In un articolo del 1974 Giovanni Moioli, tracciando qualche elemento di sto-
ria del rapporto tra mistica e liturgia, racconta di come Francesco d’Assisi cer- casse con tutto se stesso l’imitazione perfetta di Cristo, secondo un’esigenza di evangelismo che voleva essere letterale, sine glossa, e che trovava nella nascita e nella croce due momenti assolutamente privilegiati. Francesco avrebbe dunque imitato la carità, l’umiltà e la povertà del Cristo contemplandolo nelle scene essenziali di Betlemme e del Calvario. Sgorgava anzitutto da questo sguardo quella sensibilità che avrebbe portato all’invenzione del presepe, proprio 800 anni fa nel 1223, in una grotta di Greccio trasformata in chiesa per una messa nella vigilia del Natale. Ne aveva tratto ispirazione, sembra, dalle sacre rappre- sentazioni già diffuse fuori dai luoghi di culto, amate dal popolo e tollerate dai chierici, che aveva del resto potuto vedere con grande emozione proprio fuori la basilica della natività di Betlemme, per come gli era potuta apparire nel 1219, epoca del suo famoso viaggio nei luoghi santi. Riproducendone il for- La Rivista del Clero Italiano 12| 2023 mat in una originale imitazione, questa volta dentro il rito stesso (verità dell’af- fresco di Giotto che ambienta la scena all’interno di una chiesa), Francesco intendeva restituire spessore a un’esperienza spirituale che, «non trovandosi interpretata nella celebrazione eucaristica» – scrive Giovanni Moioli –, «finisce per ritrovarsi esclusivamente in altri tipi di celebrazione, non eterogenei ma collaterali alla celebrazione liturgica: diviene cioè il contesto delle devozioni» (cfr. Preghiera, mistica e liturgia, Centro Ambrosiano-Glossa, 2017, pp. 77- 78). Quando la celebrazione non ‘parla’ che agli iniziati, altri ‘discorsi’ pren- dono il suo posto. Così, il presepe si sarebbe affermato come una di quelle pratiche, e di quei ‘discorsi’, in cui per secoli si sarebbero potuti toccare con mano un lungo divario tra spiritualità e liturgia, e una quasi separazione tra devozione del popolo e rito dei chierici; scissioni arrivate fino a noi, e a cui ha
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inteso porre rimedio la riforma del Vaticano II con Sacrosanctum Concilium, promulgata esattamente sessant’anni fa (4 dicembre 1963). Ma l’invenzione del presepe, sulla quale in questo numero medita Franco Giulio Brambilla, deve anche altro al famoso viaggio di Francesco nei luoghi santi. Al seguito dei crociati, aveva tratto grande impressione dagli onerosi mezzi economici che i pellegrini dovevano impiegare per dei pellegrinaggi che erano divenuti un must della vita cristiana; ma molto di più dall’efferatezza e dall’assenza di scrupoli che rendevano le crociate mere spedizioni predatorie, e i luoghi santi pretesti per brutali interessi di conquista territoriale. Iniziando la longeva fortuna del presepe, Francesco aveva inteso sottrarre il mistero di Cristo alla sua facile strumentalizzazione economica e politica – come diremmo oggi –, e i luoghi della sua mani- festazione terrena a un feticismo sempre prossimo a pericolose pulsioni di possesso. «Betlemme è qui», sono parole che accompagnavano questa invenzione francescana. Nessuna idolatria dell’oggetto e nessun fanatismo dell’appartenenza sono compatibili col vero senso cristiano della relazione religiosa, e con una imitazione di Cristo davvero attinta all’autentica testi- monianza evangelica, sine glossa. Non c’è nessuna ‘oggettività’ del divino che si possa acquisire, se non in chiave fantasmatica e in modo nevrotico, sempre con esiti pericolosi, per sé e per altri. Che l’ottavo centenario di quella invenzione cada nei mesi in cui nei ‘luoghi santi’ si è accesso un conflitto brutale, di cui David Assael ci forni- sce in questo fascicolo qualche elemento di interpretazione, è certamente solo una coincidenza; ma anche in quanto tale essa ha la capacità di par- larci. Essa ci dice anzitutto che l’ambivalenza del sacro, e i suoi fantasmi tellurici, hanno sempre pronto dell’ottimo carburante per gli incendi di cui si nutrono le potenze mondane. Le religioni, compresa la nostra, fanno fatica a tenere le distanze da questa propensione. Ma lo devono fare a ogni costo, respingendo anche il facile addebito con cui dalla cultura secolare si assegna loro la responsabilità della violenza come tale, in modo forfettario e ipocrita (come se la sperequazione che divide il mondo in due non ve- Editoriale
nisse da modelli economici di matrice irreligiosa, e come se l’arma nucle-
are non fosse stata concepita nella sostanziale amoralità della tecnica). Ma questa coincidenza ci ricorda anche quanto quella propensione, di un sacro
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sempre pronto a virare verso derive distruttive, si prepara sempre dal basso, nell’incuria di una fede lasciata agli umori della sottocultura, nel malinteso senso di una religiosità popolare, nella colpevole coltivazione di una devo- zione a immediato fattore di rendita. E anche – bisogna pur dire – in certe futili battaglie per la difesa sociale del presepe, che quando consumate nel- la grezza lingua della contesa e nel cinico gergo dell’ideologia si dimostrano indegne dell’invenzione di san Francesco; e ci impediscono di conservare veramente l’aspetto più felice di questa prassi ormai ottocentenaria, che è quello di tenerci legati, in modo performativo e non meramente mentale, all’umanità di Dio, e al Suo aver eletto la storia a luogo del suo incondizio- nato incontro con noi.