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Il “Mosè” di Michelangelo è nel nostro immaginario collettivo “Il Mosè” per eccellenza, il Mosè tout court.
La statua fu commissionata da Giulio II a Michelangelo nel 1505, dopo il successo del suo David a Firenze. Il
Mosè doveva essere una delle 40 sculture del mausoleo del
pontefice, - progetto molto ridimensionato dopo la sua morte.
Michelangelo ha potuto lavorarci concretamente solo a partire
L’episodio “fotografato” dalla statua corrisponde a un momento ben preciso della storia raccontata nel
libro dell’Esodo. Il popolo ebraico si era accampato ai piedi del monte Sinai, mentre Mosè era salito al
cospetto di Dio per ricevere le tavole dell’alleanza, le tavole delle “dieci parole”. Impaziente nell’attesa, il
popolo costruisce “il vitello d’oro”, un idolo. Avvertito da
Dio, Mosè scende dal monte e vedendo il “vitello di metallo
fuso” si accende di ira e spezza le tavole della legge. La
statua di Michelangelo coglie l’istante drammatico in cui
Mosè ha appena visto il vitello d’oro (o è stato appena
avvertito da Dio) e sta per esplodere in ira. Le tavole sono in
effetti ancora intere sotto il suo braccio, ma in situazione già
molto instabile. Se il nostro “gigante” dovesse alzarsi,
cadrebbero a terra. Forse il versetto 15 del cap. 32
dell’esodo ha particolarmente ispirato l’artista. Nel testo
leggiamo infatti: “Mosè si voltò e scese dal monte”.
Il magnetismo del “Mosé” di Michelangelo, nel transetto destro della chiesa di San Pietro in Vincoli, è
legato alle diverse tensioni o paradossi che attraversano questa
scultura. Ne possiamo enucleare tre.
Se poi osserviamo le due mani del gigante, vediamo che l’una sembra quasi trattenere il basso ventre,
mentre l’altra tocca la folta barba. Ma proprio i riccioli attorcigliati della barba sembrano a prima vista delle
budella. Allora scopriamo che le due mani sono in profonda relazione semiotica e si “traducono” a vicenda.
Mosè trattiene la “pancia”, cioè trattiene un fuoruscire viscerale di ira, e al tempo stesso prende contatto
fisico con le sue “interiora”, con i suoi movimenti più intimi e profondi.
Ma il “seduto che cammina” mette insieme come paradosso due tratti
teologici di Mosè. Il primo è quello del maestro. Il secondo è quello della
guida nel deserto.
La terza tensione
riguarda proprio il volto
di Mosè. Il testo di Esodo
34,29 racconta che la
seconda volta che Mosè
scende dal monte ha un
viso “raggiante”. Cioè con
dei “raggi di luce”. La
parola “raggi”, in ebraico
KRN, ammette anche una
vocalizzazione che gli dà
il significato di “corna”.
Ed è così che Girolamo
traduce nella Volgata.
Michelangelo si attiene a
questa comprensione di
Girolamo e compone un
volto ibrido: un umano
con delle corna. Questa
terza tensione è dunque
la tensione interna
all’identità stessa di
Mosè. In lui si combinano
un volto umano, con quel
elemento di bestialità pagana e idolatra che Israele ha espresso con il vitello d’oro, ma che fa parte anche
della sua stessa vita. Lui e Israele fanno tutt’uno. Inoltre Mosè ha una doppia appartenenza fin dalla sua
nascita. E’ ebreo, ma da subito cresce alla corte del faraone e dunque per educazione è soprattutto un
“principe d’Egitto”, un pagano. In alcune interpretazioni lo si collega addirittura con il culto di Amon, dove i
sacerdoti portavano proprio le corna. Ma il suo stesso nome, Mosè, ha già una doppia etimologia. In quella
ebraica, proviene da “masha”: tirare fuori dalle acque. In quella egiziana significa semplicemente il “figlio”,
secondo una radice presente anche in nomi di faraoni come Ra-M(o)ses (il famoso Ramses II, per esempio),
figlio di Ra.
In realtà queste diverse tensioni che attraversano la nostra statua si richiamano a vicenda. Mosè è un ebreo
che in qualche modo ha preso su di sé l’idolatria e il paganesimo dell’Egitto e dello stesso popolo d’Israele.
Le corna ne sono il segno. Ma la stessa ira che si indovina appena trattenuta nella statua è un modo di
prendere su di sé il “disordine” dell’idolatria che sta vedendo nel popolo. Michelangelo “fotografa” il suo
Mosè proprio nel momento in cui si sta caricando di questa “santa ira”. Il testo biblico ci racconta infatti
come Mosè affianca questa ira con una preghiera a Dio affinché perdoni il popolo e possa rinnovare
l’alleanza. Mosè dunque vive un’ira che è un vero atto di amore. E’ un assumere pienamente le
conseguenze del peccato del popolo. Un volto che si adira per amore è un volto che accetta di prendere in
sé la bruttura del peccato che vede fuori da sé. E Mosè si adira non come vendetta ma come piena
assunzione di una alleanza che è da rinnovare, per cui dovrà risalire sul monte. E’ una dinamica sacerdotale.
Mosè si carica col male del popolo e lo porta sul monte. La statua di Michelangelo lascia già indovinare la
trasformazione di questa ira in preghiera. Più che dell’”ira trattenuta” che vedeva Freud, bisogna parlare di
un’ira trasfigurata. Trasfigurata in preghiera, in intercessione presso Dio, in rinnovamento dell’alleanza, in
offerta sacerdotale. Un’ira che già annuncia quel “dies irae” che è la croce del Cristo. Dove Dio
definitivamente prende su di sé tutto il male.
Così Michelangelo si esprime a diversi livelli in una pietra a cui dà vita attraverso queste diverse tensioni. E’
una statua seduta che cammina, che guarda ma ascolta, che si adira ma ama. Chissà quanto di
autobiografico Michelangelo ha espresso con questa tensione? Si è scritto molto sul possibile orientamento
sessuale dell’artista e sui suoi travagli interiori che non riesce a trattenere se non creando. Di sicuro
Michelangelo trasferisce sullo scalpello quelle ferite profonde che hanno modellato il suo cuore. E in questo
la sua opera stessa è un portare a Dio tutta la propria tormenta, le proprie “budella”. L’arte di Michelangelo
è stato il suo sacerdozio. Forse per questo la legenda racconta che Michelangelo colpì al ginocchio la
scultura dicendo: “perché non parli?”. Di fatto essa ci parla ancora.