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I miti greci

illustrazioni di David Landi


IL PESCASTORIE NOTA

Questa raccolta si propone di fornire una piccola introduzione ad alcuni im-


portanti miti greci, dal racconto delle quattro età dell’uomo al dono di Prome-
teo, per chiudere con un racconto dei principali episodi dell’Odissea, cui si è
cercato di essere il più possibile fedeli.
Le fonti principali cui si è fatto riferimento sono: Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della
Grecia, il Saggiatore 2002, Odissea, traduzione di G.A. Privitera, Mondadori 2007, Pierre
Grimal, Enciclopedia della mitologia, Garzanti 2001. Per alcuni aspetti stilistici si è fatto
riferimento a: Jean-Pierre Vernant, C’era una volta Ulisse, Einaudi 2006.

I miti greci

Illustrazioni David Landi


Editing, impaginazione, attività didattiche Redazione Educational

I testi sono composti con il carattere


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ideale per BES e DSA.

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Le quattro età
e il destino dell'uomo

S
econdo gli antichi greci, la storia del mondo si
divide in quattro età. La prima e più antica era
quella dell’oro. Allora gli uomini erano privi di
preoccupazioni, non invecchiavano e non si amma-
lavano. I campi producevano da soli i loro frutti,
e non occorreva fare nessuna fatica per coltivarli.
Gli uomini vivevano in pace tra loro ed erano amici
degli dèi. Questa generazione però finì e gli uo-
mini dell’età dell’oro scomparvero nelle profon-
dità della terra. Zeus volle trasformarli in spiriti
buoni, quasi degli angeli custodi degli uomini delle
età successive, che donano ricchezza e difendono
la giustizia.
Gli dèi crearono un’altra generazione di uomi-
ni molto diversa e certamente inferiore a quel-
la dell’età dell’oro: quella dell’argento. Questi

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nuovi uomini restavano bambini per cento anni, e
quando diventavano adulti vivevano per un tempo
brevissimo: non facevano che lottare tra loro per
avere la meglio l’uno sull’altro, e non veneravano
gli dèi. Adirato, Zeus decise di distruggerli e an-
ch’essi sprofondarono nelle profondità della ter-
ra. Anche loro si trasformarono in spiriti buoni,
ma non come gli uomini dell’età dell’oro.
Zeus creò allora una terza generazione di uo-
mini, quella del bronzo. Fu una generazione mol-
to più potente e cattiva della precedente. Que-
sti nuovi uomini erano molto forti, usavano armi e
utensili di bronzo, e non facevano altro che farsi
la guerra.
Per distruggere questa generazione, peggiore di
tutte le precedenti, Zeus pensò di scatenare piog-
gia e fulmini e mandare un diluvio che avrebbe
ucciso tutti gli uomini e devastato tutte le terre.
Prometeo, sempre pronto a difendere gli uomini
dall’ira del padre degli dèi, consigliò a suo figlio
Deucalione di costruire una grande nave e di rifu-
giarsi lì con le provviste e sua moglie Pirra, figlia
di Pandora e del fratello di Prometeo, Epimeteo.

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Fu così che Deucalione e Pirra riuscirono a sal-
varsi, e navigarono sopra le terre greche, trasfor-
mate in un unico specchio d’acqua, finché non
approdarono sull’alto monte Parnaso. Qui Deuca-
lione fece un sacrificio per ringraziare Zeus, che li
aveva risparmiati. Il re degli dèi gli chiese allora
che cosa volesse in cambio, e Deucalione rispose
che voleva altri uomini. Zeus disse a lui e a Pir-
ra di raccogliere delle pietre e di lanciarle dietro
di sé: non appena toccarono terra, quelle lancia-
te da Pirra si trasformarono in altrettante donne,
mentre quelle lanciate da Deucalione in altrettanti
uomini. Erano i primi di una nuova generazione,
quella del ferro, che sarebbe stata la peggiore di
tutte le altre da tutti i punti di vista. Secondo
Esiodo, poeta greco vissuto fra l’VIII e il VII sec.
a.C., era quella la generazione che stavano vi-
vendo gli uomini del suo tempo, e non smetteva di
lamentarsene. Forse è proprio dai tempi di Esiodo
che gli uomini non smettono di rimpiangere un’età
più felice, che sembra sempre essere nel passato.

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zeus e la stirpe
dei titani

Z
eus non era sempre stato il re degli dèi: lui
e i suoi fratelli e sorelle (tra cui Ade, Posei-
done, Era) avevano dovuto sconfiggere gli antichi
dèi, i Titani, in una guerra lunghissima e feroce.
Alla fine i nuovi dèi riuscirono a prevalere perché
Zeus si era procurato dei formidabili alleati: aveva
liberato dalle profondità della terra i fortissimi
Ciclopi, gigantesche creature con un occhio solo
che gli donarono le sue armi più potenti, il tuono
e il fulmine. Inoltre Zeus aveva chiamato a sé i
terribili mostri nascosti dalle profondità marine,
tra cui Briareo, che con le sue cento braccia aveva
sommerso i Titani con una pioggia di pietre. I vinti
vennero incatenati e precipitati sotto terra, nel
Tartaro, una voragine buia del regno dei morti.
Sprofondarono nella terra per nove giorni e nove

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notti, e alla fine furono imprigionati in una for-
tezza immersa nell’oscurità. I Titani non poteva-
no più evadere, perché Poseidone, il dio del mare,
fratello di Zeus, vi aveva messo sopra una porta
di metallo. I mostri marini Gia, Cotto e Briareo
divennero i custodi fedeli che impedivano a queste
divinità decadute di fuggire.
Prima di venire definitivamente sconfitto e im-
prigionato, il Titano Giapeto aveva avuto dei fi-
gli. Sfuggirono alla prigionia del Tartaro, ma non
all’ira di Zeus, che non cessarono di sfidare per
un motivo o per l’altro. Da parte sua, il nuovo re
degli dèi non perdeva occasione per perseguitarli.
Uno dei figli di Giapeto era Atlante, che Zeus co-
strinse all’ingrato compito di reggere il peso della
volta celeste. Le gambe sprofondate a terra, le
spalle appoggiate al cielo, è lui la portentosa co-
lonna che impedisce al cielo di cadere sulla terra.

Ma il figlio di Giapeto che diede più filo da tor-


cere al re degli dèi fu Prometeo. Il Titano era
alleato con gli esseri umani, e cercava di aiutarli
in ogni occasione, al punto da provocare la rabbia

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di Zeus. Una volta dèi e uomini si incontrarono, e
Prometeo ingannò Zeus facendogli credere di aver
ricevuto la parte migliore del piatto forte del ban-
chetto, un robusto toro. Per sé e per gli uomini ri-
empì la pelle del toro con carne tagliuzzata, men-
tre a Zeus lasciò la parte apparentemente migliore
ma in realtà piena di ossa.
Quando se ne accorse, il signore degli dèi si
adirò moltissimo per l’ennesimo dispetto di Pro-
meteo e decise di rivalersi sugli uomini: nascose
loro il fuoco, così non poterono più cuocere i ci-
bi, scaldarsi, illuminare la notte, proteggersi dagli
animali feroci. Il Titano non poteva certo restare
insensibile alle sofferenze degli uomini, né alla
crudeltà del suo nemico, e rubò il fuoco dal foco-
lare di Zeus per riportarlo agli esseri umani.
Quando dall’alto dell’Olimpo il re degli dèi in-
travide che la notte era nuovamente illuminata dai
falò accesi dagli uomini, escogitò una nuova puni-
zione per loro.
Ordinò a Efesto, il dio fabbro, di impastare nel-
la terra l’immagine di una bellissima fanciulla, e
chiese agli altri dèi di farle dei doni che la rendes-

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sero desiderabile: così la saggia dea Atena le in-
segnò l’arte di tessere e la dea dell’amore, Afro-
dite, le donò un fascino irresistibile. La fanciulla
si chiamò Pandora, che in greco significa proprio
«piena di doni», e Zeus la inviò agli uomini come
suo dono. Ad accoglierla fu Epimeteo, fratello di
Prometeo ma assai più imprudente di lui: Prome-
teo l’aveva messo in guardia contro i doni di Zeus,
perché sapeva bene che nascondevano sempre
qualche insidia. Infatti la curiosa Pandora compì
un danno irreparabile: aprì il vaso, donatale da
Zeus, che racchiudeva la sofferenza, le malattie e
la morte, e lasciò che circolassero per sempre tra
gli uomini, che prima avevano vissuto senza cono-
scere tutti questi mali. Da quel momento la vita
per il genere umano si fece davvero dura. Soltanto
la Speranza rimase nel vaso, e Pandora lo richiuse
proprio quando stava per uscire.
Anche per Prometeo, Zeus pensò a una punizio-
ne esemplare: il Titano fu incatenato sulla cima
dei monti del Caucaso. Ogni giorno un’aquila veni-
va a rodergli il fegato, che poi durante la notte ri-
cresceva. Il giorno dopo il supplizio ricominciava.

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Il povero Prometeo dovette subire questa terribi-
le penitenza per un tempo lunghissimo, finché un
giorno l’eroe Ercole, figlio di Zeus ed Alcmena,
non uccise con una freccia l’aquila torturatrice e
liberò Prometeo dalle catene. Ercole compì molte
altre incredibili imprese, ma questa è un’altra sto-
ria...

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TETI E IL DESTINO
DI ACHILLE

T
eti era una delle divinità marine più belle e
affascinanti che si fossero mai viste. Era fi-
glia di Nereo, il Vecchio del mare, una divinità
marina molto antica e benevola, ancora più antica
e primordiale del dio del mare Poseidone, che vi-
veva con le sue numerose e bellissime figliole in
un sontuoso palazzo in fondo al mare. Zeus e suo
fratello Poseidone rivaleggiavano per averla in
sposa, e chiesero consiglio alla dea Temi, per sta-
bilire chi dovesse avere la meglio. Il responso di
Temi fu sorprendente, ma inequivocabile: né Zeus
né Poseidone dovevano sposare Teti; anzi, nessun
dio doveva unirsi a lei, perché il figlio di dèi così
potenti sarebbe diventato un nuovo sovrano del
mondo, capace di sfidare la forza di tutti gli altri
dèi. La saggia Temi consigliò anche di far sposare

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a Teti un mortale, giusto per non correre rischi.
La scelta cadde sull’eroe Peleo, che abitava sul
monte Pelio. Fu così che Zeus abbandonò la bella
dea vicino alla casa del prescelto, in una notte di
plenilunio. Non appena Peleo vide Teti se ne inna-
morò. Teti però non ne voleva sapere: l’acqua era
il suo elemento, e poi era una dea troppo solitaria
e potente per apprezzare l’unione con un mortale.
Mutevole come l’acqua, Teti poteva trasformarsi in
tutto ciò che desiderava, e usava il suo potere per
sfuggire agli abbracci di Peleo. Si trasformò allora
prima in fuoco, poi in acqua, e ancora in vento. Ma
il suo innamorato non demordeva, e continuava a
inseguirla. Né si spaventò quando Teti diventò un
uccello, e addirittura una terribile tigre, e quindi
un leone, pur di scappare da lui. Ma fu proprio
l’amore per il suo elemento a tradirla: quando de-
cise di trasformarsi in seppia, fu molto più facile
per Peleo inseguirla in acqua. Allora la afferrò e
la tenne ben stretta: alla povera Teti-seppia non
restò che schizzarlo da capo a piedi con l’inchio-
stro! Alla fine, però, Teti fu costretta ad assumere
di nuovo la forma umana: «Hai vinto tu, Peleo, mi

