterebbe di affermare lesistenza di simulacri privi di un oggetto che li generi. E indubitabile la veridicit delle sensazioni, prodotte dal distaccarsi di sottili pellicole di atomi (simulacra) dagli oggetti; lerrore nasce in sede di giudizio, quando lindividuo pretende di affermare, in base alle proprie sensazioni, che le cose stanno realmente cos come egli le ha percepite.
L19-T2 Lintelligibilit degli dei

Nellopera Sugli dei dice senza lasciar adito a dubbi che lessere che possiede una natura perfetta deve essere tutto percettibile con lintelletto e non essere concepito affatto come sensibile [Filodemo, Sulla piet, 34 US] Il frammento riportato una logica conseguenza di quanto affermato da Cicerone:

la certezza dellesistenza della divinit deriva dalla presenza in ciascuno di una sua immagine; indubbio tuttavia che gli oggetti corrispondenti ai simulacra degli dei percepiti non cadono sotto i nostri sensi; pertanto lente divino in s considerato percepibile esclusivamente con lintelletto.

La distinzione di grado tra intelletto e sensi ha tuttavia significato solo se le due cose si percepiscono come aventi natura diversa, laddove invece il sensismo epicureo impedisce di pensarli in tal modo. La certezza dellesistenza degli dei da Epicuro motivata altrove diversamente:
L19-T3 Lisonoma

Grandissima poi lessenza dellinfinito e altamente degna della pi grande e diligente attenzione; e bisogna comprendere bene come tale sia la sua natura che tutte le cose si corrispondono esattamente, le uguali alle uguali. Epicuro chiamava ci isonoma, cio retta distribuzione. Per tale ragione avviene che, quanta la moltitudine degli uomini, altrettanta deve essere, e non minore, quella degli dei immortali; e se le sue forze dissolventi sono innumerevoli, infinite devono essere ugualmente quelle preservanti. [Cicerone, De natura deorum, I, 19, 50] Epicuro riconosce nella realt una legge di equilibrio o compensazione; lesistenza di tale corrispondenza richiede che la moltitudine degli uomini sia compensata dallesistenza di altrettante divinit; pertanto, riconosciuta lisonoma come dato di fatto, essa richiede che gli dei esistano.

Un altro argomento utilizzato da Epicuro quello cosiddetto ex gradibus:


L19-T4 Le nature eccelse

Egli (Epicuro) afferma infatti che vi sono gli dei, poich necessario che vi sia una qualche natura eccelsa, della quale nulla sia migliore. [Cicerone, De natura deorum, II, 17, 46] Epicuro attribuisce ai suoi dei limmortalit e la beatitudine e sa bene che tali caratteri sono propri anche della divinit della tradizione, che tuttavia prosegue poi in una direzione errata sovrapponendo a questo quadro il tema del coinvolgimento divino nel corso del mondo:
L19-T5 Dei e saggi

La vita della divinit (Epicuro) la chiama anche nellopera Sulla santit la pi dolce e sommamente beata, e la reputa capace di guardarsi da tutto ci che impuro. [Filodemo, Sulla piet, 38 US] Per Epicuro, nellopera Sugli dei, lessere che non ha per natura una costituzione caduca sinonimo della natura divina, e lessere che non di natura che sia soggetta a dolore. [Filodemo, Sulla piet, 32 US] Osservando i due testi, essi sono accomunati da un riferimento al dolore e a ci che impuro quali elementi distanti dalla vita della divinit:

sono gli stessi la cui assenza dalla vita di un uomo testimonia la perfetta saggezza che coincide con la felicit; liberato da ogni preoccupazione per la limitazione dei desideri, il saggio ottiene in vita la pace dellanima (atarassia) e dunque la felicit; non sarebbe credibile sottrarre agli dei il privilegio di questa vita beata, dal momento che essa concessa persino a alcuni miseri mortali; ma la sostanza della felicit divina non pu differire da quella della felicit umana e pertanto deve coincidere proprio con latarassa; dunque latarassia degli dei incompatibile con una qualunque preoccupazione per luniverso.

Come linteresse di Epicuro nei confronti della filosofia impregnato di un afflato etico, cos anche la sua concezione di Dio: la divinit che emerge lideale della sua etica oggettivato e sostanzializzato, fatto persona. I suoi dei sono una proiezione del Giardino e del saggio epicureo, ed in tal senso che si fa comprensibile il rispetto a essi dovuto:
L19-T6 Rispetto degli dei

Che approvassero luso dei giuramenti e delle invocazioni agli dei ridicolo rammentarlo, essendone piene le loro opere; conviene piuttosto dire che (Epicuro) raccomandava di osservare la fede data per mezzo dei giuramenti e di simili cose, e di rispettare il (giuramento) chiaramente fatto nel nome di Zeus stesso, non con lo scrivere perma che dico? Come parlare santamente? E a Colote consigli di aver rispetto dei giuramenti e di tutto ci che riguarda gli dei. [Filodemo, Sulla piet, 142 US] ma anche scrivendo a Polieno che bisogna festeggiare le Antesterie e ricordarsi degli dei, in quanto sono causa di molti beni. [Filodemo, Sulla piet, 157 US] e di nuovo: Quanto a noi, dice, sacrifichiamo agli dei santamente quando lo si deve, e agiamo bene in tutto il resto secondo le leggi senza turbarci minimamente per le vane opinioni riguardo agli esseri che sono i migliori e i pi augusti. E inoltre diciamo che questo giusto per la causa che ho detto; cos infatti possibile che una creatura mortale viva, per Zeus, come Zeus, come ben si vede. [Filodemo, Sulla piet, 387 US] apparir chiaro che Epicuro ha osservato tutte le regole del culto e ha raccomandato di osservarle anche ai suoi scolari, non solo per ossequio alle leggi, ma anche per osservanza di principi naturali. Dice infatti nellopera.che conforme a saggezza il pregare, non perch gli dei si adireranno se non lo faremo, ma per lidea che noi abbiamo delle loro nature superiori per potenza e prestanza. [Filodemo, Sulla piet, 13 US] I brevi frammenti riportati, appartenenti perlopi a lettere, si soffermano a riportare le indicazioni di Epicuro circa latteggiamento da tenere verso gli dei nella vita quotidiana. Epicuro, completamente affrancato dallaccusa di empiet, emerge come uomo pio che invitava i discepoli e si impegnava di persona a rispettare i giuramenti e a giurare in nome di Zeus, a celebrare le feste, a sacrificare alle divinit, a pregare, a osservare tutte le regole del culto. Sono tutte pratiche che presuppongono una qualche fede negli dei, dal momento che se si giudica sufficiente la garanzia di Zeus per un giuramento, ci significa che Zeus ha

unautorit tale da poterlo far rispettare; lo stesso vale per le esortazioni ad altri tipi di pratiche: Epicuro non si muove in una logica meramente utilitaria, per evitare lira divina, o estrinseca, cio per sottrarsi a accuse di empiet; afferma che bisogna agire cos in nome dellidea che si possiede della natura divina e della sua potenza, in ossequio al rispetto dovuto a qualcosa che pi grande delluomo, senza per questo farsi attanagliare dal timore di questa forza soverchiante; luomo saggio che onora gli dei vive, libero dai timori che leventuale inadempienza al culto gli causerebbe, come un dio in terra; Epicuro osserva il rito per un sentimento sincero, non per obbedienza a una legge: se i suoi dei senza turbamento non si occupano delle cose umane, daltro canto, poich essi sono beati, lodarli e avvicinarsi ad essi prender parte alla loro felicit, ammirarne la natura e la condizione, sforzandosi di avvicinarsela, aspirando ad essa.

Il dogma dellindifferenza divina non cancella la religione, ma la purifica da aspetti deteriori e superstizioni: luomo veramente pio non si rivolge agli dei per placarli o ottenere qualche grazia, ma per unirsi a essi per mezzo della contemplazione, rallegrarsi della loro gioia e assaporare cos anchegli la loro beatitudine infinita. Per citare un esempio clamoroso che invalida i luoghi comuni circa lateismo della dottrina epicurea, Lucrezio inaugura il De rerum natura con un inno a Venere che esprime il riconoscimento di una potenza divina sulla natura. Gli dei sono numerosissimi, almeno quanto gli uomini, sono maschi e femmine, conversano tra loro parlando una lingua simile al greco e trascorrono unesistenza beata in compagnia, in una sfera chiusa alle vicende del mondo e a ogni nascere e perire; ma essi mantengono anche un tratto antropomorfico tipico della religiosit popolare:
L19-T7 Dei "atomici"

E tuttavia questa loro (degli dei) conformazione non corpo, ma quasi corpo, non sangue, ma quasi sangue [Cicerone, De natura deorum,I, 18, 49] Lespressione quasi utilizzata da Cicerone sintomatica di una difficolt in cui Epicuro non pu non cadere quando tenti di precisare la natura dei suoi dei concordemente con la sua fisica: come ogni cosa gli dei devono essere costituiti da atomi, ma ogni composto atomico suscettibile di dissoluzione, mentre gli dei sono immortali; Epicuro sostiene che tale indissolubilit si deve alla specificit del composto atomico che costituisce gli dei, il quale in grado di ricolmare ogni volta le perdite di materia; ma come si spiega lo statuto privilegiato di questi composti? Ecco allora che Epicuro deve ricorrere a un concetto di quasi corpo decisamente debole; questa figura sarebbe, inoltre, simile a quella umana, dal momento che questultima la pi bella di quelle presenti in natura, il che si ricollega allargomento ex gradibus utilizzato da Epicuro per dimostrare lesistenza degli dei.

