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Il Mosè di Michelangelo

(J.P. Hernández SJ)

Il “Mosè” di Michelangelo è nel nostro immaginario collettivo “Il Mosè” per eccellenza, il Mosè tout court.
La statua fu commissionata da Giulio II a Michelangelo nel 1505, dopo il successo del suo David a Firenze. Il
Mosè doveva essere una delle 40 sculture del mausoleo del
pontefice, - progetto molto ridimensionato dopo la sua morte.
Michelangelo ha potuto lavorarci concretamente solo a partire

dal 1513. Sono anni vicini alla realizzazione delle cosiddette


“sculture dipinte” nella volta della Sistina. Nel 2001, le ricerche
di Frommel hanno evidenziato un ritocco importante che lo
stesso artista ha apportato nel 1542. Si può dire dunque che
quest’opera ha accompagnato Michelangelo per una parte eminente della sua carriera artistica. La sua
forza espressiva ipnotizza ancora chi la contempla. Noemi Vogelmann Goldfeld ha potuto definirla: “una
marmorea affermazione di eternità che ci accoglieva con un silenzio bianco” (in “Roma. Una storia d’amore.
Introduzione al Mosè”, Roma 1997). In essa probabilmente Michelangelo ci ha detto molto di sé, dicendoci
anche molto di Mosè.

L’episodio “fotografato” dalla statua corrisponde a un momento ben preciso della storia raccontata nel
libro dell’Esodo. Il popolo ebraico si era accampato ai piedi del monte Sinai, mentre Mosè era salito al
cospetto di Dio per ricevere le tavole dell’alleanza, le tavole delle “dieci parole”. Impaziente nell’attesa, il
popolo costruisce “il vitello d’oro”, un idolo. Avvertito da
Dio, Mosè scende dal monte e vedendo il “vitello di metallo
fuso” si accende di ira e spezza le tavole della legge. La
statua di Michelangelo coglie l’istante drammatico in cui
Mosè ha appena visto il vitello d’oro (o è stato appena
avvertito da Dio) e sta per esplodere in ira. Le tavole sono in
effetti ancora intere sotto il suo braccio, ma in situazione già
molto instabile. Se il nostro “gigante” dovesse alzarsi,
cadrebbero a terra. Forse il versetto 15 del cap. 32
dell’esodo ha particolarmente ispirato l’artista. Nel testo
leggiamo infatti: “Mosè si voltò e scese dal monte”.

In realtà, nel racconto biblico questo episodio è intrecciato


con una interessante riflessione sull’arte che non poteva
lasciar indifferente lo stesso Michelangelo. Ai piedi del Sinai,
il popolo aveva ricevuto da Dio l’abilità tecnica dell’artista, in
ebraico la “hokmah”, che noi traduciamo anche con la
parola “sapienza”. Dio dà all’uomo la “hokhmah” con lo scopo preciso di costruire il “santuario”, cioè un
luogo per fare memoria dell’alleanza. Invece, il popolo impaziente e “smemorato”, usa proprio questa
hokhmah, quest’arte, per fabbricare un idolo: il vitello d’oro. L’idolo è l’anti-santuario. Con le sue corna e la
sua muscolatura, il vitello simboleggia i culti pagani, il culto della forza bruta e dell’affermazione di sé, dove
non c’è spazio per la fiducia in Dio. Costruire il santuario o costruire un idolo, ricordare Dio o esserne il
concorrente, l’arte è sempre stato in bilico fra queste due opzioni, perché l’arte è creazione. E l’artista è
quel creatore che può dimenticare facilmente il Creatore. Lo stesso Michelangelo ne è consapevole quando
alla fine dei suoi giorni si pente di aver fatto dell’arte il suo “idol e monarca”. La teologia di questo racconto
biblico pone l’artista come l’emblema dell’uomo: ogni uomo, come l’artista, riceve da Dio la capacità di fare
un’opera d’arte con la propria vita, e ogni uomo è tentato di fare di se stesso un idolo.

Il magnetismo del “Mosé” di Michelangelo, nel transetto destro della chiesa di San Pietro in Vincoli, è
legato alle diverse tensioni o paradossi che attraversano questa
scultura. Ne possiamo enucleare tre.

