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Giuridico, ragionamento

di Riccardo Guastini - Enciclopedia delle Scienze Sociali I Supplemento (2001)

Giuridico, ragionamento

'RAGIONAMENTO'

Il vocabolo 'ragionamento' è ambiguo: talvolta sembra riferirsi


ad un atto o processo: l'atto o processo (mentale) del ragionare;
talaltra sembra riferirsi al risultato o prodotto di tale atto.
Tuttavia, si può considerare risultato dell'atto di ragionare: sia la
conclusione o la deliberazione cui, ragionando, si perviene; sia
il discorso - la sequenza di enunciati - attraverso cui l'atto
mentale del ragionare viene (eventualmente) reso pubblico, e di
cui la conclusione costituisce solo una parte.Ora, non sembra
appropriato usare il vocabolo 'ragionamento' per riferirsi alla
sola conclusione cui, ragionando, si perviene. D'altro canto,
generalmente parlando, l'atto mentale del ragionare è oggetto
appropriato per l'indagine psicologica, non per l'analisi logica.
Neppure esso può costituire oggetto di indagine dal punto di
vista teorico-giuridico.

Nel seguito, pertanto, converrà intendere per 'ragionamento' un


discorso, e più precisamente una sequenza di enunciati, uno dei
quali svolga la funzione di tesi o conclusione e i rimanenti
svolgano la funzione di premesse, argomenti, o ragioni in
favore di esso. Sono sinonimi di 'ragionamento' in questo senso:
'inferenza', 'argomentazione', e anche (con anglicismo)
'argomento'.Va detto, qualora non fosse ovvio, che la
definizione precedente si riferisce ad un ragionamento 'atomico'
(un microragionamento). Ma, naturalmente, accade
frequentemente che una pluralità di ragionamenti atomici siano
fra loro intrecciati, così da produrre un macroragionamento nel
quale la conclusione di un ragionamento atomico svolge il ruolo
di premessa in un altro ragionamento atomico.

TIPI DI RAGIONAMENTO

I ragionamenti possono essere classificati secondo diversi


criteri. Nel presente contesto, i criteri di classificazione rilevanti
sono due.

a) Un primo criterio rilevante di classificazione attiene agli


elementi (al tipo di enunciati) che entrano a comporre un
ragionamento.Si dice aletico o teorico un ragionamento i cui
componenti (premesse e conclusione) siano, tutti, proposizioni,
ossia enunciati del discorso conoscitivo o descrittivo, come tali
o veri o falsi. Si dice normativo o pratico un ragionamento la
cui conclusione sia una norma, ossia un enunciato del discorso
prescrittivo o direttivo, come tale né vero né falso.

Il ragionamento giuridico appartiene ovviamente al genere dei


ragionamenti normativi. La sua unica peculiarità è che la norma
che funge da conclusione è una norma (non morale, non di
etichetta, ecc., ma) giuridica. Diremo dunque giuridico ogni
ragionamento la cui conclusione sia una norma giuridica.In
letteratura, peraltro, si dicono giuridici per antonomasia i
ragionamenti dei giudici. In essi, non solo una norma giuridica
svolge il ruolo di conclusione ma inoltre, per le ragioni che
vedremo, almeno un'altra norma giuridica non può non figurare
tra le premesse.
b) Un secondo criterio rilevante di classificazione attiene alla
struttura logica dei ragionamenti, e per conseguenza alla loro
'forza', se così possiamo dire.

Un ragionamento ha struttura deduttiva allorché la conclusione


è logicamente implicita nelle premesse; ha struttura non
deduttiva negli altri casi.I ragionamenti deduttivi sono altresì
'cogenti' o 'stringenti', nel senso che, se si accettano le premesse,
non si può (senza contraddirsi) rifiutare la conclusione: le
premesse 'garantiscono' la conclusione. I ragionamenti non
deduttivi (induttivi, abduttivi, e quant'altro), per contro, sono
non stringenti, nel senso che di essi si può (senza contraddirsi)
rifiutare la conclusione, pur accettando le premesse: le premesse
non 'garantiscono' la conclusione.

SONO AMMISSIBILI RAGIONAMENTI NORMATIVI?

Un ragionamento aletico è logicamente valido, e dunque


stringente, allorché ha carattere deduttivo: se le premesse sono
vere, allora, necessariamente, anche la conclusione è vera. (Si
osservi che la validità del ragionamento è del tutto indipendente
dalla verità degli enunciati che entrano a comporlo. In concreto:
la falsità delle premesse e della conclusione non esclude che il
ragionamento sia valido ma, d'altro canto, la verità delle
premesse e della conclusione non garantisce che il
ragionamento sia valido).

Ma come definire le condizioni di validità dei ragionamenti


normativi? Il problema nasce dal fatto che non possiamo
estendere ai ragionamenti normativi le condizioni di validità dei
ragionamenti aletici. Non possiamo cioè dire che un
ragionamento normativo sia logicamente valido allorché dalla
verità delle premesse consegue necessariamente la verità della
conclusione: per la banale ragione che nei ragionamenti
normativi compaiono norme, e le norme non hanno affatto
valori di verità (non sono né vere né false).

A quali condizioni, dunque, può dirsi logicamente valido un


ragionamento normativo? E anzi: se la validità dei ragionamenti
dipende dai valori di verità degli enunciati componenti, può un
ragionamento normativo essere logicamente valido? Insomma:
si può validamente ragionare con norme?Da un lato, sembra
ovvio che validi ragionamenti normativi siano possibili, dal
momento che ragionamenti del tutto comuni in cui, ad esempio,
da una norma generale (in congiunzione con una proposizione
fattuale) si inferisce una norma individuale - "I contratti devono
essere adempiuti. Questo è un contratto. Quindi questo deve
essere adempiuto" - sono intuitivamente corretti, e non si
vedono ragioni per dubitarne.Ma, dall'altro lato, l'intuizione non
pare una risposta sufficiente. Se le relazioni di implicazione
logica si definiscono in termini di verità - come si usa fare da
Aristotele in poi - e se le norme sono prive di valori di verità,
allora non possono esservi relazioni di implicazione logica tra
norme.

Ecco i due corni del cosiddetto 'dilemma di Jørgensen'.

POSSIBILI RISPOSTE

Il dilemma di Jørgensen ammette diverse risposte: le più


interessanti paiono le seguenti (ciascuna delle quali conta
alcune varianti).
1) I ragionamenti normativi sono perfettamente possibili, e il
dilemma non ha ragion d'essere, giacché una delle sue premesse
è errata. Contrariamente a ciò che il dilemma assume come
pacifico, le norme hanno valori di verità: anch'esse, come le
proposizioni, possono essere vere o false. Ne è prova il fatto che
enunciati del tipo "È vero che non si deve uccidere" sono
enunciati ben formati della lingua italiana. Le norme sono vere
allorché corrispondono a doveri o valori oggettivamente
esistenti nella 'natura delle cose' (o nella struttura dell'umana
esistenza) e riconoscibili mediante l'uso della 'retta
ragione'.Questo modo di vedere, caratteristico del
giusnaturalismo, presuppone il cognitivismo etico, ossia la tesi
della conoscibilità di valori, doveri, e quant'altro.

2) I ragionamenti normativi sono frutto di illusione, di


autoinganno. Malgrado le apparenze, nessun ragionamento
normativo è valido. Le norme sono, per così dire, fatti: non
entità concettuali, non contenuti di pensiero. E tra i fatti si
danno, forse, relazioni causali, ma certamente non relazioni di
implicazione logica.In altre parole, ciò che chiamiamo 'norma' è
interamente riducibile o all'atto di comando di un'autorità
normativa, o all'atto di accettazione di un destinatario. Gli atti di
comando e di accettazione sono eventi spazio-temporali: fatti,
appunto. E dal fatto che un'autorità abbia comandato, o un
destinatario abbia accettato, di fare o di omettere una certa cosa
non segue deduttivamente che l'autorità abbia altresì
comandato, o il destinatario accettato, di farne od ometterne
un'altra (per quanto questa seconda cosa possa apparire in
qualche senso 'conseguente' alla prima).
3) Essendo le norme prive di valori di verità, non si può
ragionare deduttivamente con norme. Ma, se non si può
ragionare con norme, si può tuttavia ragionare con proposizioni
fattuali che asseriscano il 'soddisfacimento' (l'osservanza,
l'adempimento, l'effettività) di norme.

Così, ad esempio, dalla proposizione secondo cui la norma


(generale) "Gli assassini devono essere puniti" è adempiuta si
può inferire la proposizione secondo cui la norma (individuale)
"L'assassino Tizio deve essere punito" è, anch'essa, adempiuta.
In un certo senso, dunque, la logica può applicarsi alle norme:
ma solo indirettamente, per il tramite di proposizioni fattuali
(come tali vere o false) che vertono sul loro 'soddisfacimento'.

4) I componenti dei ragionamenti normativi sono enunciati


deontici (ossia enunciati in termini di 'dovere'). Siffatti
enunciati, tuttavia, sono ambigui: possono essere usati per
esprimere, in diversi contesti, sia norme, sia proposizioni
normative, ossia proposizioni che vertono su norme,
affermandone l'esistenza, la validità (in qualche senso di questa
enigmatica parola), o descrivendone il contenuto. Ora, sebbene
le norme siano prive di valori di verità, non sono però prive di
valori di verità le proposizioni che vertono su di esse.