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arrendo. Accetto di diventare tua moglie». L’e-
roe e gli dèi tutti tirarono un sospiro di sollievo,
e si accinsero a preparare le nozze. Fu una gran-
dissima festa, cui furono invitati tutti gli dèi, che
parteciparono portando ricchi doni. In particola-
re, ai novelli sposi fu donata un’invincibile arma-
tura, forgiata da Efesto, il fabbro degli dèi, e una
coppia di splendidi cavalli, Balio e Xanto.
Il loro matrimonio, però, non fu felice. Teti non
sapeva rassegnarsi a vivere accanto al suo sposo,
e cercava sempre di tornare nelle profondità ma-
rine. Spesso tornava nel meraviglioso palazzo del
padre Nereo, dove se ne stava a tessere e a canta-
re con le sue sorelle, le bellissime ninfe Nereidi.
Con Peleo ebbe anche dei figli, ma non si rasse-
gnava al fatto che fossero mortali. Quando nacque
il piccolo Achille, Teti decise che avrebbe trovato
il modo di renderlo invulnerabile, così almeno in
battaglia non avrebbe sofferto per le ferite né tan-
tomeno sarebbe morto. Portò il figlio ancora in fa-
sce alle porte degli Inferi, lo prese per un tallone
e lo immerse nell’acqua del fiume infernale Stige.
In effetti il piccolo Achille divenne invulnerabile,

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e da grande sarebbe diventato il guerriero greco
più valoroso di tutti i tempi. Purtroppo Teti dimen-
ticò di bagnare anche il tallone del bambino, che
aveva tenuto in mano per
immergerlo nel fiume, e
Achille rimase vulnerabile
proprio sul tallone: e pro-
prio sul tallone, ahimè, lo
raggiungerà la freccia di
Paride durante la guerra
di Troia, di cui si parlerà
più avanti.
Il piccolo Achille creb-
be lontano dalla madre
che, come si è visto, non
amava molto la vita casa-
linga e finì per separarsi
dal marito. Ma sul monte
Pelio il bambino trovò un
valido maestro: il padre
Peleo lo affidò a un suo
caro amico, il Centauro
Chirone. I Centauri era-

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no creature con il busto d’uomo e la parte infe-
riore del corpo di cavallo, vivevano nei boschi e
si nutrivano di carne cruda. Normalmente erano

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brutali e rozzi, ma Chirone era un’importante ec-
cezione: era molto saggio, buono e generoso, e
crebbe Achille insegnandogli la virtù, la musica,
e naturalmente l’arte della guerra e della caccia.
Chirone era anche un esperto della medicina: non
a caso, il centauro allevò anche Asclepio, il dio
della medicina.
Teti però non dimenticò mai il figlio, e anzi fece
di tutto per proteggerlo, in più di un’occasione.
Qualche anno dopo infatti, quando un oraco-
lo predisse che Achille sarebbe morto durante la
guerra di Troia, lo vestì con abiti femminili e lo
mandò a vivere presso la corte di Licomede, re di
Sciro, dove visse a lungo in compagnia delle gio-
vani principesse. Ma il destino era ben più diffici-
le da ingannare.
Qualche tempo dopo, i greci si accingevano a
preparare la spedizione per la guerra di Troia.
Prima di partire, interrogarono l’indovino Calcan-
te, che rispose: «Cercate Achille e portatelo con
voi: senza di lui non ci sarà mai la vittoria per noi,
sotto le mura di Troia!». Della faccenda fu inca-
ricato l’astuto Ulisse, re degli inganni, che sicura-

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mente si sarebbe inventato qualcosa per scoprire
dove fosse Achille. Dopo alcune indagini, Ulisse
scoprì dove si trovava. Ma come stanarlo presso la
corte di Licomede? Si trattava di trovare un modo
per far uscire allo scoperto il guerriero. L’astuto
Ulisse si travestì quindi da mercante, si introdusse
negli alloggi delle donne nel palazzo di Licomede,
e offrì loro la sua merce. Ma tra stoffe e stru-
menti da ricamo, aveva nascosto armi preziose.
Mentre le donne preferivano i primi, Achille non
esitò a scegliere apertamente le seconde, rivelan-
do così la sua vera natura. E del resto il ragazzo si
era ormai stufato di vivere tra le donne vestito da
donna, e in fin dei conti era stato ben contento di
mostrare il suo istinto guerriero e poter finalmen-
te mettersi alla prova sul campo di battaglia.
Fu così che Achille partì per Troia. Prima della
partenza, però, Teti donò al figlio l’armatura di
Efesto che aveva ricevuto come dono di nozze, e
i due bellissimi cavalli che le erano stati donati
nella stessa occasione. Achille ringraziò la madre,
promise che avrebbe attaccato le due bellissime
bestie al suo carro in battaglia e partì insieme agli

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altri greci per la guerra. Ma sapeva che avrebbe
sempre potuto contare sulla madre, se l’avesse in-
vocata in riva al mare: infatti durante la battaglia
Teti non smise mai di consigliarlo e di aiutarlo,
fino all’ultimo.

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perseo e medusa

A
crisio, re di Argo, aveva un’unica figlia fem-
mina, la bellissima Danae. Chi avrebbe re-
gnato sulla città dopo di lui, se non avesse avuto
anche un erede maschio? Perciò si rivolse all’ora-
colo di Delfi per chiedergli come fare per avere un
figlio. La profetessa che parlava in nome del dio
Apollo, però, gli predisse che non avrebbe avu-
to maschi. Sua figlia Danae ne avrebbe partorito
uno, e quel bambino avrebbe segnato la rovina di
Acrisio. Colpito dalla sinistra profezia, non appe-
na tornò da Delfi, il re di Argo fece costruire nel
cortile del suo palazzo una stanza di bronzo sot-
terranea, e vi rinchiuse la giovane figlia insieme
alla sua nutrice. Danae dovette dire addio alla lu-
ce del cielo e fu sepolta per sempre nell’oscurità,
perché non potesse aver figli. Ma Zeus aveva visto

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la bella principessa, e se ne era innamorato. Come
penetrare nella terribile prigione di Danae? L’in-
gegnoso Zeus si trasformò in una pioggia d’oro,
e così riuscì a introdursi nella stanza sotterranea
filtrando dal tetto. La giovane raccolse la piog-
gia nella sua veste e da essa uscì il signore degli
dèi. Fu così che Danae diede alla luce Perseo, e lo
allevò nel più assoluto segreto. Per qualche an-
no riuscì a nascondere l’esistenza del piccolo ad
Acrisio. Un giorno il bambino si lasciò sfuggire
un grido mentre giocava a palla; sfortunatamente
proprio in quel momento il re si trovava nel cortile
del palazzo e lo udì.
Furioso, Acrisio fece uscire Danae dalla tomba
di bronzo, e la scoprì con il piccolo, che aveva ap-
pena quattro anni. Com’era possibile che qualcuno
fosse riuscito a trasgredire il suo divieto? C’era
di certo lo zampino della nutrice: sicuramente era
stata complice di Danae, e l’aveva aiutata a intro-
durre di nascosto nella prigione qualche bellimbu-
sto. La povera nutrice negò con tutto il fiato che
aveva in corpo, che lei non aveva fatto proprio
niente di male. Ma Acrisio non le credette, e la

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mise a morte. Poi tornò da Danae, la strattonò
con cattiveria e le chiese: «Avanti, confessa! Si
può sapere chi è il padre di questo bambino?».
«Zeus» disse lei. «Non prendermi in giro, voglio
la verità!». «È la verità! Devi credermi, padre
mio. Chi altro sarebbe riuscito a penetrare nella
prigione dove mi hai rinchiuso?». Acrisio era dub-
bioso ma, Zeus o non Zeus, la profezia non poteva
essere cancellata.
Si chinò e fissò in volto il grazioso nipotino:
«Questo bambino segnerà la mia rovina, non pos-
so correre rischi. Ma non posso sporcarmi le mani
con il sangue del mio sangue, dopotutto si tratta
di mia figlia e di mio nipote... e poi gli dèi si ar-
rabbierebbero con me, e non avrei più pace. Devo
trovare una soluzione per allontanarli da qui».
Ed ecco cosa fece lo scaltro re. Chiamò un fa-
legname abile e ingegnoso, e gli ordinò di costru-
ire una grande cassa di legno, dove fece entrare
Danae e Perseo. Poi la chiuse con un coperchio, la
sigillò per benino, e la fece gettare in mezzo al
mare, certo che i due avrebbero vagato tra i flutti
e sarebbero morti annegati o di stenti. Oppure si

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sarebbero salvati: quello che contava è che non
era più affar suo, gli dèi avrebbero deciso il de-
stino di sua figlia e suo nipote. Come un piccolo
naviglio, la cassa navigava sulle acque e arrivò nei
pressi di un’isoletta rocciosa di nome Serifo.
La fortuna proteggeva la donna e il piccolo fi-
glio di Zeus: il pescatore Ditti avvistò la strana
cassa che galleggiava tra le onde, la raccolse nella
sua rete e la trasse a riva, dove la aprì. Il piccolo
Perseo rideva delle rozze facce dei pescatori e dei
brutti Sileni, mezzi dèi e mezzi animali, che erano
accorsi per curiosare alla notizia di quello strano
ritrovamento. Danae invece, un po’ sollevata e un
po’ spaventata di trovarsi in mezzo a sconosciuti
in un luogo sconosciuto, si mise subito a racconta-
re la sua triste storia al pescatore, che fu felice di
accogliere e ospitare lei e il piccolo. I tre vissero
insieme felici per alcuni anni: Ditti si rivelò un
compagno gentile e rispettoso verso Danae, e fu
felice di aiutarla ad allevare Perseo.
Una donna bella come Danae, però, non passò
certo inosservata sull’isoletta di Serifo. Il re Po-
lidette, fratello di Ditti, le aveva messo gli occhi