La prima tensione è quella fra la posizione seduta e il movimento di


chi inizia a camminare. Si tratta di una figura seduta ma le cui gambe
sembrano camminare, o sembrano iniziare un movimento di alzata.
Questa tensione corrisponde esattamente all’interesse di
Michelangelo per il corpo maschile in pose difficili, sotto pressione,
in lotta. In questo l’artista rispecchia la spiritualità dell’inno “Urbs
Jerusalem beata” usato durante la dedicazione delle chiese e che
parla delle “pietre
vive” plasmate
dalla sofferenza e
dalla lotta. Ma
soprattutto
Michelangelo è
influenzato da modelli dell’antichità come il “Torso del
Belvedere” o il “gruppo di Laocoonte” rinvenuto pochi
anni prima.

Proprio questa tensione del corpo che sembra trattenere


l’ira prima di esplodere è ciò che colpì Siegmund Freud
nella sua prima visita a Roma nel 1901. Il padre della
psicanalisi si identificò con il Mosè di Michelangelo
facendone un esempio di lettura psicoanalitica dell’arte.
Freud leggeva nella statua la stessa tensione di ira
trattenuta che lui stesso sperimentò nella grande
delusione dell’allontanamento del suo discepolo Karl Gustav Jung.

Se poi osserviamo le due mani del gigante, vediamo che l’una sembra quasi trattenere il basso ventre,
mentre l’altra tocca la folta barba. Ma proprio i riccioli attorcigliati della barba sembrano a prima vista delle
budella. Allora scopriamo che le due mani sono in profonda relazione semiotica e si “traducono” a vicenda.
Mosè trattiene la “pancia”, cioè trattiene un fuoruscire viscerale di ira, e al tempo stesso prende contatto
fisico con le sue “interiora”, con i suoi movimenti più intimi e profondi.
Ma il “seduto che cammina” mette insieme come paradosso due tratti
teologici di Mosè. Il primo è quello del maestro. Il secondo è quello della
guida nel deserto.

Mosè in effetti è il “Rav” per eccellenza, colui che insegna, il maestro


della legge. E’ a lui che sono attribuiti i cinque libri della Torah. Perciò è
rappresentato seduto, come lo sono i maestri antichi già nei bassorilievi
romani. Con il libro in mano. Come il Giovanni evangelista di Donatello
che è stato probabilmente modello per la nostra statua. O come il
profeta Isaia dipinto da Raffaello pochi anni prima del Mosè, nel 1511, e
lodato dallo stesso
Michelangelo.

Ma questo maestro seduto


è anche colui che ha fatto
camminare il popolo
attraverso il deserto. Come
a dire: è maestro ma non di una dottrina astratta. E’ maestro di
una via da seguire. E’ maestro come sarà maestro quel Rabbi
itinerante di Galilea che dice: “vieni e seguimi”.

Mosè è l’uomo della Pasqua, cioè del Passaggio. L’uomo che ha


fatto attraversare il mar rosso. Il camminatore per eccellenza.
Colui che ha capito il cammino come metafora della fede e
della vita, perché camminare è accettare di perdere
l’equilibrio, di perdere le sicurezze, di lasciare l’orizzonte
passato per scoprirne di nuovi. Ogni passo in effetti è uno
sbilanciarsi. Un portare il baricentro della propria vita al di
fuori della superficie formata dai piedi. La fede, l’esodo, la
liberazione, è fare sì che il proprio baricentro sia “un altro”,
cioè Dio.

La seconda tensione che questa statua trasmette


istintivamente è la tensione fra il vedere e il voltare lo sguardo. Cioè tra il vedere e il non vedere. O meglio:
tra il vedere e l’ascoltare. Mosè è l’uomo della visione per
eccellenza. Si dice di lui che parlava con Dio “panim el panim”,
faccia a faccia. E’ lui che per primo incontra Dio nello “spettacolo”
del roveto ardente. Ma proprio al roveto ardente avviene un
passaggio importantissimo nel suo modo di rapportarsi con Dio.
Esso è espresso e sintetizzato nel versetto 4 del capitolo 3
dell’Esodo. “Dio vide che si era avvicinato per vedere questo
spettacolo e lo chiamò dal roveto dicendo: Mosè, Mosè”. Il
versetto inizia con una serie di parole del vedere e conclude con
l’ascolto e la parola. E’ il cambio di codice di comunicazione: dal
vedere all’ascoltare. La vista è nell’Antico Testamento l’organo del
possesso. L’ascolto invece accetta già di essere secondo a chi parla.
Perciò non si può vedere Dio ma solo ascoltarlo. Mosè è colui che
ha imparato ad ascoltare Dio, accettando di non possederlo con lo sguardo. Eppure in questa statua Mosè
sta fissando lo sguardo. Su che cosa? Sul vitello d’oro probabilmente. Perciò scoppia la sua ira. Oppure, in
un’altra possibile interpretazione, allontana lo sguardo proprio dall’idolo. In ogni caso ha visto l’idolo colui
che ha imparato ad ascoltare Dio. E lì discerne la differenza: un idolo non lo si può ascoltare perché è
morto. Parla solo un Dio vivente.