Lezione n. 20: Il panteismo monistico degli stoici

Gli stoici, bench sia quasi impossibile ricostruire per essi un corpo dottrinale unitario, sono in genere pi rispettosi della tradizione religiosa, pertanto si mostrano pi acquiescenti nei confronti dei suoi contenuti, innanzitutto mitici:
L20-T1 Lallegoria

E che dovrei dire di quelle assurde storie dei greci intorno ai loro dei, degne solo di vergogna, e che vengono spiegate allegoricamente, come fa ad esempio Crisippo di Soli, quel filosofo che si ritiene aver ornato la Stoa di molti acuti scritti; egli spiega la pittura di Samo nella quale Era rappresentata mentre fa turpitudini con Zeus; e dice nei suoi scritti, quellacuto filosofo, che materia accogliendo le ragioni seminali della divinit li riceve in s ad ordinamento del tutto: nella pittura di Samo Era simboleggia la materia e Zeus la divinit. [Origene, Contra Celsum, IV, 48, I, p.321 Kotschau=SVF II, 1074] Gli stoici, secondo la testimonianza di Origene, intendono spiegare allegoricamente i racconti mitici relativi alle divinit: i miti sono sottoposti a revisione, come gi nellet della polis, con lintento di far combaciare le immagini poetiche e pittoriche di quella tradizione con le nuove teorie fisiche e cosmologiche proposte dallo stoicismo. Crisippo agisce in questo modo: non possibile attribuire agli dei atti vergognosi come il congiungimento di Era con Zeus; se il mito racconta questi fatti bisogna per credervi, pena la messa in discussione di tutto ledificio religioso greco; pertanto lunico modo per giustificare una simile narrazione o raffigurazione intenderla come metafora, immagine resa chiara dal suo richiamarsi alla consuetudine, di una verit pi profonda, concettualmente difficile da esprimere; compito del filosofo sviscerare questo nucleo dottrinario: in tal caso limmagine veicola lidea di un principio attivo che vivifica linerte materia; il principio attivo coincide con ci che d la forma, il seme, il maschio, mentre la materia grembo inattivo ricettacolo del seme che la vivifica; Zeus simboleggia qualcosaltro e cos Era.

E logico che siano gli aspetti pi evidentemente antropomorfici del mito a generare insoddisfazione e sospetto nei suoi fruitori pi consapevoli, che pertanto si attivano per mantenerne la validit, al prezzo per di perderne la veridicit letterale in favore di una allegorica ancor pi opinabile in quanto soggettiva e non garantita dalla divinit. Cicerone sembra pi consapevole di questi rischi: definisce infatti questa strategia ermeneutica come un voler rendere ragione delle menzogne contenute nelle favole. Anche per lo stoicismo, come per lepicureismo, la nozione della divinit inseparabile dalla dottrina fisica. Punto di partenza la nozione di corpo inteso come materia e forma (o qualit) inscindibilmente unite, luna come principio passivo, laltra come principio attivo:
L20-T2 I due principi

Essi ritengono che i principi del tutto siano due, il principio attivo e quello passivo. Il principio passivo la sostanza senza qualit, la materia; il principio attivo la ragione che risiede in essa, la divinit. Questa, che eterna, foggia tutte le cose con arte scorrendo per la materia. Questa dottrina la espone Zenone di Cizio, nel Della sostanza. [Diogene Laerzio, Vitae philosoph., 7, 39= fr.I, 85 SVF]

Nellesposizione di Diogene Laerzio si coglie: il legame istituito tra principio attivo e divinit; la equivalenza tra dio e ragione; la capacit plasmatrice, artigianale, del dio nei confronti della materia; la coesistenza di materia e divinit, lo scorrimento di questa in quella.

Rispetto alla divinit epicurea facile riscontrare unenorme differenza: la capacit demiurgica, plasmatrice, della divinit implica una sua attivit e il coinvolgimento nella conformazione del mondo, aprendo la strada a un suo influsso nella vita umana. La concezione di fondo della fisica stoica materialistica e corporeistica, ma essa non prende la forma del pluralismo atomistico epicureo, ma si configura come: ilemorfismo: il corpo sempre materia e forma unite luna allaltra; ilozoismo: c ununica materia che porta in s il principio della vita e della ragione; monismo: i due principi sono logicamente distinguibili, ma quanto al loro essere sono inseparabili;

E chiaro che se dio in tutto in quanto presenza vivificante, esso assume diverse forme, plasmando la materia, pur restando se stesso. Il contenuto panteistico della fisica stoica non si limita tuttavia al riconoscimento della presenza attiva della divinit nella materia; data linscindibilit di materia e forma (dio) al di fuori delle quali nullaltro esiste, dio non solo in tutto, ma tutto:
L20-T3 Panteismo e provvidenza

Essi affermano che la divinit non altro che il cosmo in tutte le sue parti: e dicono che questo unico, limitato, vivente, eterno, divino. In esso sono racchiusi tutti i corpi, entro di esso non vi alcun vuoto. (.) A quel modo che la citt indica insieme labitazione di chi vi risiede con i residenti in essa, cos anche il cosmo, come una citt, composto di uomini e di dei, gli dei avendo la direzione, gli uomini essendo a loro soggetti. Vi comunanza fra gli uni e gli altri in virt della ragione di cui entrambi partecipano, secondo la legge della natura; e tutte le altre cose sono generate in ordine ad essi. Conseguentemente a tutto questo, si deve credere che la divinit che governa il tutto eserciti azione provvidenziale nei riguardi degli uomini, essendo benefica, buona, amica del genere umano, giusta, dotata di tutte le virt. Per questa ragione il cosmo si dice anche Zeus, dal momento che a noi causa di vita (zn). E in quanto governa tutte le cose in maniera assolutamente necessaria in base a una parola pronunciata dalleternit, si dice anche fato; e si dice Adrastea perch impossibile sfuggirle (apodidrskein); e provvidenza perch governa tutte le cose per il loro vantaggio. [Ario Didimo, presso Eusebio, Praep. Evang., XV, 15 segg.= fr II, 528 SVF] La testimonianza argomenta una tesi che si pu riassumere nella coincidenza tra divinit e cosmo: Dio equivale al cosmo in tutte le sue parti e pertanto ne ha i caratteri: unico, limitato (compiuto), vivo, eterno e ha in s la totalit dei corpi; il rapporto tra gli uomini e gli dei quello che sussiste in una citt tra sudditi e governanti;

dei e uomini sono accomunati dal possesso della ragione, per questo sono cittadini della medesima citt, il cosmo; data la potenza della divinit e il suo rapporto privilegiato con luomo le viene attribuita unazione di governo sul tutto e unazione provvidenziale in particolare proprio nei confronti delluomo; data la provvidenza, la divinit, oltre possedere le caratteristiche del cosmo prima elencate, anche benefica, buona, virtuosa, giusta, amica dellumanit.

Allinterno del brano sono ancora da sottolineare i richiami a nomi divini ripresi dalla mitologia tradizionale, sviscerati etimologicamente per farli coincidere con le nuove concezioni stoiche: Adrastea: necessit assoluta, cui non possibile sfuggire; Zeus, il cui nome fatto derivare da zn, vita, dal momento che la divinit il principio attivo che d vita alla materia, ma accostato anche ad attributi quali la giustizia e la bont.

Ancora una volta facile riconoscere i tratti antiepicurei del dio stoico che, oltre ad essere unico, intrattiene stretti rapporti con luomo, governa e allorigine di tutto quanto accade, movendo il cosmo in una direzione necessaria e buona. Inoltre, anche Ario Didimo sottolinea la coincidenza tra dio e ragione (lgos): il dio principio di intelligenza, razionalit, spiritualit immanente alla materia. La presenza di una concezione finalistica, opposta al meccanicismo e al casualismo epicurei, motivata dallidentificazione del dio-natura con la ragione: dal momento che tutto dio e dio ragione, facile concludere che tutto razionale, cio come deve essere, quindi perfetto. Limperfezione delle singole cose trova perfezione nel disegno del tutto. A tale posizione si connette il discorso sulla provvidenza (prnoia) coincidente con il finalismo universale. Il ragionamento piuttosto semplice: la divinit ha il potere di plasmare e trasformare tutto; la materia assolutamente duttile, in potenza qualunque cosa; la provvidenza divina che la foggia in un determinato modo ed in virt di questa matrice divina ogni cosa non pu che essere fatta come meglio che sia.

La provvidenza non ha nulla di trascendente, essa coincide con lordine razionale del cosmo, con il suo artefice immanente e, in quanto natura, essa non si occupa dei singoli uomini, ma della totalit della specie. La provvidenza non personale, cos come non lo la divinit. Essa finisce per rivelarsi ineluttabile necessit, fato (heimarmne), inteso come serie irreversibile delle cause, ordine naturale necessario di tutte le cose, indissolubile intreccio che lega tutti gli esseri, come il lgos secondo cui tutto ci che avvenuto e avverr avvenuto e avverr. Il saggio stoico, dinanzi a questa considerazione, deve mantenersi sereno e fiducioso: infatti lordine del cosmo, anche se pu apparire inspiegabile, ingiusto o manchevole ha il sigillo della divinit che sola conosce il fine, necessariamente buono, in quanto divino, cui esso tende. Luomo ha solo una visione parziale che non gli consente di attingere alla conoscenza del fine globale. Il consenso espresso nei confronti della divinazione si motiva sulla base della dottrina della provvidenza divina:
L20-T4 La divinazione

Infatti gli stoici non ritengono che gli dei siano responsabili in alcunch del fegato e dei canti degli uccelli; n ci pu essere conveniente, n in alcun modo degno degli dei, ma ritengono invece che il mondo abbia avuto fin dallinizio una tale struttura che eventi stabiliti siano precorsi da segni stabiliti, manifestantesi alcuni nelle viscere, altri negli uccelli, altri nelle folgori, altri nei prodigi, altri ancora negli astri o nelle visioni dei sogni, o nelle parole degli invasati. Se essi vengono bene interpretati, difficile ingannarsi; e se sono mal congetturati e mal interpretati risultano falsi non per colpa della realt, ma per imperizia degli interpreti. Una volta per dato e concesso che esiste una forza divina che regge la vita delluomo, non difficile arguire in virt di quale logica avvengano le cose che vediamo di fatto avvenire. Quella stessa intelligenza divina fa s che gli uccelli volino ora da una parte, ora dallaltra, o si nascondano ora da una parte, ora dallaltra, e che gli uccelli augurali cantino ora da destra ora da sinistra. () [Cicerone, De divinatione, I, 52-53 = SVF II, 1210] Cicerone offre spunti interessanti: non sussiste un collegamento diretto tra le divinit e i segni da cui si traggono le profezie; il mondo ad essere rigidamente strutturato secondo una catena per cui gli avvenimenti sono prestabiliti e cos i segni che li precedono; le errate interpretazioni dei segni sono dovute a manchevolezze umane, non a una qualche anomalia del reale; in ultima analisi, in quanto sono gli dei a reggere il mondo e a ordinarne gli avvenimenti, bench non direttamente responsabili di visceri di animali e voli di uccelli, se questi sono e avvengono in un dato modo perch tale direzione impressa alle cose dallo spirito divino.