Ebbene, nei ragionamenti normativi, gli enunciati deontici


esprimono non già norme, bensì proposizioni normative. Chi,
ad esempio, dalla premessa che gli assassini devono essere
puniti conclude che l'assassino Tizio deve essere punito, non
inferisce una norma da un'altra norma, bensì una proposizione
da un'altra proposizione: dalla proposizione che asserisce
l'esistenza di una certa norma (generale) inferisce una
proposizione che asserisce l'esistenza di un'altra norma
(individuale). Se la prima proposizione è vera, allora anche la
seconda sarà vera. D'altro canto, le proposizioni normative sono
sintatticamente identiche alle norme (per così dire: le iterano, le
ripetono, le riecheggiano). Così, ad esempio, la proposizione
che afferma l'esistenza e/o descrive il contenuto della norma
secondo cui "Gli assassini devono essere puniti" non ha altra
forma esteriore se non quella della norma stessa: "Gli assassini
devono essere puniti". Quel che più conta, il comportamento
logico delle proposizioni normative è isomorfo a quello delle
norme sottostanti.

Insomma, se nessuna norma può dirsi implicare un'altra norma,


è però innegabile che la proposizione normativa generale "Gli
assassini devono essere puniti", in congiunzione con la
proposizione fattuale "Tizio è un assassino", implichi
logicamente la proposizione normativa individuale "Tizio deve
essere punito". Ecco dunque che, sebbene non si possa
validamente ragionare con norme, è tuttavia possibile ragionare
validamente con proposizioni normative. Ma le proposizioni
normative, d'altra parte, 'riflettono' le norme cui si riferiscono, e
la logica delle proposizioni normative 'riflette' a sua volta la
logica delle norme. Le regole della logica possono dunque
applicarsi alle norme indirettamente, per il tramite delle
proposizioni normative che le ripetono e le descrivono.

5) Ogni norma può essere in ultimo ridotta alla forma standard


"È obbligatorio che p" (dove p sta per una proposizione): ad
esempio, "È obbligatorio che i ladri siano puniti". Orbene,
questa formulazione normativa può essere analizzata in due
componenti: una qualificazione normativa o deontica di un
comportamento ("È obbligatorio che...") ed una descrizione del
comportamento in questione ("...che tutti i ladri siano puniti").
La parte 'descrittiva' - o, più propriamente, referenziale - della
norma altro non è che una proposizione: un enunciato del quale
si può predicare la verità o la falsità. Praticamente: un enunciato
al quale si possono sensatamente premettere le espressioni "È
vero..." ed "È falso..." (per esempio: "È vero che tutti i ladri
sono puniti", "È falso che tutti i ladri siano puniti"). Insomma:
secondo questa analisi, ogni norma incorpora una proposizione.

Ebbene, i componenti dei ragionamenti cosiddetti normativi


sono, a ben vedere, non già delle norme, ma delle proposizioni
incorporate in norme: non si ragiona con le norme nella loro
interezza, se così possiamo dire, ma solo con la parte
referenziale delle norme. La proposizione incorporata nella
norma generale "Tutti i ladri devono essere puniti" è "che tutti i
ladri siano puniti"; e la proposizione "che tutti i ladri siano
puniti" palesemente implica la proposizione "che il ladro Tizio
sia punito".

6) Il dominio della logica è più ampio del dominio della verità.


Le norme non hanno valori di verità, ma non per questo sono
prive di valori logici qualsivoglia. Semplicemente, esse hanno
altri valori logici, diversi da quelli di verità. I valori logici delle
norme sono i valori di validità, intesa come giustizia,
obbligatorietà, o, come anche si usa dire, 'forza vincolante'.

I valori di validità, così intesi, hanno un comportamento logico


del tutto analogo ai valori di verità. Se di un ragionamento
normativo è valida la premessa normativa, allora sarà
egualmente valida la conclusione (anch'essa normativa); se la
premessa normativa è invalida, sarà egualmente invalida la
conclusione. Se è valida (giusta, obbligatoria, vincolante) la
norma generale secondo cui "Tutti i ladri devono essere puniti",
sarà egualmente valida (giusta, obbligatoria, vincolante) la
norma individuale "Il ladro Tizio deve essere punito".

RAGIONAMENTI NORMATIVI INVALIDI

Nel pensiero logico moderno è opinione pressoché pacifica - a


partire da Hume - che sia senz'altro invalido (non cogente, non
concludente) qualunque ragionamento la cui conclusione sia
una norma, ma le cui premesse siano (tutte) proposizioni, come
anche qualunque ragionamento la cui conclusione sia una
proposizione, ma le cui premesse siano (tutte) normative.

Si usa appunto chiamare 'legge di Hume' quella legge della


logica secondo la quale non si possono validamente inferire
conclusioni normative (cioè norme) da premesse
esclusivamente conoscitive (cioè proposizioni), né conclusioni
conoscitive (proposizioni) da premesse puramente normative
(norme).

Pertanto, in un ragionamento normativo, una norma deve


figurare tra le premesse, pena l'invalidità. Un ragionamento la
cui conclusione sia una norma, ma le cui premesse siano (tutte)
proposizioni, è invalido. Come è invalido, del resto, un
ragionamento le cui premesse siano esclusivamente normative e
la cui conclusione sia una proposizione.

Così, ad esempio, è invalido il ragionamento "Tizio ha


promesso di pagare a Caio cento dollari. Pertanto Tizio deve
pagare a Caio cento dollari", a meno di aggiungere tra le
premesse la norma "Le promesse devono essere adempiute". Ed
è egualmente invalido il ragionamento "Tutti i ladri devono
essere puniti. Pertanto il ladro Tizio è stato punito", a meno di
aggiungere tra le premesse la proposizione "La norma 'Tutti i
ladri devono essere puniti' è adempiuta".

VARIETÀ DI RAGIONAMENTI NEL DIRITTO

Se facciamo astrazione dagli operatori giuridici 'privati'


(giuristi, avvocati, notai, e via enumerando, fino ad arrivare agli
stessi cittadini), il mondo del diritto appare popolato
essenzialmente da due tipi di soggetti: organi che producono
norme e organi che le applicano. Da un lato i legislatori
(latamente intesi), dall'altro i giudici e la pubblica
amministrazione.

Tuttavia, la letteratura in tema di ragionamento giuridico è


essenzialmente, se non esclusivamente, dedicata al
ragionamento giudiziale (e anzi, più precisamente, al
ragionamento dei soli giudici di merito: non vi sono studi
specifici sul ragionamento dei giudici di legittimità).

Che non vi siano studi sul ragionamento del legislatore è


facilmente spiegabile. Nella cultura giuridica moderna, la
legislazione è concepita come un'attività, per un verso, 'libera
nel fine' (così si usa dire) e, per l'altro verso, non già
applicativa, ma creativa di diritto. I legislatori, cioè, né sono
vincolati al perseguimento di fini eteronomi predeterminati, né
hanno il dovere di applicare norme ad essi precostituite.

Per questa ragione, negli ordinamenti giuridici moderni, gli


organi legislativi, generalmente parlando, non hanno alcun
obbligo di motivare le loro deliberazioni: i legislatori non sono
tenuti a 'dare ragioni' delle loro decisioni, né ci si attende che le
diano. Di fatto, le leggi sono prive di motivazione.

Ciò non esclude che i legislatori compiano ragionamenti. Ad


esempio, si può congetturare che un legislatore - o almeno un
legislatore razionale (nel senso della razionalità strumentale) -
dapprima determini i fini che intende perseguire, e poi scelga i
mezzi (ossia deliberi i testi legislativi) idonei a raggiungere tali
fini, mediante un ragionamento avente, grosso modo, la
seguente struttura formale: "Si deve conseguire il fine F. M è un
mezzo per F. Quindi si deve fare M" (dove M è una
deliberazione legislativa). Tuttavia, i legislatori non hanno
alcun obbligo di ragionare in questo (o in altro) modo, né hanno
l'obbligo di rendere pubblico il loro ragionamento. Il
ragionamento del legislatore, quale che sia (e posto che vi sia),
resta un processo psicologico esterno ed estraneo al documento
legislativo: non entra comunque a farne parte.

L'abbondanza di studi sul ragionamento del giudice è


egualmente comprensibile. Nella cultura giuridica moderna,
l'attività giurisdizionale è concepita come un'attività di mera
applicazione di norme generali precostituite a casi individuali.
Un'attività siffatta esige, come vedremo, un ragionamento
deduttivo - e anzi, secondo Beccaria, un sillogismo - del tipo:
"Tutti gli assassini devono essere puniti. Tizio è un assassino.
Quindi Tizio deve essere punito".

Negli ordinamenti giuridici moderni, l'attività giurisdizionale è


retta dal principio di legalità. In virtù di tale principio, ogni
decisione giurisdizionale deve essere fondata su una norma
giuridica preesistente. Senza di che non sarebbe garantita la
certezza del diritto, ossia la prevedibilità delle decisioni
giudiziali. Pertanto, non sarebbe giustificata una decisione
giurisdizionale in cui il dispositivo della sentenza (ad esempio,
la norma individuale che condanna un assassino) non fosse
dedotto da una norma generale (in congiunzione con una o più
proposizioni fattuali, descrittive delle circostanze del caso
debitamente provate).