La terza tensione
riguarda proprio il volto
di Mosè. Il testo di Esodo
34,29 racconta che la
seconda volta che Mosè
scende dal monte ha un
viso “raggiante”. Cioè con
dei “raggi di luce”. La
parola “raggi”, in ebraico
KRN, ammette anche una
vocalizzazione che gli dà
il significato di “corna”.
Ed è così che Girolamo
traduce nella Volgata.
Michelangelo si attiene a
questa comprensione di
Girolamo e compone un
volto ibrido: un umano
con delle corna. Questa
terza tensione è dunque
la tensione interna
all’identità stessa di
Mosè. In lui si combinano
un volto umano, con quel
elemento di bestialità pagana e idolatra che Israele ha espresso con il vitello d’oro, ma che fa parte anche
della sua stessa vita. Lui e Israele fanno tutt’uno. Inoltre Mosè ha una doppia appartenenza fin dalla sua
nascita. E’ ebreo, ma da subito cresce alla corte del faraone e dunque per educazione è soprattutto un
“principe d’Egitto”, un pagano. In alcune interpretazioni lo si collega addirittura con il culto di Amon, dove i
sacerdoti portavano proprio le corna. Ma il suo stesso nome, Mosè, ha già una doppia etimologia. In quella
ebraica, proviene da “masha”: tirare fuori dalle acque. In quella egiziana significa semplicemente il “figlio”,
secondo una radice presente anche in nomi di faraoni come Ra-M(o)ses (il famoso Ramses II, per esempio),
figlio di Ra.

In realtà queste diverse tensioni che attraversano la nostra statua si richiamano a vicenda. Mosè è un ebreo
che in qualche modo ha preso su di sé l’idolatria e il paganesimo dell’Egitto e dello stesso popolo d’Israele.
Le corna ne sono il segno. Ma la stessa ira che si indovina appena trattenuta nella statua è un modo di
prendere su di sé il “disordine” dell’idolatria che sta vedendo nel popolo. Michelangelo “fotografa” il suo
Mosè proprio nel momento in cui si sta caricando di questa “santa ira”. Il testo biblico ci racconta infatti
come Mosè affianca questa ira con una preghiera a Dio affinché perdoni il popolo e possa rinnovare
l’alleanza. Mosè dunque vive un’ira che è un vero atto di amore. E’ un assumere pienamente le
conseguenze del peccato del popolo. Un volto che si adira per amore è un volto che accetta di prendere in
sé la bruttura del peccato che vede fuori da sé. E Mosè si adira non come vendetta ma come piena
assunzione di una alleanza che è da rinnovare, per cui dovrà risalire sul monte. E’ una dinamica sacerdotale.
Mosè si carica col male del popolo e lo porta sul monte. La statua di Michelangelo lascia già indovinare la
trasformazione di questa ira in preghiera. Più che dell’”ira trattenuta” che vedeva Freud, bisogna parlare di
un’ira trasfigurata. Trasfigurata in preghiera, in intercessione presso Dio, in rinnovamento dell’alleanza, in
offerta sacerdotale. Un’ira che già annuncia quel “dies irae” che è la croce del Cristo. Dove Dio
definitivamente prende su di sé tutto il male.

Così Michelangelo si esprime a diversi livelli in una pietra a cui dà vita attraverso queste diverse tensioni. E’
una statua seduta che cammina, che guarda ma ascolta, che si adira ma ama. Chissà quanto di
autobiografico Michelangelo ha espresso con questa tensione? Si è scritto molto sul possibile orientamento
sessuale dell’artista e sui suoi travagli interiori che non riesce a trattenere se non creando. Di sicuro
Michelangelo trasferisce sullo scalpello quelle ferite profonde che hanno modellato il suo cuore. E in questo
la sua opera stessa è un portare a Dio tutta la propria tormenta, le proprie “budella”. L’arte di Michelangelo
è stato il suo sacerdozio. Forse per questo la legenda racconta che Michelangelo colpì al ginocchio la
scultura dicendo: “perché non parli?”. Di fatto essa ci parla ancora.

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