Le affermazioni di Cicerone sono in linea con quella che una convinzione diffusa tra gli esponenti dello stoicismo: c la divinazione in quanto ci sono dei. Lunica garanzia dunque la fede negli dei stessi. Ecco perch Cicerone attribuisce una profezia che non si verifichi a un errore umano: negare il valore della divinazione equivarrebbe a invalidare lo stoicismo stesso e, pi in generale, mettere in scacco ogni possibile fede in una divinit razionale e onnipotente gettando luomo nello sconforto e nel caos non retti pi da alcuna potenza ordinatrice. Limmagine pi completa e al tempo stesso originale del dio stoico presentata poeticamente da Cleante:
L20-T5 Zeus

Glorioso tra gli immortali, dio dai molti nomi, sempre onnipotente, Zeus fondatore della natura, che con la legge governi il tutto, salve! E giusto che ti salutino tutti i mortali. Da te nascono e hanno in sorte limitazione del dio, soli tra tutto ci che vive e si muove sopra la terra. Perci ti celebrer e canter sempre il tuo potere. Tutto il cosmo che si volge attorno alla terra Ti obbedisce dove tu lo guidi, e volentieri ti sottomesso, tale lo strumento che tieni nelle tue mani invincibili, il fulmine a due punte, infuocato, immortale: sotto i suoi colpi si compiono tutte le opere della natura, e con esso dirigi la ragione comune che attraversa il tutto, mescolata alle grandi e alle piccole luci,

e per esso, nella tua grandezza, sei il re supremo in eterno. Nessuna azione si compie senza di te sulla terra, e neanche nella volta celeste o nel mare, tranne ci che compiono i malvagi nella loro follia. Ma tu sai anche normalizzare lanomalo, ordinare il disordine, ti gradito anche ci che sgradito. A tal punto hai armonizzato in uno il bene e il male, che di tutto si formata una sola ragione, immortale: la sfuggono tra i mortali quelli che sono malvagi; sciagurati, smaniano sempre per il possesso dei beni, non vedono e non ascoltano la legge universale del dio, mentre obbedendole avrebbero con la ragione una buona esistenza; senza ragione invece si precipitano chi in un male chi in un altro, () Zeus, dispensatore di tutti i doni, signore delle nere nubi e del nitido fulmine Proteggi gli uomini dalla loro penosa inesperienza. Disperdila dalla nostra anima, padre, concedi Il giudizio grazie al quali governi con giustizia tutte le cose, in modo che, onorati, ti rendiamo onore, celebrando sempre le tue opere cos come giusto che faccia un mortale:n mortali n dei hanno maggior compito che celebrare sempre la legge comune insieme con la giustizia. [Cleante Inno a Zeus] Il dio stoico, nella misura in cui si identifica con la natura intera, non potrebbe essere personale. Tuttavia tender ad assumere tratti spirituali e personali e la preghiera, esclusa dalla fede in un lgos impersonale, trover un proprio spazio. Cleante invoca Zeus, coagulando in lui tutti i caratteri del dio stoico e manifestando cos un acceso monoteismo: come gi Eschilo, Cleante chiama in causa la molteplicit dei nomi con cui Zeus chiamato, sottolineandone lequivalenza e lirrilevanza, dal momento che le caratteristiche che vengono attribuite alla divinit unica le conferiscono assoluta potenza: possibile convogliare in una sola tutte le numerose figure divine adorate dai Greci; Zeus lonnipotente fondatore della natura: la sua potenza vivificante anche allorigine dellesistenza delluomo che perci tenuto ad adorarlo; Zeus legge a cui tutto il cosmo obbedisce ordinatamente: il mondo ingabbiato in una rete necessaria ordinata da Zeus; in questa logica egli anche garante e dispensatore di giustizia; numerosi sono i riferimenti allequivalenza Zeus (dio)-ragione: Zeus dirige la ragione comune che attraversa il tutto, il mondo armonia tale che di tutto si formata una sola ragione; Zeus non solo governa il cosmo, ma lo guida in una direzione determinata, verso un fine prescritto e buono; gli uomini che seguono la legge-ragione di Zeus hanno unesistenza felice.

Appare chiaro, anche nella sottolineatura della natura delluomo a immagine e somiglianza della divinit, il legame diretto tra dio e la vita umana, sotto forma di doveri verso la divinit, ma, soprattutto, nellesistenza del saggio che si comporta rispettando la legge di Zeus, vivendo secondo la ragione che lo accomuna al dio e accettando il mondo cos com, sicuro che la provvidenza divina lo conduce al bene. In questo aspetto la connessione stoica tra

teologia e morale perviene ai medesimi esiti di quella epicurea, pur procedendo per una strada decisamente diversa. Lattributo del fulmine tratto dalliconografia tradizionale di Zeus, ma si innesta sul corpo della dottrina stoica presentandosi quale ideale raffigurazione della coincidenza della divinit con il fuoco o pnuma (soffio infuocato):
L20-T6 Dio e fuoco

Poich tutti gli elementi che costituiscono il mondo risultano sostenuti dal calore, anche il mondo nel suo insieme deve la sua conservazione attraverso un cos lungo lasso di tempo allo stesso identico elemento; e questa conclusione tanto pi valida in quanto si deve ammettere che codesto elemento, identificatesi con il calore e con il fuoco, permea lintera natura e assomma in s la forza procreatrice e la causa della generazione in virt della quale tutti gli uomini e quegli esseri le cui radici sono trattenute dalla terra sono soggetti alle leggi della nascita e della crescita. [Cicerone, De natura deorum,II,9,28] Il fuoco il principio trasformatore per eccellenza, che penetra ovunque in quanto calore: tutti gli elementi naturali che costituiscono il mondo implicano il calore; il fuoco-pnuma lespressione fisica del lgos ordinatore e in quanto tale vivifica e permea tutto: Crisippo identificava con Zeus padre le ragioni seminali, i semi generatori delluniverso laddove Era rappresentava la materia. Gli dei del mito realizzano plasticamente, opportunamente interpretati, lopera creatrice che la concettualit stoica attribuisce allazione congiunta dei due principi.

Apparentemente la concezione materialistico-panteistica degli stoici che identifica la divinit in un principio attivo che scorre in tutta la materia sembrerebbe escludere il politeismo. Si visto tuttavia (L20-T1) come la mitologia politeistica, allegoricamente interpretata come espressione poetica di una verit fisica, possa essere accolta dagli stoici. La posizione politeistica e quella monoteistica non sono mai intese dai Greci come antitetiche:
L20-T7 Il politeismo

Gli stoici affermano che vi sono alcuni demoni che hanno affetti e sentimenti comuni allumanit e vigilano sul corso delle umane vicende. Credono anche negli eroi che sono le anime superstiti degli uomini virtuosi. [Diogene Laerzio, Vitae philos., VII, 51=SVF II, 1102] Il pantheon stoico si arricchisce di figure intermedie: demoni e eroi, con tratti antropomorfici; altre testimonianze riconoscono dei molteplici identificati con gli astri, parti privilegiate del cosmo concepite come viventi e intelligenti; va notato che solo il Dio-lgos veramente eterno, gli altri hanno lunga vita, ma nascono e muoiono nel corso delle conflagrazioni cicliche in cui luniverso divorato dal fuoco per rinascere rinnovato.

Parte quinta: conclusioni

La forte impronta etica della filosofia ellenistica si traduce in una riflessione religiosa che cerca di delineare la ricaduta della credenza nel divino e delle manifestazioni di devozione sulla condizione di vita del singolo: scopo dichiarato di Epicuro nella trattazione della religione quella di liberare lumanit dalloppressione in cui lha costretta da sempre la superstizione e tale la giustificazione etica della ricerca scientifica delle cause dei fenomeni. Ci non esclude da parte del seguace dellepicureismo: la fede negli dei, motivata razionalmente, indubitabile alla luce della nozione del divino impressa in tutti gli uomini, della legge di compensazione e della necessit di enti supremi; la pratica di atti di devozione come attivit propria del saggio non tesa al fine utilitaristico di procurarsi la benevolenza divina, ma come atto dovuto a unentit pi alta delluomo.

Anche le caratteristiche della divinit epicurea che, accanto allimmortalit, sono soprattutto beatitudine e autosufficienza, possiedono una giustificazione etica: escludendo il coinvolgimento divino nelle vicende umane, allontanano i falsi timori ingenerati dalle narrazioni di giudizi dopo la morte, ma anche ogni ingenuo provvidenzialismo; la divinit il saggio pienamente realizzato.

Notevoli sono le differenze che separano la teologia epicurea dalla coeva formulazione stoica, anche se comune lintreccio di fisica, etica e gnoseologia nellimpostazione del discorso sul mito e sul divino. Nella nozione, centrale per lo stoicismo, di corpo, si intersecano inscindibilmente un elemento materiale passivo e uno divino-attivo che porta a considerare: il cosmo come coincidente con il divino che lo vivifica e che in virt questo assimilato al fuoco; conseguentemente, il dio come plasmatore delluniverso e regolatore del suo divenire.

Da questa situazione discendono: lequivalenza di dio con il lgos, la ragione, in quanto ordine razionale che muove luniverso; lingabbiamento del cosmo in una rete provvidenziale che esclude ogni forma di indeterminazione; la bont del fine cui questo ordine immutabile tende, dal momento che garantito dal dio.

Cos come nellepicureismo, dalla visione del cosmo che deriva dalla sua adesione alla filosofia il saggio ricava serenit quale effetto della scoperta di un ordine divino che regola il tutto e che non pu che essere buono. Luomo, inoltre, possiede una caratteristica partecipazione al lgos che lo avvicina alla divinit: si tratta chiaramente di un dio che tutto pervade, scevro di ogni aspetto personale e antropomorfico;

la teologia stoica non esclude tuttavia forme di politeismo, bench il dio-lgos mantenga sempre una priorit assoluta. Laccettazione della tradizione si manifesta nellinterpretazione allegorica cui lo stoicismo sottopone il mito per riformularne i contenuti in modo che siano accettabili razionalmente e compatibili con la fisica stoica; in linea con il fatalismo cosmico, ricevono approvazione le pratiche divinatorie.

