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TARUFFO - El Concepto de Prueba Jurídica - 240219 - 131527
TARUFFO - El Concepto de Prueba Jurídica - 240219 - 131527
1. Introduzione.
Nel
linguaggio
comune
si
parla
spesso
di
un
“concetto
di
prova”
al
singolare
per
ragioni
di
semplicità,
ma
bisogna
subito
osservare
che
il
termine
designa
in
realtà
un
insieme
complesso
di
significati
anche
assai
diversi
tra
loro,
sia
nel
linguaggio
corrente
sia
nel
linguaggio
tecnico-‐giuridico.
Non
un
concetto,
dunque,
ma
una
famiglia
di
concetti
i
cui
membri
mostrano
varie
caratteristiche
analoghe
ma
anche
rilevanti
differenze.
Nel
linguaggio
non
tecnico
si
parla
di
prova
in
alcuni
significati
diversi
a
seconda
dei
contesti
in
cui
il
termine
viene
usato.
Cosi,
ad
esempio,
si
ha
la
prova
di
un
teorema
quando
si
dispone
della
sua
dimostrazione
matematica,
o
si
ha
la
prova
di
un
enunciato
logico
quando
si
dispone
di
un
sistema
di
inferenze
che
lo
convalidano.
D’altra
parte,
esistono
varie
espressioni
del
tipo
“superare
una
prova”,
nelle
quali
la
prova
non
è
una
dimostrazione
ma
un
esame,
un
ostacolo,
una
difficoltà
che
dev’essere
risolta.
In
senso
analogo
si
usa
anche
l’espressione
“mettere
alla
prova”
per
significare
che
qualcuno
deve
passare
attraverso
un
esame
o
un
controllo;
in
tal
caso,
peraltro,
questo
qualcuno
deve
“dimostrare”
qualcosa
che
lo
riguarda.
Non
va
poi
dimenticato
il
galileiano
“provando
e
riprovando”,
dove
il
“provare”
significa
confermare
sperimentalmente
una
verità
scientifica
(e
il
“riprovare”
non
significa
“tentare
di
nuovo”
ma
controllare
la
eventuale
infondatezza
di
un’asserzione).
L’elenco
potrebbe
continuare,
ma
già
questi
pochi
esempi
possono
mostrare
(si
potrebbe
dire
“provare”,
utilizzando
una
versione
di
“prova”
come
ostensione
dell’evidenza
di
alcunchè)
la
varietà
di
significati
e
di
nuances
che
il
termine
“prova”
conosce
nell’uso
comune.
Le
cose
non
si
semplificano,
ed
anzi
si
complicano,
se
dal
linguaggio
comune
si
passa
al
linguaggio
tecnico,
ossia
alle
maniere
in
cui
i
giuristi,
ed
in
particolare
i
processualisti,
impiegano
questo
termine.
Il
problema
è
molto
rilevante
per
una
ragione
piuttosto
ovvia,
ossia
per
il
fatto
che
la
prova
è
uno
degli
elementi
più
importanti
di
ogni
tipo
di
processo
nel
quale,
come
accade
normalmente,
il
giudice
deve
accertare
la
verità
o
la
falsità
di
determinati
enunciati
di
fatto.
Per
dar
conto
delle
variazioni
che
riguardano
il
concetto
di
prova,
così
come
esse
emergono
a
livello
linguistico,
è
opportuno
sottolineare
una
importante
differenza
che
esiste
tra
gli
ordinamenti
di
civil
law
(ossia
tutti
gli
ordinamenti
di
tipo
europeo
continentale,
ma
anche
gli
ordinamenti
latinoamericani
ed
anche
alcuni
ordinamenti
asiatici)
e
gli
ordinamenti
di
common
law.
Nei
sistemi
di
civil
law
“prova”
è
termine
polisemico,
nel
senso
che
di
regola
esso
viene
impiegato
per
indicare
in
sintesi
tutto
ciò
che
ha
a
che
fare
con
il
fenomeno
probatorio.
Il
termine
italiano
2
trova
perfetta
equivalenza
in
altre
lingue
(ed
allora
si
parla
di
preuve,
prueba,
proba,
Beweis,
e
così
via)
nelle
quali,
appunto,
un
solo
termine
designa
un
insieme
complesso
di
fenomeni.
Questo
insieme
complesso
può
essere
distinto
(con
qualche
approssimazione,
e
senza
tener
conto
di
numerose
varianti
terminologiche
che
si
riscontrano
nella
dottrina
processualistica
italiana
come
in
quella
di
altri
paesi),
in
almeno
tre
componenti:
-‐ àLa
prova
viene
intesa
come
mezzo
di
prova
quando
si
fa
riferimento
a
tutte
le
cose
o
persone
che
forniscono
informazioni
utilizzabili
ai
fini
dell’accertamento
dei
fatti.
Sono
allora
mezzi
di
prova
le
dichiarazioni
testimoniali
(o
addirittura
le
persone
dei
testimoni),
i
documenti
di
qualunque
natura,
le
ispezioni,
le
consulenze
tecniche,
e
in
sostanza
tutto
ciò
che
può
essere
utile
–appunto-‐
come
“mezzo
di
conoscenza”
(e
si
parla
allora
di
moyen
de
preuve,
di
medio
del
prueba,
i
Beweismittel,
e
così
via).
In
questo
ambito
una
distinzione
rilevante
è
quella
che
separa
le
prove
“tipiche”
o
“nominate”,
così
chiamate
per
indicare
che
esse
sono
specificamente
disciplinate
ed
ammesse
dalla
legge
processuale,
dalle
prove
“atipiche”
o
“innominate”,
così
definite
perchè
non
sono
espressamente
disciplinate
dalla
legge.
