Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
La psicologia di James.
James è uno dei fondatori della psicologia contemporanea. Insieme con Darwin,
Helmoltz e Freud, è uno dei quattro grandi che hanno cambiato il nostro modo di
vedere le cose.
Per James, come per Wundt, la psicologia studia l’esperienza. Ma questo studio,
secondo James, non può indirizzarsi a un’attività psichica concepita come una
moltitudine di microscopiche sensazioni che poi un qualche meccanismo mentale
mette insieme, perché la nostra esperienza ci offre, da subito, “un mondo unitario di
cose e di relazioni”. Essa è cioè, da subito, conoscenza, o pensiero, indicando con
questo termine l’intera vita psichica quale è immediatamente esperita “nel suo
insieme di thug and feeling”.
Il termine feeling comprende emozioni, sensazioni e quanto perviene dalla sensibilità
autonomica e periferica: tutto quanto viene sentito, e quindi conosciuto prima ancora
di averne una conoscenza intellettuale nel senso stretto del termine. Il feeling fa
dell’esperienza (del pensiero) una conoscenza non solo intellettuale ma sensibile.
Considerando il corpo come elemento attivo nel rapporto con l’ambiente, i feelings che
da questo parvengono, partecipano alla conoscenza di tale ambiente in relazione a noi
stessi. Questa conoscenza, che avviene per contatto immediato con le cose, è
personale, quasi sempre non traducibile in parole, e non comunicabile né
formalizzabile.
La conoscenza dei feelings è sempre valutativa. Essa ci dice non solo come una cosa
è, ma come essa è in relazione a noi. Noi viviamo nel presente la nostra esperienza: e
il presente è l’unico “tempo” sul quale noi possiamo operare, perché l’attività psichica
è un “flusso” che continuamente passa in modo inarrestabile. Tuttavia noi sappiamo
bene quale importanza nella nostra vita abbiano le cose e gli eventi del passato, e
anche quelli che intravediamo proiettandoci nel futuro con le nostre aspettative,
speranze, desideri. Questi “oggetti mentali del prima e del poi” vengono riunificati nel
pensiero a quelli presenti grazie alla funzione relazionale dei feelings. Dunque, i
feelings personalizzano la conoscenza e la unificano.
Per ragioni di studio noi possiamo estrarre gli “oggetti del pensiero” dall’intreccio dei
feelings, e farne oggetto di una conoscenza “fredda” priva di implicazioni personali.
Ma un simile procedimento ha poco valore per lo psicologo. Lo psicologo che ha come
scopo l’analisi dell’attività cognitiva quale si realizza e funziona nell’esperienza
personale, se non tiene conto del tessuto relazionale di valutazioni e di feelings che
intesse la conoscenza della persona, finisce col perdere il meglio della sua analisi.
La mente e la società.
È anche grazie al sostegno della psicologia di James che alcuni studiosi americani
hanno potuto mettere in rilievo il ruolo “forte” che la vita sociale svolge sul mondo
mentale. Tra questi studiosi sono importanti Baldwin e Mead.
James M. Baldwin.
Baldwin vede la società come “una rete consolidata di relazioni psichiche, un tessuto
di natura psicologica” in cui il bambino entra alla nascita, formandosi via via come
individuo. Egli analizza le fasi dell’esperienza nel cui ambito si forma socialmente
l’essere umano. Tali fasi sono:
“la prima è l’epoca dei processi del piacere e del dolore; è l’epoca dell’adattamento
motorio semplice (epoca affettiva); la seconda è l’epoca della rappresentazione, della
memoria, dell’imitazione, dell’azione difensiva, dell’istinto, che passa per gradi alla
terza, l’epoca della rappresentazione complessa, della coordinazione motoria
complessa, della conquista, dell’azione offensiva e della volizione rudimentale (epoche
di riferimento obiettivo); vi è infine l’epoca del pensiero, della riflessione,
dell’affermazione di sé, dell’organizzazione sociale, dell’unione delle forze, della
cooperazione (epoca di riferimento soggettivo).
In questo percorso “la realizzazione dell’Io” è vista come un progressivo evolvere, sul
piano della “coscienza”. In tale quadro, dice Baldwin, “un fattore importante per la
comprensione di me stesso è la comprensione dell’ordine sociale”.
George H. Mead.
Il rapporto mente – società viene analizzato in modo assai più complesso dallo
psicologo di Chicago Mead.
Per Mead il punto di partenza è il comportamento esterno, visibile, e non la “mente
vista dall’interno”, come era per James. L’essere umano al centro dell’analisi di Mead è
ben dotato di una mente e di una capacità di elaborazione interna. Sarebbe assurdo,
dice Mead, negare l’esistenza della mente. Noi possiamo studiare “l’esperienza
interiore” attraverso il comportamento oggettivo , ma per far questo occorre
considerare che “l’atto esterno osservabile è solo una parte del processo che ha avuto
inizio nell’interno e che solo in un secondo momento giunge all’espressione esterna.
Inoltre il metodo che suggerisce Mead è di trattare l’esperienza dal punto di vista della
società, o almeno dal punto di vista della comunicazione in quanto essenziale per
l’ordine sociale. In psicologia sociale si comincia da un determinato insieme sociale
costituito da complesse attività di gruppo, e al suo interno analizziamo il
comportamento di ciascuno dei separati individui che lo compongono”.
Con l’espressione “complesse attività di gruppo” Mead intende specificamente la
società, cioè tutto l’insieme delle pratiche di cooperazione sociale. Queste pratiche
sono basate sulla continua interazione tra le persone. In tale ottica il concetto centrale
è quello di comunicazione, la quale è fondata sul linguaggio come espressione di un
sistema di significati condivisi, il cui gesto diviene un simbolo significativo.
L’attenzione per il simbolo, inteso come espressione dell’elaborazione mentale del
gesto, è derivata da Mead dall’attenta lettura della Psicologia dei popoli di Wundt.
Tuttavia, dice Mead, mentre in Wundt la capacità simbolica viene data come
presupposto, secondo la sua ottica essa è costituita dalla vita sociale: da quel
processo circolare interazionale che, dalle prime forme del “gesto”, si evolve poi nella
più complessa forma del “simbolico” attraverso le dinamiche dell’azione sociale.
La mente non può essere considerata unicamente sotto il profilo individuale, in quanto
le sue funzioni biologiche sono essenzialmente sociali. Il soggetto non è costituito
soltanto dall’organismo biologico, bensì anche dal suo rapporto con il mondo. Questo
rapporto è mediato dalla relazione con gli altri.
La teoria S-R.
La polemica di Watson è indirizzata all’ “introspezionismo” come metodo, ma ciò che,
in realtà, viene rifiutato è l’oggetto dell’introspezione: la mente, la coscienza e tutto
quanto è riferito all’ “esperienza interna”. Watson negherà ogni realtà alla coscienza e
agli stati mentali che “occorre ignorare come qualcosa di indefinibile e di magico”. Il
soggetto della teoria stimolo – risposta è un organismo indifferenziato in un contesto
indifferenziato, dunque notiamo un’ottica behaviorista ambientalistica.