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addosso e cercava una scusa per poterla sposare,
o, se necessario, farla sua schiava. Nel frattempo
però Perseo era cresciuto e vigilava sulla madre, e
non avrebbe mai permesso che quel bruto approfit-
tasse di Danae. Anche Ditti stava con gli occhi ben
aperti, per impedire a Polidette di strappargli la
compagna che ormai amava.
Il re di Serifo temeva il giovane Perseo, sapeva
che era il maggior ostacolo da superare per poter
avere Danae, e aspettava l’occasione per disfarse-
ne senza troppi problemi. L’occasione si presentò
quando Polidette decise di chiedere la mano della
famosa principessa Ippodamia, che adorava i ca-
valli e che non faceva altro che cavalcare e fare
corse. Così organizzò un grande banchetto e invi-
tò tutta la gioventù di Serifo. A questo genere di
feste gli invitati dovevano portare un regalo a chi
aveva organizzato il banchetto, e si faceva a gara
a chi offriva il regalo più bello. Nessuno avrebbe
osato presentarsi con un dono modesto o peggio a
mani vuote, sarebbe stato troppo umiliante!
Polidette approfittò dell’occasione per chiedere
a tutti gli invitati di portagli in dono dei caval-

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li; poi lui li avrebbe offerti a Ippodamia. Chiamò
anche Perseo, ben sapendo che il figlio di una po-
vera schiava allevato in una capanna di pescatori
non poteva certo procurarsi un dono tanto costo-
so. Era certo che dopo quell’umiliazione il giova-
ne avrebbe lasciato il suo regno e abbandonato la
madre al suo destino. Ma Perseo sorprese Polidet-
te promettendogli, al posto del cavallo, la testa
della Gorgone Medusa, un mostro dalle sembianze
di donna, che però aveva la barba e zanne di cin-
ghiale, e soprattutto il potere di trasformare in
pietra qualsiasi cosa incontrasse il suo sguardo.
Il re accolse beffardo l’offerta di Perseo: nessuno
era mai uscito vivo dall’incontro con quel potente
mostro.
Il giovane si pentì subito del suo gesto avventa-
to: come avrebbe potuto compiere una tale impre-
sa?
Per fortuna accorsero in suo aiuto due potenti
divinità: Atena figlia di Zeus, ed Ermes. Erano dèi
scaltri e pieni di risorse, e seppero dare a Perseo
dei preziosi consigli.
La prima cosa da fare era procurarsi l’equipag-

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giamento più adatto per l’impresa. Così le due di-
vinità accompagnarono il ragazzo nella grotta do-
ve vivevano tre ninfe, che gli fecero tre preziosi
doni: i calzari alati come quelli di Ermes, che gli
avrebbero permesso di volare ovunque avesse vo-
luto, l’elmetto di Ade, che rendeva invisibile chi lo
indossava, e una speciale bisaccia per conservare
la testa della Gorgone, che anche se era tagliata
conservava il potere di trasformare in pietra qua-
lunque cosa incrociasse il suo sguardo.
Così equipaggiato, Perseo si allontanò e rag-
giunse rapidamente la terra delle Gorgoni, che si
trovava al di là dell’Oceano, dove comincia il re-
gno della Notte. Era un paese di boschi e rocce,
privo di strade, dove non arrivava né la luce del
sole né della luna. Le Gorgoni vivevano in una
caverna custodita dalle vecchie Graie, dee semi-
cieche che facevano la sentinella a turno, poiché
avevano un solo occhio, che si scambiavano al mo-
mento del cambio della guardia. Perseo attese
quel momento e strappò loro di mano l’occhio. Si
mise l’elmo di Ade per rendersi invisibile, e si in-
trodusse nella grotta. A questo punto la dea Atena

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gli venne in soccorso: gli mostrò il riflesso della
testa di Medusa in uno scudo lucente, così l’eroe
poté tagliargliela senza rimanere pietrificato. Se-
condo la leggenda, dal collo della Gorgone schizzò
fuori Pegaso, il cavallo alato, che sarebbe stato
protagonista di tante avventure mitologiche. Per-
seo scappò più veloce che poté, perché le altre due
Gorgoni si lanciarono al suo inseguimento, pazze
d’ira per la morte della sorella.
Ma Perseo era troppo veloce, così riuscì a semi-
narle senza troppa fatica.
Compiuta l’impresa, sulla via del ritorno si tro-
vò a sorvolare l’Etiopia, dove scorse una bellissi-
ma ragazza legata a una costa rocciosa. Che cosa
ci faceva lì? La ragazza era la principessa Andro-
meda, figlia di Cefeo e Cassiopea, regina così va-
nitosa da sostenere che la sua bellezza superava
quella delle ninfe. Poseidone, che aveva sposato
Anfitrite, anche lei una ninfa, si adirò moltissimo e
inviò un orribile mostro marino a infestare le terre
di Cefeo e Cassiopea. Un oracolo suggerì di ab-
bandonare la loro figlia Andromeda al mostro per
placarlo, ma Perseo arrivò giusto in tempo per uc-

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cidere il mostro e mettere in salvo la principessa,
che portò con sé in volo fino all’isola di Serifo.
Il banchetto di Polidette era ancora in pieno
svolgimento, quando Perseo piombò nel bel mezzo
della festa annunciando che nel sacco che portava
sulle spalle c’era la testa della Gorgone Medusa.
Polidette, incredulo, gli diede dell’impostore e ra-
dunò tutti gli abitanti dell’isola per accusare Per-
seo dell’inganno.
Allora l’eroe tolse la testa dal sacco e la mostrò
come prova al popolo riunito. Da allora Serifo di-
ventò una delle isole più rocciose dell’arcipelago,
perché tutti i presenti furono tramutati in pietra
dallo sguardo della Gorgone.
Perseo consacrò la testa di Medusa alla dea Ate-
na, che da allora la portò sul petto. Ma non fu
l’eroe a diventare re di Serifo, bensì il pescatore
Ditti. Perseo fece ritorno ad Argo con Andromeda
e Danae: aveva infatti intenzione di riconciliarsi
con Acrisio. Il re di Argo però nel frattempo si era
rifugiato nella città di Larissa, per timore di ve-
nire ucciso dal nipote come previsto dall’oracolo;
Perseo lo raggiunse e lo convinse delle sue buone

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intenzioni, tanto che si organizzò una festa per
la riconciliazione. Ma durante i festeggiamenti, fu
indetta una gara di lancio del disco, e Perseo non
poté evitare di parteciparvi. Fu così che il potente

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lancio dell’eroe colpì il povero Acrisio, procuran-
dogli una ferita che si rivelò mortale. La profezia
si era avverata nel modo più imprevedibile e dram-
matico.

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le avventure
di teseo

I
l re di Atene, Egeo, aveva già avuto due mogli
ma era ancora senza figli. Allora andò dall’o-
racolo di Delfi, e chiese alla profetessa che parla-
va a nome del dio: «Vorrei avere un figlio, come
posso fare? Atene ha bisogno di un erede al tro-
no!». «Ti dico che un figlio lo avrai, ma non na-
scerà ad Atene...» rispose l’oracolo.
Egeo allora si avviò verso casa, cercando di in-
terpretare le misteriose parole della sacerdotes-
sa. Sulla via del ritorno, però, fece tappa a Tre-
zene, una piccola cittadina non troppo lontana da
Atene. Il suo re era l’ambizioso Pitteo, che aveva
una figlia giovane e bella, Etra, e pensò che con
un semplice stratagemma poteva diventare lei la
madre del nuovo re di Atene che, com’era noto,
ancora non aveva un erede. Fu così che re Pitteo,

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saputo del viaggio di Egeo, lo invitò a casa sua,
diede un grande banchetto, ubriacò per benino il
collega e gli fece passare la notte con sua figlia
Etra.
La mattina dopo Egeo, prima di tornarsene ad
Atene, lasciò alla ragazza la sua spada e i suoi
sandali, e sopra questi segni di riconoscimento mi-
se una grande pietra. Poi disse a Etra che se aves-
se avuto un figlio così forte da poter togliere la
pietra, questi avrebbe dovuto prendere la spada e
i sandali e andare ad Atene: così lui l’avrebbe ri-
conosciuto e ne avrebbe fatto il suo erede.
In effetti Etra ebbe un figlio che chiamò Teseo.
Quando il ragazzo ebbe sedici anni, Etra gli parlò
della profezia del padre, e gli indicò dove si trova-
va la pietra che nascondeva gli oggetti che avreb-
bero deciso il suo destino. Teseo provò ad alzare
la pietra e... sì, era diventato abbastanza forte da
sollevarla! Per il ragazzo era giunto il momento
di tornare ad Atene, ed andare incontro al suo de-
stino di re. Allora prese i sandali e la spada e
partì per raggiungere la grande città. Ma la stra-
da per Atene era piena di pericoli: soprattutto,

35
era infestata da briganti e assassini. Uno di questi
era il crudele Scirone, che se ne stava appostato
in alto su una roccia, e quando passava qualcuno
lo costringeva a lavargli i piedi come pedaggio.
In realtà, appena il poveretto di turno si chinava,
Scirone gli dava una pedata e quello ruzzolava in
acqua, dove era in agguato una tartaruga gigante
che poteva mangiarsi un uomo in un sol boccone!
Ma quando Scirone tentò lo stesso trucco con Te-
seo, questi fu più svelto di lui: gettò la bacinella
in testa a Scirone, e con una gran pedata lo spedì
dritto tra le fauci della tartaruga gigante.
Scirone fu solo uno dei brutti ceffi che Teseo mi-
se fuori combattimento. Ben presto la sua fama di
eroe invincibile arrivò ad Atene, dove regnava an-
cora Egeo. Ma il vecchio re aveva sposato la stre-
ga Medea, che grazie alle sue arti magiche aveva
capito che il misterioso eroe in arrivo era l’erede
al trono. Lei però aveva altri progetti: aveva in-
fatti un figlio, e sperava di convincere Egeo a no-
minarlo suo erede al posto di Teseo. Allora Medea
fece di tutto per convincere il marito che Teseo
veniva con l’intenzione di ucciderlo e rubargli il

36
trono, e quindi bisognava assolutamente toglier-
lo di mezzo. Egeo si lasciò convincere. I due or-
ganizzarono un sontuoso banchetto di benvenuto,
fingendo di accogliere Teseo con tutti gli onori.
In realtà, appena il giovane eroe entrò nel luogo
dove si svolgeva il ricevimento, gli offrirono una
coppa piena di veleno. Prima di bere, però, Teseo
sguainò la spada di fronte a tutti: voleva mostra-
re subito al padre quel segno di riconoscimento.
Egeo riconobbe la propria spada, e capì che Teseo
era suo figlio. «Non bere!» gli gridò, e con un
colpo gli rovesciò il bicchiere. Fu così che il re di
Atene poté abbracciare il figlio, e cacciò per sem-
pre Medea dalla città.