In
ogni
caso,
poichè
“mezzo
di
prova”
significa
“mezzo
di
conoscenza”,
il
significato
di
“prova”
viene
a
coincidere
con
“conoscenza”,
ossia
con
il
risultato
cui
tende
l’impiego
dei
mezzi
di
prova.
-‐
La
prova
viene
intesa
come
procedimento
quando
si
fa
riferimento
alle
attività,
a
volte
assai
complesse
e
solitamente
disciplinate
in
modo
analitico
dalla
legge
processuale,
mediante
le
quali
il
mezzo
di
prova
viene
acquisito
(se
si
tratta
di
cose
o
documenti)
al
processo,
o
viene
formato
nel
processo,
come
accade
per
le
testimonianze
o
per
le
alre
dichiarazioni
(come
confessione
e
giuramento)
che
possono
aver
luogo
solo
nel
corso
del
procedimento.
Si
parla
allora
di
“assunzione
della
prova”
o
di
“istruzione
probatoria”.
In
questa
prospettiva
emerge
una
ambiguità
non
priva
di
interesse,
che
appare
più
chiaramente
in
francese,
nella
distinzione
tra
preuve,
ossia
la
prova
come
dimostrazione,
ed
épreuve,
ossia
la
prova
come
una
difficoltà
o
una
verifica
che
dev’essere
superata,
attraverso
un’attività
o
un
procedimento.
La
formazione
o
l’acquisizione
di
una
prova
è
una
preuve
ma
è
anche
una
épreuve
in
quanto
si
tratta
di
una
esigenza
che
una
parte
deve
soddisfare
(sicchè
anche
l’espressione
“onere
della
prova”
–charge
de
la
preuve,
carga
de
la
prueba,
Beweislast-‐
rientra
per
qualche
aspetto
in
questo
ambito,
alludendo
a
qualcosa
di
cui
una
parte
deve
riuscire
a
“liberarsi”
se
vuole
vincere
la
causa).
E’
interessante
notare
che
questo
significato
del
termine
tedesco
Beweis
era
prevalente
nell’epoca
delle
ordalie
medievali,
quando
con
la
Beweisurtheil
(ossia
la
sentenza
con
cui
il
giudice
imponeva
l’ordalia)
si
indicava
con
quali
modalità
un
soggetto
(normalmente
l’accusato)
doveva
sottoporsi
alla
“prova”
del
fuoco,
dell’acqua,
o
di
qualche
altro
genere.
Qui
la
prova
era
in
realtà
una
épreuve,
ossia
una
sorta
di
sfida
da
vincere.
In
effetti
l’ordalia
non
dimostrava
nulla
nel
senso
moderno
che
si
d
all’accertamento
della
verità
dei
fatti.
Essa
risolveva
la
controversia
in
favore
o
contro
il
soggetto
che
vi
si
era
sottoposto,
ed
infatti
il
giudice
non
pronunciava
una
ulteriore
sentenza:
era
chiaro
“nei
fatti”
se
l’accusato
era
risultato
colpevole
o
innocente
-‐
La
prova
viene
intesa,
infine,
come
risultato
quando
si
fa
riferimento
all’esito
della
sua
acquisizione,
ossia
quando
si
dice
che
“esiste
la
prova
dei
fatti”,
“è
stata
raggiunta
la
prova”,
e
così
via
(ovvero
anche
quando
si
usano
le
corrispondenti
espressioni
negative).
In
altri
termini,
dire
che
“esiste
la
prova”
della
verità
di
un
enunciato
di
fatto
equivale
a
dire
che
di
tale
enunciato
si
è
data
3
dimostrazione
sulla
base
dei
mezzi
di
prova
disponibili
e
attraverso
il
procedimento
probatorio
previsto
dalla
legge
processuale.
Negli
ordinamenti
di
common
law
la
terminologia
appare
notevolmente
diversa,
il
che
fa
pensare
che
si
tratti
anche
di
un
ordine
concettuale
almeno
parzialmente
diverso
da
quello
che
viene
suggerito
dalla
terminologia
in
uso
nei
sistemi
processuali
di
civil
law.
La
differenza
più
rilevante
è
quella
che
corre
tra
evidence
e
proof.
Per
evidence
si
intende
qualunque
cosa
dalla
quale
si
possano
trarre
informazioni,
conoscenze
o
indicazioni
intorno
all’esistenza
o
alla
inesistenza
di
un
fatto
rilevante
per
la
decisione.
Si
può
forse
ravvisare
un’analogia
tra
il
significato
di
evidence
e
l’idea
di
prova
come
mezzo
di
prova
di
cui
si
è
fatto
cenno
più
sopra,
ma
il
concetto
di
evidence
è
probabilmente
più
ampio.
In
tale
concetto
è
chiaramente
presente
l’idea
della
prova
come
“qualcosa
che
mostra
alcunchè”,
ed
in
questo
senso
l’uso
giuridico
del
termine
pare
connesso
–ma
non
identico-‐
all’uso
non
tecnico
di
evidence,
secondo
il
quale
esso
significherebbe
“evidenza”
e
non
“prova”
(errore
nel
quale
incorrono
molti
traduttori
di
romanzi
polizieschi,
che
non
tengono
conto
di
questa
differenza
e
parlano
di
“evidenza”
quando
invece
dovrebbero
parlare
di
“prova”,
sicchè
espressioni
come
item
of
evidence
–che
significano
“mezzo
di
prova”-‐
vengono
tradotte
come
“pezzo
di
evidenza”,
il
che
ovviamente
non
significa
nulla).
Proof
indica
invece
il
risultato
del
procedimento
probatorio,
ossia
la
conclusione
positiva
intorno
alla
verità
di
un
enunciato
di
fatto
che
viene
tratta
dall’evidence
che
è
stata
acquisita
al
giudizio.