Per questa ragione, negli ordinamenti giuridici moderni, le


decisioni giurisdizionali devono essere motivate, e devono
essere motivate sulla base della legge, ossia sulla base di norme
precostituite (si vedano ad esempio gli articoli 101, comma 2, e
111, comma 6, della Costituzione italiana vigente).

Insomma, i giudici, a differenza dei legislatori, hanno l'obbligo


di compiere ragionamenti - e più precisamente ragionamenti
deduttivi, tra le cui premesse deve figurare almeno una norma
di legge - e, soprattutto, hanno l'obbligo di esibire tali
ragionamenti, di renderli pubblici. Il ragionamento del giudice,
depositato nella motivazione, costituisce parte integrante della
sentenza, e sarebbe invalida una sentenza che fosse priva di
motivazione (e pertanto arbitraria).

L'assenza di studi sul ragionamento dei funzionari della


pubblica amministrazione, per contro, è meno comprensibile.
Nell'ordinamento italiano vigente (come, del resto, in altri
ordinamenti), anche gli atti amministrativi - con la sola
eccezione di quelli che, come le leggi, hanno contenuto
normativo (regolamenti) - devono essere motivati: "la
motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni
giuridiche che hanno determinato le decisioni
dell'amministrazione" (art. 3, comma 1, legge 241/1990). Sotto
questo profilo, le decisioni amministrative non differiscono in
maniera significativa da quelle giurisdizionali.A differenza di
quella giurisdizionale, tuttavia, l'attività amministrativa ha
(prevalentemente) carattere 'discrezionale': consiste, cioè, nel
perseguire "i fini determinati dalla legge" (art. 1, comma 1,
legge 241/1990), scegliendo i mezzi appropriati alla luce delle
circostanze di fatto debitamente accertate. Questo tipo di attività
sembra richiedere un ragionamento in tutto simile - almeno
nella sua struttura formale - a quello proprio del legislatore: "Si
deve conseguire il fine F. M è un mezzo per F. Quindi si deve
fare M" (dove M è la deliberazione di un determinato atto
amministrativo). Con l'importante differenza che l'attività della
pubblica amministrazione non è 'libera' nel fine, ma appunto
'discrezionale' - così si usa dire nella dottrina
amministrativistica - essendo il fine prefissato dalla legge.

A prima vista, abbiamo dunque due tipi di ragionamento, con


strutture formali distinte. Il ragionamento dei giudici è di tipo
'deontologico': prende le mosse da una norma. Il ragionamento
del legislatore (razionale) e dei funzionari amministrativi è di
tipo 'teleologico': prende le mosse da un fine.Ma la differenza
tra il ragionamento giudiziale e quello dei funzionari
amministrativi si attenua, se si tiene a mente il fatto che anche i
funzionari amministrativi (non così i legislatori) muovono da
una norma precostituita: la norma di legge che predetermina il
fine da perseguire. La differenza sta piuttosto in questo: che il
legislatore solitamente rivolge ai giudici norme di condotta, ai
funzionari amministrativi norme teleologiche.

Nel seguito, il discorso sarà circoscritto al ragionamento


giudiziale. Peraltro, alcune delle cose che diremo - la
distinzione tra 'scoperta' e 'giustificazione', la distinzione tra
giustificazione interna e giustificazione esterna, l'analisi di
quest'ultima - sono estensibili, con pochi adattamenti, al
ragionamento dei funzionari amministrativi.

'SCOPERTA' E 'GIUSTIFICAZIONE' DELLA DECISIONE

Abbiamo detto in apertura che il vocabolo 'ragionamento' può


designare indifferentemente tanto un processo mentale, quanto
un discorso: il processo mentale attraverso cui si perviene ad
una conclusione o decisione e, rispettivamente, il discorso con il
quale si giustifica - si danno ragioni a sostegno di - tale
conclusione o decisione. Le due cose sono ovviamente distinte,
e la distinzione va sottolineata nel presente contesto. Come in
relazione alle teorie scientifiche si usa distinguere tra 'contesto
di scoperta' e 'contesto di giustificazione', così in relazione alle
decisioni giurisdizionali conviene distinguere tra il processo
psicologico attraverso il quale il giudice perviene alla decisione
ed il discorso attraverso il quale egli la argomenta o giustifica
pubblicamente. L'importanza della distinzione discende dal
fatto, scontato, che non necessariamente il discorso
giustificatorio riflette fedelmente il processo psicologico.

È possibile - anzi, secondo alcuni, è certo - che il discorso


giustificatorio costituisca la 'razionalizzazione' ex post di una
conclusione cui il giudice è pervenuto in modo del tutto
'irrazionale', spinto da emozioni, preferenze, ideologie. Può
darsi - in verità, è molto probabile - che nell'assumere la
decisione il giudice sia guidato (anche) dai suoi privati
sentimenti di giustizia. Ma, generalmente parlando, negli
ordinamenti giuridici moderni, egli non può addurre in
motivazione tali sentimenti: deve mostrare che la sua decisione
è fondata su (deducibile da) norme giuridiche positive.

Ora, l'analisi del ragionamento giudiziale ha ad oggetto il


discorso giustificatorio del giudice, non i suoi stati mentali e
processi psicologici.

Nel nostro ordinamento (e, in genere, negli ordinamenti


moderni che sottendono una cultura giuridica di tipo liberale)
tutte le sentenze presentano una struttura comune: dispositivo
più motivazione. Il contenuto del dispositivo - o decisione in
senso stretto - può essere configurato come la conclusione di un
ragionamento. La motivazione, a sua volta, può essere
configurata come l'insieme degli argomenti addotti a
giustificazione della decisione. In essa è dunque depositato il
ragionamento del giudice.Occorre tuttavia precisare che quanto
si dirà non costituisce una descrizione empirica del modo in cui
i giudici ragionano di fatto. Costituisce piuttosto un modello
ideale del modo in cui ci si attende che i giudici ragionino,
conformemente al principio di legalità nella giurisdizione che è
proprio degli ordinamenti giuridici moderni.

GIUSTIFICAZIONE 'INTERNA' E GIUSTIFICAZIONE


'ESTERNA'

Si discute in letteratura se il ragionamento giudiziale abbia


carattere logico, stringente, o invece retorico, persuasivo. Il
dilemma ammette, a ben vedere, una semplice soluzione.

Nel ragionamento giudiziale si possono distinguere due livelli


di argomentazione, che si usa chiamare, rispettivamente,
giustificazione 'interna' (o giustificazione di primo ordine) e
giustificazione 'esterna' (o giustificazione di secondo ordine).

La giustificazione interna è costituita dall'insieme delle


premesse per sé necessarie e sufficienti a fondare logicamente
la decisione (il dispositivo della sentenza). Tali premesse, come
abbiamo visto, devono includere una norma.

La giustificazione esterna è costituita dall'insieme delle ulteriori


premesse che sono necessarie a fondare la scelta delle premesse,
che a loro volta costituiscono giustificazione interna.

La giustificazione interna è sempre necessaria, giacché in


assenza di essa la decisione sarebbe priva di fondamento, e
dunque arbitraria. La giustificazione esterna, per contro, è
necessaria se e in quanto le premesse della giustificazione
interna siano di fatto contestate o comunque contestabili.

La giustificazione interna ha carattere logico-deduttivo, mentre


la giustificazione esterna ha piuttosto carattere retorico.

La giustificazione interna

In astratto, si possono immaginare almeno due modelli di


giustificazione delle decisioni giudiziali: un modello
deontologico ed un modello teleologico (strumentale,
consequenzialista). Ciascuno di essi corrisponde a diverse
concezioni della giustizia e della razionalità. Secondo il
modello deontologico, la decisione è giustificata se, e solo se, è
logicamente fondata su (ossia deducibile da) una norma previa.
Secondo il modello teleologico, la decisione è giustificata se, e
solo se, è teleologicamente congruente rispetto ad un fine
prefissato.

Come si è accennato ad altro proposito, in genere gli


ordinamenti giuridici moderni (e segnatamente il diritto italiano
vigente), mentre ammettono giustificazioni del secondo tipo per
le decisioni amministrative, esigono una giustificazione del
primo tipo per le decisioni giurisdizionali.

Di conseguenza, la giustificazione interna delle decisioni


giurisdizionali deve avere struttura - se non sillogistica, come
voleva Beccaria - certamente deduttiva, e deve includere una
norma tra le premesse. Più precisamente, il contenuto della
decisione deve essere logicamente dedotto da una norma in
congiunzione con una proposizione conoscitiva.