Ricerche

Gli scritti di Epicuro sono raccolti in Epicuro, Opere, a cura di G. Arrighetti, Einaudi, Torino, 1973, accompagnati da unagile e utile introduzione del curatore. I frammenti degli stoici sono raccolti in Stoici antichi, a cura di M. Isnardi Parente, UTET, Torino, 1989. Per una presentazione esauriente e accessibile delle filosofie ellenistiche, e in particolare di stoicismo e epicureismo, si veda A.A. Long, La filosofia ellenistica, Il Mulino, Bologna, 1985. Altrettanto apprezzabili sono D.Pesce, Introduzione a Epicuro, Laterza, Roma- Bari, 1997 e M. Isnardi-Parente, Introduzione allo stoicismo ellenistico, Laterza, Roma-Bari, 1993. Interamente dedicato al problema della religiosit epicurea e della sua contrapposizione alla superstizione il testo di A.J. Festugire, Epicuro e i suoi dei, Coliseum, Milano, 1987. Su Lucrezio e gli aspetti religiosi della sua poesia si veda lantologia del De rerum natura, Vita e morte nelluniverso, a cura di A. Barigazzi, Paravia, Torino, 1974 [introduzione generale e introduzione ai passi riportati del I libro del poema lucreziano]. Approfondita, anche se pi complessa la raccolta di F. Giancotti, Religio, natura, voluptas. Studi su Lucrezio, Patron, Bologna, 1989. Sulla problematica religiosa nello stoicismo, una fonte chiara sicuramente M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia, Firenze, 1978: Parte Prima [La fondazione della filosofia del lgos. Le personalit e la dottrina],capitolo La fisica: il lgos come creatore del mondo.

Parte sesta: Razionalit e misticismo [lezioni 21- 23]


Lezione n. 21: nuovi aspetti della concezione del divino nella filosofia post-ellenistica

Anche dopo la conquista romana dellOriente le scuole filosofiche consolidatesi durante let ellenistica (Accademica, Peripatetica, Epicurea, Stoica) conservano e estendono la propria influenza; a riscuotere il maggiore interesse presso i Romani della fine della Repubblica sono principalmente Stoicismo e Epicureismo. Con linizio dellet imperiale si assiste invece a una considerevole ripresa delle correnti pitagorico-platoniche; dalla seconda met del I sec. a.C., il platonismo inizia una lenta e inarrestabile avanzata destinata a culminare nella sintesi neoplatonica del III sec. d.C. La fisionomia che il rinnovato interesse per il platonismo assume dal I sec. d.C. stata denominata con il termine di medioplatonismo. Per individuarne alcuni caratteri utile affidarsi alla testimonianza di un fondamentale interprete e divulgatore di questa corrente filosofica, Plutarco di Cheronea. riportato di seguito un passo del trattato Sulla E di Delfi: interrogandosi sul significato della E del tempio di Delfi, Plutarco la interpreta come segno per Ei che significa Tu sei: oltre a suggerire alluomo il famoso conosci te stesso, il dio lo accoglie indicandogli anche la risposta pi opportuna con cui rivolgerglisi: Tu sei, ovvero Tu sei lessere. Questa interpretazione interessante soprattutto per il percorso speculativo che a essa conduce, e che vale la pena di seguire nei diversi passaggi:
L21- T1 Riscoperta della trascendenza

Si tratta, per contro, di un modo, anzi del modo pi compiuto, in s e per s, di rivolgersi al dio e di salutarlo: pronunziare questa sillaba significa gi installarsi nella intelligenza dellessere divino. Mi spiego: il dio, quasi per accogliere ciascuno di noi nellatto di accostarci a questo luogo, ci rivolge quel suo ammonimento Conosci te stesso , che vale indubbiamente ben pi del consueto Salve . E noi, in ricambio, confessiamo al dio: Tu sei Ei , e cos pronunziamo lappellativo preciso, veridico, e che solo si addice a lui solo. In verit, a noi uomini non compete, rigorosamente parlando, lessere. Tutta mortale, invero, la natura, posta in mezzo com, tra il nascere e il morire; ella offre solo un fantasma e unapparenza, fievole e languida, di s. Per quanto tu fissi la mente a volerla cogliere, gli come se stringessi con la mano dellacqua. Pi la costringi e tenti di raccoglierla insieme, e pi le stesse dita, che la serrano tuttintorno, la fan scorrere e perdere. Parimente, la ragione insegua pure, a sua posta, la piena chiarezza di ogni cosa soggetta alle varie influenze e al cambiamento: essa resta delusa, sia volgendosi al suo nascere, sia al suo perire poich non riuscir mai a cogliere nulla di stabile, nulla che esista realmente. Certo, non dato immergersi due volte nello stesso fiume , al dire di Eraclito, n quindi dato toccare, due volte, nella stessa situazione, una sostanza mortale. Al contrario, pronti e rapidi mutamenti la disperdono e di nuovo la radunano o, meglio, non di nuovo e non pi tardi , ma a un tempo ella si costituisce e vien meno, entra ed esce . Ond che tale sostanza mortale non porta a termine verso la via dellesistenza tutto quanto in essa entra nel divenire, per il semplice fatto che proprio questo divenire non conosce tregua o riposo, mai. Cos, dal germe, essa, in una trasformazione incessante, produce lembrione e poi il poppante e poi il bimbo, in seguito, ladolescente, il giovane, e poi luomo, lanziano, il vecchio, distruggendo via via i precedenti stadi dello sviluppo e le varie et, per far posto a quelle che sopraggiungono. Eppure noi oh, che cosa ridevole! non temiamo che una sola morte, mentre, in realt, abbiamo subito e subiremo infinite morti! Perch, non solamente la morte del fuoco - al dire di Eraclito nascita per laria, la morte

dellaria nascita per lacqua , ma la cosa ben pi chiara nel caso nostro: luomo maturo muore, quando nasce il vecchio; e il giovane mor per dar luogo alluomo maturo; e cos il fanciullo per il giovane; e il poppante per il fanciullo. Luomo di ieri morto per luomo di oggi; e luomo di oggi muore per luomo di domani. Nessuno persevera, nessuno uno; ma noi diveniamo una moltitudine: intorno a non so quale fantasma, intorno a un sustrato comune di argilla la materia circola e sguscia via. Del resto, come mai, supponendo di perseverare in una identit, noi ci rallegriamo ora di cose diverse da quelle che ci rallegravano prima? Come mai oggetti contrari suscitano ora amore, ora odio, ora ammirazione, ora biasimo? Perch usiamo parole sempre diverse e siamo soggetti a diverso sentire? Perch non sono mai uguali in noi n laspetto, n la figura, n il pensiero? Senza cambiamento, certo, non si spiegano questi stati ognora diversi; e chi cambia, quindi non pi lo stesso. Ma se uno non lo stesso non semplicemente, ma diviene sempre nuovo e diverso dal diverso di prima, proprio nel fatto che cambia. Sbagliano i nostri sensi, per ignoranza dellessere reale, a dar essere a ci che appare soltanto. Ma allora che lessere reale? Leterno. Ci che non nasce. Ci che non muore. Ci in cui neppure un attimo di tempo pu introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo con la materia in movimento; qualcosa che scorre perpetuamente e irresistibilmente, come un vaso di nascita e di morte: ecco il tempo! Persino le parole consuete, il poi , il prima , il sar , l accadde sono la spontanea confessione del suo non-essere. Infatti, ingenuo e assurdo dire di qualcosa che non entrato ancora nellessere, o di qualcosa che ha gi cessato di essere. Le nostre espressioni consuete, su cui fondiamo per lo pi la nostra nozione di tempo, cio esiste , presente adesso , ci sfumano tutte, allorch il ragionamento le investe sempre pi da presso. Il presente, infatti, distanziato com necessariamente dal futuro e dal passato, si dilegua come un lampo a coloro che vogliono coglierne il guizzo. Ma, se la natura misurata si trova nella stessa relazione col tempo che la misura, nulla v in essa che sia stabile, nulla che sia esistente; ch, anzi, tutto soggetto alla vicenda della nascita e della morte, sul comune ritmo del tempo. Ond che dire, dellEssere vero, Esso fu Esso sar quasi un sacrilegio. Tali determinazioni, invero, sono flessioni e alterazioni di ci che non nacque per durare nellessere. Ma il dio (occorre dirlo?) ; , dico, non gi secondo il ritmo del tempo, ma delleterno, ch senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette n prima n dopo, n futuro n passato, n et di vecchiezza o di giovinezza. No, Egli uno e nellunit del presente riempie il sempre : ci che in questo senso esiste realmente, quello unicamente: non avvenne, non sar, non cominci, non finir. [Plutarco, Sulla E di Delfi, 392 a-393b. Traduzione V. Cilento] Dal testo emerge chiaramente una nuova concezione del divino, decisamente in contrasto con quelle caratteristiche dellet ellenistica e in particolare con quelle stoiche, che godevano della maggiore popolarit. Plutarco vi perviene attraverso alcuni chiari passaggi, che marcano progressivamente lo stacco: al centro del discorso torna, con eco platonica e prima ancora parmenidea, lessere e si affaccia il problema: a chi compete lessere ? si evidenzia, sulla scorta delle stesse matrici di riferimento, la opposizione tra essere e apparenza; lapparenza immediatamente connotata attraverso il suo tratto distintivo, il divenire opposto alla permanenza, evocato nella sua ricaduta in ambito gnoseologico (lincapacit della ragione di far presa su una materia sempre sfuggente, come suggerisce limmagine della mano che cerca invano di afferrare lacqua) prima ancora che nel suo statuto

ontologico improntato allinstabilit e alla carenza (sottolineati con il riferimento al detto eracliteo e al non portare a termine verso la via dellesistenza ci che in essa introdotto); in conformit con una visione del divenire che lo interpreta come sospensione tra nascita e morte (il riferimento primario fin dalle prime battute luomo, al quale negata lattribuzione dellessere; la natura stessa detta mortale) le sue manifestazioni pi significative sono colte nellambito dellesperienza umana (non solamente la morte del fuoco - al dire di Eraclito nascita per laria, la morte dellaria nascita per lacqua, ma la cosa ben pi chiara nel caso nostro): luomo vive in una trasformazione incessante che gli fa attraversare et successive, morendo di volta in volta alle precedenti; una osservazione analoga, anche se meno usuale (luomo di ieri morto per luomo di oggi; e luomo di oggi muore per luomo di domani) accelera il processo e rende ampiamente condivisibile la sua lettura filosofica: nessuno persevera, nessuno uno; noi diveniamo una moltitudine; tipica dellesperienza umana anche lincostanza dei giudizi, legata allinstabilit delle designazioni linguistiche o al diverso sentire (oggetti analoghi suscitano reazioni opposte e oggetti opposti analoghe reazioni); lincoerenza non investe luomo solo per quanto riguarda laspetto o la figura, allargandosi invece anche allambito del pensiero: se ne conclude che nessuno semplicemente, ma diviene sempre nuovo e diverso; luomo non pu, per via del suo plurimo coinvolgimento nelle vicende del divenire, attribuirsi lessere; si ripropone quindi linterrogativo di partenza: allora che lessere reale?; riproponendo la tecnica della descrizione ontologica di Parmenide, Plutarco lo caratterizza innanzitutto negativamente, dichiarandolo estraneo allavvicendamento temporale e innanzitutto proprio al nascere e al morire; lessere reale ha i caratteri che sono stati negati alla natura mortale: se questa si caratterizzava come disgregata nella molteplicit fino a polverizzarsi ( il caso dell accelerazione del processo di nascita e morte) e qualitativamente improntata alla pi imprevedibile eterogeneit, il vero essere uno e semplice ( situato nellunit del presente e riempie leternit senza conoscere vicenda alcuna); la dicotomia essere/apparenza, permanenza/mutamento si esprime dunque, nel momento in cui non si tratti semplicemente di qualificare lessere, ma di attribuirlo a dei referenti specifici, nella coppia divino/mortali.