Il processo di apprendimento è divenuto centrale nell’ottica ambientalista del
comportamentismo, e per spiegarlo si sono utilizzati modelli meccanicistici tali da
escludere ogni intervento mentale. Dapprima il modello piuttosto semplificato per
tentativi ed errori; poi modelli basati sul condizionamento classico pavloviano per
associazione. Infine modelli più raffinati di condizionamento operante messi a punto
da Skinner, secondo il quale sia l’animale sia l’uomo tendono essenzialmente a
ricercare il piacere e a fuggire il dolore. In tale ottica, se le risposte a una stessa
situazione ricorrono più frequentemente quando procurano piacere, allora si possono
variamente rinforzare i comportamenti che si desidera fare apprendere con un
opportuno gioco di premi e viceversa cercare di farli disimparare mediante rinforzi
negativi o punizioni. In tale ottica l’organismo non viene condizionato da meccanismi
“esterni” più o meno complicati, ma dal suo stesso comportamento che tenderà a
radicare tanto più profondamente certe risposte quanto più queste gli permetteranno
di raggiungere il benessere. E viceversa le punizioni.
• La teoria di campo porta Lewin allo studio dei gruppi che costituiscono il vero
ambiente sociale col quale l’individuo entra in contatto in molti momenti della
sua esistenza.
Nell’analisi lewiniana il gruppo è un fenomeno, non una somma di fenomeni
rappresentati dall’agire e dal pensare dei suoi membri; è una unità che la
psicologia sociale può assumere nel suo studio così come vi assume altre unità
quali, per esempio, la persona.
Quel che costituisce l’essenza di un gruppo non è la somiglianza o la
dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza.
Esso può definirsi come una totalità dinamica. Ciò significa che un cambiamento
di uno stato di una sua parte o frazione qualsiasi interessa lo stato di tutte le
altre.
Considerare il gruppo come un’unità di analisi significa ovviamente prendere in
considerazione problemi non riconducibili ai problemi dei singoli membri. Il
gruppo evidenzia bisogni che non sono riconducibili ai bisogni dei singoli: sono
bisogni di gruppo, da cui nascono tensioni di gruppo che si collegano, nel campo
del gruppo, a valenze e a forze. Su questa base le ricerche sperimentali o
empiriche sui fenomeni di gruppo vengono centrate non sulle caratteristiche dei
membri, ma sulle caratteristiche del gruppo.
• Lewin, Lippit e White effettuano una ricerca sui gruppi nel 1939, e si venne alla
conclusione che abbiamo tre tipologie di gruppo: democratico, autoritario,
laissez-faire.
Nel gruppo democratico vi è la viva collaborazione tra i membri, producendo
soddisfazione e creatività.
Nel gruppo autoritario vi emergono rilevanti fenomeni di aggressività che si
manifesta principalmente verso determinati membri del gruppo.
Il gruppo laissez-faire è quel gruppo in cui il leader asseconda gli altri membri,
affidando a loro la decisione di ogni singola scelta.
La ricerca azione.
la ricerca – azione è fondata sulla partecipazione attiva e paritaria, utilizza l’indagine
conoscitiva ai suoi vari livelli, concependo la ricerca come strumento per analizzare in
modo non dogmatico i problemi.
La ricerca – azione può venire in generale utilizzata in vari contesti di vita associata su
problemi pratici che particolarmente implicano aspetti relazionali. Una cosa
importante è, ovviamente, la collaborazione attiva del contesto implicato, necessaria
per lavorare sulla base di scopi condivisi e per favorire la partecipazione attiva del
gruppo.
La ricerca – azione è la trascrizione operativa del soggetto attivo nell’ambito
dell’attività mentale e dell’attività pratica. A lui, infatti, si dà la parola, insieme con lui
si procede a produrre una conoscenza basata non solo sulle sue e sulle nostre idee ma
anche e soprattutto sulla sua attività pratica svolta nella situazione.
La conoscenza sociale.
L’approccio cognitivo.
Il cognitivismo è stato, ai suoi inizi, un orientamento generale di pensiero piuttosto che
un paradigma teorico in senso stretto. Un orientamento cui partecipano voci diverse
accomunate dal senso di una “psicologia vera”, liberata dalle costrizioni in cui il
behaviorismo l’aveva ristretta.
La mente è la grande riscoperta del cognitivismo. A questa riscoperta Chomsky ha
dato un grande apporto, contribuendo alla rinascita di un soggetto creativo che si
muove nel mondo mediante un’analisi del problema della natura del linguaggio basata
sulla sua specifica formazione di linguistica. Egli analizza il linguaggio soprattutto
come sistema di pensiero. Con questo Chomsky ha invitato la psicologia a un
fondamentale cambiamento di prospettiva non solo in merito allo specifico tema
linguistico.
Il mentale che Chomsky consegna alla psicologia non è una generica entità metafisica,
ma, come ha notato Parisi, “un complesso di meccanismi, processi e informazioni che
stanno dietro all’attività direttamente osservabile” e che si può raggiungere non tanto
“attraverso un non sempre sicuro emergere della mente nella coscienza”, quanto
costruendo della mente stessa modelli dettagliati e coerenti.
Tra questi possibili modelli il cognitivismo si focalizzerà su quello che studia la mente
come un sistema organizzato e gerarchizzato di strutture, meccanismi e processi che
elaborano i dati che giungono dall’esterno, li trasformano, li valutano, li collegano ad
altri e così via, fino a giungere a stabilire soluzioni di azione, di espressione, di
pensiero. Da qui l’espressione divenuta celebre di Human Information Processing (HIP)
con cui, per vario tempo, si identificò il cognitivismo.
Sul piano teorico la tesi che sta alla base dell’approccio cognitivo è quella che vede il
rapporto dell’uomo con l’ambiente come costantemente mediato da strutture di
conoscenza costituite dai processi mentali che elaborano, sotto forma di informazione,
quanto proviene dai nostri sistemi percettivi.
Inizialmente si tendeva a paragonare la mente ad un calcolatore, più esattamente a
un computer. Successivamente l’analisi delle neuroscienze sul cervello e sul sistema
nervoso in generale ha messo in luce con molta evidenza l’intenibilità di ogni ottica
diretta ad assimilare alle operazioni di un computer il funzionamento dei processi
mentali. L’attenzione per il dato neurologico ha favorito la messa in campo di modelli
confessionisti, fondati sulle reti neurali che, simulando sul computer i processi mentali,
sembrano in grado di rappresentarne meglio il complesso insieme di collegamenti e di
interazioni che li governa.
I neuroscenziati, inoltre, sottolineando come il cervello non sia “isolato” dal corpo,
richiamano con forza alla realtà unitaria dell’attività neurofisiologica. L’attività mentale
non può quindi essere vista separata dall’insieme delle funzioni, non solo cognitive ma
anche emozionali, che intervengono nell’intero quadro relazionale con l’ambiente.
Successivamente, mentre si esaurivano gli studi di Heider e della sua cosiddetta
“psicologia ingenua” che metteva in primo piano la ricerca soggettiva delle cause
degli eventi sociali, si è sviluppata la teoria dell’attribuzione che, tra il 1960 e il 1990,
ha prodotto numerosi modelli teorici e ricerche empiriche.
La teoria dell’attribuzione.
L’essere umano come scienziato ingenuo.