37
teseo e il labirinto
del minotauro

L
e avventure di Teseo non erano certo fini-
te, anzi, erano appena all’inizio! A causa di
un antico torto, Atene doveva infatti pagare un
terribile tributo: ogni nove anni doveva mandare
sull’isola di Creta sette ragazzi e sette ragazze.
I poveretti venivano abbandonati nel labirinto che
si trovava nella città di Cnosso, dove erano co-
stretti a vagare senza poter trovare l’uscita. Nel
labirinto si nascondeva una minaccia terribile: il
Minotauro, un mostro che aveva il corpo di uomo e
la testa di toro, che si cibava di carne umana e che
uccideva crudelmente tutti i prigionieri del labi-
rinto che prima o poi si imbattevano in lui.
Appena Teseo venne a sapere di questa pratica
crudele, l’eroe decise di partire per Creta e si of-
frì volontario per far parte del gruppo di giovani

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mandati nel labirinto. Il suo scopo era uccidere il
Minotauro. Ma anche se fosse riuscito a sconfig-
gere il mostro, come avrebbe fatto a trovare la via
d’uscita nel labirinto? Si raccontava che il re di
Creta, Minosse, l’avesse fatto progettare dall’ar-
chitetto Dedalo apposta per chiudervi dentro il
Minotauro. Solo che il segreto del labirinto dove-
va morire con il suo progettista, e Minosse decise
di chiudere nel labirinto Dedalo, insieme al figlio
Icaro.
Certo, Dedalo aveva progettato il labirinto, ma
provare a uscirne dall’interno era praticamente
impossibile. Fu proprio Icaro a escogitare un modo
per scappare: se non si poteva trovare la via d’u-
scita via terra, perché non provare via aria? Il ra-
gazzo pensò infatti di costruirsi un paio di ali con
un’intelaiatura di legno, cui fissò con la cera tante
piume di uccello. E davvero Icaro riuscì ad alzarsi
in volo sopra il labirinto e a fuggire lontano. Pur-
troppo però volle avvicinarsi troppo al sole, tanto
che la cera che teneva insieme le piume si sciolse e
il poveretto precipitò. La fine di Icaro contribuì a
rendere tristemente famoso il labirinto: a quanto

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pareva, non c’era proprio modo di uscirne. Senza
contare il Minotauro in agguato...
Fu proprio la figlia di Minosse, Arianna, a indi-
care a Teseo un trucco per orientarsi nel labirin-
to: gli regalò uno dei gomitoli di filo che usava
per filare, e gli consigliò di srotolarlo man mano
che procedeva nel labi-
rinto. Per ritrovare il
punto in cui era entra-
to non doveva fare al-
tro che ripercorrere la
strada che aveva fatto
all’andata seguendo il
filo. Fu così che Teseo
si addentrò nel labirin-
to, affrontò e uccise il
Minotauro, e trovò la
via d’uscita dal labi-
rinto grazie al filo di
Arianna. Il futuro re di
Atene poté così tornare
a casa vittorioso.
Commise però un er-

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rore fatale: suo padre Egeo gli aveva chiesto di
issare le vele bianche, se l’impresa avesse avuto
successo. Purtroppo però Teseo se ne dimenticò,
e quando da lontano Egeo vide le vele nere pensò
che Teseo fosse morto, e si buttò in mare. Da allo-
ra, il mare della Grecia si chiama Mar Egeo.

41
LE AVVENTURE
DI ULISSE

U
lisse era uno dei guerrieri più famosi e stimati
della Grecia, ma non per la sua forza o per la
sua abilità nelle armi, ma per la sua intelligenza e
la sua astuzia, che gli permettevano di cavarsela
in tutte le situazioni, anche quando tutto sembra-
va ormai perduto. Perciò quando fu il momento di
partire per la guerra, i greci mandarono il vecchio
e saggio Nestore a chiedere a Ulisse di unirsi alla
spedizione.
A quel tempo Ulisse, che regnava sull’isola di
Itaca, si era sposato da poco con Penelope e ave-
va appena avuto un figlioletto, Telemaco. Non era
proprio il momento migliore per andare in guerra!
Naturalmente Ulisse aveva già pronto uno dei suoi
stratagemmi: decise di fingersi pazzo. Così appe-
na lo avvertirono dell’arrivo di Nestore, indossò

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delle vesti sporche e lacere, attaccò l’aratro a un
asino e a un bue e si mise a camminare all’indietro
davanti all’aratro e a spargere sassi al posto dei
semi di grano, come se fosse completamente uscito
di senno.
Intanto tutti gli altri, suoi complici, dissero a
Nestore: «Poveri noi, Ulisse ha perso la testa, non
è più lui!». Il vecchio però intuì che poteva essere
uno dei trucchi per i quali Ulisse era famoso: «C’è
un solo modo per scoprirlo» pensò. Allora prese
il piccolo Telemaco ancora in fasce e lo depose fra
lui e l’aratro, proprio nel solco in cui avanzavano
l’asino, il bue e la lama dell’aratro.
Allora Ulisse si precipitò a prendere in braccio
il figlioletto, e il suo inganno venne smascherato:
«Lo sapevo che non eri pazzo! E adesso vieni, non
hai più scuse: c’è una guerra da combattere e ab-
biamo bisogno della tua famosa astuzia!» disse a
quel punto Nestore.
E così anche Ulisse partì e partecipò alla guer-
ra, che durò ben dieci anni: i greci tennero sotto
assedio la città di Troia, ma la città era ben di-
fesa da alte torri, praticamente inespugnabili. Le

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battaglie si svolgevano alle porte della città, ma
nessuno dei due eserciti riusciva a prevalere defi-
nitivamente sull’altro: un giorno avevano la me-
glio i troiani, quello dopo i greci. Nel frattempo i
guerrieri morivano, nessuno voleva arrendersi e il
tempo passava, senza che si sapesse cosa fare per
chiudere la partita.
Fu proprio Ulisse a sbloccare la situazione, gra-
zie a una delle sue idee brillanti. Consigliò ai gre-
ci di far costruire in gran segreto un gigantesco
cavallo di legno, vuoto all’interno, dove potevano
nascondersi molti uomini. Quindi i greci tornarono
alle loro navi, abbandonarono il campo di batta-
glia, e lasciarono solo il grande cavallo di legno
alle porte della città.
I troiani pensarono che fosse un dono degli dèi,
o una specie di portafortuna abbandonato dai gre-
ci, che sicuramente avevano deciso di ritirarsi. Al-
lora portarono il cavallo di legno dentro le mura,
e quella notte diedero grandi feste e banchetti,
sicuri di essere riusciti a vincere il nemico che gli
dava del filo da torcere da così tanto tempo.
Nel grande cavallo, però, erano nascosti in si-

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lenzio i migliori guerrieri greci. Non appena sen-
tirono che sulla città erano calati il silenzio e
l’oscurità, aprirono la botola sotto la pancia del
cavallo e si riversarono per le strade della città.
Si precipitarono quindi a spalancare le grandi por-
te di Troia, all’esterno delle quali si era raduna-
to l’intero esercito greco, che nel frattempo era
sceso di nuovo dalle navi ed era pronto a invadere
la città e a conquistarla. Fu così che Troia venne
conquistata e i greci poterono tornare vittoriosi in
patria.

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46
47
IL LUNGO VIAGGIO
DI ULISSE

P
er Ulisse, però, il rientro si annunciava tutt’al-
tro che rapido. Doveva vagare per mare per
molti anni, e vivere moltissime avventure prima di
poter riabbracciare la moglie Penelope e il figlio
Telemaco che lo aspettavano a Itaca.
Ulisse partì da Troia con dodici navi, e stava
quasi per avvistare la costa greca quando una ter-
ribile tempesta allontanò la sua flotta dalle ac-
que conosciute. Dopo nove giorni, approdò su una
spiaggia e mandò in esplorazione tre marinai, per
cercare di capire se quella terra fosse abitata, e
se i suoi abitanti avessero intenzioni ostili oppure
fossero pronti ad aiutarli e dar loro del cibo.
In realtà, quello era il paese dei mangiatori di
loto, un fiore magico che, se mangiato fa dimenti-
care tutto. I marinai mandati in avanscoperta fu-

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rono accolti con gentilezza dai mangiatori di loto:
«Venite avanti, stranieri, non temete, mangiate un
po’ del nostro cibo». Felici e sorpresi, i marinai
non se lo fecero ripetere due volte: accettarono di
mangiare quel fiore magico e puf!... si dimentica-
rono di tutto e non ebbero più voglia di tornare a
casa. Quando Ulisse li trovò, chiese loro: «E allo-
ra, che cosa avete visto?».
«Loto, loto!».
«Che cosa? Loto?».
«Loto, loto!» risposero: infatti ormai non ri-
cordavano nient’altro.
«Forza, venite, è meglio che torniamo alla nave
adesso» insisteva Ulisse.
«No, no, restiamo qui!». Senza più passato né
futuro, gli uomini che avevano mangiato il loto
avevano ormai un’idea fissa: «Non vogliamo ri-
partire, lasciateci qui!». A Ulisse non restò che
imbarcarli di peso e riprendere il mare.

La notte successiva, arrivarono vicino a un’altra


costa. Era una notte scurissima, non c’era il più
piccolo raggio di luce. Anche il vento sembrava

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essere cessato, e le correnti li sospinsero sulla
spiaggia di un’isola sconosciuta. La mattina dopo,
al sorgere del sole, videro che poco lontano sorge-
va un’isola più grande, ripida e rocciosa, costella-
ta di immense grotte collegate da stretti sentieri.
Era la terra dei Ciclopi, giganti con un occhio solo
che non conoscevano l’agricoltura e l’arte della
navigazione. Vivevano di pastorizia, e ciascuno di
loro se ne stava isolato in una grotta con la propria
famiglia. Vivevano più a lungo degli uomini e non
conoscevano le leggi dell’ospitalità. Anzi, il loro
concetto di ospitalità era ben diverso da quello di
Ulisse e i suoi compagni, come vedremo presto. I
marinai avrebbero voluto ripartire subito per non
avere a che fare con i Ciclopi, ma Ulisse, che oltre
a essere scaltro era anche curioso, rispose: «Eh
no, voglio proprio vederli, questi Ciclopi!».
Allora prese con sé alcuni uomini, e si inoltrò
per un sentiero che si arrampicava tra le rocce.
La piccola spedizione giunse infine di fronte a una
delle immense grotte che si vedevano dal mare.
Davanti c’era un recinto per gli animali, e dentro
la caverna c’erano latte e formaggio. «Ti prego,

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prendiamo un po’ di cibo e andiamocene subito»
provarono ancora a supplicarlo i suoi uomini, ma
Ulisse fece loro cenno di nascondersi: stava arri-
vando il Ciclope.
In un primo momento, la gigantesca creatura
non vide nemmeno gli uomini, impegnata com’era
a far rientrare le pecore, a mungerle, e a dar loro
da mangiare. E poi gli esseri umani erano picco-
lissimi in confronto a lui. Ulisse e i suoi compagni
erano rannicchiati in fondo alla grotta e battevano
i denti per la paura, quando per caso il Ciclope li
scorse. «Be’, e voi chi siete?». Naturalmente a
rispondere fu l’astuto Ulisse: «Siamo greci, tor-
niamo dalla guerra di Troia, ma la nostra nave è
stata distrutta. Siamo qui a invocarti in nome di
Zeus: dacci ospitalità!».
«Certo, subito: io sono Polifemo, e posso ospi-
tarvi nella mia pancia, di posto ne ho tanto!».
E prima che potessero anche solo tentare di
scappare, il Ciclope afferrò due uomini per i pie-
di, li sbatté l’uno contro l’altro e se li mangiò. La
curiosità di Ulisse li aveva proprio messi nei guai!
E adesso era lui a dover trovare il modo per tirarli