Lo spazio dedicato da Plutarco alla caratterizzazione del divino come vero essere e il fatto stesso che si avverta la necessit di riguadagnare dimostrativamente questo punto sono gi indice di un contesto storico-culturale decisamente mutato rispetto allet ellenistica: riemerge, e con un ruolo prioritario, la componente propriamente metafisico-teologica della filosofia. Il medioplatonismo, pur nella diversit delle personalit che lo animano, presenta questo tratto inconfondibile, che svolge nella direzione di un recupero della dimensione del soprasensibile e dellimmateriale, ossia dei traguardi fondamentali della seconda navigazione platonica. Al panteismo stoico, implicante il coinvolgimento del divino nelle vicende del divenire cosmico, Plutarco oppone una drastica affermazione di trascendenza del divino, la cui denominazione come essere in senso forte (vicina allEgo sum qui sum biblico, oltre che a Platone e Parmenide) marca con forza lalterit rispetto alluomo e allintera natura, tutta mortale.

Per comprendere a fondo il pensiero filosofico e religioso di Plutarco occorre anche tenere conto del contesto culturale e religioso nel quale matura e con il quale deve necessariamente confrontarsi: Plutarco non specifica come siano conciliabili lidea del divino filosoficamente acquisita e il politeismo della religione popolare greca; la accetta comunque come patrimonio sacro tramandato da una trazione antichissima; anche rispetto alle divinit straniere segue lindirizzo comune greco, improntato al sincretismo; quando si imbatte in tradizioni mitiche che attribuiscono agli dei comportamenti amorali o le ignora o le reinterpreta servendosi dellallegoria; crede nellimmortalit dellanima individuale, sulla scia di Platone, ma anche in quanto iniziato ai misteri di Dioniso; ha fede nella mantica, nelle sue forme pi svariate; dedica parecchi scritti alla difesa e allinterpretazione di questa arte e riveste personalmente un ruolo di primo piano in questo ambito ( per almeno un ventennio sacerdote delfico).

Alla storia della religione e della problematica teologica in generale Plutarco dedica alcuni testi particolarmente interessanti nellambito dellantropologia culturale; vi sono contenute numerose informazioni a proposito di oracoli e riti misterici: in generale questi scritti esprimono la complessa spiritualit del tardo paganesimo e il suo intreccio con lindagine filosofica medioplatonica e il suo rinnovato impegno in campo metafisico-teologico. Latteggiamento di Plutarco dimostra come il medioplatonismo si configuri certamente come ripensamento della metafisica (e della cosmologia) platonica, ma alla luce anche degli apporti del misticismo orientale (nel caso di Plutarco in particolare della sapienza e della religione egiziane) e delle dottrine demonologiche. proprio il forte accento posto sulla trascendenza del divino a giustificare lampio ricorso del medioplatonismo ai demoni (esseri a met fra divini e umani), per garantire linterazione fra l essere vero e il mondo mortale degli uomini e della natura. La demonologia dunque non risponde soltanto a unesigenza religiosa; anche in ambito metafisico e ontologico si afferma la necessit di concepire il soprasensibile e il divino in modo gerarchico: sul piano propriamente mistico-religioso si prospetta una gerarchia che distingue un dio supremo, alcune divinit secondarie a esso subordinate (alcune incorporee, altre, come gli astri, visibili) e infine i demoni; anche nellambito dei demoni si possono operare delle differenziazioni, per esempio fra quelli che non hanno mai avuto commercio con i corpi e quelli che sono invece anime liberate dal ciclo delle reincarnazioni, o fra quelli in cui maggiormente presente lelemento misto (che fa s che i demoni siano soggetti al divenire e anche alla morte) e quelli in cui questo meno presente (non esclusa per i demoni la possibilit di diventare dei secondari); contemporaneamente, il pensiero filosofico-teologico si indirizza anche autonomamente nella direzione di una concezione del soprasensibile come strutturato secondo successive ipostasi: anzi, numerose sono le testimonianze medioplatoniche che anticipano, pi o meno direttamente, la scansione delle ipostasi proposta da Plotino (Uno, Nos -Intellettoe Anima); nel caso specifico di Plutarco basta porre accanto allanima e allintelletto (che il filosofo di Cheronea si preoccupa di distinguere accuratamente, per rompere definitivamente con limmanentismo stoico)il dio supremo, che anche lessere e luno supremo (cfr. T1).

Lezione n. 22: Estasi e teurgia

Con la designazione di Corpus Hermeticum si indica un gruppo di scritti in gran parte risalenti ai primi secoli dellera cristiana e attribuiti a Ermete Trismegisto (figura di divinit risultante dallassimilazione del greco Hermes allegizio Thoth, caratterizzata con lattributo di tre volte grande per sottolinearne il ruolo di mistico rivelatore e interprete di misteri). certamente difficile rintracciare i riferimenti comuni dei diciassette trattati del Corpus, il pi celebre dei quali senzaltro il primo, intitolato Poimndres. Le dottrine fondamentali rivelano una significativa compresenza di elementi orfico-pitagorici, platonici e mistico-orientali; teologia, cosmologia e antropologia sono funzionali alla centralit dellescatologia: liniziazione e la liberazione dal corpo conducono al ricongiungimento con la divinit. Il carattere eminentemente soteriologico dellermetismo determina lurgenza di una precisa definizione dei termini del rapporto uomo-divinit e della loro comunicazione. Ecco come si configurano in un testo emblematico:
L22- T1 La visione del bene

Per la visione del bene non avviene come per il raggio del sole che, essendo fiammeggiante, abbaglia gli occhi e li fa chiudere; al contrario tale vista tanto pi illumina, quanto pi pu accoglierla chi capace di ricevere lemanazione della luce intelligibile. Essa pi acuta del raggio solare nel penetrare in noi, ma non danneggia ed totalmente piena di immortalit. Coloro che possono attingere un po di pi a questa visione quando sono caduti nel sonno e sono distaccati dal loro corpo, giungono fino alla visione pi bella di tutte []. Quando tu non potrai pi dire nulla di lui; solo allora lo vedrai; poich la conoscenza di Dio divino silenzio e cessazione di tutte le nostre sensazioni. Infatti chi ha compreso Dio, non pu apprendere nientaltro, chi lo ha contemplato, non pu contemplare altro, n pu udire parlare di altro, e non pu neppure muovere il proprio corpo, poich privato di ogni sensazione, di ogni movimento del corpo, rimane immobile. Questa bellezza divina, dopo aver illuminato con la sua luce tutto lintelletto, illumina anche tutta lanima e, traendola fuori del corpo verso di s, muta luomo in essenza. infatti impossibile [] che lanima che ha contemplato la bellezza del bene sia innalzata fino a Dio mentre si trova nel corpo. [Corpus Hermeticum, X, 4-6] Nel testo: si riscontra una forte sottolineatura della trascendenza divina e del conseguente dualismo Dio-mondo, in continuit con le acquisizioni del medioplatonismo e anzi nella direzione di una loro accentuazione; sul piano antropologico, il dualismo si traduce nellopposizione anima/corpo, presentata secondo i canoni classici di matrice orfico-pitagorica prima ancora che platonica ( il caso dellinteresse per lincremento delle capacit cognitive nelle situazioni in cui lanima maggiormente sciolta dai legami con il corpo: Coloro che possono attingere un po di pi a questa visione quando sono caduti nel sonno e sono distaccati dal loro corpo, giungono fino alla visione pi bella di tutte); sempre per quanto riguarda lantropologia, possibile rintracciare almeno un chiaro indizio della distinzione anima/intelletto, tipica dellopposizione medioplatonica allimmanentismo: la bellezza divina investe in primo luogo lintelletto, poi estende la sua azione sullanima, che libera dai vincoli corporei;

il principio divino descritto tramite caratterizzazioni in positivo, ma anche guadagnato negativamente (privandolo cio dei tratti tipici della realt contingente e sottolineandone cos la alterit rispetto a essa) o attraverso il ricorso a immagini, principalmente legate al campo semantico della luce, particolarmente adatta a significare il processo di diffusione per emanazione; il tentativo di avvicinamento al divino condotto per queste vie non intende comunque scalfire la fondamentale ineffabilit del divino, inesprimibile nella sua inarrivabile trascendenza: in ultima analisi la conoscenza di Dio divino silenzio; lincolmabile distanza fra finito e assoluto pu essere superata soltanto dallunione mistica, che si realizza nella singolare forma di una esperienza estatica che investe innanzitutto lintelletto, per poi attirare a s lanima, sciogliendola dal corpo, e mutare luomo in essenza.

La soteriologia ermetica configura il processo di approssimazione al divino come liberazione e distacco dalla corporeit; in continuit con la linea orfico-pitagorica e con laccentuazione medioplatonica del ruolo dellintelletto, il cammino di purificazione si caratterizza innanzitutto come cammino di conoscenza e primariamente di conoscenza di s; attraverso questa che luomo si dirige verso Dio, come spiega il testo seguente:
L22- T2 Il divino nelluomo

-Ma perch colui che ha conosciuto se stesso si dirige verso Dio, secondo il discorso di Dio? -Perch [] di luce e di vita costituito il padre di tutti gli esseri, dal quale nacque luomo. -[] Luce e vita, questo il Dio e padre, dal quale fu generato luomo. Se dunque tu riconosci lui nella sua vera natura, cio costituito di luce e di vita, e comprendi che tu derivi da tali elementi, tu ritornerai alla vita. [Corpus Hermeticum, I, 21] Riconoscersi luce e vita significa dunque riconoscersi parte della divinit, trovare il divino che nelluomo per seguirne le tracce, fino al ricongiungimento estatico con la sua origine. Il ruolo giocato dallintelletto in questo contesto certamente decisivo: lintelletto il mezzo fondamentale per intraprendere litinerario di purificazione, dal momento che questo prende le mosse da un atto conoscitivo con il quale luomo investe se stesso; mentre guida luomo alla scoperta dei suoi caratteri inconfondibili, lintelletto si ritrova annoverato fra questi: oltre che laffermazione della comunanza dio-uomo nellessere entrambi costituiti di luce e vita, nel Corpus Hermeticum si trova laffermazione per cui dove c anima, vi anche intelletto, come dove c vita, c anche anima; chiaro quindi che il riferimento alla vita implica quello allintelletto, come del resto conferma limmagine della luce, tipicamente deputata a rappresentare la luce intelligibile; aggancio fondamentale dellessere umano con la trascendenza, lintelletto non pu che essere il protagonista dellunione estatica (cfr. T1).