In generale, ogni norma giuridica, nella sua struttura profonda,


può essere ricostruita come un enunciato di forma condizionale,
del tipo: "Se F, allora G". Qualche esempio (semplificato),
scelto a caso e rappresentato in forma schematica: "Se
assassinio, allora obbligo di punizione" (art. 575 Codice
penale), "Se diciotto anni, allora maggiore età" (art. 2, comma
1, Codice civile), "Se cittadino, allora diritto di associazione"
(art. 18, comma 1, Costituzione), "Se provvedimento
giurisdizionale, allora obbligo di motivazione" (art. 111, comma
6, Costituzione), e via esemplificando. Come si vede, la protasi
si riferisce ad una classe di fatti condizionanti (la classe degli
assassinii, la classe dei diciottenni, ecc.), mentre l'apodosi
statuisce una conseguenza giuridica (l'obbligo di punire, la
maggiore età, ecc.) in relazione a ciascuno dei membri della
classe.
Ebbene, l'applicazione giudiziale di una norma generale (o
astratta) ad un caso individuale (o concreto) può essere
configurata come un semplice ragionamento deduttivo, in
modus ponens: "Se F, allora G. F. Quindi G".Beninteso, il
carattere deduttivo dell'argomentazione garantisce la validità
logica della conclusione, ma non la sua fondatezza giuridica. La
conclusione è giuridicamente fondata se, e solo se, ricorrono
due condizioni: a) la premessa normativa ("Se F, allora G") è
una norma positiva valida; b) la premessa conoscitiva ("F") è
una proposizione vera, la cui verità sia stata provata (in accordo
con le norme giuridiche che disciplinano le prove). La validità
della norma applicata e la verità della proposizione che descrive
i fatti del caso devono essere a loro volta argomentate: ciò
costituisce appunto la giustificazione esterna della decisione.

Prima di procedere, occorre però distinguere - ciò che non si usa


fare in letteratura - due tipi di giudici: i giudici 'di merito' e i
giudici 'di legittimità'. Con qualche semplificazione si può dire
questo.

1) I giudici di merito giudicano tipicamente, sebbene non


esclusivamente, su fatti (comportamenti), quali la pretesa
commissione di un reato o il preteso inadempimento di un
contratto.

2) I giudici di legittimità - specie le corti di cassazione e le corti


costituzionali - giudicano tipicamente (sebbene non
esclusivamente) su atti giuridici, quali sentenze di altri giudici
(è il caso delle corti di cassazione) che si pretendono in
contrasto con la legge, o leggi (è il caso delle corti
costituzionali) che si pretendono in contrasto con la
costituzione.
Quale esempio paradigmatico di norma soggetta
all'applicazione dei giudici di merito, possiamo prendere una -
immaginaria, ma non troppo (cfr. art. 575 Codice penale) -
norma penale, la quale statuisca: "Tutti gli assassini devono
essere puniti con la reclusione".

Quale esempio paradigmatico di norma soggetta


all'applicazione dei giudici di legittimità, possiamo prendere
una - di nuovo, immaginaria, ma non troppo (cfr. artt. 134 e 136
Costituzione) - norma costituzionale, la quale statuisca: "Tutte
le leggi in contrasto con la costituzione sono costituzionalmente
illegittime".

Ora, il giudice penale che si trovi ad applicare la norma che


obbliga a punire gli assassini, ragionerà pressappoco così: "Tutti
gli assassini devono essere puniti con la reclusione" (premessa
normativa), "Tizio è un assassino" (premessa conoscitiva),
"Quindi Tizio deve essere punito con la reclusione" (contenuto
della decisione).

A sua volta, il giudice costituzionale, che si trovi ad applicare la


norma che statuisce l'illegittimità costituzionale delle leggi in
contrasto con la costituzione, ragionerà pressappoco così:
"Tutte le leggi in contrasto con la costituzione sono
costituzionalmente illegittime" (premessa normativa), "La legge
L è in contrasto con la costituzione" (premessa conoscitiva),
"Quindi L è costituzionalmente illegittima" (contenuto della
decisione).

Come si vede, gli schemi di ragionamento dei giudici dell'uno e


dell'altro tipo non differiscono in nulla. In entrambi i casi, la
conclusione è dedotta da una norma in congiunzione con una
proposizione. Diverse sono però le proposizioni che figurano tra
le premesse.Il giudice del fatto usa come premessa una
proposizione puramente fattuale: constata che l'imputato ha
commesso omicidio.Il giudice di legittimità, per contro, usa
come premessa non una proposizione fattuale, ma una
proposizione metalinguistica, che verte non su un fatto, ma su
un'entità concettuale: il 'contrasto' - ossia la contraddizione
logica - tra una norma di legge e una norma costituzionale. (In
verità, la legge può essere 'in contrasto' con la costituzione
anche in altro modo e per altre ragioni, ma quello ora indicato è
il caso paradigmatico e, del resto, quello di gran lunga più
frequente. Ad esso ci si può limitare, per non complicare il
discorso oltre misura.).

Questa differenza nelle premesse conoscitive della


giustificazione interna dei giudici di merito e, rispettivamente,
dei giudici di legittimità si riflette, come vedremo, nei rispettivi
modi della giustificazione esterna.

La giustificazione esterna

Generalmente parlando, la giustificazione esterna, a differenza


di quella interna, non ha carattere logico-deduttivo (anche se,
naturalmente, qualunque argomentazione può essere ricondotta
a deduzione con l'aggiunta di opportune premesse). Pertanto,
può essere più o meno persuasiva, ma in nessun caso è
stringente.

La giustificazione esterna consiste in due distinte catene di


argomenti.Una prima catena è costituita dall'insieme degli
argomenti addotti a sostegno della scelta della premessa
normativa (ossia della norma cui si dà applicazione).
Una seconda catena è costituita dall'insieme degli argomenti
addotti a sostegno della premessa conoscitiva.

Conviene avvertire che un'analisi esaustiva della giustificazione


esterna della premessa normativa esigerebbe un intero trattato di
teoria del diritto. Nel seguito, dovremo dunque limitarci ad
un'analisi sommaria.

LA GIUSTIFICAZIONE ESTERNA DELLA PREMESSA


NORMATIVA

La giustificazione della premessa normativa può sollevare


almeno cinque ordini di problemi.

1) Un primo possibile problema attiene alla validità formale dei


testi normativi (leggi, regolamenti, o altre fonti del diritto) da
cui la norma, assunta come premessa nella giustificazione
interna, è ricavata. Di regola, infatti, le norme giuridiche sono
ricavate, mediante interpretazione, dai quei testi normativi che
si usa chiamare 'fonti' del diritto. Ma non sarebbe giustificata
una decisione fondata sopra una norma ricavata da un testo
normativo formalmente invalido. In verità, un problema di
validità formale dei testi normativi si presenta assai raramente,
ma, per completezza, va almeno menzionato.

I criteri di validità formale dei testi normativi sono alquanto


diversi nei vari ordinamenti e, soprattutto, sono (in ogni
ordinamento) distinti per ciascun tipo di testo normativo.
Tuttavia, generalmente parlando, si può dire che un testo
normativo sia formalmente valido quando sia stato prodotto: a)
da un'autorità competente; b) secondo il procedimento
prescritto. Ad esempio, nel nostro ordinamento, una legge
statale è formalmente valida quando sia stata approvata dalle
due Camere in conformità alle norme costituzionali che
disciplinano il procedimento legislativo.

Ora, negli ordinamenti giuridici moderni, i testi normativi sono


soggetti a pubblicazione in documenti e raccolte ufficiali (quali
la "Gazzetta Ufficiale della Repubblica") e, quando siano
pubblicati, si presumono formalmente validi fino a prova
contraria. Pertanto, di regola, non occorre argomentare in favore
della loro validità formale: se non, beninteso, quando essa sia
contestata da una delle parti processuali.

Quando ciò accada, la validità formale di un testo normativo


deve essere argomentata adducendo, per così dire, la 'storia
istituzionale' del testo in questione: ad esempio, nel caso delle
leggi, questa può essere ricostruita ricorrendo agli atti
parlamentari.

2) Un secondo problema - anzi, un intero grappolo di problemi


distinti, ma intrecciati - attiene all'interpretazione dei testi
normativi onde ricavarne la norma cui si dà applicazione.
Questo problema, a differenza del precedente, è ineludibile, e
costituisce anzi il problema centrale della giustificazione
esterna della premessa normativa. Vediamo sommariamente di
che si tratta.

a) Negli ordinamenti giuridici continentali, le fonti del diritto (la


costituzione, le leggi, i regolamenti, ecc.) sono essenzialmente
testi normativi: documenti esprimenti norme. Un testo
normativo, d'altro canto, è una sequenza di enunciati: di
'disposizioni' normative, come si usa dire. A sua volta, un
enunciato - una disposizione - altro non è che una sequenza di
parole di senso compiuto. Ora, un enunciato contenuto in una
fonte esprime una norma (o, come sovente accade, più norme
congiuntamente), ma non è esso stesso una norma. La norma è
non già l'enunciato stesso, ma il suo significato: il suo contenuto
di senso, se così vogliamo dire.Il processo che conduce da un
enunciato al significato si dice 'interpretazione'.
L'interpretazione è dunque un'attività che si esercita su testi
normativi, e da essi ricava norme. Le norme, insomma, sono
non l'oggetto, ma piuttosto il prodotto, il risultato,
dell'interpretazione. (Il modo di esprimersi corrente tra i
giuristi, secondo il quale l'oggetto dell'interpretazione sono
'norme', è fuorviante: tende a confondere il testo con il suo
significato.).