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fuori da quella pericolosa situazione. Infatti il Ci-
clope chiuse la porta della grotta con un immenso
masso, e cominciò a mangiarsi i malcapitati mari-
nai, due al mattino e due alla sera.
Ulisse aveva portato con sé un grosso otre di
buon vino da offrire in dono a un eventuale ospite,
il Ciclope lo notò e gli disse: «Senti un po’, tu...
a proposito, come ti chiami?».
«Il mio nome è Nessuno» rispose l’eroe.
«Che ne dici di darmi un po’ di quel vino? In
cambio ti farò io un dono».
Ulisse gli diede il vino, e il Ciclope se lo bevve
tutto, un sorso dopo l’altro. «Bene, era proprio
ottimo» disse alla fine. «Ed ecco il mio dono: ti
mangerò per ultimo, dopo tutti i tuoi compagni».
Ma quello era un vino speciale, fortissimo anche
per il Ciclope, che se ne era bevuto l’equivalente
di tre boccali da Ciclope: dopo un po’ si sdraiò e
si mise a russare pesantemente. Per Ulisse era il
momento di agire: prese un palo in legno d’ulivo,
lo appuntì per bene e lo arroventò sul fuoco, e
con l’aiuto dei suoi compagni lo conficcò nell’u-
nico occhio del Ciclope addormentato. Svegliato

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da quel dolore terribile, il Ciclope iniziò a urlare
di dolore e a chiamare a gran voce i suoi compa-
gni nelle grotte vicine. Questi accorsero in aiuto
di Polifemo, che gridava: «Aiuto, aiuto, mi hanno
accecato, salvatemi!»
«Chi ti ha fatto questo?» gli chiesero.
«Nessuno!».
«Allora non ci seccare, se nessuno ti ha fatto
niente!» e se ne andarono.
La situazione per Ulisse e compagni non sem-
brava molto migliorata: la porta della caverna era
ancora chiusa dalla gigantesca pietra e loro non
potevano scappare. Allora Ulisse fece sistemare i
suoi uomini sotto le pance dei montoni del Ciclope
e li legò alle zampe delle bestie.
La mattina, infatti, il Ciclope aprì la porta della
caverna per far uscire le sue pecore al pascolo, ma
si sedette sulla soglia e si mise a tastare il dorso
dei montoni per vedere se c’era qualcuno seduto
sopra. Non gli passava nemmeno per la testa che i
greci potessero essere sotto le pecore, legati con
i legacci nascosti nel loro manto lanoso. Restava
solo Ulisse, che prese il grosso ariete del gregge e

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si aggrappò sotto la sua pancia con la forza delle
braccia. Ed ecco che i greci erano di nuovo liberi!
Ulisse slegò i compagni e si precipitò con loro alla
nave, pronti a salpare subito.
Appena la nave si staccò
dalla riva, però, il nostro
eroe non rinunciò a pren-
dere in giro il Ciclope, e lo
chiamò a gran voce. Poli-
femo allora afferrò una
grossa pietra e la lanciò
nella direzione della voce
del suo nemico. Il masso
cadde vicinissimo alla na-
ve, facendola ondeggiare
pericolosamente: poco ci
mancò che i poveri marinai
morissero così, dopo essere
scampati avventurosamen-
te al Ciclope!
Ma il vanitoso Ulisse
continuò: «Polifemo, se ti
chiedono chi è stato così

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astuto da accecarti, di’ pure che sono stato io,
Ulisse, il glorioso re di Itaca, vincitore a Troia!».
Le navi proseguirono il loro viaggio, finché ar-
rivarono in vista di una strana isola: galleggiava

55
sulla superficie del mare, e si muoveva continua-
mente, trasportata dalle onde. Era circondata da
alte mura di bronzo e da scogliere ripide e imper-
vie, ma al centro c’era una pianura: lì sorgeva la
casa di Eolo, il dio dei venti.
Eolo viveva in perfetta solitudine, in compagnia
dei suoi sei figli e delle sue sei figlie, e tutti e tre-
dici si annoiavano un bel po’, visto che non vede-
vano mai nessuno. Così non appena Ulisse arrivò,
lo accolsero con tutti gli onori e lo pregarono:
«Raccontaci cos’è successo ultimamente nel mon-
do, è un bel po’ che non ne sappiamo nulla». Ulis-
se non se lo fece ripetere due volte e gli raccontò
della guerra di Troia e delle sue avventure, mentre
Eolo e la sua famiglia lo ascoltavano rapiti.
Per ricompensarlo delle sue belle storie gli pro-
misero di aiutarlo a tornare finalmente a casa.
«Prendi questo otre magico: dentro ci metterò se-
mi di tutti i venti che governo. Adesso torna alla
tua nave, alza le vele e aspetta: ti manderò un
venticello lieve, uno zefiro che ti riporterà dritto
a Itaca». Ulisse stava per andarsene tutto lieto e
contento quando Eolo lo fermò: «Aspetta, non ti

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ho detto la cosa più importante! Non dovrai aprire
l’otre per nessun motivo, siamo intesi? Mi racco-
mando, ascolta le mie parole!».
Ulisse fece ritorno alla nave, aspettò un po’ fin-
ché, proprio come aveva detto Eolo, si levò una
brezza gentile e favorevole, tanto che ben pre-
sto al nostro eroe pareva già di scorgere le amate
montagne della sua isola: «Eccoli, i miei monti
simili a uno scudo posato sul mare. Ce l’ho fatta!
E questo venticello è così dolce che mi fa venire
sonno... be’, direi che mi merito un po’ di riposo»
pensò Ulisse, e si addormentò.
I suoi compagni, invidiosi del dono ricevuto da
Ulisse e approfittando del suo sonno, non avevano
smesso di chiedersi quale fosse il misterioso con-
tenuto dell’otre di Eolo: «Di sicuro conterrà pietre
preziose, e oggetti d’oro e d’argento. Apriamolo e
vediamo, che male c’è se ci diamo solo un’occhia-
ta?».
Così strapparono il filo d’argento che teneva
chiuso l’otre. Tutti i venti del mondo scapparono
subito fuori, e si scatenarono sopra le navi, ripor-
tandole all’isola di Eolo. Quando li vide ritornare,

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il dio dei venti scosse la testa e si rifiutò di aiutar-
li ancora: «Non ditemi che non ve l’avevo detto!
A questo punto è evidente che avete qualche dio
contro di voi, e non ho nessuna voglia di mettermi
in mezzo». Fu così che li lasciò a vagare nuova-
mente sul mare, verso nuove avventure.

Navigarono ancora per giorni e giorni, sempre


molto lontani da casa, finché arrivarono su un’al-
tra isola, la terra dei Lestrigoni. «Finalmente una
terra civilizzata!» dissero i compagni di Ulisse, ti-
rando un sospiro di sollievo, «quest’isola ha pro-
prio un bel porto, noi andiamo ad attraccare lì».
Ma Ulisse era sospettoso, e preferì nascondere
la sua nave sotto un promontorio vicino, in attesa
di capire che intenzioni avessero gli abitanti del
luogo. Quindi mandò in avanscoperta tre marinai,
che si inoltrarono nell’isola sconosciuta.
Dopo un po’, gli uomini scorsero alcune case,
poi una città. Nella piazza incontrarono una ra-
gazza molto bella: peccato che fosse alta come
una torre, almeno sei volte loro! La ragazza si ri-
volse loro con gentilezza: «Mio padre, il re, vi sta

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aspettando, vi ha visto arrivare da lontano e non
vede l’ora di conoscervi».
Rassicurati, i marinai la seguirono fino a palaz-
zo, dove li attendeva il gigantesco re dei Lestri-
goni, che non appena li vide, ne afferrò due e li
divorò. Il terzo tornò alle navi a gambe levate,
gridando ai greci di salpare subito: a quanto pa-
reva, questi Lestrigoni “civilizzati” non avevano
abitudini alimentari tanto diverse da quelle dei Ci-
clopi! Le navi presero il mare in tutta fretta, ma
era troppo tardi: i Lestrigoni si radunarono sulla
costa e lanciarono loro delle gigantesche pietre,
spezzando le imbarcazioni.
Per i marinai che cadevano in acqua non c’era
scampo. I Lestrigoni li raccolsero dall’acqua come
se fossero tanti pesci gustosi, e li misero da parte
in attesa di farne un gustoso banchetto. Solo la
nave di Ulisse si era salvata, perché lui non l’a-
veva lasciata indifesa nel porto. Le dodici navi
erano colate tutte a picco, e ormai il nostro eroe
era costretto a proseguire il viaggio in compagnia
dell’equipaggio della sua sola nave.
Dopo qualche giorno, la nave superstite trovò

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riparo in un approdo sicuro su una nuova isola sco-
nosciuta. Per due giorni Ulisse e i suoi compagni
non osarono addentrarsi nell’isola, e rimasero na-
scosti a ripensare a ciò che gli era accaduto e a
riprendersi dalle loro fatiche: erano rimasti in po-
chi ormai, ed erano molto provati. Il terzo giorno
però Ulisse decise di salire su un’altura per farsi
un’idea del posto dove erano capitati, e scorse in
lontananza una casetta; dal camino usciva del fu-
mo. Valeva senz’altro la pena di dare un’occhiata!
Ulisse stavolta mandò in esplorazione ventidue
marinai, che si incamminarono per la vallata. Ad
un certo punto scorsero delle case, strette intorno
alla casina dal camino fumante avvistata da Ulis-
se. Ma nel frattempo si avvicinarono molti animali
feroci: leoni e lupi, che però si facevano avanti
senza paura e senza dare segni di minaccia, docili
come cagnolini in cerca di carezze. «Sta’ a vede-
re che in questo posto le cose vanno a rovescio: le
bestie feroci sono docili e addomesticate» pensa-
rono, e si avvicinarono ancora di più alla casa. So-
lo il capo della squadra, Euriloco, rimase indietro,
perché sospettava una trappola.