In
un
certo
senso
evidence
si
riferisce
alle
premesse
conoscitive
da
cui
il
trier
of
fact
(giudice
o
giuria)
prende
le
mosse
per
decidere
intorno
ai
fatti
della
causa,
e
proof
si
riferisce
all’esito
positivo
di
tale
decisione,
ossia
alla
raggiunta
dimostrazione
probatoria
della
verità
di
questi
fatti.
Curiosamente,
nella
terminologia
angloamericana
manca
un
termine
che
si
riferisca
specificamente
al
procedimento
di
acquisizione
o
di
formazione
della
prova
(ossia
all’impiego
dell’evidence
per
giungere
alla
proof),
anche
se
non
mancano,
ma
non
sono
particolarmente
significative,
espressioni
come
producing
evidence,
che
si
riferiscono
alla
deduzione
o
all’indicazione
di
elementi
di
prova.
Ovviamente
ciò
non
implica
che
non
esista
un
procedimento
probatorio,
senza
il
quale
il
processo
non
potrebbe
neppure
aver
luogo.
Al
contrario,
ciò
dipende
probabilmente
dal
fatto
che
nel
sistema
di
common
law
l’assunzione
dei
mezzi
di
prova
non
viene
concepita
come
una
specie
di
sub-‐
procedimento,
come
accade
nei
sistemi
di
civil
law,
ma
costituisce
in
realtà
il
vero
nucleo
centrale
del
processo.
Il
trial,
ossia
l’udienza
orale
che
rappresenta
l’essenza
fondamentale
del
processo,
consiste
infatti
principalmente
nell’acquisizione
delle
prove
orali
attraverso
il
metodo
della
direct
e
cross
examination.
Per
così
dire,
il
procedimento
probatorio
non
ha
una
propria
denominazione
nel
lessico
specifico
delle
prove
perchè
si
identifica
con
il
processo,
o
–piuttosto-‐
è
l’essenza
del
processo
che
viene
identificata
con
l’acquisizione
orale
dell’evidence
finalizzata
a
verificare
se
si
raggiunge
o
non
si
raggiunge
la
proof
dei
fatti.
Il
significato
che
si
attribuisce
al
termine
“prova”
nel
contesto
del
processo
varia
in
maniera
significativa
a
seconda
di
come
viene
definita
la
funzione
della
prova
in
quel
contesto.
In
proposito
esistono
varie
opinioni
che
non
possono
essere
qui
esaminate
in
dettaglio:
il
panorama
teorico
in
proposito
può
essere
tuttavia
sintetizzato
–con
notevole
approssimazione-‐
distinguendo
due
4
concezioni
(o
gruppi
di
concezioni),
ognuna
delle
quali,
come
ora
si
vedrà,
si
colloca
ll’interno
di
diverse
teorie
intorno
alla
funzione
del
processo.
Una
prima
concezione
si
riconnette
alle
teorie
secondo
le
quali
il
processo
altro
non
sarebbe
che
un
modo
per
risolvere
controversie:
esso
sarebbe
in
realtà
un
procedimento
con
spiccati
caratteri
ritualistici,
e
con
rilevanti
aspetti
teatrali,
la
cui
funzione
essenziale
consisterebbe
nel
legittimare
agli
occhi
dell’opinione
pubblica
e
del
contesto
sociale
la
decisione
con
cui
la
controversia
viene
risolta.
Questa
concezione
risale
per
certi
aspetti
a
Niklas
Luhmann
(che
in
Legitimation
dürch
Verfahren
ha
chiarito
la
funzione
legittimante
del
“procedimento”
in
sè
considerato,
indipendentemente
dal
contenuto
o
dalla
giustizia
della
decisione
che
lo
conclude),
ma
l’aspetto
rituale-‐teatrale
del
processo
viene
messo
in
particolare
evidenza
anche
nella
letteratura
più
recente,
specialmente
da
Oscar
Chase
e
da
Antoine
Garapon.
Queste
teorie
sono
discutibili
da
vari
punti
di
vista
–soprattutto
perchè
non
si
occupano
del
modo
in
cui
la
controversia
viene
risolta-‐,
ma
questa
linea
di
analisi
non
può
essere
qui
sviluppata
adeguatamente.
Ciò
che
importa
rimarcare
è
che
a
queste
concezioni
si
riconnette
l’idea
che
la
prova
svolga
essenzialmente
una
funzione
retorico-‐
persuasiva.
Nella
concezione
del
processo
come
rappresentazione
teatrale
la
prova,
vista
in
particolare
nei
suoi
aspetti
procedimentali
esteriori,
altro
non
è
che
una
parte
della
rappresentazione:
soprattutto
nell’udienza
pubblica
del
processo
penale,
o
nel
trial
nordamericano,
l’interrogatorio
dei
testimoni
è
spesso
una
buona
pièce
de
théatre
a
cui
assiste
un
pubblico
interessato
(e
che
non
a
caso
è
stata
rappresentata
in
una
miriade
di
film
e
di
telefilm).
Nella
concezione
del
processo
come
rito
la
prova
altro
non
è
che
un
aspetto
importante
del
rito
stesso,
e
ha
la
funzione
di
far
credere
al
pubblico
che
la
decisione
discende
da
un
procedimento
correttamente
ritualizzato.
Più
in
generale,
ed
anche
al
di
fuori
delle
prospettive
ora
ricordate,
molti
ritengono
che
la
prova
altro
non
sia
che
uno
strumento
retorico,
la
cui
funzione
è
di
creare
nella
mente
di
chi
deve
decidere
(giudice
o
giurato)
una
credenza
relativa
ai
fatti
della
causa.
Si
tratta
in
altri
termini,
come
in
tutti
i
procedimenti
“persuasivi”
(e
per
intendere
il
punto
basta
pensare
alla
pubblicità
diffusa
dai
media)
di
condizionare
un
destinatario
inducendolo
a
pensare
che
una
cosa
stia
in
un
certo
modo
o
sia
preferibile
ad
un’altra.