La dottrina ermetica dellintelletto in realt molto complessa e di difficile interpretazione: spesso ad esempio considerato uno strumento in possesso soltanto di coloro che onorano il dio; probabilmente con ci si vuole alludere al fatto che lintelletto, pur essendo potenzialmente a disposizione di tutti gli uomini, coltivato soltanto da pochi e alla

convinzione per cui sul perfezionamento delle capacit di penetrazione conoscitiva incide positivamente o negativamente anche una migliore o peggiore condotta morale. A conferma della posizione di primo piano occupata dalla figura dellintelletto anche in forme di avvicinamento al divino in cui forte, oltre allelemento propriamente speculativo, la tensione mistico-religiosa, opportuno prendere in considerazione una fonte che presenta molte analogie con il Corpus Hermeticum, quella rappresentata dagli Oracoli caldaici. Il titolo fa riferimento allantica sapienza mesopotamica (come lermetismo si collegava a quella egizia) e introduce unopera scritta in esametri e pervenuta attraverso numerosi frammenti conservati nelle opere dei tardi neoplatonici; vi si riscontra lintento di comunicare un messaggio rivelato, in cui si intrecciano filosofemi di marca medioplatonica o neopitagorica e narrazioni mitologiche o addirittura fantastiche. Anche in questo contesto non manca il riferimento al dio supremo come Intelligibile e allintelletto come mezzo di elevazione alla sua trascendenza:
L22- T3 Il ruolo dellintelletto

Esiste un certo Intelligibile che devi concepire col fiore dellintelletto; poich se dirigi verso di lui il tuo intelletto e cerchi di concepirlo come se concepissi un oggetto determinato, tu non lo concepirai; poich egli la forza di una spada luminosa che brilla di tagli intellettivi. Non bisogna dunque concepire questo Intelligibile con veemenza, ma grazie alla fiamma sottile di un sottile intelletto, che misura ogni cosa eccetto questo Intelligibile; e non bisogna concepirlo con intensit, ma, portandovi il puro sguardo della tua anima distolta <dal sensibile>, tendere verso lIntelligibile un intelletto vuoto <di pensiero>, per imparare a conoscere lIntelligibile, dal momento che sussiste fuori <delle apprensioni> dellintelletto <umano>. [des Places, Oracles Chaldaques, fr.1, p.66] Secondo gli Oracoli: non possibile raggiungere il divino con i metodi consueti della filosofia, miranti ad accertarne la natura (se dirigi verso di lui il tuo intelletto e cerchi di concepirlo come se concepissi un oggetto determinato, tu non lo concepirai ); confrontandosi con un oggetto del tutto eminente, lintelletto deve riconoscere che misura ogni cosa eccetto questo Intelligibile, il quale sussiste fuori <delle apprensioni> dellintelletto <umano>; dunque per imparare a conoscere lIntelligibile occorre tendere verso di esso un intelletto vuoto e distolto da ogni contenuto sensibile.

Quello che designato come fiore dellintelletto dunque una facolt che dellintelletto comunemente e filosoficamente considerato esclude tanto la metodologia quanto i contenuti, configurandosi piuttosto come qualit soprarazionale di unione mistica, in cui la mente umana, sciolta dal corpo, si svuota ulteriormente dei suoi contenuti razionali, in un fare il vuoto che funzionale al riempimento da parte del divino e allassimilazione a esso. Linsufficienza del veicolo puramente razionale ulteriormente rimarcata, nel caso della sapienza caldaica, dalla chiara sottolineatura che neppure il fiore dellintelletto, ossia lintelletto svuotato e aperto allilluminazione divina, un mezzo sufficiente per il conseguimento dellunione con il divino: indispensabile lapporto della ritualit e della teurgia, ossia di quella particolare arte magica che mira a evocare gli dei e ad agire su di essi, assicurando una mediazione fra il dio supremo e luomo e cos rispondendo insieme allurgenza dellansia di salvezza e alla necessit di tenere ferma linadeguabile trascendenza della divinit.

Sottolineare limportanza della componente magico-rituale nella sapienza caldaica e, pi in generale, nelle forme di concezione del divino caratteristiche del tardo paganesimo fondamentale per comprendere le diverse tendenze e scuole che si sviluppano nellambito del neoplatonismo, e che si differenziano soprattutto in relazione al maggiore o minore peso attribuito alla speculazione razionale e alla pratica teurgica nel processo di avvicinamento e assimilazione con il vero essere del dio supremo.

Lezione n. 23: La sintesi di Plotino

La sintesi filosofica di Plotino, che stata definita il pi astratto sistema speculativo concepito dal pensiero occidentale pone al centro della riflessione il problema dellessere e muove da un rigoroso monismo, che richiama quello parmenideo: tutto riconducibile allUno, che trascende essere e pensiero e si identifica con la divinit. La ricerca ontologico-metafisica di Plotino si pone sulla linea della speculazione classica platonica e aristotelica; possibile rintracciare anche interessanti contributi attinti dalla tradizione arcaica (Parmenide, Eraclito, religione tradizionale olimpica e ellenistica), mentre decisa lopposizione nei confronti delle correnti irrazionalistiche di provenienza orientale. Ciononostante, la stessa speculazione plotiniana risente del confronto con queste matrici culturali mistico-orientaleggianti: sia pure con le dovute riserve, anche nel discorso di Plotino si pu identificare una componente non trascurabile di misticismo; la battaglia condotta contro le correnti gnostiche e la loro tendenza a moltiplicare gli intermediari fra luomo e il divino non esclude che lo stesso neoplatonismo assuma per certi aspetti i caratteri di una forma di gnosi salvifica; il lessico profetico e oracolare influisce sul carattere del linguaggio plotiniano, spesso immaginifico, analogico, altamente simbolico, la cui arditezza supera di gran lunga la poesia filosofica di Platone e il suo impiego del mthos in campo speculativo.

Anche prendendo in considerazione i punti-cardine della dottrina neoplatonica nella versione proposta dal suo principale interprete, si rintracciano con facilit temi sviluppati, oltre che nellambito propriamente speculativo dal medioplatonismo, anche nel quadro di forme di sapienza mistico-religiosa quali quelle attestate dal Corpus Hermeticum e dagli Oracoli Caldaici. Secondo Plotino: c un netto dualismo fra mondo sensibile e mondo intelligibile, del quale si sottolinea la trascendenza; il mondo soprasensibile strutturato gerarchicamente, secondo tre ipostasi: Uno, Nos e Anima; dalla prima ipostasi deriva la seconda e dalla seconda la terza, senza che il grado superiore, fluendo fuori di s, si disperda e subisca una diminuzione, un impoverimento: lemanazione si precisa, proprio per questa caratteristica, come processione; il mondo sensibile e la materia che lo costituisce derivano dalla processione della sostanza intelligibile: il sensibile nel soprasensibile, il corpo nellanima, la materia nello spirito, fino ai limiti dellacosmismo (cio della evanescenza del mondo naturale); dal momento che tutto deriva dallUno, possibile che ritornare in esso: litinerario di unificazione con il divino richiede innanzitutto di abbandonare le suggestioni del mondo sensibile per rientrare in s e identificarsi con lanima, quindi di riconoscere la derivazione dellanima dallo Spirito e dello Spirito dallUno, fino allunione estatica con esso.

Pressoch tutti questi punti essenziali, fatta eccezione per la specifica dottrina della processione delle ipostasi, trovano anticipazioni significative o addirittura puntuali nella tradizione filosofica ma anche sapienziale e mistica dellet tardo antica. I riferimenti-chiave per Plotino sono dunque certamente quelli della filosofia classica, nel cui solco intende inserirsi, e della filosofia ellenistica, intesa come referente prevalentemente,

seppure non esclusivamente, polemico, ma anche quelli del contesto culturale e religioso contemporaneo. Un esempio significativo di questa duplice presenza si riscontra prendendo in considerazione i passi plotiniani riguardanti il cammino dellanima che si indirizza verso lUno, il divino.
L23- T1 La vera purificazione

Che vale allora la pretesa di rendere impassibile lanima per virt di filosofia, quandella sia radicalmente immune da ogni affezione? Ecco: poich quella specie di parvenza, penetrando in essa e precisamente nella sua parte affettiva provoca laffezione conseguente, vale a dire, lirrequietezza; poich, inoltre, sunisce alla irrequietezza limmagine del male atteso, cos una siffatta parvenza assunse il nome di passione e sorse allora lesigenza filosofica di eliminarla del tutto e di non lasciarla allignare. Fin tanto che questa ci sia si pensa lanima non sarebbe perfettamente sana; ma, dopo la sua scomparsa, lanima si comporterebbe impassibilmente, giacch la causa stessa della passione, vale a dire quella parvenza che lassedia, si ormai belle dileguata: gli come se uno, per estirpare i fantasmi dei sogni, costringesse a vegliare lanima allora che volga verso il suo fantasticare; oppure come se uno ritenga che le immagini sorgenti, per cos dire, dal di fuori, abbian causato le passioni e le consideri stati passivi dellanima. Che senso ha intanto la purificazione dellanima la quale non stata giammai contaminata; che senso ha lespressione distaccarla dal corpo? Ecco, purificazione si lasciarla sola, senza che abbia contatti con cose estranee, senza che miri fuori di s, senza che mutui opinioni altrui quale che sia il modo delle opinioni -; purificazione importa sia il non vedere le immagini delle passioni, come s detto, sia il non ricavare passioni da quella fonte. Ma lanima volta sullaltra via in alto dalla bassura non forse purificazione e, aggiungi pure, separazione almeno per quellanima che non sta pi nel corpo come se gli appartenga e non somiglia ella forse a luce che non nel fango? [Plotino, Enneadi, III, 6, 5. Traduzione di V.Cilento] Il testo consente di inquadrare la posizione di Plotino circa la purificazione dellanima rispetto alle precedenti trattazioni dellargomento; lambito cui attingere per il confronto , dichiaratamente, quello delle trattazioni filosofiche: linsistenza sulla tematica e sulla terminologia della impassibilit richiama lideale stoico dellapatia; il tema della purificazione dellanima attraverso il distacco dal corpo e del raccogliersi dellanima in se stessa sono trattati con accenti che esplicitamente richiamano il modello platonico, in particolare il Fedone, il Teeteto, l Alcibiade I.