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Una donna li vide e li invitò a entrare e ad acco-
modarsi come suoi ospiti, e i marinai accolsero vo-
lentieri l’invito della bella signora. Non sapevano
ancora che si trattava della maga Circe, figlia del
Sole, terribile dea dalla voce umana, e che stava
per far loro un incantesimo. Non appena si sedet-
tero, Circe offrì loro una bevanda in cui oltre a
latte e miele versò un filtro magico: i greci la bev-
vero, la maga li toccò con la sua bacchetta magica
e in men che non si dica si ritrovarono trasformati
in porci a tutti gli effetti. Subito Circe li rinchiuse
in un recinto e diede loro un po’ di ghiande.
Ben nascosto, il povero Euriloco aveva assistito
con orrore alla magica trasformazione, e appena
vide che fine avevano fatto i suoi compagni scappò
a gambe levate a riferire tutto a Ulisse.
L’eroe non esitò un secondo: prese le sue ar-
mi, e si avviò sulle tracce dei suoi compagni. Ma
sulla strada incontrò l’astuto dio Ermes, uno dei
suoi protettori, che lo mise in guardia: «Aspetta,
dove credi di andare? Circe ha trasformato i tuoi
compagni in porci, e se berrai la sua pozione suc-
cederà lo stesso anche a te. Mangia questa radice,

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è un antidoto al suo filtro magico: così quando ti
farà bere il suo intruglio e ti toccherà con la sua
bacchetta, tu non ti trasformerai in porco come
tutti gli altri, e anzi: tu minacciala con la spada. E
mi raccomando, non dovrai cedere subito alle sue
lusinghe, ma dovrai farle promettere solennemen-
te che non userà i suoi incantesimi su di te».
Ulisse mangiò la radice nera che Ermes gli aveva
offerto e continuò il cammino, finché non arrivò
alla casa di Circe. Raccogliendo tutto il suo co-
raggio, la chiamò e la bella dea venne ad aprirgli.
Come da copione, lo fece accomodare, gli offrì la
bevanda stregata e poi lo sfiorò con la bacchetta
magica: «Avanti, vai a sdraiarti nel porcile con gli
altri!».
Come predetto dal dio, l’eroe non si trasformò
in porco dopo aver bevuto la pozione, e minacciò
con la spada la bella Circe: «A noi due, strega!
Hai visto che con me i tuoi trucchi non funziona-
no!».
Ora era la strega ad essere spaventata, e si get-
tò ai piedi di Ulisse dicendo: «Chi sei tu, il primo
che ha resistito alle mie pozioni? Solo una mente

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capace di vincere gli inganni come quella di Ulis-
se... Ecco, non puoi essere che Ulisse! Ermes me
l’aveva predetto, che saresti venuto da me». Do-
po un po’ la strega parve ricomporsi, si rialzò in
piedi e si riassettò la veste, e continuò con voce
suadente: «E sì, mi era stato predetto che su di te,
Ulisse, la mia pozione non avrebbe fatto effetto.
Tu mi piaci molto, perché non resti qui con me, al-
meno un po’?».
A Ulisse l’idea non dispiaceva, ma non poteva
certo fidarsi di quella maga, così, come Ermes gli
aveva consigliato, le disse: «Prima giurami solen-
nemente che non mi farai alcun male, e ritrasfor-
merai i miei compagni in esseri umani».
«Te lo prometto» rispose Circe, e fu di parola.
I porci tornarono umani e Ulisse si fermò presso
Circe per molti mesi. La maga diede a Ulisse e ai
suoi compagni belle vesti, si prese cura di loro con
le sue ancelle, e finalmente ebbero la possibilità di
riposarsi per un po’ dalle loro faticose avventure.
Dopo un anno, però, gli uomini di Ulisse lo con-
vinsero che era ora di tornare a casa. Circe pro-
mise subito che non li avrebbe trattenuti contro la

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loro volontà, e fu di grande aiuto all’eroe perché
gli spiegò come doveva fare per non perdersi di
nuovo. «Prima di tutto devi raggiungere le porte
degli Inferi, il regno di Ade. Lì dovrai invocare le
ombre dei morti e cercare l’indovino Tiresia. Lui ti
dirà che cosa ti riserva il futuro. Poi torna qui, e ti
spiegherò come superare gli ostacoli che ti atten-
dono».
Ma Ulisse rispose angosciato: «Nessuno è mai
tornato dal regno di Ade e della sua compagna
Persefone. Chi guiderà il nostro viaggio?».
«Non temere: tu alza le vele e lascia che la
nave sia guidata dal vento di Borea. Quando ve-
drai una costa bassa dove sorgono alti pioppi e
salici, lascia lì la tua nave e raggiungi le bocche
dell’Ade. Dovrai fermarti all’incrocio tra due fiu-
mi infernali, il Cocito e l’Acheronte: lì sorge una
roccia, dove, dopo aver pregato per le anime dei
defunti, ucciderai una bestia e ne serberai il san-
gue per Tiresia. Allora l’anima di Tiresia arriverà
e ti dirà quello che devi sapere sul tuo viaggio e il
tuo destino».
Fu così che Ulisse e compagni oltrepassarono il

64
fiume Oceano, che secondo i greci circondava il
mondo come un anello d’acqua e ne delimitava i
confini. Oltre l’Oceano c’era il paese dei Cimme-
rii, sempre avvolto da nebbie e da nuvole. Lì, dove
il sole non sorge mai, avvolte da una notte eterna,
si trovavano le bocche di Ade, l’ingresso al mondo
sotterraneo che custodisce le anime dei defunti.
Ulisse seguì tutte le indicazioni di Circe, e le
ombre dei morti salirono tutte insieme, attirate
dall’odore del sangue. Tra le ombre invocate che
emersero dal fondo degli inferi, Ulisse riconobbe
Tiresia, l’indovino cieco, il quale gli annunciò che
Poseidone, il dio del mare, ormai gli era nemico
perché aveva accecato suo figlio Polifemo. E ag-
giunse: «Tuttavia tu e i tuoi compagni potreste
arrivare sani e salvi in patria se mi ascolti. Quan-
do arriverai nell’isola Trinacria, dove pascolano le
vacche sacre al Sole, non provare nemmeno a toc-
carle, né tu né i tuoi compagni, altrimenti su di te
si abbatteranno le peggiori disgrazie che tu possa
immaginare. A casa troverai molti uomini arrogan-
ti che vorrebbero prendere il tuo posto sul trono:
corteggiano tua moglie, vivono nella tua casa dila-

65
pidando i tuoi beni. Ma quando sarà il momento tu
li punirai».
Ora Ulisse sapeva ciò che aveva bisogno di sa-
pere. Prima di andarsene, però, approfittò della
possibilità di parlare con le ombre dei morti di al-
cuni amici, tra cui anche Achille. Ma ve n’era una
che riconobbe con un tuffo al cuore: Anticlea, sua
madre, che aveva lasciato a Itaca viva e in salute,
prima di partire per Troia. Tiresia gli consigliò di
lasciarla avvicinare al sangue, così anche lei, come
tutte le anime defunte, avrebbe potuto riconoscer-
lo e raccontargli verità sul passato e sul futuro.
Ulisse seguì le istruzioni di Tiresia e si rivolse alla
madre, che gli rispose: «Figlio mio, il mio povero
cuore non ha retto al dolore per la tua lunga as-
senza. Penelope ti è ancora fedele, ed è ancora
tuo figlio Telemaco a governare in tua assenza».
Rivedere la madre in quelle condizioni fu davvero
straziante per Ulisse. Per tre volte provò ad ab-
bracciarla, ma per tre volte afferrò solo la nebbia:
ormai di lei era rimasto solo uno spirito che non si
poteva toccare, non era più fatta di carne e ossa.
Dopo aver parlato con le ombre di altri eroi della

66
guerra di Troia, Ulisse decise di partire, preso da
una pallida angoscia, dopo quella vicinanza così
prolungata con i morti: «Meglio andarsene, prima
che la divina Persefone non decida che la Morte
venga a prendere anche me...» pensò.

Ulisse tornò quindi da Circe, che gli rivelò come


affrontare i pericoli che lo aspettavano. Prima di
tutto, la sua nave sarebbe dovuta passare vicino
all’isola delle Sirene. Per i greci, le Sirene non
erano degli esseri con il busto di una donna bel-
lissima e la coda di pesce, come nelle nostre favo-
le, ma erano donne-uccello: al posto delle gambe
avevano gli artigli di un uccello, e come gli uccelli
possedevano le ali. Stavano adagiate su un prato,
circondate dai resti degli uomini che avevano fatto
a pezzi, perché non erano riusciti a resistere al
loro canto. «Ascoltami bene» disse Circe a Ulisse
«se le ascolti sei morto. Ecco che cosa devi fare:
riscalda un po’ di cera d’api, fanne delle palline
e infilale nelle orecchie dei tuoi marinai, così non
sentiranno nulla. Tu ascolta pure il loro canto,
se vorrai, ma dovrai dire ai tuoi uomini di legarti

67
stretto all’albero della nave. Quando, passando
davanti all’isola, sentirai il loro canto, li implore-
rai di sciogliere i nodi per tuffarti a raggiungere
le Sirene, ma i tuoi uomini dovranno stringere an-
cora di più i nodi che ti legano».
Ulisse e i suoi uomini lasciarono l’isola di Cir-
ce e arrivarono nei pressi dell’isola delle Sirene.
Ulisse seguì le istruzioni della maga e diede ordine
di fare forza sui remi, per superare l’isola a tutta
velocità. Ciò nonostante, ben presto la voce delle
pericolose divinità si udì forte e chiara. Si rivol-
gevano direttamente a Ulisse, con le loro voci me-
lodiose, e i volti bellissimi; soprattutto sapevano
bene quali erano i punti deboli dell’eroe: «Vieni
da noi, glorioso Ulisse, avvicinati, sappiamo tutto
quello che hai sofferto, conosciamo le tue grandi
imprese... ti diremo tutto ciò che ancora non sai,
tutto quello che succede sulla terra».
E in effetti Ulisse non riuscì a resistere alla se-
duzione delle Sirene, e fece disperatamente cenno
ai marinai di liberarlo. Ma loro non sentivano nul-
la, avevano i tappi di cera, e sapevano che doveva-
no anzi stringere ancora di più i nodi. Così Ulisse

68
riuscì a superare anche quest’avventura, e ad arri-
vare in vista dell’isola Trinacria dove li attendeva
una nuova prova: sfuggire a Scilla e Cariddi.
Circe l’aveva messo in guardia: era impossibi-
le scampare a entrambi i mostri. Cariddi era un
mostro marino che tre volte al giorno risucchiava
le acque per poi risputarle fuori, creando così un
terribile gorgo che faceva schiantare le navi sul
fondo del mare, e Ulisse doveva evitarlo per forza,
altrimenti non avrebbe avuto scampo. La nave fu
così costretta a passare per forza vicino a Scilla,
un mostro con sei teste canine dai lunghi colli, e
tre file di denti: alcune riuscirono ad allungarsi
fino a sfiorare la nave di Ulisse, e afferrarono e
divorarono alcuni marinai.