In
sostanza,
la
prova
servirebbe
a
condizionare
il
giudice
inducendolo
a
decidere
in
un
determinato
modo.
Si
tratterebbe
dunque
di
un
espediente
che
opera
a
livello
psicologico
producendo
in
chi
deve
prendere
una
decisione
uno
stato
di
convincimento
intorno
ad
alcunchè.
Si
noti
che
questo
non
riduce
e
non
condiziona
il
grado
di
questo
convincimento,
che
può
anche
raggiungere
livelli
di
certezza
assoluta,
in
particolare
quando
la
persuasione
è
particolarmente
efficace.
Peraltro,
un
convincimento
indotto
con
mezzi
di
persuasione
retorica
può
benissimo
essere
falso.
Questo
modo
di
concepire
la
funzione
della
prova
è
criticabile
da
numerosi
punti
di
vista,
ma
non
si
può
dire
che
esso
sia
completamente
privo
di
senso.
In
realtà
esso
riflette
una
concezione
particolarmente
diffusa
tra
gli
avvocati,
per
i
quali
–appunto-‐
le
prove
sono
strumenti
di
cui
i
difensori
si
servono
per
convincere
il
giudice
a
decidere
in
modo
favorevole
ai
loro
clienti.
Nulla
di
strano
in
ciò,
dato
che
l’obbligazione
fondamentale
dell’avvocato
è
di
tentare
in
tutti
i
modi
legittimi
di
difendere
gli
interessi
del
suo
cliente
sino
ad
ottenere
una
decisione
conveniente.
Tuttavia,
ciò
che
per
l’avvocato
costituisce
la
principale
funzione
pratica
della
prova
non
definisce
necessariamente
in
termini
generali
la
funzione
della
prova.
La
prospettiva
dell’avvocato
non
esaurisce
affatto
il
problema
e
non
ne
costituisce
l’unica
soluzione:
rimane
diversa
–e
per
molti
aspetti
più
importante-‐
5
la
prospettiva
del
giudice,
ossia
la
prospettiva
di
quale
sia
la
funzione
della
prova
rispetto
alla
decisione
intorno
ai
fatti
della
causa.
Con
questa
considerazione
si
può
passare
all’altra
concezione
della
funzione
della
prova,
ossia
alla
concezione
che
si
può
definire
come
epistemica.
Essa
è
strettamente
connessa
ad
una
idea
della
funzione
del
processo
che
è
radicalmente
diversa
da
quelle
che
si
sono
appena
ricordate:
la
funzione
del
processo
consisterebbe
bensì
nella
risoluzione
di
una
controversia,
ma
questa
risoluzione
–che
il
giudice
enuncia
nella
decisione
che
conclude
il
procedimento-‐
deve
essere
giusta,
il
che
significa
che
deve
derivare
da
una
corretta
applicazione
della
norma
giuridica
che
costituisce
la
regola
di
decisione
del
caso.
Semplificando
in
modo
radicale
un
discorso
che
meriterebbe
ben
altro
svolgimento,
si
può
allora
osservare
che
tra
le
condizioni
necessarie
perchè
si
abbia
una
decisione
giusta,
e
perchè
la
norma
che
regola
il
caso
sia
applicata
correttamente,
occorre
che
sia
accertata
la
verità
dei
fatti
che
sono
alla
base
della
controversia.
Per
usare
un’espressione
sintetica
che
risale
a
Jerome
Frank,
nessuna
decisione
è
giusta
se
si
fonda
sui
fatti
sbagliati.
Naturalmente
la
giustizia
della
decisione
non
si
riduce
all’accertamento
veritiero
dei
fatti
(occorrono
altre
condizioni,
come
la
correttezza
del
procedimento
e
la
valida
interpretazione
della
norma
che
si
applica),
ma
tale
accertamento
va
configurato
come
una
condizione
necessaria
della
giustizia
della
decisione,
la
cui
mancanza
fa
sì
che
questa
non
possa
essere
accettata
come
giusta.
In
questo
contesto
si
chiarisce
che
cosa
si
vuole
intendere
parlando
di
funzione
epistemica
della
prova:
la
prova
è
lo
strumento
per
mezzo
del
quale
il
giudice
può
accertare
la
verità
dei
fatti
su
cui
verte
la
decisione.
Anzi:
in
virtù
del
divieto
di
ricorrere
alla
sua
“scienza
privata”
(enunciato
ad
esempio
nell’art.115
del
codice
di
procedura
civile),
il
giudice
deve
fondare
l’accertamento
dei
fatti
esclusivamente
sulle
prove
che
sono
state
acquisite
al
processo.
La
prova
è
dunque
necessaria
perchè
il
giudice
possa
pervenire
correttamente
alla
formulazione
di
una
decisione
veritiera,
e
quindi
giusta.
In
sostanza:
la
prova
è
l’esclusivo
mezzo
di
conoscenza
della
verità
dei
fatti.
Non
è
inutile
ricordare
che
ciò
corrisponde
ad
uno
dei
principi
fondamentali
della
epistemologia
generale,
secondo
il
quale
la
verità
di
un
enunciato
si
fonda
sull’interpretazione
metodologicamente
corretta
di
tutte
le
informazioni
disponibili.
Id
est:
la
prova
è
ciò
che
consente
al
giudice
di
acquisire
tutte
le
informazioni
che
sono
necessarie
per
stabilire
la
verità
degli
enunciati
relativi
ai
fatti
della
causa.
Si
intuisce
facilmente
che
in
questa
prospettiva,
nella
quale
la
prova
è
orientata
e
finalizzata
all’accertamento
della
verità
dei
fatti,
e
per
questa
ragione
svolge
una
funzione
epistemica,
sorge
il
problema
di
stabilire
se
nel
processo
si
possa
accertare
la
verità
dei
fatti,
ed
in
caso
affermativo
di
quale
verità
si
tratti.