Plotino riconosce come questi precedenti storici vadano nella medesima direzione della sua concezione del cammino di ritorno dellanima allUno e ne valuta il contributo: lo stoicismo certamente apprezzato in quanto propone un itinerario catartico, ma risente del difetto caratteristico delle filosofie ellenistiche, consistente nellaffermazione del primato della prassi; il neoplatonismo plotiniano viceversa sottolinea la evanescenza della prassi rispetto alla teoria, della quale rappresenta una estenuazione, dotata di un grado inferiore di realt; risentendo dellinfluenza di Platone e soprattutto di Aristotele, con le sue decise affermazioni sul primato della vita teoretica, Plotino oppone allazione, sempre

condizionata da un oggetto esterno di riferimento, lintelligenza con la sua autosufficienza e il suo stare in s (nel testo in esame significativo lo stacco qualitativo fra lestenuante, per quanto fondamentale, esercizio della veglia finalizzato a estirpare i fantasmi dei sogni e il volgersi sullaltra via in alto -); Complesso anche il rapporto con Platone: il Fedone platonico direttamente richiamato dalla descrizione della purificazione dellanima come lasciarla sola, senza che abbia contatti con cose estranee, senza che miri fuori di s ; alla base di questo itinerario catartico c la tesi dellAlcibiade I dellidentificazione delluomo con la sua anima, unanima che si serve di un corpo: anche per Plotino il vero uomo lanima, che si estende e si prolunga nella corporeit come nella sua immagine; la purificazione non pu avere come obiettivo che la separazione, ovvero la condizione di quellanima che non sta pi nel corpo come se gli appartenga: il richiamo in questo caso al Teeteto e alla descrizione della fuga dal male come fuga dal mondo della corporeit; per Plotino lanima deve rendere evidente la sua alterit rispetto al mondo sensibile e stabilire il suo primato: la coppia metaforica luce/fango esprime in maniera emblematica la superiorit assoluta della componente spirituale, proposta anche descrivendo la funzione strumentale del corpo rispetto allanima: il saggio si serve del suo corpo come di uno strumento, ma pu smettere di servirsi del proprio corpo come interromperebbe il suono della lira, per passare al canto senza accompagnamento; anche rispetto al modello platonico per possibile riscontrare, se non modifiche sostanziali, almeno sottolineature diverse: non trascurabile il fatto che in Plotino non si colga il duplice movimento ascendentediscendente tipico della dialettica platonica: mentre Platone evidenzia limportanza, dopo lelevazione al primo principio anipotetico, di ritornare sui propri passi , illuminando lo stesso cammino di una nuova luce, Plotino insiste su una ascesa irreversibile il cui culmine coincide con la perfetta assimilazione allUno e lestraneit rispetto a tutto il resto; in generale, in Plotino pi marcata la spinta trascendentistica, la cui intensit si spiega solo tenendo conto del contesto storico-culturale tardo antico e della inquietudine religiosa che lo percorre.

Fuggiamocene nella nostra patria E.R. Dodds, indagando luniverso spirituale della tarda antichit (Pagani e cristiani in unepoca di angoscia, La Nuova Italia, 1970), pone laccento sullansia soteriologia che lo percorre: il mondo del terzo secolo impoverito sul piano intellettuale, insicuro su quello materiale, carico di paura e di odio; si affaccia dunque prepotentemente il bisogno di una via di fuga, che pu essere icasticamente sintetizzato con le parole pronunciate da Agamennone, nellIliade omerica: Fuggiamocene nella nostra patria (Iliade 140). Si tratta in effetti di una frase ripresa, con un nuovo significato, da Plotino (ma la ripresa dello stesso passo dellIliade si trova anche in Gregorio di Nissa e nel De Civitate Dei di Agostino): per quanto la citazione sia dallIliade, Plotino prosegue facendo riferimento allOdissea e in particolare alla fuga di Odisseo da Circe e da Calipso come allontanamento che permette di sfuggire alle lusinghe della bellezza sensuale. Il ritorno in patria dunque il ritorno dellanima in se stessa, la sua emancipazione dal mondo della corporeit e dellesteriorit. Il delirante spettacolo delle vicende storiche non dunque la vera realt: il luogo dellazione, ma lazione non che lombra della contemplazione; il senso di disorientamento pu essere

vinto trasformando la continua peregrinazione fra le vicende del mondo rispetto alle quali lanima straniera in un viaggio di ritorno verso la patria interiore. Il testo che segue descrive pi dettagliatamente in che cosa consista per lanima volgersi sullaltra via in alto -:
L23- T2 Immergersi nella contemplazione

Ma se, per il fatto che Egli non niente di tutto questo, tu cadi nellindeterminatezza con il tuo pensiero, fissati tuttavia l e da quella prospettiva comincia a contemplare. Contempla, per, senza scagliare al di fuori il tuo pensiero. Poich Egli non se ne sta in un punto qualunque, lasciando ogni altro luogo deserto di s, ma a chi riesce a toccarlo Egli l presente, e a chi non riesce non presente. Pure, come nel resto non dato pensare qualche cosa a chi ne pensa qualche altra e ad essa si applica, ma non deve costui connettere nulla a ci che va pensando perch possa proprio trasformarsi nelloggetto pensato, cos pure occorre procedere anche in questo campo poich non dato, a chi abbia gi nellanima limpronta di unaltra cosa, pensare quellUno finch tale impronta ancora l operante; anche perch lanima tutta presa e dominata da altri oggetti non si presta pi ad essere impressionata dallimpronta delloggetto contrario; per contro, come stato detto a proposito della materia, che cio questa vuol essere spoglia di ogni qualit, se intende accogliere le impronte di tutte le cose, cos, anzi in un grado ben pi alto, lanima deve restarsene nuda di forme, se intende davvero che nulla si insedii l a far da impaccio alla piena inondante ed alla folgorazione che si riversa su lei da parte della Natura primordiale. Se cos, essa deve staccarsi da tutte le cose esteriori, volgersi verso la sua intimit, completamente, non inclinarsi pi verso qualcosa di esterno, ma estinguendo ogni conoscenza (e, precisamente, dapprima solo attraverso lintima disposizione, poi, di fatto, anche nella stessa nostra configurazione mentale), spegnendo altres la conoscenza del proprio essere, luomo deve immergersi nella contemplazione di Lui. [Plotino, Enneadi, VI, 9, 7. traduzione di V. Cilento] Alcuni aspetti dellesperienza dellitinerario di purificazione: contemplativa ribadiscono i caratteri fondamentali

necessit, da parte dellanima, di staccarsi da tutte le cose esteriori, volgersi verso la sua intimit, completamente, non inclinarsi pi verso qualcosa di esterno; contemplazione intesa come concentrazione del pensiero su se stesso (senza scagliare al di fuori il tuo pensiero) e in quanto tale, in quanto per s e non per altro, superiore allazione, sempre indirizzata verso un oggetto esterno a s.

Laspetto centrale del testo riguarda per il ruolo del pensiero, dellintelligenza, nella contemplazione: la contemplazione incomincia quando il pensiero, considerando lalterit dellUno-divino rispetto a qualsiasi altro oggetto e tuttavia proponendosi di fissarsi su di esso, cade nellindeterminatezza; proprio questa indeterminatezza rappresenta la condizione ineliminabile per raggiungere con il pensiero lUno: come la materia deve essere spoglia di ogni qualit, per accogliere le impronte di tutte le cose, cos, anzi in un grado ben pi alto, lanima deve restare nuda

di forme, e non pu applicarsi a nessun altro oggetto per potersi trasformare nelloggetto pensato; occorre quindi estinguere ogni conoscenza: quanto Plotino vuole significare specificando: dapprima solo attraverso lintima disposizione, poi, di fatto, anche nella stessa nostra configurazione mentale chiarito nel trattato precedente (VIII) della sesta enneade e consiste in quella che Dodds chiama disciplina della negazione: si tratta di cancellare innanzitutto il mondo corporeo, poi i riferimenti spazio-temporali, infine lintreccio interno delle relazioni; lultima consapevolezza a scomparire la conoscenza del proprio essere: viene cos rimosso lultimo ostacolo per la piena inondante e la folgorazione, che rappresentano il vertice dellesperienza contemplativa: lo svuotamento dunque funzionale a accogliere la piena, lo spegnimento di ogni conoscenza alla folgorazione.

Loltrepassamento del pensiero, necessario per lanima che voglia immergersi nella contemplazione dellUno, si lega strettamente al fatto che tale contemplazione sfoci nellassimilazione allUno. Infatti: lUno non pensiero: non gli si pu attribuire (il riferimento polemico Aristotele) nemmeno il pensiero di s, perch non il pensiero a dare valore allUno, ma viceversa; inoltre, distinguere luno che pensa dalla sua essenza che sarebbe invece oggetto del pensiero, equivale a contraddire la semplicit dellUno; Platone afferma invece giustamente che lUno al di sopra dellIntelligenza (Enneadi, VI, 7, 37); veramente santo solo ci che trascende il pensiero: anche a sostegno di questa tesi Plotino richiama Platone (Enneadi, VI,7, 39); avvicinandosi e assimilandosi allUno e alla sua sacralit, lanima deve dunque gradualmente abbandonare labito del pensiero.