Sfuggiti a queste insidie, finalmente Ulisse e i


suoi compagni giunsero nei pressi dell’isola Tri-
nacria, sacra al Sole, proprio come aveva predet-
to Tiresia. L’eroe ricordava bene l’avvertenza
dell’indovino, ripresa poi anche da Circe: entram-
bi avevano insistito molto sul fatto che per nessu-
na ragione al mondo bisognava fare del male alle

69
vacche sacre, perciò Ulisse avrebbe voluto evitare
di fare scalo sull’isola. Ma i suoi compagni non
volevano sentire ragioni: «Ulisse, sappiamo che
sei forte e coraggioso, ma ci chiedi davvero trop-
po: secondo te dovremmo rinunciare a gustarci un
pasto a terra e invece vagare per il mare nella
notte scura, quando i venti spesso sono pure con-
trari! Lascia che scendiamo sull’isola, ripartiremo
domattina». Così disse Euriloco, il più autorevole
fra i compagni di Ulisse.
L’eroe decise di accontentare i compagni, ma
ahimè, una terribile tempesta si abbatté su di lo-
ro e non cessò per molti giorni. Resistere con le
poche provviste rimaste, nutrendosi del poco pe-
sce che riuscivano a pescare, diventò sempre più
difficile, ma Ulisse non permetteva a nessuno di
infrangere il divieto di Tiresia.
La situazione era disperata, e l’eroe decise di
recarsi in un punto elevato dell’isola e pregare gli
dèi di aiutarlo e consigliarlo. Una volta solo, vinto
dalla stanchezza, Ulisse cedette al sonno. In sua
assenza però i compagni non riuscirono più a trat-
tenersi: «Amici, mangiamo queste belle vacche e

70
facciamola finita con gli assurdi divieti di Ulisse.
Che cosa ci potrà mai succedere? Che cosa c’è di
peggio, che morire di fame?». Allora cacciarono
le vacche migliori, accesero un bel fuoco e le mi-
sero ad arrostire.
Appena Ulisse si svegliò, si affrettò a raggiun-
gere il luogo dov’era ancorata la nave. Quando si
avvicinò, sentì con orrore l’odore del grasso cot-
to, e si precipitò dai suoi compagni intenti a ban-
chettare, rimproverandoli: «Che cosa avete com-
binato! Adesso che abbiamo offeso il Sole chissà
quali sciagure si abbatteranno su di noi...». Ma i
compagni non gli diedero retta, erano troppo fe-
lici per il buon cibo che finalmente riempiva i loro
stomaci.
Continuarono a banchettare per sei giorni. Poi
Zeus fece placare la tempesta, così poterono ri-
prendere il mare. Ma la nave superstite era già
condannata: il Sole, furioso per quell’affronto,
aveva già chiesto a Zeus di punire il sacrilegio.
Il signore degli dèi allora scatenò una tempesta
sulla nave, e la colpì con una delle sue più terribili
saette. Stavolta tutti i compagni di Ulisse anne-

71
garono. Solo lui venne risparmiato. Con la forza
della disperazione, si aggrappò al relitto della na-
ve e nuotò, fino allo stremo delle forze.
La corrente lo sbatté dritto nel gorgo di Carid-
di, e gli strappò il relitto da sotto: ma con la sua
forza e la sua prontezza di riflessi, quando un’on-
data lo spinse in alto, Ulisse si appese all’albero
di fico che sorgeva sopra il gorgo, e aspettò che
Cariddi risputasse fuori il suo relitto, e quando lo
vide riapparire si lasciò cadere e vi atterrò sopra
sano e salvo. Per nove giorni fu trascinato in balia
delle onde, ma la decima notte riuscì a naufragare
su un’isola lontana dagli dèi dell’Olimpo e dagli
uomini. Era l’isola di Ogigia, dove viveva soltanto
la dea Calipso e quattro ninfe, sue servitrici.

Lì, finalmente, Ulisse poté riprendersi dalle sue


fatiche, rifocillarsi con del buon cibo che non man-
cava mai e godere della compagnia della bella dea,
che per un po’ sembrò riuscire a fargli dimenticare
Itaca e la sua Penelope.
Passarono sette anni, finché Ulisse iniziò a stan-
carsi di quella vita pacifica e oziosa, così lontana

72
dai suoi veri affetti e dalle avventure che non gli
erano mai mancate. Così Atena, la sua protettrice,
inviò Ermes, messaggero degli dèi, per convincere
Calipso a lasciar ripartire Ulisse. La signora di
Ogigia lo accolse nella sua bella casa, ma fu molto
rattristata degli ordini che portava: «Siete solo
invidiosi, voi dèi, della mia felicità con Ulisse! Io
l’ho salvato dal naufragio, e avrei voluto tenerlo
qui con me per sempre... ma se è questo che vo-
gliono gli dèi dell’Olimpo, lo lascerò partire».
Allora andò a chiamare Ulisse, che ormai pas-
sava tutto il giorno sulla spiaggia, a fissare scon-
solato il mare, perché non ne poteva più di stare
su quell’isola con Calipso. Gli disse che sarebbe
potuto partire se si fosse costruito una zattera, ma
tentò di dissuaderlo per l’ultima volta: «Perché
non ci ripensi e resti con me? Quando tornerai sul
mare dovrai affrontare ancora tante disgrazie...
Io invece potrei renderti immortale, e dopo tutto
non sono meno bella della tua Penelope».
Ma Ulisse non ne voleva sapere, ora che vede-
va vicina la possibilità di tornare alla vita che gli
era più familiare: «Certo che sei più bella di Pe-

73
nelope, perché sei immortale, eppure io desidero
ugualmente tornare a casa mia, da lei. E poi che
cosa me ne farei dell’immortalità? Io sono l’astu-
to Ulisse, le avventure sono il mio pane, e anche le
sventure: è questa la mia vita...». Calipso, scon-
solata, capì che ormai non poteva fare più niente
per legare a sé il bell’eroe, così gli fornì un’ascia
per costruirsi rapidamente una zattera, del tessuto
per preparare le vele, tante buone provviste, e lo
lasciò partire.
Gli dèi avevano la memoria lunga, essendo im-
mortali, e Poseidone non era da meno: considerava
ancora Ulisse un suo nemico, perciò appena vide
che era di nuovo in mare, non esitò a far naufragare
per l’ennesima volta l’eroe. Stavolta Ulisse giunse
davvero sfinito sulla spiaggia dell’isola dei Feaci, e
riuscì a stento a trascinarsi all’interno della bosca-
glia, dove si addormentò profondamente.

La mattina dopo la figlia del re, la giovanissi-


ma Nausicaa, arrivò lì vicino con le sue ancelle
per lavare la biancheria nel torrente poco lontano.
Appena finirono di lavare i panni, le ragazze si

74
misero a giocare a palla, scherzando e parlando
a voce alta. Le loro grida allegre svegliarono il
povero naufrago, che si trascinò fuori dai cespu-
gli. In quel momento non appariva certo nella sua
forma migliore: sporco, con la barba lunga e in-
crostata di sale, le vesti lacere e l’aria stravolta,
spaventò a morte le due ancelle, che fuggirono.
Ma non Nausicaa. Era una ragazza coraggiosa, la
figlia del re.
Ulisse si sforzò di parlare, colpito dalla bellezza
della ragazza e dal sollievo di vedere un volto for-
se amico: «Fanciulla, non so se sei una dea o una
mortale. Non ho mai visto niente di più bello, sono
ammirato come quando a Delo ho visto un fusto
di palma giovane che svettava dritto e aggraziato
verso il cielo». La principessa, lusingata dai com-
plimenti dello straniero e commossa dal suo sta-
to pietoso, gli rispose: «Povero forestiero, devi
averne passate proprio tante! Seguimi a palazzo,
dove potrai chiedere ospitalità ai miei genitori, la
regina Arete e il re Alcinoo. Non temere, sanno
accogliere con generosità gli ospiti e non ti faran-
no mancare nulla».

75
Nausicaa fu di parola: davvero i Feaci erano un
popolo civile, e non nascondevano trabocchetti
come i Lestrigoni o la maga Circe! Accolsero con
gentilezza il povero Ulisse, gli diedero dei vestiti
puliti e un letto comodo, permettendogli di resta-
re per molti giorni. L’eroe aveva preferito dissi-
mulare la sua vera identi-
tà: nessuno sapeva che era
il famoso Ulisse.
Ma un giorno, durante un
banchetto, il cantore De-
modoco si mise a narrare
alcuni episodi della guerra
di Troia che riguardava-
no anche Ulisse. Tutti lo
ascoltavano rapiti, finché
non sentirono dei singhioz-
zi sommessi, e infine un
pianto trattenuto a stento:
era Ulisse, che non poteva
più trattenere la commo-
zione ascoltando le sue an-
tiche avventure.

76
A quel punto lo straniero non poté fare a meno
di svelare la sua vera identità, e i Feaci, colpiti
di ritrovarsi in casa un ospite così illustre, lo in-
vitarono a raccontargli com’era giunto lì dopo la
guerra di Troia. Fu così che Ulisse narrò loro tutte
le sue avventure partendo dall’inizio.

77
Alla fine anche il padrone di casa, Alcinoo, era
profondamente commosso: «Valoroso Ulisse, è
stato un onore per noi averti sotto il nostro tetto
e ora faremo il possibile per aiutarti: possiamo ri-
portarti noi a casa».
Alcinoo coprì Ulisse di doni e lo fece imbarcare
su una delle sue navi, che giunse a Itaca nel cuore
della notte. Nel frattempo il nostro eroe si era
profondamente addormentato, e i Feaci decisero
di non svegliarlo: lo deposero in uno dei porti di
Itaca, nei pressi di una piccola grotta sacra alle
ninfe Nereidi. Lì vicino lasciarono anche i bellissi-
mi e numerosi doni di Alcinoo.
La mattina dopo, al suo risveglio, Ulisse incon-
trò la sua protettrice Atena, che lo trasformò in
un mendicante: così sarebbe stato più facile, per
Ulisse, avvicinarsi al palazzo e studiare la situa-
zione senza essere visto, in modo da capire come
comportarsi. Come gli aveva rivelato Tiresia, in-
fatti, il suo regno era minacciato dai pretendenti
alla mano di Penelope che volevano diventare re al
suo posto, e Ulisse ancora non sapeva di chi pote-
va fidarsi.

78
A quanto pareva, un vero amico era certamente
il porcaro Eumeo, come ben presto scoprì l’eroe:
quando si recò alla sua capanna e si spacciò per un
viandante, Eumeo lo accolse generosamente. I due
cominciarono a chiacchierare un po’ e a un certo
punto Eumeo si lamentò della crudeltà dei Proci e
rimpianse il giusto Ulisse, assente da così tanto
tempo dalla sua isola. Poco dopo, alla capanna del
fedele Eumeo giunse Telemaco, ormai un ragazzo
di vent’anni. A lui Ulisse rivelò la sua vera iden-
tità, e gli chiese di aiutarlo a introdursi a corte,
sempre sotto mentite spoglie.
Giunse così nei pressi del palazzo. Mogio mogio
in un angolo se ne stava Argo, il cane di Ulisse,
ormai indebolito dalla vecchiaia. Ma non appena
Ulisse si avvicinò, con le poche forze che gli rima-
nevano, Argo si alzò tutto felice: ecco finalmente il
suo antico padrone, era inconfondibile! Nemmeno il
travestimento voluto da Atena ingannò il buon ani-
male, che finalmente poteva morire sereno, ora che
il suo adorato padrone era tornato da lui.
Per il momento Ulisse si limitò a continuare a
fingersi un mendicante, accoccolandosi ai piedi

79
del tavolo dei banchetti e a mangiare gli avanzi
dei Proci, come un mendicante qualunque. Qualche
tempo dopo, Penelope venne a sapere dell’arrivo
dello straniero, e fece di tutto per parlargli, spe-
rando che gli avesse portato notizie del marito.
Infatti non riconobbe Ulisse.
L’eroe riuscì a governare
l’emozione di rivedere l’ama-
ta moglie, ancora molto bella,
e cercò di capire le sue inten-
zioni: gli era rimasta davvero
fedele? Le raccontò allora di
aver incontrato Ulisse durante
le sue peregrinazioni, e osser-
vò le sue reazioni: la donna
lo incalzò con molte doman-
de: «Dove l’hai visto? Stava
bene? Perché non torna?».
Ma Ulisse non le rivelò la sua
identità: non era ancora il
momento giusto. Le disse solo
che sapeva che Ulisse era vi-
vo, e stava per tornare.