In
effetti
molti
negano
che
nel
processo
si
possa
giungere
a
stabilire
la
verità
dei
fatti,
alcuni
dicono
addirittura
che
quand’anche
questo
accertamento
fosse
possibile
esso
andrebbe
evitato
poichè
comporterebbe
un
inutile
spreco
di
tempo
e
di
denaro,
ed
altri
ancora
dicono
che
nel
processo
si
potrebbe
giungere
soltanto
ad
una
“verità
formale”
o
“processuale”,
che
non
avrebbe
nulla
a
che
vedere
con
la
“verità
vera”
o
“reale”
che
si
scoprirebbe
fuori
dal
processo.
Questi
orientamenti
sono
privi
di
fondamento
per
una
varietà
di
ragioni
che
qui
non
possono
essere
esposte
in
modo
adeguato.
Basti
osservare
che
in
molti
casi
chi
ragiona
in
questi
modi
si
pone
–di
solito
inconsapevolmente-‐
nella
condizione
del
popperiano
“assolutista
deluso”,
ossia
di
chi
pensa
alla
Verità
Assoluta
ma
poi
scopre
che
in
determinati
contesti
questa
non
può
essere
scoperta,
e
quindi
conclude
con
un
atteggiamento
scettico
secondo
il
quale
la
verità
non
può
mai
essere
accertata.
6
Non
si
può
negare,
in
effetti,
che
nel
contesto
concreto
del
processo
non
si
possa
giungere
a
verità
assolute.
Il
processo
è
una
impresa
umana
con
tutti
i
limiti
di
ogni
impresa
umana,
e
quindi
non
può
che
aspirare
alla
scoperta
di
verità
relative.
Nulla
di
strano
o
di
negativo
in
ciò:
anche
la
scienza
è
intrinsecamente
fallibile
e
quindi
si
occupa
di
verità
relative
(come
si
è
detto
sopra,
di
verità
relative
alle
conoscenze
e
alle
informazioni
disponibili).
Inoltre,
nei
campi
più
diversi
dell’esperienza
si
prendono
decisioni
anche
di
grande
importanza
sulla
base
di
verità
di
volta
in
volta
relative
alle
informazioni
(ossia:
alle
prove)
a
cui
si
può
fare
riferimento.
D’altra
parte,
nel
processo
non
si
discute
di
verità
metafisiche
o
assolute,
ma
semplicemente
della
verità
o
falsità
di
uno
o
di
alcuni
enunciati
relativi
ai
fatti
rilevanti
della
causa.
Ciò
non
esclude
la
possibilità
di
condividere
una
concezione
aletica
della
verità
come
corrispondenza
non
relativa
dell’enunciato
alla
realtà
che
ne
costituisce
l’oggetto.
Anzi:
anche
nel
processo
la
verità
così
intesa
rappresenta
–come
usa
dire-‐
il
Nord,
ossia
un
necessario
punto
di
riferimento
che
non
si
raggiunge
mai
(come
l’infinito
nelle
serie
numeriche)
ma
che
è
indispensabile
per
comprendere
la
direzione
nella
quale
ci
si
muove.
Così
nel
processo
l’idea
aletica
della
verità
serve
a
fissare
la
direzione
nella
quale
deve
muoversi
la
prova,
anche
se
è
chiaro
che
in
nessuna
situazione
concreta
le
prove
porteranno
il
giudice
a
stabilire
una
verità
indubitabile.
Senza
entrare
nell’eterno
problema
che
riguarda
in
generale
le
concezioni
della
verità,
va
comunque
sottolineato
che
nel
contesto
del
processo
occorre
adottare
una
idea
“realistica”
della
verità
come
corrispondenza
di
ogni
enunciato
descrittivo
alla
realtà
di
cui
tale
enunciato
parla.
Nel
processo,
infatti,
non
rileva
–e
comunque
non
è
determinante-‐
la
coerenza
narrativa
delle
varie
narrazioni
fattuali
che
vari
soggetti
(gli
avvocati,
i
testimoni,
il
giudice)
pongono
in
essere.
Il
processo
deve
accertare
che
cosa
è
accaduto
nella
realtà
storica
ed
empirica,
poichè
da
ciò
che
si
è
davvero
verificato
nel
mondo
degli
eventi
reali
(non
nel
mondo
nietschiano
in
cui
esistono
solo
interpretazioni)
dipendono
decisioni
che
spesso
investono
la
vita,
la
libertà
o
interessi
rilevanti
delle
persone.
D’altronde,
l’impossibilità
di
conseguire
nel
processo
verità
assolute
non
toglie
significato
al
problema
della
verità
processuale:
come
si
vedrà
più
oltre,
il
fare
riferimento
a
verità
relative
non
implica
nessuna
qualificazione
negativa,
e
tanto
meno
induce
a
svalutare
il
ruolo
della
verità
e
della
prova
nel
contesto
del
processo.
Si
tratta,
piuttosto,
di
approfondire
ulteriormente
ciò
che
la
prova
rappresenta
dal
punto
di
vista
del
ragionamento
decisorio
che
il
giudice
pone
in
essere.
Come
già
si
è
accennato,
un
aspetto
rilevante
del
fenomeno
probatorio
riguarda
ciò
che
si
pone
ad
oggetto
della
prova.
Nel
linguaggio
corrente
si
dice
comunemente
che
la
prova
riguarda
“i
fatti”
della
causa,
ma
questa
espressione
può
essere
fuorviante.
In
realtà
non
si
provano
i
fatti,
che
di
regola
si
sono
verificati
prima
e
fuori
del
processo,
ma
si
provano
enunciati
relativi
ai
fatti
della
causa.