Ora, raramente i testi normativi si presentano con un significato


univoco e ben definito. Quasi sempre essi sono ambigui. Talora
l'ambiguità dipende dalla semantica e/o dalla sintassi della
singola disposizione, isolatamente considerata. Più spesso
dipende dalla compresenza di una molteplicità di disposizioni
che si connettono ed intersecano variamente tra di loro.

Per conseguenza, il diritto risulta indeterminato. Ogni


disposizione si presta ad una pluralità di interpretazioni, ossia
esprime potenzialmente non uno, ma più significati alternativi.
Le diverse interpretazioni ricavano, da una stessa disposizione,
significati diversi, ossia norme distinte. L'interpretazione,
pertanto, non è conoscenza di 'un' significato precostituito
all'interprete, ma scelta tra una pluralità di significati
egualmente possibili (anche se non tutti egualmente plausibili).
L'interpretazione, come si usa dire, è atto di volontà, non di
conoscenza. Ecco dunque che l'interpretazione prescelta deve
essere argomentata.

b) Il problema è poi complicato dal fatto che il diritto è


indeterminato anche sotto un altro profilo: esso è, sovente,
incoerente. Accade cioè che - almeno secondo una certa
interpretazione - due norme disciplinino lo stesso caso, o una
stessa classe di casi, in modi difformi, configurando così una
'antinomia', e consentendo per la stessa controversia due
soluzioni differenti.Ogni ordinamento include norme che
offrono criteri di soluzione delle antinomie e, pertanto, di scelta
della norma applicabile. I criteri più comuni sono i seguenti: lex
superior derogat inferiori (la norma superiore rende invalida
quella inferiore); lex posterior derogat priori (la norma
successiva abroga quella antecedente); lex specialis derogat
generali (la norma speciale fa eccezione a quella generale).

Ma vi sono antinomie - esempio paradigmatico: quelle tra


principî costituzionali - per le quali non sussiste alcun criterio di
soluzione. Ve ne sono altre per le quali sussistono non uno ma
due criteri concorrenti e confliggenti (un solo esempio:
un'antinomia tra due norme, una delle quali sia al tempo stesso
successiva e generale rispetto all'altra). Antinomie siffatte
ammettono non una, ma (almeno) due soluzioni alternative.
Ciascuna soluzione mette capo ad una diversa norma
suscettibile di applicazione. Anche la soluzione di antinomie,
almeno in alcune circostanze, esige argomentazione.

c) Peraltro, il diritto non è solo indeterminato, è anche lacunoso.


Accade cioè che un caso non sia disciplinato da alcuna norma:
o, almeno, da alcuna norma 'espressa' (che costituisca cioè il
significato, o uno dei significati, di una disposizione normativa
formalmente valida).

In molti ordinamenti, tuttavia, il giudice, anche in presenza di


una lacuna, non può esimersi dal decidere la controversia a lui
sottoposta. Ha l'obbligo di deciderla comunque, e di deciderla
'secondo il diritto'. Ciò esige che il giudice, con opportune
strategie argomentative, ricavi dai testi normativi una norma
'implicita', inespressa.

Sia l'esistenza di una lacuna, sia la costruzione della norma


inespressa idonea a colmarla esigono argomentazione.

d) Compiuta l'interpretazione testuale, il lavoro del giudice non


è terminato, giacché la norma generale e/o astratta, determinata
per via di interpretazione, deve essere applicata ad un caso
individuale e/o concreto: la norma richiede cioè
'concretizzazione'. Occorre decidere se il caso sottoposto
all'attenzione del giudice ricada nel campo di applicazione della
norma: appartenga cioè alla classe dei casi previsti dalla norma
quali condizioni di certe conseguenze giuridiche.La decisione di
includere un caso concreto in una classe di casi si dice
'sussunzione'. Sussumere un caso concreto nella classe di casi
prevista da una norma giuridica costituisce 'qualificazione
giuridica' del caso in questione.

I problemi nascono dal fatto (pacifico) che ogni norma è


fatalmente vaga, i suoi contorni sono indefiniti. Ogni norma, si
usa dire, presenta una 'trama aperta': al centro vi è una zona di
luce, ai margini una 'zona di penombra'. In altre parole, data una
norma, vi sono casi che certamente ricadono nel suo campo di
applicazione; altri che, non meno certamente, cadono fuori di
esso; ma ve ne sono altri ancora per i quali la situazione è
dubbia. Anche la concretizzazione della norma, naturalmente,
richiede argomentazione, per lo meno quando la controversia da
decidere si collochi nella 'zona di penombra'.

Questi, esposti in modo succinto, sono i problemi


dell'interpretazione. L'argomentazione dell'interpretazione
prescelta richiede però un discorso a sé: ad essa è dedicato un
prossimo capitolo.

3) Un terzo problema attiene alla validità sostanziale della


norma assunta come premessa nella giustificazione interna. Non
sarebbe giustificata una decisione fondata sopra una norma
sostanzialmente invalida.Il problema della validità sostanziale
delle norme si atteggia diversamente a seconda che si tratti di
norme espresse o di norme inespresse.

Una norma espressa - ricavabile, cioè, mediante interpretazione


da una disposizione normativa formalmente valida - è
sostanzialmente valida quando non sia in contrasto con altre
norme 'superiori', cioè gerarchicamente sovraordinate. Ad
esempio, in un ordinamento a costituzione rigida come quello
vigente, una norma di legge (statale o regionale) è
sostanzialmente valida se, e solo se, non contraddice alcuna
norma costituzionale.

Per la validità sostanziale di una norma inespressa deve essere


soddisfatta una condizione ulteriore: occorre che la norma in
questione sia ricavabile in modo persuasivo da una o più norme
espresse, mediante un procedimento argomentativo
espressamente prescritto dal diritto stesso e/o comunemente
accettato nella cultura giuridica.
Inutile precisare che la validità sostanziale delle norme
applicate (cioè assunte come premesse nella giustificazione
interna) esige argomentazione ogniqualvolta sia contestata da
una delle parti.

CENNO ALL'APPLICAZIONE DEI PRECEDENTI


GIURISPRUDENZIALI

Il discorso che precede si riferisce agli ordinamenti continentali,


a 'diritto legislativo'. Negli ordinamenti di common law
(soprattutto di Gran Bretagna e Stati Uniti) la norma applicabile
è, sovente, ricavata non da testi normativi (leggi e quant'altro),
ma da 'precedenti' giurisprudenziali. In tali ordinamenti, infatti,
vige la regola del precedente vincolante (stare decisis), in virtù
della quale le corti inferiori hanno l'obbligo di conformarsi alle
decisioni delle corti superiori. Più precisamente: un giudice
(inferiore), al quale sia sottoposto un caso analogo ad un altro
già deciso da un altro giudice (superiore) in una sentenza
precedente, deve decidere il caso nello stesso modo. L'uso della
regola stare decisis solleva principalmente due ordini di
problemi, ai quali si può solo accennare.In primo luogo, la
regola stare decisis esige che il giudice accerti la somiglianza
tra due casi. Tuttavia, nessun caso è intrinsecamente 'analogo' a
(o diverso da) alcun altro caso. La somiglianza tra due casi
dipende dagli aspetti 'rilevanti' dell'uno e dell'altro. Ma stabilire
quali aspetti di un caso siano rilevanti (e quali irrilevanti) non è
questione di fatto: è materia di valutazione e decisione. La
regola del precedente vincolante non specifica in alcun modo
quali criteri un giudice debba usare per decidere se il caso a lui
sottoposto sia, o non sia, analogo ad un caso precedente. Sicché
la regola si presta a facili elusioni mediante la tecnica del
distinguishing, che consiste nel mostrare come casi
apparentemente simili siano, 'in realtà', diversi l'uno
dall'altro.Naturalmente, sia la asserita somiglianza, sia la
asserita differenza tra casi richiedono argomentazione. E questa
non può che consistere nel mettere in evidenza gli aspetti
comuni e/o le differenze tra i casi.

In secondo luogo, la regola stare decisis esige l'interpretazione


dei 'precedenti', cioè delle sentenze pronunciate da altri giudici
in occasioni anteriori per decidere casi (si suppone) analoghi.
Interpretare una sentenza consiste nell'analizzarla per estrarre da
essa la sottostante ratio decidendi, ossia per formulare la norma
generale da cui (si suppone) la decisione è stata inferita.

Per identificare la ratio decidendi, occorre identificare il


'nocciolo' del ragionamento compiuto dal giudice, e più
precisamente la premessa normativa della giustificazione
interna. Le premesse della giustificazione interna devono essere
isolate e accuratamente separate dai cosiddetti obiter dicta, ossia
da ogni affermazione non strettamente necessaria a fondare la
decisione. Solo la ratio decidendi, infatti, è vincolante: non gli
obiter dicta. Costituisce ratio decidendi qualunque norma
giuridica che sia stata espressamente o - come più spesso
accade - tacitamente usata dal giudice per ricavarne la
decisione.