I processi attribuzionali sono visti come isolati rispetto al quadro funzionale in cui si
collocano. Nelle ricerche si parlerà spesso di “attore” ed “osservatore” per indicare
rispettivamente gli individui su cui l’attribuzione è compiuta e quelli che la compiono:
ma in realtà l’attore in senso reale, cioè il soggetto concretamente agente, resta
spesso assente da questo quadro. Così come ne resta spesso assente il contesto
sociale specifico in cui l’azione e la stessa attività cognitiva si svolgono. Finisce così
con l’imporsi l’idea di un essere umano che procede come una macchina analizzatrice.
Una macchina non perfetta perché spesso le sue attribuzioni sono viziate da vari
errori. Quindi una concezione di uomo come scienziato ingenuo, che i lavori via via
condotti mostreranno poco tenibile.
Un’ANOVA mentale.
Il termine ANOVA (analysis of variance) appartiene ai procedimenti della statistica, in
cui è utilizzato per designare un metodo di analisi delle relazioni fra variabili, e più
precisamente fra una o più cause effetto. Kelley ha definito così il suo modello di
attribuzione in base all’idea che il modo con cui analizziamo le cause degli eventi
corrisponda a questo metodo di analisi statistica. Come lo scienziato applica l’ANOVA
per distinguere i fattori responsabili di un certo effetto, così l’osservatore nella vita
quotidiana cercherà di ottenere informazioni esaurienti sulla situazione e sul
comportamento dell’attore, in modo da attribuire specifici effetti a specifiche cause.
Seguendo il modello statistico, l’osservatore applicherà il principio della covarianza in
base al quale “l’effetto è attribuito a quella condizione che è presente quando l’effetto
è presente, e che è assente quando l’effetto è assente”.
Il modello presume che nell’attribuzione vengano prese in considerazione le entità
della situazione in questione, le persone che interagiscono con queste entità e le varie
modalità di interazione. Esso implica la ripetizione delle osservazioni in modo tale da
poter confrontare l’azione della persona che interagisce con quella di altre persone, di
fronte alla medesima entità e ad altre, in tempi diversi e con modalità diverse. Questa
complessa serie di confronti permette di evidenziare i quattro criteri soggettivi in base
ai quali vengono compiute le attribuzioni: la specificità, la coerenza nel tempo, la
coerenza nelle modalità, e il consenso.
Il modello ANOVA ha prodotto un’ampia serie di ricerche. Vari cambiamenti sono stati
proposti per rendere il modello ANOVA meno macchinoso e più realistico rispetto
all’esperienza quotidiana concreta. Tra questi è interessante il modello delle condizioni
anomale di Hilton e Slugoski. Noi “sappiamo” che in condizioni normali un certo
comportamento tende a prodursi. È quando questo non avviene che il processo
attribuzionale si attiva. Il modello di Hilton e Slugoski tende quindi a puntare su un
processo semplificato, in cui il soggetto che compie attribuzioni è in gran parte aiutato
dal processo di schemi mentali in cui la sua esperienza ha già inscritto il rapporto
cause – eventi quale si da nel corso normale dell’esperienza stessa. Il tipo di analisi
che i due autori prevedono, è fondato sullo stesso meccanismo di covariazione
dell’ANOVA e ancora mette in gioco i costrutti di specificità. Coerenza e consenso di
quel modello, sia pure rivisitato.
• Gli effetti self – serving o tendenze auto difensive. Un altro tipico “errore”
emergente nel campo è costituito dalla tendenza ad attribuire a se stessi il
successo e a negare la responsabilità per l’insuccesso: cosa che vale non solo
per l’autoattribuzione in senso stretto, ma anche per attribuzioni riguardanti i
propri amici, il proprio gruppo e così via. Zuckermann è un fervido sostenitore di
questo punto di vista motivazionale, che vede cioè i processi cognitivi piegarsi a
una superiore esigenza della persona di salvaguardare la stima di sé.
Miller e Ross, distinguendo tra effetti protettivi del Sé ed effetti di innalzamento
del Sé pensano che quest’ultimo fenomeno possa essere spiegato anche su
base squisitamente cognitiva. Infatti una persona “si aspetta” in generale di
avere successo, “cerca” di avere risultati positivi dal suo agire, e “tende” ad
averli. È quindi naturale che riferisca a sé i risultati positivi dell’azione, anche
perché è in occasione del successo che maggiormente verifica il suo controllo
della situazione.
La cognizione sociale.
Immediatezza fenomenologica e percezione sociale.
L’ambiente può essere considerato come una sorgente di stimoli ai quali i nostri
sistemi recettori reagiscono attraverso una serie di processi che pongono le condizioni
della percezione, come processo attraverso il quale facciamo esperienza immediata e
diretta della realtà fenomenica circostante. Parliamo di realtà fenomenica nel senso
che questa è la realtà data all’essere umano: quale cioè viene costituita, partendo dal
mondo fisico, dai nostri organi sensoriali e dal nostro sistema nervoso.
Tutto ciò che porta a costituire gli “oggetti” dell’esperienza è una realtà che nel
linguaggio comune chiamiamo “oggettiva”, ma che dovremmo definire
intersoggettiva, perché comune e condivisa da tutti gli esseri della nostra specie.
Questo aspetto deve essere ricordato, quando ci si riferisce al soggetto attivo che
partecipa alla costruzione della realtà, per non cadere in visioni puramente
soggettivistiche e per ricordare come anche il mondo sociale sia in parte una
costruzione intersoggettiva comune, prodotta dalle vicende filogenetiche e storiche
attraversate dall’umanità.
L’immediatezza dei fenomeni percettivi, cioè del modo con cui la realtà fenomenica si
dà a noi sin dal primo “sguardo” almeno nel suo aspetto globale, è quasi un paradosso
se pensiamo che essa si fonda sulla complessa sequenza di processi organizzati
gerarchicamente, sino al coinvolgimento di aree corticali via via più complesse, messa
in luce dalla ricerca psicofisiologica. Processi che operano del tutto al di fuori della
nostra consapevolezza e di cui solo il risultato finale, sotto forma di “percezione
categoriale” arriva nel nostro campo di coscienza.
Altri approcci teorici hanno invece ipotizzato che sin dall’inizio intervengano fattori
soggettivo – funzionali, cioè dei processi, automatici e inconsci, di elaborazione
cognitiva dell’informazione trasmessa dallo stimolo.
Tali processi contribuiscono alla perceptual readiness: una “prontezza” che concorre a
selezionare il materiale informativo, e organizzarlo e a categorizzarlo.
-è importante quella che definiamo come accessibilità, ossia la capacità di uno stimolo
di attivare schemi in memoria a esso, per qualche verso, affini.
Le caratteristiche fisiche salienti sono particolarmente importanti nell’attivare schemi
in fasi di codifica.
Gli schemi attivati in fase di encoding si dimostrano capaci di persistere fortemente
nel corso dell’intero processo di trattamento, e quindi di avere un notevole influsso
sull’organizzazione della conoscenza in memoria e sul loro richiamo nei processi di
inferenza. Mettiamo più facilmente in memoria quanto è stato reso rilevante da uno
schema se questo è già ben consolidato, mentre siamo particolarmente sensibili alle
informazioni che sono incongruenti con uno schema ancora piuttosto debole, non ben
strutturato. Tenendo conto che uno schema diviene tanto più consistente quanto più
presto si è messo all’opera e quanto più frequentemente è stato utilizzato, si
comprende anche quanto sia difficile una sua modifica nel corso dell’esperienza.