Il testo che segue presenta un duplice interesse: mette a fuoco pi approfonditamente la gradualit dellabbandono dellattitudine intellettuale e la sua finalizzazione non alla cieca irrazionalit, ma allassimilazione alla stessa Intelligenza e quindi a ci che sopra di essa; inoltre, permette di seguire la costruzione di unimmagine particolarmente significativa in Plotino, quella dellitinerario allinterno del tempio (qui soltanto accennata attraverso la correzione dellimmagine del palazzo sostituendo al padrone di casa un dio).
L23- T3 Oltre il pensiero

A questo punto lanima viene a trovarsi in condizione da disprezzare anche il pensiero che in altri tempi le era cos caro (il pensiero infatti un movimento, per essa ora non vuole pi muoversi). Essa non parla affatto di colui che vede, ma contempla, poich essa stessa diventata Intelligenza e si come spiritualizzata ed entrata nello spazio intelligibile; e, appena entrata in esso e possedendolo, essa pensa lintelligibile, ma dopo averlo visto abbandona ogni cosa, simile a chi, essendo entrato in un ricco e nobile palazzo, va contemplando allinterno ad una ad una quelle cose belle prima di vedere il padrone di casa; ma, una volta che lo abbia visto e ammirato, non alla stregua di una statua, ma di una cosa degna veramente di esser vista, lascia da parte tutte le altre cose e guarda lui solo; e poi, guardando e non staccando mai lo sguardo, a forza di guardare non vede pi loggetto della sua visione, ma mescola la sua visione col suo oggetto, cosicch quello che prima era per lui oggetto di visione diventa ormai visione e cos dimentica tutti gli spettacoli. Forse il nostro esempio conserverebbe meglio lanalogia se non fosse un uomo quello che attende il visitatore della casa, ma un

dio che non apparisse agli occhi del corpo, ma riempisse lanima del contemplante. [Enneadi, VI, 7, 35, 1-20. Traduzione di V. Cilento] La tangenza con lUno, oltre che come piena inondante e come folgorazione (per questa designazione il riferimento ancora a Platone, al Simposio e allimmagine della scintilla nella VII Lettera), si caratterizza come estasi. Affrontando questo argomento Plotino propone il suo itinerario di avvicinamento al sacro (delineato con limmagine dellingresso nel tempio e nei suoi luoghi pi riposti): in questo contesto che si colgono le maggiori assonanze con le forme della religiosit contemporanea, ma si evidenzia anche lo scarto ineliminabile che caratterizza loriginalit del discorso plotiniano.
L23- T4 Lestasi

Ora, poich non erano due, ma egli stesso, il veggente, era una cosa sola con loggetto visto (non visto sicch, ma unito), chi divenne tale, allora, quando si fuse con Lui, ove mai riuscisse a ricordare, possederebbe presso di s una immagine di Lui. Egli per era gi uno di per s, in quel momento, e non serbava in s nessuna differenziazione n in confronto a se stesso n in rapporto alle altre cose; poich non cera in lui alcun movimento: non animosit, non brama di nulla erano in Lui, asceso a quellaltezza; ma non cera nemmeno ragione n pensiero alcuno; non cera neppure lui stesso, insomma, se proprio inevitabile dire questa enormit! E invece, quasi rapito o ispirato, egli entrato silenziosamente nellisolamento o in uno stato che non conosce pi scosse e non declina pi dallessere di Lui e non si torce pi verso se stesso compiutamente fermo, quasi trasformato nella stessa immobilit. Persino le cose belle, egli le ha ormai valicate; anzi, egli corre gi al di sopra del bello stesso, al di l del coro delle virt: somiglia a uno che, penetrato allinterno dellinvarcabile penetrale, abbia lasciato alle spalle le statue rizzate nel tempio; quelle statue che, quando egli uscir di nuovo dal penetrale, gli si faranno innanzi per prime, dopo lintima visione e la comunione superna non con una statua, non con una immagine, ma con Lui stesso; quelle statue che sono, per certo, visioni di secondordine. Pure l non ci fu certo una visione pura e semplice ma una visione in un senso ben diverso: estasi, dico, e semplificazione estrema e dedizione di s e brama di contatto e quiete e studio di aggiustarglisi ben bene; solo cos si pu vedere ci che si trova nel penetrale; ma se uno guardi in altra maniera, tutto dilegua per lui. [Plotino, Enneadi, VI, 1, 9. Traduzione di V. Cilento.] Certo, rispetto al modello cui Plotino intende programmaticamente riferirsi, ossia quello platonico, non mancano caratteri di indubbia originalit: la visione intellettuale di Platone superata nellintensit trascendentistica e unitiva dellestasi plotiniana, che risente della sensibilit tardo-imperiale e del suo misticismo. Il misticismo plotiniano si caratterizza per per il suo carattere fortemente razionalistico: lestasi si caratterizza come esperienza innanzitutto e esclusivamente intellettuale: non presenta dunque una componente fisiologica, n tantomeno necessita di essere accompagnata dalla gestualit rituale ; un processo naturale, una conquista dellascesi umana radicata nella strutturale derivazione dellanima dallUno: eliminando ogni forma di alterit fino al raggiungimento dellestasi unitiva, lanima non fa che ripercorrere a ritroso le tappe della processione metafisica dellUno;

Plotino rifiuta ogni forma di arcana mediazione fra umano e divino: il divino non si fa incontro allumano; lanima umana che con le sue sole forze deve innalzarsi fino allUno, senza poter sperare di abbreviare il cammino attraverso rivelazioni extra-razionali o propiziazioni ritualistiche.

Proprio quando, come nel testo presentato sopra, maggiormente si avvicina al linguaggio delle iniziazioni misteriche e impiega immagini tratte dalle liturgie sacre, Plotino se ne serve per caratterizzare inconfondibilmente il suo misticismo razionalistico, che risponde allansia soteriologica del tempo con la proposta di un itinerario ascensivo puramente intellettuale fondato sullessenza trascendente dellanima. Se Plotino rifiuta drasticamente qualsiasi forma di mediazione irrazionale fra umano e divino, altre correnti del Neoplatonismo recuperano lelemento teurgico, centrale negli Oracoli Caldaici, cercando un legame con il pensiero greco del passato ( il caso di Giamblico e dei suoi discepoli, ma anche della scuola di Atene) oppure privilegiando la componente teurgica in maniera pressoch esclusiva, a svantaggio dellelemento razionale (cos accade per la scuola di Pergamo e Giuliano lApostata).

Parte sesta: conclusioni

Il patrimonio filosofico e sapienziale maturato nellet post-ellenistica fino alla sintesi neoplatonica del III sec. d.C. di particolare interesse per quanto riguarda levoluzione della concezione del divino e del rapporto fra luomo e la divinit. Il medioplatonismo, come si ricava dai testi di un suo emblematico rappresentante, Plutarco,: riporta al centro della filosofia la problematica metafisico-teologica; attraverso lindagine ontologica, afferma la trascendenza del divino e lo caratterizza come vero essere; recupera la dimensione del soprasensibile e dellimmateriale, traguardo della seconda navigazione platonica eclissato dalle filosofie ellenistiche; concepisce il soprasensibile e il divino in maniera gerarchica; assorbe numerosi aspetti del misticismo orientale e delle dottrine demonologiche, utili per spiegare linterazione fra la trascendenza divina e il mondo degli uomini e della natura.

Il Corpus Hermeticum e gli Oracoli Caldaici si fanno interpreti di una tradizione misticosapienziale in cui centrale lattesa soteriologica e quindi il possibile congiungimento delluomo con il divino: lincolmabile distanza fra finito e assoluto pu essere colmata soltanto dallunione estatica; per conseguirla, luomo deve rintracciare il divino che in lui e seguirne le tracce; aggancio fondamentale delluomo con la trascendenza, lintelletto riveste un ruolo fondamentale per il conseguimento dellesperienza mistica; il riferimento allintelletto per estremamente sfumato nei suoi contorni: il fiore dellintelletto che la sapienza caldaica coinvolge nellunione estatica sembra escludere tanto la metodologia quanto i contenuti dellintelletto comunemente e filosoficamente considerato; in ogni caso, lavvicinamento puramente razionale al divino insufficiente: un ruolo decisivo invece giocato dalla pratica rituale e teurgica.

La sintesi filosofica di Plotino: si colloca sulla linea della speculazione ontologico-metafisica di Platone e Aristotele; si oppone alle correnti irrazionalistiche di provenienza orientale; ciononostante, risente del confronto con queste matrici culturali, sia per quanto concerne le modalit espositive, sia per quanto riguarda la concezione del divino; una irriducibile originalit caratterizza comunque la speculazione plotiniana circa la concezione dellitinerario di ricongiungimento dellanima al principio divino: con nuove sottolineature sono ripresi itinerari catartici precedentemente descritti dalla tradizione filosofica; riconosciuta la necessit di un oltrepassamento dellintelligenza per il conseguimento dellunione estatica, ma il misticismo, per quanto innegabile, mantiene inconfondibili tinte razionalistiche.

Ricerche

Per mettere a fuoco il clima spirituale dellet imperiale decisamente utile ricorrere a E. R. Dodds, Pagani e cristiani in unepoca di angoscia, La Nuova Italia, Firenze, 1970.

Dello stesso E. R. Dodds vale la pena citare anche il saggio sul tema specifico della teurgia e del suo rapporto con il Neoplatonismo contenuto in appendice a I Greci e lirrazionale, La Nuova Italia, Firenze, 1973. Per approfondire metafisica, antropologia e etica del Medioplatonismo si pu fare riferimento al quarto volume della Storia della filosofia antica di G. Reale, che al Medioplatonismo e alla riscoperta della metafisica platonica dedica la sezione seconda della seconda parte; la stessa storia della filosofia pu inoltre offrire unimportante guida nel mettere a fuoco le dottrine essenziali contenute nella letteratura ermetica e oracolare (sezione quarta della parte seconda nel volume quarto), nonch una presentazione efficace del sistema plotiniano, con particolare riguardo alle matrici culturali di riferimento e agli sviluppi successivi a Plotino (parte terza dello stesso volume). Per quanto riguarda specificamente il Neoplatonismo sono consigliabili N. DAnna, Il Neoplatonismo. Significato e dottrine di un movimento spirituale, Il Cerchio, Palestrina, 1988, e M. L. Gatti, Plotino e la metafisica della contemplazione, Vita e Pensiero, Milano, 1996. Tra le edizioni delle Enneadi plotiniane si pu consigliare almeno quella a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano, 1992; ledizione comprende anche la Vita di Plotino di Porfirio e una iconografia plotiniana a cura di G. Reale. Certamente accessibile lIntroduzione a Plotino, Laterza, Bari, 1984, di M. Isnardi Parente: particolarmente interessante, in relazione alle tematiche della contemplazione e del misticismo razionalistico di Plotino, lultima parte di questa sintetica presentazione del filosofo, che pone a confronto la dottrina plotinana dellestasi con i suoi precedenti e con i suoi analoghi contemporanei in ambito sia pagano sia cristiano.

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