Ora, la regola stare decisis presuppone che ogni precedente


incorpori una, ed una sola, ratio decidendi determinata,
suscettibile di essere 'scoperta', come un tesoro nascosto,
mediante un'indagine accurata. Di fatto, però, l'identificazione
della ratio decidendi - almeno ogniqualvolta questa non sia stata
espressamente enunciata - non è per nulla una scoperta. È
piuttosto un procedimento di 'universalizzazione' (un tipo di
ragionamento largamente studiato e discusso soprattutto in
metaetica), che consiste nel ricondurre congetturalmente una
decisione individuale sotto una norma generale (o universale)
che la giustifichi. Per illustrare il punto, si può addurre un
semplice esempio, sovente citato nei manuali anglosassoni di
jurisprudence.In un caso celebre, un birraio scozzese fu
condannato a risarcire i danni ad un consumatore che aveva
trovato resti decomposti di lumaca in una bottiglia di birra.
Questa decisione può essere universalizzata congetturando, fra
le altre, le norme seguenti: "I produttori scozzesi di birra in
bottiglie opache hanno l'obbligo di usare la diligenza necessaria
ad evitare che lumache morte vadano a finire nel prodotto";
oppure: "I produttori di birra hanno l'obbligo di usare la
diligenza necessaria ad evitare che animali morti vadano a finire
nel prodotto"; o ancora: "I produttori di alimenti e bevande
hanno l'obbligo di usare la diligenza necessaria ad evitare che
sostanze nocive vadano a finire nel prodotto"; e così via
universalizzando. Ovviamente, la prima norma non troverebbe
applicazione qualora il produttore di birra fosse gallese e/o le
bottiglie di birra fossero trasparenti e/o nelle bottiglie si
trovassero resti di lucertola. La seconda non si applicherebbe ai
produttori di aranciata. E così avanti.La cosa notevole è che,
come emerge dall'esempio, da uno stesso precedente possono
essere 'estratte', mediante universalizzazione, una pluralità di
norme ben distinte, a seconda del livello di astrazione prescelto.
In questo senso, ciascun precedente può essere 'interpretato' in
più modi alternativi. E, per conseguenza, uno stesso precedente
può essere invocato, in diverse circostanze, per dare
fondamento a decisioni del tutto diverse (e persino contrastanti).
Come che sia, anche l'interpretazione del precedente richiede
argomentazione.

L'ARGOMENTAZIONE DELL'INTERPRETAZIONE

Come si sarà compreso, la parte di gran lunga più importante e


più problematica della giustificazione esterna della premessa
normativa è costituita dall'argomentazione dell'interpretazione.
Ora, le tecniche argomentative adottate o adottabili dai giudici
per giustificare la scelta di una determinata interpretazione a
preferenza di altre sono innumerevoli. Nel seguito, sono esposti
succintamente solo alcuni degli argomenti più ricorrenti e, al
tempo stesso, relativamente tipizzati.

Occorre tuttavia premettere che il lavoro interpretativo si svolge


in due fasi concettualmente distinte (anche se nei fatti
intrecciate o sovrapposte).

La prima fase consiste nella identificazione della norma vigente


(o piuttosto delle norme vigenti, al plurale). Come abbiamo
accennato, ciò suppone tra l'altro la soluzione di eventuali
antinomie e l'integrazione di eventuali lacune: ma la
problematica delle antinomie e delle lacune (salvo qualche
sporadico accenno) non può essere compiutamente trattata in
questa sede.

La seconda fase consiste nella 'concretizzazione' della norma


applicabile, ossia nella sussunzione del caso concreto in una
delle norme vigenti, previamente identificate. Ciò richiede una
delimitazione del campo di applicazione - fatalmente
indeterminato, come abbiamo visto - delle norme in questione.
1) Tra gli argomenti comunemente usati per identificare le
norme vigenti si possono menzionare, a titolo di esempio, i
seguenti.

L'argomento a contrario. - Si dice argomento a contrario quella


tecnica interpretativa che si fonda sull'assunto che il legislatore
abbia detto esattamente ciò che intendeva dire (ubi lex voluit
dixit, ubi tacuit noluit), sicché: ciò che il legislatore non ha
detto, evidentemente non intendeva dirlo, giacché, se avesse
voluto dirlo, l'avrebbe detto. L'argomento, palesemente, si regge
sulla presunzione di una perfetta corrispondenza tra l'intenzione
del legislatore e il testo normativo, e induce ad escludere che si
possa attribuire ad una data disposizione normativa un
significato diverso da - in particolare: più ampio di - quello
letterale. Se, ad esempio, il legislatore ha detto "cittadini", si
deve ritenere che intendesse riferirsi proprio ai cittadini, e non
agli uomini in genere (ivi inclusi gli stranieri e gli apolidi).

Tuttavia, l'argomento a contrario può essere usato per trarre due


conclusioni assai diverse. Supponiamo che una disposizione
normativa conferisca un certo diritto D ai "cittadini".
Argomentando a contrario, si può sostenere: a) che la legge
conferisca il diritto D solo ai cittadini, e taccia sugli stranieri e
gli apolidi: da questo punto di vista, in altre parole, manca una
norma che conferisca il diritto D agli stranieri e agli apolidi, ma
manca altresì una norma che neghi tale diritto agli stranieri e
agli apolidi: la legge è lacunosa in materia di stranieri ed
apolidi; b) che la legge conferisca il diritto D solo ai cittadini e,
così facendo, positivamente escluda gli stranieri e gli apolidi dal
godimento di tale diritto.
Nel primo caso, la legge si presenta lacunosa: non disciplina in
alcun modo il caso degli stranieri e degli apolidi. Nel secondo,
al contrario, la legge - lungi dall'essere lacunosa - contiene sia
la norma esplicita che conferisce quel dato diritto ai cittadini
("Se cittadino, allora diritto D"), sia la norma inespressa che
nega quel diritto agli stranieri e agli apolidi ("Se non-cittadino,
allora non-diritto D"). Nell'un caso, dunque l'uso dell'argomento
a contrario si risolve nella creazione di una lacuna. Nell'altro
caso, il medesimo argomento esclude qualsivoglia lacuna,
grazie alla formulazione di una norma inespressa che disciplina
anche la fattispecie non espressamente prevista.

L'interpretazione sistematica. - La locuzione 'interpretazione


sistematica', a dire il vero, è largamente usata per designare non
già una singola tecnica interpretativa, ma piuttosto un'intera
famiglia di tecniche diverse, il cui solo tratto comune è forse
quello di fare appello: a) per un verso al contesto entro cui si
colloca la disposizione da interpretare, e b) per un altro verso,
alla presunzione di coerenza (assenza di antinomie)
dell'ordinamento giuridico. Per semplificare le cose, conviene
tuttavia restringere il concetto di interpretazione sistematica ad
una tecnica interpretativa specifica.Diremo dunque sistematica
quella interpretazione che previene le antinomie nell'ambito di
un singolo testo normativo. In che modo? Evitando di ricavare
da una data disposizione (poniamo l'art. x di una certa legge)
una norma che sarebbe in conflitto con un'altra norma,
previamente ricavata da un'altra disposizione del medesimo
testo normativo (l'art. y della stessa legge). In altre parole, si fa
interpretazione sistematica ogniqualvolta si esclude una certa
attribuzione di significato che, se ammessa, renderebbe un testo
normativo (la costituzione, una legge, un codice, ecc.)
internamente incoerente. Questo modo di interpretare, è ovvio,
si regge sull'assunto che la volontà del legislatore sia coerente:
che, insomma, il legislatore non intenda contraddirsi (per lo
meno, non nell'ambito di un singolo testo normativo).

Ad esempio, l'art. 95, comma 2 della Costituzione dispone che i


ministri sono "responsabili collegialmente" degli atti del
Consiglio dei ministri. La locuzione "responsabilità collegiale",
astrattamente considerata, potrebbe essere intesa come
riferentesi (anche) alla responsabilità penale. Ma questa
possibile interpretazione è esclusa dal contesto, giacché l'art. 27,
comma 1 della Costituzione statuisce espressamente che la
responsabilità penale può solo essere personale.

L'interpretazione adeguatrice. - L'interpretazione adeguatrice -


una specie del genere interpretazione sistematica latamente
intesa - è quella interpretazione che previene le antinomie tra
norme espresse da testi normativi diversi e gerarchicamente
ordinati, evitando di ricavare da una data disposizione (poniamo
l'art. x di una certa legge) una norma che sarebbe in conflitto
con un'altra norma, previamente ricavata da una disposizione
appartenente ad un testo normativo diverso e gerarchicamente
superiore (diciamo l'art. y della costituzione).

Accade spesso, ad esempio, che una disposizione di legge sia


suscettibile di due interpretazioni alternative, ciascuna delle
quali ricava, da quell'unica disposizione, due norme distinte -
diciamo N1 e N2 - e che una di queste norme, poniamo N1, sia
conforme a costituzione, mentre l'altra, N2, è incompatibile con
la costituzione. Ebbene, si fa interpretazione adeguatrice
scartando la seconda interpretazione (N2), e scegliendo la prima
(N1). Si trovano esempi macroscopici di interpretazione
adeguatrice in tutte le sentenze cosiddette 'interpretative' della
Corte costituzionale (specialmente nelle interpretative 'di
rigetto').