Gli atteggiamenti.
Il concetto di atteggiamento tra psichico e sociale.
La nozione di atteggiamento è stata per vari decenni, almeno sino al 1960, al centro
della psicologia sociale e ancora oggi continua a essere oggetto di analisi teorico –
metodologiche e di studi empirici grazie all’utilità operativa che riveste in vari campi in
cui sia conveniente e necessario rilevare opinioni, credenze, giudizi, posizionamenti
nella vita sociale.
La nozione di atteggiamento è servita a mantenere viva l’idea di un soggetto dotato di
un mondo interno e di stati mentali durante il behaviorismo; è stata largamente
utilizzata nell’analisi della comunicazione e dell’influenza da parte di Hovland e del
gruppo di Yale; è stata altrettanto ampiamente utilizzata in molte analisi connesse con
l’equilibrio cognitivo e soprattutto con la dissonanza cognitiva, e così via.
• La teoria dell’azione ragionata. Sulla base del modello aspettativa per valore
Fishbein e Ajzen elaborano la teoria dell’azione ragionata. Gli autori assumono
che le persone agiscono in base alle loro intenzioni, intendendo per intenzione
la decisione di intraprendere un certo comportamento. Tale decisione dipende
dall’atteggiamento (positivo o negativo) verso l’azione prevista e dalle norme
soggettive alle quali la persona fa riferimento.
L’atteggiamento da solo non è però sufficiente a guidare il comportamento, in
quanto, per muovere un’intenzione sono importanti anche le norme a cui il
soggetto si riferisce. Per norme soggettive, gli studiosi intendono le credenze
rispetto all’approvazione o disapprovazione di persone significative, congiunte
alla motivazione a soddisfare o meno tali aspettative.
La teoria venne criticata perché non considerava gli atteggiamenti automatici,
fuori dal controllo cosciente, i quali rivestono un ruolo importante per la vita
quotidiana.
Successivamente a queste critiche, Ajzen propose una modificazione fondata
sull’idea che il controllo dell’agire si svolga nell’ambito di un continuum dal
massimo nullo. Gli studi empirici diretti a verificare la teoria hanno evidenziato
che sia le norme soggettive e la percezione di controllo sono in relazione
significativa con l’intenzione di compiere un’azione; inoltre, sia l’intenzione
espressa sia la percezione di controllo si connettono significativamente con
l’attuazione effettiva del comportamento, pur se tra i due fattori maggior peso
riveste la percezione di controllo. La percezione di controllo non dipenderà però
solo dal controllo effettivo ma anche dalle credenze circa le proprie possibilità di
controllo, che varieranno in base alle esperienze pregresse nel soggetto, alle
aspettative su impedimenti, ostacoli, risorse o opportunità, e dai rimandi degli
altri. in una situazione in cui il controllo non sia totale, l’intenzione sarà intesa
non come una decisione di attuare un’azione, ma come la volontà di provare a
intraprenderla: un piano d’azione. Da qui il nome del modello.
I pregiudizi.
Il radicamento psicosociale del pregiudizio.
Secondo Allport il pregiudizio è “un atteggiamento di ostilità o di rifiuto verso un
gruppo nel suo insieme o verso un individuo appartenente a quel gruppo”. Le scienze
psicologiche e sociali hanno inoltre chiarito che tale atteggiamento ostile e
denigratorio è solitamente rivolto a persone o gruppi che non sono il proprio, ossia
rivolti all’outgroup.
Lippman aveva utilizzato il termine stereotipo per indicare quelle rappresentazioni
degli altri fisse e impenetrabili al ragionamento, che, ricevendole “già fabbricate dal
contesto sociale”, gli individui utilizzano per etichettare gli altri, tendenzialmente in
modo negativo, spesso distorcendo dati di realtà. Il pregiudizio si situa in questa
stessa ottica. I pregiudizi costellano la nostra vita sociale, talvolta, pur se non
necessariamente, traducendosi in forme di discriminazione palese, prospettando
quell’insieme di atteggiamenti in senso lato che tendono a privilegiare l’ingroup a
discapito dell’outgroup.
Le rappresentazioni sociali.
La ricerca di Moscovici sull’immagine della psicoanalisi.
Moscovici si poneva il problema di come una teoria scientifica particolare (quella
freudiana), diffondendosi tra il pubblico, potesse trasformarsi in un sistema di
immagini, idee, valutazioni, ecc. capace di contribuire alla comprensione della realtà
sociale, agendo come una specie di strumento interpretativo di tale realtà. È in
quest’ottica, che vede dei soggetti pensanti nell’ambito di un sociale costituito
anch’esso di “idee” e non solo di cose, che ha preso corpo la nozione di
rappresentazioni sociali, destinata a divenire un importante strumento concettuale
della psicologia sociale contemporanea. Uno strumento concettuale che doveva essere
in grado di dar conto, insieme, sia delle proprietà dell’oggetto studiato (in questo caso
la teoria psicoanalitica e la sua pratica sociale) sia dell’elaborazione che già di esso
era stata operata dai sistemi di percezione, di conoscenza e di valutazione di persone
concretamente situate in un contesto di relazioni e comunicazioni sociali.
La ricerca è condotta con strumenti tradizionali dell’indagine psicologico – sociale:
questionari su un campione rappresentativo di persone dell’area parigina, e analisi del
contenuto di 1640 brani di articoli vari.
Dal punto di vista concettuale, la ricerca è diretta a mettere in luce:
-le definizioni che vengono date dalla psicoanalisi, i fini e i principi che le sono
attribuiti e le immagini che vi sono associate;
-il quadro sociale della sua clientela e dei suoi campi di applicazione;
- le fonti di informazione su di essa e le opinioni sulla sua diffusione e sulla sua
valorizzazione;
-le interferenze tra la concezione psicoanalitica e le ideologie religiose e politiche e i
sistemi di valore;
-i bisogni sociali e i modelli culturali espressi attraverso l’immagine dello psicoanalista.
Su questa base la ricerca mostra come il pensiero scientifico – professionale sulla
psicoanalisi venga rielaborato e trasformato nel sapere “comune” che enfatizza alcuni
concetti, ne cambia altri e alcuni li rimuove, attraverso trasformazioni diversificate in
base al gruppo sociale dì appartenenza e agli stili comunicativi tipici della stampa a
cui il gruppo si riferisce. Moscovici distingue tre specifiche modalità comunicative,
definite come “diffusione”, “propagazione” e “propaganda”. La diffusione è tipica della
cosiddetta “stampa indipendente di opinione” che, a proposito della psicoanalisi,
veicola idee piuttosto disomogenee, punti di vista diversi, nell’ottica di “informare”
cercando di adattarsi agli interessi del grande pubblico. La propagazione è tipica dei
giornali di matrice cattolica ed è interessata a far sì che una teoria scientifica
emergente come lo era la psicoanalisi in quegli anni, non confligga con i principi
religiosi, spingendo i lettori a crearsi delle valutazioni critiche a riguardo e suggerendo
anche comportamenti appropriati. La propaganda è invece mossa dal tentativo di
sostenere e diffondere la propria “ideologia” producendo di conseguenza
rappresentazioni più rigide e stereotipate.