Dunque
la
finalità
della
prova
è
di
fornire
al
giudice
le
conoscenze
che
gli
occorrono
per
stabilire
se
questi
enunciati
sono
veri
o
sono
falsi.
I
“fatti
della
causa”
che
sono
oggetto
di
questi
enunciati
possono
essere
di
due
tipi:
i
c.d.
fatti
principali
o
giuridici,
così
chiamati
perchè
corrispondono
alla
“fattispecie
astratta”
definita
dalla
norma
sostanziale
che
si
tratta
di
applicare,
e
quindi
si
considerano
giuridicamente
rilevanti,
e
i
c.d.
fatti
secondari
o
semplici
(che
i
penalisti
chiamano
spesso
indizi)
che
entrano
–per
così
dire-‐
nel
processo
in
quanto
sono
logicamente
7
Questi
banali
rilievi
consentono
di
chiarire
alcuni
aspetti
della
struttura
della
prova.
Da
un
lato,
si
parla
usualmente
di
prova
diretta
quando
l’oggetto
della
prova
(ad
esempio:
di
una
dichiarazione
testimoniale
o
di
un
documento)
è
un
fatto
principale,
mentre
si
parla
di
prova
indiretta
se
il
suo
oggetto
è
un
enunciato
relativo
ad
un
fatto
secondario
(che
deve
essere
a
sua
volta
provato
per
poter
essere
considerato
come
premessa
per
formulare
una
conclusione
relativa
ad
un
enunciato
relativo
ad
un
fatto
principale).
Dall’altro
lato,
occorre
considerare
che
solo
in
rari
casi
la
prova
“mostra”
il
fatto
che
si
tratta
di
accertare.
Ciò
può
accadere,
ad
esempio,
se
si
tratta
di
vedere
una
cosa
(come
un
campione
commerciale)
o
un
luogo,
o
una
riproduzione
(come
una
fotografia)
per
stabilirne
qualche
caratteristica,
ma
di
regola
la
prova
implica
un
ragionamento
che
ha
una
struttura
inferenziale
e
che
conduce
il
giudice
a
formulare
conclusioni
sugli
enunciati
di
fatto
che
sono
oggetto
di
decisione.
Bisogna
tuttavia
specificare
che
si
può
parlare
di
una
struttura
razionale
della
prova
solo
a
condizione
di
condividere
–come
peraltro
accade
nella
dottrina
processualistica
largamente
prevalente-‐
una
concezione
“razionalistica”
del
giudizio
sui
fatti,
e
quindi
del
ragionamento
probatorio.
Non
sempre
è
così,
tuttavia:
nel
panorama
dottrinale
ed
anche
legislativo
in
argomento
–soprattutto
nell’ambito
del
diritto
penale-‐
non
mancano
teorie
(e
talvolta
norme)
secondo
le
quali
il
giudice
non
dovrebbe
fondare
la
sua
decisione
su
un’analisi
razionale
delle
conoscenze
che
le
prove
gli
forniscono,
ma
su
una
intime
conviction
(il
francese
si
giustifica
perchè
la
nozione
nasce
in
Francia
alla
fine
del
‘700,
ma
si
parla
anche
di
convicción
intima
o
di
intimo
convincimento).
Secondo
queste
teorie
la
decisione
sui
fatti
dovrebbe
derivare
da
una
sorta
di
introspezione
che
il
giudice
dovrebbe
esercitare
su
se
stesso,
sino
al
punto
di
emergere
da
questa
riflessione
interiore
con
una
certezza
(a
volte
si
parla
di
certezza
“morale”)
sulla
colpevolezza
o
sulla
innocenza
dell’imputato.
Si
tratterebbe
quindi
di
un
atto
puramente
soggettivo,
irrazionale
ed
incontrollabile
(ed
infatti
solitamente
si
esclude
che
il
giudice
possa
giustificare
la
sua
decisione
nella
motivazione
della
sentenza).
Se
si
segue
questa
linea
di
pensiero
diventa
un
non
senso
parlare
di
ragionamento
probatorio
e
di
struttura
della
prova,
poichè
appunto
la
decisione
sui
fatti
non
sarebbe
frutto
di
un
ragionamento
ma
di
una
sorta
di
intuizione
non
razionale.
Se
invece,
come
pare
ragionevole,
si
adotta
una
concezione
razionalistica
del
procedimento
con
cui
si
giunge
alla
prova
dei
fatti,
si
pone
il
problema
di
vedere
in
che
cosa
si
articola
questo
procedimento.
Il
punto
essenziale
è
che
esso
ha
una
struttura
essenzialmente
inferenziale,
essendo
composto
da
uno
o
più
passaggi
logici
che
connettono
premesse
a
conclusioni
sulla
base
di
regole
di
inferenza
riconoscibili
e
controllabili,
tali
da
giustificare
razionalmente
la
verità
o
la
falsità
delle
conclusioni
stesse.
La
conformazione
di
questa
struttura
è
da
tempo
oggetto
di
una
letteratura
assai
ampia,
nella
quale
emergono
varie
teorie
che
qui
non
possono
essere
prese
in
adeguata
considerazione.
In
estrema
sintesi
si
può
comunque
osservare
che
non
sembra
giustificata
la
pur
diffusa
opinione
secondo
la
quale
la
struttura
delle
inferenze
probatorie
sarebbe
descrivibile
nei
termini
del
calcolo
quantitativo
delle
probabilità,
attraverso
l’applicazione
del
c.
d.
“teorema
di
Bayes”.
La
ragione
fondamentale
di
questa
esclusione
è
che
di
regola
il
ragionamento
probatorio
non
ha
a
che
fare
con
entità
quantificabili
numericamente,
con
la
conseguenza
che
nessun
calcolo
di
probabilità
quantitativa
potrebbe
trovare
applicazione.