Ma, sebbene l'interpretazione della legge conforme a


costituzione sia l'esempio paradigmatico di interpretazione
adeguatrice, questo tipo di interpretazione ha un raggio d'azione
vastissimo. Si fa interpretazione adeguatrice quando (nel
dubbio) si interpreta una legge in modo conforme a (anziché
contrastante con) un regolamento comunitario; un decreto
legislativo delegato in modo conforme alla legge di
delegazione; una legge regionale in conformità alle leggi statali
che esprimono i principî fondamentali della materia di cui
trattasi; un regolamento di esecuzione in modo conforme alle
disposizioni di rango legislativo alla cui esecuzione esso è
preordinato; e così via.

2) Tra gli argomenti comunemente usati per delimitare il campo


di applicazione di una norma, previamente accertata, e quindi
per sussumere sotto di essa un caso concreto, si possono
menzionare, a titolo di esempio, i seguenti.

Interpretazione restrittiva: la tecnica della 'dissociazione'. - La


tecnica della 'dissociazione' - ossia, banalmente, della
distinzione - si fonda: o sull'assunto che il legislatore abbia
sottinteso una certa distinzione (cioè l'abbia voluta, sebbene non
l'abbia resa esplicita); o sull'assunto che il legislatore, pur non
avendo fatto una certa distinzione, tuttavia l'avrebbe fatta se
avesse preso in considerazione il caso.Il punto può essere
chiarito con un esempio. L'art. 1428, Cod. civ. dispone che, in
certe condizioni, "l'errore è causa di annullamento del
contratto". Il legislatore non distingue tra l'ipotesi che l'errore
sia stato commesso da uno solo dei contraenti (cosiddetto errore
'unilaterale') e l'ipotesi che sia stato commesso da entrambi
(cosiddetto errore 'bilaterale'). Tuttavia, gli errori unilaterali
sono 'sostanzialmente' diversi da quelli bilaterali. Ratio della
norma è la tutela della buona fede, ma, nel caso dell'errore
bilaterale, un problema di tutela della buona fede neppure si
pone. Pertanto, l'art. 1428, Cod. civ. deve essere inteso nel
senso che esso si riferisca non all'errore senza distinzioni, ma
solo all'errore unilaterale. Come si vede, l'esito di questa
argomentazione è un'interpretazione restrittiva. Così intesa, la
disposizione si applica non all'intera classe degli errori, ma solo
ad una sottoclasse (per ciò stesso più ristretta) di essi: la
sottoclasse degli errori unilaterali.

Interpretazione estensiva: l'analogia. - L'argomento a simili (o


analogico) si fonda: o sull'assunto che la formulazione
legislativa non rifletta la 'reale' volontà del legislatore (lex
minus dixit quam voluit); o sull'assunto che il legislatore, pur
non avendo contemplato una certa fattispecie, l'avrebbe tuttavia
contemplata qualora l'avesse presa in considerazione.

L'argomento presenta, grosso modo, la seguente struttura. La


disposizione normativa D ("Se F1, allora G") connette la
conseguenza giuridica G alla fattispecie F1; d'altro canto la
fattispecie F2, sebbene non inclusa nel campo di applicazione
della disposizione interpretata alla lettera, somiglia a F1;
pertanto essa deve avere la medesima conseguenza giuridica;
dunque la disposizione D deve essere intesa nel senso che la
conseguenza G si applichi anche alla fattispecie F2.

Il punto può essere illustrato con un semplice esempio. Il


legislatore ha disposto che chi abbia ricevuto indebitamente una
cosa, e l'abbia in buona fede alienata ignorando di doverla
restituire, è tenuto a restituire il corrispettivo conseguito (art.
2038, comma 1, Cod. civ.), e non invece a restituire la cosa
stessa in natura o a corrisponderne il valore (art. 2038, comma
2, Cod. civ.). Si suppone che la ratio della norma, ovvero il
principio su cui la norma si regge, sia il principio di tutela
dell'affidamento: si suppone, cioè, che il legislatore pretenda
(solo) la restituzione del corrispettivo, e non adempimenti più
gravosi, per dare tutela alla buona fede del soggetto in
questione. La fattispecie della indebita ricezione e susseguente
alienazione è simile alla situazione di chi abbia acquistato un
oggetto rubato ignorandone la provenienza furtiva, e l'abbia poi
in buona fede alienato. Pertanto, l'art. 2038, comma 1, Cod. civ.
deve essere inteso nel senso che esso si riferisca anche alla
fattispecie dell'acquisto in buona fede di cosa rubata. Come si
vede, l'esito di questa argomentazione è un'interpretazione
estensiva. Così intesa, la disposizione si applica anche a
fattispecie che, interpretando alla lettera, non vi rientrerebbero.

Si noti che, a rigore, l'argomento analogico serve a dare


sostegno non tanto ad una tesi strettamente interpretativa
(relativa cioè al significato di una disposizione) quanto piuttosto
alla formulazione di una norma nuova, onde colmare una
lacuna. Trattasi non tanto di un argomento 'interpretativo' (di
disposizioni preesistenti), quanto piuttosto di un argomento
'produttivo' (di diritto nuovo). Ma il fatto è che tra
interpretazione (specie se estensiva) di una disposizione e
formulazione di un norma nuova non è dato trovare una netta
linea di confine.
Interpretazione evolutiva. - L'interpretazione evolutiva si fonda
sull'assunto che, anche quando i testi normativi restino
immutati, la volontà del legislatore sia tuttavia mutevole, e
continuamente si adatti alle circostanze (economiche, sociali,
culturali, ecc.). Si dice 'originalista' quella interpretazione che
attribuisce a ciascun testo normativo il suo significato
'originario', appunto, cioè il significato che quel testo aveva nel
momento in cui entrò in vigore. Si dice 'evolutiva' quella
interpretazione che, per contro, attribuisce ai testi normativi -
specie a testi normativi ormai risalenti nel tempo - significati
nuovi, diversi da quello originario: adatti alle mutate
circostanze.

L'interpretazione evolutiva può avere esiti indifferentemente


restrittivi o estensivi. Può cioè, secondo i casi, restringere o
estendere il campo di applicazione delle disposizioni
interpretate. Ad esempio, è estensiva quella interpretazione
evolutiva dell'art. 2 della Costituzione che include tra i diritti
inviolabili dell'uomo anche il diritto cosiddetto all'identità
personale. Mentre è restrittiva quella interpretazione, essa pure
evolutiva, che restringe il significato del vocabolo "osceno" (art.
528 del Codice penale) così da escludere che possano
considerarsi osceni degli scritti o degli spettacoli che in passato
erano ritenuti tali.

FORMULAZIONE DI NORME INESPRESSE

Si è accennato che il diritto appare, talora, lacunoso (lacunoso,


beninteso, alla luce di una certa interpretazione), e che, in tali
circostanze, per costruire la premessa normativa della
giustificazione interna, il giudice deve ricavare dai testi
normativi una norma implicita, inespressa. Occorre tuttavia
distinguere tre tipi di norme inespresse, a ciascuno dei quali
corrisponde un diverso tipo di argomentazione.

a) In primo luogo, vi sono norme inespresse che sono ricavate a


partire da norme espresse secondo schemi di ragionamento
logicamente validi (ossia deduttivi) e senza l'aggiunta di
ulteriori premesse (cioè senza l'impiego di premesse che non
siano norme espresse).Ad esempio, data una norma espressa N1
che statuisce: "I maggiorenni hanno diritto di voto", e un'altra
norma espressa N2 che statuisce: "I diciottenni sono
maggiorenni", si può deduttivamente inferire la norma
inespressa N3: "I diciottenni hanno diritto di voto".

b) In secondo luogo, vi sono norme inespresse che sono ricavate


da norme espresse secondo schemi di ragionamento
logicamente validi, ma con l'aggiunta di premesse ulteriori: di
premesse, cioè, che non costituiscono a loro volta norme
espresse (ad esempio, definizioni di termini usati nella
formulazione di norme espresse).

Poniamo ad esempio che una norma espressa N1 statuisca: "I


maggiorenni hanno diritto di voto", e che però non vi sia alcuna
norma espressa che definisca il termine "maggiorenni". Per
inferire logicamente dalla sola norma N1 una norma inespressa
- poniamo: "Chi ha conseguito il diploma di scuola media
superiore ha diritto di voto" - occorre aggiungere a quell'unica
premessa (N1) una premessa ulteriore, e precisamente una
qualche definizione di "maggiorenne". Siffatta definizione è,
ovviamente, frutto di interpretazione.
c) In terzo luogo, vi sono norme inespresse che sono ricavate,
più o meno persuasivamente, a partire da norme espresse
secondo schemi di ragionamento non deduttivi, logicamente
invalidi (ad esempio, un entimema, una congettura sulla ratio
legis, l'argomento analogico, ecc.).

Un esempio tra mille: "La salute è un diritto fondamentale


dell'individuo" (trattasi, in ipotesi, di una norma espressa); "Il
danno alla salute costituisce violazione di un diritto
fondamentale"; "Pertanto, il danno alla salute deve essere
risarcito".