Nei lavori successivi Moscovici amplia la classificazione dei generi comunicativi,
facendovi rientrare anche la conversazione quotidiana, che diventerà uno dei campi
privilegiati per le analisi sulle rappresentazioni sociali.
L’influenza sociale.
Cos’è l’influenza sociale.
Quando si parla di influenza sociale si fa riferimento a un più ristretto ambito di
ricerca: lo studio delle modalità secondo cui le opinioni e i comportamenti pubblici e
privati degli individui sono influenzati da altri soggetti.
Nel corso dello sviluppo della psicologia sociale ci sono alternate due principali
concezioni dell’influenza sociale. La prima è stata sviluppata soprattutto in ambito
nordamericano nel periodo compreso fra le origini della disciplina e i primi anni
sessanta del Novecento. Questi studi condividono alcuni assunti teorici fondamentali
al punto da essere considerati come rappresentanti del medesimo modello
dell’influenza sociale, definito funzionalista da Moscovici. Tale modello considera
l’influenza come il prodotto dei rapporti di forza del mondo sociale: colui che, in
funzione del numero, di un maggiore potere o di maggiore autorità, è più forte, può
influenzare le opinioni e i comportamenti di chi è in una posizione di inferiorità.
La seconda concezione dell’influenza sociale è stata proposta negli anni settanta dallo
stesso Moscovici in alternativa a quella funzionalista: si tratta del cosiddetto modello
genetico, che mira a spiegare l’influenza come il prodotto di un processo interattivo fra
gli attori coinvolti, definito anche, ma non solo, dai loro rapporti di forza. Lo studioso
francese ha costruito un modello generale dell’influenza sociale, in grado di spiegare
le ragioni per cui in certe condizioni anche le minoranze e chi detiene meno potere
possono esercitare influenza sociale sulle maggioranze e su chi ha più potere.
Successivamente agli studi di Moscovici sono stati proposti altri modelli di
interpretazione dei fenomeni di influenza che, per quanto differenti per alcuni aspetti
dal modello genetico, condividono con questo modello l’interesse per lo studio dei
processi di elaborazione dell’informazione alla base dell’influenza nelle differenti
condizioni, ovvero classicamente quella di influenza maggioritaria e quella di influenza
minoritaria.
Il modello funzionalista.
La pressione verso il conformismo.
I primi studi sull’influenza analizzano tale fenomeno essenzialmente all’interno dei
gruppi sociali. Il loro principale capostipite è il classico esperimento dell’effetto auto
cinetico di Sherif per mettere empiricamente alla prova l’ipotesi di Allport secondo cui,
all’interno dei gruppi, le opinioni delle persone tendono a modificarsi, convergendo su
posizioni più moderate di quelle sostenute quando esse sono isolate. L’effetto auto
cinetico è un’illusione ottica: consiste nel fatto che, in una stanza buia, senza punti di
riferimento, un punto luminoso proiettato su uno schermo dà l’impressione di oscillare
anche se in realtà è fermo. L’esperimento consisteva nel far valutare ai soggetti
sperimentali l’ampiezza degli spostamenti di un punto luminoso proiettato su uno
schermo in una sequenza di prove. In una prima versione dell’esperimento, i soggetti
svolgevano l’esperimento da soli nel laboratorio. I soggetti si costruivano una norma
personale di valutazione, decidendo quanto ampio fosse lo spostamento del punto e
utilizzando tale norma per valutare i successivi movimenti. Nella seconda condizione i
soggetti iniziavano a svolgere le prove in gruppo e, successivamente, continuavano da
soli. I soggetti tendevano, prova dopo prova, a far convergere le loro norme individuali
verso un valore intermedio. È particolarmente interessante notare come tutti i soggetti
tendessero a modificare le proprie valutazioni medie. Ed in modo inconsapevole i
singoli modificavano la loro valutazione iniziale convergendo su posizioni comune
senza rendersene conto. Le norme di gruppo si rivelarono dunque più resistenti al
cambiamento di quelle individuali. Sherif interpretò questi risultati sostenendo che,
all’interno dei gruppi, si sviluppano rilevanti tendenze al conformismo, cioè ad
assumere opinioni comuni moderate, intermedie rispetto alle posizioni estreme.
L’obbedienza all’autorità.
Oltre che alle maggioranze, in psicologia sociale viene attribuita la capacità
d’influenza anche a singoli individui che, occupano posizioni socialmente privilegiate:
sono le persone che detengono una posizione di potere o quella a cui, vi è attribuita
autorevolezza. L’esperimento più famoso è quello ideato e condotto da Milgram
sull’obbedienza all’autorità. L’esperimento di Milgram ha indubbiamente contribuito a
far progredire la comunità degli psicologi inducendoli a sviluppare un codice etico che
indica con chiarezza i principi che devono governare la ricerca, prevedendo pesanti
sanzioni per coloro che li violano. Si è talvolta sostenuto, che Hitler e il nazismo hanno
costituito uno dei principali volani che hanno contribuito successo della psicologia
sociale. Questo per due ragioni: da un lato, perché ha costretto alcuni dei migliori
psicologi sociali europei a fuggire dai loro paesi in America (Tajfel), contribuendo al
diffondersi e al disseminarsi delle loro teorizzazioni e ricerche. Dall’altro perché,
terminata la seconda guerra mondiale, un cospicuo numero di studiosi prese a
interrogarsi sulle ragioni psicologiche che avevano concorso all’affermarsi di ideologie
tanto distruttive e al fatto che milioni di persone apparentemente “normali” avessero
tollerato, o addirittura promosso, lo sterminio in massa di milioni di loro concittadini.