Il
carattere
“relativo”
della
verità
che
sulla
8
base
delle
prove
si
può
conseguire
nell’ambito
del
processo
induce
bensì
a
pensare
in
termini
probabilistici,
ma
soltanto
in
termini
di
probabilità
logica.
In
sostanza,
si
tratta
di
far
uso
della
logica
delle
inferenze
tra
enunciati,
riconducendo
a
questa
logica
la
struttura
del
ragionamento
probatorio.
Anche
questa
prospettiva
è
da
qualche
tempo
oggetto
di
studi
approfonditi,
e
non
può
essere
qui
descritta
analiticamente.
Basti
dire
che
nelle
versioni
più
attendibili
essa
si
avvale
di
un
modello
di
inferenza
piuttosto
semplice,
proposto
inizialmente
da
Stephen
Toulmin
e
poi
applicato
sia
nell’ambito
dell’epistemologia
generale
sia
in
quello
della
teoria
processuale
della
prova,
secondo
il
quale
una
premessa
costituita
da
una
informazione
può
fondare
una
conclusione
relativa
ad
un
fatto,
in
funzione
della
regola
di
inferenza
applicabile
a
quell’informazione
e
all’enunciato
conclusivo
sul
fatto.
Il
grado
di
validità
epistemica
della
regola
di
inferenza
(che
può
essere
una
legge
generale,
una
frequenza
statistica,
una
mera
generalizzazione
o
una
massima
d’esperienza)
determina
il
grado
di
conferma
che
l’informazione
usata
come
premessa
attribuisce
alla
conclusione.
Se
la
premessa
è
un
elemento
di
prova
(un
indizio,
la
dichiarazione
di
un
teste,
un
documento),
l’inferenza
che
in
tal
modo
viene
formulata
stabilisce
il
“grado
di
conferma
probatoria”
della
conclusione.
Questo
modello
di
inferenza
rappresenta,
per
così
dire,
l’elemento
“atomico”
(ossia
l’elemento
minimo)
del
ragionamento
probatorio,
che
a
seconda
delle
circostanze
del
caso
può
anche
essere
assai
complesso
e
richiedere
la
formulazione
di
diverse
catene
o
combinazioni
di
inferenze
per
giungere
alla
conclusione
finale
intorno
al
grado
di
conferma
probatoria
che
ottiene
l’enunciato
relativo
ad
un
fatto
principale
della
causa.
L’attività
che
comunemente
si
designa
come
valutazione
della
prova
si
svolge,
nella
prospettiva
razionalistica
che
qui
si
segue,
attraverso
la
formulazione
di
un
insieme
più
o
meno
complesso,
a
seconda
dei
casi,
di
inferenze
del
tipo
che
si
è
ora
indicato,
e
che
sono
destinate
essenzialmente
a
due
scopi.
Il
primo
scopo
consiste
nel
determinare
l’attendibilità
della
prova
di
cui
si
tratta:
se
un
teste
sia
o
non
sia
credibile,
se
un
documento
sia
o
non
sia
autentico,
e
così
via,
sono
problemi
che
si
risolvono
razionalmente
attraverso
la
formulazione
di
inferenze
fondate
su
regole
adeguate.
Il
secondo
scopo
consiste
nell’assumere
come
premessa
una
prova
che
è
risultata
attendibile,
e
fondare
su
di
essa
l’inferenza
che
porta
a
stabilire
se
la
conclusione
–ossia
l’enunciato
sul
fatto
che
si
tratta
di
accertare-‐
è
vera
(ossia
è
logicamente
probabile,
secondo
lo
standard
di
prova
che
vige
in
quel
contesto
processuale)
in
relazione
a
quella
prova.
Se,
come
spesso
accade,
vi
sono
diverse
prove,
la
relativa
valutazione
implica
il
confronto
e
la
valutazione
combinata
di
varie
inferenze.
Il
modello
inferenziale
a
cui
si
fa
riferimento
trova
applicazione
nei
due
contesti
in
cui
si
articola
il
ragionamento
probatorio.
Il
primo
contesto
–che
in
analogia
con
quanto
talvolta
dicono
gli
epistemologi,
si
può
definire
come
contesto
di
scoperta-‐
è
costituito
dal
ragionamento
con
cui
il
giudice,
attraverso
l’analisi
e
la
valutazione
razionale
delle
prove
di
cui
dispone,
giunge
a
formulare
una
decisione
conclusiva
intorno
alla
verità
o
falsità
di
un
determinato
enunciato
di
fatto.
In
questo
contesto
–che
si
può
rappresentare
come
un
procedimento
di
trial
and
error-‐
le
inferenze
che
il
giudice
formula
hanno
carattere
essenzialmente
abduttivo
(secondo
una
terminologia
ormai
diffusa
risalente
a
Ch.S.Peirce),
in
quanto
sono
finalizzate
a
formulare
ipotesi
sui
fatti
partendo
dalle
informazioni
disponibili,
a
verificarne
il
fondamento,
e
in
caso
negativo
a
formulare
altre
ipotesi
fino
a
che
si
giunge
ad
una
ipotesi
che
si
può
considerare
“finale”
in
quanto
risulta
confermata
ad
un
grado
adeguato
di
probabilità
logica
e
quindi
è
“vera”.
Il
secondo
contesto
–definibile
come
contesto
di
giustificazione-‐
è
costituito
dalla
motivazione
della
sentenza
per
quanto
di
essa
riguarda
la
decisione
sui
fatti
della
causa.
Nella
motivazione,
come
usa
dire,
il
giudice
deve
addurre
“buone
9
ragioni”
in
base
alle
quali
la
decisione
risulti
valida
ed
accettabile
in
quanto
veritiera,
e
quindi
complessivamente
giusta
(in
base
a
quanto
si
è
detto
in
precedenza).