Le norme inespresse del primo tipo possono essere considerate


implicite in senso stretto (cioè in senso logico), e pertanto
'positive', sebbene non formulate. Le norme del secondo tipo,
per contro, sono il prodotto di un lavoro di interpretazione e
'costruzione'; nascono, più precisamente, da una combinazione
di deduzione logica e interpretazione. Le norme del terzo tipo,
infine, sono frutto di creazione di diritto - 'legislazione
interstiziale', come si usa dire - da parte dei giudici.

LA GIUSTIFICAZIONE ESTERNA DELLA PREMESSA


CONOSCITIVA

Come abbiamo accennato altrove, occorre distinguere il


ragionamento dei giudici di merito da quello dei giudici di
legittimità.

1) Nel ragionamento dei giudici di merito, la premessa


conoscitiva della giustificazione interna è un asserto fattuale,
assunto come vero. In linea di principio, la verità di un asserto
fattuale (del tipo: "Tizio ha cagionato la morte di Caio") non
può essere a sua volta argomentata se non adducendo
osservazioni empiriche (nonché congetture sui nessi di causalità
tra eventi). A questo riguardo conviene tuttavia fare due
osservazioni.In primo luogo, è opportuno sottolineare - benché
si tratti di un'ovvietà - che i procedimenti di accertamento
fattuale impiegati da un giudice, a differenza di quelli impiegati
da uno scienziato empirico, non sono interamente 'liberi'. Sono
variamente condizionati da norme giuridiche: in particolare,
dalle norme che disciplinano la raccolta e l'uso delle prove. Ad
esempio, le regole sull'onere della prova, le presunzioni legali
(e, tra queste, la presunzione di non colpevolezza), il principio
del 'libero convincimento' del giudice (vigente in molti
ordinamenti), e così avanti.In secondo luogo, è opportuno
notare che i 'fatti' che il giudice accerta direttamente sono
soltanto le prove (ad esempio, le testimonianze), non i fatti
provati: a questi il giudice - non diversamente da uno storico -
non ha accesso diretto.

Una prova è un fatto (direttamente osservato), che induce a


ritenere avvenuto un altro fatto: quest'ultimo è, dal giudice, non
già osservato direttamente, bensì inferito dalle prove. Una prova
autorizza il giudice a ritenere vera una certa proposizione circa
il presente e ad inferire da questa un'altra proposizione circa il
passato. Questa inferenza non ha carattere deduttivo: tra le due
proposizioni vi è non già un nesso di implicazione logica, ma
piuttosto un più debole nesso di 'congruenza narrativa' (così la
si è chiamata).

Si prenda ad esempio il seguente ragionamento: "La prima


moglie del signor Landru è morta nella vasca da bagno, mentre
il signor Landru era in casa. Anche la seconda, la terza, e la
quarta moglie del signor Landru sono morte nello stesso modo e
nelle stesse circostanze. Prima che morisse la prima moglie, il
signor Landru si è informato da un avvocato circa la possibilità
di ereditare le di lei sostanze. Se ne deve concludere che il
signor Landru ha ucciso tutte le sue quattro mogli nella vasca da
bagno". In un ragionamento siffatto le premesse paiono
sufficienti a giustificare la conclusione. Questa è non solo
coerente (ossia non contraddittoria) con le premesse, ma altresì
'congruente' con esse. Certo, la conclusione proposta appare più
convincente di una conclusione diversa, del tipo: "Tutte le
mogli del signor Landru sono morte accidentalmente".
Nondimeno, è evidente che la conclusione non è logicamente
implicata dalle premesse, e potrebbe essere falsa.Si noti, di
passaggio, che il concetto di congruenza narrativa è alquanto
sfuggente. La congruenza somiglia alla coerenza logica, ma è
diversa da essa. Mentre la coerenza è una qualità negativa
(assenza di contraddizioni), la congruenza è una qualità
positiva. Inoltre, mentre la coerenza è un concetto a due valori
(un insieme di proposizioni o è coerente, o non lo è), la
congruenza è questione di grado (un insieme di proposizioni
può essere meno congruente di un altro senza tuttavia essere
incongruente).

2) Nel ragionamento dei giudici di legittimità, la premessa


conoscitiva della giustificazione interna è una proposizione la
quale asserisce l'esistenza di una contraddizione, secondo i casi,
tra una decisione individuale e una norma (è il caso, ad
esempio, dei giudici di Cassazione), ovvero tra due norme (è il
caso, tipicamente, dei giudici costituzionali). L'accertamento di
una contraddizione tra una decisione individuale ed una norma
suppone ovviamente l'identificazione della norma di cui trattasi.
L'accertamento della contraddizione tra due norme suppone a
sua volta l'identificazione delle due norme in questione.Ora,
l'identificazione di norme, come ormai sappiamo, è cosa del
tutto diversa da un accertamento fattuale: esige un lavoro di
interpretazione di testi normativi. Sicché, nel ragionamento dei
giudici di legittimità, la giustificazione esterna della premessa
conoscitiva consiste essenzialmente nell'argomentazione di
decisioni interpretative. Pertanto, essa non differisce in modo
significativo dalla giustificazione esterna della premessa
normativa. In entrambi i casi, il nocciolo della giustificazione
consiste nell'addurre argomenti interpretativi, del tipo di quelli
che già abbiamo visti in precedenza (argomento a contrario,
interpretazione sistematica, interpretazione adeguatrice, e molti
altri che, per brevità, non sono stati illustrati).

Tuttavia, non si può non menzionare almeno una peculiarità del


ragionamento del giudice costituzionale.

LA PONDERAZIONE DI 'PRINCIPÎ'

I tribunali costituzionali, generalmente parlando, svolgono la


funzione di accertare la sussistenza di eventuali antinomie
(contraddizioni) tra norme di rango legislativo e norme di rango
costituzionale. Accade però sovente che l'accertamento di
un'antinomia tra una legge e la costituzione sia reso
problematico, oltre che dai consueti dubbi interpretativi, dal
fatto che si incontrano antinomie in seno alla costituzione
stessa: in particolare, tra quelle disposizioni costituzionali che
esprimono non già norme specifiche, ma, come si usa dire,
'principî'. Sicché una legge appare conforme a costituzione se
raffrontata ad un certo principio costituzionale, mentre appare
incostituzionale se raffrontata ad un principio diverso. Come è
facile comprendere, in circostanze siffatte, il giudice
costituzionale - per decidere se vi sia antinomia tra legge e
costituzione - deve, previamente, risolvere l'antinomia, il
conflitto, tra i principî costituzionali coinvolti. Un'antinomia,
occorre dire, per la quale nessun ordinamento giuridico
predispone un criterio di soluzione.

La tecnica di soluzione delle antinomie tra principî


costituzionali comunemente impiegata dai tribunali
costituzionali prende il nome di 'ponderazione' o
'bilanciamento', e somiglia a quel modo di ragionare che alcuni
filosofi morali chiamano 'equilibrio riflessivo'. Essa consiste
nell'istituire, tra i due principî confliggenti, una peculiare
relazione gerarchica. Si tratta di una gerarchia: a) assiologica, b)
mobile.

Una gerarchia assiologica è una relazione di valore istituita (non


dal diritto stesso, ma) dall'interprete: per l'appunto, mediante un
giudizio di valore. Istituire una gerarchia assiologica significa
accordare ad uno dei due principî confliggenti un maggior
'peso', un maggior valore, rispetto all'altro. Il principio dotato di
maggior valore prevale, nel senso che viene applicato; il
principio assiologicamente inferiore soccombe - non nel senso
che risulti invalido o abrogato, ma nel senso che viene
accantonato, provvisoriamente sacrificato a vantaggio dell'altro.

Una gerarchia mobile è una relazione instabile, mutevole, che


vale per un certo caso concreto, ma che potrebbe essere
rovesciata in relazione ad un caso concreto diverso. Per istituire
questa relazione gerarchica, infatti, il giudice costituzionale non
soppesa il valore dei due principî in astratto e una volta per
tutte, ma valuta invece il possibile impatto della loro
applicazione al caso concreto. Se l'esito che, nel caso concreto,
avrebbe l'applicazione del principio P1 pare a lui più giusto (o
meno ingiusto) dell'esito che avrebbe invece l'applicazione del
principio P2, allora il principio P2 sarà, nel caso concreto,
accantonato, mentre il principio P1 sarà, nel caso concreto,
applicato. Ma 'nel caso concreto', si badi. In altre parole, non è
escluso che, in un caso diverso, sia l'applicazione di P2 ad avere
esiti sentiti come più giusti (o meno ingiusti) dell'applicazione
di P1, e che pertanto la relazione gerarchica sia rovesciata,
applicando P2 e accantonando P1. In questo senso, si tratta di
una gerarchia mobile: se anche in un caso è stato attribuito
maggior peso o valore a P1, nulla impedisce che in un caso
diverso si attribuisca maggior peso o valore a P2. Per
conseguenza, il conflitto tra principî costituzionali non è risolto
stabilmente, una volta per tutte, facendo senz'altro prevalere
uno dei due principî confliggenti sull'altro; ogni soluzione del
conflitto vale solo per il caso concreto, e resta pertanto
imprevedibile la soluzione dello stesso conflitto in casi futuri.

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