Originariamente Milgram riteneva che la collaborazione di migliaia di tedeschi alla
messa in atto dello sterminio di massa fosse da imputare principalmente a
caratteristiche culturali e di personalità del popolo tedesco. La tesi era che i tedeschi
fossero “per carattere” abituati a obbedire all’autorità senza metterla in discussione,
anche nei casi in cui essa è rappresentata da un feroce e sanguinario dittatore. Nel
corso dei suoi studi, Milgram si trovò sempre meno soddisfatto di una spiegazione di
questo genere, giungendo a ipotizzare che taluni processi psicologici legati
all’obbedienza conformistica fossero molto più diffusi di quanto si pensasse. Milgram
ideò una situazione sperimentale in cui un’autorità poneva ai soggetti sperimentali
delle richieste capaci di indurli a mettere in atto comportamenti distruttivi
manifestamente contrari alle loro norme e ai loro valori personali. Scopo dello studio
era analizzare fino a che punto le persone erano disposte a rinunciare ai dettami della
loro coscienza per obbedire alle richieste dell’autorità. I soggetti, volontari e pagati,
venivano convocati individualmente in un laboratorio universitario dove incontravano
un’altra persona che avrebbe partecipato all’esperimento. Lo sperimentatore
comunicava loro che la ricerca finalizzata ad analizzare i processi di apprendimento e,
più precisamente, gli effetti esercitati su questo dalle punizioni. Per tale motivo, si
sarebbe stabilito con un sorteggio quali dei due soggetti sperimentali avrebbe svolto il
ruolo di insegnante e quale quello di allievo. In realtà delle due persone convocate in
laboratorio solo una era un vero soggetto sperimentale, mentre l’altra era un complice
dello sperimentatore; inoltre, il sorteggio era truccato in modo tale che al soggetto
sperimentale toccasse inevitabilmente il ruolo dell’insegnante. L’insegnante avrebbe
dovuto far svolgere all’allievo una serie di esercizi mnemonici (ricordare alcune coppie
di parole). Ogni volta che l’allievo avesse commesso un errore, l’insegnante avrebbe
dovuto infliggergli una punizione e, col susseguirsi degli errori, la punizione sarebbe
dovuta diventare sempre più severa. L’allievo veniva legato a una sorta di sedia
elettrica e gli veniva applicato un elettrodo al polso. Il generatore elettrico aveva
trenta interruttori con l’indicazione di voltaggi crescenti dai 15 ai 450 volt. Sopra gli
interruttori c’erano delle targhette con indicazioni sull’intensità della scossa
somministrata, che andavano da “scossa leggera” fino a “attenzione, scossa molto
pericolosa”. Gli ultimi due interruttori erano semplicemente corredati dall’etichetta
“XXX”. Ovviamente l’allievo non riceveva alcuna scossa, ma l’insegnante non lo
sapeva. Per evitare che subodorasse l’inganno, prima dell’inizio dell’esperimento gli si
faceva provare la macchina infligendogli una vera scossa di lieve entità. Il complice
dello sperimentatore iniziava sin da subito a commettere molti errori, così che il
soggetto sperimentale si trovava a dover infliggere punizioni sempre più severe. Al
crescere delle scosse, l’allievo iniziava a lamentarsi sempre più e, a urlare di dolore in
maniera straziante e a implorare di essere liberato. Ogni volta che l’insegnante
esitava, lo sperimentatore lo incitava a proseguire dicendogli che ciò che stava
facendo era molto importante e che l’esperimento non poteva essere interrotto. Circa
due terzi dei soggetti, nonostante le suppliche dell’allievo e l’assurdità della
situazione, arrivavano a somministrare gli allievi fino all’ultima scossa. In pratica
anche i cittadini “normali” di un grande paese democratico come gli Stati Uniti erano
disposti, sulla base della semplice richiesta di un autorità a “torturare” una persona
uguale a loro. Milgram si dedicò a studiare le condizioni che potevano aumentare o
diminuire la sottomissione dell’autorità. Per fare ciò replicò ripetutamente
l’esperimento modificandone di volta in volta alcune caratteristiche. Queste ulteriori
indagini misero in luce che l’obbedienza era maggiore quando l’allievo, era più lontano
dall’insegnante e massima quando non lo vedeva nemmeno.
Una conseguenza è la perdita soggettiva di responsabilità del soggetto che attua gli
ordini. Sentire di essere solo un ingranaggio nella macchina della distruzione,
attribuendo la responsabilità delle proprie condotte alle persone gerarchicamente
superiori, permette di compiere azioni distruttive minimizzando la propria
responsabilità personale. La perdita di responsabilità è anche un’ottima difesa per
l’immagine di sé: se le nostre azioni non dipendono da noi, le loro conseguenze non
incideranno sul giudizio che abbiamo di noi stessi. In generale gli studi di Milgram
hanno permesso di sottolineare come l’obbedienza dell’autorità non dipenda soltanto
da una particolare conformazione di personalità o di altri fattori personali, ma venga in
buona parte dettata dalla situazione in cui si trovano le persone: la pressione
normativa che spinge a sottometterci alle autorità considerate legittime e quindi una
rilevante e diffusa forma di influenza che i sistemi sociali esercitano sugli individui. I
risultati dell’esperimento ci aiutano a capire “la facilità con cui le persone possono
inchinarsi alle ragioni del conformismo e dall’ubbidienza anche in quelle situazioni
estreme in cui si potrebbe pensare che il rifiuto di adeguamento sia più naturale e
spontaneo”.
Il modello genetico.
La critica del modello funzionalista.
L’influenza sociale non fu mai ricondotta a un modello unitario dagli autori che
avevano contribuito a delinearla. Fu invece Moscovici che la etichettò come
funzionalista. Secondo Moscovici, la psicologia sociale dei primi anni settanta sposava
in maniera quasi unanime una visione secondo cui “i sistemi sociali formali e non
formali da un lato, e i fattori ambientali dall’altro, vengono considerati come dati
predeterminati per l’individuo o per il gruppo. Essi forniscono a ognuno, prima
dell’interazione sociale, un ruolo, uno stato e delle risorse psicologiche”. In
quest’ottica “la devianza rappresenta l’incapacità di adattarsi al sistema, una
mancanza di informazioni o di risorse in relazione all’ambiente esterno. La normalità,
da parte sua, rappresenta uno stato di adattamento al sistema, una condizione di
equilibrio con l’ambiente e uno stretto coordinamento tra i due. Da questo punto di
vista privilegiato, il processo di influenza ha per oggetto la riduzione della devianza, la
stabilizzazione delle relazioni fra individui e degli scambi col mondo esterno”.
innanzitutto si considera che all’interno dei gruppi l’influenza sociale sia distribuita in
modo diseguale e venga esercitata in modo unilaterale. L’influenza viene considerata
un processo unidirezionale, caratterizzato da una sorgente che detiene le risorse
indispensabili per esercitarla e dei bersagli che la subiscono. Ne consegue che
all’interno dei gruppi non tutti hanno la stessa possibilità di esercitare influenza.
L’influenza origina da un vissuto di insicurezza; conformarsi alle norme sociali aiuta a
ridurre questo vissuto negativo. L’insicurezza può essere dovuta dalla sensazione di
non essere in sintonia con gli altri attori del mondo sociale, oppure dall’ambiguità di
una percezione. In entrambi i casi la conformità con un gruppo sociale permette di
ridurre il disagio che si sperimenta.
Per Deutsch, Gerard e Milgram, gli individui sentono la pressione normativa a
conformarsi alle opinioni della maggioranza e a non contestare gli ordini delle autorità,
il che costituisce la base di quella che Bauman definisce etica dell’obbedienza.
Particolare importanza ha inoltre la teoria del credito idiosincratico di Hollander,
secondo cui nei gruppi l’innovazione è principalmente promossa dal leader. Per
arrivare a rivestire tale ruolo le persone devono guadagnare credito nei confronti degli
altri membri del gruppo, e tale credito ottengono dimostrandosi inizialmente
particolarmente leali e fedeli rispetto alle norme e alle mete condivise. Così
guadagnata, la leadership offre loro la possibilità di modificare i valori e le norme
comuni, senza incorrere in sanzioni da parte degli altri membri. La teoria del credito
idiosincratico è perfettamente coerente con il modello funzionalista: anche per
Hollander, infatti, l’influenza è una questione di potere e procede in maniera
unidirezionale dall’alto verso il basso, pur non escludendo che i detentori di una
posizione privilegiata abbiano la possibilità di modificare le norme vigenti e di
promuovere il cambiamento sociale. Possibilità invece preclusa alle minoranze e agli
individui che non ricoprono ruoli di comando.