Il
ragionamento
giustificativo
ha
una
struttura
logica
diversa
dal
ragionamento
euristico,
poichè
in
esso
la
premessa
che
va
giustificata
è
la
decisione,
che
in
realtà
ha
costituito
il
risultato
del
ragionamento
euristico.
Tuttavia
lo
strumento
logico
fondamentale
che
consente
la
formulazione
razionale
di
entrambi
i
ragionamenti
rimane
pur
sempre
l’inferenza
probatoria:
nella
fase
euristica
del
ragionamento
essa
serve
a
“scoprire”
e
a
fondare
la
conclusione
che
il
giudice
accoglie
nella
decisione
finale,
mentre
nella
fase
giustificativa
essa
serve
a
mostrare
quale
sia
–appunto-‐
il
fondamento
logico
della
decisione.
5. Metafore.
Se
è
vero
che
il
linguaggio
comune
è
costituito
da
metafore
che
si
sono
selezionate
e
consolidate
nell’uso,
questa
considerazione
vale
anche
per
il
linguaggio
con
cui
si
tenta
di
definire
che
cosa
sia
una
prova
nel
contesto
del
processo.
In
particolare
ciò
vale
quando
il
problema
è
di
esprimere
che
cosa
si
intende
quando
si
dice
che
la
prova
ha
avuto
esito
positivo
e
quindi
fornisce
la
dimostrazione
della
verità
di
un
enunciato
di
fatto.
Prendendo
a
prestito
una
interessante
analisi
di
Giovanni
Tuzet,
si
possono
così
identificare
le
metafore
che
si
impiegano
più
comunemente
per
riferirsi
al
risultato
della
prova.
Vi
sono
anzitutto
metafore
di
peso,
o
comunque
di
carattere
quantitativo.
Ciò
accade
ad
esempio
quando
si
usa
l’espressione
weight
of
proof,
ma
una
metafora
quantitativa
ricorre
tutte
le
volte
che
si
parla
di
probabilità,
soprattutto
quando
si
fa
riferimento
(come
si
è
detto
più
sopra)
al
calcolo
della
probabilità
quantitativa.
Una
metafora
dello
stesso
genere
si
adopera
tutte
le
volte
che
–come
accade
assai
spesso-‐
si
allude
al
grado
di
conferma
probatoria
dell’enunciato
che
è
oggetto
della
prova
usando
una
scala
numerica
da
0
(che
significa
mancanza
di
prova)
a
1
(che
significa
prova
“piena”)
passando
per
indicazioni
come,
0.3,
0.7
e
così
via,
oppure
si
usano
cifre
percentuali
da
0
a
100.
Metafore
quantitative
non
sono
tuttavia
solo
quelle
che
–in
modo
solitamente
indebito-‐
ricorrono
a
notazioni
numeriche.
Metafore
dello
stesso
genere
ricorrono
anche
quando
si
parla
di
balance
of
probabilities,
di
preponderance
of
evidence,
di
“più
probabile
che
no”,
e
di
altre
espressioni
dello
stesso
genere
che
alludono
al
raffronto
fra
“quantità
di
prova”
o
–appunto-‐
al
“peso”
di
una
prova.
Abbastanza
simili
alle
metafore
di
peso
sono
le
metafore
di
sostegno,
ossia
le
metafore
che
suggeriscono
l’idea
di
un
supporto
che
le
prove
danno
alla
conclusione
relativa
alla
veridicità
di
un
enunciato
di
fatto.
L’idea
che
la
prova
fornisca
una
conferma
a
tale
conclusione,
o
che
offra
buone
ragioni
per
accettarla,
o
che
ne
derivi
una
giustificazione
adeguata
dell’enunciato
in
questione,
conduce
all’impiego
di
metafore
di
questo
tipo.
Quando
si
fa
riferimento
–come
in
precedenza-‐
alla
struttura
dell’inferenza
probatoria,
si
ricorre
a
metafore
di
garanzia:
l’elemento
fondamentale
dell’inferenza,
che
determina
ed
assicura
l’attendibilità
della
conclusione
in
base
all’informazione
che
si
usa
come
premessa,
è
infatti
la
regola
che
fonda
l’inferenza
stessa.
La
metafora
è
particolarmente
evidente
nel
linguaggio
di
Toulmin
che
definisce
come
warrant
(ossia,
appunto,
come
“garanzia”)
questa
regola.
10
Infine,
si
fa
ricorso
a
metafore
di
combinazione
tutte
le
volte
che
si
pone
l’accento
sulla
presenza
di
una
pluralità
di
prove
convergenti
–o
divergenti-‐
rispetto
alla
veridicità
di
un
enunciato
di
fatto.
Ciò
è
evidente,
ad
esempio,
nell’art.2729
del
codice
civile,
ove
si
dice
che
le
presunzioni
semplici
possono
dar
luogo
alla
prova
di
una
fatto
se
–
oltre
ad
essere
gravi
(metafora
di
peso)
e
precise-‐
sono
anche
concordanti.
Metafore
come
queste
non
esauriscono,
evidentemente,
tutti
i
modi
in
cui
si
può
discorrere
della
prova:
esse
corrispondono
soltanto
ai
modi
di
espressione
che
ricorrono
più
comunemente
in
tale
discorso.
Pare
ovvio,
inoltre,
che
esse
non
siano
mutuamente
esclusive.
E’
anzi
la
loro
combinazione
che
consente
di
mettere
in
luce,
di
volta
in
volta,
aspetti
diversi
ma
sempre
presenti
in
ciò
che
si
intende
per
“prova”.
La
loro
esistenza,
il
loro
frequente
impiego
e
la
loro
pluralità
sono
comunque
un
chiaro
segno
della
difficoltà
che
si
incontra
quando
si
tenta
di
dar
conto
di
un
fenomeno
così
vario
e
complesso
come
quello
che
determina
l’accertamento
probatorio
della
verità
dei
fatti.