80
Fino ad allora Penelope, dimostrandosi scaltra co-
me il marito, aveva tenuto a bada i pretendenti con
un trucco. Quando i Proci si erano fatti troppo insi-
stenti perché scegliesse tra loro il suo nuovo mari-
to, aveva detto loro: «Ascoltatemi, io sto tessendo
il lenzuolo per il padre di Ulisse, Laerte, e quando

81
avrò finito vi prometto che farò la mia scelta». E in
effetti Penelope passava il giorno a tessere, a tesse-
re... ma quel lenzuolo pareva non finire mai, perché
passavano i mesi, e poi gli anni, e ancora Penelope
non annunciava la fine del suo lavoro.
E in effetti la tela era sempre là, incompiuta, sul
telaio. Infatti la moglie di Ulisse di notte disfava
quello che aveva tessuto di giorno, così la tessitu-
ra procedeva con lentezza infinita. Ma un giorno
un’ancella infedele alla regina aveva svelato l’in-
ganno ai Proci, che avevano costretto Penelope a
confessare. Ormai era a corto di stratagemmi, e
sempre più esasperata dall’assedio dei Proci, ac-
cettò di buon grado proprio il giorno dell’arrivo di
Ulisse a palazzo, un nuovo trucco consigliato da
Atena per tenere a bada i pretendenti. Anzi: Pe-
nelope capì che forse finalmente sarebbe riuscita
a metterli alla porta una volta per tutte!
Il giorno dopo la regina comparve davanti ai
Proci e annunciò: «Stavolta deciderò una volta
per tutte chi sarà il mio nuovo sposo. Colui che
riuscirà a tendere l’arco di Ulisse potrà diventare
il nuovo re di Itaca».

82
«Penelope, spero che stavolta dirai sul serio,
e che non proverai a ingannarci con uno dei tuoi
trucchetti» le rispose Antinoo, il capo dei Proci,
che era anche il più arrogante tra loro.
«Vediamo che cosa sai fare, Antinoo» lo rim-
beccò Penelope, sicura del fatto suo. Sapeva bene
infatti che l’arco di Ulisse era gigantesco, e dif-
ficilissimo da tendere per chiunque in condizioni
normali, figurarsi dopo vent’anni che non veniva
usato! Infatti i Proci, uno dopo l’altro, afferraro-
no l’arco, provando a tenderlo in tutti i modi. Ma
non c’era niente da fare: nessuno di loro riusciva
a usare l’arco di Ulisse.
«Che ne dite di lasciarmi provare?» chiese Ulis-
se, ancora travestito da mendicante. I Proci scop-
piarono in una grassa risata, e si misero a pren-
derlo in giro, finché Antinoo non disse: «Forza,
lasciamolo provare, amici, così almeno ci divertia-
mo un po’!» e gli porse l’arco.
Allora Ulisse lo prese in mano, lo tese senza
troppo sforzo, e con le sue frecce iniziò a colpire i
Proci. Nel frattempo aveva detto a Telemaco di far
chiudere tutte le porte, così che i suoi nemici non

83
potessero scappare. Ulisse allora compì finalmen-
te la sua vendetta, e poté presentarsi a Penelope
e rivelare la sua vera identità. La regina però era
ancora incredula: possibile che Ulisse fosse torna-
to da lei dopo tutti quegli anni? Non era un impo-
store, non era un trucco?
Per capire se davvero era lui, lo sottopose a una
specie di test. Finse di dire alla nutrice di spo-
stare il letto nuziale fuori dalla loro stanza, ma
Ulisse disse subito: «Sai bene che è impossibile!
Il nostro letto nuziale l’ho ricavato io stesso dal
tronco di un vecchio ulivo solidamente radicato a
terra. Spero che nel frattempo nessuno lo abbia
separato dalle sue radici...».
«Non ci sono più dubbi, allora, tu sei Ulisse!»
disse Penelope, e lo abbracciò. Quella notte durò
più di tutte le altre notti, grazie all’intervento di
Atena: così i due sposi poterono raccontarsi tutte
le loro avventure.

84
cadmo
e il drago

E
uropa era figlia di Agenore, re di Tiro, antica
città fenicia. Zeus la vide mentre coglieva dei
fiori nei pressi della spiaggia, e se ne innamorò.
Come fare per avvicinarla? Zeus allora inventò
uno dei suoi molteplici travestimenti: ordinò a Er-
mes di guidare i buoi di Agenore verso la spiaggia,
poi Zeus prese le sembianze di un candido toro
bianco, le si avvicinò e si stese ai suoi piedi. Eu-
ropa, divertita, salì sul dorso del toro. Subito il
toro entrò in acqua e la portò attraverso il mare
fino all’isola di Creta. Sarebbe diventata la prima
regina di Creta: suo figlio Minosse sarebbe diven-
tato famoso per aver fatto costruire il labirinto
del Minotauro.
Il povero Agenore, disperato per la scomparsa
di Europa, chiamò i suoi figli maschi, e ordinò loro

85
di mettersi alla ricerca della sorella, e di non tor-
nare finché non l’avessero trovata. Uno dei fra-
telli, Cadmo, prima di tutto si recò all’oracolo di
Delfi per sapere che cosa fare.
«Lascia perdere la tua
ricerca, figlio di Ageno-
re» disse l’oracolo «il
tuo destino è di fondare
invece una grande città.
Ora va’, torna a casa, e
segui la prima mucca che
incontrerai. Dove lei si
fermerà, lì edificherai la
tua città».
Cadmo tornò in patria
e seguì una vacca che si
diresse a oriente finché,
esausta per la stanchez-
za, non si sdraiò dove sa-
rebbe sorta la futura cit-
tà di Tebe.
Cadmo volle subito sa-
crificare la vacca ad Ate-

86
na. Nel frattempo, però, i suoi compagni, fermatisi
ad attingere acqua ad una sorgente lì vicino, fu-
rono attaccati da un terribile drago. Il coraggioso
eroe lo affrontò e lo sconfisse, e Atena per ringra-

87
ziarlo gli consigliò di spargere per terra i denti del
drago. Cadmo seguì le istruzioni della dea: con
suo grande stupore, vide sorgere dal terreno degli
uomini armati. Il drago era stato consacrato ad
Ares, il dio della guerra, e gli “uomini seminati”
(gli sparti) si guardavano intorno con aria minac-
ciosa. Cadmo si nascose lì vicino, e tirò loro dei
sassi. Quelli si misero subito a litigare, pensando
che gli altri li volessero provocare, finché si ucci-
sero a vicenda. Ne sopravvissero solo cinque, che
aiutarono Cadmo a costruire la Cadmea, la rocca
della nuova città di Tebe. Gli sparti diventarono i
capostipiti della nobiltà tebana.
Cadmo sposò la bella Armonia, figlia di Ares e
di Afrodite, in una cerimonia memorabile: tutti gli
dèi dell’Olimpo erano presenti, e gli sposi ricevet-
tero dei regali formidabili, tra cui una collana che
assicurava la bellezza a chi la portava. Purtroppo
però quella collana portò molta sfortuna a chi l’a-
vrebbe posseduta, ma questa è un’altra storia...

88
attività
di approfondimento
IL PESCASTORIE DA 10 ANNI

89
LE QUATTRO ETà DELL’UOMO
Numera da 1 a 4, dalla più antica alla più

recente, le quattro età dell’uomo.
Età dell’argento Età del ferro
Età del bronzo Età dell’oro

Rispondi.
l Come sono gli uomini dell’età dell’oro?
.............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

l In quale delle quattro età ti piacerebbe vi-


vere? Perché?
.............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

90
Le congiunzioni di Ulisse
Collega
 la frase a sinistra con quelle di
destra usando le congiunzioni appropriate
tra quelle suggerite.

NONOSTANTE PERCHÉ MA QUINDI

può riabbracciare
Penelope
e Telemaco.

i Feaci
lo accompagnano
con la loro nave.
ULISSE RIESCE A
TORNARE A ITACA

Poseidone
lo ostacoli sempre.

deve superare
molte difficoltà.

91
Perseo e Medusa
Il re di Argo fa costruire una stanza sot-
terranea nel cortile del suo palazzo, e vi
fa rinchiudere la figlia Danae.
l Che cosa gli aveva predetto l’oracolo?
.............................................................................................................

.............................................................................................................

l Alla fine la profezia si avvera? Perché?


.............................................................................................................

.............................................................................................................

Re Polidette vuole trovare il modo di cac-



ciare Perseo dall’isola. Quale stratagem-
ma usa?
.............................................................................................................

............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

.............................................................................................................

92
Avventure e disavventure
Trova nel testo, da p. 65 a p. 84, i verbi,

gli avverbi, i nomi, gli aggettivi che ini-
ziano con il prefisso dis- e riportali nella
tabella qui sotto:

VERBI AVVERBI NOMI AGGETTIVI

Scegli
 uno dei verbi che hai trovato, e ri-
scrivilo nella tabella secondo i tempi ri-
chiesti:

IMPERFETTO PASSATO TRAPASSATO


PROSSIMO PROSSIMO
Io
Tu
Egli
Noi
Voi
Essi

93
Parole nascoste
Scrivi l’aggettivo che deriva dai nomi.
AUTUNNO
TERRA
PIEDE
ACQUA autunnale
OLIO
FIABA

Scrivi da quale parola derivano i verbi. Poi


sottolinea in blu gli aggettivi e in rosso i
nomi.

ACCONTENTARE contento

SACRIFICARE

EDIFICARE

INCATENARE

ARROVENTARE

94
L'eroe misterioso
Trova i verbi contrari e sistemali nelle ca-
selle. Nella colonna colorata leggerai il
nome di un eroe greco.

1. Nascondersi, celarsi.
2. Salire.
3. Aprire.
4. Allontanarsi.
5. Ancorare, arrivare, ormeggiare.
6. Addormentarsi.
7. Tenere duro, resistere.

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Indice

Le quattro età e il destino dell’uomo...................... 3

Zeus e la stirpe dei Titani.................................. 8

Teti e il destino di Achille................................ 13

Perseo e Medusa..............................................21

Le avventure di Teseo...................................... 34

Le avventure di Ulisse..................................... 42

Il lungo viaggio di Ulisse................................. 48

Cadmo e il drago............................................ 85

Attività di approfondimento............................. 89

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