Secondo Moscovici, invece, tutte le persone e tutti i gruppi sono potenzialmente sia
fronte sia bersaglio di influenza, anche se in misura diversa in funzione del loro status.
Ne consegue che l’influenza deve essere letta come un processo bidirezionale e non
come esclusivamente diretto dall’alto verso il basso.
L’influenza minoritaria.
Per mettere empiricamente alla prova l’assunto teorico secondo il quale tutti gli
individui e i gruppi, a prescindere dalla dimensione e dal potere che detengono,
possono essere portatori di influenza, Moscovici ideò uno studio che cercava di
sovvertire le conclusioni del famoso esperimento di Asch: dimostrare cioè che una
minoranza può influenzare una maggioranza. Anche questo esperimento si basava su
valutazioni di stimoli percettivi ambigui: il compito affidato ai soggetti era di dichiarare
pubblicamente in una serie di prove quale fosse, a loro parere, il colore piuttosto
incerto tra il verde e il blu di alcune diapositive. Per l’esperimento vennero costituiti
due gruppi. Il gruppo di controllo era formato da sei soggetti ingenui, quello
sperimentale da quattro soggetti ingenui e da due complici dello sperimentatore,
istruiti a dichiarare sistematicamente che tutte le diapositive proiettato erano di colore
verde. La principale variante rispetto allo studio di Asch concerneva dunque lo status
di maggioranza/minoranza dei complici dello sperimentatore: nello studio di Asch
erano sette su otto, mentre qui erano solo due su sei. La quasi totalità dei partecipanti
appartenenti al gruppo di controllo riferì correttamente di aver visto delle diapositive
blu. Questo avvenne anche per la maggioranza dei componenti del gruppo
sperimentale ma in maniera minore.
La presenza di una minoranza di partecipanti che sistematicamente riferiva valutazioni
errate aveva il potere di spingere in errore una quota significativa di soggetti ingenui.
L’impatto dell0jnfluenza era ovviamente molto inferiore a quello dell’influenza della
maggioranza emerso nell’esperimento di Asch, in cui i soggetti che cambiavano
opinione erano circa un terzo del totale. Ciononostante, questi dati mostravano che
anche le minoranze possono influenzare la maggioranza.
Moscovici sostiene che i processi in influenza dipendono dallo stile di comportamento
tenuto da chi effettua il tentativo di influenza: a patto che sostengano la loro posizione
con coerenza, tutti gli individui possono esercitare influenza, indipendentemente dal
loro status di maggioranza/minoranza.
Condiscendenza e conversione.
Il modello genetico testimonia l’utilità di superare la concezione quantitativa di
maggioranza e minoranza, considerando invece minoritarie le posizioni di chi sostiene
opinioni contrarie alle idee dominanti in una cultura e maggioritarie quelle di chi
difende le norme sociali vigenti e l’ordine sociale attuale.
L’influenza maggioritaria ha come scopo il mantenimento del controllo sociale, e si
realizza principalmente attraverso i fenomeni di conformismo. Dal momento che
spinge le persone ad adottare norme e opinioni già dominante e ampiamente
conosciute, è un processo che non richiede un’elaborazione approfondita delle
argomentazioni proposte per condizionare la minoranza, né una messa in discussione
di valori e credenze consolidati. Si tende ad adeguarsi alle già conosciute opinioni
della maggioranza; non si riorganizzano le proprie credenze, ci si limita a confrontare
la propria posizione con quella dominante e ad accettare quest’ultima. Questo
processo viene definito condiscendenza e avviene a seguito di un’attività di confronto
sociale con la maggioranza.
L’influenza minoritaria, per Moscovici, è invece frutto di un processo molto differente.
In questo caso il gruppo minoritario propone il cambiamento e la messa in discussione
di qualche punto di vista largamente condiviso. Sostenendo idee che vanno contro le
opinioni affermate, per avere successo nel processo di influenza la minoranza deve
“costringere” i membri della maggioranza a un lavoro cognitivo rivolto alla messa in
discussione delle opinioni precedenti e ad un esame approfondito delle proposte
alternative. Questo processo comporta che il cambiamento sociale sia sempre il frutto
di un conflitto tra posizioni dominanti e posizioni alternative. La prima reazione della
maggioranza alla proposta alternativa di una minoranza è quasi sempre di rifiuto. Vi
sono varie difese contro i devianti che possono essere messe in atto dalla
maggioranza. In questo modo la maggioranza evita di confrontarsi con la posizione
alternativa sostenuta dalla minoranza. Proprio per neutralizzare queste difese è
fondamentale che la minoranza metta in atto un insieme di azioni costanti e coerenti,
continuando a sostenere la propria posizione impedendo che il conflitto si risolva. La
persistenza della minoranza nel sostenere le sue opinioni può indurre i membri della
maggioranza a focalizzare la loro attenzione sull’oggetto della disputa e dunque a
prendere in considerazione le argomentazioni della controparte. A questo punto,
attraverso un processo di validazione, le tesi minoritarie possono essere rifiutate o
accettate. L’influenza minoritaria, essendo frutto di un negoziato, è un processo che
richiede tempi lunghi. Al contrario, l’influenza maggioritaria avviene in maniera molto
più rapida e automatica.
Resta il fatto che alcune persone, pur essendo state convinte a cambiare opinione nel
loro intimo a causa dell’influenza minoritaria, abbiano poi molte riserve ad ammetterlo
pubblicamente per timore di essere considerati devianti.
La ricerca.
Il nostro approccio consiste nel considerare il potere come un costrutto elaborato
socialmente , culturalmente e psicologicamente.
Se fondamentalmente il potere non esiste che come credenza espressa attraverso le
opinioni che generano atteggiamenti ad esso relativi e quindi anche come espressione
esteriore dell’individuo che parla, le rappresentazioni di cui esso è oggetto permettono
di mettere in evidenzia i processi di legittimazione sui quali si fonda.
La ricerca, in Francia ha visto la partecipazione di 50 studenti iscritti al primo anno di
Scienze Umane e Sociali. I partecipanti sono stati interrogati tramite interviste
approfondite semi – direttive, realizzate in situazione di faccia a faccia, seguendo il
protocollo comune all’insieme di ricerche collegate al Laboratorio Europeo di Psicologia
Sociale. L’analisi delle risposte è stata condotta per mezzo di una griglia di
categorizzazione del contenuto, comune all’insieme delle interviste. Tale griglia è stata
elaborata a posteriori, a partire dai contenuti raccolti in ciascun paese appartenente al
network LEPS, al fine di favorire un’analisi transculturale.
L’analisi delle associazioni verbali è stata effettuata secondo due modalità distinte:
l’utilizzo del programma ALCESTE e l’analisi tematica del contenuto.
Risultati.
I campi semantici associati al concetto di potere.
Le associazioni verbali generate dai partecipanti in risposta al termine induttore
potere, sono state analizzate tramite il programma ALCESTE. Dall’analisi sono emerse
500 associazioni verbali delle quali in 191 forme distinte.
L’interpretazione del dendogramma ottenuto in seguito alla doppia classificazione
gerarchica realizzata dal software ALCESTE permette di mettere in evidenzia le diverse
opposizioni tra classi specifiche. Le classi 1 e 3 si riferiscono al potere nei suoi aspetti
politici e in questo modo si distinguono dalla classe 2, centrata maggiormente sul
potere in quanto risorsa simbolica e materiale, che funziona come principio d’ordine
sociale e di subordinazione.
Sebbene i contesti lessicali delle classi 1 e 3 si riferiscano al potere politico, i temi
affrontati risultano distinti. La classe 1 si riferisce al potere politico come sistema
istituzionale democratico per mezzo dei seguenti lemmi specifici di classe:
democrazia, governo, ministro, legge, popolo; mentre la classe 3 rinvia maggiormente
al potere politico come concentrazione e imposizione di poteri attraverso lemmi quali:
dirigente, dittatura, abuso, politica. La classe 2 rinvia in maniera specifica al potere in
quanto risorsa simbolica e materiale funzionante come principio d’ordine sociale e di
subordinazione: potenza, denaro, superiorità, dominio, forza, gerarchia.
Conclusione generale.
Oggetto controverso, oggetto di discussione e dalle molteplici implicazioni, il potere è
oggetto di studio esemplare per una psicologia sociale che si dia come obiettivo quello
di analizzare le dinamiche societarie, focalizzandosi sull’intervento delle regolazioni
sociali e complesse sul funzionamento individuale, cognitivo, valutativo e decisionale.
La teoria delle rappresentazioni sociali, nel suo proporre un’articolazione tra il
funzionamento cognitivo e il meta – sistema delle rappresentazioni, analizza l’impatto
dei fattori sociali e culturali che determinano in quale modo gli individui concepiscono
il potere. Ciò ci permette di chiarire le logiche sociali e culturali di cui le persone sono,
allo stesso tempo, soggetti e oggetti.
Conclusioni.
Il nostro ambiente sociale è popolato di oggetti, persone, situazioni che rivestono una
grande importanza per ciascuno di noi. Le informazioni di cui disponiamo su questi
oggetti, su queste situazioni, su queste persone, così come le credenze che
possediamo su di essi ci appartengono. Esse fanno parte della nostra individualità.
Tuttavia, esistono anche oggetti, situazioni e persone che sono importanti per noi
come per gli altri. il denaro, il dominio, il potere, sono altrettanti esempi di oggetti
sociali che occupano largo spazio nella vita di tutti. Se parliamo di questi oggetti con
gli amici, i familiari, i conoscenti, ci rendiamo conto che, nella maggior parte dei casi e
fino ad un certo punto, le nostre conoscenze sono comparabili, al di là di effimere
divergenze, esiste uno spazio comune di significati, di prese di posizione, di credenze e
di aspettative. Ed è proprio per descrivere e spiegare come si forma questo tipo di
spazio comune che, più di quaranta anni fa, Moscovici, ha formulato la sua Teoria delle
rappresentazioni sociali.
I dati raccolti mostrano che la componente informazione, cioè la quantità e la qualità
delle conoscenze possedute sul potere, rimanda innanzitutto alla fisionomia di colui
che lo detiene, che viene descritto come qualcuno di autorevole, intelligente, colto, di
aspetto gradevole e di successo, a testimonianza del fatto che, così come non può
esistere una rappresentazione in assenza di un oggetto, non può esistere il potere il
assenza di un soggetto.
La componente campo della rappresentazione, cioè l’unità gerarchizzata degli
elementi proveniente dell’informazione, è dominata dal denaro. Del resto, come
ricorda Moscovici “il denaro è diventato per molti, il vero legame attuato dalla nostra
società e il modello della nostra cultura. In altre parole, il ruolo che il denaro
comunque ha svolto da molto tempo nello scambio, nella produzione, e nel potere,
non è mai stato così determinante come oggi”. Personalmente, condividiamo le
posizioni di quegli autori che individuano, come caratteristica fondamentale del
denaro, la sua dipendenza da fattori sociali, o meglio, da atti di decisione sviluppati
all’interno della miriade di transazioni interpersonali quotidiane.
Un discorso a parte va fatto per i risultati di ricerca relativi alla componente
atteggiamento della rappresentazione sociale del potere, che può essere considerata
decisamente ambivalente. Nella definizione di atteggiamento è implicita l’assunzione
che gli oggetti attitudinali possono essere valutati unidimensionalmente positivi,
negativi o neutri e non simultaneamente positivi e negativi. Tale concezione non regge
nel caso in cui ad un soggetto possa contemporaneamente piacere o non piacere un
medesimo oggetto. Infatti, a prescindere dal genere, dal momento storico, tutti gli
intervistati hanno fornito una valutazione ambigua dell’induttore potere, mentre hanno
valutato positivamente le sue dimensioni più seducenti come il denaro, la ricchezza, il
successo, il carisma e negativamente i suoi aspetti più brutali e respingenti, come la
coercizione, il comando e la politica.
Oltre che di cognizioni valutative, fonti di giudizi sulle qualità dell’oggetto, il contenuto
di una rappresentazione si compone anche di cognizioni descrittive, utili a meglio
definirlo, ci riferiamo alle opinioni, agli stereotipi e alle categorizzazioni raccolte nel
corso delle interviste.
Comunque, nonostante la conflittualità che contraddistingue il discorso sul potere, gli
intervistati si sono dimostrati “più realisti del Re”, affermando di desiderare potere,
nonostante la responsabilità che esso indubbiamente comporta, di preferire
certamente comandare piuttosto che obbedire, di sentirsi bene nell’esercitarlo e di
essere convinti di riuscire ad ottenere un potere nel corso della propria vita. del resto
le persone di potere sono considerate oggetto di ammirazione da tutti i soggetti
coinvolti nello studio.
Sollecitati ad esprimersi su reali situazioni di potere, i soggetti hanno restituito
elementi utili ad identificare i loro meccanismi di giustificazione e le loro strategie di
legittimazione, che abbiamo riassunto in due grandi categorie. La prima, definita alla
Beauvois e Joule “sottomissione liberamente consentita”, sintetizza quelle produzioni
discorsive caratterizzate da un sentimento di libertà circa le possibilità di decidere se
sottomettersi o meno a colui che detiene il potere. Il Papa che benedice i fedeli, il
medico che visita la paziente ed il professore che tiene la sua lezione agli studenti
rientrano in questa categoria grazie alla legittimazione derivante dal carisma, dalle
competenze e dal ruolo e ai processi di giustificazione, tutti mediati dalle emozioni
fortemente positive sperimentate da chi detiene, ma anche da chi subisce il potere. La
seconda categoria, definita alla Milgram “sottomissione all’autorità”, raccoglie quei
discorsi improntati all’obbedienza, in presenza o in assenza di un vero e proprio
comando. L’ufficiale che passa in rassegnala truppa, la moglie che serve il caffè al
marito e la madre che controlla il figlio nello svolgimento dei compiti, sono esempi in
tal senso, legittimati dall’esistenza di gerarchie relative allo status, al ruolo o all’età,
nonostante i sentimenti ambivalenti che li accompagnano. L’obbedienza in questo
caso acquista una configurazione di senso attraverso la relazione, divenendo
inscindibile dalla natura del comando e dalla persona che lo emana.
Il potere, dunque, non esiste se non attraverso le sue rappresentazioni sociali.